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Da: Giuseppe Limone, Filosofia del Diritto, in Filosofia del Diritto. Concetti  fondamentali, a cura di Ulderico Pomarici, Giappichelli, Torino, 2007.  

 

Filosofia del diritto  

di Giuseppe Limone      

1 .Il quesito  La  domanda  “che  cos’è  la  filosofia  del  diritto?”  può  avere  molteplici 

implicazioni e percorsi. Essa si scioglie nelle domande “che cos’è la filosofia?” e “che cos’è il diritto?”, alle quali la risposta può essere variegata e complessa. 

Proveremmo,  qui,  innanzitutto,  a  interrogare  il  sintagma  ‘filosofia  del diritto’, osservando come lo si possa intendere in due sensi diversi, appartenenti – per noi – a un unico volume di significato. “Filosofia del diritto”, infatti, ruota intorno  a  un  genitivo,  leggibile  secondo  due  accezioni  diverse:  quella  di  un genitivo oggettivo e quella di un genitivo soggettivo. Due accezioni da assumere, a nostro avviso, contemporaneamente, come concorrenti a un unico significato. ‘Filosofia del Diritto’ ha, in questo senso, un valore complesso in cui si parla non solo della  filosofia  che  si occupa del  fenomeno  sociale  che  chiamiamo Diritto, ma, al tempo stesso, della filosofia che può riconoscersi in tale fenomeno implicata: come complesso di scelte, di valori, di visioni, di idee, di selezioni di possibilità. 

Filosofia  del Diritto,  pertanto,  è  sia  filosofia  che  si  occupa  del Diritto,  sia filosofia che ricerca la filosofia già ‘immateriata’ nel Diritto che c’è.   

2. Filosofia e Diritto  Ma che cos’è  ‘Filosofia’ e che cos’è  ‘Diritto’? Preferiremmo muovere da una 

distinzione capitale, portata in auge da Martin Heidegger, il quale, come è noto,  ha scritto: “La scienza calcola, la filosofia pensa”. 

La  scienza  calcola. La  scienza misura  il  suo  oggetto  come un  dato  che  non mette  in  discussione  e  che,  anzi,  assume  come  premessa  del  discorso.  E,  nel farlo, misura,  all’interno del  suo  oggetto,  tutte  le possibili  relazioni,  strutture, funzioni.  Misurazione  compiuta  attraverso  passi  logici  anch’essi  misurati (‘algoritmici’): il ‘metodo’. Che è la strada attraverso la quale la scienza conosce il suo oggetto per sezionarlo noeticamente in tutte le possibili relazioni, strutture, funzioni. 

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La filosofia pensa. Mentre la scienza identifica e calcola significati, la filosofia apre la domanda sul senso. Essa indaga il suo oggetto, insieme col lessico in cui arriva:  studiandone  i  presupposti, mettendolo  in  rapporto  con  le  prospettive possibili, coi valori, coi caratteri dell’interpretazione e del linguaggio, coi limiti della conoscenza e del pensiero,  con  l’incidenza del metodo  sull’oggetto, con  le condizioni di possibilità del guardare e del guardato, col complessivo mondo dell’agire, con  l’essere profondo della realtà, con  l’esistere umano e con  le sue domande di senso. E, nel far questo, la filosofia mette in questione tutto ciò che le  appare  come  un  dato,  scoprendolo  come  un  problema.  In  quanto  attività investigante  sui  presupposti,  infatti,  la  filosofia  è  una  straordinaria  forza  di demistificazione dell’ovvio e, perciò, di vigilanza  critica nei  confronti del  reale e delle  sue  forme.  In  questo  senso,  essa  è  interrogazione  che muove  dai  più radicali  centri  di  senso  dell’esistenza  umana,  per  investire  ogni  possibile oggetto  da  cui  esigere  risposte.  Sulla  sua  consistenza  conoscitiva  sembra opportuno, perciò, fin da ora, indicare due profili di riflessione. In primo luogo, in  quanto  l’attività  filosofica  nasce  all’incrocio  tra  forza  critica  e  fantasia speculativa. In secondo luogo, in quanto l’attività filosofica è aperta alle necessità originarie  di  ogni  pensante  (ogni  uomo  è  naturalmente  filosofo)  ed  è abbisognevole di capacità critiche e talenti che non è facile a tutti conseguire.     

Dicevamo  che  la  scienza  calcola  e  la  filosofia  pensa.  Non  va  certamente trascurato, in proposito, che fra il ‘calcolare’ e il ‘pensare’ si dànno molte zone di frontiera – liminali, di sovrapposizione e d’incrocio. Una tale considerazione conduce ai molteplici modi in cui scienza e filosofia sono chiamate a collaborare e a  interagire. Non a  caso,  il  livello  filosofico dell’investigare emerge  sempre – prima o poi – dal seno stesso delle scienze,  le quali, a un certo  livello del  loro calcolare, avvertono un bisogno teorico ineludibile: sia – in termini verticali – nel riflettere sul senso del loro operare, sia – in termini orizzontali – nel rompere le paratíe disciplinari  in nome di un’epistemologia della  complessità. Si pensi, oggi, all’emergere  incontenibile,  dal  seno  delle  stesse  scienze,  di  interrogazioni filosofiche  miranti  a  saperi  transdisciplinari,    epistemologici,  bioetici, biogiuridici, biopolitici, biofilosofici. 

In  questo  senso,  se  il  calcolare  della  scienza  si  pone  a  un  livello  primo,  il pensare che essa propizia si colloca al livello secondo di un meta‐calcolare riflesso, donde si apre lo spazio alla filosofia.     

Ma  che  cos’è  il Diritto? Varie  sono  state  le  risposte a una  tale domanda.  Il diritto è stato visto, volta per volta, come modello inscritto nella natura, o nella vita, o nella  ragione umana, o  come norma, o  rapporto, o  istituzione, o  come attività dello spirito, o come libera creazione dei commerci, o come elaborazione simbolica  della  pressione  psico‐sociale,  o  come  previsione  concettuale  delle sentenze  del  giudice,  o  come  ordinamento  imposto  da  un’Autorità  idonea  a farsi  obbedire,  o  come  complesso  fenomeno  interpretativo  fondato  su  una scienza delle precomprensioni (in quest’ultimo caso, ‘ermeneutica’).  

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Noi  pensiamo  che,  andando  oltre  le  sfaccettature  indicate,  vada  fatta  una precisazione preliminare.  In una prima  approssimazione,  infatti, può dirsi  che  il diritto va visto a due livelli di fondo: 1. come la complessiva attività pratica con cui una società – strutturata o no in Stato – si autoregola in un ordine garantito. 2. Come  il  risultato  in  cui  quest’attività  si  deposita,  facendosi  conoscere  e rispettare. 

Osserviamo. Non  c’è  società  umana  che  possa  vivere  senza  un  ordine,  il quale, quindi, ne è imprescindibile condizione di possibilità. Ma ogni società si avvale di più  strategie di  persuasione  all’ordine:  il  costume,  l’etica,  le  credenze comuni,  la  religione,  l’economia,  il  buon  gusto,  il  buon  senso,  le  regole  di convenienza,  le  sanzioni  sociali,  il  diritto.  Si  tratta  di  forme  regolatrici, configurabili    come  tanti  circoli  attraverso  cui  una  società mira,  per  la  sua conservazione,  a  darsi  un  ordine,  ossia  strutture  vincolanti  di  comportamenti prevedibili  e  ripetibili  nel  cui  quadro  far  vivere  stabilmente  attività,  cómpiti, richieste,  aspettative.  Ma  tali  forme  di  persuasione  all’ordine  non  sempre conseguono il proprio scopo. Se proviamo a pensare a tali strategie come a tanti circoli inscritti in uno più grande, possiamo accorgerci che il diritto costituisce, almeno nelle società più evolute,    il  circolo più  interno  e più duro, quello  in cui l’attività  autoregolatrice  si  esprime  in  una  forma  più  stringente  e  più  forte, capace di strutturare – attraverso vincoli imposti e aspettative tutelate – un ordine garantito.  “Ordine”,  infatti,  è  l’insieme  delle  strutture  prevedibili  e  ripetibili entro  le  quali  può  svolgersi  stabilmente  la  convivenza  umana.  Esso  è “garantito” nella misura  in  cui  l’attività  regolatrice  che  lo pone  sia  capace di imporre  complessivamente  l’osservanza  delle  sue  regole.  In  questo  senso,  la “garanzia” è null’altro che l’idoneità strutturale della forza regolatrice a rendere “effettiva”  –  almeno  in  certi  limiti  –  l’osservanza di quanto da  essa disposto, mentre  l’“effettività”  è null’altro  che  il  concreto  svolgersi dei  comportamenti, almeno nelle linee generali, secondo l’ordine imposto. Si pensi, per un esempio, all’importanza di garantire dalla volubilità la parola data. 

Il Diritto, quindi, è sia l’attività pratica con cui una società regola sé stessa in forme vincolanti, sia il prodotto in cui una simile attività si sedimenta. Si tratta di due  piani  che  non  vanno  confusi. Molto  spesso,  invece,  soprattutto  nell’era contemporanea,  le  dottrine  giuridiche  e  filosofico‐giuridiche  li  confondono, riducendo di fatto, consapevolmente o inconsapevolmente, il primo livello al secondo. La dottrina  giuspositivistica,  per  esempio,  considerando  come  unico  Diritto esistente  l’ordinamento  formale  imposto  da  un’Autorità  capace  di  renderlo effettivo nel sociale, riduce il primo piano al secondo, espellendo dall’orizzonte conoscitivo il primo. Si tratta di un’estromissione che è fonte di molti equivoci e conseguenze.    

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3. Forme di diritto e forme di conoscenza  Una società, quindi, nel suo autoregolarsi come convivenza stabile, si dà un 

Jus – un Diritto. Ma un tale Jus essa si dà in un vissuto comune, sedimentandosi storicamente in ragioni giuridiche e valoriali: attraverso una consuetudine, più o  meno  identificata  con  pratiche  e  credenze  religiose,  attraverso  strutture oracolari o sapienziali o giurisprudenziali, attraverso princípi sociali condivisi, attraverso  forme di monopolio della  forza  (“Stato”) che si  traducono  in Leggi. Un “Jus” può – non  ‘deve’ – darsi  in forma di “Lex”. Ciò che è costitutivo del Diritto come prodotto dell’attività pratica della società regolatrice, infatti, non è il  manifestarsi  in  legge  di  uno  Stato,  ma  la  sua  idoneità  strutturale  a determinare un  (minimo di) ordine garantito. Ciò significa che, anche quando una società evoluta si è configurata in Stato, non cessa affatto di esistere, intanto, quell’attività sociale autoregolatrice che –  in modo meno cosciente e visibile – continua  a  generare  componenti  essenziali  del  Diritto,  che  s’incrociano  con l’Ordinamento  giuridico  formale  in  tutti  i  luoghi  in  cui  il  diritto,  attraverso soggetti concreti, si fa: guidandone l’identificazione, decidendone le connessioni logiche,  modellandone  i  significati,  valutandone  la  forza,  precisandone l’estensione.  Si  tratta  di  punti  d’incrocio  in  cui  il Diritto,  pur  provenendo  da luoghi diversi del  sociale  (la  coscienza  civile, morale,  religiosa;  il  senso della storia; i costumi; il buon senso; etc.) viene, in punti apicali e ultimativi, identificato e fatto vivere come mirante a un unico ordine garantito.  

È  questa  la  profonda  ragione  per  cui  alcuni  degli  autori  più  avvertiti, soprattutto  in epoca moderna, hanno preferito distinguere – anche sulle orme romanistiche  e  su  quelle  vichiane  –  fra  Jus  e  Lex:  il  Jus  come  il  prodotto essenziale  e  complesso  che ogni  società  si dà  in  ragioni giuridiche  e valoriali sedimentate per realizzare un ordine antropologico garantito; e la Lex come una possibile modalità  in  cui,  a  opera  dello  Stato,  un  tale  Jus  può  completarsi  e specificarsi, ma senza che mai la Lex cessi di far esistere il ‘Jus’, che pur sempre la sottende e la circonda, la precede e la eccede. 

Il Diritto, quindi, è un fenomeno sociale che si pone come capace di dare, alla società  umana  e  ai  gruppi  in  essa  operanti,  un  ordine,  almeno  esterno, garantito.  

Il  convivere  degli  uomini,  come  si  sa,  è  fatto  di  relazioni.  Relazioni  di cooperazione,  di  conflitto,  di  organizzazione  e  perfino  (in  certi  limiti)  di indifferenza.  Vi  si  osserveranno,  fra  l’altro,  relazioni  di  cooperazione  nel conflitto e di conflitto nella cooperazione. Si tratta di relazioni indissociabili dalla vita umana. Non possono esserci,  infatti, uomini senza  relazioni. Né  relazioni senza un minimo di  ordine  garantito.  Se  la  relazione  è, perciò, una  struttura essenziale  per  l’esistere  umano,  il  diritto  è  una  struttura  essenziale  per  la relazione. Non a caso un autore – Vincenzo Tomeo – ha parlato del diritto come della  struttura  del  conflitto.  Si  precisi:  il  diritto  è  struttura  delle  relazioni,  cui 

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garantisce  l’ordine. E  lo  fa, almeno negli stadi più evoluti, non solo regolando  i comportamenti per impedirne il conflitto e per consentirne la cooperazione, ma anche per regolare, a un primo livello, il conflitto fra le azioni; a un secondo livello, il modo  con  cui  si  confligge;  e,  a un  terzo  livello,  il modo  con  cui  si  confligge nell’interpretare le norme che regolano il conflitto. Come dire che il diritto non determina  solo  le  regole  per  non  litigare, ma  le  regole  sul  come  litigare  e  le regole sul come litigare sulle regole che regolano il litigare. Ubi societas, ibi jus. 

La filosofia del diritto, pertanto, non indaga un fenomeno eventuale della vita degli uomini, ma strutturale. E  lo fa secondo due prospettive, da combinare: 1. Sia in quanto è attività della società che si autoregola, sia in quanto è diritto da essa generato; 2. sia in quanto è ‘Diritto’, sia in quanto, nel suo costituirsi come Diritto, contiene e deposita in sé una filosofia.    

4. Ordine  Ma  che  cos’è  ‘ordine’?  Il  concetto di  ‘ordine’,  come è noto  fin dal dibattito 

medievale,  implica un duplice  livello: un ordine ordinante  (‘ordo ordinans’) e un ordine  ordinato  (‘ordo  ordinatus’).  C’è,  in  ogni  assetto,  un  ordine  pensante  e volente  che  si  traduce  in  ordine  realizzato.  Si  tratta  di  una  distinzione  che, trasferita  sul  piano  del  diritto,  apre  la  strada  a  molte  distinzioni  ulteriori, importanti  e  specifiche,  anche  se  collocate  a  più  scale  di  analisi  e  non sovrapponibili  fra  loro. Si pensi a quella  fra Diritto  formale – depositato  in un ‘ordinamento’  –  e  Diritto  effettivo,  depositato  nel  funzionamento  reale  delle ‘Istituzioni’. Oppure si pensi alla distinzione  fra  ‘Costituzione  formale’  (quella scritta nella Legge fondamentale di uno Stato) e ‘Costituzione materiale’ (quella effettivamente vivente nella prassi, anche evolutiva, degli Organi supremi). 

Un’attenzione  prevalente  all’uno  o  all’altro  profilo  del  discorso  genererà atteggiamenti  dottrinali  diversi  nei  confronti  del  diritto  (normativismo  e istituzionalismo,  ad  esempio)  e  atteggiamenti  disciplinari diversi nei  confronti dello stesso (filosofia del diritto e sociologia del diritto, ad esempio).  

Ma un ‘ordine’ non implica necessariamente l’idea di un ordine giusto. Come scrive Borges parlando della sua «Biblioteca di Babele»: « ... gli stessi volumi si ripetono nello  stesso disordine  (che,  ripetuto,  sarebbe un  ordine:  l’Ordine)»1. Un ‘ordine’  implica,  infatti,  una  prevedibilità  e  una  ripetibilità  di  forme  che consentano uno strutturarsi stabile di attività e di aspettative. Ma un tale ordine, se  è  giuridico,  deve  essere  garantito.  Là  dove  il  concetto  di  garanzia  implica quello di idoneità strutturale a rendere effettivo, in modo più forte e stringente, la prevedibilità e la ripetibilità stabilite.  

Si  pensi,  in  proposito,  a  quelle  forme  di  garanzia  che  vengono  chiamate “sanzioni”: previsioni punitive e/o premiali e/o invalidanti, appartenenti a una  1 Jorge Luis Borges, Finzioni, Einaudi, Torino, 1995, p. 78. 

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strategia idonea a imporre un ordine, almeno esterno, nelle relazioni sociali. Si pensi, tra le possibili figure di sanzione, alla costrizione, all’esecuzione forzata, alla  rimessa  in  pristino  della  situazione  violata  (‘reductio  in  integrum’),  al risarcimento dei danni, ad altre forme di riparazione, all’invalidazione degli atti compiuti, alla privazione o restrizione della libertà, all’inflizione di pene fisiche o pecuniarie  e, nella più  recente  evoluzione giuridica,  alla predisposizione di misure  ‘premiali’  capaci  di  indurre  al  comportamento  positivamente apprezzato dal diritto. Occorre, cioè, un ‘ordine ordinante’ idoneo a tradursi di fatto – almeno in certi limiti – in un ‘ordine ordinato’. 

Tali sanzioni, nel comportare un ordine di vincoli, presuppongono, al  tempo stesso, un ordine di poteri, capaci di rendere effettivi quei vincoli. I quali, a loro volta,  presuppongono  un  ordine  di  regole  (non  necessariamente  scritte)  che attribuiscano quei poteri.  

Il  diritto  potrà  essere  indagato,  pertanto,  a  livello  fenomenico,  ontologico, semantico,  teleologico,  logico, metodologico, valoriale, epistemologico, sociale, politico‐istituzionale.  In  ciò  che  è,  in  ciò  che  intende  essere,  in  ciò  che  può essere, in ciò che dovrebbe essere, in ciò che non può non essere, in ciò che deve poter essere, nelle sue articolazioni d’essere, nella sua ragion d’essere, nel suo fondamento  d’essere,  in  ciò  che  complessivamente  significa  all’interno dell’esistenza umana. 

Si  distinguerà,  quindi,  nell’attività  filosofica  che  investiga  sul  Diritto, un’Assiologia  del  Diritto,  una  Teoria  generale  del  Diritto  (col  suo  lessico specifico:  diritto  soggettivo,  diritto  oggettivo;  norma  e  ordinamento; ordinamento  giuridico:  unità,  coerenza,  completezza;  validità,  efficacia, giustizia, effettività), una Teoria dello Stato (col suo lessico specifico: sovranità e suo  fondamento: divisione dei poteri;  Stato di diritto;  Stato  sociale,  etc.), una Logica  del Diritto  (col  suo  lessico  specifico:  norme  contrarie,  contraddittorie, subalterne;  norme  regolative  e  costitutive;  il  problema  delle  lacune nell’ordinamento  giuridico,  etc.),  una  Filosofia  del  linguaggio  giuridico, un’Ermeneutica  del  Diritto,  una  Critica  delle  Istituzioni  giuridiche,  una Metafisica  del  Diritto,  un’Epistemologia  della  scienza  giuridica,  una  Teoria dell’argomentazione, una Filosofia degl’istituti giuridici nella storia civile.   

5. Dalla ragione scientifica all’illuminismo: il Diritto nella modernità  L’era moderna si apre, come è noto,  fra  il Cinquecento e  il Seicento, con  le 

grandi  scoperte  geografiche,  con  l’invenzione  della  stampa,  con  la  Riforma luterana,  con  la  discussione  di  un  ‘diritto  naturale  razionale’  (di  un  diritto naturale, cioè, che la ragione, natura dell’uomo, emancipandosi dal fondamento teologico,  riconosce  nella  natura  dei  soggetti  umani  in  quanto  razionali: giusrazionalismo), con la nascita dello Stato moderno e delle sue visioni teoriche 

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(Machiavelli, Bodin, Hobbes, Locke, Montesquieu, Rousseau), con la nascita dei canoni  della  scienza  nuova  e  del  suo metodo  (Copernico,  Keplero,  Galileo, Bacone,  Cartesio,  Newton,  Leibniz,  Vico).  In  un  tale  contesto,  la  nuova concezione della scienza, istituendo un diverso paradigma della ragione, che si emancipa  dall’ipoteca  del  divino  e  preferisce  muovere  dal  fondamento  del pensiero,  individuerà,  come  caratteristica  del  nuovo modo  di  investigare  sul vero,  l’incontro  metodico  delle  esperienze  con  la  ragione:  e,  di  qui,  la sperimentalità,  la  ripetibilità,  la  misurabilità,  la  prevedibilità,  la  riproducibilità  e controllabilità delle verifiche,  insieme  con  la possibile  artificialità derivante dal riprodurre  sperimentalmente  il  compreso,  nell’ambito  della  fondamentale soggettività ponente dell’attività ricercatrice.  

In questo senso, nel Settecento,  il movimento dell’illuminismo, nascendo  in Francia e irradiandosi in Europa,  darà vita, nelle diverse sue declinazioni, a un grande fenomeno di trasferimento dei princípi della scienza moderna, dello Stato moderno e della coscienza religiosa moderna sul piano politico‐sociale. Si tratta di quell’illuminismo di cui Kant ha lapidariamente scritto che è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità in nome della ragione. 

Il Diritto tenderà ad acquistare così – nel dibattito fra gl’illuministi – una sua forma  e  un  suo  valore,  strutturalmente  legati  al  configurarsi  dello  Stato moderno e alla sua idea di sovranità. In questo evento complesso, il baricentro teorico  dell’illuminismo  giuridico  sarà  costituito  da  una  Ragione  legislatrice, chiamata  a  dare  le  basi    a  un  diritto  razionale,  semplice,  uguale,  capace  di garantire  i  diritti  naturali  dei  consociati.  La  potestà  legislatrice,  in  un  tale discorso, deve  essere  illuminata dalla  ragione  e, quindi,  idonea  a porsi  come unica produttrice di diritto e come autrice di una semplificazione razionale che elimini  ogni  altra  fonte,  allo  scopo  di  garantire  una  disciplina,  in  quanto razionale, unica e unificante.  In questa concezione, secondo  le  linee emergenti dal dibattito,  le  leggi prodotte dalla Ragione  legislatrice dovranno essere: pre‐date  (ossia poste  in essere prima dei comportamenti da normare), scritte, poche, semplici, chiare, astratte, generali, stabili, costituenti un ordine coerente e completo.  

Ognuna  di  queste  caratteristiche  strutturali  ha  un  suo  specifico  senso. Attraverso  tali prescrizioni razionali al potere  legislativo,  infatti,  il movimento illuminista tendeva a porre limiti – più che di contenuto – di struttura all’Autorità sovrana:  ciò  affinché  essa,  qualunque  cosa  disponesse,  si  sottoponesse,  nel disporlo,  a  forme  che  assicurassero,  sempre  e  necessariamente,  la precostituzione  e  la  chiarezza  del  disposto,  la  sua  valenza  per  tutti,  la  sua stabilità nel tempo, la sua complessiva coerenza e la sua radicale completezza. Si veniva a perseguire, così, come  fine  fondamentale della ragione  legislatrice, l’idoneità  strutturale  della  norma  a  disciplinare  ex  ante  –  e  quindi  senza interventi ex post – tutti i comportamenti e le situazioni possibili. In una simile concezione sulla sostanza e sui  limiti razionali del potere sovrano, si trattava,  in realtà, di pensare, più che le regole, le regole con cui pensare le regole. Collocandosi, 

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quindi, in un’ottica, più che regolatrice, meta‐regolatrice. Vediamo. Le  leggi,  in base alla  filosofia  implicata  in una simile strategia di 

pensiero,  dovranno  essere  poche,  semplici  e  chiare:  per  essere  comprese  senza equivoci da  chi  le  applica  e da  chi  vi  è  sottoposto. Dovranno  essere,  inoltre, astratte  e  generali:  per  essere  uguali  per  tutti  nello  spazio;  e  stabili,  per  essere uguali per tutti nel tempo. Se le leggi fossero, infatti, solo astratte e generali e non stabili,  l’uguaglianza di  trattamento normativo garantita nello  spazio  sarebbe aggirata dalla disuguaglianza di trattamento nel tempo.  

Le leggi, infine, dovranno costituire un ordinamento completo, perché solo in tal caso, prevedendo tutti  i casi possibili, saranno veramente affidate al potere del  legislatore  (diventando  uguali  per  tutti)  e  non  rimesse  all’arbitrio  del giudice, che si esprimerebbe caso per caso, trasformandosi, così, in un irrazionale legislatore. 

Le  leggi, quindi, dovranno costituire un ordine coerente e completo. Esse non saranno, perciò, né contraddittorie né lacunose: là dove ne va non della bellezza letteraria dell’ordinamento, ma della libertà e dell’uguaglianza dei cittadini.   

È prefigurata, qui, a ben vedere,  in  termini di  ingegneria normativa, quella situazione strutturale dello Stato che si chiamerà “divisione dei poteri”, per  la quale  il potere  legislativo è  l’unico depositario della funzione di normare  in via astratta e generale, laddove al potere giudiziario compete soltanto la funzione di applicare la norma al caso concreto: senza poter nemmeno  interpretarla, perché la possibilità interpetrativa significherebbe pur sempre la sostituzione di più norme a una norma sola, con  la contestuale creazione – da parte del giudice – di norme per  i casi  singoli e, quindi, usurpatrici del potere di normare  in via astratta e generale, spettante solo al legislatore. Il giudice deve solo rilevare la norma. Egli è  semplicemente  la  bocca  che  pronuncia  le  parole  della  legge  sul  caso  a  lui sottoposto. Il modello del suo giudizio è il sillogismo.  

Si  tratta,  in  realtà, della  concezione attraverso  cui  , affidando  il  compito di creare leggi (astratte, generali, stabili, coerenti, complete) al solo potere legislativo e nessun potere  creativo al giudice,  si  intende assicurare  la  libertà del  cittadino. Sostanziata  nel  fatto  che  egli  sarà  sottoposto  a  una  legge  che  conosce  con chiarezza  e  da  prima,  emanata  per  tutti,  tale  da  non  consentire  a  nessuno  – nemmeno al giudice – di interpretarla secondo l’arbitrio e il caso.  

Risulta, a ben vedere, prefigurato,  in queste caratteristiche strutturali per  le norme e le leggi, quel particolare valore giuridico che si chiamerà “certezza del diritto”. Valore per  il quale, da un  lato,  la  regola deve poter essere  conosciuta senza  equivoci  fin  dal  tempo  che  precede  il  comportamento  tenuto  e  per  il quale,  dall’altro  lato,  la  regola  deve  essere  stabile  nel  tempo.  La  certezza  del diritto,  in  realtà,  intende assicurare una  situazione  in  cui  i  soggetti  sottoposti alla norma siano sottratti a ogni incertezza e a ogni precarietà.  

Una  tale  opzione  valutativa  porrà,  d’altra  parte,  alla  scienza  futura  il problema teorico su se sia possibile un ordinamento senza lacune o – altrimenti 

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detto – su se una norma possa veramente prevedere tutte le situazioni possibili, dovendo  conoscere  quindi,  per  prevederle,  tutte  le  condizioni  di  possibilità della sua previsione.  

Si badi. E’ proprio a partire dalla crisi teorica della possibilità di concepire un ordinamento  completo,  senza  lacune  –  il  quale, nella  sua  intenzione di  fondo, intende conferire massima fiducia al legislatore e minima al giudice –, è proprio a  partire  da  una  tale  crisi  che  si  svilupperà,  nel Novecento,  una  concezione ermeneutica  del  diritto.  La  quale,  esprimendo  precise  sensibilità  filosofiche  e filosofico‐giuridiche  (Heidegger, Gadamer, Betti) e considerando  ineludibile  il problema  teorico dell’interpretazione, proprio  al momento  interpretativo  e  alla scienza delle  sue precomprensioni assegnerà, nel  costituirsi del diritto,  il  ruolo fondamentale. Si darà vita,  così, a una diversa  sensibilità nella  concezione del legislatore e del giudice, attribuendosi, di fatto, una maggiore fiducia al giudice e alla sua potestà di  intervenire – sulla base della scienza ermeneutica – nella più consapevole conoscenza e ponderazione del caso concreto.               

6. Jus e Lex  Il processo  filosofico e politico avviato dall’illuminismo giuridico  tenderà a 

conferire,  pertanto,  razionalità  al  potere,  conducendo  in  Europa  –  anche attraverso l’evento della rivoluzione francese e dei suoi riflessi – al movimento delle codificazioni, con cui il diritto di un territorio verrà concentrato in un’unica fonte di produzione, di origine statuale: la Lex. Da  un  lato,  quindi,  si  chiederà  al  potere  sovrano  di  esprimersi  in  forme 

razionali e, dall’altro, si tenderà a rendere il potere sovrano l’unico produttore di diritto. Ciò  concorrerà  certamente a un’unificazione delle  fonti di produzione giuridica  e  a una  semplificazione delle norme, ma mirerà,  al  tempo  stesso,  a ridurre tutto il Jus a Lex, facendo pagare la semplificazione del diritto con la sua riconduzione  alla  volontà  politica.  Con  una  conseguenza  importante:  il progressivo occultamento del Jus, che, riconosciuto o no dal produttore della Lex,  pur  continua  a  sussistere  nella  vita  giuridica  delle  società.  Sotto  forme meno visibili  e  consapevoli,  pur  recessive  o  latenti,  infatti,  ogni  società  continua  a generare  il  suo  Jus  e  a  renderlo,  in  soggetti  e momenti  topici,  identificato  e vivente. La prassi di una volontà formalizzata in ‘Lex’ con la quale si imponga che il ‘Jus’ non ci sia, non può infatti annichilire la considerazione teorica del suo effettivo perdurare.  

Potranno,  infatti,  passare  tempi  anche  lunghi  in  cui  la  Lex,  decretando l’inesistenza del Jus, ne renda invisibile il perdurare (e nel plurisecolare tempo degli Stati moderni ciò è di fatto accaduto). Ma il possibile oscuramento del Jus non ne annichilisce affatto l’esistere, né significa che non ci saranno più tempi in cui  il  Jus possa  riapparire  alla  luce. La Lex,  infatti, non può – per  l’impossibilità 

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teoretica che non lo consente – decretare qual è il Diritto e che il Jus non c’è. Perché il Diritto – di cui la stessa Lex è espressione –  la sottende e  la supera da ogni  lato, e non solo nei luoghi della considerazione filosofica ma nei luoghi e nei soggetti reali in cui ogni conoscenza coglie il farsi del diritto. Luoghi e soggetti topici in cui il diritto si fa e di cui ogni disconoscimento sarebbe non solo falso, ma inefficace.  

C’è il diritto come attività autoregolatrice della società e il diritto come prodotto della stessa. Ma, fra i due livelli, ce n’è uno ulteriore e preciso, che è venuto il tempo di disoccultare: è il diritto inteso come il complesso di orientamenti vissuti con cui l’attività sociale regolatrice guida all’identificazione del diritto esistente e alla sua interpretazione.  E’  diritto,  infatti,  non  solo  quello  riconosciuto  dai  funzionari attuatori  dello  stesso  (Herbert  Hart),  ma  anche  quello  continuamente emergente, attraverso soggetti  topici, negli orientamenti di principio che guidano al riconoscimento e all’interpretazione dello stesso, facendolo apparire alla luce. Attraverso soggetti,  luoghi e  tempi  il cui disconoscimento sarebbe non solo  falso ma inefficace.  

Il Diritto formale, in definitiva, non può decretare – sostituendosi alla teoria – di  essere  l’unico  Diritto.  Decretare  che  il  sole  non  esiste  non  significa l’annichilimento del sole! 

Se proviamo a scavare nel livello intermedio fra l’attività autoregolatrice della società  e  il  diritto  formalmente  prodotto,  se  scaviamo  cioè  in  quello  che abbiamo  chiamato  il  complesso  degli  orientamenti  di  principio  che  guidano all’identificazione  e  all’interpretazione  del  diritto  esistente,  possiamo  trovare più falde, strettissimamente connesse e viventi: i valori, i princípi, le norme. Ma fra i princípi  stessi bisogna distinguere. E’ necessario,  infatti, non  confondere  fra  i princípi  enucleabili  dall’ordinamento  stesso  –  i  ‘princípi  generali dell’ordinamento’  –  e  i  princípi  che,  pur  intersecando  l’ordinamento,  non derivano da esso. Così come, ancora più a monte, sono individuabili orientamenti di principio che guidano alla stessa identificazione e allo stesso rimodellamento del diritto che esiste. 

Nell’architettura qui individuata, pertanto, si distinguerà fra valori, princípi e norme. Là dove i princípi, collocati topologicamente fra i valori e le norme, sono, da un lato, continuamente esposti ai valori e, dall’altro, mirati a tradursi in norme senza mai esaurirsi in esse, perché orientano sempre oltre di esse eccedendone i confini. Mentre  le  norme,  quindi,  si  esprimono  in  classi  definite  –  di  fatti,  di comportamenti, di  situazioni  –  in  cui  si  circoscrive  in modo  esclusivo  il  loro dominio  regolatore,  i  princípi  non  si  esauriscono mai  in  classi  determinate  e orientano, con razionalità strategica, sempre oltre la loro tipicità 

Si badi. La collocazione dei princípi  fra valori e norme non è solo  topologica, ma  epistemologica:  dice  l’essere  dei  princípi.  Si  potrebbe  anche  dire,  con linguaggio geometrico, che  il  ‘principio’ è  la  figura che si pone  fra  la  tendenza dei valori al limite della loro attuazione operativa e la tendenza delle norme al limite della loro riconduzione all’intero. Il ‘principio’ è, in questo senso – fra i valori e le 

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norme – il luogo geometrico che costituisce il limite comune fra queste due tendenze al limite.   

7. Il diritto moderno: caratteristiche strutturali delle norme     Nell’imporsi  di  un  ordine  scritto  e  unificato,  come  è  facile  capire,  l’ordine 

ordinante acquista, almeno per certi versi, una sua cospicua autonomia rispetto all’ordine ordinato.  Il che, d’altra parte, significa,  il progressivo complessificarsi dei modi strutturali di cui quell’ordine scritto, per diventare ordine effettivo nel sociale, si dota. 

Un  illustre  giurista  contemporaneo,  Sergio Cotta,  ha  sottolineato  le  forme specifiche del diritto nei confronti delle altre attività umane, individuandole in alcuni tratti normativi. Il Diritto, infatti, soprattutto nella sua forma moderna, si esprime in alcune costanti modalità: 

a. Esso regola comportamenti esteriori e non interiori (“esteriorità”). Si tratta di un preciso guadagno teorico realizzato soprattutto  in età moderna. Si pensi come  in Hobbes  sia  esplicitamente  sancita  la  distinzione  fra  il  diritto,  che  si occupa dell’esteriorità, e l’etica, che si occupa dell’interiorità. Una confusione fra i due  livelli genererebbe,  infatti, un diritto  inquisitorio sulle  intenzioni che, con l’era moderna, esce dai parametri della civiltà giuridica. Al diritto moderno non interessa che l’obbligato adempia imprecando dentro di sé, ma che adempia. Il che  non  significa  che  il  diritto  non  possa  attribuire  rilievo  alle  intenzioni  (se compiute,  ad  esempo,  per  dolo  o  per  colpa),  ma  significa  che  una  tale valutazione  il  diritto  compie  –  ove  la  compia  –  sempre  in  presenza  di  un comportamento  esteriore.  Per  i  comportamenti  interiori  isolatamente  presi,  il diritto moderno, per sua scelta strutturale, si astiene dal normare. 

b. Il Diritto regola comportamenti e situazioni modellati in tipi (“tipicità”). Si  tratta di una caratteristica che non sussiste con eguale nettezza  in un diritto che pure è diritto, come il consuetudinario. O in un diritto – pur sempre diritto – che  sia  tutto  processualizzato  e  garantito  secondo  regole,  volta  per  volta decretate da sapienti, da interpetri di costumi o di dèi, o da re. 

c. Il Diritto regola  in modo eteronomo e non autonomo, dal momento che  la norma  giuridica  non  deriva  dallo  stesso  soggetto  che  vi  è  sottoposto (“eteronomia”).  

d. Il Diritto regola secondo una strategia di comandi e permessi congiunti, perché  comanda  e  permette  nel  senso  che  comanda  nello  stesso  tempo  in  cui permette  e  permette  nello  stesso  tempo  in  cui  comanda  (“imperativo‐attributività”). Anche qui, si tratta, a ben vedere, della caratteristica di un diritto pervenuto  a  una  sua  maturazione  formale  e,  in  quanto  tale,  a  una  sua unificazione. 

e.  Il  Diritto  regola  secondo  una  strategia  di  coordinazione,  allo  scopo  di 

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impedire  fenomeni  di  contraddittorietà,  contrarietà,  incongruenza  sia  tra  le norme  sia  tra  le  figure  create  (“coordinazione”).  Vale,  anche  qui,  la considerazione di cui al punto precedente. 

f. Il  Diritto  regola  secondo  una  strategia  sanzionatoria  di  traduzione  del disposto  in  forme  sociali  corrispondenti,  allo  scopo  di  rendere  effettivo  il risultato voluto, per lo meno nei comportamenti esteriori (“garanzia”). 

Tutto  ciò  fa  emergere  con  nettezza  alcuni  tratti  distintivi  nel  rapporto  fra l’etica e  il diritto. Mentre al diritto,  infatti, basta  l’osservanza esteriore, all’etica una  tale  osservanza  non  basta  affatto,  perché  rimane,  per  essa,  decisiva l’intenzione  conforme  alla  coscienza;  mentre  nel  diritto  si  dà  una  puntuale tipizzazione dei comportamenti regolati, nell’etica è decisivo, almeno in ultima analisi,  il  rapporto  fra  la  coscienza  interiore  e  la  situazione  concretamente vissuta;  mentre  al  diritto  è  consustanziale  l’eteronomia,  l’etica,  soprattutto nell’era  moderna,  non  è  pensabile  senza  autonomia;  mentre  nel  diritto  il ‘comandato’  e  il  ‘permesso’  sono  indissolubilmente  congiunti,  ciò  non  è necessariamente osservabile nell’etica; mentre nel diritto, soprattutto nella fase moderna,  si  dà  coordinazione  tra  le  figure  create,  ciò  non  accade  affatto nell’etica; mentre nel diritto, per la sua traduzione in comportamenti effettivi, è necessaria la garanzia, questa è assolutamente assente nell’etica. Un uomo può, infatti, essere buono, eppure ciò non gli garantirà alcun premio. Anzi,  troppo spesso il comportamento buono incontra misconoscimenti e castighi: il rischio è strutturalmente  connesso  all’azione  etica,  che  opera  per  coscienza  e  senza garanzie.  

Le precedenti considerazioni mostrano quanto il diritto sia, rispetto all’etica, forma specifica. Esso è, infatti, diritto non per i motivi e i contenuti che possono alimentarlo  (etici,  economici,  ideologici,  tecnici,  di  convenienza  sociale,  di opportunità congiunturale, etc.), ma per il fatto che la sua forma è strutturalmente destinata a realizzare un ordine garantito.  

Giuseppe Capograssi scriveva che il diritto è discreto. Esso, cioè, a differenza dell’etica,  si  accontenta  del  comportamento  esteriore.  Eppure  da  questa  sua discrezione, che chiede  il minimo, emerge un  intero ordine, che nemmeno  l’etica saprebbe assicurare. Non a caso, l’antica sapienza cristiana insegna che la bontà di tutti non garantisce l’ordine, perché anche fra i buoni può esserci conflitto.   

8. Etica giuridicizzata, etica nel diritto, etica del diritto  Giova qui dissipare una precisa  illusione  teorica – vera  fata morgana – che 

può  gravemente  oscurare  la  percezione  speculativa  dei  rapporti  fra  etica  e diritto.  Potrebbe,  infatti,  pensarsi  che  sarebbe  massimamente  auspicabile tradurre l’intera etica in diritto.  

Si  distingua,  in  proposito,  fra  un’etica  giuridicizzata,  un’etica  nel  diritto  e 

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un’etica del diritto.  Se si volesse che un’etica si traducesse tutta in diritto, si determinerebbe una 

situazione in cui si comanderebbero con sanzioni esterne tutti i comportamenti che l’etica chiede innanzi tutto alle intenzioni. Si determinerebbe, cioè, uno stato di polizia. Ciò significa che non è etico che tutto l’etico sia diritto. 

Altra cosa è che alcuni contenuti etici, importanti per l’ordine esterno, siano imposti nell’ordine giuridico  (etica nel diritto). In  tal caso,  la scelta nasce dalla decisione di  imporre  con  sanzioni determinate  comportamenti,  valutati  come imprescindibili per l’ordine sociale.  

Altra  cosa  ancora  è  che  il  diritto,  nei  limiti  delle  proprie  caratteristiche strutturali, scelga  le modalità eticamente più proprie al suo modo d’essere: ad esempio,  attraverso  la  certezza  del  diritto  e/o  aperture  all’equità  (etica  del diritto).   

9. Caratteristiche strutturali della razionalità giuridica  Aggiungeremmo alle  considerazioni  strutturali di Sergio Cotta alcuni  tratti 

che  riguardano  sia  l’attività  regolatrice  che genera diritto,  sia  lo  stesso diritto generato. 

Il diritto,  infatti,  in entrambe  le accezioni  individuate,  soprattutto nelle  sue forme  più  evolute,  risponde  a  una  razionalità  strategica,  a  una  razionalità processuale e a una razionalità analitica (‘scompositiva’). 

a. Il Diritto risponde a una razionalità strategica, nel senso che non fa sua una razionalità  parametrica. E’  noto  che  la differenza  fra  razionalità parametrica  e razionalità  strategica  consiste  nel  fatto  che,  mentre  la  prima  individua  un modello,  da  applicare  ai  fatti,  che  rimane  fisso  al mutare  dei  fatti  stessi,  la seconda,  invece,  come  nel  gioco  degli  scacchi,  individua  un  modello  che, tenendo conto dell’eventuale mossa del destinatario del gioco, ne pre‐assuma  la possibilità,  adeguandovisi  al  proseguimento  dell’azione.  Chi,  nel  gioco  degli scacchi,  operasse  con  la  razionalità  parametrica  e  non  con  quella  strategica, perderebbe la partita. Si badi. Quando una norma viene inserita nel corpo vivo delle azioni di una società, essa è introdotta in un agone di tensioni mobili, dove si osservano reazioni all’azione normante, non consistenti solo in una possibile osservanza,  ma  anche  in  una  strategia  di  violazioni  o  di  aggiramenti (comportamentali,  interpretativi,  esecutivi). Una norma  giuridica  –  così  come l’attivita  regolatrice  della  società  che  in  essa  si  esprime  –  non  potrebbe realizzare  il suo obiettivo se non perseguisse una razionalità strategica, che,  in quanto tale, precostituisca – sia nella sua azione complessiva di mutamento delle norme  sia  nella  predisposizione  dei  loro  dettati  –  la  risposta  a  possibili violazioni  e/o  aggiramenti.  Una  diversa  razionalità  fallirebbe  l’obiettivo strutturale  del  Diritto.  La  razionalità  strategica,  quindi,  a  ben  vedere, 

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caratterizza  il  diritto  in  entrambi  i  suoi  livelli.:  sia  nella modalità  con  cui  la società  genera  e  muta  il  diritto,  sia  nelle  modalità  attraverso  cui  viene predisposta la regola giuridica. Si tratta di due diverse forme: 1. della modalità, svolgentesi  nel  tempo,  con  cui  viene  pensato  e modificato  il  diritto  (modalità complessiva e diacronica); 2. della modalità, strutturata nella regola, attraverso cui questa viene modellata, anche prescrivendo speciali esigenze formali (modalità decentrata e sincronica).      

b. D’altra  parte,  il Diritto  risponde  a  una  razionalità  processuale.  Perché  – riscuota  osservanza  o  no  –  viene  concepito  e  strutturato  in  vista  di un’applicazione, ossia di un processo che ne garantisca l’attuazione: processo che – anche  se di  fatto  non  seguisse  –  deve  poter  esserci. Ossia:  la processualità,  pur potendo  non  esserci,  deve  poter  esserci. L’eventualità del processo deve  costituire una  precisa  struttura  del  pensare  giuridico,  ossia  della  sua  razionalità processuale.  

E’ in questa luce, in realtà, che diventano comprensibili i vari ‘formalismi’ di cui il diritto si dota e che potrebbero sembrare inutilmente gravosi e fuorvianti rispetto ad autentiche esigenze di valore. 

c.  D’altra  parte  ancora,  il  Diritto  corrisponde  a  una  razionalità  analitica, scompositiva. Perché, per poter pervenire alla puntuale sua applicazione, deve poter definire,  scomporre,  individuare  con  circostanziata  precisione gli  elementi del suo oggetto. In questo senso, il diritto, come sottolinea Enrico Opocher, non disciplina  –  se  disciplina  –  “la”  libertà,  ma  “le”  libertà,  tutte  tipicamente nominate;  non  disciplina  “il”  tempo,  ma  i  tanti  possibili  eventi  temporali (decorsi  qualificati,  termini  ordinatòri  e perentòri,  termini dilatòri,  termini di usucapione, scadenze, etc.); e non disciplina “la” società o “la” socialità”, ma  i concreti singoli individui che agiscono in essa, in quanto inclusi nel suo tipo. Il Diritto esercita una razionalità che abbisogna di scomporre e spezzettare il suo oggetto, per  raggiungerlo applicativamente  in modo preciso. Se  il Diritto non impiegasse una simile razionalità, fallirebbe il suo obiettivo.   

10. Ordine sintattico, ordine semantico, ordine giusto  Se  pensiamo  alle  caratteristiche  strutturali  di  cui  Sergio  Cotta  parla,  ci 

accorgiamo che un  tale ordine di norme si presenta,  fondamentalmente, come ordine  sintattico.  Si  sta  parlando,  cioè,  qui,  di  caratteristiche  strutturali  di un diritto  che  assicura  un  ordine  a  prescindere  dai  significati  sociali  di  cui  sia portatore.  L’ordine  sintattico  è,  infatti,  un  ordine  fondato  sul  puro funzionamento  dei  nessi  relazionali  fra  le  componenti  –  fra  i  ‘pezzi’  –  a prescindere dall’ordine dei significati. L’ordine sintattico in quanto tale, come è riscontrabile all’interno di una proposizione linguistica, può prescindere da un qualsiasi ordine semantico, allo stesso modo in cui una proposizione linguistica 

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può  essere  sintatticamente  corretta  a  prescindere  dal  suo  significato,  e addirittura a prescindere dall’esistenza di un qualsiasi significato. Nell’orizzonte di  una  pura  funzione  sintattica,  ad  esempio,  una  sentenza  non  è  affatto necessario  sia  ‘giusta’:  basta  assolva  la  sua  funzione  sintattica,  consistente  nel chiudere  definitivamente,  con  atto  del  terzo,  il  conflitto  fra  i  contendenti.  E’  solo questo che l’ordine sintattico del diritto chiede, non altro.   Ma  c’è,  qui, una  considerazione  decisiva da  fare.  Se  è  vero  che un  ordine 

sintattico può prescindere da un ordine semantico, l’ordine sintattico del diritto, se  è  reale,  implica  sempre  e  necessariamente  un minimo  di  ordine  semantico condiviso. Un ordine del diritto che intendesse prescinderne, cadrebbe, prima o poi, come un castello di carte. 

D’altra parte, anche  l’ordine semantico può prescindere dalla giustizia – da un  ordine  giusto.  Un  ordine  semanticamente  condiviso,  infatti,  non  è necessariamente  un  ordine  giusto. Ma,  anche  qui,  c’è  una  considerazione  da fare. Se un ordine  semantico può prescindere da un ordine giusto, un ordine semantico del diritto non può prescindere da un minimo di ordine giusto, ossia da un minimo di risposta a una domanda forte di giustizia, sollevata sotto pena di intollerabilità  (è,  come  si  sa,  la  formula  di  Gustav  Radbruch).  Un  ordine semantico che non rispondesse mai a una domanda  forte di giustizia, prima o poi, col crescere delle esigenze di questa, imploderebbe da sé.   Ergo,  un  ordine  sintattico  del  diritto  implica  sempre  un minimo  di  ordine 

semantico condiviso; un ordine semantico del diritto implica sempre un minimo di ordine giusto, ossia un minimo di risposta alla domanda di giustizia.  Si  badi.  Si  possono  relativizzare  e  demolire  tutte  le  risposte  alla  questione 

della  Giustizia,  mai  la  domanda.  Che  emerge,  innanzitutto  e  per  lo  più,  non direttamente dall’individuazione di un concetto, ma dall’imporsi di un  rifiuto reale. Di un  intollerabile. Che emerge non come  figura concettuale, ma,  innanzi tutto  e  per  lo  più,  da  un  improvviso  sfondo  di  condizioni  non  previste. Apparendo  alla  luce,  per  così  dire,  non  dal  pensato, ma  dall’impensato.  In forma  pascaliana  diremmo  che  il  rifiuto  dell’intollerabile  è  gravido  di  un mondo noetico di cui  il rifiuto non sa. E di cui  la noesis stessa non sa. Ma di cui deve sapere. E che solo l’investigazione filosofica può, da dentro, illuminare.   Dicevamo:  l’ordine  sintattico  del  diritto,  pur  indipendente  dall’ordine 

semantico, non può prescindere da un minimo di ordine  semantico  condiviso; l’ordine  semantico  del  diritto  condiviso,  pur  indipendente  dall’ordine  della giustizia,  non  può  prescindere  da  un minimo  di  ordine  giusto,  ossia  da  un minimo  di  risposta  a  una  domanda  forte  di  giustizia,  elevata  sotto  pena  di intollerabilità.  

Proviamo ora a guardare il rapporto fra ordine sintattico, ordine semantico e ordine  giusto  secondo  un’articolazione  fra  coni  verticalmente  sovrapposti  e reciprocamente  innestati  in una  sequenza di vertici e basi.  Il minimo  comune 

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cui  si  riferisce  l’ordine  sintattico,  quello  cui  si  riferisce  l’ordine  semantico  e quello  cui  si  riferisce  l’ordine  giusto  verranno  a  configurarsi  come  coni  più piccoli, individuati e messi in comune dai reciproci innesti. Si ascenderà, così, – lungo la linea ideale che va dal cono più basso al più alto – dall’ordine sintattico all’ordine  semantico  all’ordine  giusto,  disegnando  un  collegamento  fra  vertici, difficile ma percorribile, che congiunge ordine imposto, ordine condiviso e ordine giusto: ossia il cammino che lega Lex, Jus e Justitia.        

11. La società fra attività autoregolatrice e diritto formale: il problema dei “princípi”  Dicevamo che  il Diritto non è  solo  il prodotto  formale e visibile dell’attività 

della  società  che  si  autoregola  per  realizzare  un  ordine,  almeno  esterno, garantito, ma è anche l’attività della società che a quello scopo si autoregola. E dicevamo che il Diritto, anche nei suoi stadi più evoluti, non è solo il prodotto formale  e visibile,  linguisticamente  e  logicamente unificato, di questa attività, ma anche il prodotto più ampio che nella società vive come all’ordine giuridico destinato:  sia  orientando  a  regolare  i  comportamenti  sociali  sia  guidando  a identificare il diritto esistente e le sue interpretazioni.   

E nulla toglie a questa considerazione di fondo il fatto che il diritto formale, dichiarandosi l’unico esistente, non riconosca altre forme. Il problema, infatti, di che cosa sia Diritto, non lo decide il Diritto formale che si autodichiara l’unico, ma chi di fatto lo crea e chi scientificamente lo vede, per lo meno in quei punti d’incrocio  apicali  il  cui  disconoscimento  sarebbe  inefficace.  Si  pensi,  in proposito, a quelle sedi e a quei momenti apicali in cui il diritto viene prodotto e deciso:  ai  momenti  topici,  cioè,  in  cui  esso  è  praticato,  cercato,  trovato, dichiarato,  costituito,  interpetrato,  applicato,  eseguito,  fatto  vivere,  anche nonostante ogni affermazione formale contraria.  

In queste  sedi  – nodi  effettuali della  rete giuridica  –  chi  identifica  il diritto come  tale  permanentemente  lo  istituisce  e  lo  fa  vivere. Questo Diritto,  in  realtà, nasce  sotto  la  pressione  permanente  dell’attività  sociale  regolatrice  che  in determinati soggetti,  in modo più o meno riflesso, matura. Un fatto è certo: un tale Diritto  –  lo  si voglia o no  –  si  fa o  concorre  a  farsi decisione giuridica  e ordine giuridico. E concorre a identificare, intersecare, modellare e rimodellare significati giuridici.  

Se è vero, quindi, che il diritto è quello identificato – e permanentemente re‐istituito – da chi ha la forza di renderlo vivente e indisconoscibile; se è vero che il  diritto  non  è  solo  quello  formale, ma  anche  quello  vivente  in  forme  reali, concorrendo a rimodellare  identificazioni e  interpretazioni; e se è vero,  infine, che il diritto è, al tempo stesso, l’autoregolazione vissuta e costante con cui una società  orienta  i  comportamenti  ricognitivi  e  interpetrativi del  suo diritto; da 

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tutto ciò deriva che il diritto si esprime non solo in un ordinamento formale ma in  orientamenti  vissuti  e  riflessi  che  sono  “principi”. Per  giunta,  giuridici,  in quanto  esteriormente  vincolanti.  Si  tratta  di  “principi”  che  non  appaiono  – almeno  innanzi  tutto  e  per  lo  più  –  per  investigazione  razionale  diretta, ma, piuttosto,  per  emersione  contrastiva  da  situazioni  concrete  che,  all’improvviso, bucando il tessuto del previsto, ne accendano l’impensato.  

E valga il vero. Ronald Dworkin, in un passo del suo testo più noto, I diritti presi  sul  serio,  ricorda:  “Nel  1889 un  tribunale di New York, nel  famoso  caso Riggs  v.  Palmer,  doveva  decidere  se  una  persona,  designata  erede  nel testamento di suo nonno, potesse ereditare in base a quel testamento, sebbene a tale scopo avesse assassinato il nonno. Il tribunale iniziava il suo ragionamento con  questa  ammissione:  «E’  vero  che  le  leggi  che  disciplinano  la  stesura,  la prova, gli effetti dei testamenti e la trasmissione della proprietà, se interpretate alla lettera, e non potendosi in alcun modo o in alcuna circostanza attenuarne la forza e gli effetti, attribuiscono questa proprietà all’assassino». Ma  il  tribunale continuava osservando che «tutte le leggi, come tutti i contratti, possono essere attenuate  nel  loro  operare  e  nei  loro  effetti  dalle  generali  e  fondamentali massime  del  common  law.  A  nessuno  sarà  permesso  di  trarre  profitto  dalla propria frode, o di trarre vantaggio dal suo illecito, o di fondare una pretesa sul suo  comportamento  iniquo,  o  di  acquisire  una  proprietà  per  mezzo  di  un delitto»”. E Dworkin conclude: “L’assassino non ottenne la sua proprietà2”.  

A ben vedere, nella situazione prospettatasi ai giudici emergeva un fatto che appariva  nuovo  in  quanto  non  previsto  prima:  risultava  nominato  erede  dal testatore colui che l’aveva assassinato. Si trattava, a dire il vero, di un fatto che poteva essere percepito come ‘nuovo’ solo alla luce di una considerazione cruciale. Solo alla luce, cioè, della considerazione – da cui risultava difficile prescindere – che  non  fosse  concepibile  come  prevista  con  favore  dall’ordinamento  una situazione  in cui  l’assassino potesse ereditare dall’assassinato. In realtà,  in una situazione  come  questa  si  avvertiva,  imperiosa,  la  rivolta  della  coscienza comune  contro  una  qualsiasi  interpretazione  che  vedesse  in  questo  caso  un qualsiasi caso di successione ereditaria, solo occasionalmente accompagnato dalla circostanza che l’erede era anche l’assassino del testatore. La coscienza comune si  rivoltava,  cioè, davanti  all’ipotesi  che  il  fatto  accaduto potesse  considerarsi non dissimile dagli altri casi di successione ereditaria, e quindi non nuovo.  

Ma una tale percezione di ‘novità’ non era, a ben vedere, la mera percezione di un ‘dato’, ma di un punto di vista. Infatti, l’identificazione di un tale fatto come ‘nuovo’ nasceva dalla percezione dell’ordinamento  come  lacunoso  sul punto. E, d’altra parte, la percezione dell’ordinamento come lacunoso sul punto nasceva, a  sua volta, dal bisogno  ineludibile di assumere nella  situazione data un’altra regola  che,  restringendo  l’area  semantica della  regola positivamente normante, escludesse dalla successione ereditaria l’erede assassino sulla base del principio  2 R. Dworkin, I diritti presi sul serio, Il Mulino, Bologna, 1982, p. 91. 

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che non si potesse succedere in questo caso, perché sarebbe stato violentemente iniquo il poter trarre profitto da un proprio delitto.   Intendiamoci. Se si ragionasse, qui, invece, secondo il modello con cui Hans 

Kelsen  giuridicamente  ragiona,  ossia  secondo  la  concezione  del  più  radicale giuspositivismo,  in  questo  caso  non  ci  troveremmo  davanti  a  nessun  fatto ‘dissimile’ o ‘nuovo’ o ‘non previsto’ – e, quindi, non ci troveremmo davanti a nessuna  lacuna dell’ordinamento. Per Kelsen,  infatti,  l’ordinamento giuridico, nella sua positività, dovrebbe essere considerato, anche  in una  tale situazione, niente  affatto  lacunoso.    Perché  esso,  non  indicando  esplicite  eccezioni  alla possibilità  di  ereditare,  prevede  in  realtà,  in  questo  caso,  che  il  chiamato all’eredità  possa  succedere  al  testatore  che  l’abbia  nominato  a  prescindere  dal delitto  da  lui  consumato,  non  avendo  rilevanza  alcuna,  per  l’ordinamento giuridico  considerato  (altrimenti  l’avrebbe  disposto),  la  circostanza  per  cui  il chiamato  all’eredità  abbia  ucciso  il  testatore.  Per  la  concezione  kelseniana, infatti,  affermare,  contra  l’ordinamento  positivo,  che  esso  avrebbe  dovuto prevedere un tal caso come dissimile dagli altri – da disciplinare, quindi, con una regola diversa – significherebbe semplicemente affermare che si desidererebbe che in questo caso l’ordinamento avesse disposto diversamente da come ha disposto. Il che  vuol  dire  che  la  pretesa  ‘lacuna’  contestata  all’ordinamento  giuridico positivo  è,  in  questo  caso,  null’altro  che  l’avvertita  discrepanza  morale  fra l’ordinamento giuridico esistente e l’ordinamento giuridico desiderato. Ma, come si sa, secondo  il modello giuspositivistico,  l’ordinamento giuridico desiderato non è diritto.    L’idea di  ‘lacuna’ quindi,  in  tali coordinate di pensiero, diventa null’altro 

che il travestimento ideologico del proprio desiderio di vedere, in quel punto della fattispecie, operare un diverso ordinamento – o un diverso suo segmento.    Il problema del ‘principio’ nasce qui. Ci si domanda, a questo punto: l’idea 

che  il  significato  della  norma  debba  essere  semanticamente  ristretto  secondo  il principio per cui nessuno può trarre vantaggio dal proprio delitto, nasce da un mero  desiderio  di  sottrarsi  all’ordinamento  giuridico  –  ossia,  da  una  vaga aspirazione morale a uscire dalla sua cogenza tassativa – oppure nasce, invece, da un vincolante principio giuridico, enucleabile dallo stesso ordinamento o altrove?    Precisiamo  un  primo  punto.  Oggi,  a  meno  che  non  si  voglia  ragionare 

secondo  il  modello  kelseniano,  l’incompletezza  strutturale  dell’ordinamento giuridico  –  di  ogni  ordinamento  giuridico  –  è  stata  oggetto  di  convincenti argomentazioni. Ci basti qui ricordare la serrata discussione svolta da Norberto Bobbio in Teoria dell’ordinamento giuridico, là dove egli individua le deficienze di quelle teorie – come quella dello ‘spazio giuridico pieno e vuoto’ e quella della ‘norma generale esclusiva’ –  che  intendevano dimostrare  in modo  rigoroso  la completezza  di  ogni  ordinamento  giuridico. Né  va  dimenticata,  in  proposito,  anche  la  teoria  dell’incompletezza  di  Kurt  Gödel,  valida  per  ogni  sistema teorico, e quindi anche per un sistema giuridico. Né va soprattutto  trascurato 

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che un  sistema di norme non può  essere  completo non  solo perché non può prevedere, di fatto, la totalità dei casi possibili, ma anche e soprattutto perché, pur nello sforzo di prevederli, non può conoscere la totalità delle condizioni che sottostanno al suo sistema di previsione.     Un  ordinamento  giuridico,  quindi,  è,  contrariamente  a  ogni  pretesa 

scientifica di completezza, sempre incompleto, per lo meno nel senso che ci sono situazioni  ermeneutiche  in  cui,  come  osserva  ancora  Bobbio,  non  è  possibile dimostrare  se  si  debba  applicare  la  ‘norma  generale  esclusiva’  o  la  ‘norma generale  inclusiva’,  le  quali  accompagnano  ogni  norma  –  essendo,  fra  l’altro, impossibile la presenza permanente di una metanorma che in via astratta e generale decida.  Infatti,  anche  se  è  sempre  pensabile  la  presenza  di  un  criterio positivizzato  con  cui  distinguere  quando  si  debba  applicare  una  ‘norma’  e quando un’altra, non è pensabile che, a una seconda potenza, esista sempre un criterio positivizzato con cui distinguere come  interpretare quel criterio – ossia con quali criteri si debbano interpretare i criteri. Il risultato teorico è che resta, sempre,  in  un  ordinamento  giuridico,  un  varco  ermeneutico  ineludibile  e indecidibile. E la lacuna, per Bobbio, è configurabile proprio in questa luce: come l’assenza di una norma che, applicandosi a norme, permanentemente predecida se debba  –  sul  punto  –  applicarsi  la  ‘norma  generale  esclusiva’  o  la  ‘norma generale inclusiva’. Un tale fenomeno di indecidibilità interpretativa mostra come il  linguaggio  abbia  una  sua  costitutiva  ambiguità:  donde  una  situazione ermeneutica  in  cui non  è pensabile  la presenza  permanente di una norma  che stabilisca,  in generale  e una volta per  tutte,  come  sciogliere  tale ambiguità  (ove, infatti,  una  tale  ‘metanorma’  esistesse,  sarebbe  pur  sempre  anch’essa  da interpretare  –  in  un  indomabile  e  indominabile  regresso  all’infinito). Non  a caso, Herbert Hart  ha  sostenuto  che  il  diritto  ha  sempre  una  struttura  aperta: ossia,  costitutivamente  esposta  a  più  interpretazioni  possibili,  di  cui  mai  è predecidibile in via astratta e generale la chiave ultimativa3.    Tali  osservazioni  possono mettere  in  luce,  in  realtà,  come  sia  proprio  la 

concezione kelseniana a rivelarsi, su un  tale punto, surrettiziamente  ideologica, se  e  in  quanto  essa  medesima  muove  dalla  finzione,  non  confessata,  che l’ordinamento giuridico esistente contenga già tutte le soluzioni per tutti i casi e che,  in questa  chiave, a quest’unico ordinamento occorra  riferirsi per  regolare tutte  le  situazioni  possibili.  O,  ancora  più  precisamente,  potrà  dirsi  che  la concezione  kelseniana  della  cosiddetta  ‘dottrina  pura’  sceglie  –  fra  le  tante possibili finzioni – la sua, occultando che è pur sempre una finzione.  

     3 H. Hart, Il concetto di diritto, Einaudi, Torino, 1991. 

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12. Per uno statuto epistemologico della persona  La situazione dei nostri  tempi è certamente  inquietante. Ma nella storia dei 

popoli è importante non solo cogliere la realtà massiva che inquieta, ma anche ciò che, pur debole, esprime,  in punte alte e circoscritte, un progresso morale dell’umanità.  Come  già  osservava  Giuseppe  Capograssi,  la  Dichiarazione Universale  del  1948,  rovesciando  il  rapporto  fra  sovranità  e  diritti  individuali, costituiva un progresso morale cruciale anche se gli Stati firmatari fossero stati ad essa ipocritamente indotti dalla percezione di una pubblica opinione mondiale al cui giudizio si sentivano sottoposti.  

Si osservi. Ricorre sempre più, nelle Dichiarazioni, nelle Costituzioni e nelle Convenzioni,  la  ‘persona’.  Che  è,  forse,  oggi  la  nuova  scoperta  –  scoperta d’antico! – del Jus.  

Come  si  è  in  più  sedi  sottolineato,  la  persona  non  è  la  semplice  nozione dell’uomo  in   generale. Perché essa è, almeno  in una prima approssimazione, l’uomo concreto, visto nella sua irriducibile singolarità. In quanto tale, l’idea di ‘persona’ non è sovrapponibile a quella di  ‘individuo’.  ‘Persona’ e  ‘Individuo’, infatti, hanno significato uguale e senso diverso. Sia la persona sia l’individuo si riferiscono  al  singolo  uomo  concreto  (uguale  significato),  ma,  mentre  nella percezione epistemologica dell’‘individuo’ non rileva la differenza di uno da un altro, nella persona  la  distinzione  di  ognuno  da  ogni  altro  è  a  fondamento  del  suo senso. 

Occorre  partire,  quindi,  da  una  ‘dignità  epistemologica’  della  persona  che concettualmente preceda la sua  ‘dignità assiologica’. Come dare, in questo senso, le linee di uno statuto epistemologico della persona? Essa è coglibile all’incrocio fra tre coordinate, non separabili, pena lo snaturamento del loro senso: unicità, relazionalità, profondità. 

1.  La  persona  è  unicità.  Essa  non  è  copia  di  un’altra.  Non  è  seriale.  Non  è fungibile. E’ un novum. Un originale. Essa è necessaria a sé stessa: in lei ne va di lei e  di  tutta  lei. Non  s’individua  col  cognome, ma  col  nome. E, d’altra parte, dire ‘persona’  implica un paradosso  logico, perché si dice, con una parola, ciò che non può dirsi  con una parola;  perché  si dice,  con  la  sua  idea,  ciò  che  non  è suscettibile  di  idea;  perché  si  dice,  con  la  sua  classificazione,  ciò  che  non  è classificabile. La persona è unicità. Di cui è segnale, in un evento non solo reale ma epistemologico, il dolore.   

2. La persona è relazionalità. Essa è e manca d’essere. In quanto tale, è difettiva. Potrebbe,  qui,  richiamarsi  Agostino,  esplorando  le  sue  riflessioni  sul  male metafisico. La persona,  come dice Pietro Piovani,  est  in quanto  deest. Essa,  in quanto  difettiva  e  cosciente  di  mancare,  è  relazione,  bisognosa  di  relazione, capace  di  relazione.  Difettiva  e  fragile,  e  oscuramente  cosciente  della  sua condizione. Essa non  ‘ha’  relazioni:  ‘è’  relazione. Perché non è atomo  irrelato. Né è pensabile al di fuori delle sue relazioni come realtà precedente  le stesse, a 

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prescindere dai rapporti in cui vive, dai gruppi cui appartiene, dalla cultura in cui  opera,  dal  tempo  in  cui  è  incardinata.  La  persona  è  cura.  In  me,  ne  va dell’altro; nell’altro, di me.  

Come  la  stessa  scienza  sperimentale mostra, un uomo muore non  solo per mancanza di  cibo, ma di  relazioni. E, d’altra parte,  la dimensione  costitutiva della  relazionalità  si  coglie  non  solo  sul  piano  sincronico  –  nello  spazio  – ma, insieme,  su  quello  diacronico  –  nel  tempo. La persona,  infatti,  in una  trama di simmetrie di  cui nemmeno  si  avvede,  cerca nel  tempo  tracce  altrui  e  semina tracce di sé. Si fa fecondità di tracce (atti, opere, figli, ricordi, scritti, documenti d’arte,  il proprio medesimo nome), verso  la quale  fecondità  è  comportamento simmetrico  la  spinta profonda  a un’ermeneutica delle  tracce altrui  (atti, opere, figli,  ricordi,  scritti,  documenti  d’arte,  i  nomi  altrui,  tutta  la  frantumata archeologia  che  si  dà).  E’  la  storia  della  civiltà.  Di  cui,  nella  sua  tessitura profonda, è segnale la ‘pietà’.   

3. La persona è profondità. La ‘profondità’ non è una condizione mistica, né la semplice ‘interiorità’, ma il complesso di possibili che nella persona vivono e che non potranno mai  in  toto darsi alla  luce. Aristotele diceva  che “quel  che ogni cosa  è  quando  ha  compiuto  il  suo  sviluppo,  noi  lo  diciamo  la  sua  natura”4. Questa ‘natura’ non dice la persona. La quale, infatti, non è soltanto lo sviluppo e la storia in cui si è espressa. Non è solo ciò che è stata, ma tutto ciò che poteva essere e non fu. Essa è centro di possibili. Lo sviluppo dice l’essere del genus che nella persona si dà, non la persona. Se ne desume una profondità a più livelli: 1. una profondità di livello primo, che è la storicità in quanto sviluppo nel tempo; 2. una profondità di livello secondo per la quale la persona è più di ciò che appare; 3. una  profondità  di  livello  terzo,  che  è  il  mondo  dei  possibili,  cui  appartiene, insieme con l’emerso, tutto ciò che non ebbe il tempo o le condizioni per darsi alla  luce:  in  ogni  uomo,  infatti,  quiescono  tanti  percorsi  possibili  –  tanti  ‘io’ possibili –  su cui non c’è possibile sguardo esaustivo; 4. una profondità di livello quarto, per cui quel ‘centro di possibili’ si dà non come catena di cause, ma come un’istanza  di  fondo  abitata  da  una  domanda  di  senso. Un  tale  ‘possibile’  è, nell’orizzonte della persona, dimensione costitutiva del suo essere ciò che è. E, quindi,  un  infinito.  Un  infinito  di  potenza  non  qualsiasi ma  determinata:  un transfinito. Si  tratta di una  ‘profondità’  che, vista  ex  post,  è  ‘possibilità’  (come resistenza  alla  totalizzazione  concettuale),  e,  vista  ex  ante,  ‘libertà’.  Perché  la libertà è  la profondità al grado avvenire.  Il cui essere è  il possibile: un posse – non solo dynamis ma enérgheia in cammino – da cui emerge un’istanza profonda, radicalmente  irriducibile  alla  catena meccanica  delle  cause  da  cui  pur  fluisce: l’interrogazione del senso.  

La persona  –  infinito possibile  abitato da un’istanza di  senso  –  è  un  abisso ontologico.  Abisso  –  Ab‐Grund  –  il  cui  fondamento  –  il  cui  Grund,  –  è  nella relazione con gli altri, divisi eppure  indivisibili da  lui. Grund dal quale  la sua  4 Aristotele, Politica, 1252 b, 30. 

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possibile  forza acquista sponda,  limite, specchio, provocazione al risveglio, messa  in forma, possibile luce.  

La persona, abisso ontologico, è più di quello che appare. E,  in quanto  tale, pudore. Che è il sentimento dei confini e il timore complesso a non varcarli e a non  farli varcare. Perché  si  teme  che,  da un  lato,  si  scrutino  i propri punti di fragilità e, dall’altro,  si  riduca  l’oggetto  scrutato a un  repertorio di dati, a una pura catena di cause, senza domanda di senso e senza  libertà. Chi oggettiva e banalizza  l’altro,  infatti,  tende a  ridurlo a una  copia. A una  riproducibile copia. Rispetto a ogni atteggiamento che ci riduca a copia, la resistenza indomabile – ontologica resistenza, ben prima che psicologica – è il ‘pudore’. Di cui si rivelano espressioni fenomenologiche forti il rispetto dei vivi, la venerazione dei morti, il timor  sacro  di  punizioni,  l’idea  di  un Dio  Provvidente,  la  percezione  di  un Senso che erompa da una catena di cause di cui appare paradossale la causa. In questo senso, la persona è più di ogni preteso giudizio definitivo su essa, perché la sua profondità si pone oltre ogni definitività. Con tutto ciò che, in termini etici e giuridici, consegue. 

Se  la pietà dice  la  relazione  e  il pudore  la  profondità, può  cogliersi,  qui, un nesso profondo fra esse. Si delinea infatti, alla scala della persona, un rapporto fra relatio e revelatio5. La persona, cioè, nella sua differenza, è costitutiva apertura, orizzontale e verticale.  In essa,  la  ratio è  relatio e  revelatio. Là dove  si  tratta di cogliere, in termini filosofici e non soltanto teologici, il senso dell’agostiniano ‘Dio mi  è più  intimo della mia  intimità’. Sentiero  sul quale  ci  si può avviare anche a partire  da  prospettive molto  diverse:  da  una  riflessione  filosofico‐psicologica come  quella  di  Ignacio Matte  Blanco  e  da  una  riflessione  biofilosofica  come quella di Antonio Damasio. 

Émile Benveniste sottolinea il nesso coglibile – nella costellazione semantica dell’‘aidòs’  greco  (il  ‘pudore’)  –  fra  ‘pudore’  e  ‘onore’.  Se  il  pudore,  infatti, spinge al profondo rispettare, l’onore sollecita, soprattutto, al profondo agire. E il ‘pudore‐onore’ si rivela,  in un  tale contesto, centro di radicamento della dignità. La  quale  è  una  ‘majestas’.  Di  carattere  onto‐epistemologico  ben  prima  che assiologico. Fatta di prerogative e di vincoli. Di attrazione e di rispetto. Di diritti e doveri  originari. Costituendo  fine  in  sé. Nel  significato  complesso del poter porsi come fine e del non poter sottrarsi alla propria forza di fine. 

In  questo  senso,  la  dignità  è  una  ‘maiestas’  in  cui  si  rivela  una  traccia  del sacro. Còlto nei limiti della ragione. Il ‘sacro’, infatti, assunto nella sua origine dal ‘numinoso’,  nasconde  una  forza  assoluta  che  è  fonte  primordiale  di ammirazione e  terrore. E che, come  tale,  comanda  e vieta, assolutamente domina, lega. A pena della vita.  In quanto  comanda  e vieta, è  fonte di diritti e doveri;  in quanto  domina,  fonte  di  soggezione  e  rispetto;  in  quanto  lega,  fonte  di  una condivisione essenziale a cui è impossibile sfuggire. 

5 Sul doppio livello della ‘revelatio’ ha insistito più volte il teologo Bruno Forte. Per altri versi, si veda  V. Vitello, La voce riflessa. Logica ed etica della contraddizione, Lanfranchi, Milano, 2004. 

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In questa dignità vive  il valore  cruciale che Giambattista Vico, nel De Uno, chiama,  in  opposizione  a Hobbes,  l’Homo  homini  deus.  In  cui,  non  a  caso,  si dànno  i  valori  dell’unicità,  del  pudore  e  della  pietà:  dell’unicità,  della profondità e del legame. 

Una  frase  scherzosa  dice  che  in  ogni  grasso  c’è  un  magro  che  fa  sforzi immani  per  essere  riconosciuto.  Espunto  ogni  possibile  scherzo  da  una  tale espressione, potremmo trarne l’immagine per capire come in ogni corpo (corpo intelligente  complesso,  ‘pensoso’)  ci  sia  una  persona  che  cerca  di  essere riconosciuta. Marc Augé ha scritto che un uomo concreto si delinea all’interno di un’appartenenza  biologica,  di  un’appartenenza  culturale  e  di  un’appartenenza storica6. Ma  un  tale  uomo  è  ancora  un  seriale  individuo:  esso  non  intercetta quell’unità di senso che è la ‘persona’. Che è – all’interno di più appartenenze – un atto di esistere unico, relazionato, profondo. Non confondibile col fondo comune da cui pur emerge.   Si  badi.  Nel  paradigma  epistemologico  della  persona  è  riconoscibile,  in 

qualche misura,  uno  statuto  assiologico7. A  ben  guardare,  tre  atti  negano  la persona, violandone nichilisticamente le coordinate. 

a. “Tu per me non sei che una copia, un ente seriale”. Perché – per me – in te non c’è traccia di te, e in un tale non esservi traccia, ne va di te. 

b. “Io non ho per te nessun interesse, perché per me sei un assente”. In me di te non c’è traccia, né ci sarà. Io non ho alcuna cura di te. Esattamente nei termini radicali  in  cui  Kolja  Krasotkin  si  rivolge  al  compagno  Kartasëv  nei  Fratelli Karamazov, durante  il funerale del piccolo Iliuscia, quando gli  intima di tacere, dal momento che “nessuno parla con voi, e non desidera neppur sapere se ci siate o no al mondo”8. E’ il massimo attacco d’indifferenza sferrato da chi non vuol sapere nulla dell’altro: da quel Kolja che pur, poco prima, dichiarava ad Alioscia  di  invidiare  chi  può  morire,  come  martire  ignoto  e  innocente,  per l’intera  umanità.  Qui,  la  contraddizione  fra  un’umanità  come mera  nozione generale  e una persona  in  carne  e  ossa  è  lampante:  chi  si dichiara disposto  a morire eroicamente e oscuramente per l’umanità, non è disposto a sopportare la presenza di una sola persona! 

c. “Io di te mi sono appropriato, conoscitivamente e praticamente”. E non solo vietandoti  comportamenti,  ma  favorendoli  e  potenziandoli,  e  soprattutto impossessandomi di te.  

Quali,  invece, gli atteggiamenti che negano queste negazioni? Diremmo che sono  il riconoscimento dell’altro,  la compassione per  l’altro e  il pudore. Là dove  il riconoscimento  dell’altro  avviene  non  per  intersezione  concettuale  di  dati 

6 Marc Augé, L’uomo trino e uno, in “Micromega”, n. 4/ 2005, pp. 103 ss. 7  Né  ciò  significa  ‘fallacia  naturalistica’:  sul  punto,  Giuseppe  Limome,  Il  sacro  come  la contraddizione rubata, Jovene, Napoli, 2000, pp. 31 ss. 8 Fëdor Dostoevskij, I fratelli Karamazov, Einaudi, Torino, 1993, p. 1013. 

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(‘calcolo  logico’), ma  per  intuizione:  quella  che  coglie,  dell’altro,  l’irriducibile simplicitas.    Si  badi. Una  ‘persona’,  pur  unica,  non  è mai  pensabile  elidendo  gli  spazi 

intermedi  che  la  legano  alla  famiglia,  ai  gruppi,  alle  patrie,  alle  culture  di appartenenza. Una  persona  non  può  essere  pensata  se  non  nella  sua  rete  di relazioni.  

Davanti  all’alternativa  fra  individuo  e  rete  di  relazioni  ci  mettono,  invece, soprattutto negli Stati Uniti,  le  teorie  ‘liberali’ e quelle  ‘comunitarie’. L’idea di ‘persona’ è, in un tale contesto dilemmatico, la strada che ne rompe la struttura, dissolvendone  i  termini. Perché questa  ‘persona’ è  la  singolarità  concreta che, stando  in  tutti  i  gruppi  in  cui  è  radicata,  è  indissolvibile  in  essi.  Ciò  che caratterizza questa ‘persona’ è non l’uguaglianza, ma la differenza. Dal cui luogo essa invoca la sua dignità – ossia il suo diritto a una considerazione universale, corrosiva di ogni ‘universale’ formulato troppo presto.   13. L’irriducibile e la radice  Se  interroghiamo  la  persona  come  unicità,  essa  è,  in  un  tale  orizzonte, 

irriducibile.  In  tre  sensi  specifici,  esprimenti  un  livello  verticale  e  un  livello orizzontale:  nel  senso  che  una  persona  non  è  riducibile  a  un’altra  (altrimenti sarebbe un complesso seriale: una copia); nel senso che essa non è riducibile in parti che epistemologicamente la precedano; e nel senso che non è riducibile a una Totalità che epistemologicamente l’assorba. 

In questo  senso,  la persona  sta  fra  indivisibilità  (in parti),  indissolvibilità  (nel Tutto)  e  infungibilità  (con  altre  persone).  In  quanto  indivisibile  –  o,  più specificamente, in quanto divisibile solo per sé stessa e per l’unità – la persona, come altrove dicevamo, ha lo statuto teorico di un numero primo. Essa sta alle pretese sue parti come sta alla Totalità. Se chiamiamo ‘p’ le parti, ‘P’ la persona e ‘T’ la Totalità, abbiamo:                                 p: P = P: T  La persona, quindi, è il medio proporzionale fra le parti e la Totalità.  Posto  che  il medio  proporzionale  fra  estremi  è  la  loro  comune  radice,  la 

persona è, fra l’universo atomistico e l’universo totale, la loro comune radice.  Una tale ‘irriducibilità’ acquista ulteriori significati, se la si interroga non solo 

sull’asse  dell’unicità,  ma,  al  tempo  stesso,  su  quello  della  profondità  e  della relazione. La persona, infatti, è  irriducibile a ciò che ci appare e a una qualsiasi totalizzazione concettuale; così come è irriducibile alle sue relazioni sociali e al suo  mondo  storico.  Pertanto,  essa  non  si  riduce  né  a  una  componentistica 

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biologica, né fenomenica, né relazionale, né culturale, né storica, né concettuale. Essa  è  –  tout  court  –  l’irriducibile. E,  in  quanto  tale,  non  semplice  individuo  o membro di una classe, ma un mondo. Un universo. E il mondo, il suo multiverso.   14. Dal giusnaturalismo al giuspersonalismo  Nella  temperie  d’oggi  è  forse  possibile  rivisitare  e  reimpostare  alcune 

categorie  venerabili  consegnateci  dalla  tradizione.  Parleremmo,  qui, innanzitutto ma non soltanto, di “giusnaturalismo” e di “giuspositivismo”. 

Veniamo  al  “giusnaturalismo”.  E’  fin  troppo  noto  che  questo  termine  è equivoco, perché –  in quanto allude a un  supposto “diritto di natura”, ove  si accetti  che una “natura” esista e  che abbia un  suo “diritto”  (un  suo principio strutturale)  –  il  ‘giusnaturalismo’  può  riferirsi  a  un  diritto  strutturato  sia  nel cosmo,  sia  negli  esseri  animati,  sia  negli  esseri  razionali.  Quale  sia  un  tale principio,  a questo punto,  è domanda possibile  e necessaria:  che potrà avere, nell’universo giusnaturalistico, risposte diverse. Non a caso,  il ventaglio potrà andare da un puro “diritto della forza” (e si sa quanto i sofisti – e non solo essi – abbiano  insistito  su questo punto) a un “diritto degl’istinti”, a un “diritto dei sentimenti”,  fino  a  un  “diritto  della  ragione”.  E’  noto  quanto  il  cosiddetto “giusnaturalismo moderno”  si  sia  fondato  su  quest’ultima  opzione  (il  diritto naturale  come  diritto  della  ragione,  con  particolare  riguardo  alla  ragione soggettiva),  fino  al  punto  da  essere  chiamato,  più  correttamente  e inequivocamente, “giusrazionalismo”.  

Veniamo al “giuspositivismo”. E’ altrettanto noto che anche un tale termine si  pone,  a  rigore,  come  equivoco,  perché  –  in  quanto  allude  a  un  “diritto positivo  (posto  con  forza  effettiva da una Potestà)  – può  riferirsi  sia    al mero insieme di comandi del sovrano sia a un ordinamento normativo formalmente e linguisticamente ricostruito dalla scienza giuridica attraverso un procedimento permanente di elucidazione. 

Siamo  perfettamente  consapevoli  che  le  categorie  qui  presentate appartengono  a  un  universo  problematico  nel  quale  concorrono  molte  altre possibili  istanze  dottrinali.  Basti  pensare,  soltanto,  al  “diritto  libero”, all’ermeneutica,  al  “realismo  giuridico”  (nelle  sue  molteplici  varianti),  alle forme  di  un  giuspositivismo  atipico  essenzialmente  fondato  su  “princípi” (Ronald Dworkin), e ad altre ancora. 

Pur  nella  consapevolezza  della  complessità  del  dibattito,  vorremmo richiamare  l’attenzione  su  un  punto.  Guardando  al  giuspositivismo,  se assumiamo  come  termine  di  riferimento maturo  quello  kelseniano,  ci  si  può domandare: che cos’è mai  lo Stato, ossia  l’ordinamento giuridico che nelle sue forme  lo  consuma?  E’ Kelsen  stesso  che,  come  è  noto,  fin  dagl’inizi  del  suo percorso  intellettuale,  risponde:  lo  Stato,  e  il  diritto  in  cui  esso  si  esprime,  è 

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l’organizzazione  della  forza  (Macht).  Più  tardi, Kelsen  stesso  sarà  ancora  più disincantato  e  preciso:  lo  Stato,  e  il  diritto  in  cui  esso  si  esprime,  è l’organizzazione della violenza (Gewalt).  

Ci si domanda: se il diritto è l’organizzazione della forza, una tale concezione non  appare  affatto  lontana da  quella di  chi  ha  sostenuto un  giusnaturalismo della  forza.  Certo,  si  tratta  di  un  giusnaturalismo  puntualmente  specificato,  in quanto attribuisce una preferenza simbolica a quella forza organizzata che è lo Stato: ma, ciò precisato, l’iscrizione del giuspositivismo in un “giusnaturalismo della forza” non può essere negato. 

Certamente, nella decostruzione del  testo kelseniano vanno  tenuti  in  conto essenziale  altri  fattori:  l’idea  razionale  di  ordine,  l’idea  formale  di  linguaggio, l’idea  linguistica  di  proposizione  normativa,  l’idea  epistemologica  di  scienza moderna.  In  questo  senso,  il diritto  è  concepito  come  l’organizzazione di una forza che si esprime  in un ordine  logico‐linguistico di cui è, al tempo stesso, a livelli diversi di intervento strutturale, co‐generatrice e ricostruttrice la ragione scientifica – ossia la scienza giuridica. 

Questo  è  certamente  vero, ma  non  inficia  la  considerazione  fondamentale: spogliato di ogni orpello,  il giuspositivismo è un giusnaturalismo della  forza: della  forza  statuale  in quanto  effettiva,  riflessa  ed  elucidata nelle  forme di un ordine  logico‐linguistico  co‐generato  e  ricostruito  dalla  ragione  della  scienza nelle forme della modernità. Non a caso, come si sa,  il giuspositivismo è nato, per  una  paradossale  eterogenesi  dei  fini,  dalla  positivizzazione  statuale  del giusrazionalismo in epoca post‐illuminista. Ma  il diritto pensato dai giuspositivisti oggi è messo sempre più  in crisi da 

due  processi  diversi  e  convergenti:  da  un  lato,  il  crescere  di  fenomeni  di globalizzazione  e  di  aggregazioni  soprastatuali  che  fanno  decrescere  la  forza dello Stato,  anche dal punto di vista  strettamente ordinamentale. Dall’altro,  il crescere di una  sensibilità,  culturale  e  teorica, verso quei  diritti  che non  sono diritti  qualsiasi,  giuspositivisticamente  e  giustatualisticamente  fondati,  ma diritti  più forti, a valenza (statuale e/o suprastatuale) costituzionale. 

In  realtà,  il  processo  in  atto,  più  che  determinare  ex  novo  un  fenomeno, semplicemente rende visibile ciò che nei tempi precedenti, pur invisibile, continuava giuridicamente  a  sussistere:  ossia  l’esistenza  – di  cui dicevamo  – di un diritto come attività della società nel suo complesso, mirante a un ordine garantito. In questo senso,  i processi  indicati  fanno solo riapparire alla  luce ciò che già c’è. Non producono, ma rivelano.  

Si noti. Non  c’è diritto  che non  sia  riconosciuto  e  fatto vivere  –  attraverso soggetti a  ciò deputati – nel  suo  evolversi. Ma  è  fondamentale  sottolineare  che dietro  e  sotto  il  fatto  dell’evolversi  del  diritto  vive  –  talpa  celata  ma indisconoscibile  –  un  principio  non  visto:  quello  della  necessità  di  rimodellare continuamente  l’identificazione  del  diritto  che  la  società  si  dà;  così  come  è fondamentale  sottolineare  che  dietro  e  sotto  il  fatto  dell’evolversi  del  diritto 

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vivono,  proprio  a  partire  da  un  tale  principio,  i  sempre  nuovi  princípi  – consapevoli o  inconsapevoli – con cui si rimodellano  interpretazioni e applicazioni. Se a monte del diritto c’è  il suo riconoscimento  (Herbert Hart), a monte del suo riconoscimento c’è  l’attività regolatrice di una società che attraverso adeguati soggetti origina e mette in circolo princípi di identificazione – fra i quali, a un livello primo, di fondo,  il  principio  del  dover  continuamente  rimodellare  individuazione  e interpretazioni del diritto e, a un  livello secondo,  i principi più specifici attraverso cui rimodellare l’una e le altre.  

Una più matura consapevolezza dei processi globali  in atto,  insieme con  la nuova  sensibilità  teorica  per  i  diritti  fondamentali,  spinge  ad  andare  oltre  le tante  –  pur  raffinate  –  concezioni  del  diritto:  per  passare  dalla  filosofia  del diritto  alla  filosofia  dei  diritti  e  dalla  filosofia  dei  diritti  alla  filosofia  della dignità. Dignità  che  è,  in  senso  etico  e giuridico,  il  fondamento del diritto  ai diritti. E del diritto ai doveri.   

La  cultura  che  oggi  s’impone,  infatti,  all’attenzione  come  risposta  alta  alle sfide della globalizzazione è una cultura non dei diritti tout court, ma dei diritti fondamentali, ossia di quei diritti che prevalgono sulle stesse leggi. Diritti la cui sostanza etica e giuridica celata è la dignità di ogni essere umano, assunto nella sua concretezza e nella sua differenza da ogni altro. Dignità che è pertinente al singolare, non a un genus o una species. E che è da  intendere non solo al grado passivo,  come  mera  aspettazione  di  soccorsi,  ma  al  grado  attivo,  come promozione di identità relazionate e di possibilità. 

Su  questi  diritti  fondamentali  oggi  esistono  molte  Carte  internazionali  – Carte che non riguardano solo il mondo occidentale ma anche quello islamico, orientale, africano. Si  tratta di Carte differenti che, seppur  in  lessico giuridico, sono un diversificato commentario al problema della dignità. Il cui fondamento, prima e più che nella potestas degli Stati, è, per  impiegare un modello caro ai Romani, nell’auctoritas di un Jus degno di riconoscimento e di ossequio.     

È  giunto,  forse,  il  tempo  in  cui  mettere  in  discussione  la  necessità giustificativa  della  sola  “ragione”.  Assumendo  come  criterio  strutturale  un principio  altro,  non  necessariamente  sostitutivo  ma,  almeno,  qualificativo:  la “persona”.  

Si  tratta  di  ripartire,  cioè,  da  un’ontologia  del  singolare  che  rimetta  in questione  la  ragione. A differenza di questa,  infatti,  la persona non prescinde dal  singolare, dal  corpo, dal vissuto, dalla  fragilità, dalla  condizione mortale, dalla narratività, dall’universalità iscritta nel singolare. 

Il  giusnaturalismo moderno  è  raccolto  nell’idea di una  ragione  che  scopre nella  ragione dell’uomo  il  suo diritto naturale: di  valore  universale, di natura razionale.  Si  tratta  di  una  ragione  come  principio  cognitivo  che  scava  in  una ragione  come  principio  ontologico,  còlto  alla  scala  dell’uomo. Di  una  ragione sempre più criticata e pluralizzata dal pensiero contemporaneo9.   9 Sul punto,  l’ormai  classico Pietro Piovani, Giusnaturalismo  ed  etica moderna, Liguori, Napoli, 

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Occorre  un  mutamento  di  prospettiva  che  tocchi  tutti  e  due  i  livelli  del percorso  individuato  (quello  ontologico  e  quello  cognitivo):  identificando  un principio personale (una  ‘ragione personale’) come principio cognitivo che scavi in ogni differente persona il principio ontologico della sua singolarità. Intendendo quest’ultima come atto di esistere unico, relazionato, profondo.   

Sono maturi, cioè, i tempi per passare dal giusnaturalismo al giuspersonalismo. Attraverso un giudizio  riflettente,  impiegato  in  forma nuova,  in  cui muovere dal singolare per cercare un universale mai concluso. 

L’umanità inscritta nella propria singolare concretezza è la persona. Essa non è  l’essere umano  in generale, ma  l’uomo concreto e  la sua  idea. Frutto di uno sguardo empirico e di un giudizio riflettente. Là dove si coglie radicata un’idea –  a  grado  singolare  –  con  valenza  universale,  così  come  Kant  la  coglieva nell’opera d’arte. Questa persona è,  in quanto  tale “bene comune”. Si  tratta di realizzare – qui – una vera rivoluzione nel concetto di bene comune. Non solo in  senso  etico, ma  epistemologico.  Perché  si postula  che  anche  il  singolarissimo, proprio di una persona, sia però, in quanto degno di considerazione universale, “bene  comune”.  Donde  l’imperativo  che  nessuna  maggioranza,  per  quanto ampia,  possa mai  lederne  la  consistenza.  Si  tratta  di  compiere,  in  nome  della persona, oltre Kant, una rivoluzione copernicana al quadrato che non ribalti  la prima rivoluzione ma la radicalizzi. Se è vero, infatti, che la civiltà umanista – e, a suo modo,  quella  kantiana  –  aveva  posto  al  centro  la  soggettività  umana,  la “rivoluzione copernicana al quadrato” di cui parliamo è quella che porrà, se ne avrà intellettualmente la forza, al centro della soggettività umana il suo vero centro – centro di centro – ossia l’uomo concreto, distinto da ogni altro e guardato come irrimediabile e intotalizzabile novum: la persona.  

Occorre criticamente riflettere a fondo sulla scelta – che alcuni teorici fanno – del  corpo come del  luogo più accomunante e comune. Se è vero,  infatti, che  il corpo  ci accomuna, è proprio questo medesimo  corpo  che  ci  singolarizza e  ci divide.  Il mio dolore  corporeo non  è  il  tuo, anche  se  fossimo accomunati dal massimo  di  solidarietà  viscerale.  Eppure,  è  proprio  qui  lo  scavo  teorico  da compiere:  al  massimo  livello  di  profondità.  Bisogna  riuscire  a  pensare  il “comune” non solo al primo  livello – al piano di quel  ‘comune’ che prescinde dalle singolarità in esso radicate –, ma, a un secondo e a un terzo livello, al piano, più radicale,  in cui è quello stesso comune ad avere il volto del ‘singolare’ ed è quello stesso singolare a costituire il ‘comune’. Perché il tuo dolore, che è tuo, è comune. E perché ogni  ‘comune’ ha un rivelarsi al singolare. Così come  il  tuo corpo, che è tuo, è comune pur restando tuo. Il che sarà vero anche per il ‘corpo vivente’ nel suo significato più complesso, che dice tutto ciò che sei e non una tua semplice parte. Bisogna,  cioè,  teoreticamente guadagnare  il  livello  in  cui  è  lo stesso  ‘comune’  a  essere  il  ‘singolare’  perché  è  lo  stesso  singolare  a  essere comune – e in una prospettiva in cui mai il ‘comune’ annichilisca il ‘singolare’,  2000. 

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perché quest’ultimo resta, per il giudizio riflettente che vi si ràdica e ne muove, il  suo  ‘universale  concreto’,  il  suo  ‘comune’  –  ossia  il  comune del  ‘singolare’ come singolare nel  luogo comune. In questo orizzonte,  la singolarità, restando singolarità, perché e in quanto personale, è bene comune.   L’idea  contemporanea  dei  diritti  fondamentali  custodisce,  a  nostro  avviso, 

nell’era  della  globalizzazione,  questo  straordinario  strato  filosofico,  a  sua insaputa. Essa, infatti, istituisce l’orizzonte di un “tuo” che, restando tuo, è bene comune. E  che,  in  quanto  tale,  costituisce  argine  invalicabile  nei  confronti di qualsiasi  maggioranza,  comunque  qualificata,  che  ritenga  di  poter disattenderne  la  consistenza.  In  questo  senso,  l’enucleazione  di  diritti fondamentali della persona è un commentario   –  in un catalogo mai chiuso – all’idea  stessa  del  “bene  comune”.  È  qui  il  nucleo  teorico  di  un “giuspersonalismo”  speculativo  che  lavora  attraverso  il  giudizio  riflettente come categoria speculativamente militante. Senza dimenticare che solo all’interno di un’etica della relazione – in quanto tale, aperta – può intercettarsi la persona come bene comune. Perché  la  tua  libertà,  i  tuoi diritti e  la  tua differenza sono parti  costitutive  e  fondanti  del  bene  comune,  in  quanto  parti  costitutive  e fondanti di noi tutti e di me.   

15. Per una lettura a strati   Dicevamo che i princípi stanno fra i valori e le norme. E che tutte e tre le figure 

– valori, princípi e norme – vivono insieme confuse nella società umana che si regola in un ordine.  

Se, proseguendo  sulle orme della  civiltà  romana  e di Vico,  il  Jus  è  lo  strato delle ragioni giuridiche storicamente sedimentate nel vissuto di una società e  la Lex l’eventuale precetto statuale della Potestà che le circostanzia e le completa, è qui teoreticamente introducibile un ulteriore strato di analisi: lo strato dei bisogni antropologici primordiali che permanentemente soggiace sia al ‘Jus’ sia alla ‘Lex’. I quali, pur  a  contenuto  storico variabile,  si manifestano  in una  storicità  che  si rivela null’altro che  la  forma variabile della necessità di  storificarsi. Ci  troviamo, quindi,    di  fronte  a  tre  strati:  esprimenti,  nella  loro  struttura  antropologica cogente, l’archeologia di un’esperienza giuridica universale.  Se  ricostruiamo ora  il percorso del diritto dalle norme ai princípi ai valori, 

possiamo scoprire che  in un  tale cammino a  ritroso, procedendo dalle  ragioni delle  parti  (‘norme’)  alle  ragioni  dell’intero  (‘princípi’  e  ‘valori’),  noi riconosciamo  l’architettura  a  strati  di  un  Jus  risalendo  –  lungo  i  ‘principi generali dell’ordinamento giuridico’,  i  ‘principi del diritto’, gli orientamenti di principio al diritto e i valori – fino alle fonti di legittimazione dell’ordine sociale, 

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alla  sua  giustificazione valoriale  e  al  suo  ordine di necessità. Fino  al principio dell’equità  come  costitutivo  del  diritto10.  Fino  ai  principi  vichiani  dell’umanità (come reciproco soccorrersi fra gli uomini) e del pudore (come messa in forma e in  confini della  libertà). Fino al principio, ove  siano  i  tempi maturi, per  cui  il diritto di esistere è il fondamento dell’esistere del diritto.   16. Per un nuovo paradigma della ragione  Crediamo  siano  maturi  oggi  i  tempi  per  una  nuova  concezione 

epistemologica  della  ragione.  Per  una  ragione  che,  apprendendo  dalle coordinate  della  persona  (unicità,  relazionalità,  profondità)  assuma  dalla relazione  una  sua  ineludibile  fonte  intersoggettiva  (nella  persona,  la  ‘ratio’  è ‘relatio’) e dalla forza positiva dei sentimenti la fonte del senso (nella persona, la ‘ratio’ è ‘revelatio’). Si tratta di aprire a una ragione che sappia definirsi secondo un modello non già  teoreticamente  concluso, ma  in  cammino,  a partire dalla propria singolare e storica diversità e, insieme, dal pudore e dalla pietà. 

Il  pudore,  infatti,  non  è  solo  un  bisogno  ineludibile.  Esso  è  anche,  per  un pensiero speculativo che con esso si confronti, una sfida teoretica: la domanda – rivolta al potere, alla  conoscenza e alle categorie della  scienza –  sul  se  io possa essere inteso come  esaurito dallo sguardo che – in modi anche sofisticati – mi vede dall’esterno.  Sul  se  io possa  essere  fatto  coincidere  col  repertorio dei dati  che  il potere  e  la  scienza  possono  conseguire  di me. Un  tale  ‘pudore’  non  può  non essere profondamente connesso alla ‘pietà’. E con la speranza che il varco ad essi non sia mai chiuso.  

Parliamo  del  pudore  come  limite  e  misura  di  civiltà.  Perché  sostanza soggiacente a ogni  ‘rispetto’ e argine verso ogni  ‘ragione’. E parliamo della pietà come senso del  legame nella condivisione, dei sentimenti  (‘compassione’) e della fragilità (‘sunt lacrimae rerum et pecora mortalia tangunt’).  

Il pudore e la pietà, infatti, sono sentimenti di confine. Custodi di un allarme e di una soglia. Che vale in due forme, doppiamente simmetriche: nel soccorrere e nel rispettare; nel non varcare e nel non far varcare. Soglia la cui complessa struttura, in  termini  di  ‘diritti’  e  ‘doveri’,  individua  la  ‘dignità’.  Soglia  la  cui  persistente negazione segna la catastrofe di una civiltà.  Da quando la modernità – nel suo lavoro di rifondazione analitica che tutto 

ha consumato di sé, compreso il suo fondamento – si è trovata a rendere conto a sé  stessa del  senso della  sua  rifondazione,  la  sua  eredità  teorica, di  cui  tanto bene dà conto la storia del Novecento, si è paradossalmente rovesciata.  

10 G. B. Vico, De uno universi iuris principio et fine uno, in ID., Opere giuridiche. Il Diritto universale, introduzione di N. Badaloni, a cura di P. Cristofolini, Sansoni Editore, Firenze, 1974. Vedi anche G. M. Chiodi, Equità. La categoria regolativa del diritto, Guida, Napoli, 1991. 

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Non riesce ad apparire più vero,  infatti, che porsi  il problema del senso sia un problema  senza  senso,  perché,  al  contrario,  appare  senza  senso proprio  il porsi problemi  di  verità  a  prescindere  dal  senso.  Come  in  una  nemesi  storica,  noi assistiamo forse, oggi, a una vendetta consumata da un particolare fatto sui fatti: da quel fatto che, pur negato, sempre irresistibilmente risorge e che è il bisogno di senso. Se nel mondo contemporaneo è certamente un fatto l’urgere del desiderio, tra questi fatti, anche se non riducibile ad essi, è il desiderio di senso. Se è vero che,  come  Ludwig  Wittgenstein  insegna,  l’immortalità  della  vita  non risolverebbe  il  problema  della  vita11,  è  anche  vero  che  l’onnipotenza  della ragione non risolverebbe il problema della ragione. Perché, come già in altrove scrivemmo,  “la  ragione  può,  certo,  sostenere  che  domandare  il  senso  è problema privo di senso, ma non può – nemmeno invocando Wittgenstein e la settima proposizione del Tractatus – sottrarsi all’ulteriore obiezione: come negare senso al fatto del continuo bisogno di senso e come riconoscere senso, intanto, a una ragione che questo fatto neghi?”.  

Ne nascono paradossi cruciali. A. La ragione, divenuta potenza tecnologica, non  asciuga, ma  alimenta,  i  suoi bisogni di  fondamento  e di  senso. B. Più  la ragione scientifica diventa ricca di dominio, più diventa difettiva di certezze.  

L’idea ischemica che la ragione rappresenta di sé, si rivela una para‐noia della ragione  –  ossia  un  proprio  raddoppiamento  mimetico  consumato  in  una invisibile  prigione.  Si  dà  una  paranoia  della  ragione  proprio  là  dove occorrerebbe  una  sua  metà‐noia12,  che  riesca  a  farla  scoprire  virtuosamente  s‐fondata. Sfondata in tre punti che costitutivamente le sfuggono, consegnandola alla  radicale  sua  difettività:  a.  in  senso  orizzontale  (l’apertura  costitutiva  alla relazione  con  l’altro); b.  in  senso verticale  (l’apertura  costitutiva a un profondo possibile, mai  concettualmente  consumabile,  cui  non  disappartiene  il mondo delle  emozioni,  dell’inconscio,  della  non  computerizzabile  vita);  c.  in  senso riflessivo (l’apertura costitutiva alla propria difettiva e itinerante novità).  

Simile al tiranno di platonica memoria, che tutto può sugli altri e nulla su sé, la  ragione  contemporanea  tutto può dire  su quanto  essa  fonda, nulla dei  suoi fondamenti.  Tale  esito  ha,  a  nostro  avviso,  profondamente  da  fare  con  la rivoluzione  che  nascostamente  si  annuncia,  oggi,  per  linee  invisibili,  nei rapporti confinari fra tecnologia, scienza, filosofia, religione, arte e poesia. 

Si  tratta,  in  realtà, di pensare a una  ragione  che  si ponga, da un  lato,  come relazione e, dall’altro, come apertura alla profondità e al senso. Come apertura alla  compassione  e  al  pudore.  Là  dove  la  ragione  rifiuta  la  propria autotrasparenza  fondativa,  la  propria  autoriflessione  esclusiva  e  la  propria onniscienza  inclusiva. Scoprendosi felicemente s‐fondata. Sia  in senso orizzontale (il  rapporto  con  l’altro),  sia  in  senso  verticale  (il  rapporto  col  possibile  e  col 

11  Ludwig Wittgenstein,  Tractatus  logico‐philosophicus,  a  cura  di  Amedeo  G.  Conte,  Torino, Einaudi, 1964, proposizione 6.4312, p. 80. 12 Eligio Resta, Il diritto fraterno, Laterza, Roma‐Bari, 2005, p. 123 e passim. 

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senso),  sia  in  senso  riflessivo  (il  rapporto  col  sé). Una  tale  ragione,  in  quanto tende  alle  coordinate  della  persona,  costituisce  la  persona  come  principio epistemologico  indagante  atto  a  cogliere  la  persona  come  principio  ontologico indagato.     17. La scienza giuridica come conoscenza del mondo civile e la filosofia del diritto come diritto alla filosofia  All’emersione  di  una  ragione  epistemologica  nuova  apre  varchi  possibili  la 

stessa  stagione  contemporanea.  Siamo,  oggi,  infatti,  davanti  a  una  nuova frontiera di paradossi, che possono risultare, al  tempo stesso, esiziali e virtuosi. Perché viviamo in tempi in cui, per l’esponenziale progresso tecnico‐scientifico, si dànno situazioni nuovissime  e decisive: 

a.  E’  sempre  più  grande  la  capacità  della  tecnoscienza  di  generare  effetti straordinari e di  lunga durata ed è sempre più piccola  la capacità della stessa di prevedere, calcolare e invertire tanta parte di questi effetti (evento della complessità come paradosso della inversione delle quantità cognitive);  

b. un numero sempre più piccolo di uomini può determinare un effetto sempre più devastante nella vita di tutti gli altri (paradosso della inversione delle quantità sociali);  

c.  in  angoli  sempre  più  circoscritti  del  mondo  (si  pensi  ai  possibili  effetti combinati  dei  processi  di  miniaturizzazione,  di  nanotecnologizzazione  e  di indeterminazione) possono generarsi eventi sempre più devastanti nella vita di aree sempre più grandi (paradosso della inversione delle quantità spaziali). 

Tutto ciò apre a una falda di princípi cui, forse, non si era pensato. Donde  il varco  a  un’onto‐epistemologia  del  singolare,  vista  nella  sua  capacità  di  farsi universale, rendendo provvisoria ogni formulazione di universale già conclusa.  

Dicevamo che non c’è possibile ordine sintattico del diritto senza un minimo di ordine semantico condiviso e che non c’è possibile ordine semantico del diritto senza  un minimo  di  ordine  giusto,  ossia  di  risposta  a  una  domanda  forte  di giustizia. Si può proseguire dicendo che non c’è possibile ordine giusto che non risponda alla domanda di una persona – di ogni persona – nel suo essere atto di esistenza unico, relazionato, profondo, il cui nucleo sia la dignità e il cui centro di  radicamento  sia  in  quella  singolarità  che  si  autocertifica,  senza  possibile dubbio, nel dolore. Perché il dolore è l’evento che m’incrocia e m’interroga nella mia insostituibile singolarità. Là dove non posso dubitare che sono io a soffrire e non tu, né un pensiero universale in me. Il dolore, infatti, fa gravitare me su me stesso e qui. Attestando la mia singolarità e il mio presente. Aprendo alla rottura della mia  unità  inconscia  incantata.  E  schiudendo  alla  possibile  attesa  di  un senso. Se  il dolore  è  l’atto della  singolarità  irriducibile, una  ragione degna di questo nome non può essere  insensibile al dolore di una persona – anche e a 

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maggior ragione se è muto. E non può non tradurre una tale opzione in etica e, per  quanto  possibile,  in  diritto.  Implicando  in  tal  gesto  un  riferimento  alla compassione e al pudore. Ovvero, alla relazione e alla profondità.  

I tre coni di cui dicevamo, rappresentativi di rapporti epistemologici figurati fra mondi noetici  (ordine sintattico, ordine semantico, ordine giusto), richiamano qui, a ben vedere, nel loro percorso ascendente, una quarta figura. Almeno a un certo  livello della civiltà giuridica,  infatti, non c’è possibile ordine giusto senza un minimo di ordine buono. Ciò,  in un significato del  ‘bene’ che non si  limiti a differenziarsi dal ‘giusto’ trasformando le prescrizioni universali negative (‘Non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te’) in prescrizioni universali positive (‘Fa  agli  altri  ciò  che vuoi  sia  fatto  a  te’),  come  invece  in Thomasius, ma  che esprima  quel  valore  –  fine  in  sé  –  che,  al  proprio  sommo,  rompe  ogni  ragione simmetrica,  facendo  della  dissimmetria  la  sua  regola,  con  una  promotrice  e misericorde gratuità.  

Ma un tale ‘bene’ significa, in realtà, il passaggio dall’ordine giusto all’ordine buono. Di cui punto essenziale è  l’ordine di un  fine  in sé,  la persona. La quale sempre  eccede  l’ordine  del  diritto. Anche  se,  a  un  certo  livello  di  civiltà,  può cominciare a far gravitare quest’ordine verso di sé. Nei limiti della sostenibilità. Il che accade nella misura in cui dell’attività sociale autoregolatrice – che è diritto –  entri  a  far parte,  in modo  esteso  e profondo,  il principio paradossale della persona, ossia delle persone. 

Pur eccedendo radicalmente il diritto, la ‘persona’ ha precise incidenze sullo stesso: 1. Costituendo, nei confronti di ogni Diritto, criterio di  fondazione e  test permanente di  falsificazione. 2. Destrutturando  l’architettonica del  rapporto  fra ‘pubblico’  e  ‘privato’. 3. Demistificando  il  criterio dell’astrattezza  e generalità come  forma di giustizia. 4. Spingendo a decostruire  la  ‘giustizia’  in  termini di ‘persone’. 5. Costituendo un riferimento, più che alla potestas, a un fondamento antico, l’auctoritas, intesa come forza valoriale matrice di rispetto, indipendente dal potere e dalla negoziazione di consensi.   

Dicevamo  che  la  scienza  calcola,  la  filosofia  pensa.  Possiamo  anche  dire:  la tecnologia  calcola,  la  persona  pensa. Esistono,  così, una  scienza del diritto  e una tecnologia del diritto  che  calcolano,  come  esistono una  filosofia  e una persona che  pensano.  Ciò  non  significa  istituire  ostilità  strutturali  fra  istanze, ma  un confronto ineludibile. Senza calcolo, saremmo deprivati di ogni progresso; senza pensiero,  saremo privi di  ogni  civiltà. La  radice  –  l’errante  radice  – di  questa dignità  civile del pensare  è  la  filosofia. E, oggi, nella  filosofia,  in nome di un nuovo  paradigma  della  ragione,  la  persona.  Triplicemente  s‐fondata:  verso  la diversità  (propria  e  altrui), verso  la  relazione  con  l’altro, verso  la profondità. Attraverso il riconoscimento dell’altro, la compassione per l’altro e il pudore. 

La persona è  il diritto di resistenza originario e  la nuova misura. Elevati da ognuno nei confronti di ogni sistema (concettuale, etico, politico, giuridico) che si  arroghi  come  chiuso.  Se  lo  ‘statuale’  si  è  storicamente  posto  come  argine 

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rispetto  al  ‘privato’  e  il  ‘costituzionale’  rispetto  allo  ‘statuale’,  urge  oggi, nell’universo  globale,  un  ‘bene  intangibile’  nei  confronti  di  qualsiasi  potere, pubblico e/o privato, che abbia la forza e la volontà di disporne.     

È stato lapidariamente scritto da Vico, a conclusione della Scienza nuova: “Se non siesi pio, non si può daddovero esser saggio”. Condizione del sapere è la pietà. 

Il nostro  tempo sembra  in preda a un nichilismo che si caratterizza non per crisi di valori, ma, più  radicalmente, per  crisi di domanda di valori. Se  l’idea di persona costituisce, però, al tempo stesso, uno stadio  importante – a orizzonte di  millennio  –  nell’attuale  temperie  di  civiltà,  la  società  contemporanea  – sperimentando paradossalmente nella sua conflittualità radicale  l’impossibilità dell’ir‐relazione – può autocomprendersi oggi come l’atto plurimo del con‐esserci di  persone  –  di  atti  di  esistere  unici,  relazionati  e  profondi  –  da  cui  assumere fondamento, domanda, misura e prove di falsificazione. 

Se,  vichianamente,  riflettere  sul  diritto  è  indagare  sulla  sua  intrinseca filosofia  e  se  riflettere  sulla  sua  filosofia  è  formarsi  conoscitivamente  sul  suo incarnarsi  civile, meditare  sulla  filosofia  e  sul  diritto  è  poter meditare  senza tregua, speculativamente e in concreto, sulla sostanza cruciale della civiltà.          

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