La femminilizzazione del lavoro nel capitalismo cognitivo
di Cristina Morini
Definizioni del concetto
Da diversi anni a questa parte ormai, il concetto di femminilizzazione del lavoro è entrato, in modo
sempre più consistente, a far parte delle analisi sulle trasformazioni del mercato del lavoro collegate
ai nuovi percorsi dell’economia globale. Con esso, in termini generali, si definisce non solo
l’aspetto oggettivo dell’aumento quantitativo della popolazione attiva femminile, a livello mondiale,
ma sempre più si sottolineano i suoi caratteri qualitativi e costitutivi, ovvero le caratteristiche che
l’attuale economia informazionale, come la definisce Manuel Castells (2002), o meglio ancora ciò
che altri preferiscono nominare capitalismo cognitivo (Vercellone, 2006; Fumagalli, 2007), mette a
valore, in senso capitalistico, all’interno dei nuovi contesti di produzione. In altre parole, con questo
concetto si intende non solo sottolineare il ruolo che le donne svolgono all’interno dell’economia
contemporanea, ma anche rilevare il carattere paradigmatico di questo riferimento.
Saskia Sassen postula “l’esistenza di una relazione sistemica fra la globalizzazione e la
femminilizzazione del lavoro salariato”, nel senso che “le strutture produttive che non possono
venire trasferite offshore e devono funzionare laddove è la domanda, possono utilizzare
manodopera femminile, mentre le strutture suscettibili di venire trasferite all’estero possono
utilizzare manodopera a basso salario nei paesi meno sviluppati” (2002: 126).
Nel neoliberismo i processi di valorizzazione del capitale si estendono su scala internazionale,
giocando su differenziali di sviluppo e combinandoli a proprio vantaggio. All’interno del capitolo
complesso delle dimensioni e implicazioni degli spostamenti multidimensionali in cui le donne sono
immerse, il contesto italiano rappresenta un modello particolarmente interessante. Ha assistito, a
partire dai primi anni Novanta, a una fortissima crescita dell’immigrazione femminile su spinta
della domanda di lavoro domestico, ma alla contemporanea esclusione delle migranti da ogni altro
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tipo di beneficio sociale (Andall 2000: 63). In generale, in Occidente è aumentato il numero di
donne con un’occupazione retribuita. Negli Usa nel 1950 lavorava il 15% delle donne con bambini
in età inferiore ai sei anni. Oggi questa percentuale è salita al 65: in totale, il 72% delle donne
statunitensi ha un’occupazione.
“Se le donne del Primo mondo fanno carriera dedicando molto tempo a professioni impegnative, le loro bambinaie e
collaboratrici, che arrivano per effetto della richiesta di una crescente industria dell’accudimento, vivono una situazione
analoga ma enormemente amplificata. Che due donne lavorino per guadagnare può essere una bella idea, ma che due
madri lavoratrici si dedichino interamente al lavoro è una bella idea che è andata troppo oltre. Alla fin fine sia le donne
del Primo mondo che quelle del Terzo sono pedine di un più vasto gioco economico di cui non hanno scritto le regole”
(Hochschild 2004: 26).
In senso esteso, il processo di femminilizzazione del lavoro a cui ci si richiama è dunque
significativo, da un lato di un’implementazione esponenziale del lavoro a basso costo sui mercati
globali, dall’altro, nel contesto occidentale, segnala la tendenza verso il progressivo inserimento
delle donne nella produzione terziaria. che assume un peso tendenzialmente sempre più rilevante,
mentre contemporaneamente, si sviluppano forme di contrattazione individuale in linea con
l’unicità cognitiva della prestazione fornita. Le donne del sud del mondo sono trasformate in
sostitute salariate della riproduzione delle donne del nord del mondo, a scapito della propria
capacità/volontà riproduttiva; le donne del nord del mondo vengono spinte verso la produzione e
addirittura verso l’orizzonte della vita artificiale e/o sterile. Le catene significative che possono
essere suggerite da questo genere di collegamenti non riguardano, semplicisticamente, cause ed
effetti. Sono importanti intersezioni multidimensionali che tengono insieme il nuovo ordine
imperiale (Haraway 2000: 278)1.
Nel corso del presente saggio non si potrà considerare tutta la complessità del lavoro delle donne
sui mercati globali. Oggetto della trattazione è, in particolare, l’implementazione dello sfruttamento
delle capacità cognitive all’interno del paradigma di accumulazione presente. L’attenzione posta
alla dimensione introdotta dal capitalismo cognitivo non significa inventare, astrattamente, una
1 Per approfondimenti sul tema della migrazione si rimanda, tra gli altri, a S. Mezzadra (2006) e D. Sacchetto (2004).
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nuova centralità: il lavoro cognitivo raffigura una delle nuove forme critiche della dominazione che
innervano, complessivamente, il lavoro oggi. Da questo punto di vista si ritiene che le disamine
condotte sul tema non debbano essere considerate antitetiche ad altre analisi sulle relazioni
economiche e sui rapporti di sfruttamento, ma possano piuttosto rappresentare un arricchimento e
un’integrazione per una maggior comprensione della realtà del lavoro vivo contemporaneo (cfr.
Federici, 2003; Federici e G. Caffentzis, 2007).
Sia nel caso delle migranti che si spostano dai paesi d’origine per prestare la loro opera nel Primo
mondo, che in quello del loro impiego sempre più massiccio nel terziario dei paesi occidentali, le
donne sembrano rappresentare un modello a cui il capitalismo contemporaneo guarda con crescente
interesse, sia per quanto riguarda le forme della somministrazione del lavoro (precarietà, mobilità,
frammentarietà, bassi livelli salariali), sia i contenuti, vista la nuova centralità antropologica che il
lavoro pretende di assumere attraverso lo sfruttamento intensivo di qualità, capacità e saperi
individuali (capacità relazionali, aspetti emozionali, di linguaggio, propensione alla cura).
Il capitalismo ha puntato, in termini generali, ad appropriarsi della polivalenza, della multiattività e
della qualità del lavoro femminile, sfruttando, con ciò, un portato esperienziale delle donne che
deriva dalle loro attività realizzate storicamente nella sfera del lavoro riproduttivo, del lavoro
domestico. Seguendo questa lettura, il concetto Deleuziano del “divenire donna del lavoro”,
suggerisce la natura biopolitica dei rapporti di lavoro attuali, complessivamente intesi. Foucault può
aiutarci a chiarirlo ulteriormente. Notiamo il carattere performante – nel suo significato di
“modellante la realtà” - del lavoro contemporaneo la sua accentuata individualizzazione e
parcellizzazione, la sua deintellettualizzazione. Il corpo risulta desoggettivizzato, disciplinato,
incluso: “i rapporti di potere operano su di lui una presa immediata, l’investono, lo marchiano, lo
addestrano, lo suppliziano, lo costringono a certi lavori, a certe cerimonie, esigono da lui dei segni”
(M. Foucault 1979: 29).
Il lavoro è un effettivo momento di emancipazione delle donne di fronte all’oppressione maschile,
comunque all’interno dei limiti posti dall’organizzazione gerarchica del lavoro. Grazie alla leva
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della precarietà generalizzata, che si è trasformata in un elemento strutturale del capitalismo
contemporaneo, quel “lavoro che diventa donna”, vale a dire quella frammentarietà della
prestazione e quella complessità della dipendenza/sussunzione che le donne hanno sperimentato nel
corso di svariate epoche sul mercato del lavoro, finisce per diventare un paradigma generale,
prescindendo dal genere. In questo senso, si può sostenere che la figura del precario sociale oggi è
donna: nel capitalismo cognitivo precarietà, mobilità, frammentarietà divengono elementi
costitutivi del lavoro di tutti i soggetti indipendentemente dal genere. Il modello promosso è duttile,
iper-flessibile, in questo senso attinge al bagaglio esperienziale femminile. Nel fare ricorso a questa
locuzione sono consapevole di usare una generalizzazione che può sembrare imprecisa. Fare
affermazioni che valgano “per le donne” è impossibile, se non attraverso il lavoro senza fine di
articolare i mondi parziali dei saperi situati (Spivak, 2004). Parlare di “donne” e della loro
“esperienza”, cioè, non vuole dire pensare un unicum, ma usare una semplificazione, che resta
concettualmente distante da teorie che fanno riferimento a un fisso binomio eterosessuale ed
eurocentrico. Al contrario, proprio la presenza di soggetti di provenienze diverse e diversamente
sessuati e l’osservazione della tendenziale sussunzione da parte del capitalismo di tutte le differenze
e di tutte le forme di vita aiutano a notare, con ancora maggior forza, come il modello del corpo
complessivamente e atavicamente sottomesso al potere dall’organizzazione capitalista attinga a un
paradigma sessuale e razziale, “il soggetto nero, la donna subalterna, il migrante e l'esule, tutti sotto
i riflettori” (Puwar, 2003: 13).
La famiglia, la città, le relazioni tra gli esseri umani si trasformano progressivamente in uno spazio
economico. Dentro il lavoro odierno stanno incastrate componenti linguistico-affettive. In questo
senso il lavoro di cura delle donne si iscrive perfettamente dentro un meccanismo assai più vasto,
che comprende anche le relazioni. Le quali diventano oggetto di valorizzazione economica.
Si ricorre alle donne migranti che, attraverso i percorsi dell’economia globalizzata, sostituiscono le
lavoratici cognitive nei loro compiti riproduttivi, i quali entrano a far parte di una dinamica salariale
(Morini, 2001). Dall’altro, tutto sembra spingersi ancora più in là, nel senso di una
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industrializzazione della riproduzione attraverso l’ingegneria genetica (Franklin, 1993), tema che
non è possibile trattare qui con la dovuta attenzione. Sono in gioco, cioè, la libertà riproduttiva delle
donne, in modo diversamente declinato, nonché la traduzione in merce della riproduzione, che si
apre al mercato (cfr. Pateman, 1997; Onagro, 2003).
L’atomizzazione delle attuali situazioni lavorative genera un paradosso quanto mai interessante: il
profitto si basa sulla sommatoria della ricchezza portata al capitale dalla moltitudine cooperante, ma
questa estrazione è consentita proprio e solo dal suo essere frammentata in infinite situazioni
individuali. A ogni singolo individuo oggi corrisponde l’individualizzazione del proprio rapporto di
lavoro. Il prevalere della contrattazione individuale nel mercato del lavoro, ha l’effetto di favorire la
negazione di ogni corporeità sociale, di ogni corporeità “di classe”. Giorgio Agamben (1990: 47)
evidenzia addirittura il rischio che tutto questo si traduca in una singolarità qualunque, composta da
individui “la cui comunità non è mediata da alcuna condizione di appartenenza, né dalla semplice
assenza di condizioni (…). Essi non possono formare alcuna societas perché non dispongono di
alcuna identità da far valere, di alcun legame d’appartenenza da far riconoscere”. La condizione di
precarietà che deriva dalla contrattazione individuale da un lato esaspera la propria percezione di
unicità, dall’altro favorisce la più ampia disponibilità all’omologazione su modelli di consumo, stili
di vita, linguaggi, brand. Da lì, la vittoria del paradigma produttivo neoliberale globalizzato che
tende a instaurare il dominio di ciò che viene definito il pensiero unico, l’unirazionalizzazione della
vita.
Il capitalismo cognitivo attinge alle diverse sfere esperienziali e individuali di uomini e donne,
native e migranti, ma contemporaneamente cerca di imporre un unico e omogeneo dispositivo di
comando sul lavoro: sono proprio le differenze, e lo sfruttamento di queste differenze, a tradursi in
un surplus di valore. Da questo punto di vista, le semplici e binarie dicotomie
produzione/riproduzione, lavoro maschile/lavoro femminile perdono significato, sino a spingerci a
ipotizzare un processo tendenziale di degenerizzazione del lavoro.
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Quando parliamo di femminilizzazione del lavoro nel capitalismo cognitivo dovremmo, cioè,
sempre più applicarci a intendere il processo in modo più estensivo rispetto al solo ambito esclusivo
della “produzione”. Se vogliamo, specularmente, allo stesso modo sempre meno quando diciamo
“lavoro” nel capitalismo cognitivo intendiamo una porzione precisa e delimitata della nostra vita e
sempre più intendiamo un agire complessivo.
Caratteristiche e contenuti del lavoro cognitivo contemporaneo
Nelle aree di maggior diffusione del capitalismo cognitivo alle quali intende in particolare riferirsi
questo saggio, il nostro agire complessivo diventa, sempre più vistosamente, lavoro produttivo.
Caratteristica peculiare del modo di produrre attuale è infatti lo sfruttamento della capacità di creare
e di relazionarsi. Sono gli scambi linguistici e cooperativi: il soggetto precario si dà nella rete di
relazioni, addirittura non ha consistenza al di fuori di esse. Identità personale, sociale e
comunicazionale s’identificano, in una sorta di cortocircuito.
In altri momenti storici il luogo di lavoro ha rivestito un ruolo fondamentale dal punto di vista
ricompositivo e formativo dei soggetti (Bravermann, 1978). Oggi il capitalismo cognitivo coniuga
forme arcaiche e forme innovative di lavoro, ponendole tutte attuali. Da un lato si assiste a un
parziale processo di ri-taylorizzazione del lavoro intellettuale, dall’altro alla trasformazione in
lavoro direttamente produttivo di attività sociali e umane. Non a caso, il luogo di lavoro non è più il
solo centro di in/formazione del soggetto ma l’attività lavorativa richiede competenze sempre più
espanse che vengono attivate dall’intera rete sociale e territoriale dove il soggetto si muove, vale a
dire tende a incamerare tutte le sfere vitali della società. Di tutta l’immensità che individualmente e
soggettivamente ci sostanzia, si sostanzia il lavoro attuale. Il quale, infatti, non può più essere
ricondotto a un qualcosa di precisamente definito dentro spazi precisi. C’è nel lavoro un’eccedenza
di senso, di significato, di produzione simbolica di cui la nostra soggettività al lavoro è
obbligatoriamente portatrice, poiché l’economia della conoscenza attuale traduce pensieri, desideri,
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pulsioni, affetti in elementi quantificabili, misurabili e monetizzabili. Punta a ridurre le vite, e la
loro complessità, in “patrimonio strategico” per l’impresa (Moulier Boutang, 2007).
Assistiamo al generarsi di una commistione delle due categorie “creazione” e “produzione”, al
punto che si renderebbe necessario lavorare approfonditamente, anche soggettivamente, su questi
due concetti alla luce dei nuovi processi. Diventa necessario capire le forme arcaiche e nuove in cui
si manifestano lo sfruttamento, la reificazione, l’alienazione, la patologia. E, allo stesso tempo,
analizzare i luoghi e i momenti in cui si generano invenzione, creazione, azione.
Attraverso le tecnologie informatiche è completamente mutato il rapporto tra concezione ed
esecuzione, quindi il rapporto tra il contenuto intellettuale e la sua esecuzione materiale (Berardi,
2001). Per dirla con Gorz (2003: 137), le attività "non pagate più comuni e quotidiane, si
confondono con l'attività produttiva vivente in un ambiente abitato e diventano oggetto del proprio
stesso lavoro", instaurando cioè un processo bioeconomico (Fumagalli, 2005). Un meccanismo di
ininterrotta produzione di informazioni e di simboli che provvede a controllare e a incanalare ogni
pulsione e pensiero e desiderio umano verso il lavoro (Fumagalli, 2007). Il lavoro vivo, si direbbe,
in questa situazione non riesce a vincere sul lavoro morto. Si attua così il processo di mortificazione
di quello che appare, ab origine, un lavoro vivo.
E’ particolarmente interessante l’aspetto potenzialmente “trasformativo” che il lavoro, in questo
contesto, ha/può avere in riferimento al soggetto. Una capacità di modificazione tendenziale
dell’essere umano e del suo modo di esistere e di sentire il mondo, che innesca una “variazione
antropologica” (Marazzi, 2005). Questa tendenziale “variazione della specie” generata dalle
trasformazioni del lavoro contemporanee, si realizza soprattutto attraverso i meccanismi percettivi
attivati dalla precarietà, a partire dallo scompaginamento delle categorie di tempo e spazio, e
attraverso i nuovi processi di valorizzazione del capitale cognitivo e di controllo sociale (Bologna,
1997).
La forma che oggi il lavoro assume ingloba tempo e qualità soggettive e in questo senso, come detto
sopra, le donne rappresentano un bacino strategico particolarmente appetibile. Viene meno un
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aspetto fondamentale: la separazione tra il lavoro e il lavoratore. Mettere in produzione emozioni,
sentimenti, tutta la vita extra-lavorativa, le reti territoriali e sociali, significa infatti, rendere
produttiva l’intera persona. Quello che va veramente, completamente sviscerato è dunque questa
nuova natura del lavoro, questo suo essere vita activa più che “solo lavoro”, chiaramente separato
dalla sfera biologico-riproduttiva-emotiva.
E’ possibile che tutto questo comporti, in prospettiva, come sostiene Christian Marazzi, addirittura
“la fine della categoria lavoro” in senso stretto (Marazzi, 2002). Ma non certo dentro un’ipotesi
rifkiana, né meno che mai dentro un’ipotesi di libertà dal lavoro, ma esattamente per motivi opposti:
il lavoro pretende di prendersi tutto sancendo così, definitivamente, finalmente, che l’esistenza
diventa lavoro. Punta a fondere lavoro e lavoratore. “Il problema non è la fine del lavoro è il lavoro
senza fine”, come ha scritto efficacemente Cohen (2001). Il problema non è “essere flessibili”, il
problema è l’inflessibile flessibilità del presente.
Oggettivamente, negli ultimi vent’anni, noi abbiamo assistito a un allungamento costante della
giornata lavorativa. Una ricerca dei primi anni Novanta di Juliet Schor (Schor, 1992) dimostra come
la vita lavorativa (professionale e domestica) degli americani nei vent’anni precedenti si fosse così
ampliata da lasciare loro solo 16 ore di tempo libero alla settimana. Certo, oggi è diminuito il tempo
di lavoro immediatamente necessario alla produzione materiale (esecuzione manifatturiera) grazie
ai processi di automazione. Ma, contemporaneamente, sono aumentati in modo esplosivo il tempo
di lavoro vivo linguistico-comunicativo-relazionale, la comunicazione intersoggettiva e la
cooperazione creatrice di valore.
Michel Foucault spiega che dopo una prima presa di potere sul corpo, che si è realizzata attraverso
le tecnologie disciplinari del lavoro e che si è effettuata secondo l’individualizzazione, abbiamo una
seconda presa di potere che procede nel senso della massificazione, della pervasività e
dell’assolutizzazione dell’economico come riflesso della centralità che ha assunto il fattore
linguaggio in senso esteso.
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“A differenza della disciplina, che investe il corpo, questa nuova tecnica di potere non disciplinare,
una biopolitica della specie umana, si applica alla vita degli uomini, o meglio, investe non tanto
l’uomo-corpo, quanto l’uomo che vive, l’uomo in quanto essere vivente. Potremmo dire che investe
l’uomo-specie” (Foucault, 2005: 49)
Due macro-ambiti mostrano come le caratteristiche del lavoro oggi abbiano stretta attinenza con
quanto sostenuto e attingano al portato esperienziale femminile: lo spazio e il tempo.
1) La riorganizzazione spaziale: l’home office o la domestication del lavoro che delinea il nuovo
paesaggio casalingo del lavoro. Vita privata e vita lavorativa si integrano all’interno degli spazi
domestici e i due ambiti si trasformano e si ibridano reciprocamente. La casa si dilata fino a
inglobare l’attività lavorativa stessa o viceversa è il lavoro che va a violare una zona intima e
protetta? Si veda anche l’aspetto assolutamente simbolico della riorganizzazione estetica degli spazi
di lavoro che ha preso spunto dalla cultura della differenza e dalla diversità, come nota Eleonora
Fiorani (2003). Siamo al divenire nomade dell’ufficio e della postazione lavorativa: “il lavoro e la
sua geografia si esprimono attraverso postazioni sparse, decentrare, collegate virtualmente e questo
configura, in ricaduta, i nuovi mutamenti del vivere”(Fiorani, 2003: 246).
E’ un esempio della condizione transitoria e mutevole del lavoro e fotografa proprio l’inglobamento
di sfere altre dell’esistere (pensare; rilassarsi; fare ginnastica; socializzare) all’interno dello spazio
del lavoro. La casa, il privato diventano parte dello spazio produttivo, diventano un luogo
esplicitamente economico, dove si muovono attori economici (i soggetti che usano la propria casa
come un ufficio e poi colf, babysitter, badanti). In questo senso risulta ancora più evidente la caduta
della separazione tra riproduzione e produzione.
2) La riorganizzazione del tempo. Il tempo di lavoro si modifica facendo saltare la differenza tra
tempo di lavoro e tempo libero, alterando perfino quello tra veglia e sonno. Si pensi alla fine
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dell’alternanza dei vari tempi sociali, all’introduzione di una percezione della giornata dove
praticamente manca la sospensione.
Il capitalismo cognitivo spinge perché si assumano doppi, tripli ruoli lavorativi, introduce l’idea di
un’adattività e flessibilità infinite, realtà ben nota alle donne. Esiste infatti una tendenza femminile a
trasferire modalità e logiche del lavoro di cura, in particolare della relazione madre-figlio che,
praticamente, non ha confini di tempo e di dedizione, all’interno del lavoro professionale. Modalità
configurabile anche come una strategia, sperimentata a livello soggettivo dalle donne, per conciliare
i vari ambiti e reggere la loro separazione (Prokop, 1978: 63). In altre parole, si tratta di
“un’attitudine culturale” delle donne che diventa assolutamente funzionale alle necessità delle
corporation contemporanee. La sfera del lavoro ha la pretesa di essere un corpo vivente, che
necessita tutto il tempo, tutte le cure, le parole e le azioni. Se nel gioco economico entra la vita
stessa (accumulazione bioeconomica), le donne, cioè, vengono spinte a dirottare verso l’“impresa-
corpo-vivente” tutto il tempo, tutte le cure, tutte le parole, tutte le attenzioni.
In tutta l’Europa e in particolare in Italia (dove il numero di ore medie annue di lavoro per persona è
di 1804, dati Ocse 2007) si assiste a un progressivo allungamento degli orari di lavoro
(quantificabile anche in una diminuzione generalizzata dei giorni di ferie, di malattia, di assenza dal
lavoro)2.
Alla base del sempre maggior impegno sul lavoro degli americani e della tendenza degli europei a
emularli c’è, innanzitutto, il farsi incerto e precario del nostro vivere oltre alla spaventosa e
incalzante spinta a incrementare i consumi in presenza di una tendenziale perdita del potere
d’acquisto dei salari. Nel work-and-spend cycle delle società contemporanee occidentali si vede,
cioè, quella la tendenza che Galbraith individuava già nel 1967 a desiderare più beni di consumo e
2 Secondo uno studio di Lionello Tronti dell’Istat, l’orario di fatto dei dipendenti del settore privato è, in Italia, “pari in media a 1.694 ore l’anno: 153 ore più di quello dei francesi, 225 ore più di quello dei tedeschi, 73 più di quello degli inglesi, 60 ore più di quello degli spagnoli. Inoltre, l’orario italiano è maggiore di 143 ore l’anno rispetto alla media dei 15 paesi di più antica appartenenza all’Unione e, se confrontato con i maggiori tra i paesi di nuova accessione, risulta significativamente inferiore soltanto a quello di Polonia e Romania” (www.lavoce.info, 9 gennaio 2006). Gli italiani sono gli unici, all’interno della Ue, a essere allineati sugli orari di lavoro degli Usa con 1.810 ore l’anno nel 2003, (1.817 ore per gli americani) in modo significativamente superiore a Francia, Germania e Regno Unito (in media, 1.498 ore).
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meno tempo libero. Ma è possibile notare e sottolineare come, dietro la spinta dello spettro della
precarietà, le singolarità vengono piegate a una logica adattativa/sacrificale/oblativa che è un
portato culturale dell’esperienza storica femminile. Il concetto di sussunzione oggi si spinge ad
attingere alle sfere del vissuto del soggetto.
Qualche considerazione a questo punto
A quali prime considerazioni possiamo giungere, in termini generali, che cosa possiamo trarre ai
fini del nostro ragionamento sulla femminilizzazione del lavoro, a questo punto della trattazione?
1) Il modello d’organizzazione del lavoro attuale, precario, adattabile, saltuario, lavoro nomade
nell’ufficio nomade o fatto di prestazioni a domicilio ma con le nuove macchine (i computer),
autocrati dell’era contemporanea, si presenta, nei suoi tratti salienti, di contenuto, come modalità
storica del lavoro femminile. E contemporaneamente proprio la realtà eccedente sulla vita di questa
condizione di sfruttamento complessivo/intensivo del soggetto, può assurgere a metafora delle
nuove forme di pressione, sussunzione, violenza cui pare condannata gran parte dell'umanità, al di
fuori del genere, in relazione al lavoro.
2) Illuminare quest’aspetto del lavoro incessante (in termini di tempo e in termini di senso), del
lavoro nomade e del lavoro domestico significa capire l’essenza della femminilizzazione del lavoro,
ovvero il perché le donne rappresentino una paradigma straordinario per gli obiettivi del capitalismo
attuale.
3) Possiamo considerare di essere al cospetto di un’inflessibile flessibilità. Siamo consapevoli del
fatto che parte delle rivendicazioni operaie degli anni 70, in particolare in Italia, si basavano anche
sul “rifiuto del lavoro”, puntando a una maggiore flessibilità (che voleva dire una rivincita dei tempi
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della vita sui tempi della macchina). Il modo di produzione postfordista si è dato come
metabolizzazione della critica sociale e culturale al modello fordista degli anni Settanta (Boltanski e
Chiapello, 1999). Oggi, la realtà di fronte alla quale ci troviamo, per tutte le ragioni addotte sopra,
non si configura come una forma di flessibilità reale ma pretenda piuttosto di presentarsi come
forma di incatenamento crescente delle esistenze e delle intelligenze al lavoro.
La struttura del lavoro presente mostra una estrema rigidità, vocazione prescrittiva, e,
contemporaneamente, ingordigia (vuole più “tempo”, più “spazio”, più “senso”, più “attenzione”)
che si riverbera sul vissuto del soggetto proprio perché all'interno di uno schema estremamente
flessibile per l'impresa.
4) La precarietà dilagante implica solo apparentemente, per le donne, il rischio di una più ampia
cristallizzazione delle figure sociali, idea che potrebbe venir suggerita dal fatto che
l’informalizzazione del rapporto di lavoro opera anche sul piano dell’organizzazione sociale.
Viceversa, è possibile ritenere che la precarietà contribuisca, in prospettiva, a de/ri/costruire
l’identità, degenerizzando il lavoro. Al riguardo, si può notare che la precarietà, ai fini dei nuovi
processi di accumulazione flessibile, innesta e coniuga il processo di femminilizzazione del lavoro
dominando un aspetto trasformativo della persona e inducendo un cedimento progressivo della
dicotomia anche fordista uomo/donna, produzione/riproduzione. Poiché, oggi più platealmente che
mai, le differenze tutte diventano oggetto di estrazione di valore, in termini capitalistici.
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Lavoratori e lavoratrici della conoscenza
Il tasso di attività femminile è in Italia tra i più bassi d’Europa, pari al 45,2%. Il lavoro femminile è
maggiormente concentrato in tre settori principali del terziario (formazione; sanità; assistenza). In
questo quadro, Milano rappresenta una punta avanzata e un’anomalia. Secondo l’Osservatorio
provinciale sul mercato del lavoro3, nel 2004 il tasso di attività femminile in provincia di Milano
risulta superiore di quasi 12 punti percentuali rispetto al dato nazionale (56,9%) e di quasi due punti
rispetto al dato lombardo (55,0%), con una crescita costante nell’ultimo decennio: l’incidenza della
componente femminile sul totale dell’occupazione milanese ha evidenziato una dinamica
significativa negli ultimi dieci anni, passando dal 38% del 1993 al 43% del 2004. Se tale andamento
dovesse venir confermato anche nel prossimo decennio, è possibile stimare che nel 2020 metà
dell’occupazione milanese risulterà femminile4. Gli occupati complessivi nelle attività terziarie
milanesi rappresentano la quota maggioritaria del totale degli impieghi e nel corso del 2004 si sono,
attestati al 68,% del totale, un valore mai raggiunto in precedenza. Di questi si può stimare che la
metà (34% dell’occupazione complessiva) svolga un’attività cognitivo immateriale e il loro numero
sembra destinato a crescere. Gli occupati nell’industria sono per contro scesi al 31,6%. Più nel
dettaglio le attività manifatturiere in senso stretto hanno registrato un’incidenza pari al 25,7% del
totale. Milano presenta al più elevato grado quello che viene ormai da più parti definito come
processo di terziarizzazione e di femminilizzazione del lavoro: le più ampie possibilità di impiego
per le donne (occupabilità)5 vengono offerte soprattutto nell’ambito della produzione cognitiva.
E’ in questo contesto che i nuovi processi di accumulazione del capitale sussumono tutta
l’immaterialità/materialità di sentimenti, saperi, corpi, esperienze, risorse della vita. Quel 34% di
occupati del terziario immateriale dell’area milanese rapprsenta il contenitore principale dello
3 Cfr. Provincia di Milano, Il lavoro difficile, Rapporto 2004 sul mercato del lavoro e le politiche del lavoro in Provincia di Milano, F.Angeli, Milano, marzo 2006.4 Cfr. Provincia di Milano, Il lavoro difficile., op. cit., pag.53 e ssgg.5 Se si disaggregano i dati per fasce di età, il tasso di attività e di disoccupazione risultano ancor più divaricati da quelli nazionali per la classe di età compreso tra i 25 e i 40 anni. Dopo i 40 anni si registra un brusco calo, soprattutto del tasso di attività femminile.
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sviluppo del “lavoro cognitivo”. Con esso intendiamo definire tutto ciò oggi evoca, in modo tanto
apparentemente vago quanto drammaticamente preciso, l’estrazione di valore dalle attività
cognitive e relazionali dell’essere umano, vale a dire dai saperi, dalla formazione, dall’apparato
simbolico ed esperienziale dei singoli soggetti, dalla loro creatività e dal loro agire naturalmente
cooperativo. Se il fordismo rappresenta l’era della produzione materiale di merci e a tal fine utilizza
la forza del corpo, il capitalismo cognitivo incarna l’epoca della produzione di conoscenza,
attraverso la valorizzazione delle facoltà relazionali, comunicazionali, cognitive6.
Tuttavia, tali facoltà sono sempre più soggette a una tendenza di standardizzazione e di controllo.
Ne è protagonista in primo luogo la conoscenza che, ai fini della valorizzazazione, diventa,
codificabile e oggettivabile, per ridursi, cioè, a qualche cosa di immediatamente trasmissibile, e cioè
a semplice oggetto di consumo. Questa tendenza punta a trasformare la conoscenza in un fattore
alienabile, separabile dai suoi stessi produttori.
Alcune aree, come la ricerca, la formazione, l’informazione, assistono a una crescente diffusione
delle condizioni di precarietà, che diventano non episodiche né tanto meno agìte ma strutturali. I
giornalisti precari in Italia sono circa 50.000 a fronte di 17.000 redattori con un contratto di lavoro a
tempo indeterminato, i ricercatori universitari precari circa 45.0007. Riteniamo che ciò dipenda
esattamente dalle caratteristiche implicite nella prestazione lavorativa immateriale, ambiguamente a
cavallo tra uso individuale delle capacità cognitive e creative dei singoli e la sempre più massiccia
standardizzazione delle forme della conoscenza, dell’informazione e della formazione. Il quadro
che comprende e perimetra tutto questo descrive un crescendo di attenzione ai profitti tout court e
perfino di tentativi di misurazione del tempo e della produttività dei soggetti coinvolti. D’altra parte,
l’aspetto individuale implicito in tali prestazioni lavorative, si salda con la tendenza
6 Citiamo tra le molte cose possibili gli studi di Alfred Tomatis, secondo cui il bisogno di comunicazione “nasce prima di tutto dal desiderio di non rompere (o eventualmente di rinnovare) la relazione sonica intrattenuta con la madre durante la vita prenatale. L’essere umano vuole conservare o ritrovare un mondo di legame verso il mondo esterno e verso l’altro di cui ha tratto, quando era ancora allo stato embrionale, le più grandi soddisfazioni” in A. Tommatis, 1977, pag.248.7 Trattandosi di dati non accertati (poiché in Italia manca un’anagrafe precisa che censisca queste figure) non ci è possibile stabile con certezza la percentuale della presenza femminile. Da una serie di singole statistiche attivate nei giornali o nelle università si può dedurre che le donne siano ormai maggioranza relativa all’interno di queste professioni.
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all’individualizzazione dei rapporti di lavoro e finisce per tradursi in precarietà esistenziale e nel
peggioramento progressivo e apparentemente inarrestabile delle condizioni in cui si svolge la
prestazione lavorativa, attraverso un sistematico smantellamento di ogni forma di garanzia.
Il processo di precarizzazione del lavoro attiene, insomma, alla sostanza di queste professioni,
laddove l’essere individuo, l’essere soggetto, l’essere attore – con competenze e capacità cognitive
peculiari, saperi ed esperienze del tutto personali - gioca un ruolo determinante, ed è la radice di
forme di autosfruttamento come della difficoltà ad agire connessioni e relazioni conflittuali (si veda
lo scollamento rispetto a rivendicazioni sindacali perfino auto-organizzate; si veda il rapporto con le
strutture gerarchiche). In questo senso i meccanismi di controllo stanno davvero diventando
immanenti al campo sociale e li ritroviamo diffusi nel corpo e nel cervello delle persone. Ci stiamo
confrontando con forme di alienazione autonomamente scelte, che partono, proprio e
incredibilmente, dal desiderio di creatività dei soggetti stessi.
Questo genere di processo finisce per influenzare in modo molto esplicito anche la distribuzione di
genere all’interno delle professioni cognitive, proprio nel senso di quanto sostenuto sopra, vale a
dire che le donne risultano più gradite proprio per le caratteristiche qualitative/adattative che sono in
grado di garantire. Secondo una ricerca svolta da Francesca Gambarotto e Giorgio Brunello (2005),
la precarietà delle condizioni lavorative dei ricercatori può finire per influenzare la distribuzione di
genere dei docenti universitari, e rafforzare il processo di femminilizzazione nella fase di ingresso
alla carriera universitaria. Va ricordato come questo processo sia già noto per l'università italiana,
dove il 39,3 per cento dei ricercatori sono donne, a fronte del 19,1 per cento dei professori. Ma è
soprattutto l’aspetto tendenziale a risultare particolarmente interessante:
“il processo di segregazione di genere va di solito a braccetto con basse retribuzioni e condizioni di lavoro meno
favorevoli. Non è chiaro, tuttavia, se saranno i bassi salari a rendere socialmente poco desiderabile il ruolo del
ricercatore, creando così spazi lavorativi per le donne. Oppure, se, viceversa, sarà la forte presenza femminile nel livello
più basso della docenza universitaria a ridurne il valore economico, a causa di pregiudizi sociali. (…). Una bassa
retribuzione del lavoro di ricercatore, oltre a segnalare il modesto valore sociale che il nostro paese riconosce a questa
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professione, ne riduce il prestigio, soprattutto per i giovani di maggior talento. (…) È dunque lecito ipotizzare che il
prestigio sociale della professione universitaria si ricrei attraverso la formazione di un doppio binario professionale: una
base flessibile e prevalentemente femminile di ricercatori, disposta ad accettare basse retribuzioni e scarse possibilità di
carriera e un vertice prevalentemente maschile, formatosi spesso all'estero e in grado di acquisire quelle competenze
professionali e relazionali necessarie per accedere alle reti e ai fondi di ricerca internazionali”.
(Gambarotto e Brunello, 2005)
Una ricerca che ho condotto qualche mese fa (settembre-novembre 2006) tra i giornalisti free lance
della Rcs Periodici (che fa parte di Rcs Media Group, il principale gruppo editoriale italiano) mostra
alcuni risultati molto interessanti8. Innanzitutto le donne rappresentano il 58% del campione, dato
che segnala in modo inequivocabile la tendenziale femminilizzazione della professione. Il 31% di
loro ha un’età compresa tra i 25 e i 35 anni (contro il 38% dei maschi), mentre un altro 31% si situa
tra i 35 e 45 anni (38% per i maschi). Non è un dato sorpendente: la fascia d’età che si confronta più
da vicino con il fenomeno della precarizzazione è quella dei trenta/quarantenni (si scende al 20,6%
tra i 45-55 anni e al 10,3 dopo i 55 anni). Il 62% è in possesso di una laurea e il 20,6% di un titolo
post laurea (percentuali che si riducono drasticamente per gli uomini: rispettivamente il 47% e il
14%), confermando il dato di un più alto livello di istruzione per le donne rispetto agli uomini. Da
una veloce analisi descrittiva, vediamo che per le donne è più utilizzato il contratto di lavoro
subordinato, seppur atipico (30% contro il 17% dei maschi).
Il 42,8% delle intervistate ha già figli, mentre il 57,1 non ne ha. Alla domanda a chi non aveva figli
se ritenevano che la loro condizione lavorativa “non strutturata” in qualche misura influisse su tale
tipo di situazione, il 12,5% ha risposto “molto”, il 31,2 “abbastanza”. I due dati sommati ci dicono
che il 43,7% delle free lance del campione intravede una relazione sistemica tra la propria
situazione lavorativa e la difficoltà ad agire autonome scelte di vita in un campo che ha implicazioni
estremamente importanti anche dal punto di vista psicologico, poiché tende a sovradeterminare il
8 La ricerca è stata svolta con l’invio di 300 questionari che hanno ricevuto 80 risposte non complete e 50 complete. Le statistiche sono state realizzate a partire da queste ultime. I collaboratori occasionali, all’interno della realtà della Rcs Periodici, raggiungono il numero di circa 600 persone (su 270 assunti). Ma il questionario è stato indirizzato solo a 300 di loro, vale a dire a coloro che avevano, provatamente, un rapporto di collaborazione strutturato da almeno un anno con una redazione. Si può vedere il testo completo dell’indagine svolta su http://www.lsdi.it/dossier/precariato/index.html.
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desiderio e limita lo sviluppo armonico della propria volontà di autoderminarsi. Le strategie di
sopravvivenza che il lavoro precario costringe a mettere in atto complicano vistosamente l’esistenza
delle donne, rendendo, oggettivamente, ancor più difficile di come è da sempre la possibilità di
gestire sia la sfera privata che pubblica. Si evince da questo elemento particolarmente
paradigmatico quanto, oggi, il lavoro finisca per andare a contaminare in maniera mutilante altri
piani dell’esistenza, assumendo un ruolo centrale nelle proiezioni e introiezioni del soggetto.
Il 10,3% delle donne che compongono il campione guadagna meno di 600 euro lordi al mese, il
24,1 tra i 600 e i 1200, il 20,6 tra i 1200 e i 1800 euro lordi al mese Analizzando il campione
maschile, la quota di uomini che guadagnano meno di 600 euro sale al 28%. Tale discrepanza
deriva probabilmente dalla maggior incidenza per le donne di contratti di lavoro subordinati, che
garantiscono, seppur limitatamente, un flusso di reddito mensile più elevato di quello che deriva da
contratti di lavoro autonomi e freelance. Ma è più probabile che il maggior guadagno relativo delle
donne sia soprattutto imputabile al processo di degenerizzazione dell’attività giornalistica nei
periodici, in seguito alla maggior presenza femminile: l’essere donna, in questo caso, finisce per
contare. Contano anche i flussi di relazioni e i canali di fidelizzazione: probabilmente le giornaliste
sono più abili a tessere reti rispetto ai giornalisti uomini.
Tuttavia, la maggioranza del campione può contare su cifre che certamente non consentono, anche
da questo punto di vista, di poter governare la propria esistenza in regime di reale autonomia. La
questione dell’inadeguatezza del salario diretto, oltre a rendere evidente come in Italia esista ormai
un vistoso problema di valorizzazione delle professioni cosiddette intellettuali in termini salariali,
diventa estremamente più pressante se si commisura alle politiche di privatizzazione del settore
pubblico avviate da almeno un decennio a questa parte, in Italia come nel resto d’Europa, le quali
finiscono per decurtare ulteriormente il reddito, canalizzandolo obbligatoriamente verso forme
privatistiche di assicurazione. Questo fattore diventa ancor più pressante per le donne che, di norma,
in Italia, possono contare su stipendi relativamente più bassi rispetto a quelli degli uomini9.
9 Nel 2004 le famiglie residenti in Italia che vivono in condizione di povertà relativa sono 2 milioni 674 mila, pari all'11,7% delle famiglie residenti, per un totale di 7 milioni 588 mila individui, il 13,2% dell'intera popolazione. Nel
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Eppure, per il 39,5 per cento delle donne che hanno risposto al questionario proprio “l’autonomia”
rappresenta il primo motivo di soddisfazione della propria attuale condizione lavorativa, pur
precaria, seguito da un 18,7% che sottolinea la “mancanza di monotonia” e da un 18,7% che sceglie
invece la voce “dinamicità”. Non è difficile trarre da queste valutazioni, l’esistere – ancora, sempre,
nonostante tutto - di un desiderio, di una prospettiva che spinge le donne verso la scelta del lavoro
autonomo. Non sono state premiate in nessun modo le voci “salario”, “considerazione”, che non
hanno ottenuto alcun consenso (come era facile immaginare, proprio per quanto detto sopra),
mentre anche il tema “relazioni”, da sempre molto importante per le donne, ha ottenuto solo 4,1
riposte su cento, aspetto significativo di un peggioramento, di uno scadimento dei rapporti in ambito
di lavoro, collegato all’accrescersi della competizione e dell’individualizzazione (un 30% segnala
rapporti di competizione con gli altri colleghi precari e un 30% di indifferenza). Viceversa, il tema
in sé dell’autonomia e della possibile mobilità, variazione, esperienza, piacere che dietro il tema si
cela, viene valorizzato e riconosciuto, nonostante tutto. Se confrontiamo questi dati con il campione
maschile, è interessante notare che la differenza più macroscopica riguarda proprio la soddisfazione
che deriva dalle attività “relazionali” (12%).
Alla domanda successiva “che cosa non ti soddisfa della tua attuale condizione lavorativa” il 22,8%
ha risposto “labilità del rapporto di lavoro”. Il che va inteso non come una contraddizione rispetto a
quanto sostenuto sopra, ma piuttosto come un suo rafforzamento: se l’orizzonte resta quello della
autonomia e della dinamicità, è vero che l’assenza di qualsiasi forma di rete e di sostegno per il
lavoro precario, in Italia, rendono quanto mai incerto il vivere e dunque particolarmente difficile la
possibilità di espressione proprio di quella potenziale autonomia, di quella dinamicità. Non a caso il
37% non vorrebbe, potendo scegliere, un posto di lavoro a tempo indeterminato e il 18,5% lo
vorrebbe “solo perché penso che guadagnerei di più” e il 7,4% addirittura “non ci ha mai pensato”.
rapporto 2001, si legge: “La maggior diffusione della povertà si registra tra le famiglie con capofamiglia a donna, soprattutto al Nord, dove l’incidenza per le donne è del 7% contro i 5,1% dei maschi” cfr. “La povertà in Italia nel 2000. Note Rapide” Istat, Roma, 21 luglio 2001, pag. 3.
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Nel tempo (da 5-7 anni a questa parte), le intervistate sottolineano di avere assistito soprattutto a un
peggioramento delle retribuzioni (17%), poi a un peggioramento della qualità del lavoro (14,6%), e
dei rapporti con le aziende (12,2%) e a un aumento della competizione (12,2%).
Il 61,2% ritiene che fare il giornalista sia “interessante”, il 16,1 che sia un lavoro come un altro, il
19% che renda necessario fare molti sacrifici per svolgere la professione. Oltre il 60% del campione
non è iscritto al sindacato e nel 75% dei casi da esso non si ritiene tutelato. Sindacato che, invece,
dovrebbe imporre “tariffari”, “tempi di pagamento certi” ed eventualmente vincolare di più gli
editori all’assunzione, dopo qualche anno di contratto a termine. Potendo scegliere però le donne
intervistate vorrebbero nel 36,6% dei casi “garanzie di reddito sganciate dal lavoro”, nel 43,3%
continuare a fare esperienze sempre diverse. Solo il 20% vorrebbe, come prospettiva futura, un
posto di lavoro a tempo indeterminato. Significativamente diversa è invece l’opinione maschile, per
la quale quasi la metà degli intervistati (45%) opterebbe per la stabilità del rapporto di lavoro e solo
il 20% ha come primo obiettivo la continuità di reddito. Da questo punto di vista, le donne appaiono
più rivolte al futuro e meno dipendenti da visioni più tradizionalmente legate all’etica lavorista di
stampo fordista.
Conclusioni finali
Sulla base delle definizioni e delle analisi condotte possiamo, a questo punto, provare a trarre
alcune conclusioni parziali.
1) La natura linguistica del regime postfordista rende necessario la ridefinizione della produttività
sociale. Facoltà di linguaggio e risorse neuronali: ecco, in estrema sintesi, gli strumenti sui quali
si basa la valorizzazione capitalistica attuale nel capitalismo cognitivo. Sembra piuttosto
evidente, già da qui, l’inesistenza di una qualsiasi possibilità di distinzione tra intenzione e
strumento: grazie alle nuove tecnologie la conoscenza non è più incorporata nelle macchine o
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nei materiali o nei prodotti finiti ma nel lavoro cognitivo stesso. Codici, linguaggi permettono
alla conoscenza di circolare da sola, indipendentemente dal capitale fisso. E allora, già da qui -
senza andare a riprendere il tema dell’allungamento del tempo di lavoro di cui abbiamo già
piuttosto diffusamente parlato – è possibile dedurre una specie di circolarità della produzione
che si fa potenzialmente tutt’uno con la vita, diventando performativi le parole, le relazioni, il
linguaggio, le emozioni. Inoltre, la precarietà delle condizioni, come detto, rende estremamente
più potente il lavoro rispetto al soggetto individualizzato, riverberando la propria ortodossia
sulle scelte di vita, fondendo produzione e riproduzione, insomma generalizzando il sentimento,
la percezione, della labilità all’intera esistenza.
2) La femminilizzazione del lavoro cognitivo può portare con sé un aspetto segregazionale di tipo
tradizionale. La ricerca svolta tra le lavoratrici freelance della Rcs Periodici non disconferma
questa tendenza, anzi. Dimostra che l’ambito dei giornali periodici viene oggi maggiormente
percorso dalle donne, e questo potrebbe essere letto giustamente come una minor interesse degli
uomini a presidiare determinate aree, ritenute meno appetibili in termini di retribuzione e di
considerazione sociale.
Tuttavia, le risposte del campione femminile della Rcs mostrano un interessantissimo “contro
canto”: la richiesta di autonomia, il valore che viene attribuito alla variazione e all’esperienza,
alla mobilità e dunque all’infedeltà intesa come dinamicità perenne, come tensione infinita del
soggetto, il minor interesse per un impiego a tempo indeterminato, la preferenza accordata
all’idea del reddito sganciato dal lavoro oltre al dato particolarmente nuovo e significativo dei
maggior guadagni (pur relativi) delle donne rispetto ai maschi, fanno intravedere una maggior
capacità delle donne a muoversi sulle sabbie mobili, come direbbe Bauman (2005: 131). Una
loro, cioè, più ampia capacità adattativa, portata con sé dalla loro determinante eccedenza che le
rende più resistenti e più reattive. Gli uomini - per le condizioni storico-sociali vigenti,
compresa una costruzione sociale sessuata - mostrano più difficoltà ad adattarsi alle nuove
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dimensioni polivalenti e qualitative richieste dalla nuova impresa nel nuovo mondo. Proprio
quelle caratteristiche, dunque, che rendono appetibili le donne per il mercato del lavoro attuale,
proprio la loro stessa capacità adattativa, può trasformarsi, in potenza, nel maggior limite con
cui il mercato del lavoro potrebbe trovare a confrontarsi nel prossimo futuro.
3) La forza del capitale cognitivo contemporaneo sta nel piegare le variegate essenze
esperienziali individuali dentro i bisogni della produzione. Il tentativo di operare l'intera
reificazione dell'individuo dentro i processi produttivi mostra, sin dalle premesse, una falla
poiché non può prevederne, in tutto e per tutto, la completa standardizzazione. Il sapere delle
singolarità non è infatti, mai, del tutto trasmettibile fuori dal circuito dell'esperienza. In questo
preciso punto può prendere corpo l'eccedenza che può diventare il centro, la radice, di nuove
strategie di adattamento, di sopravvivenza, di conflitto, insomma, in prospettiva, di sottrazione.
Si innesta qui, allora, l’altro campo semantico, diametralmente opposto al primo, del termine
precarietà, quello che accenna alla mutazione, alla rimessa in discussione, alla possibilità, al
divenire, al futuro. Perfino - date certe condizioni, ovvio - a una prospettiva di liberazione,
almeno parziale, dal lavoro. Il problema, per il capitalismo, diventerebbe allora non quello di
riuscire a inglobale, ma piuttosto a trattenere, le differenze.
4) Il punto di vista di genere, lo sguardo delle donne, può far emergere con maggior lucidità le
contraddizioni interne al processo che tendono alla reificazione complessiva dell’umano, in
forza di un’esperienza atavica: non si sottolinea abbastanza, soprattutto in Europa, che le
donne hanno sempre lavorato e quasi sempre nelle peggiori condizioni possibili.
5) Il problema reale, nel presente, è quello di portare in piena luce e di far pesare politicamente
l’intreccio fra lavoro pagato e lavoro non pagato. Puntare dunque alla ridefinizione della
produttività sociale, come si diceva al punto uno, vale a dire sviscerare la natura biopolitica
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dei rapporti di lavoro attuali. Ci confrontiamo con l’applicazione della logica delle merci,
dell’ingresso forzato dentro un’economia di mercato o di un’economia mercantile - basata
sul valore di scambio, sul valore commerciale - di tutta una sfera di aree, fino a ieri meno
toccate da tali processi. Le capacita complessive, intime, individuali, differenti, dell’essere
umano, perfino - sempre più profondamente - le relazioni affettive e sessuali entrano a far
parte di un quadro di commerci e di relazioni economiche, singolari e collettive.
In questo quadro è imprescindibile sforzarci di cambiare prospettiva, introducendo nuovi
concetti di interrelazione, inventando e imponendo nuovi indicatori di valore, nuovi meccanismi
di valutazione della ricchezza sociale (e la vera domanda da fare sarebbe: esiste, e qual è, un
giusto valore, un valore possibile da darsi, da contabilizzarsi come corrispettivo vagamente
adeguato, a una cosa immensa come è l’essenza della persona?).
Diventa quindi imprescindibile non porre una seria questione di redistribuzione, di
riattualizzazione del sistema di welfare, che abbia al centro, senz’altro, lo strumento del reddito
di esistenza, forma minima di riequilibrio economico di tutto ciò che ci viene chiesto di
spendere, quotidianamente, sul mercato del lavoro attuale. E’ possibile sostenere, appoggiandoci
alle risposte del campione di giornaliste intervistate, che la questione del reddito viene
individuata, ormai in modo immediato, come una delle frontiere di intervento sociale più utile e
urgenti, da sempre più ampie fasce della società.
Il paradigma di genere può offrire un istruttivo punto di osservazione e di conoscenza di tali
tentativi di reificazione complessiva dell’umano. L’aspetto della riproduzione sociale non
pagata mantiene infatti, oggi più che mai, un ruolo di primo piano nell’accumulazione delle
risorse primarie per l’accumulazione capitalistica totalizzante dell’oggi, che pretende di
inglobare l’intero vivente, addirittura.
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Jane Jacobs ha scritto Vita e morte delle grandi città nel 1961. Oggi, a quarant'anni di distanza dalla
sua uscita, è ancora in qualche misura un libro che dice “qualcosa di nuovo”, l'attualità e l'utilità del
quale risiedono probabilmente nella rilevanza attribuita alle relazioni informali rispetto ai
meccanismi di strutturazione e funzionamento del sistema economico e sociale in contesti altamente
organizzati, quali sono, ormai palesemente, quelli delle grandi città all’interno dell’economia della
conoscenza.
La categoria odierna di attività di rete e di produzione del comune può essere estremamente utile
alle donne per rileggere il libro di Jacobs in tempi di capitalismo cognitivo: l'autrice sembra
dedicare un’attenzione specifica alle dinamiche complesse e articolate di relazione del soggetto con
lo spazio fisico e con la società locale, territoriale di cui è parte, con riferimento alle relazioni
interpersonali informali essenziali, tanto più all’interno di società complesse, altamente organizzate,
tecnologicamente avanzate, dove l’estrazione di plusvalore avviene attraverso lo sfruttamento delle
reti della conoscenza, in senso lato. Valutare se, in prospettiva, non si possa fare leva sulle reti di
partecipazione informale al fine di aprire spazi per la costruzione di alternative economiche e di
azione politica Sassen (2002) le chiama le reti diffuse, sticky webs - reti appiccicose - per come
sono interconnesse tra loro. David Lyon (2002: 108) sostiene che “i nuovi movimenti sociali” per
quanto non siano in grado di rovesciare da soli gli assetti esistenti, “possono tuttavia indicare la
strada da percorrere per la definizione di forme alternative di organizzazione sociale”.
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