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Luca Poggi

FUGA DALLO SPARVIERO

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FUGA DALLO SPARVIERO Copyright © 2011 Zerounoundici Edizioni

Copyright © 2011 Luca Poggi ISBN: 978-88-6307-3363-8

In copertina: Immagine Shutterstock.com

Finito di stampare nel mese di Maggio 2011 da Logo srl

Borgoricco - Padova

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A mia moglie per la sua pazienza, a Marco per lo sprone,

a Chiara e Andrea (in copertina) per il sostegno.

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l. A quell’epoca lavoravo per Pedritti. Non avevo ancora diciotto anni quando lui mi prese con sé; la cosa non era propriamente legale, ma lui non se ne preoccupava, e neanch’io. Ero grande e grosso a quell’età, una barbetta ispida e pugnace mi ricopriva il mento dandomi un’aria riflessiva e poco rassicurante. Chi mi conosceva mi credeva più vecchio. Non avevo ancora la patente, né del resto l’ho presa in seguito, compiuti gli anni, ma poiché badavo bene a come guidavo problemi seri non ne avevo mai avuti. Una volta superata la ventina nessun agente delle stazioni mi avrebbe più infastidito; d’altra parte, se c’è da dubitare che un autista di scuola-bus abbia la patente, non so in che cosa si potrebbe credere. E mi conoscevano. Sì, la maggior parte della sicurezza di ronda mi vedeva sbucare alle otto di mattina a bordo del mio pulmino per prelevare i piccoli da casa e portarli agli istituti di istruzione, puntuale, pronto lì a sfiatar di turbina a ogni fermata e facendo tossicchiare i compressori per imporre l’abbrivo al veicolo. Me la sono sempre cavata bene con tutto ciò che esiste di pilotabile. Sembra che a quattro anni avessi già le mani sul tassì di pà. Una volta, non so come, elusi la sua sorveglianza e ci volle un ostacolo grosso come un camion per riuscire a fermarmi. L’impatto fu molto soddisfacente. È l’unico incidente che abbia avuto. Perciò, come ho detto, il lavoro non poneva problemi. L’unico fastidio era rappresentato dal Numero Critico: l’avevo calcolato più volte a livello teorico e poi, confortato da responsi empirici favorevoli, avevo finito col dogmatizzare la veridicità della legge che gli si riferisce. La legge, formulata in modo rigoroso per la prima volta da me, va a tutto orgoglio delle linee di trasporti Pedritti. Suona pressappoco così: dicesi Numero Critico il numero massimo di bambini che è possibile mantenere in un medesimo locale mobile senza

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che le corrispettive giovani energie si scatenino simultaneamente con spudorati propositi mutuamente distruttivi. Per la verità, questa è soltanto una definizione. L’enunciato completo consente di calcolare tale numero in relazione alle dimensioni del locale, al tempo in ore che separa dalla vacanza più prossima, all’ordine di riempimento dei sedili e alle capacità repressive dell’adulto presente. Fortunatamente possiedo un coefficiente di intimidazione assai elevato. No, non picchiavo i bambini, se è quel che pensate. Si tratta solo dei miei occhi; proprio, del mio sguardo fosco. Di fatto sono un cuor d’oro, ma ho un’incredibile tendenza a farmi temere. E non perché faccia qualcosa di particolare. No. Basta che guardi un po’ distratto qua e là pensando… che so, al vizio di pà di lavarsi i piedi senza detergente prima di cena, e subito la gente pensa che stia per combinare chissà quale cattiveria e si mostra più malleabile. Non sono ancora riuscito a comprendere il meccanismo che porta a un comportamento del genere, ma forse non ha importanza. A ogni modo, con le malizie del mestiere tiravo avanti bene. Ero sottopagato, naturalmente, ma sapevo che Pedritti mi teneva con sé perché non ero in grado di protestare; senza patente e altri documentucci dovevo tenermi stretto quel lavoro come un’amante generosa, se non volevo andare a rinfoltire le già cospicue schiere di disoccupati. Ero soddisfatto, in fondo. Vivevo con la pensione di pà, in casa di pà, e i miei guadagni contribuivano a ringalluzzire il discreto gruzzolo che avevo accumulato. Poi, un giorno, avvenne la tragedia. Ero andato a portare i ragazzi alla scuola del Falcone, li avevo scarrozzati sul solito percorso tenendoli tranquilli con storie di fanciullesche sevizie a opera di tutori dell’ordine alquanto disinvolti. Di quando in quando additavo una turbomoto che ci sorvolava o ci passava a fianco e, mentre salutavo gli agenti che riconoscevo sventolando una mano, con l’altra cercavo di esporre i loro metodi di tortura disegnando scene terribili (son bravo a disegnare) sul vetro impolverato del lunotto anteriore, mantenendo il controllo del mezzo con le ginocchia. Impolverato? vi chiederete. Lo so, lo so, la polvere sulle stazioni virtualmente non esisteva. Era buona cura degli abbondanti servizi igienici eliminare sostanze volatili non desiderate; gli aspiratori impiantati un po’ dappertutto erano capaci di compiere il triplo del lavoro richiesto. Inoltre la struttura delle stazioni era tale da minimizzare la produzione

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di inutile materiale in sospensione. Lo so io come lo sapete voi. Ma io mi riferivo all’interno del bus. Nessun bus che si rispetti è lindo e immacolato come le bambine il giorno del loro primo appuntamento; si tende troppo a negare la venerabilità di un vecchio marinaio senza rughe, il valore a un combattente senza ferite, la saggezza a un monaco tibetano senza barba bianca. Ero orgoglioso delle cicatrici del mio bus e della sporcizia che si accumulava negli angoli. Amavo la mia polvere. Era il solo luogo in cui era lecito tollerarla, e io la irroravo quotidianamente di sterilizzante, così che non potesse mordere. Anche i miei ragazzi sembravano tenerci. Ma vi dicevo di quei metodi di tortura: i ragazzi ne furono talmente impressionati da non aprir bocca, e non mi fecero assolutamente penare per tutto il tragitto. Ognuno di loro, scendendo di fronte alla scuola, mi salutò con gravità e rispetto. Sono, queste, piccole cose che fanno piacere. Tornai al deposito fischiettando, parcheggiai il pulmino nella rimessa e avvertii che me ne andavo a casa. Ma non andai a casa: con l’altoparlante Pedritti gracchiò che voleva vedermi. Guai, non c’era alcun dubbio. Andai nel suo ufficio lentamente, ticchettai le dita sul vetro smerigliato e spalancai la porta senza attendere l’invito a entrare. Be’, era una specie di gioco, sapevo benissimo che questo avrebbe mandato in bestia Pedritti, e che lui avrebbe fatto il possibile per non darmi la soddisfazione di vederlo contrariato. Se ne stava seduto alla scrivania e mi fissava sornione. Ricambiai il suo sguardo: Pedritti è uno strano tipo da osservare. Caratteristico. Portava la solita camicia sbiadita con le maniche arrotolate, benché non avesse mai dovuto muovere un muscolo sul lavoro; non faceva caldo, ma sotto le ascelle gli si allargavano due larghe isole di sudore sfrangiate, e qualche goccia capolinava tra le rughe frontali più profonde che abbiate mai visto. Eppure Pedritti non aveva un corpo adiposo; era piuttosto del tipo minuto e nevrotico, scattante, con gli occhi neri e pungenti e delicate sopracciglia da neonato. Era calvo, completamente, ma standogli davanti era il caso di evitare di fissargli l’occipite glabra per non urtare la sua suscettibilità: quell’uomo aveva la voce più forte che avessi mai sentito. Dunque, Pedritti era seduto alla scrivania, e la sedia di fronte a lui era occupata; non da un uomo, da uno di loro. Uno di loro qui, alla

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stazione! La maniglia mi sfuggì di mano e per un attimo annaspai, in cerca d’appoggio. Coprii il tentennamento con un ampio gesto del braccio, in un movimento che sembrava di reverenza. «Sono venuto appena ha chiamato, signore.» Sorrisi mostrando parecchi denti. Non avevo mai chiamato Pedritti signore, ma qualcosa dovetti pur dire. Il principale parve molto divertito. «Ciao Nat,» mi disse «finito il turno?» Sapeva benissimo che l’avevo finito. Annuii. «Nat,» riprese «desidero presentarti il signor Braard. Il signor Braard rappresenta un buon numero di famiglie Venegiane che si sono stabilite sul Falcone da pochissimo tempo.» Mi sporsi e strinsi la mano inumana di Braard; le sue dita gentili, dagli spropositati polpastrelli, strinsero un poco le mie e gli ricaddero in grembo. «Piacere.» disse. Trasalii, la voce era simile alla mia, anche se più musicale. Mi sorrise. Ne avevo visti molti alla TV, in fotografie e giornali, e più volte era comparso il loro sorriso pulito. Ma dal vero aveva un senso diverso. Sorrisi anch’io, placato dall’insperata manifestazione di umanità. Presi una sedia e mi sistemai accanto a lui. Era il primo che vedevo di persona, e già cominciavo ad abituarmi alla sua presenza. D’altra parte, ovunque si era sparsa la propaganda favorevole per farli accettare con la maggiore benevolenza possibile, e questa doveva aver avvinto anche me. Sapete, panzane del tipo ecco gli amici da una lontana stella, o migliaia di anni luce per conoscere l’Uomo, o anche tra noi come fratelli maggiori. Respirai a fondo e mi rilassai. Pedritti si schiarì la voce. «Braard e una ventina di famiglie della sua specie si sono trasferite quassù dal Sahara, hanno acquistato una nuova zona residenziale a est della Main, vicino al Vallo. Buona parte delle famiglie ha figli. I maggiori fanno la spola tra qui e la Terra, dove frequentano corsi dell’Università umana e non umana di Giza; i più piccoli sono già stati iscritti all’istituto di istruzione primaria del Falcone.» Cominciavo già a capire, e la cosa non mi piaceva affatto. Speravo di

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sbagliarmi, certo, e guardai con sincera simpatia il Venegiano, sperando che confutasse la mia fantasia. Lui la prese come una sollecitazione cortese a prendere la parola. «Le disponibilità di questa stazione sono quello che sono,» disse «mi hanno informato che il progetto originale prevedeva di sistemarvi una popolazione molto ridotta; dopo un anno dal suo completamento, però, entrò completamente in funzione, con i suoi parchi ben curati, un rigido ma non eccessivo controllo economico e militare, aria pura, notevole autosufficienza. Le colture idroponiche e aeroponiche forniscono buoni alimenti, l’inquinamento è nullo e la criminalità è limitata. La gente lo capì presto e il progetto originario fu modificato per accogliere le migliaia di persone che attualmente vivono qui. E un’altra stazione gemella è stata allestita e occupata da altrettanti individui. Anche le scuole sono ottime. Per tutto questo abbiamo deciso di trasferirci qui: è un buon posto per viverci.» concluse. Pedritti approvò abbassando il mento con forza. C’era qualcosa nella controllata mimica del Venegiano che non mi pareva andasse d’accordo con le parole lusinghiere che aveva appena pronunciato, ma non vi badai: avevo pur sempre a che fare con qualcosa di piuttosto diverso dall’essere umano, pensare di giudicarlo con i miei soliti pessimistici criteri era un limite che non intendevo impormi. «Capito, Nat?» disse il capoccia «Quei nuovi piccoli hanno bisogno di qualcuno che li scarrozzi da casa a scuola, e la nostra compagnia è stata scelta per questo onore. Ho più di settanta ottimi conduttori pronti a entrare in azione - immaginai tutti i miei colleghi col piede sull’acceleratore disposti a scattare a un urlo di Pedritti, sbirciandosi in cagnesco - ma ho già scelto per il signor Braard il migliore tra i miei dipendenti. Indovina chi.» Un groppo di colossali dimensioni mi ostruì la trachea. L’immagine scanzonata dei conducenti anziani in competizione tra loro fu sostituita da quella di inauditi litigi tra bambini umani e non umani, schiamazzi, urla, tortuose e orribili ostentazioni di diversità spietata, di presunta superiorità da diversità, di crudeltà da presunta superiorità, che soltanto i bambini di ogni razza e colore sono in grado di sfoggiare. In tal modo la regola del Numero Critico perdeva valore. Anzi, il Numero si abbassava imprevedibilmente, pericolosamente. Puntai il dito al petto. «Me.» dissi. E guardai Pedritti per vedere se era vero. Era vero. Pedritti si alzò in

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piedi e mi strinse la mano. «Bravo ragazzo. Capisci senz’altro quanto ci sei necessario. Tra qualche giorno t’informerò sul nuovo percorso che dovrai seguire qui sul Falcone.» Mi fissò paternamente, come a dire che non c’era niente di cui preoccuparsi, che non sarebbe accaduto niente di irreparabile, che probabilmente non mi avrebbero fatto impazzire. Ricambiai lo sguardo, e trovai anche il fegato di ringraziarlo. Quando tornai a casa mi misi macchinalmente a tavola, mentre pà scodellava la minestra. Spolverammo i piatti di formaggio e cominciammo a mangiare; la cucchiaiata d’esordio di pà fu un capolavoro di aspirazione controllata. Eolo stesso ne sarebbe stato fiero. Il suono sdrucciolato e sbaciucchiato mi fece drizzare i capelli sulla nuca. «Cristo, pà!» digrignai «Non oggi, oggi non riesco a sopportarlo.» Gli scoccai una delle mie famose occhiate furenti, che lo fecero contorcere sulla sedia. Per prendere tempo cominciò a colpire col cucchiaio l’orlo del piatto rituffando una per una le molecole di formaggio che erano riuscite a evitare il bagno bollente. Colpiva e ricolpiva. Rumorosamente. Chiusi gli occhi e gli posai una mano sulla spalla. «Pà,» dissi «mangia finché è caldo.» Lo fece, e io seppi esattamente quanti cucchiai di minestra occorrevano per svuotare quella scodella.

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2. Era risaputo che Pedritti possedeva rimesse sia nella mia stazione spaziale che nell’altra, lo Sparviero, identica al Falcone nei minimi particolari. Ora, di solito gli impiegati che lavoravano nell’una non lo facevano nell’altra. Non ci mettevano nemmeno piede, tranne forse che per andare a trovare parenti e amici. La cosa comunque capitava assai di rado. Tra le due stazioni non c’erano interazioni o legami molto stretti. Anche i nostri bus circolavano nei percorsi assegnati, ognuno nella propria stazione, e non ne uscivano mai. Tranne il mio. Perché io facevo la spola tra le due fottute stazioni. Merito dell’umanità di Pedritti. Perciò, come al solito, appena finito di pranzare, tornai al deposito, sollevai da terra lo scuola-bus e mi diressi verso uno degli ascensori principali. Ce n’erano diversi in tutta la stazione, ed erano piuttosto impressionanti da vedere. La stazione era cilindrica, come sapete, e ruotava attorno al proprio asse producendo una specie di gravità artificiale per forza centrifuga. Be’, cerchiamo di essere un pochino più precisi; la stazione non era proprio un cilindro, somigliava piuttosto a un enorme pallone da rugby. Non era altro che un insieme di cilindri coassiali di diversa sezione incastrati l’uno nell’altro. Il più grande era nella fascia centrale; chi abitava lì, cioè la maggior parte della popolazione, aveva una gravità praticamente uguale a quella terrestre. Man mano che si andava dal centro alla periferia della stazione, verso una delle sue facce laterali, il diametro del corrispondente cilindro si riduceva gradualmente, e così si riduceva la gravità. In quelle zone periferiche erano collocate le colture vegetali, che rappresentavano la nostra primaria fonte di cibo, ospedali e altre abitazioni civili. Chi aveva problemi di cuore o prediligeva la bassa gravità abitava da quelle parti.

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Spesso andavo a correre là, era meno faticoso e più divertente. C’erano anche parecchie fabbriche che si basavano su processi industriali pesanti. Le due estremità della stazione, ai due lati opposti, erano dei cilindri di piccolo diametro. Erano sede di laboratori di ricerca e fabbriche di sintesi di materiali speciali, cristalli puri e robetta del genere. Lì la gravità era praticamente assente. Dicono che uno dei due laboratori fosse quanto previsto nel progetto originale del Falcone, che poi venne enormemente ampliato per accogliere un gran numero di persone in pianta stabile. La produzione dei laboratori forniva praticamente l’unico materiale di esportazione verso la Terra. Il pavimento convesso di ciascun laboratorio racchiudeva al di sotto una cavità cilindrica, posta in corrispondenza dell’asse della stazione e da cui era possibile accedere direttamente allo spazio esterno. Per raggiungere quelle cavità occorreva prendere uno degli ascensori che consentivano di lasciare la superficie e trasportavano uomini e mezzi in verticale, verso l’asse centrale. La zona dell’asse, che si estendeva longitudinalmente per tutta la stazione, era a gravità zero. Noi la chiamavamo Zona Zero. Qui erano disposti due grossi cavi trasportatori, sul tipo di quelli delle funivie terrestri, ma molto più massicci, con agganci di varie fogge per chi aveva intenzione di dirigersi verso uno dei laboratori o verso l’esterno, o ne proveniva. Essendo zona a gravità zero anche i mezzi pesanti là erano in grado di essere trasportati facilmente; il grosso del lavoro era svolto dagli ascensori, il resto era una bazzecola, tant’è che i cavi erano in perenne movimento a prezzo di sprechi energetici minimi. Come dicevo, mi avvicinai all’ascensore. In realtà c’erano due piattaforme in attesa; una per il trasporto di personale, l’altra per il trasporto merci. In genere usavo quella del personale; era sufficientemente spaziosa, più comoda, e aveva un parapetto in plexiglas semi opaco che impediva a osservatori indiscreti di distinguere dal basso le forme ingombranti del mio bus. Salii sulla piattaforma con tutto il veicolo e mi sporsi dal finestrino; premetti il pulsante di salita e mi rilassai sul sedile. Cominciai a salire silenziosamente. Man mano che salivo diminuiva la forza di gravità. Intorno non si vedevano agenti di polizia, come al solito: a quell’ora erano tutti a pranzo. Se mi avessero pescato avrei passato dei guai seri: non si poteva lasciare la stazione senza autorizzazione, tanto meno a

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bordo di un bus. Mi godetti il viaggetto fino alla Zona Zero, contemplando la vallata concava sotto di me. Era un gran bel guardare. Nel procedere dell’ascesa mi si offriva un panorama sempre più ampio, e anche se compivo quel viaggetto tutti i giorni non ero ancora riuscito ad abituarmi. Mentre le case e i palazzi rimpicciolivano prendeva forma il lungo serpentone della Main, la strada principale che solcava la superficie interna della stazione, percorrendola da un estremo all’altro, elicoidalmente. Dalla Main si dipartivano stradine minori, che si sfrangiavano in vicoletti in corrispondenza di nuclei residenziali o complessi industriali. L’edilizia non conosceva riposo, potevo scorgere numerosi cantieri sparsi qua e là. Nell’arco di un giorno o due sarebbero scomparsi, magari riapparendo altrove; vista la modularità spinta delle abitazioni non ci voleva molto tempo a erigerne di nuove. Lentamente, ma costantemente, la popolazione della stazione aumentava, non tanto per la solerzia con cui parecchia gente seguiva le consuete procedure che favoriscono la riproduzione umana (io ero uno di loro, anche se la riproduzione in sé non mi interessava poi molto); era piuttosto l’afflusso di persone giù dalla Terra che riempiva la stazione, come del resto era sempre stato. Che fosse una migliore qualità della vita, desiderio di vivere nello spazio, voglia di cambiare o un pizzico di brama d’avventura a spingere questa gente a venire quassù non lo sapevo, e non m’importava neanche gran che. Ma il fatto restava: la popolazione aumentava. Questo non era un problema; la capienza delle stazioni era più che sufficiente e sarebbe bastata ancora per molti anni. Quanto all’energia, disponevamo di una cospicua quantità di piccoli reattori a fusione indipendenti, distribuiti più o meno uniformemente al di sotto della superficie abitabile; i relativi prodotti di scarto, sostanzialmente acqua, venivano reimmessi nel sistema idraulico di distribuzione senza difficoltà né rischi. La nostra indipendenza dai prodotti della Terra era notevole: importavamo dal pianeta solo beni voluttuari, e a costi ragionevoli. Il flusso turistico dei terrestri, d’altra parte, portava guadagni che compensavano abbondantemente queste spese. Non vivevamo come nababbi, questo è certo; avevamo anche noi la nostra parte di miseria, ma non erano in molti a lamentarsi, e a quei pochi non dava retta nessuno.

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Sulle stazioni la gente se ne stava un po’ per conto suo, e a me andava benissimo. L’ascensore cominciava a rallentare, molto lentamente; ero giunto vicino all’asse centrale del Falcone. Le case, piccole piccole, sparivano di fronte all’enormità della struttura rotante nella sua interezza. Alto e basso lì si confondevano. In un certo senso ero all’estremità del cielo: ovunque guardassi vedevo remote superfici concave punteggiate di costruzioni minuscole. Solo il Vallo, un’ampia area inerbata dove amavamo passeggiare nel verde immacolato dei prati, conservava ancora una certa maestosità. Quando l’ascensore si fermò, rispedii a terra la piattaforma e fissai il bus agli ancoraggi sul cavo. Il cavo strattonò un poco, poi trascinò con sé il pulmino senza sforzo, in direzione di una delle uscite verso lo spazio esterno. Ci volle un po’ di tempo, ma finalmente cominciavo ad avvicinarmi ai grandi portelloni; compii la manovra rapidamente e senza difficoltà, l’avevo fatta un sacco di volte. Prima liberai il bus dalla presa del cavo e lasciai che procedesse ancora un po’ da solo per inerzia, poi manomisi i comandi di apertura del primo portellone. Non era una cosa difficile; pà mi aveva regalato un congegno speciale, una specie di comando a distanza in grado di agire direttamente sulla centralina di controllo che gestiva l’apertura e la chiusura dei portali. Vai a sapere come diavolo se l’era procurato. Superato il primo portello, entrai nel vano successivo, pulmino e tutto. L’oscurità dell’antro fu gradualmente dissipata da una crescente luminosità diffusa, che impiegò qualche attimo a raggiungere la massima efficacia; anche così, le pareti perimetrali apparivano pervase solo da una fioca luminescenza. Richiusi il primo portello; forzai la centralina del secondo programmandone l’apertura di lì a venti secondi, e la richiusura dopo altri venti. Mi assicurai che ogni pertugio del bus fosse ben chiuso e sigillato, quindi depressurizzai. Quando la grande bocca della stazione si schiuse al gelo della notte perenne ci detti dentro d’acceleratore. Ecco, ero fuori. Mi accorsi appena che il portellone esterno si stava richiudendo come programmato: intorno a me c’era un incredibile brulichìo di stelle.

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3. Sono uno degli ultimi romantici, lo confesso. Lo spazio mi ha sempre affascinato; amo questa straordinaria, sterminata immensità in cui navighiamo con più incertezza di quel che diamo a vedere. E le luci spettrali delle stelle, che bucano il tessuto uniforme di questo mare, sono un sollievo per i nostri occhi che affondano nella sua spaventosa nerezza. Forse i Venegiani ne avevano una visione diversa; dello spazio dovevano saperne senz’altro molto più di noi. In fondo avevano percorso miliardi e miliardi di chilometri per venire a farci visita. Un lieve senso di nausea mi pervase per un solo instante. Capitava sempre: le stelle non mi apparivano immobili, roteavano lentamente attorno all’asse longitudinale del mio bus. In realtà a ruotare ero io, uscito com’ero da una struttura in perenne movimento. Con un piccolo getto laterale compensai, finché non mi parve di restare immobile a fluttuare in quel nulla sterminato. Aumentai la spinta in avanti: ora che mi stavo allontanando dall’enorme sagoma oscura del Falcone, il bus prese a illuminarsi visibilmente: la Terra stava sorgendo dietro alla stazione, e i cristalli spessi del pulmino rilucevano d’azzurro. Bellissimo. Azionai con maggior vigore le turbine e il bus accelerò verso una stella più luminosa delle altre: lo Sparviero. Come avrete capito, il mio bus era un po’ particolare. C’avevo lavorato parecchio, insieme a pà. L’avevamo sistemato proprio benino. Non che fosse eccezionale: il sistema di propulsione era rimasto pressoché lo stesso, lo avevamo solo potenziato per consentirmi il volo nello spazio; ma avevamo realizzato un impianto igienico completo, utilissimo anche per i miei ragazzi, e un sistema di controllo della pressione e della temperatura interna abbastanza soddisfacente. Il complesso di gettosostentazione era rimasto tale e quale, però. Come saprete, i veicoli delle stazioni non usavano ruote, ma si libravano da terra e procedevano a mezzo metro di altezza dal suolo.

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Non so esattamente perché fosse così; credo che originariamente le strade delle stazioni non fossero ben fatte, e veicoli in grado di muoversi sia in piano che in verticale erano una necessità. Ma ormai i mezzi a volo verticale erano rimasti pochi: le ambulanze, ad esempio, le vedette della polizia, i carri trasporto, i tassì e alcuni mezzi di manutenzione delle stazioni. Anche una certa parte dei veicoli pubblici o privati era in grado di volicchiare, ma le normative sul traffico erano parecchio rigide a questo proposito, e a pochissimi era concesso di superare la ristretta fascia di spazio aereo che lambiva idealmente le superfici stradali all’interno delle stazioni; mi hanno detto che un tempo non era così, ognuno si spostava a piacer suo, ed era un caos infernale. Adesso lo Sparviero si era ingrandito abbastanza da occupare metà lunotto anteriore; cominciai a decelerare, tenendo d’occhio le cifre sul piccolo monitor del sistema di navigazione. Quei congegni me li aveva montati pà, insieme alla minutaglia di sensori con cui colloquiavano. Erano parecchio utili. Lo Sparviero era dritto davanti a me; mi avvicinai ancora, a bassa velocità. Potevo vedere la superficie esterna, butterata e diseguale, dell’enorme stazione: centinaia di navette, apparentemente poggiate sull’involucro convesso dello Sparviero, riflettevano verso di me la luce della Terra, cui si aggiungeva timidamente il riflesso delle luci deboli e multicolori che punteggiavano i moli d’attracco. La rotazione della stazione era lenta, ma evidente: i chiaro-scuri erano mutevoli e tutti i veicoli parcheggiati all’esterno rilucevano di sfumature cangianti. Mi avvicinai a quel corpo gigantesco, dirigendo verso una delle estremità per allinearmi con l’asse centrale. Per quanto la stazione sembrasse vicina, avrei impiegato ancora un bel po’ per raggiungerla. Mi rilassai godendomi il panorama, correndo con lo sguardo ovunque potevo; ma avevo fatto le ore piccole per qualche notte consecutiva e benché mi trovassi di fronte a uno spettacolo stupefacente, dovetti perdere il senso del tempo, perché i miei occhi si chiusero da soli. Fu il segnalatore di prossimità a darmi una scrollata; davanti a me le stelle erano sparite, con un occhio solo contemplai le enormi forme oscure dello Sparviero rigate ovunque da minuscoli sentierini di lucette irregolari, che confluivano in un punto solo: un’area piatta e circolare, evidenziata da una corona di deboli fari lampeggianti che delimitavano la zona di ingresso. Rallentai. Le luci ruotavano lentamente; allineai il bus e gli imposi la stessa rotazione. Ora la corona sembrava ferma innanzi a me; aumentai dolcemente la spinta. Con il dispositivo portatile regalatomi da pà aprii

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a distanza il portellone e con cauta sicurezza introdussi il bus nel vano d’ingresso. Poggiai il mio pulmino sull’impiantito, recuperando una minima sensazione di gravità. Richiusi il portellone, poi pressurizzai. Quando il processo si completò aprii anche il secondo portellone ed entrai nella vastissima pancia dello Sparviero. Era prima mattina, lì. Il fuso orario delle due stazioni era diverso, lo Sparviero aveva un ritardo di cinque ore. E fu questo che dette a Pedritti la maledetta idea di utilizzarmi su entrambe le stazioni: alle otto scarrozzavo i miei pulcini del Falcone verso gli sgradevoli lidi dell’istruzione, e passate cinque ore facevo lo stesso per quelli dello Sparviero. Rimanevo su quella stazione fino alle diciassette ora locale, quindi partivo per riprendere da scuola il frugolame dello Sparviero e ricondurlo a dimora. Al che potevo finalmente tornamene a casa, sul Falcone; nel viaggio di ritorno correvo un po’ di più, per evitare d’infilarmi nel letto nel pieno della notte. E questo parrebbe sufficiente a chiunque. Invece, Pedritti aveva tentato più volte di farmi cambiare i miei turni di servizio, portandoli da tre a quattro. Secondo lui avrei dovuto saltapicchiare come un matto tra Falcone e Sparviero in modo da portare a scuola e riaccompagnare a casa i bambini di entrambe le stazioni. Negriero; il ricordo della faccia paonazza di Pedritti dopo le mie risposte è fonte di costante soddisfazione, per me. Agganciai il bus al cavo di Zona Zero e mi lasciai condurre docilmente al primo dei grandi ascensori, che mi avrebbe portato al suolo. Giunto nei suoi pressi liberai il pulmino dal cavo e lo appoggiai docilmente sulla piattaforma d’acciaio. Cominciai la discesa. Ero arrivato pressoché a metà quando il monitor sul cruscotto fece un paio di lampi improvvisi, che mi riscossero dal leggero torpore in cui ero scivolato. Sullo schermo del visore comparve d’un tratto la faccia ossuta di Pedritti. «Nat,» esclamò «devo informarti sul nuovo percorso che dovrai seguire a partire da oggi, lì sullo Sparviero.» Sbattei le palpebre un paio di volte, stupito. Non capitava tanto spesso che Pedritti mi contattasse sul lavoro. «Pedritti, lei sa…» azzardai. Quello sventolò la mano con fare annoiato. «Guarda che è inutile che protesti, perché questa è soltanto una registrazione, e non posso sentirti. Quindi, stai a sentire tu, e stai zitto. Quel che vedi marcato sulla planimetria è il nuovo percorso. Un po’

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lungo e tortuoso, vero?» La sua faccia ora occupava la metà sinistra dello schermo, mentre nella destra era comparsa un’accurata pianta della zona in cui operavo su quella stazione. Stando alla linea tratteggiata azzurra che si snodava tra i caseggiati, avrei dovuto caricare sette bambini in più del consueto. C’era qualcosa che non andava, su quella pianta. In alto a destra s’intravedeva il manto erboso del Vallo, al centro c’era la Main, la strada spiraleggiante che attraversava buona parte della città come un lungo serpente sonnacchioso, pavimentata in vegetazione rupicola bassa e screziata; tra le due aree sorgeva una zona residenziale nuova di zecca dove, ero certo, avrebbe dovuto esserci uno spazio trascurato e sudicio. Vista la mia posizione, sbirciai giù per sincerarmi; pur se la zona non era proprio vicinissima, anche dall’altezza a cui mi trovavo potevo vedere una bella manciata di casette ricoperte di verzura e addobbi floreali secondo gli usi del tempo. Il nuovo percorso si sovrapponeva ai giardini di tutte quelle nuove costruzioni. «Oddio.» mormorai. Avevo capito. «Maledizione, Pedritti!» ululai «Di tutti gli sporchi tiri da carogna…» «Non usare quel tono con me, sai, ragazzo!» disse la registrazione, adirata, con perfetta scelta di tempo «Te l’avevo detto che la gente di Braard si era stabilita quassù. Se hai pensato che l’avessero fatto solo sul Falcone… bene, non dovevi pensarlo. Nessuno te l’ha detto. Tu non devi pensare, Nat. Devi lavorare. Quante volte l’avrò ripetuto, questo? Ufff… ti sei calmato adesso?» «No.» mugugnai imbronciatissimo. Fritto misto, umano e non umano, per una mattina al giorno potevo anche sopportarlo, ma due mattine e un pomeriggio al giorno! Chi se l’aspettava che i simili di Braard si fossero insediati su entrambe le stazioni? Dio! Praticamente significava trascorrere l’intera giornata lavorativa a salvare i Venegiani dai terrestri e i terrestri dai Venegiani. Dio! «Benone,» approvò Pedritti, pieno di soddisfazione «sei un ragazzo ragionevole, l’ho sempre saputo.» No, non doveva farmelo. Dov’era finita l’umana carità? «Adesso ti lascio la pianta sullo schermo perché te la studi. Guardatela bene. E parti qualche minuto in anticipo se vuoi portare i ragazzi a scuola puntuali, intesi?» Cosa sarebbe successo con il bus pieno di mani e braccia e bocche urlanti? Cosa? «Ohé, Nat, mi avrai sentito, spero.»

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Mi riscossi e fissai lo schermo innanzi a me. Pedritti occupava un solo quadratino di superficie e continuava a parlare con la sua voce neniosa. «…etto di studiarti bene la pianta. Intesi? Buon lavoro.» Il suo viso scomparve e rimase solo la planimetria colorata. Studiai le immagini finché la piattaforma dell’ascensore non giunse a terra; cercai di mettermi d’impegno, ma non era una cosa facile: ero troppo incavolato con il mio detestabile principale per riuscire a concentrarmi. Chissà come si era divertito organizzandomi quell’improvvisata! Sbirciai l’orologio nel cruscotto del bus, regolato sull’ora dello Sparviero. Erano le otto meno venti. Alle otto meno cinque sarei partito alla volta delle prime case per assolvere il mio dovere, dunque mi restavano quindici minuti buoni per pensare alle mie disgrazie, o rilassarmi. Decisi di rilassarmi. Abbandonai l’elevatore e inforcai la Main. Non c’era traffico a quell’ora, solo poche vetture che alitavano sui propri cuscini d’aria umidificata, al di sopra delle pianticelle che tappezzavano l’intero stradone. Mi diressi verso il Vallo. Svoltai a est, o meglio verso ciò che sulla stazione chiamavamo convenzionalmente est, e uscii dall’abitato. Procedevo su un’area completamente inerbata, senza costruzioni; proseguii ancora per un po’, poi spensi i motori di spinta. Aprii lo sportello. Scivolavo per inerzia, sempre più lento, con la testa di fuori per raccogliere l’aria fresca che mi scompigliava i capelli. Era bello essere lì. Finalmente il bus si fermò. Lo desostentai, appoggiandolo delicatamente a terra. Mi sdraiai sull’erba e non resistetti alla tentazione di strappare una pagliuzza per infilarmela tra i denti, come spesso avevo visto fare nelle scene bucoliche di tanti film del passato. Il filamento resistette, naturalmente. L’erba delle stazioni non era affatto come quella terrestre: qualcuno era riuscito a produrre una variante resistentissima, che non richiedeva cure particolari; una volta raggiunta una certa lunghezza i filamenti cadevano da soli, e venivano subito riassorbiti dal terreno. E anche il terreno era molto particolare: l’erba affondava le radici in una sorta di pietra speciale. Per questo veniva chiamata erba rupicola; la pietra, dal canto suo, era denominata pseudo-silice porosa a basso peso specifico, o qualcosa del genere. Per quel che ho sentito, consentiva di nutrire automaticamente la pianta con un processo di diffusione osmotica sollecitato nei substrati riccamente capillarizzati e controllato da un unico computer.

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Al diavolo se so cosa significa. Mi avevano detto che l’intera superficie interna delle stazioni era fatta di questo materiale, e anche l’edilizia locale ne faceva largo uso. Gli effetti erano piuttosto gradevoli: i centri abitati delle stazioni erano i più verdi dai tempi dei villaggi su palafitte. Chiusi gli occhi, e per qualche secondo riuscii davvero a rilassarmi. Ma subito un’ombra mi coprì il viso e un rombo aspirato passò sopra di me: una turbomoto della polizia. Rimasi nella stessa posizione, ascoltando il tocco dei pattini sul terreno e il ritmare degli stivaloni dell’agente che si avvicinava. «Buongiorno.» salutai. «Buongiorno.» disse una voce al di sopra degli stivaloni, fredda e impersonale; e femminile, anche «E' suo questo autobus?» Aprii un occhio. «No. Del signor Pedritti, il mio principale. Sono solo un autista, io. Conosce le linee di trasporti Pedritti?» «Sì, conosco.» Non avevo mai incontrato quell’agente. Aprii anche l’altro occhio. Cominciavo ad aver freddo. La tasca sul petto cominciò a pesarmi come se contenesse davvero chili di documenti. Dalla mia posizione sbirciai in su: una cascata di riccioli corvini capolinava da sotto l’elmetto, incorniciando un volto gradevole dal piglio marziale. L’uniforme sembrava nuova fiammante, gli stivaloni lucidissimi; la giubba, rigorosamente allacciata, rendeva impossibile capire di quale livello fosse il materiale sottostante, e le lunghe gambe faticavano a venir fuori dall’ingolfamento dei pantaloni d’ordinanza. Sarebbe stato interessante avere una chiara visione da tergo, ma al momento erano altri i problemi che premevano. Mi sollevai lentamente, sedendomi tra l’erba: alzarmi in piedi sarebbe stato educato ma avrebbe incoraggiato rapporti più formali. «Non ci siamo mai incontrati, mi pare,» dissi «dev’essere il suo primo giorno di lavoro sulla stazione.» Non ne ero certo, ma conoscevo di vista un po’ tutti gli agenti di pattuglia in quella zona, e tra loro non c’era nessuna donna. Lei trasalì lievemente. «È vero,» disse «come lo sa?» Ora che la guardavo con attenzione, mi rendevo conto di quanto fosse giovane. Doveva essere poco più di una recluta. «Semplice,» osservai «un agente anziano non si sarebbe mai fermato

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quaggiù.» La buttai lì, tanto per suscitare una reazione. Faccio sempre così quando sto per cominciare a sparare delle balle: inizio con una piccola, poi per difenderla comincio a fare sul serio. Fissai la ragazza. Era leggermente imbronciata, lo sguardo saettava un po’ qua un po’ là, cercando di capire cosa aveva di speciale quel luogo. Guardò anche me, mentre le sorridevo. Non guardò mai in alto, però; per noi delle stazioni, guardarsi intorno significava gettare lo sguardo ovunque ci fosse qualcosa da guardare, e vista la conformazione delle stazioni si vedevano più cose guardando in su che di lato. Tanto per fare un tentativo, alzai un braccio sopra la testa. Lei seguì la mano con riluttanza, e guardò in su in un modo che confermava i miei sospetti. La passerotta era appena arrivata dalla Terra; essendo una novizia della stazione non aveva ancora acquisito l’ottica particolare di noi altri abitanti anziani. Noi amavamo osservare il nostro cielo, anche se non era un cielo vero e proprio, in senso planetare: sulle nostre teste pendevano i tetti delle abitazioni poste ai nostri… antipodi? No, direi piuttosto ai nostri anticefali, o come diavolo si definisca una situazione del genere. Ad ogni modo questa poliziotta, intirizzita nella sua uniforme come se fosse un’armatura medioevale, non gradiva molto la lieve vertigine che coglieva i nuovi arrivati quando alzavano lo sguardo a perpendicolo. «È per via di questo cielo, capisce,» cominciai, mostrando un improvviso disagio che, giuro, sembrava autentico «anche se abito quassù da un pezzo, non sono ancora riuscito ad abituarmi.» Lei mi guardò con aria perplessa e annuì lentamente. Continuai. «Così, quasi tutte le mattine, prima di andare a prendere i miei ragazzi per portarli a scuola, vengo qui sul Vallo, e faccio, per così dire, una specie di terapia personale. Mi sdraio qui, mi sistemo per bene, e comincio.» Le scoccai un’occhiata furtiva. Sembrava interessata. «Guardo, semplicemente,» dissi «con tutta la calma del mondo. Passo da un tetto all’altro, seguo la curvatura della stazione finché i miei occhi non mi riconducono dove mi trovo. Qualche volta mi perdo ancora, ma ormai sono casi assai rari.» Inventare una storia in cui si identificasse e che suscitasse in lei un certo istinto tutelare, insito nel suo sesso e nella sua professione, così dovevo fare. E condire il tutto con una certa dose di morbosità. Funziona sempre. «Be’, anch’io ho avuto bisogno di un po’ di tempo per abituarmi,» disse

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lei «ma non credevo che potesse essere così. Dev’essere un bel problema.» Mi fissò con un minimo di calore. «Certo che lo è. E non sono l’unico, sa? Se oggi mi ha visto qui da solo è per pura combinazione. Siamo in tre o quattro, soltanto in questo punto del Vallo. Qualche volta ci ritroviamo, per caso. Non ci conosciamo, ci salutiamo appena con un cenno del capo, poi ognuno affronta quel che deve a modo suo. La vecchia ronda doveva esserci abituata, alla nostra presenza, perché non s’è mai fatta vedere. Aveva certamente cose più importanti da fare.» Mi volsi decisamente verso di lei. La ragazza raccolse il mio sguardo con una certa esitazione, poi mi sorrise. Io le porsi la mano, simulando un certo imbarazzo per ridurre il suo. «Mi chiamo Nat.» dissi. «Lea.» rispose; parve trarre quel nome da chissà quale spaventosa voragine. Era timida veramente. «Lea,» ribadii «lieto di conoscerti. Immagino che c’incontreremo ancora.» «Questa è la mia zona.» mi disse. Forse voleva aggiungere qualcos’altro, o forse no, a me importava meno che poco. Ormai l’avevo buttata sul commiato andante, e come conferma scoccai una velenosa occhiata all’orologio; seguì la classica imprecazione di prammatica, quindi conclusi col più classico dei devo scappare, è tardissimo. Salii sul bus, accesi i motori e partii verso la casa del primo dei miei adorabili scolaretti. Mentre mi allontanavo detti un ultimo sguardo a Lea, per sincerarmi che non si ricalasse nell’abito di poliziotta troppo in fretta. Era rimasta lì dove l’avevo lasciata, con le mani in mano, probabilmente un po’ disorientata dal mio congedo frettoloso. Talvolta la mia cafoneria è intollerabile anche a me stesso. Intanto, però, avevo salvato il posto.

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4. Nel mio lavoro raramente ho avuto a che fare con le famiglie degli scolari che trasportavo. Di solito i genitori, all’inizio dell’anno scolastico, si mostravano desiderosi di chiacchierare con me per vedere se ero una persona degna di fiducia e all’altezza del proprio compito. Ed era un bel fastidio. Per ogni bambino prelevato da casa, dovevo sorbirmi l’elenco delle sue qualità, le raccomandazioni più assurde, acciocché la sua infinita sensibilità non venisse oltraggiata da qualche mia sconsiderata iniziativa. Non mancavano casuali domande esplorative sulla mia vita personale; talvolta mi si avvicinavano col naso per aria per scoprire se avevo bevuto. Una volta capito che sono una persona seria mi lasciavano in pace. Quel giorno perciò, stando alle esperienze passate, avrei dovuto considerarmi al sicuro. Ma non fu così. Chissà come i bravi genitori erano venuti a sapere dei nuovi alunni, e si dimostrarono maledettamente preoccupati. La signora Monero mi offrì un bicchiere di latte, cercando di avere conferma della diceria che le era venuta all’orecchio. Avuta la conferma della diceria, si chiuse in un accorato silenzio, mi tolse il bicchiere (quasi pieno) dalle mani e salutò il suo Luis stringendoselo forte al petto. E un passeggero. Il gioviale signor Ducèk mi attese sul cortile di casa e mi affrontò a viso aperto. «È vero che alcuni dei loro figli andranno a scuola col mio Bo?» chiese. Glielo confermai. Lui mise le mani contro i fianchi. «E lei non può fare in modo di dividerli dai bambini… uh, normali, sistemandoli in fondo al bus o, che so, separandoli con un… sì, con un drappeggio?» Mi venne da ridere, ma mi trattenni. «Non saprei, signor Ducèk,» risposi «non credo di potere.»

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«Ah. Forse allora sarà possibile organizzare una linea solo per loro, no?» Ovviamente era impossibile, conoscendo Pedritti. Io stesso non avevo osato sperarlo nemmeno per un attimo. «Non so, signor Ducèk. Dubito molto che lo sia.» «Li metteranno nella stessa classe, non è vero?» «Può darsi, signor Ducèk. Sta al preside deciderlo.» «E pensa che sia giusto?» mise una mano in tasca e fece tintinnare delle monetine. «Non saprei proprio, signor Ducèk.» L’uomo crollò il capo in piena rassegnazione. «Lei non sa niente.» brontolò. Fece un cenno con la mano e il figlio schizzò nel pulmino, occupando uno degli ultimi posti. Il padre indietreggiò fino a casa e richiuse la porta, lentamente. E due passeggeri. Il signore e la signora Swartz si mostrarono entusiasti della novità. Parlarono della loro visione moderna della vita e dell’esperienza eccitante che attendeva la bella bimba Mary Lou. Solo all’ultimo, quando la piccola era salita e stavo per chiudere la porta, la donna chiese al marito, con noncuranza, se per caso l’infermeria della scuola fosse attrezzata per le più oscure malattie infettive. Il marito la rassicurò, poi entrambi guardarono me. Io li rassicurai, poi premetti l’acceleratore. E tre passeggeri. Accelerai ancora per recuperare il tempo perduto; finalmente la strada si allargava e mi si presentava un tratto privo di fermate. Dopodiché sarei giunto al nuovo complesso residenziale. Alle mie spalle avvertii un diffuso brusìo, ma, mi dissi, non c’era da preoccuparsi. Guidavo con scioltezza; alla fine le case dei Venegiani mi vennero incontro con tutte le loro innumerevoli gradazioni di verde; i cortili rigurgitavano di vegetazione rupicola di ogni foggia e dimensione. Sulle pareti degli edifici facevano bella mostra di sé rampicanti dal fogliame lanceolato e moltissime versioni mutate di piante da frutto o da fiore terrestri, e sui tetti grandeggiavano ciuffi spropositati di salici o consimili. Esposte alla luce giacevano serre di esemplari rari e sul tetto di talune dimore s’intravedevano uccelliere e teche azzurrate. Tutto lì parlava del mondo dell’essere umano. I ragazzi osservarono insieme a me, in silenzio. D’un tratto mi accorsi

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che non ricordavo dove avrei dovuto fermarmi. Rallentai. Ero ormai prossimo al primo villino quando un Venegiano spalancò l’uscio e mi venne incontro. Meno male, pensai; fermai il bus di fronte a lui e scesi. Dall’interno del bus udii provenire un po’ di trambusto, che cessò quando guardai all’indietro con discreto cipiglio. Mi volsi ancora al Venegiano cercando di apparire rilassato, ma in quel mio breve momento di distrazione erano usciti dal villino i sette piccoli e una ventina di adulti vestiti alla moda terrestre. Mi guardavano. Tutti mi guardavano. Mi sentii improvvisamente instupidito. Era un po’ come svegliarsi in una casa dal soffitto convesso, le porte di biscotto imburrato e finestre pentagonali che si aprono solo fischiettando l’Aida; insomma, una realtà deformata ma non per questo meno concreta di ciò a cui siamo avvezzi. Quei volti così simili ai nostri, eppure così diversi, e quello strano modo di camminare e le espressioni facciali intraducibili, e ciononostante così misteriosamente eloquenti. Oh, al diavolo, non erano altro che uomini, ansiosi di stringermi la mano in mezzo a un giardino profumato. Sentii che lo stavo facendo, porgendo la mano, cioè, stringendo con calma quel che mi porgevano loro. Lo feci con tutti, anche con i piccoli. Quando ebbi finito mi sentii magnificamente. Adesso li osservavo per bene; non erano brutte, le loro facce: avevano il naso piccolo e gli occhi troppo grandi, un colorito pallido ma normalissimo, le orecchie erano nascoste dai bei capelli neri, rigidi e spessi. Continuavano a guardarmi con la bocca sottile atteggiata in una piccola imperscrutabile smorfia tragica, ma le pieguzze intorno agli occhi mi suggerivano un che di familiare, come se guardandomi a quel modo volessero ringraziarmi di averli accettati subito, senza pensarci. Sentivo di non avere niente da dire. Feci un cenno ai ragazzi e quelli mi seguirono sul bus come soldatini, chiusi le porte e ripartii per raccogliere gli altri giovani virgulti della mia specie. Guidando canticchiavo. Indugiai per un paio di minuti, poi mi decisi e guardai dietro. Assistevo a una scena imprevista: i tre bambini umani si erano risistemati appiccicandosi l’uno all’altro, e non fiatavano. Dardeggiavano occhiate incerte qua e là, completamente circondati dai non umani: i sette nuovi arrivati si erano sparpagliati per tutto il bus. C’era chi occupava un posto in prima fila, dietro di me, e chi sbirciava fuori a contatto di naso col cristallo posteriore.

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La cosa mi dava da pensare: in questo modo, i bambini umani che sarebbero seguiti non avrebbero potuto evitare di sedere loro vicino. L’idea mi preoccupava parecchio. Uscii dall’isolato e mi diressi verso la casa del piccolo Sal Derier; il bambino era in compagnia del fratello maggiore. Quando mi fermai i due si avvicinarono, Sal s’infilò di corsa nel bus e il fratello poggiò un piede sul gradino d’ingresso. «Nat,» cominciò «non sapresti se… per pura combinazione…» girovagò un po’ con lo sguardo nello sforzo evidente di trovare le parole e gli caddero gli occhi sull’alieno dietro al mio abitacolo. Arrossì. «Una buona giornata, Nat.» vociò. «Uh.» feci io, che non mi ero mosso dal sedile. Mi guardò per alcuni secondi e se ne andò a lunghi passi. Ottimo. Ormai avevo scoperto l’espediente in grado di evitare perdite di tempo a ogni sosta: bastava che accogliessi il passeggero salutando senza alzarmi, i parenti bramosi di parlarmi si affacciavano nel bus, cominciando un discorso che interrompevano non appena si accorgevano del piccolo Venegiano vigile alle mie spalle. Dopo la terza volta che succedeva divenne anche lui consapevole della propria involontaria collaborazione, e prese ad ascoltare quelle frasi tronche puntellando il mento sui palmi e sporgendosi verso il dicitore con aria notevolmente compiaciuta. Arrivammo presto a una situazione di pareggio: sette a sette. I bambini umani cominciarono a sentirsi più sicuri, notai che si scambiavano ghignate con gli amici più intimi. Quando salì l’ottavo umano nell’autobus discese un’atmosfera di imprevisto rilassamento, che si mantenne col nono e col decimo. E diciassette passeggeri. All’arrivo del cliente successivo si levò un mormorìo sommesso, prudente, che crebbe d’intensità e si stabilì su livelli accettabili. Mi concentrai sulla strada. Ero rasserenato, ma per sicurezza feci lavorare il cervello e presi ad armeggiare sul monitor, con la videoregistrazione di Pedritti. Fu un bene, perché queste mie orecchie sentirono distintamente una domandina cantilenata da una bimba con più faccia tosta di altri. «Ehi,» disse la vocetta, emersa dal brusìo generale per ottenere l’attenzione di qualcuno «ce l’hai mica anche tu il nome, no?» La risposta, un po’ esitante, di provenienza indubbiamente maschile, non si fece attendere. «Certo. Mi chiamo Liz.» Un’esplosione: «Ma è un nome da bambina!»

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Seguì una risata grassa e simpatica. Oh, oh. Quale genitore umano chiamerebbe suo figlio Liz? Un subitaneo fermento seguì all’azione della bambina, che aveva violato la tacita intesa d’ostracismo implicitamente stretta tra i bambini umani. Luis Monero si alzò stringendo i pugni e s’incamminò lentamente tra le file di poltroncine. Mentre passava loro accanto alcuni compagni pronunciavano il suo nome. «Luis.» sussurravano, e gli occhi luccicavano di aspettativa. Mi avvidi immediatamente del pericolo e intervenni a modo mio. «Ragazzi,» esordii «siamo nei guai.» Mi guardarono. Sorse in me l’impulso alla Grande Fandonia. «Con gli apparecchi di bordo ho intercettato una trasmissione che ci riguarda,» dissi con enfasi «aspettate, che forse riesco a sintonizzarmi decentemente.» Premetti un po’ di pulsanti fingendo di tentare una disperata sintonia; lo schermo si accese, emanò un paio di lampi seghettati e finalmente si stabilizzò sulla parte di registrazione che m’interessava. L’immagine della faccia ossuta di Pedritti mi osservava. Amplificai l’audio, con qualche disturbo qua e là per fare effetto. «…quindi stai a sentire tu, e stai zitto.» diceva Pedritti «Quel che vedi marcato a tratteggio sulla planimetria è il nuovo percorso. Un po’ lungo e tortuoso, vero?» I quartieri residenziali dei Venegiani apparvero sullo schermo. Ci fu una breve pausa, e io intervenni. «Ecco ...» osservai «ora qualcuno starà rispondendogli.» «Non usare quel tono con me, ragazzo!» riprese l’uomo «Te l’avevo detto che gli amici di Braard si erano stabiliti quassù. Se tu hai pensato…» Disturbai audio e video a bella posta. «Cerchi di riprenderlo!» esclamò Liz, alzandosi di scatto. «Sì, cerchi di riprenderlo.» esclamò Monero. Entrambi guardavano il monitor per rivedere l’uomo e la mappa che ritraeva le nuove abitazioni dei piccoli Venegiani. Tutti i bambini erano attentissimi. Finsi un po’ d’impaccio, ma riuscii a stabilire la comunicazione per qualche istante. «…sso ti lascio la pianta sullo schermo perché te la studi. Guardatela bene, capito, non devi fare errori.» Disturbai ancora, quindi finsi di lottare coi pulsanti mostrando

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l’immagine della mappa colorata col percorso del nostro bus marchiato in azzurro. Poi spensi del tutto. «È andata.» dissi. I ragazzi erano tutti in piedi, impressionati. Okay Nat, mi dissi, eccitare ma non spaventare. «Quel ceffo che avete visto lo conosco.» commentai. Mi volsi ai ragazzi, riducendo la velocità del bus. «È un poco di buono, e si chiama Pedritti. È un prepotente invidioso. La polizia lo tiene d’occhio, ma non ha prove per incastrarlo. Così lui continua a fare il prepotente invidioso. Ha saputo che sulla Stazione sono venuti ad abitare degli stranieri che sono di un altro mondo bello come la Terra, e sono venuti ad abitare qui perché vogliono essere nostri amici. Pedritti odia l’amicizia. Non la capisce, e siccome non la capisce la odia. Lo conosco bene. Non vuole che si sia amici. È invidioso di noi. È invidioso perché questo è il bus migliore che ci sia e lui non ce l’ha, e perché trasporta bambini umani e non umani. Sapete che siamo gli unici che hanno anche bambini non umani? Gli unici, e com’è ovvio tutti ci invidiano. L’avete vista o no la TV quando parla di questi bambini stranieri? Lo sapete come sono, vero? Amici. E a Pedritti non va giù.» «Pedritti ha una faccia antipatica.» disse qualcuno dalle ultime file. «Certo che ce l’ha,» approvai sinceramente «e sapete che vuol fare?» «Cosa?» chiesero diciotto voci. «Vuole separarci. Vuole commettere qualche cattiveria e poi incolpare questi ragazzi stranieri. Vuole spaventarli per farli sentire indesiderati, e vuole che non ci sia nessuna amicizia. Vuole rovinare la nostra fortuna. È un po’ matto, Pedritti.» I ragazzi mi guardavano, piuttosto incerti, ma ancora attentissimi. Continuai. «Ma Pedritti non ha fatto i conti con noi. Pensa che ogni essere umano sia come lui, meschino e vigliacco. Non è vero, questo. Voi e io, sicuro, fermeremo Pedritti.» Ero circondato da volti dubbiosi e mi affrettai ad aggiungere: «Mentre fa qualcosa di male lui non vuole essere visto, perché sa benissimo che non si può sconfiggere un testimone oculare. E noi terremo gli occhi aperti. Forse siamo sorvegliati e seguiti. Ah, ah! È così? Noi sorveglieremo loro, e sorveglieremo questo bus. Se pensano di separarci profittando di un momento di distrazione hanno sbagliato i loro calcoli. Prima o poi si stancheranno e rinunceranno alle loro cattiverie.»

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Ancora quei volti perplessi; mancava poco, però, serviva solo l’ultima spintarella. Dovevo dar loro il modo. Inspirai. «Metterete delle sentinelle e perquisirete il bus. Spiate chi si avvicina e fategli capire che lo guardiamo senza temerlo,» dissi «ma in queste cose non sono in gamba come voi, mettetevi d’accordo, parlatene, organizzatevi. A scuola siate uniti e dimostrate di meritare l’ammirazione degli altri. Tenete tutto sotto controllo. Ogni mattina cercherò di intercettare altre trasmissioni per capire se Pedritti ha intenzione di continuare a rompere o ha rinunciato. E ora,» conclusi «a scuola.» Accelerai, riportando lo sguardo sulla strada. Paia e paia d’occhi s’illuminarono e corsero qua e là, bocche e mani s’agitarono scambiandosi messaggi inaudibili e l’intera piattaforma risuonò di scalpiccii operosi. Selve di dita frugarono sotto i sedili in cerca di radiospie, perché sarebbe stato orribile se quei luminosi propositi fossero stati ascoltati dal nemico; il bagno sul retro fu quasi smantellato, il cassetto del sapone liquido spalancato e contemplato con animosità: la crema oleosa prese ad acciambellarsi sull’impiantito. Fu provata la solidità dei vetri e l’ermetica delle portiere, alcuni bambini si autodesignarono vedette e presero a scrutare il cielo. Continuò così per tutto il viaggio, e quando feci salire gli ultimi due bambini ci fu un turbinio di delucidazioni eccitate per chiarire i fatti contingenti. Di tanto in tanto incontravamo un veicolo di passaggio e schiere di indici, con polpastrelli normali e non, si affrettavano a puntare, valutare, esorcizzare. E dal modo in cui comunicavano, bisticciavano e pacificavano, da come si sfioravano le ginocchia e progettavano e ragionavano, capii che li avevo più che distratti. Ora erano un gruppo omogeneo di semplici bambini e nient’altro. Non pensai affatto che mi avessero creduto, almeno i bambini umani; erano troppo abituati alle mie fantasmagoriche balle. Avevano solo colto l’occasione per superare con il gioco l’ostilità e il pregiudizio che gli adulti avevano riflettuto su di loro. E non avrebbero saputo come altre fare, pur desiderandolo. L’unico dubbio: ero andato troppo in là? Mentre guidavo verso la scuola, miracolosamente in orario, Mary Lou, la bambina che aveva pungolato per prima il piccolo Liz, mi si avvicinò tranquillamente e mi diede un buffetto timido sulla guancia. «Pedritti è un uomo sgradevole.» disse. Assentii.

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«Signor Nat,» confessò, sillabando con scansione puntigliosa «io odio Pedritti.» Resasi conto che avevo assorbito il concetto tornò al proprio posto senza aggiungere altro. Ero andato troppo in là?

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5. E un altro giorno sullo Sparviero. Avevo appena raccontato la trama di un film di cappa e spada, infiorettandolo di fronzoli e trovate del tutto personali, e i miei ragazzi si erano lasciati suggestionare dall’enfasi che avevo messo nel descrivere le scene più spettacolari. Ero stato costretto ad aggiungere del mio: due bambini si erano azzardati a dubitare della magnificenza di draghinasse e spadoni, obbiettando che un sol colpo di cannone avrebbe posto fine assai presto alle invereconde pretese dei malvagi. Non mi si può contraddire a questo modo. Di seguito a ciò un piccolo umano aveva sguainato un’inesistente sciabolone e lottava contro un nugolo di avversari; un Venegiano, pur non essendogli familiari le regole della cavalleria, rifiutò di lasciar combattere da solo l’intrepido e, senza aver mai visto mazze chiodate in vita sua, ne estrasse una dalla cintura ruotandola minacciosamente. In breve ogni angolo del bus sfrigolava per l’urto delle lame, i feriti si ammonticchiavano e quindi, redivivi, tornavano a proteggere le donzelle, le quali alternavano i propri ruoli, prima lanciando disperati gridolini d’angoscia e fuggendo con un frusciar di sottane, poi inseguendo gli stessi tormentatori brandeggiando enormi alabarde insanguinate. La confusione era straordinaria, ma mi sentivo magnanimo. Finalmente si stancarono e si disposero ai loro posti con disciplina. A giudicare dalle facce si erano divertiti alla grande. Fu allora che accadde. Mary Lou Swartz, seduta nell’ultima fila, si alzò e venne a tirarmi per la manica mentre guidavo. «Attenta, piccola,» le dissi «o stamani a scuola non ci arriviamo.» Agitò una mano, come a dire che non la disturbassi con sciocche rimostranze. «Signor Nat,» esclamò «credo che Pedritti ci stia seguendo!» «Ah,» feci io serio «e cosa te lo fa pensare?»

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«Ecco, c’è un carro che ci segue da parecchio e quando giriamo gira anche lui. Sono sicura che è Pedritti, sono sicura davvero.» Indicò un punto ben preciso, fuori della mia portata visiva. Lasciai la guida per un attimo abbassandomi sul pavimento, poi ripresi il controllo del veicolo. C’era un carro per trasporto merci che ci volava dietro a un’altezza di alcuni metri da terra, e distante. Uno di quei comunissimi mezzi commerciali, tra i pochi autorizzati a occupare lo spazio aereo della stazione. Vista la sua posizione non avrei potuto accorgermi di lui a meno di avere delle vedette appostate sul retro. E io le avevo. Non diedi importanza alla cosa. Ero stato io a sbrigliare la fantasia dei bambini. «Non penso che sia lui,» dissi «vedrai che tra un poco se ne va. Ora attraverseremo un crocicchio e faremo le due svolte che prevede il nostro giro.» Eseguii le due svolte. Il carro non se ne andava. Strano. Essendo autorizzati al volo in quota di solito i carri si muovevano su percorsi rettilinei, e ad alta velocità. Scossi la testa, non volevo farmi suggestionare da una bimba suggestionata da me. Doveva essere una coincidenza. Ormai eravamo giunti in prossimità della scuola, rallentai e fermai il bus. Il carro ci sorvolò mentre i ragazzi defluivano dalle portiere, e si allontanò senza accelerare. Il giorno appresso mi godetti il primo tranquillissimo turno sul Falcone; i bambini Venegiani non mi erano ancora stati assegnati e con gli umani avevo concluso il rodaggio da un bel pezzo. Dopo che iniziai il solito turno sullo Sparviero, mentre facevo salire i bambini Venegiani, un carro trasporto passò sopra il mio bus procedendo veramente piano. Normalmente non l’avrei nemmeno notato, ma in quel caso l’evento mi fece riflettere. Mi ritrovai a pilotare con una leggera inquietudine. Resistetti alla tentazione quando sostai alla dimora dei Monero, titubai con gli occhi sulla strada prelevando Bo Ducèk, ma non potei resistere di fronte al musetto furbo di Mary Lou Swartz: mentre la bimba saliva, io scesi come per controllare i motori del bus, e indirizzai lo sguardo di sbieco. Risalii. «C’è anche oggi, vero, signor Nat?» disse la bimba. «Sì,» dissi io «c’è anche oggi.» Un carro grigio stazionava quasi immobile cento metri là indietro. Cominciavo a innervosirmi.

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«Pedritti sta facendo sul serio.» aggiunse lei, con lo stesso tono suadente della mamma. «Si stancherà presto.» tagliai corto. Mi concentrai sulla guida. Man mano che passava il tempo mi veniva l’impulso di chiedere a Mary Lou se lo vedeva ancora. Chi diavolo era? Per fortuna i ragazzi non dettero molto peso alla scoperta, ma se le cose fossero continuate così avrebbero finito sicuramente per preoccuparsi più del dovuto. Quando i bambini scesero per entrare nella scuola feci capolino dagli sportelli e mi rassicurai vedendo che la fetta di cielo intorno a me era completamente sgombra. Pensai ad altro, a ciò che avrei potuto fare per ammazzare il tempo. Non avevo programmi accattivanti: la mattina i locali più appetibili erano chiusi. Avrei potuto farmi una corsetta nelle zone a gravità ridotta, ma avevo fatto colazione con briga eccessiva, come sempre capita quando mangio in compagnia di pà, e non mi sentivo molto in forma. Cominciai a girovagare con il mio bus, piano, per guardare la città. Anche se non c’era niente di particolare da scoprire, muovermi mi rallegrava lo spirito. E guidare mi diverte sempre. Passai davanti a un supermercato; a quell’ora c’era pochissima gente a fare la spesa. Vidi un tizio carico di pacchetti e pacchettini che camminava nella mia direzione smanacciando buffamente, come per attirare l’attenzione di qualcuno. Lì attorno c’ero solo io, doveva avercela con me. Rallentai. Mentre mi si avvicinava cercai di capire chi fosse, ma non mi sembrava proprio di conoscerlo. Aveva indosso una specie di tuta da operaio, piuttosto informe, e si dirigeva davvero verso di me. Fermai il bus e aprii lo sportello. Mio Dio, era la poliziotta! La riconobbi solo grazie alla notevole cascata di capelli corvini, lucidi e riccioluti, che le incorniciavano il volto trafelato. Doveva aver riconosciuto il bus da lontano, non ne circolano molti scalcinati come il mio. «Ho riconosciuto il bus.» confermò, con un leggero fiatone. Notai solo allora che il nasetto all’insù era punteggiato di efelidi. Piuttosto carine. «Sali, e posa pure la roba sui sedili.» suggerii. Lo fece, mi dette uno sguardo esitante e mi ringraziò. «Ho comprato più roba del previsto. Non volevo caricarmi così.» disse. Sembrava un po’ impacciata, sedette sui gradini della portiera anteriore. Pigiai sull’acceleratore e il bus partì dolcemente. «Cos’hai comprato?»

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«Oh, cibo, per lo più,» rispose «soprattutto verdura. Quella vera, l’altra non la sopporto. Sono in licenza per due giorni e ho fatto rifornimento.» Era appena entrata nel servizio di polizia e già ferieggiava. Un bel lavorare. Il suo leggero disagio doveva essere contagioso. O forse era il modo in cui si presentava; era del tutto priva di trucco, infilata in un abito che somigliava a un borsone, e mi guardava con degli occhi così… semplici, che mi creava, non so perché, una certa agitazione. Sono abituato ad altri tipi di donna. A Casa Gioiosa c’è da divertirsi veramente. Le ragazze lì sono imbellettate come si deve, e sono parecchio spiritose. Non ci vado molto spesso, l’ingresso costa caruccio, ma quando lo faccio mi diverto sempre una cifra. «Senti,» dissi «dove preferisci che ti accompagni?» Parve delusa, ma subito si ravvivò. «Se non hai niente da fare… non ti piacerebbe uno spuntino sul Vallo? Ci sarebbe tutta questa roba…» «Be’.» dissi. In fondo non avrei trovato alternativa migliore per quella mattina. «Perché no. A quanto pare non faccio altro che recarmi sul Vallo, da qualche tempo in qua. Dev’essermi cresciuto un non so che genere di spirito agreste.» Rise delicatamente. «Non ti prometto di farmi molto onore, però,» ripresi «ho già mangiato qualcosina.» «D’accordo.» disse lei. Pilotai agilmente e abbandonai la Main per le propaggini del prato smeraldo, immersi la prua nella marea di laminette di vegetazione rupicola; bloccai il pulmino e lo posai sul terreno, un’unica compatta distesa d'erba senza nessun altro tipo di pianta. Era questo che rendeva originale il Vallo. Ogni area della stazione veniva tappezzata di varia vegetazione mutata: alberelli nani, cactus, dalie, pomodori, cedri, rabarbari e zucchine, pungitopo, stelle alpine, tulipani, fragoloni; e gardenie, viti, girasoli, albicocche, rose, mirtilli e ranuncoli. Tanto per dare un’idea, la lista è molto più lunga. Bella, invece, la totale semplicità dei prati. Lea e io ci sedemmo a terra e ne ammirammo l’uniformità. «Sulla Terra abitavo in un posto simile a questo.» disse la ragazza. «Non sapevo ce ne fossero ancora.» dissi io, francamente stupito. Non ricordavo molto della Terra, della sua natura e roba del genere; ricordavo bene le città, gigantesche e sporche, con una enormità di

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gente, i grandissimi centri industriali, la cappa di nubi cenerine che attanagliava i grattacieli, i fiumi scuri che attraversavano i centri abitati trasportando zozzerie e che sfociavano nel mare presso spiagge inaccessibili. E ricordo il vento. «Non ce ne sono più molti,» disse lei con amarezza «è anche per questo che siamo qui, non trovi?» Francamente non l’avevo capita. Non dissi nulla, ma la mia faccia dovette parlare per me, perché Lea si risentì in modo avvertibile della mia incomprensione. Non capii nemmeno la sua reazione, di sostanziale tristezza. Restammo lì, seduti accanto, in silenzio. Dovevo intervenire in qualche modo. «Sei venuta ad abitare sulla stazione con i tuoi genitori?» domandai. Non aveva la fede, ed era piuttosto giovane per vivere da sola. Non che questo significasse qualcosa. Sapevo di molti ragazzi che stavano per conto proprio. «No, vivo da sola in una villetta vicino a dove ci siamo incontrati,» rispose, guardando innanzi a sé «i miei genitori sono morti un paio di anni fa, sulla Terra.» Mi sa che m’ero accompagnato a una tipa piuttosto jellata. «Mi spiace.» dissi. Di nuovo cadde il silenzio. Lea doveva aver vissuto qualche momento duro, e non sembrava particolarmente contenta del suo trasferimento sulla stazione, ma che avrei potuto dirle? Comunque dovevo rompere questo silenzio assordante. «Mangiamo?» proposi. Lei annuì ed entrò nel bus per scartare alcuni pacchetti. «Insalata?» gridò. «Volentieri.» «Quale? Ricciolina a coste larghe, romana, un po’ di lattuga o l’ultima mutazione dell’asiatica? Oppure preferisci quella con le foglie rosse e spesse?» «Portane una qualsiasi.» Portò due pani schiacciati, affettati e qualche frutto. Niente insalata. Sedette accanto a me e distese le gambe. Erano maledettamente lunghe. Non dissi niente e mangiai. Avevo scordato lo stomaco in disordine. Le dovevo almeno questo; per quel che ricordavo io ero giunto sulla stazione di mia volontà, senza lasciare nulla di ciò che amavo. Pà aveva desiderato partire perché amava lo spazio, mi disse, e io lo seguii senza patemi.

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«Lea,» incalzai «ti piace il tuo lavoro?» Si voltò verso di me. «Sì,» disse «mi piace volare, e fare qualcosa di utile.» Il dialogo languiva di nuovo. Non saprei dire perché. Sono affabile e simpatico con la gente. Forse dipendeva dal fatto che non desideravo essere lì; eppure le ragazze di Casa Gioiosa le facevo divertire un sacco. Ingurgitai una mela e mi sdraiai sotto il cielo. Abbassai le palpebre e intrecciai le dita sullo stomaco. Al diavolo, se lei taceva avrei parlato io. Raccontai del mio impiego e delle difficoltà che incontravo nel compierlo, del modo in cui trattavo i ragazzi e dei problemi superati con i piccoli Venegiani. Lea rise diverse volte. Ebbi cura di trascurare diversi particolari compromettenti; non dovevo dimenticare che Lea, in fondo, era pur sempre una poliziotta. Parlai parecchio, credo. Non c’ero abituato, non sono il tipo del chiacchierone, anche se con i miei ragazzi ne sparo di grosse tutti i momenti. Ma quello non è parlare. Lea partecipava alla conversazione con una serena, crescente, delicata lietezza, che continuava a sorprendermi. Era facile parlarle, e ascoltava veramente, non come la maggioranza delle altre persone che conoscevo. Quando ne ebbi abbastanza restammo a lungo in silenzio, tutti e due. La contrarietà che mi aveva accompagnato fino a quel momento era sparita. Mi sentivo intorpidito. Ogni tanto ci scambiavamo qualche battuta, poi tornava il silenzio. Scoprii che sino ad allora ero stato inconsapevolmente, stupidamente sul chi vive, sempre lo ero stato. Quando fu l’ora di andare salimmo sul bus e l’accompagnai a casa, una villettina scarsamente addobbata di vita vegetale. Le portai la spesa in cucina e me ne riandai subito. Lea non richiuse la porta dietro di me e io tornai al bus quasi di corsa. Mi allontanai guidando con calma, immettendomi in un traffico abbastanza intenso, pervaso da una strana sensazione di calore. Chissà perché, il mio incontro con Lea rassomigliava a una cosa tronca. FINE ANTEPRIMACONTINUA...

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