La casta prostituta
di Pier Luigi Castelli
Non ci vuole molta perspicacia ad accorgersi di un attacco da più parti, convergente, nei confronti delle co-munità credenti ed in particolare della Chiesa Cattolica. Portare in evidenza malefatte, scandali e peccati, abusi e meschinità richiede ormai la stessa fatica che “scoprire l’acqua calda”. Nessuno certo deve nascondersi e na-scondere le ferite sanguinanti che il male compiuto pro-voca, innanzitutto in chi è stato vittima di quel comporta-mento delittuoso, specie se agli albori della sua vita e della sua crescita; poi riguardo alla credibilità di chi ha avuto il mandato di dare testimonianza di servizio, di gratuita dedizione, di proclamazione e liberazione della
dignità intangibile di ogni persona: “amatevi l’un l’altro come Io vi ho amato”. Lo dico non solo per chi è prete, vescovo o papa, ma per ognuno che si sia lasciato coin-volgere nel discepolato di Cristo e si voglia chiamare “cristiano”. Onestamente, però, leggere e ascoltare in questi giorni
i servizi dei “media”, giornali e televisioni, fa tornare in mente l’affermazione di Xavier Zubiri: molte persone vivono “senza volontà di reale verità”. Interessa la verità o qualcos’altro quando si spendono energie immani per cercare quell’uno o quell’altro caso, da un capo all’altro del mondo, del quale l’attuale Pietro della Chiesa Catto-lica avrebbe dovuto sapere, anzi avrebbe saputo? E allo-ra? Se anche - cosa non dimostrata - così fosse? Non si è compiuto un cammino di sempre maggiore consapevo-lezza, severità, denuncia della tanta sporcizia e delle tante compromissioni vissute all’interno della comunità credente? Non vi è stato un Concilio per riscoprire un
Anno IX n. 29 Pasqua 2010 Periodico del Centro Culturale Sant’Antimo
Editoriale
volto più autentico di Chiesa, per relazionarsi in maniera diversa con il mondo contemporaneo, con le culture del nostro tempo? E in questi anni non si sono avvertiti la necessità, meglio ancora, il dovere di una purificazione interiore ed esteriore per tornare all’essenziale ed offrire il Vangelo nella sua nuda semplicità e nella sua forte esigenza? Pietro, specialmente dal Concilio in poi, pur nella fra-
gilità del vaso di coccio che caratterizza la sua umanità, non ha cessato di riproporre Cristo, il radicamento in Lui, verificando la Sua parola: “tu, quando ti sarai con-vertito, conferma i tuoi fratelli”. Non è mai mancata, nella storia della Chiesa, la tenta-
zione di costituirsi in comunità di “puri”, di perfetti, e perciò di separati. Ciò è caratteristico di atteggiamenti e movimenti che affondano le proprie radici o hanno i pro-pri riferimenti in un pensiero “gnostico”. Dall’inizio ai nostri giorni. Ma è riscontrabile anche la costante tensio-ne ad un Vangelo che non alimenta illusioni e, mentre prospetta vette altissime, sa incontrare, accogliere, rimet-tere in piedi, ridare fiducia e speranza a chi ha peccato, accompagnare e riscattare chi si è fatto attore di reati. Questa Chiesa è la “casta meretrice” di cui parlano i Pa-dri, il Concilio, e i teologi non gnostici. Gli altri dove erano in quegli anni? E le istituzioni statali che oggi, nei loro rappresentanti, alzano la voce? E gli odierni censori che magari propugnavano e propugnano il libero amore; la disponibilità, secondo il desiderio, del proprio corpo; l’esser “fatti privati” le proprie libere e pagate frequenta-zioni; gli scambi di favori con prestazioni? Tutto questo, e altro ancora, non ammorba l’aria? Tanta predicazione sulla necessità di non avere limiti; di inseguire una liber-tà senza responsabilità; di sciogliere a proprio piacimen-to e alle insorgenti difficoltà rapporti una volta ritenuti profondi; di porre il desiderio, il successo, il potere e il denaro a fondamento di un progetto di vita… non fanno di tanti figli degli orfani? non inducono adolescenti e giovani allo stordimento nell’alcool o nelle droghe o a rigurgiti di violenza? All’amico che ha scritto in questi giorni su un giornale
che occorre “rifondare” la Chiesa, fonte di occultamenti, tomba del diritto, della democrazia e della giustizia, chiedendo “l’abdicazione di Ratzinger e l’indizione di libere elezioni democratiche” vorrei chiedere: ne fai par-te? sei proprio sicuro che la Chiesa a tua immagine, ma-gari arrabbiata, risulterebbe migliore? sei sempre conten-to dei tuoi eletti governanti? conosci tutto il mondo cat-tolico per eleggere “il” più degno? a parte te, chi altri potrebbe essere al di sopra di ogni sospetto? non sarebbe questa una Chiesa da tempo spazzata via da rivoluzioni e controrivoluzioni? Quanto a me ritengo sia sufficiente ritrovarsi in ciò che
ha voluto “donarci” Gesù Cristo: è il riferimento sempre oltre me e gli altri, e perciò mi è sempre possibile ricono-scere dove sbaglio e come convertirmi, accogliendo e confrontandomi con un magistero tanto profondo ed esi-gente quanto ricco di umanità, ancorché coniugato nel tempo. Ha detto I.V. Kireevskij: “Noi conosciamo ciò che viviamo” e viviamo veramente se amiamo: certo non la menzogna, non il peccato, non ciò che uccide il corpo o lo spirito o la speranza e la bellezza, ma le persone, tutte, che solo così vengono realmente conosciute e forse messe in grado di riconciliarsi con la vita. E con loro noi. Ecco il capolavoro della Grazia.
Renzo Gherardini: un francescano fuori dall’ordine
di Davide Puccini
La poesia di Renzo Gherardini si è sviluppata nel cor-
so del tempo, e si tratta ormai di quasi sessanta anni, in
modo appartato, rimanendo ignota ai più, ignota non solo
al grande pubblico (cosa che per la poesia sarebbe del
tutto normale), ma anche a molti di coloro che apparten-
gono alla cerchia non tanto ristretta degli addetti ai lavo-
ri: ignota, o almeno non abbastanza nota rispetto al suo
valore. Questo è dovuto in buona misura alla volontà
dell'autore stesso, che ha quasi sempre pubblicato in raf-
finate edizioni fuori commercio, ritenendo che alla poe-
sia giovi tenersi lontana dai clamori della ribalta; ma il
suo è anche un caso esemplare per dimostrare come la
vera poesia, quando è degna di questo nome, finisca
sempre per emergere, per uscire dall'anonimato. Infatti la
sua fama si è venuta via via allargando con un crescendo
inarrestabile in tutta Italia e anche fuori d'Italia, ed è sta-
ta definitivamente sancita dal prestigioso riconoscimento
del Premio Carlo Betocchi alla carriera, che gli stato
consegnato l'anno scorso in Palazzo Vecchio a Firenze.
Non è questo il luogo per ripercorrere in dettaglio le
tappe della sua opera, raccolta per raccolta: ne manche-
rebbe lo spazio. Posso rimandare chi voglia approfondire
il discorso al saggio monografico che ho pubblicato sulla
rivista «Studi novecenteschi» (XXIX, n. 63-64, giugno-
dicembre 2002, pp. 7-28), anche se è bene precisare che
nel frattempo la sua produzione non si è arrestata e che
anzi negli ultimi anni è stata particolarmente feconda.
Qui preme soprattutto sottolineare che argomento privi-
legiato, sebbene non esclusivo, dei suoi versi sono le
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creature, in singolare sintonia con gli scritti dell'illustre
biblista Paolo De Benedetti, autore fra l'altro di una Teo-
logia degli animali (2007) pubblicata da Morcelliana. I
suoi testi, di solito in endecasillabi sciolti di squisita fat-
tura, sono popolati dalla flora e dalla fauna che ha incon-
trato nelle campagne toscane o dai molti compagni do-
mestici, dal passerotto Cio Ciò a un gattino vissuto pochi
giorni, dall'amatissimo cane Bobi, cantato in vita e ancor
più intensamente in morte, fino alla dolce Flora di cui è
diventato dog-sitter di elezione nella splendida villa di
San Quirichino dove ormai scrive quasi tutte le sue poe-
sie, proprietà di uno dei più grandi pianisti viventi, An-
drás Schiff.
Renzo Gherardini ama ripetere che lui conosce le crea-
ture, ma non sa nulla del Creatore; eppure una delle defi-
nizioni più calzanti che ne è stata data è quella dell'amico
comune Sauro Albisani, che l'ha chiamato un francesca-
no fuori dall'ordine. Non si potrebbe dire meglio. C'è, fra
Renzo e le creature, una corrispondenza di amorosi sen-
si, un'intima capacità di comprensione che sembra attin-
gere alle radici stesse del creato, di cui ci aiuta a com-
prendere tutta la stupefacente bellezza proprio attraverso
la bellezza del suo canto. Ma non si deve credere che
l'amore del poeta fiorentino per le creature sia solo con-
templativo: Renzo è Maria e Marta insieme, e se gli ca-
pita di trovare un animale che soffre, non scrive una poe-
sia, lo porta dal veterinario; se si accorge che un cane ha
bisogno di cure o non è
trattato con affetto, non
esita a dirlo al padrone
e sa essere molto con-
vincente.
Per uscire dall'astrat-
tezza propongo come
esemplificazione mini-
ma tre brevi poesie: la
prima, in quinari preva-
lentemente sdruccioli,
rende con una classicità
di altri tempi l'essenza
dell'uccellino che si
abbandona fidente nelle
mani dell'uomo; la se-
conda è in memoria di
Bobi, una delle tante;
l'ultima parla invece
invece di Pètula, il cane
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di Catia e mio che tutti conoscono perché frequenta assi-
duamente la nostra parrocchia non solo il 17 gennaio,
giorno di sant'Antonio abate protettore degli animali.
Che Pètula abbia perso la vista l'ha colpito come un do-
lore personale, e quando gli dico che secondo il veterina-
rio un cane soffre di più per la perdita dei padroni, mi
risponde che noi non possiamo sapere che cosa prova
veramente un animale per una menomazione del genere.
Ancora una volta, insomma, Renzo si identifica con le
creature dall'interno, assumendo il loro punto di vista, il
loro amore per la vita, ce ne mostra in piena evidenza
(diciamola, la parola azzardata) tutta l'anima.
Per Cio Ciò
Piccola anima,
creatura minima,
pupilla timida,
amore limpido,
carne piumosa,
peso carissimo
leggero, trèpido,
tra palmo e palmo
con tutto l’essere
in abbandono.
Viene un profumo dalla vuota branda:
il tuo profumo, la luce del corpo
che più non sei, ma solo sogno, solo
la memoria infinita del tuo sguardo.
La luce dei tuoi occhi si allontana
in una danza dello sguardo interno
alla tua anima, in un ricordo di alberi
e di volti, di spiagge lungo il chiaro,
grande specchio del mare. Oppur nell'ombra
luminosa dei sogni, se distesa,
abbandonata su un corpo fraterno,
a questo affidi il cielo del tuo sonno.
Non ti lamenti, Pètula, serena
nella tua onniveggente cecità,
nel tuo amore ostinato per la vita.
La famiglia, che è relazione, è scuola per la persona di
quel valore relazionale fondamentale che è l’amore e che
dà il senso profondo della vita; non è solo un insieme di
individui, come potrebbe registrare il dato anagrafico, né
una semplice relazione amicale. La famiglia è una rela-
zione sociale, ed è una relazione originale e unica, pecu-
liare, in quanto segue criteri di differenziazione propri.
Si distingue infatti dagli altri gruppi primari per il fatto
di vivere in modo specifico, sono presenti le relazioni tra
fratelli e quelle parentali in senso allargato. I sociologi ci
dicono che la famiglia è una relazione primordiale, che
esiste all'inizio e dall'inizio, sia in senso filogenetico (la
famiglia sta all'origine dell'evoluzione umana) sia in
senso ontogenetico (in ogni tempo e luogo, il singolo
individuo entra nella società e matura la sua partecipa-
zione ad essa in modo tanto più umano quanto più e me-
glio è sostenuto dalla mediazione di una famiglia).
La famiglia è quindi “elemento fondante della società
all'inizio della storia umana; comunità di persone, è la
prima società umana”.
Altra caratteristica importante, è che la famiglia come
relazione è un'entità invisibile per l'osservatore immedia-
to. Infatti rimanda a relazioni che solo in parte vengono
esplicitate, mentre in buona misura restano latenti, na-
scoste, non evidenziabili o quantificabili, anche se sono
vissute. Quindi non si può fotografare la famiglia solo
per le caratteristiche dei suoi membri, o solo per alcune
funzioni che svolge o per alcune sue relazioni interne o
esterne.
Infine non possiamo dimenticare che questa ricchezza
non misurabile e difficilmente percepibile che è la rela-
zione tra i coniugi e i familiari, che caratterizza la fami-
glia e dà pienezza di vita alla persona (la quale viene
generata da una relazione di amore e per sua natura è
portata alla relazione, all’amore), è simbolo di una più
grande relazione, quella dell’alleanza che si genera tra
Dio e l’uomo (l’uomo che è creato ad immagine e somi-
glianza di un Dio che è di per sé relazione perfetta tra le
tre persone della Trinità).
La famiglia è la manifestazione più compiuta di quella
esperienza fondamentale della persona che è la relazione
con l’altro.
E. Mounier afferma che “la relazione è il costitutivo
stesso della persona”. Io non esisto in quanto io, esisto
nel momento stesso in cui mi rapporto con te e insieme
costruiamo “che cosa?” Una comunità. La famiglia è una
comunità costituita da persone che sperimentano la rela-
zione come elemento fondamentale del bene comune.
Gratuità, solidarietà, reciprocità, accoglienza: sono ter-
mini che caratterizzano la famiglia intesa come comunità
di persone. Una comunità come sistema relazionale, con-
traddistinto da vincoli di forte interdipendenza, ma un
sistema relazionale non chiuso, un sistema aperto all’am-
biente in cui vive.
Pertanto la dimensione educativa è una dimensione
peculiare della famiglia. Essa si caratterizza per alcuni
aspetti fondamentali: la progettualità educativa che con-
siste nell’ aiutare una persona a realizzare un percorso di
sviluppo compiuto di tutte le proprie potenzialità. Una
famiglia costruisce le condizioni perché la persona possa
riuscire a realizzare al massimo tutte le sue potenzialità,
coniugando la capacità di accompagnare il processo di
crescita con una guida che sia nello stesso tempo autore-
vole e amorevole.
L’altra dimensione è l’interazione: la famiglia deve
essere un sistema relazionale in cui le varie persone che
la compongono non sono una separata dall’altra ma spe-
rimentano la reale interazione: interazione uomo-donna,
interazione genitori-figli, interazione figlio-figlio.
Altra caratteristica è il divenire: la famiglia è un siste-
ma di persone sottoposto a cambiamenti, conformemente
alla crescita dei singoli soggetti, al mutare dei loro biso-
gni, non è qualcosa di statico, qualcosa di dato, ma qual-
cosa che continuamente diviene.
Infine la dimensione della mediazione: la famiglia ha
il grande compito di offrire una mediazione, un’interpre-
tazione, una lettura di significati all’esperienza quotidia-
na che i figli fanno nel mondo. Bisogna che la famiglia
sappia offrire dei sistemi di significato rispetto ad un
mondo disorientante, non è chiudendosi che la famiglia
assolve con il proprio figlio al suo compito di mediazio-
ne rispetto alle informazioni che giungono dal mondo
che lo circonda, ma aiutandolo a comprendere, aiutando-
lo ad affinare il proprio senso critico, e aiutandolo ad
esprimere con forza le proprie posizioni, partecipando
attivamente perché qualcosa cambi.
Un tema centrale per chi si occupa di psico-educazione
è quello dei valori. Nessun progetto educativo può essere
fatto se non in riferimento a delle scelte di valori fonda-
mentali.
L’educazione significa relazione, significa comunica-
zione, che vuol dire mettere in comune delle cose, poi-
ché i valori non sono qualcosa di astratto, che troviamo
come belle parole fissate una volta per sempre, ma si
traducono in comportamenti di vita evidentemente i va-
lori si comunicano attraverso azioni ispirate ad essi, e
comportamenti di vita coerenti ad essi.
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Luoghi dell’educazione: la famiglia
di Rita Pescini
Quindi comunicazione, condivisione, esperienza di
relazione: la famiglia è sicuramente lo spazio interperso-
nale dove si percepiscono, ma soprattutto si sperimenta-
no, valori, dove si prende consapevolezza del significato
della vita, della fiducia nel futuro.
C’è, dunque, una dimensione educativa propria della
famiglia che ha il compito di ricarica affettiva, ha la di-
mensione della sicurezza, è la base sicura da cui muove-
re per esplorare il mondo. Deve permettere al bambino di
costruire nel proprio interno quegli oggetti affettivi buo-
ni per cui può sperimentare senza paura il mondo. La
dimensione affettiva della famiglia è la dimensione che
permette al bambino di sperimentare prima la dipenden-
za affettiva ma, attraverso questa dipendenza, la conqui-
sta dell’autonomia. I genitori non possono sostituirsi ai
figli nelle situazioni di disagio e di conflitto, devono
richiamare il loro impegno e la loro responsabilità, non
abbandonandoli a se stessi ma con la profonda convin-
zione che avranno sempre in loro un grande supporto.
Aiutarli a gestire il conflitto per elaborarlo e superarlo,
vuol dire fare del conflitto un elemento di crescita, di
arricchimento, di forza. Il conflitto è elemento fonda-
mentale della relazione, perché ci permette di capire e di
andare avanti e quindi di arricchirsi sempre.
Tutto questo specifico compito educativo della fami-
glia ha bisogno di una metodologia basata sul dialogo,
sull’ascolto, sulla condivisione, sulla reciprocità. L’edu-
cazione passa attraverso la relazione profonda, che signi-
fica condivisione di emozioni, di sentimenti, di un senti-
re comune.
Dietro a tutto questo però bisogna che i genitori di
oggi recuperino un concetto importante: la relazione
educativa, per quanto relazione che nasce dentro una
dimensione di ascolto, di reciprocità, di condivisione, è
per sua natura asimmetrica. E’ una relazione in cui la
guida autorevole del genitore deve essere una guida con-
sapevolmente esercitata e condivisa all’interno della
dimensione familiare, quindi dalla coppia e da tutti colo-
ro che assumono nella dimensione familiare una respon-
sabilità educativa. Vuol dire che l’adulto deve comunica-
re non solo con le parole ma con i gesti, con l’amore, con
i propri sentimenti, fiducia al proprio figlio, conferma
positiva, speranza completa e totale. Ciò non toglie però
che ci debba essere, dalla parte del genitore, quello che
in termini psico-pedagogici chiamiamo “negazione di
comportamento”, cioè che ci possano essere dei momenti
in cui, di fronte a dei comportamenti non corretti, l’auto-
rità del genitore si esprime. Si parla di “negazione di
comportamenti”, non di “negazione di persona”, per cui
ciò che deve essere ben chiaro che il genitore non sta
negando il figlio, ma ciò che sta facendo.
Oggi più che mai quindi occorre ed è urgente un impe-
gno e una testimonianza delle famiglie per la costruzione
di una società illuminata dalla ragione, dalla verità e
dall’umanità. Come dicevo all’inizio, questo che ci assu-
miamo è certamente un compito difficile, ma è anche un
dovere. Ed è pure una sfida esaltante, perché trova fon-
damento e compimento nel vero ed essenziale valore ed
ideale per il quale, anche nella libera scelta della fami-
glia, abbiamo impegnato e messo in gioco tutta la nostra
vita.
Una nuova opera di Piero Cavicchi
di Patrizia Ferro
Appassionato di glottologia, di storia, di archeologia,
Piero Cavicchi presenta una nuova opera, Il Mistero di
Caio Trebazio, dopo La Lohandiera de la Venturina e
Pinocchio in Val di Cornia. Nell’introduzione egli stesso
definisce i motivi che lo hanno portato a scrivere questa
commedia, talmente diversi tra loro che nell’insieme
formano una “miscela” piuttosto curiosa. Il dialetto preso
in riferimento è quello della Val di Cornia degli anni ‘30.
I personaggi presentati appartengono a classi sociali di-
pag. 5
RECENSIONI
verse, quindi i registri linguistici sono diversi, anche per
motivi generazionali; solo i personaggi della prima sce-
na, ambientata nel 101 d.C. e che avrebbero dovuto par-
lare in latino, parlano in un italiano tradotto. La ricerca
linguistica è la prima attenzione dell’autore, il secondo
motivo è invece quello di aver voluto rendere noto un
approfondimento storico condotto con l’amico Gianluca
Camerini. Una notizia riportata dal Canonico don Enrico
Lombardi nel volume Venturina, pubblicato nel 1964, in
cui si legge di un ritrovamento vicino al paese di un si-
gillo in pietra preziosa recante il nome di Caio Trebazio,
antico patrizio romano, è il motivo occasionale. Il sacer-
dote formulava l’ipotesi che quello fosse il sigillo al
mausoleo romano di Caldana chiedendosi se non fosse
costui l’antico proprietario al quale fu eretto il monu-
mento funebre. Nel testo di don Lombardi non si legge
altro a riguardo e neppure oggi si sa dove sia il “sigillo”,
non essendoci documentazione alcuna. Non si dice dove
e in quali circostanze sia stato visto il reperto romano né
chi l’abbia trovato, ma, grazie a quella indicazione, è
stato possibile chiarire alcuni elementi di carattere lin-
guistico e di toponomastica. Il nome Caius Trebatius,
non Trabatius appartiene a quella gens trebatia già im-
portante a Roma nel I secolo a.C. e il ritrovamento dell’-
oggetto prezioso pare essere avvenuto nel 1934 in uno
scasso per vigna a Venturina e, infine, che il sigillo è una
gemma su cui sono incisi il nome Caius Trebatius ed un
volto maschile di aspetto giovanile.
Nelle vicinanze di Venturina, nei luoghi dove sono
presenti reperti di età romana e la presenza del nome
Trebatius hanno suggerito l’identificazione del sito in
un’area dove sorgeva una ricca villa sita presso l’attuale
via di Bazzana, il cui nome sembra derivare proprio da
Villa Trebatiana o Praedia Trebatiana. I possedimenti
sono confacenti al rango della potente e ricca gens Tre-
batia, ed anche il possesso dell’anello di cui si parla, è
possibile. La trama della commedia prende le mosse
dalla presenza della “gemma” e di un’altra “Gemma”
figlia del contadino che ha rinvenuto il prezioso monile.
L’equivoco si intuisce facilmente ed anche il conseguen-
pag. 6
te scatenamento di guai. In tal modo elementi di verità (il
ritrovamento della gemma, lo scasso, l’anno, il probabile
luogo di rinvenimento) si miscelano con arguzia ad altri
inventati, ma verosimili.
Gli stessi personaggi sono sì inventati, ma pur sempre
ispirati alla società e alla cultura del 1934, come il fatto-
re, il proprietario terriero, il prete, il segretario del Fa-
scio. La realtà del tempo è anche rispecchiata dalla pre-
senza dell’albergo Rossi e dal fatto che la chiesa fosse
stata consacrata nel marzo del 1934, ma ancora priva di
parroco, che arriverà successivamente.
I personaggi della prima scena, ambientata nel 101
d.C., non hanno nomi inventati, ma ricavati dalle tracce
lasciate sul territorio.
Oltre a Caio Trebazio, il nome di Arrunzio è testimo-
niato dal toponimo Ronzano, nella valletta tra l’odierno
Palazzo Magona e Montepattoni, il “Fundus Arrontia-
nus” (il fondo di Arrunzio) e la gens Arruntia hanno
origine etrusca ed erano diffusi in tutta Italia.
Liccio si ricava dal toponimo Litiano, le terre di Liccio
presso Caldana, citato in un documento del 754 ed oggi
scomparso; costui potrebbe essere il proprietario di una
villa in località Polledraia ad est della via Aurelia e i cui
resti sono ancora visibili in Caldana.
Molte altre sono le indicazioni relative alle tracce pre-
senti sul nostro territorio relative ai personaggi della
prima parte della commedia che ben volentieri lasciamo
alla scoperta del lettore.
La commedia con cui Piero Cavicchi si è cimentato è
sicuramente nelle sue corde. Coesistono nel testo il lavo-
ro del fine intellettuale, rivolto alla conservazione della
memoria e soprattutto un amore rispettoso delle radici
toscane e precisamente valdicorniensi. Una trama coin-
volgente, i caratteri ben delineati dei personaggi, l’equi-
voco della “gemma”, l’uso del vernacolo (ben lontano
dallo spirito del Vernacoliere!) e le illustrazioni di Ro-
berto Fiordiponti, rendono molto accattivante questa
pubblicazione che potrà essere trasportata in piéce teatra-
le. L’autore, con le sue note introduttive e il piccolo vo-
cabolario, indossati i panni del filologo, eleva, con una
rigorosa operazione scientifica la sua validissima opera.
Egli merita una parola di ringraziamento per questa ope-
razione di recupero, di comunicazione alta in cui vis co-
mica, studio serio e rigoroso sortiscono un fresco gradi-
mento dell’opera e del suo stile.
Omaggio ad un amico
Nuvole,
instancabile gregge che volteggia nel cielo
cosparso di stelle come i prati di fiori,
per brucare le speranze che la gente lassù lascia volare.
Corrono, danzano,
aleggiano come piume giganti
per poi fermarsi: vele di antichi velieri
soltanto dal vento gonfiate,
in quell’immenso oceano
paurosamente sospeso sopra di noi,
e ripartire calme l’indomani o col tramonto
in carovane di angeli nomadi
per chissà quali altri lontani paesi;
forse nere di tristezza, gonfie di pianto
oppure bianchissime di gioia e pura ebbrezza.
Sempre cariche soltanto dei sogni della gente
o delle lacrime dell’aria.
Giacomo Panicucci
Il testo suesposto è l’inizio di Suite di prose liriche il
cui autore, nato a Piombino nel 1985, studente di Lettere
all’Università di Pisa, compone canzoni e studia violino.
Dell’opera l’autore dice: “E’ intesa per essere letta nel
suo sviluppo come una panoramica di immagini accom-
pagnate dalla musica”.
Fa parte della collana “Le scommesse” redatte da San-
dro Gros-Pietro. Anche noi scommettiamo su di lui.
SUITE DI PROSE LIRICHE, Genesi Editrice, Torino 2009.
€10,00
pag. 7
Centro Culturale Sant’Antimo
sez. Fotografia
Che cosa bolle in pentola
di Pierluigi Galassi
Dopo quattro anni di mostre rievocative dedicate al
nostro territorio, denominate “Le radici del nostro
presente 1, 2, 3 e 4”, quest’anno sarà il quinto anno per
commemorare S. Anastasia patrona di Piombino. Sarà
l’ultima mostra di questo genere in programma perché
siamo arrivati ad immagini vicine al nostro tempo.
Anche questa volta sarà possibile visitare la mostra
nella prima decade di maggio nel chiostro di S. Antimo.
Invece, nel mese di luglio si concluderà il Primo
Concorso Nazionale Audiovisivi “Città di Piombino”
presso il Centro Giovani, ideato dalla nostra Sezione
Fotografica.
Piombino entrerà a far parte del circuito con altre
quattordici città italiane.
Il tutto naturalmente sotto il controllo della FIAF,
Federazione Italiana Associazione Fotografiche, e della
DIAF, Dipartimento Audiovisivi Fotografici.
Si ringraziano fin da ora gli sponsor: Comune di
Piombino, Centro Giovani, ASIU, Coop. Cuore,
Amicizia nel Mondo, AVIS.
E’ stata pubblicata nel dicembre scorso, per i tipi di In
Kyostro, la tesi di laurea della nostra associata Rosa
Marulo, “Scrivere ai potenti, le suppliche al tempo di
Paolo Guinigi”. Paolo Guinigi, signore di Lucca dal 1400 al 1430 è un
personaggio controverso nel panorama politico toscano
del basso medioevo.
Sottoposto a damnatio memoriae dalla storiografia
repubblicana a lui successiva, è stato a lungo considerato
un politico inetto, incapace di governare con profitto la
città. Solo di recente alcuni studi ne hanno riabilitato la
figura.
Questo lavoro prende in esame le lettere di supplica
ricevute da Paolo Guinigi nel corso del suo governo,
analizzandone gli aspetti grafici, testuali e sociali. Nelle
complesse relazioni tra stati, i nobili ricorrevano spesso
alla supplica per dirimere pacificamente le controversie e
per favorire i propri sudditi in altri realtà territoriali. La
supplica aveva anche una funzione propagandistica, poi-
ché veniva richiesta dal signore ai sudditi, in quando atto
tangibile di deferenza verso il potere del governante, in
cambio della disponibilità ad accoglierne magnanima-
mente le richieste.
Da questo studio emerge come Paolo Guinigi seppe
sfruttare pienamente - e con grande abilità politica - le
potenzialità della supplica, inserendosi nella rete di rap-
porti diplomatici dell'epoca e mettendosi in luce come
signore vicino alle necessità dei propri sudditi. Questa
conclusione rafforza quelle proposte da altre ricerche,
contribuendo a ridisegnare l'interpretazione storica del
ruolo di Guinigi nel quadro politico toscano medievale.
SCRIVERE AI POTENTI, LE SUPPLICHE AL TEMPO DI PAO-
LO GUINIGI, La Bancarella Editrice, Piombino, 2009.
€ 15,00
pag. 8
RECENSIONI
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