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Gli enti pubblici con veste privata: società pubbliche, organismo in house, organismi di diritto pubblico e imprese pubbliche
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Indice
1. NOZIONE VARIABILE DI ENTE PUBBLICO: IL CASO
INTERPORTO TOSCANO : Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza n. 1478 del 1998
2. I LIMITI ALLA PUBBLICIZZAZIONE LEGISLATIVA DI ENTI
PRIVATI: Corte Costituzionale, sentenza n. 396 del 1998
3. TECKAL, IL MONDO DELL’IN HOUSE: Corte di Giustizia, sentenza del 18
novembre 1999, 107/98
4. LO STRANO CASO DELLA RAI: Corte di Cassazione, Sezioni Unite, ordinanza n.
27092 del 2009
5. LA RESPONSABILITÀ PER MALA GESTIO DELLE SOCIETÀ
PUBBLICHE NON IN HOUSE NON È ERARIALE: Corte di Cassazione,
Sezioni Unite, sentenza del 19 dicembre 2009, n. 26806
6. LA DISCIPLINA DELLE S.P.A. MISTE: IL MODELLO DI SCELTA
DEL SOCIO: Consiglio di Stato, sezione II, parere n. 456 del 2007
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Selezione giurisprudenziale
1. NOZIONE VARIABILE DI ENTE PUBBLICO: IL CASO
INTERPORTO TOSCANO : Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza n. 1478 del 1998
(omissis) La capacità di un atto soggettivamente privato di incidere, sovvertendo il principio di parità delle posizioni, sulle situazioni giuridiche di altri soggetti privati, decretandone l'affievolimento da diritti e soggettivi ad interessi legittimi e comprimendo in modo significativo , stante il radicamento della giurisdizione degli interessi, i tempi di reazione processuale, non può non necessitare di una disposizione di legge che, sola, costituisce, come detto, la fonte del potere pubblico. Hanno natura eccezionale, e come tali sfuggono ad ogni tentativo di interpretazione analogica o anche solo estensiva, le norme le quali espressamente prevedono che i concessionari, quali soggetti privati, possano emanare atti amministrativi Non solo non è rintracciabile, in materia di opere pubbliche, una norma che attribuisca in via generale veste pubblicistica agli atti del concessionario, imprimendo all'atto concessorio la capacità di trasferire l'esercizio di potestà pubblicistiche, ma, al contrario, emerge in modo non equivoco la scelta contraria del legislatore di considerare non riferibili all'esercizio delle funzioni pubbliche le manifestazioni di volontà del concessionario di opere pubbliche Proprio al fine di evitare che il rigorismo formale possa ingenerare elusione della disciplina comunitaria in tema di apertura delle gare ai concorrenti in ambito europeo e, quindi, frustrare i principi in tema di libertà di circolazione di beni, persone e servizi l'ordinamento comunitario ha inteso "snidare la pubblicità reale" che si nasconde sotto diverse forme prescindendo dal criterio della pubblicità formale ed optando per la pubblicità sostanziale del soggetto aggiudicatore.
(omissis)
2) All'attenzione del Collegio è posta la questione relativa alla possibilità di riconoscere carattere
amministrativo alle determinazioni adottate da società per azioni a partecipazione (nella specie totale)
pubblica - nel caso in questione l' Interporto Toscano S.p.A. - in sede di gara indetta per l'affidamento di
lavori (costruzione di edifici).
La disamina della problematica presuppone la ricognizione degli orientamenti pretorili in subiecta materia.
La possibilità di annettere carattere pubblicistico agli atti promananti da soggetto formalmente privato,
o comunque di regola operante in base a canoni di diritto privato (enti pubblici economici), è stata
ammessa dalla Corte di Cassazione (a partire dal notissimo arresto di cui alla sentenza delle Sezioni unite 29
dicembre 1990, n. 12221), nell'ipotesi in cui lo stesso rivesta i panni di concessionario (in particolare di
concessionario di opera pubblica nelle plurime forme di concessione di committenza, di costruzione e gestione e
di sola costruzione). L'architrave del percorso argomentativo della Corte è rappresentato dalla considerazione a
tenore della quale la concessione traslativa, quale è da intendersi in linea generale la concessione di
opera pubblica, comporta un trasferimento di funzioni e poteri amministrativi dal concedente al
concessionario, con ciò conferendo dignità sostanzialmente amministrativa agli atti posti in essere da
quest'ultimo nell'esercizio delle funzioni pubbliche trasferite. Nell'ambito di detti atti vanno per certo
annoverate le determinazioni pertinenti alla procedura per l'assegnazione degli appalti, trattandosi di una "tipica
funzione dell'ente pubblico competente per la realizzazione della singola opera pubblica". Di qui la conclusione,
sul versante della natura oggettivamente amministrativa, relativa all'emersione di "un caso tipico di esercizio
privato di pubbliche funzioni", nel quale le funzioni non cessano di essere pubbliche per il solo fatto di essere
assolte da privati.
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Ciò detto sul piano oggettivo, la riconducibilità, sul versante soggettivo, degli atti di che trattasi alla
Pubblica Amministrazione è stata affermata per il tramite dell'attribuzione al concessionario della
qualità di "organo indiretto della pubblica amministrazione": "indiretto", dal momento che esercita un
nome proprio le funzioni trasferite; "organo" in quanto svolge comunque un'attività di carattere
amministrativo.
La contemporanea emersione dei requisiti oggettivo e soggettivo convince in sostanza, secondo la Corte
Suprema, a qualificare in termini di interesse legittimo la situazione del soggetto partecipante alla gara
indetta dal concessionario in ordine al rispetto, da parte di questi, delle norme procedurali di evidenza
pubblica, norme che sono poste dalla legge non solo a tutela diretta dei contraenti ma anche e
soprattutto al fine di garantire "l'interesse pubblico ad una effettiva pluralità di partecipanti alla gara".
Sul piano dell'opportunità il percorso argomentativo è irrobustito dal rilevo che una soluzione che giungesse a
conclusioni opposte sul crinale della giurisdizione, a seconda che la procedura sia direttamente o indirettamente
gestita dalla P.A., avallerebbe risultati ingiustificatamente discriminati sul piano della pienezza della tutela
giurisdizionale, stante la minore incisività dei poteri, cautelari e sostitutivi, spettanti al Giudice ordinario.
2a) L'itinerario concettuale (in senso conforme al dictum del 1990 si veda Cass., Sez. unite, 18 marzo 1992, n.
3359; 15 ottobre 1992, n. 11264 e, da ultimo, 28 agosto 1998, n. 8541) è stato anche di recente ribadito dalla
Corte di legittimità che, per l'appunto facendo perno sull'assenza di un titolo concessorio capace di conferire
natura pubblicistica agli atti relativi a gare, ha escluso la giurisdizione amministrativa in ordine a controversie
relative a contratti stipulati dalle società per azioni, a prevalere partecipazione pubblica deputate alle gestione di
servizi pubblici locali ai sensi dell'art. 22 della legge n. 142/1990 (Cass., Sezioni unite, 6 maggio 1995, n. 4949 e n.
4991, che richiamano sul punto la decisione delle Sezioni unite 4 gennaio 1993, n. 3; conf. 27 marzo 1997, n.
2738).
La Suprema Corte ha nella fattispecie dovuto prendere le mosse dal problema della natura giuridica degli
organismi societari de quibus.
Sul punto si è infatti registrata, già all'indomani della legge sulle autonomie locali, in ambito dottrinale ed in sede
pretoria, una contrapposizione - simile a quella emersa in merito alla reale consistenza giuridica delle società
derivanti dalla privatizzazione degli enti economici - tra quanti hanno ritenuto trattasi di società di natura
interamente privatistica, sottoposte esclusivamente alla disciplina delle società commerciali, e quanti ,
valorizzandone il connotato di specialità, hanno reputato che quello societario sia solo un paravento dietro il
quale si cela una struttura organicamente collegata all'ente territoriale, ossia un mero organo strumentale di
quest'ultimo.
L'organismo delle due correnti di pensiero ha prodotto inevitabili divergenze in ordine alle modalità di
costituzione delle società: i sostenitori della tesi privatistica hanno optato per la piena libertà di scelta degli
azionisti privati da parte dell'ente locale; i fautori dell'approccio pubblicistico, confortati dal testo della legge n.
498/1992, del D.L. n. 26/1995, conv. In legge n. 95/1995, e del regolamento di esecuzione emanato con il
D.P.R. n. 533/1996, hanno reputato che la scelta dei soci privati debba essere effettuata seguendo le procedure
dell'evidenza pubblica, volte a garantire, nell'ottica della ottimizzazione dell'interesse pubblico e dell'inabdicabilità
di esigenze di trasparenza, la selezione di partners privati più affidabili per l'ente locale.
Quanto alla necessità di apposito provvedimento concessorio per l'affidamento della gestione del servizio alla
società, è invece prevalsa la tesi negativa, indipendentemente dal carattere pubblico o privato della stessa.
L'assunto è stato confortato dalla circostanza che le leggi nn. 142/1990 e 498/1992, rispettivamente in tema di
società a partecipazione pubblica maggioritaria e minoritaria, considerano il modulo concessorio alternativo, non
propedeutico, rispetto a quello dell'affidamento a società a partecipazione pubblica.
Con le citate decisioni la Corte di Cassazione ha sposato la tesi privatistica, osservando che le società in esame,
pur se a prevalente partecipazione pubblica, sono soggetti di diritto privato del tutto distinti dall'amministrazione
pubblica. A seguito dell'esaurimento della fase pubblicistica con la scelta del modello organizzatorio,
ossia con l'affidamento del servizio alla società, la possibilità di interferenza dell'ente pubblico nella
sfera di azione della società privata è infatti preclusa dalla circostanza che i due soggetti agiscono "in
sfere diverse, per fini diversi (anche se non incompatibili) e con diversi strumenti giuridici". Ne
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consegue che, salva l'ipotesi del trasferimento alla società anche i poteri pubblicistici, con correlativa
trasformazione in organo indiretto della P.A. a guisa di concessionaria di funzioni pubbliche, gli atti
posti in essere dalla società medesima nei rapporti con i terzi risultano interamente privatistici. In
specie, la scelta del contraente da parte della società ai fini dell'esecuzione di un'opera funzionale alla
gestione del servizio non è soggetta alla procedura dell'evidenza pubblica, e le relative controversie
vanno devolute alla giurisdizione ordinaria. È inoltre da escludere l'inclusione delle società in parola
nell'ambito degli organismi di diritto pubblico tenuti all'osservanza delle norme di evidenza pubblica, atteso che
la struttura societaria, connotata in modo indefettibile dal fine di lucro, collide con il requisito, necessario per la
configurazione di un organismo di diritto pubblico, dato dalla funzionalizzazione al soddisfacimento di bisogni a
carattere non industriale e commerciale. In ogni caso, l'eventuale qualificazione della società in parola
quale" l'amministrazione aggiudicatrice", ai sensi del D.Lgs. n. 406/1991, non conferirebbe natura
pubblicistica al soggetto ma rileverebbe esclusivamente ai fini della individuazione, sul versante
sostanziale, della disciplina di gara, senza comportare lo spostamento della giurisdizione in favore del
giudice degli interessi.
Quanto al citato problema della libera scelta dei partners da parte dell'ente locale, secondo la S.C., proprio
la previsione legislativa del 1992, sancendo, per le sole società a partecipazione pubblica minoritaria, l'obbligo
dell'indizione di una gara comunitaria ai fini della scelta dei soci privati e dell'affidamento all'esterno delle opere,
si rivela sintomatica della volontà del legislatore di non estendere detti meccanismi di evidenza pubblica alle
società a partecipazione maggioritaria.
2b) Le stesse coordinate interpretative sono state tracciate, con l'applicazione all'incontrario della teoria
dell'organo indiretto di derivazione concessoria, in ordine alla indefettibilità del titolo provvedimentale
traslativo ai fini del radicamento della giurisdizione amministrativa in tema di appalti di enti pubblici economici e,
più in generale, di tutti i soggetti non pubblici costretti, in quanto inclusi nel novero delle amministrazioni
aggiudicatrici, a rispettare le regole di evidenza pubblica ai fini della stipulazione di contratti con terzi.
La circostanza che il legislatore abbia previsto la soggezione di detti enti (pubblici economici e privati tout
court), alle procedure di evidenza pubblica (cfr. legge n. 109/1994 e D.Lgs n. 406/1991 in tema di organismi
di diritto pubblico), non consente infatti all'ermeneuta di eludere il fondamentale problema di verificare,
alla luce delle regole generali in tema di riparto di giurisdizione, se chi si duole della violazione delle
regole di cui si discorre sia portatore di una posizione di diritto soggettivo o di mero interesse legittimo.
In tale indagine non può trascurarsi, quanto all'ente pubblico economico, che quest'ultimo - al di fuori
dell'ambito di esplicazione della potestà di auto - organizzazione - non possiede, al pari dei soggetti privati, il
potere di segnare la degradazione delle posizioni soggettive degli interlocutori ove detto privilegium non sia
scolpito, con l'attribuzione del munus di organo indiretto, in virtù di atto concessorio. In mancanza di detto
titolo, pertanto, l'equiparazione alle pubbliche amministrazioni sancita della norma sugli appalti, segnatamente in
ragioni della vasta nozione di organismo di diritto pubblico e della maggiore latitudine del perimetro delle
amministrazioni aggiudicatrici rispetto al novero delle amministrazioni pubbliche in senso tecnico, rileva al solo
fine di costringere anche soggetti privati, o operati alla stregua di stilemi privatistici, alle regole di evidenza
pubblica ma non muta la natura privatistica degli atti adottati da soggetti operanti fisiologicamente su un piede di
parità con gli interlocutori in quanto non investiti di potestà pubblicistiche (Cass., Sezioni unite, 28 novembre
1996, n. 10616). Non assumono rilievo in senso contrario, a dire della Corte di legittimità, le disposizioni dettate
dall'art. 13 della legge n. 142/1992, in tema di preventivo annullamento da parte del G.A. rispetto all'attivazione
del rimedio risarcitorio innanzi al G.O., e dall'art. 31 bis, comma secondo, della legge n. 109/1994, come mod.
dalla legge n. 216/1995, in ordine alla trattazione accelerata dei ricorsi innanzi al G.A. in caso di concessione
della tutela cautelare: entrambe le norme, nello scandire gli snodi processuali della tutela del terzo,
presuppongono, sulla base del normale principio del riparto, senza fondarla, la giurisdizione del giudice
amministrativo. In definitiva, l'eventuale qualificazione di soggetto privato (o ente pubblico economico) alla
stregua di amministrazione aggiudicatrice rileva al solo fine di stabilire la disciplina sostanziale di gara da seguire e
non già, stante il difetto del carattere soggettivamente amministrativo, per lo scioglimento del nodo della
giurisdizione.
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In altre parole l'attività procedimentalizzata di evidenza pubblica è neutra, ossia suscettibile di assumere
connotazione pubblicistica o privatistica a seconda della natura del soggetto procedente.
3) In sostanza le coordinate della giurisprudenza della Corte Suprema, in toto recepite dai primi Giudici nella
fattispecie posta all'attenzione del Collegio, si condensano in due principi di fondo: l'intervento di titolo
concessorio traslativo trasforma il soggetto concessionario, anche se formalmente di estrazione
privatistica, in organo indiretto della P.A. e annette alle sue determinazioni non esulanti dal raggio di
azione del provvedimento, quali sono da reputarsi gli atti relativi alle procedure di gara per la stipula
con i terzi, il rango di atti amministrativi da sottoporre allo scrutinio del G.A.; in assenza di detto titolo
concessorio, ovvero in caso di eccentricità rispetto alla sfera di operatività dello stesso, vengono meno
le condizioni, sul versante soggettivo, affinché si possa parlare di atto amministrativo e si possa
configurare in testa al terzo aspirante alla stipula una posizione di interesse legittimo conoscibile dal
giudice amministrativo. Nessun rilievo assume all'uopo la qualifica di amministrazione aggiudicatrice,
significativa solo sul versante della disciplina sostanziale di gara e non anche sotto il profilo della natura degli atti
e del riparto di giurisdizione.
4) Entrambe le conclusioni - sufficienza ed indispensabilità del provvedimento di concessione al fine del
radicamento della giurisdizione amministrativa - non sono convincenti.
5) Quanto al primo punto questo Consiglio (Sezione VI, 20 dicembre 1996, n. 1577) ha già osservato che la
semplice qualifica di concessionario di opera pubblica non vale ex se a conferire agli atti da questo
emanati la natura di provvedimenti amministrativi idonei a sortire l'effetto di affievolimento delle
posizioni soggettive degli interlocutori. La vis cogente del principio di legalità, cristalizzato dall'art. 97
della Carta fondamentale, nel pretendere, in armonia con i principi di imparzialità e buona
amministrazione, che la fonte del potere pubblico sia sempre e solo nella legge, non tollera che
un'Amministrazione pubblica, nei casi non previsti dalla normativa di rango primario, si arroghi il
potere di trasferire le proprie funzioni istituzionali ad un soggetto privato così risolvendosi a non
esercitare le competenze ed a non avere quelle responsabilità che l'ordinamento le attribuisce. Nel
decisum segnalato il Consiglio ha puntualizzato che "se è pacifico in giurisprudenza ed in dottrina che la
delegazione intersoggettiva (per la quale i pubblici poteri sono trasferiti da una ad un'altra pubblica
amministrazione ) è una figura organizzativa concepibile nei soli casi espressamente previsti dalla legge, andando
ad incidere sulle norme primarie che regolano le competenze, a maggior ragione una norma di legge è necessaria
perché possa verificarsi il trasferimento di funzioni in favore di soggetti privati". In sostanza, la capacità di un
atto soggettivamente privato di incidere, sovvertendo il principio di parità delle posizioni, sulle
situazioni giuridiche di altri soggetti privati, decretandone l'affievolimento da diritti e soggettivi ad
interessi legittimi e comprimendo in modo significativo , stante il radicamento della giurisdizione degli
interessi, i tempi di reazione processuale, non può non necessitare di una disposizione di legge che,
sola, costituisce, come detto, la fonte del potere pubblico. La stessa legge 7 agosto 1990, n. 241, recante le
regole generali in tema di attività amministrativa, non si premura di dettare alcuna disciplina sugli atti
amministrativi di soggetti privati, salvo il solo riferimento all'eccesso agli atti concessionari di servizi pubblici
(non già di opere o funzioni di carattere pubblicistico). La parabola argomentativa - irrobustita dalla
considerazione che "l'ambito della giurisdizione del giudice ordinario e di quello amministrativo, è regolato, in
base agli artt. 24, 101, 102,103, 104, 111, e 113 della Costituzione, solo dalla legge e non può essere modificato da
atipiche determinazioni del potere esecutivo" - sfocia nella considerazione conclusiva secondo cui hanno natura
eccezionale, e come tali sfuggono ad ogni tentativo di interpretazione analogica o anche solo estensiva,
le norme le quali espressamente prevedono che i concessionari, quali soggetti privati, possano emanare
atti amministrativi (v. ad esempio l'art. 4 bis del decreto legge 11 luglio 1992, n. 333, come convertito nella
legge 8 agosto 1992, n. 359, in tema di provvisoria conservazione dei poteri pubblicistici di cui già erano titolari le
Amministrazioni pubbliche trasformate in società per azioni; la conseguente qualificazione come concessionaria
ex lege della S.p.A. Ferrovie dello Stato è stata sostenuta dalla decisione di questa Sezione 20 maggio 1995, n.
498).
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Ciò detto sul versante del difetto del presupposto oggettivo del trasferimento di funzioni pubbliche, ove questo
non sia corroborato da puntuale disposizione normativa, ha suscitato perplessità, sul piano squisitamente
dogmatico, anche l'affermazione secondo la quale la postulata traslazione di funzioni comporterebbe
ex se la trasformazione della natura meramente privata del soggetto agente mercé la creazione di un
organo indiretto dalla P.A.. Ad un simile circuito argomentativo si è replicato in dottrina, per un verso, che il
riferimento all'organo indiretto è improprio in quanto il meccanismo del rapporto organico comporta
l'imputazione ad un soggetto del comportamento di altro soggetto e delle relative responsabilità, mentre nel caso
del concessionario si è di norma al cospetto di soggetto che agisce esclusivamente nel proprio interesse, al quale
solo si riferiscono fattispecie e responsabilità; per altro verso che la stessa elaborazione dottrinale alla quale è da
riferire il varo della teoria dell'organo indiretto ha escluso con nettezza la qualificabilità dei relativi atti sub specie
di atti amministrativi e la conseguente impugnabilità innanzi al giudice amministrativo.
Tanto premesso per quel che attiene alle valutazioni della Corte di Cassazione relativamente ai profili soggettivi
degli atti da ascriversi ai concessionari, non sembra decisivo, al fine di puntellare la costruzione dell'organo
indiretto sub specie di concessionario, il riferimento alle presunte disparità di trattamento delle situazioni
soggettive dei terzi, i quali sarebbero costretti a rivolgersi al giudice amministrativo ove la procedura sia posta in
essere direttamente dall'amministrazione e davanti al giudice ordinario in caso di gara bandita da soggetto privato
concessionario. In linea generale si deve ricordare che il principio di effettività della tutela giurisdizionale non
richiede unicità del giudice chiamato a dirimere controversie anche di carattere omogeneo così come non impone
identità degli strumenti processuali di tutela ma semplicemente vuole che ognuno di questi non ostacoli la seria
ed effettiva possibilità di tutela delle ragioni dedotte. In detto quadro non è seriamente dubitabile che la piena
tutela giurisdizionale sia suscettibile di essere assicurata, segnatamente con riferimento alle stipulazioni dei
concessionari con i terzi, anche per mano del Giudice ordinario, non costretto ad imbattersi nei limiti di cui agli
artt. 4 e 5 della legge sull'abolizione del contenzioso amministrativo ove si verta in tema di atti realmente soggetti
a regime privatistico. La Giurisprudenza della stessa Cassazione ha infatti da tempo rinvenuto nell'ordinamento
civilistico i rimedi per garantire la regolarità dei procedimenti selettivo - concorsuali (sia per selezioni e
promozioni del personale che per le stipule contrattuali) indetti da soggetti privati. Segnatamente, la garanzia
delle aspettative dei partecipanti al rispetto delle regole del giuoco passa attraverso la considerazione che, se è
certa la pertinenza tipica della posizione di interesse legittimo al diritto pubblico, essa non è tuttavia sconosciuta
al diritto privato, ove, l'appunto in tema di procedure concorsuali e selettive, è suscettibile di venire in rilievo e
trovare tutela innanzi al giudice ordinario.
5a) Trasponendo dette coordinate ermeneutiche di respiro generale - circa la non configurabilità di un soggetto
privato concessionario legittimato all'adozione di atti amministrativi in assenza di un referente normativo
primario - alla materia specifica delle concessioni di opere pubbliche, è agevole rilevare che il sistema vigente
esclude l'attribuzione per via solo concessoria di funzioni e poteri pubblici. La nuova normativa sugli
appalti dettata con la legge n. 109/1994 e succ. mod. contraddice la propensione giurisprudenziale a intravedere
nella concessione di opera pubblica una fattispecie traslativa idonea a decretare la trasformazione del privato
concessionario in organo indiretto alla stregua dell'itinerario ermeneutico di cui si è dato conto. Come è noto la
giurisprudenza ha creato tale figura facendo perno sulle disposizioni legislative che prevedono il trasferimento a
privati di pubbliche funzioni (si pensi alla concessione per la riscossione di tributi, in forza della quale il
concessionario della riscossione può emanare, nei casi previsti dalla legge, atti amministrativi, devoluti di regola
alla giurisdizione tributaria; alla concessione autostradale, nella quale la società concessionaria emana atti
amministrativi in luogo della Pubblica Amministrazione concedente; alla concessione ferroviaria), modellando
sulla falsariga delle stesse l'istituto della concessione di opera pubblica (Cass. N. 12221/1990 cit.) come
particolare concessione traslativa, anch'essa riconducibile alle concessioni assoggettate alla giurisdizione esclusiva
del G.A. ai sensi dell'art. 5 L. TAR (che pure testualmente fa riferimento alle sole concessioni di beni e servizi).
Nell'ambito della figura generale della concessione di opera pubblica sono state incasellate la concessione di sola
costruzione, la concessione di costruzione e gestione e la concessione di committenza.
Nella concessione di sola costruzione, il concessionario si impegna, contro un corrispettivo dato, come per
l'appalto, da un prezzo, a realizzare con mezzi propri un'opera pubblica, assumendo altresì obbligazioni
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accessorie (ad esempio di dirigere i lavori): l'effetto traslativo è stato rintracciato da Cass., Sezioni unite 13
dicembre 1996, n. 12966, nelle pubbliche funzioni inerenti all'attività organizzativa.
Nella concessione di costruzione e gestione, invece, il concessionario, a fronte dell'obbligo di realizzare l'opera
pubblica, ottiene in corrispettivo, in tutto o in parte, la possibilità di gestirla per un certo periodo di tempo
percependone gli utili conseguenti.
Diversa figura è infine quella della concessione di committenza, in seno alla quale il concessionario, sostituendosi
alla Pubblica Amministrazione concedente, funge da stazione appaltante e pone in essere tutti gli adempimenti
occorrenti per la realizzazione dell'opera, compresa la progettazione, l'acquisizione delle aree, l'ottenimento dei
permessi amministrativi, l'individuazione, con l'espletamento delle relative procedure, dell'appaltatore e la
vigilanza sull'esecuzione.
Esulando dall'ambito della presente indagine la verifica delle conseguenze delle figure in esame circa la necessità,
o non, per l'Amministrazione di indire gara pubblica per la scelta del concessionario, al pari di quanto previsto
per la stipula di contratto di appalto, giova solo ricordare che la soluzione affermativa, basata sull'equiparazione
della stipula di appalto al rilascio di provvedimento concessorio, è stata delineata sin dalla legge 8 agosto 1977, n.
584 (art. 1, comma 2, pur se con riferimento specifico alla sola concessione di costruzione e gestione ) per poi
essere ribadita dal D.Lgs 19 dicembre 1991, n. 406 (artt. 4 comma 2, e 8, comma 3, a tenore dei quali le
concessioni di opera pubblica sono attribuite con le procedure della licitazione privata). In sostanza la
normativa ha escluso ogni tratto distintivo tra concessione ed appalto sul versante della procedura di
gara statuendo che anche il concessionario, al pari dell'appaltatore, deve essere scelto, in omaggio a
esigenze intuibili di trasparenza ed efficienza, con il sistema della gara pubblica.
In sostanza, già prima del varo della legge n. 109/1994 (che ha ribadito il principio con l'art. 2, comma 3), il
legislatore ha sancito l'equiparazione del concessionario all'appaltatore, sia pure sul versante della gara da indire
da parte della P.A., evidentemente facendo leva sull'assenza di una traslazione di poteri pubblicistici che possa
giustificare una scelta fiduciaria e deproceduralizzata.
Detta assimilazione non può non sortire effetto, in assenza, ripetesi, di norma traslativa di poteri pubblici, in
merito alla impossibilità di annettere il rango di atti amministrativi impugnabili innanzi al G.A. agli atti adottati
dal concessionario nell'ambito della concessione.
Merita ricordare sul punto che, antecedentemente al varo della legge n. 109/1994, autorevole dottrina, di fronte
alla concessione di opera pubblica, riteneva di trovarsi in presenza di un'ipotesi contrattuale atipica comunque
riconducibile allo schema dell'appalto. Si sarebbe trattato in buona sostanza non di fattispecie pubblicistiche, ma
di normali contratti.
A tal proposito, si è ricordato come l'art. 324 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, allegato F sia stato interpretato
nel senso che l'appaltatore può svolgere mansioni esecutive riguardanti lo svolgimento della procedura
espropriativa; d'altra parte, è anche consentito che, nell'appalto - concorso, all'appaltatore sia affidata la
progettazione dell'opera. Quindi le attività degli appaltatori, in ciò non distinguendosi da quelle dei concessionari,
possono anche non essere limitate alla materiale esecuzione dei lavori: compiti quali la progettazione dell'opera,
la direzione dei lavori e la relativa sorveglianza, non si connotano per un particolare rapporto con l'interesse
pubblico, perché si tratta di attività che non si differenziano dallo svolgimento di compiti strumentali del tutto
compatibili con la struttura del rapporto originario. Di qui la conclusione della sostanziale identità della
concessione di opera pubblica rispetto alla fattispecie contrattuale dell'appalto.
5c) La costruzione giurisprudenziale intesa ad attribuire carattere amministrativo agli atti del concessionario di
opera pubblica è stata definitivamente superata in linea generale - salvo quanto si dirà in seguito in merito alla
nozione di amministrazione aggiudicatrice - dal varo della nuova legge quadro sugli appalti di lavori pubblici
(legge n. 109/1994, come mod. dalla legge n. 216/1995).
In linea generale l'art. 31 bis, comma 4, della legge 11 febbraio 1994, n. 109, come mod. dalla legge n. 216/1995
(di conversione del D.L. n. 101/1995), dispone che "ai fini della tutela giurisdizionale le concessioni in materia di
opere pubbliche sono equiparate agli appalti", sancendo, stante la dizione omnicomprensiva, un'equiparazione
valevole sia in ordine ai rapporti intercorrenti tra P.A. e concessionario di opera pubblica che, salve le eccezioni
che si esamineranno in seguito, in merito alle relazioni tra concessionario e terzi.
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(omissis)
Dall'esame coordinato di dette norme si desume quindi che, limitata la figura della concessione di opera pubblica
alla concessione di costruzione e gestione, per questa, salvo le diverse disposizioni in ordine al procedimento di
gara, gli atti adottati dal concessionario nei rapporti con i terzi non perdono la connotazione privatistica e,
pertanto, soggiacciono alla cognizione del giudice ordinario.
In definitiva, non solo non è rintracciabile, in materia di opere pubbliche, una norma che attribuisca in
via generale veste pubblicistica agli atti del concessionario, imprimendo all'atto concessorio la capacità
di trasferire l'esercizio di potestà pubblicistiche, ma, al contrario, emerge in modo non equivoco la
scelta contraria del legislatore di considerare non riferibili all'esercizio delle funzioni pubbliche le
manifestazioni di volontà del concessionario di opere pubbliche.
Unica deroga al sistema è data dalle ipotesi in cui - limitatamente alla legislazione sui lavori pubblici - il soggetto
concessionario sia a determinate condizioni qualificato come amministrazione aggiudicatrice, ossia soggetto
destinato a seguire le procedure di evidenza pubblica e, per l'effetto, ad assumere, in virtù di legge e non certo di
atipica determinazione dell'autorità, statuizioni amministrative (cfr., sul punto, Cons. Stato, Sez. IV, 5 giugno
1998, n. 918).
6) Se non appare convincente la derivazione in via automatica dal provvedimento di concessione, in assenza di
norma di legge traslativa, della natura amministrativa degli atti posti in essere dal concessionario, parimenti non
condivisibile si appalesa l'affermazione speculare, costituente il rovescio della medaglia della teoria dell'organo
indiretto, a dire della quale, in mancanza del supporto concessorio, l'attribuzione ad un soggetto privato (o
normalmente operante in base a stilemi di diritto privato) della qualifica di amministrazione aggiudicatrice - come
tale tenuta, al pari delle amministrazioni pubbliche in senso stretto, ad uniformare le procedure contrattuali alle
norme in tema di gara pubblica comunitaria - non sposterebbe il baricentro della giurisdizione verso il giudice
degli interessi.
È noto che la disciplina comunitaria, in sede di enucleazione dei soggetti tenuti al rispetto delle regole di evidenza
ispirate al principio della gara comunitaria, si è emancipata dalla nozione formale di ente pubblico accolta nei
singoli ordinamenti nazionali accedendo ad un concetto sostanziale di organismo di diritto pubblico, che
comprende anche soggetti che, pur se non formalmente pubblici in base ai canoni ermeneutici interni,
possiedono una rilevanza pubblicistica in quanto fungono da strumenti alternativi, rispetto agli organi classici
della P.A., per l'esercizio di compiti di questa mediante l'utilizzazione di fondi pubblici.
In sostanza, proprio al fine di evitare che il rigorismo formale possa ingenerare elusione della disciplina
comunitaria in tema di apertura delle gare ai concorrenti in ambito europeo e, quindi, frustrare i
principi in tema di libertà di circolazione di beni, persone e servizi - così in definitiva attentando alla libertà
di concorrenza - l'ordinamento comunitario ha inteso "snidare la pubblicità reale" che si nasconde sotto
diverse forme prescindendo dal criterio della pubblicità formale ed optando per la pubblicità
sostanziale del soggetto aggiudicatore. In altre parole la sottoposizione alle regole procedurali, mercé la
qualificazione di un soggetto come pubblico ai fini degli appalti, finisce per prescindere dall'attribuzione della
personalità giuridica pubblicistica da parte dello Stato nazionale e va a reggersi sul dato sostanziale relativo
all'esercizio da parte dei poteri pubblici di un'influenza dominante sulla proprietà, sulla partecipazione
finanziaria e sull'ordinamento dell'impresa (Corte di Giustizia 3 ottobre 1985, causa 311/84). Si è così
passati, attraverso l'inclusione dei cosiddetti "organismi di diritto pubblico" nell'ampliata sfera delle
amministrazioni aggiudicatrici, dal primigenio carattere tassativo dell'elencazione dei soggetti tenuti al
rispetto della disciplina comunitaria (cfr. direttiva 71/305/CEE) ad un criterio enumerativo - definitorio,
in forza del quale il rispetto delle regole di gara pubblica si impone, oltre che ai soggetti
nominativamente indicati e sicuramente pubblici (primi tra tutti Stato ed enti locali), anche ad una pletora di
soggetti - appunto gli organismi di diritto pubblico - individuati attraverso indici rivelatori concretantisi nella cura
di interessi generali non economici, nella personalità giuridica (privata o pubblica) e nel finanziamento o
controllo pubblico (art. 1 lett. b, della direttiva n. 89/440/CEE, non modificata sul punto, dalla direttiva n.
93/37/CEE). Segnatamente, detta norma stabilisce che si considerano amministrazioni aggiudicatrici, oltre allo
Stato ed agli enti territoriali, anche gli organismi di diritto pubblico, tali dovendosi intendere quei soggetti
11
giuridici "istituiti per soddisfare specificatamente bisogni di interesse generale aventi carattere non industriale e
commerciale, dotati di personalità giuridica e la cui attività sia finanziata in modo maggioritario dallo Stato, dagli
enti locali o da altri organismi di diritto pubblico, oppure la cui gestione è sottoposta a controllo di questi ultimi,
oppure i cui organi di amministrazione, di direzione o di vigilanza sono costituiti da membri più della metà dei
quali è designata dallo Stato, dagli enti locali o da altri organismi di diritto pubblico" (conf. La direttiva servizi 18
giugno 1992, n. 92/50 CEE). L'esame degli indici sintomatici della sussistenza di un organismo di diritto
pubblico consente di toccare con mano l'irrilevanza della qualificazione pubblicistica interna e la centralità del
profilo sostanziale dell'influenza dominante, si da consentire, ed anzi imporre, l'attrazione anche di soggetti
formalmente privatistici.
6a) L'impostazione comunitaria è stata recepita dal legislatore interno, il quale ha assoggettato alle procedure di
evidenza pubblica anche soggetti di carattere privato.
Si ponga mente in prima battuta, in tema di appalti di lavori pubblici, all'art. 2 ed all'allegato G. al Decreto
legislativo n. 406/1991 ed all'art. 2 della legge n. 109/1994, e succ. mod., i quali, nel recepire la categoria
comunitaria degli organismi di diritto pubblico, impongono anche a soggetti pacificamente privati, o
normalmente operanti jure privatorum, il rispetto delle procedure pubbliche di gara. In particolare, l'art. 2,
comma secondo, della legge n. 109/1994 sancisce l'applicazione delle norme di gara agli enti pubblici economici
ed agli "altri organismi di diritto pubblico" (lettera a), ai concessionari di lavori pubblici e di esercizio di
infrastrutture destinate al pubblico servizio ed alle società con capitale pubblico, in misura anche non prevalente,
che abbiano ad oggetto la produzione di beni e servizi non destinati ad essere collocati sul mercato in regime di
libera concorrenza, ai concessionari di pubblici servizi, qualora operino in virtù di diritti speciali ed esclusivi
(lettera b), ai soggetti privati relativamente ai lavori di cui all'allegato A del decreto legislativo n. 406/1991 nonché
ad altri lavori tassativamente enucleati e per i quali sia previsto un contributo da soggetti od organismi pubblici
superiore al 50% dell'importo dei lavori (lettera c).
(omissis)
Si impone a questo punto la verifica della ricordata enunciazione della Corte di legittimità a dire della
quale l'assoggettamento ai veicoli della pubblica evidenza sarebbe priva di rilievo sul versante della
natura giuridica degli atti adottati in sede di gara e, per l'effetto, su quello del radicamento della
giurisdizione.
L'assunto posto a sostegno del principio, id est la pretesa neutralità della procedura di evidenza pubblica circa la
forza sostanziale ed il regime processuale delle determinazioni afferenti all'iter procedurale, sottoposte alle
proprie regole pubblicistiche o privatistiche a seconda della natura dei soggetti interessati, è contraddetto, ad
avviso del Consiglio, sia dal dato positivo che da considerazioni di ordine logico - sistematico.
Sul versante squisitamente positivo l'attribuzione di spessore pubblicistico agli atti adottati da amministrazioni
aggiudicatrici, pur se non pubbliche secondo gli stilemi tradizionali, è confermata dall'art. 13 della legge 19
febbraio 1992, n. 142 - da ultimo in via parziale abrogato dal decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80 - i cui primi
due commi prevedono che i soggetti che abbiano subito un danno a seguito della violazione del diritto
comunitario in materia di appalti di lavori e forniture o delle relative norme di recepimento possono chiedere
all'Amministrazione aggiudicatrice il risarcimento del danno e proporre all'uopo domanda al giudice ordinario
previo annullamento dell'atto lesivo con sentenza del giudice amministrativo. Identico principio è stato ribadito,
in tema di pubblici servizi, dal citato D.Lgs. n. 157/1995 (art. 30, quale contiene il rinvio alle disposizioni recate
dagli artt. 12 e 13 della legge n. 142/1992).
Da una prima lettura della disposizione si evince che la norma non si riferisce, al fine di radicare il doppio binario
di tutela giurisdizionale, al soggetto che emana l'atto ma alla norma violata: se tale norma si ritiene trasgredita da
soggetto privato, tenuto all'applicazione delle disposizioni dettate in tema di appalti di opere, forniture o servizi,
gli atti devono essere comunque assoggettati al preventivo vaglio giurisdizionale amministrativo. In sostanza la
sottoposizione al doppio snodo processuale di qualsiasi pretesa risarcitoria, a prescindere dal carattere privato o
meno dell'amministrazione aggiudicatrice, avalla l'assunto secondo cui la definizione pubblicistica di
amministrazione aggiudicatrice incide non solo sulla determinazione della disciplina sostanziale di gara ma anche
in ordine al riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo (così Cons. Stato, Sezione V, n.
12
1577/1996, cit., in tema di appalto di forniture indetto da un consorzio privatistico di enti locali e Sezione IV, 3
febbraio 1996, n. 147, in tema di procedura espletata dalla S.p.A. Lombardia Informatica). Il legislatore, in altre
parole, probabilmente anche allo scopo di fissare termini perentori per la maturazione dell'inoppugnabilità di atti
volti a soddisfare, al pari di quelli adottati da enti pubblici in senso classico, primarie esigenze di interesse
pubblico, considera che, limitatamente alla materia in esame, anche gli atti di soggetti altrimenti privati sono
espressione di un pubblico potere e debbono essere pertanto equiparati in toto agli atti amministrativi, ossia
essere considerati a tutti gli effetti tali. Di qui un allargamento delle maglie della giurisdizione amministrativa,
derivante non già da un'opinabile creazione dottrinale e giurisprudenziale, quale alla fine risulta, in assenza di
puntello legislativo espresso, la teoria dell'organo indiretto di derivazione concessoria, ma per mezzo di una
inequivoca opzione legislativa, che, nel rispetto del principio di legalità di cui all'art. 97 della Carta fondamentale,
qualifica come pubblici gli atti emanati da soggetti privati e richiede la soggezione degli stessi allo scrutinio del
Giudice degli interessi.
La conclusione è avvalorata dal dettato dell'art. 11, comma 1, della legge 19 dicembre 1992, n. 489, che pur se
con riferimento ai settori esclusi, ha previsto l'applicazione degli artt. 12 e 13 della legge n. 142/1992 alle
procedure di appalto degli " enti costituiti in forma di società per azioni di cui alla direttiva n. 90/531/CEE", così
sancendo per tabulas il vaglio del giudice amministrativo anche in relazione ad atti adottati da soggetti
formalmente privati come le società di capitali.
Se alla generalizzazione della portata precettiva del dato normativo ora descritto si può opporre il respiro
settoriale della disposizione, ciò non toglie che trattasi di disposizione la quale disancora, per la prima volta in
modo così perentorio, il fondamento della giurisdizione amministrativa dalla natura formalmente pubblicistica,
secondo le coordinate classiche, dell'atto e, quindi, depone a favore dell'insussistenza di sbarramenti assoluti alla
configurabilità di determinazione amministrative non adottate da soggetti pubblici nell'accezione tradizionale del
termine.
Lo stesso art. 31 bis della legge n. 109/1994 e succ. mod. reca una disciplina speciale del processo amministrativo
originato dalla violazione delle norme regolatrici della gara senza distinguere tra atti di stazioni appaltanti
pubbliche e di stazioni appaltanti formalmente private. Di qui l'implicita riconduzione nell'alveo della
giurisdizione amministrativa delle contestazioni derivanti dall'impugnazione di atti emanati da organismi
formalmente di diritto privato.
(omissis)
6d) L'elaborazione proposta non incontra gli ostacoli che si frappongono alla costruzione dell'organo indiretto di
estrazione concessoria, posto che, diversamente dall'ipotesi della concessione traslativa in tema di opere
pubbliche, in questo caso il trasferimento di poteri pubblicistici, quali sono quelli inerenti alla gestione di gara
informata all'evidenza pubblica, non deriva da un'atipica determinazione amministrativa ma dalle norme primarie
che annettono dignità sostanzialmente amministrativa (legge n. 109/1994, art. 2) ad atti adottati da soggetti
privati sussumibili nel novero degli organismi di diritto pubblico - e, più in generale, delle amministrazioni
aggiudicatrici non formalmente pubbliche - e, in via conseguenziale, fissano il preventivo vaglio del giudice
amministrativo in caso di controversia risarcitoria innescata dalla violazione delle regole comunitarie ed interne di
recepimento (vedi l'art. 13 della legge n. 142/1992, in correlazione al citato art. 11, comma 1, della legge n.
489/1992). Il discorso vale per gli stessi concessionari di opere pubbliche che, non più in base al titolo ma in
forza della sussunzione legislativa nelle amministrazioni aggiudicatrici, vengono, limitatamente agli appalti di
lavori, muniti dalla legge di poteri pubblici (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, n. 918/1998, cit.)
6e) Del pari non sembra cogliere nel segno l'obiezione secondo cui, anche a voler ritenere la natura
oggettivamente amministrativa degli atti in esame, farebbe difetto il profilo soggettivo della provenienza da una
Pubblica Amministrazione, profilo pure ineluttabile affinché si possa parlare di atto conoscibile dal G.A. in sede
di legittimità ai sensi del T.U. del Consiglio di Stato 26 giugno 1924, n. 1054 (a tenore del quale alla cognizione
del Consiglio di Stato sono soggetti "atti e provvedimenti di un'autorità amministrativa o di un corpo
amministrativo") e della legge 6 dicembre 1971, n. 1034 (il cui art. 3 radica la competenza dei tribunali
amministrativi sulla base della provenienza dell'atto dagli organi, centrali o periferici, dello Stato o da altri enti
13
pubblici, mentre l'art. 37, in materia di giudizio di ottemperanza, fa riferimento al concetto di "autorità
amministrativa").
L'obiezione non tiene conto, per un verso, della sempre più accentuata labilità della linea di confine tra
soggetti pubblici e soggetti privati (cfr. Corte Costituzionale 23 dicembre 1993, n. 466, la quale ha concluso
per la permanenza del controllo della Corte dei Conti sulle società residuanti dalla privatizzazione solo formale
degli enti pubblici economici); per altro verso non si coniuga con la dilatazione del concetto di soggetto pubblico,
e , quindi, di atto pubblico, derivante dalla penetrazione del diritto comunitario nel tessuto dell'ordinamento
nazionale.
Sul punto assume valore dirimente il rilievo che il legislatore interno in tema di appalti, con le norme richiamate,
in qualche modo integrando il dettato del TU del Consiglio di Stato e della legge TAR, ha ampliato a monte in
subiecta materia il concetto di pubbliche amministrazioni, e quindi, di atto amministrativo, senza intaccare per
conseguenza le coordinate costituzionali che ai sensi degli artt. 103 e 113 pretendono la derivazione soggettiva da
una Pubblica Amministrazione degli att conoscibili dal giudice amministrativo.
Dalla trama normativa ripercorsa emerge in altri termini con nettezza che anche i soggetti privati, che presentino
le caratteristiche richieste dalla disciplina comunitaria e dalla legge interna di adeguamento, sono, laddove
operino come amministrazioni aggiudicatrici, e quindi limitatamente agli atti della serie procedimentale di
evidenza pubblica, pubbliche amministrazioni in senso soggettivo, come tali deputate all'esercizio di potestà
pubbliche capaci di sortire un effetto di affievolimento nei confronti delle posizioni dei partecipanti alla gara. Si
ricordi che l'art. 2 del decreto legislativo n. 406/1991 ha stabilito che "si considera ente pubblico qualsiasi
organismo dotato di personalità giuridica".", riproducendo poi la definizione comunitaria più volte richiamata di
organismo di diritto pubblico, e precisando, in apertura della norma, "ai fini del presente decreto". Tra le due
strade teoricamente percorribili a fronte della non conseguenza della nozione interna con quella comunitaria di
amministrazione - riscrittura funditus dei connotati generali degli enti pubblici, con inclusione di taluni soggetti
privati, ed equiparazione dei soggetti privati con determinate caratteristiche agli enti pubblici tradizionali ai soli
fini delle procedure di appalto - il legislatore ha imboccato la seconda, meglio armonizzabile con il sistema
amministrativo interno, consentendo l'assimilazione dei soggetti privati qualificabili come organismi di diritto
pubblico - e più in generale come amministrazioni aggiudicatrici - nella sola materia degli appalti, e segnatamente
per gli atti adottati nella veste di stazione appaltante (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 21 aprile 1995, n. 353, in merito ad
appalto bandito dall'ente Fiera di Milano; vedi però Cons. Stato, Sez. VI, 16 settembre 1998, n. 1267, che, pur
non disconoscendo le conseguenze derivanti sul piano della giurisdizione dalla qualificazione di un soggetto alla
stregua di amministrazione giudicatrice, ha negato l'iscrizione all'ente Fiera della veste di organismo di diritto
pubblico in considerazione della non ricorrenza del requisito teleologico costituito dal carattere non industriale e
commerciale dei bisogni di interessi generali soddisfatti dall'istituzione dell'ente).
Detta equiparazione, anzi detta identificazione per materia, non può non comportare, pena l'illogicità
del sistema, l'ampliamento non solo del novero delle amministrazioni ma anche dello spettro degli atti
amministrativi.
Ebbene, se gli atti delle amministrazioni aggiudicatrici tutte, anche se in altri campi trattasi di soggetti
privati, sono per forza di legge caratterizzati dagli stessi connotati, soggettivi ed oggettivi, degli atti
amministrativi classici - come questi si presentano vincolati, sotto il profilo procedurale e funzionale, alla
normativa di diritto pubblico, a partire dai principi costituzionali di imparzialità e buon andamento - dette
determinazioni devono godere del medesimo trattamento giurisdizionale, radicando, in ossequio al
binomio interesse legittimo - potere pubblico, la giurisdizione degli interessi.
Per converso, al di fuori dei settori, di stretta interpretazione, in cui detti soggetti operano in modo
funzionalizzato, la relativa azione torna ad essere libera, ossia esplicazione di autonomia negoziale in
posizione di parità con gli interlocutori privati, con conseguente destinazione dei relativi atti alla
giurisdizione di diritto comune.
6f) Per completezza si deve osservare che anche le norme sopravvenute al quadro ora tracciato, pur se non
rilevanti ratione temporis ai fini della controversia, suffragano l'assunto della rimessione al giudice amministrativo
delle controversie relative ad appalti di soggetti non formalmente pubblici.
14
In particolare, l'art. 19 del decreto legge 25 marzo 1997, n. 67, convertito in legge 23 maggio 1997, n. 135, in sede
di fissazione delle regole processuali per la definizione accelerata delle controversie in tema di appalti di lavori
pubblici, sottintende la devoluzione al giudice amministrativo (art. 19, primo comma) anche delle contese relative
ad appalti per la realizzazione di "opere di pubblica utilità", ossia di opere di pertinenza, diversamente dalle
"opere pubbliche", di soggetti non pubblici ma ciò nondimeno funzionali al soddisfacimento di interessi pubblici.
Parimenti, a conferma della sempre maggiore labilità del confine tra soggetti pubblici e privati, il D.Lgs. 31 marzo
1998, n. 80, che ha sancito la giurisdizione amministrativa esclusiva per le procedure di appalto relative ai settori
oggetto di delega ai sensi della legge n. 59/1997, con correlativa abrogazione in parte qua delle menzionate
norme sul doppio binario di tutela, considera non decisivo il profilo formale della pertinenza dell'appalto a
soggetto pubblico o privato facendo riferimento alle procedure di affidamento di "appalti svolte da soggetti
comunque tenuti all'applicazione delle norme comunitarie o della normativa nazionale o regionale" (art. 33,
comma II, lett. E).
7(omissis)
7b) Si è già rimarcato in precedenza che la normativa nazionale, in ciò ricalcando il testo delle direttive
comunitarie, subordina l'attribuzione della qualifica di organismo di diritto pubblico alla ricorrenza di tre requisiti:
a) la personalità giuridica; b) l'istituzione per soddisfare specificatamente bisogni di interesse generale aventi
carattere non industriale e commerciale; c) il finanziamento in modo maggioritario da parte dello Stato, di enti
locali o di organismi di diritto pubblico oppure la sottoposizione della gestione al controllo di questi ultimi
oppure la costituzione degli organi di amministrazione, di direzione e di vigilanza da membri più della metà dei
quali è designata dallo Stato, dagli enti locali o da altri organismi di diritto pubblico.
Giova premettere che detti requisiti, secondo il diritto vivente, devono ricorrere in via cumulativa sì che l'assenza
anche solo di uno di essi pregiudica in radice l'identificabilità degli estremi dell'organismo di diritto pubblico (in
questo senso Corte di Giustizia CE 15 gennaio 1998, C-44/96; Cons. Stato, Sezione VI, n. 1267/1998 cit.).
(omissis)
7e) Tanto premesso, e passando a verificare la sussistenza del requisito teleologico di cui si discorre in testa ad
una società a partecipazione totalmente pubblica deputata alla gestione di un servizio pubblico, si deve prendere
le mosse dall'esame degli orientamenti ermeneutici emersi in ordine all'identificazione del concetto di
destinazione dell'ente al soddisfacimento di bisogni di interesse generale a carattere non industriale e
commerciale. Secondo una tesi letterale di tipo "gestionale", non potrebbe venire in rilievo un organismo di
diritto pubblico qualora l'attività dell'ente sia retta da regole di economicità (metodo economico) e tenda a
perseguire direttamente fini di lucro. Di qui l'automatica estraneità al corpo degli organismi di diritto pubblico dei
soggetti che rivestano forma societaria, essendo quest'ultima connaturata la finalità lucrativa.
Ad avviso della concezione finalistica, invece, ai fini dell'identificazione dell'organismo rileverebbe invece
l'individuazione di un interesse generale della collettività, mentre risulterebbero neutre la forma giuridica del
soggetto e le modalità gestionali suscettibili di assumere connotazioni anche di tipo economico e commerciale.
La tesi gestionale - intesa ad escludere in radice l'incasellabilità del tipo societario nel novero degli organismi di
diritto pubblico, indipendentemente dalla natura dell'attività svolta e dalla composizione azionaria - non risulta
persuasiva sul versante positivo e sistematico.
La valorizzazione, in chiave ostativa, del profilo formale non appare, in primo luogo, coerente con
l'atteggiamento dell'ordinamento comunitario, indifferente, in distonia con le passate legislazioni nazionali, ai
profili formali dei soggetti aggiudicatori ed attento a cogliere il dato sostanziale del coinvolgimento pubblico nella
gestione di un determinato assetto di interessi. L'adozione di un principio interpretativo improntato ad un
nominalismo rigido comporterebbe infatti la frustrazione delle ragioni - tutela della libertà di concorrenza in
primis - che hanno indotto il legislatore europeo a pervenire ad una nozione elastica di amministrazione ai fini
della disciplina degli appalti. La creazione di società per azioni controllate da parte dell'Amministrazione pubblica
- e quindi in sostanza strumenti alternativi a disposizione di quest'ultima per il perseguimento, con una forma
privatistica più duttile, degli interessi istituzionali - sarebbe infatti un'agevole scappatoia percorribile dai soggetti
pubblici per sottrarsi alle regole della gara comunitaria e, quindi, eludere, a parità di interessi pubblici coinvolti, il
15
perseguimento delle finalità concorrenziali perseguite dalle direttive con la creazione della categoria elastica degli
organismi di diritto pubblico.
Inoltre, sempre nell'ottica del diritto comunitario, un'interpretazione rigida del concetto teleologico metterebbe
in luce la difficile armonizzabilità con il diritto comunitario delle forme di affidamento diretto del servizio alle
società di cui all'art. 22 della legge n. 142/1990, senza preventiva procedura di gara. Il mancato rispetto delle
norme di gara, evincibile dal sistema della legge sulle autonomie locali, è infatti giustificato dalla connotazione in
termini pubblicistici delle finalità perseguite dalle società, con correlativa non ricorrenza dell'esigenza di garantire
la piena competizione degli operatori commerciali. Non sembra invece compatibile con il sistema comunitario la
gestione diretta, senza preventiva gara, delle attività in questione da parte di società che si reputino di carattere
puramente privatistico, non riconducibili all'ambito delle amministrazioni aggiudicatrici, e quindi destinate ad
operare alla stregua di normali imprenditori privati in posizione di parità con i competitori. Dalla premessa
dell'effettiva terzietà delle società di che trattasi rispetto alle amministrazioni pubbliche non potrebbe non trarsi
infatti il corollario della parificazione agli altri operatori commerciali ai fini dell'affidamento della gestione del
servizio nell'ambito di procedura selettiva di evidenza pubblica.
La distonia sarebbe ulteriormente aggravata nell'ipotesi in cui si tratti, come nella specie, di società a
partecipazione totalmente pubblica, ove il mancato ricorso alla gara per il conferimento non è neanche
compensato dalla procedura selettiva reputata dalla giurisprudenza più recente del Consiglio indispensabile per la
selezione del partner privato anche nelle società a partecipazione pubblica maggioritaria oltre che in quelle a
partecipazione pubblica minoritaria (Cons. Stato, Sezione V, 19 febbraio 1998, n. 192).
(omissis)
La neutralizzazione della veste societaria rispetto alla natura sostanzialmente pubblicistica dell'ente è stata
sottolineata dalla giurisprudenza costituzionale (vedi la ricordata sentenza 28 dicembre 1993, n. 466), che, al fine
di giustificare la permanenza del controllo della Corte dei Conti sulle società per azioni soggette a privatizzazione
solo formale degli enti pubblici economici, ha ricordato come "si presenti oggi sfumata la linea di confine
che".viene a distinguere gli enti pubblici dalle società di diritto privato", specie ove permanga il controllo
azionario maggioritario da parte dello Stato.
In sintonia con l'impostazione del Giudice delle leggi, questa Sezione del Consiglio (decisione 20 maggio 1995, n.
498) ha ribadito la permanenza della caratterizzazione pubblicistica degli atti adottati in sede di gara da soggetti
societari il cui patrimonio azionario permanga nella mano pubblica (nella specie Ferrovie dello Stato S.p.A.) e si
pongano in linea di continuità con l'ente pubblico di derivazione sotto il profilo dei compiti assolti e delle
funzioni esercitate.
In definitiva si può dubitare fortemente che le società a partecipazione pubblica, specie se caratterizzate dalla
proprietà esclusiva o maggioritaria del pacchetto azionario da parte dello Stato o di altri enti pubblici, rivestano
nella materia che interessa natura realmente privata e non siano invece, specie alla luce della nozione allargata di
pubblico potere nel diritto comunitario, articolazioni organizzative degli enti pubblici di pertinenza (sub specie di
organi entificati), ossia strumenti più elastici e duttili di azione nelle mani di questi ultimi per il perseguimento dei
propri fini istituzionali.
Per quel che in questa sede importa, si deve ritenere in definitiva che la forma societaria sia neutra ai
fini dell'identificazione dell'organismo di diritto pubblico mentre assume rilievo la verifica della
struttura e delle attività da questi esercitate. La non incompatibilità del modello societario con lo strumento
dell'organismo di diritto pubblico è dimostrata dal tenore dell'art. 2, comma 2, lettera b, della legge n. 109/1994,
ove si fa riferimento alle "società con capitale pubblico destinate alla produzione di beni e servizi non destinati ad
essere collocati sul mercato in regime di libera concorrenza". Se è infatti vero che formalmente dette società sono
distinte dagli organismi di diritto pubblico, questo accade non per una differenza sul piano teleologico ma in
ragione della ricorrenza in questi ultimi degli ulteriori profili finanziari ed organizzativi necessari per l'emersione
dell'organismo di diritto pubblico.
7g) Posta quindi l'insussistenza di un'incompatibilità radicale del modello societario con il requisito teleologico
degli organismi di diritto pubblico, la soluzione va data sulla scorta dell'apprezzamento delle caratteristiche
concrete, strutturali e funzionali, delle società.
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Nel caso di specie, la qualificazione come organismo di diritto pubblico della società di cui si discorre deriva, sul
versante strutturale, dal carattere totale della partecipazione pubblica e, sul piano funzionale, dal fine della
gestione, in via esclusiva, di un servizio pubblico.
7h) Sotto il primo punto di vista, alla luce delle indicazioni della Corte Costituzionale e di questo stesso
Consiglio, l'integrale pertinenza a referenti pubblici del pacchetto azionario dimostra che si è al cospetto di uno
strumento, alternativo alle forme tradizionali di intervento (costituzione di aziende municipalizzate, oggi aziende
speciali, e provvedimento concessorio), per il perseguimento dei fini istituzionali dell'ente pubblico nell'ambito
dei servizi pubblici. La partecipazione totale (o anche maggioritaria) dell'ente pubblico consente di ritenere,
secondo il criterio sostanzialistico proprio del diritto comunitario, che detta società si presenti - per questo non
abbisognando di un provvedimento concessorio che faccia seguito a procedura di gara - come un'articolazione
organizzativa dell'ente o degli enti pubblici di riferimento. Ne deriva, come evidenziato dalla ricordata
giurisprudenza costituzionale e del Consiglio, il dubbio circa l'effettività della linea di demarcazione rispetto
all'ente pubblico in senso stretto.
7i) Sul versante funzionale - posto che per bisogno non industriale e commerciale non si intende, alla luce dei
rilievi svolti, non imprenditorialità della gestione ma funzionalizzazione per il soddisfacimento di bisogni generali
della collettività in una posizione di non concorrenza con altri operatori del mercato - il requisito è soddisfatto
dalla circostanza che trattasi di società costituita per il solo fine di gestire in via esclusiva il servizio pubblico
interportuale per il soddisfacimento di un interesse generale di pertinenza della collettività territoriale. Se si
interpreta il requisito teleologico nel quadro sistematico, ossia se si tiene conto della finalità comunitaria di
perseguire gli obiettivi della tutela del mercato e della concorrenza, assume valore decisivo, per risolvere in
termini positivi la questione, la circostanza che la società non nasce per porsi in una posizione concorrenziale con
operatori privati - nel qual caso non si giustificherebbe la deroga al principio della gara comunitaria - ma per
erogare in via esclusiva e direttamente, in via alternativa al sistema della concessione, il servizio pubblico, ossia
per espletare un'attività dai connotati spiccatamente pubblicistici. L'attività svolta in tale contesto pubblicistico
dai privati si presenta cioè funzionale all'interesse pubblico - come dimostrato dai limiti e dai vincoli operativi che
la legislazione su dette società prevede - e per questo idonea, stante l'inclusione nel novero delle amministrazioni
aggiudicatrici, a sortire un effetto degradatorio delle posizioni di diritto soggettivo dei terzi.
Il perseguimento di uno scopo pubblico non è per contro in contraddizione con il fine societario lucrativo
descritto dall'art. 2247 c.c., dal momento che la presenza di un utile di gestione è del tutto compatibile con la
gestione dei servizi pubblici.
7l) Le considerazioni svolte sono in sintonia con gli orientamenti della giurisprudenza del Consiglio, la quale
ancora di recente ha ribadito che le società per azioni di cui si discorre sono in senso sostanziale "organi della
pubblica amministrazione", deputati, sulla base di norma legittimante , alla gestione del servizio pubblico
(all'organo indiretto si riferisce l'Adunanza Generale del Consiglio di Stato, parere 16 maggio 1996, n. 90; nonché
la decisione della Sezione V n. 192/1998 cit., in tema di scelta dei soci di minoranza con il sistema della gara
pubblica).
7m) La caratterizzazione pubblicistica e funzionale della gestione di un servizio pubblico è ulteriormente
confermata dall'art. della legge n. 241/1990, che assoggetta anche i concessionari di pubblici servizi alle norme in
tema di accesso ai documenti amministrativi. Merita inoltre rilevare che lo stesso art. 2 della legge n. 109/1994
assoggetta alle norme sull'evidenza pubblica i concessionari di servizi pubblici ed i concessionari di esercizio di
infrastrutture destinate al pubblico servizio, con norma estensibile per identità di ratio ai soggetti deputati in via
diretta sulla base di legge all'esercizio ed alla gestione diretta. Infine, non va sottaciuto che lo stesso art. 12,
comma 3, della legge n. 498/1992, in tema di S.p.A. a partecipazione pubblica minoritaria per la gestione di
servizi pubblici locali, obbliga, per le procedure in tema di opere pubbliche, al rispetto delle norme di cui al
decreto legislativo n. 406/1991 - con rinvio mobile estensibile alla sopravvenuta legge n. 109/1994 - dettando
una disciplina per identità di ratio estensibile alle società a partecipazione pubblica maggioritaria e totale.
(omissis)
8) L'inclusione della società appaltante nel novero delle amministrazioni aggiudicatrici imprime carattere
amministrativo agli atti di gara e, alla luce dei rilievi svolti, radica la giurisdizione del giudice amministrativo.
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2. I LIMITI ALLA PUBBLICIZZAZIONE LEGISLATIVA DI ENTI
PRIVATI: Corte Costituzionale, sentenza n. 396 del 1998
La Corte Costituzionale dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 1 della legge 17 luglio 1890 n. 6972 (<Norme sulle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza>) nella parte in cui non prevede che le IPAB regionali e infraregionali possano continuare a sussistere assumendo la personalità giuridica di diritto privato, qualora abbiano tuttora i requisiti di un'istituzione privata.
l. -E' sottoposta all'esame della Corte la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1 della legge 17 luglio 1890
n. 6972 (c.d. legge Crispi) perchè esso, riconducendo nell'ambito degli enti pubblici tutte le istituzioni di
assistenza e beneficenza (IPAB), sarebbe in contrasto con l'art. 38, ultimo comma, Cost. che tutela la libertà
dell'assistenza privata.
Ad avviso del giudice a quo, non può revocarsi in dubbio che, come riconosciuto dalla dottrina e dalla
giurisprudenza unanimi, la norma denunciata abbia prodotto una generalizzata pubblicizzazione delle Istituzioni
predette, ciò discendendo dalla inequivoca intestazione della legge, dalla struttura e dalla disciplina ad esse
imposta, dalla esplicita qualificazione loro attribuita.
Il monopolio pubblico dell'assistenza esercitata dagli enti riconosciuti, così determinato, comprimerebbe perciò
in modo consistente la libertà dei privati di contribuire all'assistenza predetta, in contrasto con l'opposto
principio sancito dal precetto costituzionale invocato.
(omissis)
4. - Nel merito la questione é fondata.
Sembra opportuno premettere che la Corte é stata già investita della medesima questione nel giudizio definito
con la sentenza n. 173 del 1981, nella quale il suo esame era però rimasto, per espressa affermazione in questo
senso, assorbito dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale dell'art. 25, comma quinto, del d.P.R. 24 luglio
1977 n. 616.
Tuttavia, già in tale occasione la Corte aveva avuto modo di rilevare che la legge del 1890 n. 6972, avendo
disciplinato una serie di istituzioni aventi uno <spessore storico> del tutto peculiare, era ispirata a due principi
fondamentali, quali il rispetto della volontà dei fondatori e i controlli giustificati dal fine pubblico dell'attività
svolta in situazione di autonomia.
Questa posizione ambivalente di dette istituzioni e stata ancora più di recente messa in evidenza nella sentenza n.
195 del 1987, in cui si é rilevato come il loro regime giuridico sia caratterizzato dall'intrecciarsi di una disciplina
pubblicistica in funzione di controllo, con una notevole permanenza di elementi privatistici, il che conferisce ad
esse una impronta assai peculiare rispetto agli altri enti pubblici.
In presenza di tali peculiarità devesi convenire con quella dottrina che parla di una assoluta tipicità di questi
particolari enti pubblici, in cui convivono forti poteri di vigilanza e tutela pubblica con un ruolo
ineliminabile e spesso decisivo della volontà dei privati, siano essi i fondatori, gli amministratori o la
base associativa. Esse quindi sono istituzioni pubbliche che, non solo in riferimento alla situazione precedente
alla legge del 1890, ma anche per le successive iniziative assistenziali, sono per lo più il prodotto del
riconoscimento di iniziative private, sia inter vivos che mortis causa.
La scelta operata dalla legge Crispi, come é stato ben messo in evidenza dalla dottrina, non fu una vera e propria
pubblicizzazione del settore della beneficenza e poi (per effetto del r.d. n. 2841 del 1923) della assistenza, ma la
creazione progressiva di strumenti statali di <beneficenza legale> e la predisposizione di forme di controllo e di
disciplina uniforme, nella beneficenza di origine privata.
Così ancora la dottrina, commentando il sistema della legge del 1890 nell'immediatezza della sua emanazione,
aveva posto in evidenza come l'assunzione, da parte di dette istituzioni, della personalità giuridica, che non
poteva non essere pubblica, era finalizzata allo scopo <di mettere il Governo in grado di assicurare che la
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personalità giuridica della nuova istituzione ... non solo e realmente di beneficenza ... ma che inoltre contribuisce
alla soddisfazione di un interesse pubblico armonizzante con l'indirizzo generale della beneficenza>.
Il rafforzamento dell'obbligo di riconoscimento come persona giuridica pubblica di ogni istituzione di origine
privata, finalizzata alla beneficenza, anche se strutturata in forma minima, era garantito dall'art. 103 della legge in
parola, che sanciva la nullità delle disposizioni o convenzioni dirette a sottrarre alla tutela o alla vigilanza delle
pubbliche autorità le istituzioni di beneficenza, nonchè successivamente dall'art. 26 del r.d. del 1923 n. 2841, che
attribuiva al prefetto il potere di promuovere di ufficio la fondazione di nuove istituzioni.
Disposizione quest'ultima che é stata esattamente indicata come ulteriore strumento volto a trasferire all'area
degli enti pubblici tutte le strutture di beneficenza e di assistenza che potessero sfuggire alla pubblicizzazione.
Da ciò l'esclusione dalla possibilità che, nell'area dell'assistenza e beneficenza, esistano fondazioni ed associazioni
dotate di personalità giuridica privata.
5.-Gli aspetti teste evidenziati e l'esame delle modalità di applicazione della legge Crispi nella sua evoluzione
portano a concludere che nel tempo sono finiti per essere ad essa assoggettati non solo enti che, in quanto
erogatori di servizi pubblici, avrebbero potuto, aspirare a pieno titolo alla qualificazione di enti pubblici, anche se
non fosse stato sancito il monopolio ora messo in discussione ma pure <organizzazioni espressive
dell'autonomia dei privati che hanno conservato caratteri propri dell'organizzazione civile anche dopo la loro
formale pubblicizzazione>.
Una prima rottura del sistema monolitico così descritto é derivata dalla legge del 1968 n. 195 che, in una
prospettiva di progressivo avvicinamento (conclusosi nel 1978 con la legge di riforma sanitaria n. 833) al sistema
di sicurezza sociale, ha sottratto alla disciplina della legge del 1890 le istituzioni sorte, soprattutto ad iniziativa di
privati, per l'assistenza ospedaliera.
Le istituzioni preesistenti sono state perciò assorbite negli enti ospedalieri, determinandosi così varii effetti e cioé,
da un canto, quello della impossibilita per le istituzioni aventi finalità ospedaliere di essere riconosciute come
I.P.A.B. (se nuove) o di continuare a sopravvivere (se già esistenti) nel sistema della legge Crispi del 1890,
dall'altro la possibilità per il futuro di istituire enti ospedalieri con personalità giuri dica privata, perchè questo
settore dell'assistenza ospedaliera non era ormai più compreso, da quel momento, nel sistema delle I.P.A.B.
Invece, ancorchè l'art. 38, u.c., Cost. tuteli ormai la libertà dell'assistenza privata, e rimasta immutata fino ad oggi
la situazione delle istituzioni che, sorte per iniziativa privata, svolgono altre svariate forme di beneficenza e di
assistenza, diverse da quella ospedaliera.
Mentre per le istituzioni a carattere interregionale, il loro assetto é stato definito con la disciplina dettata dagli
artt. 113 e segg. del d.P.R. n. 616 del 1977, quelle a carattere regionale e infraregionale sono tuttora assoggettate
al regime della legge del 1890, anche se, nonostante la loro formale pubblicizzazione, necessitata dalla previsione
generalizzante dell'art. 1 di detta legge, esse abbiano requisiti tali da poter continuare ad esistere come persone
giuridiche private. E ciò perchè, da un lato, i fini di esse non sono per loro natura esclusivi delle strutture
pubbliche, e dall'altro perchè lo Stato e gli altri enti pubblici, ove ritengano di dover realizzare certi fini di
assistenza e beneficenza, ben potrebbero ormai farlo attraverso proprie strutture, come e già in larga parte
avvenuto.
Sono, quindi, venuti ormai meno i presupposti che avevano presieduto, all'epoca della legge Crispi, al
generalizzato regime di pubblicizzazione, oggi non più aderente alla mutata situazione dei tempi ed
alla evoluzione degli apparati pubblici, per l'avvenuta assunzione diretta da parte di questi di certe categorie di
interessi, la cui realizzazione era invece assi curata, nel sistema della legge del 1890, quasi esclusivamente dalla
iniziativa dei privati, che veniva poi assoggettata al controllo pubblico per costituire un sistema di <beneficenza
legale>, che altrimenti sarebbe mancata del tutto.
Una volta mutata tale situazione, non possono ormai non essere assecondate le aspirazioni di quelle figure
soggettive sorte nell'ambito dell'autonomia privata, di vedersi riconosciuta l'originaria natura.
Questa esigenza é imposta dal principio pluralistico che ispira nel suo complesso la Costituzione repubblicana e
che, nel campo della assistenza, e garantito, quanto alle iniziative private, dall'ultimo comma dell'art. 38, rispetto
al quale e divenuto ormai incompatibile il monopolio pubblico delle istituzioni relative.
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6. -Le considerazioni che precedono denotano, perciò, il contrasto con la norma costituzionale citata, dell'art. 1
della legge del 1890, che invece continua ad esigere-pur essendo superata la situazione sociale e l'assetto delle
strutture dello Stato che avevano ispirato la legge stessa-un sistema di pubblicizzazione generalizzato, esteso a
tutte le iniziative originate dall'autonomia privata.
Queste perciò ben potrebbero essere restituite all'ambito privato ove fosse constatata la presenza di requisiti
propri di una persona giuridica privata.
7. -Per quel che riguarda gli enti di nuova istituzione, non può non prendersi atto di quanto già riferito in
precedenza, e che e stato posto in luce sia in dottrina che negli scritti difensivi, circa il già avvenuto
superamento del regime di obbligatoria pubblicizzazione proprio della legge Crispi.
Questo superamento manifestatosi più di recente sia in sede amministrativa, sia in sede di controllo, sia in sede
giurisdizionale, afferma il principio che enti di nuova istituzione, aventi finalità di assistenza e di beneficenza,
possano essere riconosciuti come persone giuridiche private: un principio che é la diretta conseguenza del
precetto costituzionale dell'art. 38, u.c., Cost., il quale, affermando la libertà dell'assistenza privata e conformando
l'intero sistema costituzionale dell'assistenza ai principi pluralistici, sancisce il diritto dei privati di istituire
liberamente enti di assistenza e, conseguenzialmente, quello di vedersi riconosciuta, per tali enti, una
qualificazione giuridica conforme alla propria effettiva natura.
Per effetto della Costituzione, si é perciò già realizzata un'inversione di tendenza, nel senso del superamento del
principio di pubblicizzazione generalizzata per realizzare quel sistema di <pluralismo delle istituzioni in relazione
alla possibilità di pluralismo nelle istituzioni>, auspicato dalla già richiamata sentenza n. 173 del 1981, che le
interpretazioni e le prassi applicative prima ricordate, hanno puntualmente colto.
Ciò basta per esimere questa Corte dal dover dichiarare l'illegittimità costituzionale della norma impugnata con
riferimento alle nuove istituzioni di assistenza, relativamente alle quali, in base all'indicata inversione di tendenza,
é già possibile il loro riconoscimento come enti privati.
Per le istituzioni preesistenti, invece, la cui pubblicizzazione non sia aderente alle caratteristiche dell'ente, la loro
riprivatizzazione, garantita dall'art. 38, u.c., Cost. é possibile solo a seguito della dichiarazione di illegittimità della
norma denunciata, che afferma l'opposto principio.
8.-La Corte non può comunque non sottolineare come, nonostante il lungo tempo trascorso, sia rimasto
irrealizzato l'auspicio che, nella già richiamata sentenza n. 173 del 1981, era stato formulato, sia pure in forma
indiretta, circa l'esigenza di un intervento legislativo di carattere generale che prendesse atto del superamento del
regime della legge n. 6972 del 1890. Di un intervento cioé che avrebbe dovuto riconsiderare i principi
fondamentali che avevano ispirato, all'epoca, il regime di pubblicizzazione generalizzato nel campo della
assistenza e riflettere sulla pluralità di forme e di modi in cui l'attività assistenziale viene prestata, differenze
queste che non erano state prese in considerazione dalla legge Crispi che aveva perseguito l'opposto disegno.
Essendo mancato fino ad oggi un intervento organico, non può ulteriormente rimanere disattesa l'esigenza di
adeguamento del sistema al principio costituzionale di libertà dell'assistenza privata. Nè potrebbe costituire
remora alla realizzazione di tale esigenza la considerazione della mancanza di una espressa disciplina alternativa
che, per effetto della dichiarazione di illegittimità costituzionale, possa consentire in concreto il rientro delle
istituzioni preesistenti, che ne presentino i requisiti, nella categoria dei soggetti privati, cui per loro natura
sarebbero fin dalle origini dovute appartenere, ove non fosse diversamente stato imposto dalla pubblicizzazione
generalizzatrice della legge del 1890.
Al riguardo sembra sufficiente considerare che, anche in mancanza di una apposita normativa che disciplini le
ipotesi ed i procedimenti per l'accertamento della natura privata delle I.P.A.B., la possibilita di realizzare in
concreto le finalità auspicate dall'ordinanza di rimessione sarebbero offerte, non solo perseguendo la via
dell'accertamento giudiziale, come nel caso oggetto del giudizio a quo, ma anche la via della trasformazione in via
amministrativa, sulla base dell'esercizio dei poteri di cui sono titolari sia l'amministrazione statale che quella
regionale in tema di riconoscimento, trasformazione ed estinzione delle persone giuridiche private.
Al riguardo potrebbe costituire utile punto di riferimento, in quanto esprime principi generali insiti
nell'ordinamento, l'art. 17 del d.P.R. 19 giugno 1979 n. 348 (recante norme di attuazione dello Statuto speciale
per la Sardegna) il quale indica una serie di caratteristiche e di presupposti come idonei a consentire la
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trasformazione in persone giuridiche private, di enti già in precedenza appartenenti alla categoria delle IPAB,
sottraendoli così alla soppressione prevista per le istituzioni aventi natura di enti pubblici veri e propri.
Altro esempio normativo da assumere in proposito come punto di riferimento, in quanto anche esso espressione
di principi generali, può essere considerato l'art. 30 della legge regionale siciliana n. 22 del 1986 il quale prevede
che <le istituzioni in atto qualificate quali IPAB per atto positivo di riconoscimento o per possesso di Stato, che,
avuto riguardo alle disposizioni della legge fondamentale sulle opere pie 17 luglio 1890 n. 6972 e successive
modifiche, agli atti di fondazione ed agli statuti delle istituzioni medesime, nonchè ai criteri selettivi da
determinare con le procedure di cui al successivo comma, per prevalenza di elementi essenziali sono classificabili
quali enti privati, sono incluse dal Presidente della Regione, su proposta dell'Assessore regionale per gli enti
locali, in apposito elenco ai fini del riconoscimento ai sensi dell'art. 12 del Codice civile>.
Gli esempi normativi richiamati, a parte le indicazioni procedimentali, che potrebbero valere solo per le Regioni
cui esse si riferiscono, costituiscono per il resto un significativo superamento della legge n. 6972 del 1890, con
l'indicazione di principi e criteri che, ove dovesse ancora mancare una apposita normativa che disciplini
compiutamente la materia dell'assistenza, in conformità ai principi costituzionali, possono essere considerati utili
punti di riferimento, per far conseguire nelle competenti sedi giudiziarie o amministrative, la qualificazione
privatistica a quelle IPAB che dovessero mostrarsi interessate a tale diverso riconoscimento, fino ad oggi
impedito dalla vigenza della norma di cui viene dichiarata l'illegittimità costituzionale.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 1 della legge 17 luglio 1890 n. 6972 (<Norme sulle istituzioni
pubbliche di assistenza e beneficenza>) nella parte in cui non prevede che le IPAB regionali e infraregionali
possano continuare a sussistere assumendo la personalità giuridica di diritto privato, qualora abbiano tuttora i
requisiti di un'istituzione privata.
3. TECKAL, IL MONDO DELL’IN HOUSE: Corte di Giustizia, sentenza del 18
novembre 1999, 107/98
Nell'ambito del procedimento ex art. 177 del Trattato (divenuto art. 234 CE), spetta alla Corte, di fronte a questioni formulate in modo impreciso, trarre dal complesso dei dati forniti dal giudice nazionale e dal fascicolo della causa principale i punti di diritto comunitario che vanno interpretati, tenuto conto dell'oggetto della lite. Per fornire una soluzione utile al giudice che le ha sottoposto una questione pregiudiziale, la Corte può essere indotta a prendere in considerazione norme di diritto comunitario alle quali il giudice nazionale non ha fatto riferimento nel formulare la questione. Nella ripartizione dei compiti stabilita dal suddetto articolo, spetta invece al giudice nazionale applicare al caso concreto le norme di diritto comunitario come interpretate dalla Corte. Infatti una siffatta applicazione non può essere effettuata senza una valutazione dei fatti di causa nel loro complesso. La direttiva 93/36, che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture, è applicabile ove un'amministrazione aggiudicatrice, quale un ente locale, decida di stipulare per iscritto, con un ente distinto da essa sul piano formale e autonomo rispetto ad essa sul piano decisionale - ipotesi che non ricorre nel caso in cui, nel contempo, l'ente locale eserciti sulla persona da esso giuridicamente distinta un controllo analogo a quello che esso esercita sui propri servizi e questa persona realizzi la parte più importante della propria attività con l'ente o con gli enti locali che la controllano -, un contratto a titolo oneroso avente ad oggetto la fornitura di prodotti, indipendentemente dal fatto che tale ultimo ente sia a sua volta un'amministrazione aggiudicatrice o meno. Infatti, le sole eccezioni consentite all'applicazione della direttiva 93/36 sono quelle in essa limitativamente ed esplicitamente indicate. Ora, tale direttiva non contiene alcuna disposizione analoga all'art. 6 della direttiva 92/50, che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di servizi, la quale escluda dal suo ambito di applicazione appalti pubblici aggiudicati, a talune condizioni, ad amministrazioni aggiudicatrici.
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1 Con ordinanza 10 marzo 1998, pervenuta in cancelleria il 14 aprile successivo, il Tribunale amministrativo
regionale per l'Emilia-Romagna ha sottoposto a questa Corte, ai sensi dell'art. 177 del Trattato CE (divenuto art.
234 CE), una questione pregiudiziale relativa all'interpretazione dell'art. 6 della direttiva del Consiglio 18
giugno 1992, 92/50/CEE, che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di servizi
(GU L 209, pag. 1).
2 Tale questione è stata proposta nell'ambito di una controversia che vede la Teckal Srl (in prosieguo: la
«Teckal») contrapposta al comune di Viano e all'Azienda Gas-Acqua Consorziale (AGAC) di Reggio Emilia (in
prosieguo: l'«AGAC») in ordine all'aggiudicazione, da parte di tale comune, della gestione del servizio di
riscaldamento di taluni edifici comunali.
La normativa comunitaria
3 L'art. 1, lett. a) e b), della direttiva 92/50 dispone:
«Ai fini della presente direttiva s'intendono per:
a) "appalti pubblici di servizi", i contratti a titolo oneroso stipulati in forma scritta tra un prestatore di servizi ed
un'amministrazione aggiudicatrice (...)
b) "amministrazioni aggiudicatrici", lo Stato, gli enti locali, gli organismi di diritto pubblico, le associazioni
costituite da detti enti od organismi di diritto pubblico.
(...)».
4 L'art. 2 della direttiva 92/50 precisa:
«Se un appalto pubblico ha per oggetto sia dei prodotti di cui alla direttiva 77/62/CEE che dei servizi di cui agli
allegati IA e IB della presente direttiva, esso rientra nel campo d'applicazione della presente direttiva qualora il
valore dei servizi in questione superi quello dei prodotti previsti dal contratto».
5 Ai sensi dell'art. 6 della direttiva 92/50:
«La presente direttiva non si applica agli appalti pubblici di servizi aggiudicati ad un ente che sia esso stesso
un'amministrazione ai sensi dell'articolo 1, lettera b), in base a un diritto esclusivo di cui beneficia in virtù delle
disposizioni legislative, regolamentari od amministrative pubblicate, purché tali disposizioni siano compatibili con
il trattato».
6 La direttiva del Consiglio 14 giugno 1993, 93/36/CEE, che coordina le procedure di aggiudicazione degli
appalti pubblici di forniture (GU L 199, pag. 1), ha abrogato la direttiva del Consiglio 21 dicembre 1976,
77/62/CEE, che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture (GU 1977, L 13, pag.
1). I riferimenti fatti alla direttiva abrogata si considerano, ai sensi dell'art. 33 della direttiva 93/36, come fatti a
quest'ultima.
7 L'art. 1, lett. a) e b), della direttiva 93/36 dispone:
«Ai fini della presente direttiva si intendono per:
a) "appalti pubblici di forniture", i contratti a titolo oneroso, aventi per oggetto l'acquisto, il leasing, la locazione,
l'acquisto a riscatto con o senza opzione per l'acquisto di prodotti, conclusi per iscritto fra un fornitore (persona
fisica o giuridica) e una delle amministrazioni aggiudicatrici definite alla lettera b). La fornitura di tali prodotti può
comportare, a titolo accessorio, lavori di posa e installazione;
b) "amministrazioni aggiudicatrici", lo Stato, gli enti locali, gli organismi di diritto pubblico, le associazioni
costituite da detti enti od organismi di diritto pubblico(...)».
La normativa nazionale
8 L'art. 22, n. 1, della legge italiana 8 giugno 1990, n. 142, sull'ordinamento delle autonomie locali (GURI n. 135
del 12 giugno 1990; in prosieguo: la «legge n. 142/90»), stabilisce che i comuni provvedono alla gestione dei
servizi pubblici che abbiano per oggetto la produzione di beni e le attività rivolte a realizzare fini sociali e a
promuovere lo sviluppo economico e civile delle comunità locali.
9 Ai sensi dell'art. 22, n. 3, della legge n. 142/90, i comuni possono fornire tali servizi in economia, in
concessione a terzi, a mezzo di azienda speciale, istituzione o società per azioni a prevalente capitale pubblico
locale.
10 L'art. 23 della legge n. 142/90, che definisce le aziende speciali e le istituzioni, dispone che:
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«1. L'azienda speciale è ente strumentale dell'ente locale dotato di personalità giuridica, di autonomia
imprenditoriale e di proprio statuto, approvato dal consiglio comunale o provinciale.
(...)
3. Organi dell'azienda e dell'istituzione sono il consiglio di amministrazione, il presidente e il direttore, al quale
compete la responsabilità gestionale. Le modalità di nomina e di revoca degli amministratori sono stabilite dallo
statuto dell'ente locale.
4. L'azienda e l'istituzione informano la loro attività a criteri di efficacia, efficienza ed economicità ed hanno
l'obbligo del pareggio di bilancio da perseguire attraverso l'equilibrio dei costi e dei ricavi, compresi i
trasferimenti.
(...)
6. L'ente locale conferisce il capitale di dotazione; determina le finalità e gli indirizzi; approva gli atti
fondamentali; esercita la vigilanza; verifica i risultati della gestione; provvede alla copertura degli eventuali costi
sociali.
(...)».
11 Ai sensi dell'art. 25 della legge n. 142/90, i comuni e le province, per la gestione associata di uno o più servizi,
possono costituire un consorzio secondo le norme previste per le aziende speciali di cui all'art. 23. A tal fine i
rispettivi consigli comunali approvano, a maggioranza assoluta dei componenti, una convenzione unitamente allo
statuto del consorzio. L'assemblea del consorzio è composta dai rappresentanti degli enti associati, nella persona
del sindaco, del presidente o di un loro delegato. L'assemblea elegge il consiglio di amministrazione e ne approva
gli atti fondamentali previsti dallo statuto.
12 L'AGAC è un consorzio costituito da diversi comuni - tra i quali quello di Viano - per la gestione dei servizi
dell'energia e dell'ambiente, ai sensi dell'art. 25 della legge n. 142/90. In forza dell'art. 1 del proprio statuto (in
prosieguo: lo «statuto»), essa è dotata di personalità giuridica e autonomia imprenditoriale. L'art. 3, n. 1, dello
statuto prevede che essa ha come scopo l'assunzione diretta e la gestione di taluni servizi pubblici elencati, tra i
quali «gas metano per usi civili e produttivi; calore per usi civili e produttivi; attività connesse e accessorie ai
servizi sopra indicati».
13 Ai sensi dell'art. 3, nn. 2-4, dello statuto, l'AGAC può estendere le sue attività ad altri servizi connessi o
accessori, partecipare ad enti e/o a società a capitale pubblico o privato per la gestione di attività connesse e
accessorie, e infine svolgere servizi o provvedere a forniture nei confronti di privati o enti pubblici diversi dai
comuni consorziati.
14 Ai sensi degli artt. 12 e 13 dello statuto, gli atti di gestione più importanti, tra i quali i bilanci preventivi e i
consuntivi, sono approvati dall'assemblea dell'AGAC, composta da rappresentanti dei comuni. Gli altri organi
direttivi sono il consiglio, il presidente del consiglio e il direttore generale. Questi ultimi non rispondono della
loro gestione dinanzi ai comuni. Le persone fisiche che compongono tali organi non rivestono cariche nei
comuni consorziati.
15 L'art. 25 dello statuto sancisce per l'AGAC l'obbligo del pareggio di bilancio e quello dell'economicità
gestionale. In applicazione dell'art. 27 dello statuto, i comuni conferiscono fondi o beni all'AGAC, che versa loro
interessi annui. L'art. 28 dello statuto prevede che gli eventuali utili di esercizio siano ripartiti tra i comuni
consorziati, conservati dall'AGAC per incrementare i fondi di riserva o anche reinvestiti in altre attività
dell'AGAC. A norma dell'art. 29 dello statuto, nel caso di perdita di esercizio, si può procedere al risanamento
della situazione finanziaria, in particolare, attraverso il conferimento di nuovi capitali da parte dei comuni
consorziati.
16 L'art. 35 dello statuto prevede una procedura di arbitrato per la composizione delle controverse tra i comuni
consorziati o tra questi ultimi e l'AGAC.
La controversia nella causa principale
17 Con la sua deliberazione 24 maggio 1997, n. 18 (in prosieguo: la «delibera»), il consiglio comunale di Viano ha
affidato all'AGAC la gestione del servizio di riscaldamento di taluni edifici comunali. Tale delibera non è stata
preceduta da alcuna procedura di gara.
(omissis)
23
41 Al fine di determinare se, per un ente locale, il fatto di affidare la fornitura di prodotti ad un
consorzio al quale esso partecipi debba dar luogo a una procedura di gara prevista dalla direttiva 93/36,
occorre esaminare se tale aggiudicazione costituisca un appalto pubblico di forniture.
42 In caso affermativo e se l'importo stimato dell'appalto, al netto dell'imposta sul valore aggiunto, è pari o
superiore a 200 000 ECU, la direttiva 93/36 è applicabile. Non è determinante al riguardo il fatto che il fornitore
sia o non sia un'amministrazione aggiudicatrice.
43 Infatti, si deve ricordare che le uniche deroghe consentite all'applicazione della direttiva 93/36 sono quelle in
essa tassativamente ed espressamente menzionate (v., in ordine alla direttiva 77/62, sentenza 17 novembre 1993,
causa C-71/92, Commissione/Spagna, Racc. pag. I-5923, punto 10).
44 Ora, la direttiva 93/36 non contiene alcuna disposizione analoga all'art. 6 della direttiva 92/50, che escluda dal
suo ambito di applicazione appalti pubblici aggiudicati, a talune condizioni, ad amministrazioni aggiudicatrici.
(omissis)
48 E' pacifico nella fattispecie che l'AGAC fornisce prodotti, ossia combustibili, al comune di Viano dietro
pagamento di un corrispettivo.
49 Relativamente all'esistenza di un contratto, il giudice nazionale deve verificare se vi sia stato un incontro di
volontà tra due persone distinte.
A questo proposito, conformemente all'art. 1, lett. a), della direttiva 93/36, basta, in linea di principio, che il
contratto sia stato stipulato, da una parte, da un ente locale e, dall'altra, da una persona giuridicamente distinta da
quest'ultimo. Può avvenire diversamente solo nel caso in cui, nel contempo, l'ente locale eserciti sulla persona di
cui trattasi un controllo analogo a quello da esso esercitato sui propri servizi e questa persona realizzi la parte più
importante della propria attività con l'ente o con gli enti locali che la controllano.
51 Occorre pertanto risolvere la questione pregiudiziale nel senso che la direttiva 93/36 è applicabile ove
un'amministrazione aggiudicatrice, quale un ente locale, decida di stipulare per iscritto, con un ente distinto da
essa sul piano formale e autonomo rispetto ad essa sul piano decisionale, un contratto a titolo oneroso avente ad
oggetto la fornitura di prodotti, indipendentemente dal fatto che tale ultimo ente sia a sua volta
un'amministrazione aggiudicatrice o meno.
(omissis)
Dispositivo
(omissis)
La direttiva del Consiglio 14 giugno 1993, 93/36/CEE, che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti
pubblici di forniture, è applicabile ove un'amministrazione aggiudicatrice, quale un ente locale, decida di stipulare
per iscritto, con un ente distinto da essa sul piano formale e autonomo rispetto ad essa sul piano decisionale, un
contratto a titolo oneroso avente ad oggetto la fornitura di prodotti, indipendentemente dal fatto che tale ultimo
ente sia a sua volta un'amministrazione aggiudicatrice o meno.
4. LO STRANO CASO DELLA RAI: Corte di Cassazione, Sezioni Unite, ordinanza n.
27092 del 2009
Compete al giudice contabile la giurisdizione in ordine alle azioni di responsabilità amministrativa esercitate per ottenere il risarcimento dei danni che si assume essere stati cagionati alla s.p.a. RAI - Radiotelevisione italiana da componenti del suo consiglio di amministrazione e da dipendenti della stessa società e degli enti pubblici azionisti, in seguito alla nomina del direttore generale e alla conclusione di contratti attinenti al trattamento economico del direttore generale e degli ex direttori generali; Compete al giudice ordinario la giurisdizione in ordine alle azioni esercitate per ottenere la dichiarazione della nullità da cui si assume essere affetti i contratti conclusi dalla s.p.a. RAI - Radiotelevisione italiana, attinenti al trattamento economico del direttori generale o degli ex direttori generali; deve dunque essere dichiarata la giurisdizione del giudice contabile in ordine alle azioni di responsabilità e del giudice ordinario in ordine alle azioni di nullità.
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DIRITTO
che:
(omissis)
con le relative ordinanze è stata dichiarata la giurisdizione del giudice ordinario, per ragioni riguardanti la
generalità di tali società, ma espressamente facendo "salva la specificità di singole società a partecipazione
pubblica il cui statuto sia soggetto a regole legali sui generis, come nel caso della RAI";
per quest'ultima, in effetti, la decisione deve essere diversa, data la natura sostanziale di ente assimilabile a una
amministrazione pubblica che le va riconosciuta, nonostante l'abito formale che riveste di società per azioni
(peraltro partecipata totalitariamente da enti pubblici: lo Stato per il 99.55% e la S.I.A.E. - Società italiana degli
autori ed editori per il residuo 0, 45%); ne discende la qualificabilità come erariale del danno cagionatole dai suoi
agenti, nonché da quelli degli enti pubblici azionisti, con conseguente loro assoggettabilità all'azione di
responsabilità amministrativa davanti al giudice contabile;
lo si desume dai peculiari caratteri del regime della RAI, la quale:
- è designata direttamente dalla legge quale concessionaria dell'essenziale servizio pubblico
radiotelevisivo, svolto nell'interesse generale della collettività nazionale per assicurare il pluralismo, la
democraticità e l'imparzialità dell'informazione;
- è sottoposta, per la verifica della correttezza dell'esercizio di tale funzione, a penetranti poteri di
vigilanza da parte di un'apposita commissione parlamentare, espressione dello Stato- comunità;
- è destinataria, per coprire i costi del servizio, di un canone di abbonamento, avente natura di imposta
e gravante su tutti i detentori di apparecchi di ricezione di trasmissioni radiofoniche e televisive, che è riscosso e
le viene versato dall'Agenzia delle Entrate;
- è compresa tra gli enti cui lo Stato contribuisce in via ordinaria, sottoposti pertanto al controllo della
Corte dei Conti;
- è tenuta all'osservanza delle procedure di evidenza pubblica nell'affidamento di appalti, in quanto
"organismo di diritto pubblico" ai sensi della normativa comunitaria in materia;
queste particolarità - già evidenziate dalla giurisprudenza di legittimità, sia pure ai limitati fini che in quella sede
venivano in considerazione: Cass. 23 aprile 2008 n. 10443 - concordemente e univocamente depongono nel
senso dell'inclusione della RAI nel novero degli enti pubblici;
a fronte di ciò, risultano ininfluenti le argomentazioni svolte dai ricorrenti, nella parte in cui negano l'esperibilità
dell'azione di responsabilità amministrativa nei confronti degli amministratori e dei dipendenti della generalità
delle società in mano pubblica, nel cui ambito la RAI nettamente si differenzia;
quanto poi alle deduzioni che ad essa specificamente sono riferibili, va osservato:
- la L. 14 gennaio 1994, n. 20, art. 1, ha ampliato l'ambito della giurisdizione contabile, comprendendovi la
responsabilità per danno erariale degli amministratori e dipendenti di tutti gli enti pubblici, anche "economici"
(Cass. 22 dicembre 2003 n. 19667, cui si è costantemente uniformata la successiva giurisprudenza di questa
Corte); non difetta dunque il requisito della interpositio legislatoris;
- i dubbi circa la legittimità costituzionale della norma così interpretata, formulati dai ricorrenti, sono per un
verso irrilevanti, in quanto attengono in genere alle società "partecipate", per altro verso manifestamente
infondati, con riguardo agli enti pubblici anche economici, ai quali va equiparata la RAI, poiché la disposizione di
cui si tratta ha esteso la giurisdizione della Corte dei conti non già a indistinti "blocchi di materie", nel senso
precisato da Corte cost. 6 luglio 2004 n. 204 e 11 maggio 2006 n. 191, bensì ad attività già potenzialmente
comprese nella previsione dell'art. 103 Cost., perché riferibili alla pubblica amministrazione e pregiudizievoli per
le sue finanze, anche se svolte in campo economico con gli strumenti del diritto privato;
- i giudizi per i quali è stato chiesto il regolamento di giurisdizione hanno per oggetto atti riguardanti la nomina e
il trattamento economico del direttore generale della RAI, il quale è preposto alla complessiva sua gestione,
organizzazione e funzionamento, con competenze che si estendono a tutto il campo di operatività della società,
senza alcuna esclusione per l'esercizio del servizio pubblico generale radiotelevisivo; non è dunque pertinente
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l'assunto dei ricorrenti, secondo cui nella RAI sarebbero presenti "due anime", corrispondi ai distinti settori in cui
essa agisce (il servizio pubblico espletato in concessione, finanziato esclusivamente mediante il canone di
abbonamento; l'attività imprenditoriale svolta nel libero mercato radiotelevisivo, finanziata esclusivamente
mediante gli introiti pubblicitari); ne' conseguentemente ostano all'affermazione della giurisdizione della Corte dei
conti, per i giudizi qui in considerazione, le obiezioni relative all'alterazione della concorrenza che in tale mercato
ne deriverebbe, con violazione anche delle regole comunitarie, a causa dell'aggravamento della responsabilità
degli amministratori e dei dipendenti della RAI, rispetto a quelli delle altre imprese radiotelevisive, anche sotto il
profilo del rischio di un'estensione del sindacato giurisdizionale a scelte ispirate a criteri necessariamente diversi
dai canoni da osservare nella gestione del denaro pubblico;
- neppure rileva che il pagamento della sanzione pecuniaria, inflitta alla RAI dall'AGCOM - Autorità per le
garanzie nelle comunicazioni a causa dell'illegittimità della nomina di Alfredo Meocci come componente del
consiglio di amministrazione della società, non sia stato imputato al bilancio della gestione del servizio pubblico,
ma a quello dell'attività commerciale; la circostanza attiene semmai alla sussistenza in concreto di un danno
erariale e quindi al merito della causa, sicché non incide sulla questione di giurisdizione; ma d'altra parte l'importo
della sanzione è soltanto una delle numerose voci del danno di cui sono stati chiamati a rispondere i convenuti,
consistente anche nei compensi erogati a professionisti esterni, per consulenze e pareri sulla validità di quella
nomina, oltre che per la difesa nel giudizio di opposizione al provvedimento irrogativo della sanzione,
nell'aumento del suo ammontare, conseguente al ritardo con cui è stata pagata, nel deterioramento dell'immagine
della società, nei trattamenti economici accordati in via transattiva agli ex direttori generali;
- la previsione legislativa della possibilità di promuovere confronti dei componenti del consiglio di
amministrazione della RAI l'ordinaria azione civilistica di responsabilità (peraltro con il vincolo di una previa
deliberazione conforme della commissione di vigilanza) non implica l'esclusione dell'esperibilità dell'azione di
responsabilità amministrativa davanti al giudice contabile; l'avere entrambe per oggetto il medesimo danno
(peraltro con i limiti che per la seconda derivano dalla diversità dei presupposti e delle conseguenze,
relativamente all'elemento soggettivo, alla solo eccezionale trasmissibilità agli eredi, alla facoltà di riduzione del
quantum) non osta alla loro coesistenza, ne' comporta i rischi di duplicazione del risarcimento prospettati dai
ricorrenti, poiché la giurisdizione civile e quella contabile sono reciprocamente indipendenti nei loro profili
istituzionali, sicché il rapporto tra le due azioni si pone in termini di alternatività anziché di esclusività, dando
luogo a questioni non di giurisdizione, ma di proponibilità della domanda (Cass. 24 marzo 2006 n. 6581);
- il carattere privatistico del rapporto di lavoro subordinato che lega Rubens Esposito alla RAI non lo esenta
dalla giurisdizione contabile, la quale si estende alla responsabilità sia degli amministratori sia dei dipendenti degli
enti pubblici;
- a proposito delle domande intese ad ottenere la dichiarazione di nullità dei negozi intercorsi tra la RAI e
Alfredo Meocci o altri suoi ex direttori generali, il Procuratore regionale presso la sezione giurisdizionale per il
Lazio della Corte dei conti ha sostenuto la tesi della sussistenza della giurisdizione del giudice contabile in base
alla L. 23 dicembre 2005, n. 266, art. 1, comma 174, nel presupposto che riguardi tutte le azioni dirette, come
nella specie, a eliminare la fonte di un danno erariale ed evitare che si aggravi;
l'assunto non è fondato, poiché la disposizione citata abilita il procuratore regionale esclusivamente a esercitare
"tutte le azioni a tutela delle ragioni del creditore previste dalla procedura civile, ivi compresi i mezzi di
conservazione della garanzia patrimoniale di cui al libro 6^, titolo 2^, capo 5^, codice civile"; le azioni di nullità
contrattuale esulano dunque dalle previsioni della norma, nè d'altra parte alla Corte dei conti in sede
giurisdizionale è affidato il compito di prevenire danni erariali non ancora prodotti, insieme con quello di
procurare il ristoro di pregiudizi già verificatisi; i principi da enunciare sono dunque:
- "Compete al giudice contabile la giurisdizione in ordine alle azioni di responsabilità amministrativa
esercitate per ottenere il risarcimento dei danni che si assume essere stati cagionati alla s.p.a. RAI -
Radiotelevisione italiana da componenti del suo consiglio di amministrazione e da dipendenti della
stessa società e degli enti pubblici azionisti, in seguito alla nomina del direttore generale e alla
conclusione di contratti attinenti al trattamento economico del direttore generale e degli ex direttori
generali";
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- "Compete al giudice ordinario la giurisdizione in ordine alle azioni esercitate per ottenere la
dichiarazione della nullità da cui si assume essere affetti i contratti conclusi dalla s.p.a. RAI -
Radiotelevisione italiana, attinenti al trattamento economico del direttori generale o degli ex direttori
generali";
deve dunque essere dichiarata la giurisdizione del giudice contabile in ordine alle azioni di
responsabilità e del giudice ordinario in ordine alle azioni di nullità;
5. LA RESPONSABILITÀ PER MALA GESTIO DELLE SOCIETÀ
PUBBLICHE NON IN HOUSE NON È ERARIALE: Corte di Cassazione,
Sezioni Unite, sentenza del 19 dicembre 2009, n. 26806
Con la sentenza 26806/2009, modificando il precedente orientamento in materia, la Corte di Cassazione a Sezioni Unite ha stabilito che va affermata la giurisdizione della Corte dei Conti solo ed esclusivamente in relazione ai danni che l’ente pubblico abbia subito direttamente per effetto dei comportamenti illegittimi degli organi societari, restando, al contrario, preclusa nell’ipotesi in cui i predetti danni si siano prodotti nei confronti della società partecipata (c.d. danno al patrimonio societario) e, solo in via mediata, nei confronti dell’ente socio.
Il problema che si pone è quello relativo alla questione se agli amministratori e dipendenti di una s.p.a.
cosiddetta "in mano pubblica" si applichino le norme di diritto societario o se dalla presenza di capitali
pubblici consegua invece l'assoggettamento di questi soggetti alle norme proprie della responsabilità
amministrativa, con la conseguente giurisdizione della Corte dei Conti.
Il problema non è quello di definire se, come e quando una s.p.a. "pubblica" risponda, come persona giuridica
per danno erariale ad una P.A., ma si tratta di stabilire sulla base di quale statuto gli amministratori o i
dipendenti di una s, p.a. "pubblica" rispondano dei danni ad essa direttamente prodotti ed
indirettamente riflessi sulla p.a., in quanto titolare della partecipazione azionaria. La differenza è
rilevante, se si considera che nel primo caso la s.p.a. "pubblica" è il soggetto responsabile del danno
che deve risarcire con il proprio patrimonio sociale, nel secondo caso essa diviene il soggetto
danneggiato il cui patrimonio deve essere reintegrato.
Vanno, quindi, fissati alcuni principi generali.
3.1. Com'è noto, il limite esterno della giurisdizione della Corte dei conti, sul quale le sezioni unite della Corte di
cassazione sono chiamate a pronunciarsi, ha rilevanza costituzionale: discende dal disposto dell'art. 103 Cost.,
comma 2, a tenore del quale "la Corte dei conti ha giurisdizione nelle materie di contabilità pubblica e nelle altre
specificate dalla legge".
Al di fuori delle materie di contabilità pubblica, e quindi anche in tema di responsabilità, occorre dunque che la
giurisdizione della Corte dei conti abbia il suo fondamento in una specifica disposizione di legge.
In termini generali, il contenuto ed i limiti della giurisdizione della Corte dei conti in tema di responsabilità
trovano la loro base normativa nella previsione del R.D. 12 luglio 1934, n. 1214, art. 13, secondo cui la corte
giudica sulla responsabilità per danni arrecati all'erario da pubblici funzionari nell'esercizio delle loro funzioni.
Tali limiti sono stati successivamente ampliati della L. 14 gennaio 1994, n. 20, art. 1, comma 4, che ha esteso il
giudizio della Corte dei conti alla responsabilità di amministratori e dipendenti pubblici anche per danni cagionati
ad amministrazioni o enti pubblici diversi da quelli di appartenenza. La giurisdizione di detta corte non è quindi
circoscritta alla sola ipotesi di responsabilità contrattuale dell'agente, ma può esplicarsi anche in caso di
responsabilità aquiliana.
3.2. In passato i limiti esterni della giurisdizione della Corte dei conti, al pari di quella del giudice amministrativo,
erano però (relativamente) più agevoli da tracciare: la più netta distinzione tra l'area del pubblico e quella del
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privato, la normale corrispondenza tra la natura pubblica dell'attività svolta dall'agente ed il suo organico
inserimento nei ranghi della pubblica amministrazione, la conseguente più agevole demarcazione di confini tra
l'agire dell'amministrazione in forza della potestà pubblica ad essa spettante e per le finalità tipicamente a questa
connesse ed il suo agire invece iure privatorum: erano tutti elementi che facilitavano anche l'individuazione dei
limiti esterni della giurisdizione in esame.
La più recente evoluzione dell'ordinamento ha reso ora questi confini assai meno chiari, da un lato incanalando
sovente le finalità della pubblica amministrazione in ambiti tipicamente privatistici, dall'altro affidando con
maggiore frequenza a soggetti privati la realizzazione di finalità una volta ritenute di pertinenza esclusiva degli
organi pubblici.
In quest'ottica anche le sezioni unite della Cassazione, per evitare il rischio di un sostanziale svuotamento - o
almeno di un grave indebolimento - della giurisdizione della corte contabile in punto di responsabilità, ha teso a
privilegiare un approccio più "sostanzialistico", sostituendo ad un criterio eminentemente soggettivo, che
identificava l'elemento fondante della giurisdizione della Corte dei conti nella condizione giuridica pubblica
dell'agente, un criterio oggettivo che fa leva sulla natura pubblica delle funzioni espletate e delle risorse
finanziarie a tal fine adoperate.
Si è perciò affermato che, quando si discute del riparto della giurisdizione tra Corte dei conti e giudice
ordinario, occorre aver riguardo al rapporto di servizio tra l'agente e la pubblica amministrazione, ma
che per tale può intendersi anche una relazione con la pubblica amministrazione caratterizzata dal fatto
di investire un soggetto, altrimenti estraneo all'amministrazione medesima, del compito di porre in
essere in sua vece un'attività, senza che rilevi nè la natura giuridica dell'atto di investitura -
provvedimento, convenzione o contratto - ne' quella del soggetto che la riceve, sia essa una persona
giuridica o fisica, privata o pubblica (Sez. un. 3 luglio 2009, n. 15599; 31 gennaio 2008, n. 2289; 22 febbraio
2007, n. 4112; 20 ottobre 2006, n. 22513; 5 giugno 2000, n. 400; Sez. un., 30 marzo 1990, n. 2611, ed altre
conformi).
L'affidamento da parte di un ente pubblico ad un soggetto esterno, da esso controllato, della gestione
di un servizio pubblico integra quindi una relazione funzionale incentrata sull'inserimento del soggetto
medesimo nell'organizzazione funzionale dell'ente pubblico e ne implica, conseguentemente,
l'assoggettamento alla giurisdizione della Corte dei conti per danno erariale, a prescindere dalla natura
privatistica dello stesso soggetto e dello strumento contrattuale con il quale si sia costituito ed attuato il
rapporto (Sez. un. 27 settembre 2006, n. 20886; 1 aprile 2008, n. 8409; 1 marzo 2006, n. 4511; 19 febbraio 2004,
2004, n. 3351), anche se l'estraneo venga investito solo di fatto dello svolgimento di una data attività in
favore della pubblica amministrazione (Sez. un. 9 settembre 2008, n. 22652) ed anche se difetti una
gestione del danaro secondo moduli contabili di tipo pubblico o secondo procedure di rendicontazione
proprie della giurisdizione contabile in senso stretto (Sez. un. 12 ottobre 2004, n. 20132). Lo stesso dicasi
per l'accertamento della responsabilità erariale conseguente all'illecito o indebito utilizzo, da parte di una società
privata, di finanziamenti pubblici (Sez. un. 5 giugno 2008, n. 14825, e Sez. un., n. 4511/06, cit.); o per la
responsabilità in cui può incorrere il concessionario privato di un pubblico servizio o di un'opera pubblica,
quando la concessione investe il privato dell'esercizio di funzioni obiettivamente pubbliche, attribuendogli la
qualifica di organo indiretto dell'amministrazione, onde egli agisce per le finalità proprie di quest'ultima (Sez. un.,
n. 4112/07, cit.). Nella medesima ottica, a partire dal 2003, le sezioni unite di questa l'hanno ritenuto spettare alla
Corte dei conti, dopo l'entrata in vigore della L. n. 20 del 1994, art. 1, u.c., la giurisdizione sulle controversie
aventi ad oggetto la responsabilità di privati funzionar di enti pubblici economici (quali, ad esempio, i consorzi
per la gestione di opere) anche per i danni conseguenti allo svolgimento dell'ordinaria attività imprenditoriale e
non soltanto per quelli cagionati nell'espletamento di funzioni pubbliche o comunque di poteri pubblicistici (Sez.
un., 22 dicembre 2003, n. 19667). Si è sottolineato che si esercita attività amministrativa non solo quando si
svolgono pubbliche funzioni e poteri autoritativi, ma anche quando, nei limiti consentiti
dall'ordinamento, si perseguono le finalità istituzionali proprie dell'amministrazione pubblica mediante
un'attività disciplinata in tutto o in parte dal diritto privato; con la conseguenza - si è precisato - che,
nell'attuale assetto normativo, il dato essenziale che radica la giurisdizione della corte contabile è
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rappresentato dall'evento dannoso verificatosi a carico di una pubblica amministrazione e non più dal
quadro di riferimento - pubblico o privato - nel quale si colloca la condotta produttiva del danno (Sez.
un., 25 maggio 2005, n. 10973; 20 giugno 2006, n. 14101; 1 marzo 2006, n. 4511; Cass. 15 febbraio 2007, n.
3367).
3.3. Se quanto appena osservato vale certamente per gli enti pubblici economici, i quali restano nell'alveo della
pubblica amministrazione pur quando eventualmente operino imprenditorialmente con strumenti privatistici, è
da stabilire entro quali limiti alla medesima conclusione si debba pervenire anche nel diverso caso della
responsabilità di amministratori di società di diritto privato partecipate da un ente pubblico. Le quali
non perdono la loro natura di enti privati per il solo fatto che il loro capitale sia alimentato anche da
conferimenti provenienti dallo Stato o da altro ente pubblico.
Il codice civile dedica alla società per azioni a partecipazione pubblica solo alcune scarne disposizioni, oggi
contenute nell'art. 2449 (come modificato dalla L. 25 febbraio 2008, n. 34, art. 13, a seguito della pronuncia della
Corte giustizia delle Comunità europee, 6 dicembre 2007, n. 463/04), essendo stato il successivo art. 2450 ormai
abrogato dal D.L. 15 febbraio 2007, n. 10, art. 3, comma 1, convertito con modificazioni dalla L. 6 aprile 2007, n.
46. Ma siffatte residue disposizioni del codice non valgono a configurare uno statuto speciale per dette società
(spesso, viceversa, interessate da norme speciali, non sempre tra loro ben coordinate), salvo per i profili inerenti
alla nomina e revoca degli organi sociali, specificamente ivi contemplati, ne' comunque investono il tema della
responsabilità di detti organi, che resta quindi disciplinato dalle ordinarie norme previste dal codice civile a
questo riguardo, com'è confermato dalla immutata indicazione del comma 2 del citato art. 2449, a tenore del
quale anche i componenti degli organi amministrativi e di controllo di nomina pubblica "hanno i diritti e gli
obblighi dei membri nominati dall'assemblea". Nè pare dubbio che quest'ultimo principio valga anche per le
società a responsabilità limitata eventualmente partecipate da un ente pubblico, in difetto di qualsiasi specifica
disposizione del codice che se ne occupi. Se ne è desunto - anche alla luce di quanto espressamente indicato
nella relazione ("È lo Stato medesimo che si assoggetta alla legge delle società per azioni per assicurare alla
propria gestione maggiore snellezza di forme e nuove possibilità realizzatrici") - che la scelta della pubblica
amministrazione di acquisire partecipazioni in società private implica il suo assoggettamento alle
regole proprie della forma giuridica prescelta. Dall'identità dei diritti e degli obblighi facenti capo ai
componenti degli organi sociali di una società a partecipazione pubblica, pur quando direttamente designati dal
socio pubblico, logicamente perciò discende la responsabilità di detti organi nei confronti della società, dei soci,
dei creditori e dei terzi in genere, nei medesimi termini - contemplati dagli artt. 2392 c.c. e segg. - in cui tali
diverse possibili proiezioni della responsabilità sono configurabili per gli amministratori e per gli organi di
controllo di qualsivoglia altra società privata. 3.4. È innegabile, nondimeno, che si possano determinare dei
problemi quando il modello giuridico - formale prescelto entra in tensione con il fenomeno economico
sottostante, come non di rado accade proprio nel caso in cui lo Stato o altro ente pubblico assume una
partecipazione in una società per perseguire in tal modo finalità di rilevanza pubblica.
Ne è testimone, in certa misura, la sentenza delle sezioni unite 26 febbraio 2004, n. 3899, che, dopo aver ribadito
il principio per cui una società per azioni costituita con capitale maggioritario del comune in vista dello
svolgimento di un servizio pubblico ha una relazione funzionale con l'ente territoriale, caratterizzata
dall'inserimento della società medesima nell'iter procedimentale dell'ente locale e dal conseguente rapporto di
servizio venutosi così a determinare, ha riconosciuto la giurisdizione della Corte dei conti nelle controversie in
materia di responsabilità patrimoniale per danno erariale riguardanti gli amministratori ed i dipendenti di una
siffatta società. La portata di tale affermazione non risulta però del tutto univoca: perché nella medesima
sentenza si ha cura di specificare, per un verso, che l'elemento determinante della decisione era costituito, in quel
caso, dal rapporto di servizio intercorrente tra la società privata ed il comune (piuttosto che dal rapporto
partecipativo e dal conseguente investimento di risorse finanziarie pubbliche nel patrimonio della società privata)
e, per altro verso, che la questione se il danno subito dal comune partecipante alla società fosse diretto, o
meramente riflesso, rispetto a quello arrecato al patrimonio sociale, costituiva un profilo estraneo al giudizio sui
limiti della giurisdizione. Proprio quest'ultimo profilo sembra invece meritare un ulteriore approfondimento,
potendo assumere carattere decisivo ai fini che qui interesano.
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3.5. In primo luogo, non sembra si possa prescindere dalla distinzione tra la posizione della società
partecipata, cui eventualmente fa capo il rapporto di servizio instaurato con la pubblica
amministrazione, e quella personale degli amministratori (nonché dei sindaci o degli organi di controllo
della stessa società): i quali, ovviamente, non s'identificano con la società, sicché nulla consente di riferire loro, sic
et simpliciter, il rapporto di servizio di cui la società medesima sia parte. Quanto appena osservato non vale però
a chiudere ogni possibile spazio alla giurisdizione della Corte dei conti in ordine ad eventuali comportamenti
illegittimi imputabili agli organi delle società a partecipazione pubblica, dai quali sia scaturito un danno per il
socio pubblico.
S'è già prima accennato vuoi alla possibilità che tale giurisdizione sia riferita anche ad ipotesi di responsabilità
aquiliana, vuoi alla possibilità che essa si configuri pure in difetto di una formale investitura pubblica dell'agente.
Entra allora in gioco un ulteriore importante elemento normativo, cui finora non si è fatto riferimento ma che
occorre adesso prendere in considerazione. Si allude alla disposizione della L. 28 febbraio 2008, n. 31, art. 16 bis,
(che ha convertito il D.L. 31 dicembre 2007, n. 248), così concepita: "Per le società con azioni quotate in mercati
regolamentati, con partecipazione anche indiretta dello Stato o di altre amministrazioni o di enti pubblici,
inferiore al 50 per cento, nonché per le loro controllate, la responsabilità degli amministratori e dei dipendenti è
regolata dalle norme del diritto civile e le relative controversie sono devolute esclusivamente alla giurisdizione del
giudice ordinario".
Tale norma, benché la sua applicazione ai giudizi in corso alla data di entrata in vigore della legge di conversione
sia espressamente esclusa, assume un evidente significato retrospettivo, nella misura in cui lascia chiaramente
intendere che, in ordine alla responsabilità di amministratori e dipendenti di società a partecipazione pubblica, vi
sia una naturale area di competenza giurisdizionale diversa da quella ordinaria.
Non si capirebbe, altrimenti, la ragione per la quale il legislatore ha inteso stabilire che, per l'avvenire (e
limitatamente alle società quotate, o loro controllate, con partecipazione pubblica inferiore al 50%), la
giurisdizione spetta invece in via esclusiva proprio al giudice ordinario.
Resta però da verificare entro quali limiti, al di fuori del ristretto campo d'applicazione della disposizione
da ultimo richiamata, sia davvero configurabile la giurisdizione del giudice contabile che il legislatore
ha in tal modo presupposto in rapporto ad atti di mala gestio degli organi di società a partecipazione
pubblica.
In difetto di norme esplicite in tal senso (e fatta salva la specificità di singole società a partecipazione pubblica
il cui statuto sia soggetto a regole legali sui generis, come nel caso della Rai), è ai principi generali ed alle linee
portanti del sistema che occorre aver riguardo. Ed è proprio in quest'ottica che assume rilievo decisivo la già
accennata distinzione tra la responsabilità in cui gli organi sociali possono incorrere nei confronti della società
(prevista e disciplinata, per le società azionarie, dagli artt. 2393 e segg. e, per le società a responsabilità limitata,
dell'art. 2476 c.c., commi 1, 3, 4 e 5) e la responsabilità che essi possono assumere direttamente nei confronti di
singoli soci o terzi (prevista e disciplinata, per le società azionarie, dall'art. 2395 c.c., per le società a responsabilità
limitata, del cit. art. 2476 c.c., comma 6).
3.6. In tale ultimo caso la configurabilità dell'azione del procuratore contabile, tesa a far valere la responsabilità
dell'amministratore o del componente di organi di controllo della società partecipata dall'ente pubblico quando
questo sia stato direttamente danneggiato dall'azione illegittima, non incontra particolari ostacoli (nè si pongono
difficoltà derivanti dalla possibile concorrenza di siffatta azione con quella ipotizzata in sede civile dai citati art.
2395 c.c. e art. 2476 c.c., comma 6, poiché l'una e l'altra mirerebbero in definitiva al medesimo risultato). Non
importa qui indagare sulla natura dell'indicata responsabilità: se essa abbia carattere extracontrattuale (come la
giurisprudenza è per lo più incline a ritenere: si vedano, tra le altre, Cass. 5 agosto 2008, n. 21130; 25 luglio 2007,
n. 16416; e 3 aprile 2007, n. 8359) o se pur sempre presupponga la violazione di un preesistente obbligo di
corretto comportamento dell'amministratore e del componente dell'organo di controllo anche nei diretti
confronti di ciascun singolo socio (onde alcune autorevoli voci di dottrina ravvisano anche in tal caso un'ipotesi
di responsabilità almeno lato sensu contrattuale).
Quel che appare certo è che la presenza dell'ente pubblico all'interno della compagine sociale ed il fatto
che la sua partecipazione sia strumentale al perseguimento di finalità pubbliche ed abbia implicato
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l'impiego di pubbliche risorse non può sfuggire agli organi della società e non può non comportare, per
loro, una peculiare cura nell'evitare comportamenti tali da compromettere la ragione stessa di detta
partecipazione sociale dell'ente pubblico o che possano comunque direttamente cagionare un
pregiudizio al patrimonio di quest'ultimo.
Tipico esempio di questa situazione è il danno all'immagine dell'ente pubblico (su cui si veda Sez. un. 20
giugno 2007, n. 14297) che derivi da atti illegittimi posti in essere dagli organi della società partecipata:
danno che può eventualmente prodursi immediatamente in capo a detto ente pubblico, per il fatto stesso di
essere partecipe di una società in cui quei comportamenti illegittimi si siano manifestati, e che non s'identifica
con il mero riflesso di un pregiudizio arrecato al patrimonio sociale (indipendentemente dall'essere o meno
configurabile e risarcibile anche un autonomo e distinto danno all'immagine della medesima società).
Nessun dubbio, quindi, sulla sussistenza della giurisdizione della Corte dei conti in un'ipotesi siffatta; e se ne trae
conferma anche dal disposto del L. 3 agosto 2009, n. 102, art. 17, comma 30 - ter, (quale risulta dopo le
modifiche apportate dal D.L. in pari data, n. 103, convertito con ulteriori modificazioni nella L. 3 ottobre 2009,
n. 141), che disciplina e limita le modalità dell'azione della magistratura contabile appunto in caso di danno
all'immagine, nelle ipotesi previste dalla L. 27 marzo 2001, n. 97, art. 7, ossia in presenza di una sentenza
irrevocabile di condanna pronunciata nei confronti dei dipendenti indicati nel precedente art. 3 della stessa legge,
compresi quelli evidenti a prevalente partecipazione pubblica". Non si vede come la medesima regola stabilita per
i dipendenti non debba valere anche per gli amministratori e gli organi di controllo della società a partecipazione
pubblica. 3.7. Ad opposta conclusione si deve invece pervenire nel caso in cui l'azione sia proposta per
reagire ad un danno cagionato al patrimonio della società.
Non solo, come detto, non è configurabile alcun rapporto di servizio tra l'ente pubblico partecipante e
l'amministratore (o componente di un organo di controllo) della società partecipata, il cui patrimonio sia stato
leso dall'atto di mala gestio, ma neppure sussiste in tale ipotesi un danno qualificabile come danno erariale, inteso
come pregiudizio direttamente arrecato al patrimonio dello Stato o di altro ente pubblico che della suindicata
società sia socio. La ben nota distinzione tra la personalità giuridica della società di capitali e quella dei
singoli soci e la piena autonomia patrimoniale dell'una rispetto agli altri non consentono di riferire al
patrimonio del socio pubblico il danno che l'illegittimo comportamento degli organi sociali abbia
eventualmente arrecato al patrimonio dell'ente: patrimonio che è e resta privato.
È certo vero che il danno sofferto dal patrimonio della società è per lo più destinato a ripercuotersi anche sui
soci, incidendo negativamente sul valore o sulla redditività della loro quota di partecipazione; ma - fatte salve le
limitate eccezioni oggi introdotte dall'art. 2497 c.c. (come modificato dal D.Lgs. n. 6 del 2003), in tema di
responsabilità dell'ente posto a capo di un gruppo di imprese societarie, che qui non rilevano - il sistema del
diritto societario impone di tener ben distinti i danni direttamente inferti al patrimonio del socio (o del terzo) da
quelli che siano il mero riflesso di danni sofferti dalla società.
Dei danni diretti, cioè di quelli prodotti immediatamente nella sfera giuridico - patrimoniale del socio e
che non consistano nella semplice ripercussione di un danno inferto alla società, solo il socio stesso è
legittimato a dolersi; di quelli sociali, invece, solo alla società compete il risarcimento, di modo che per
il socio anche il ristoro è destinato a realizzarsi unicamente nella medesima maniera indiretta in cui si è
prodotto il suo pregiudizio (principio pacifico: si vedano, ex multis, Cass. 5 agosto 2008, n. 21130; 3 aprile
2007, n. 8359; 27 giugno 1998, n. 6364; e 28 febbraio 1998, n. 2251).
Si capisce, allora, come il danno inferto dagli organi della società al patrimonio sociale, che nel sistema
del codice civile può dar vita all'azione sociale di responsabilità ed eventualmente a quella dei creditori
sociali, non è idoneo a configurare anche un'ipotesi di azione ricadente nella giurisdizione della Corte
dei conti: perché non implica alcun danno erariale, bensì unicamente un danno sofferto da un soggetto
privato (appunto la società), riferibile al patrimonio appartenente soltanto a quel soggetto e non certo ai singoli
soci - pubblici o privati - i quali sono unicamente titolari delle rispettive quote di partecipazione ed i cui originar
conferimenti restano confusi ed assorbiti nell'unico patrimonio sociale.
L'esattezza di tale conclusione trova conferma anche nell'impossibilità di realizzare, altrimenti, un soddisfacente
coordinamento sistematico tra l'ipotizzata azione di responsabilità dinanzi giudice contabile e l'esercizio delle
31
surriferite azioni di responsabilità (sociale e dei creditori sociali) contemplate dal codice civile. L'azione del
procuratore contabile ha presupposti e caratteristiche completamente diverse dalle azioni di responsabilità sociale
e dei creditori sociali contemplate dal codice civile: basta dire che l'una è obbligatoria, le altre discrezionali; l'una
ha finalità essenzialmente sanzionatoria (onde non implica necessariamente il ristoro completo del pregiudizio
subito dal patrimonio danneggiato dalla mala gestio dell'amministratore o dall'omesso controllo del vigilante), le
altre hanno scopo ripristinatorio; l'una richiede il dolo o la colpa grave, e solo in determinati casi è esercitabile
anche contro gli eredi del soggetto responsabile del danno; per le altre è sufficiente anche la colpa lieve ed il
debito risarcitorio è pienamente trasmissibile agli eredi.
D'altronde, almeno in tutti i casi nei quali vi siano anche soci privati la cui partecipazione è suscettibile
di subire danno per effetto del comportamento illegittimo degli organi sociali, sarebbe impossibile
escludere l'esperibilità degli ordinari strumenti di tutela approntati dal codice civile a beneficio della
società (e dei soci privati, nonché eventualmente dei creditori). E però, se si ipotizzasse il possibile concorso tra
l'azione del procuratore contabile e l'azione sociale di responsabilità contemplata dal codice civile, occorrerebbe
poter individuare il modo di disciplinare tale concorso, stante la descritta diversità delle rispettive caratteristiche
delle differenti azioni. L'assenza del benché minino abbozzo di coordinamento normativo in proposito suona
palese conferma della non configurabilità, in simili situazioni, di un'azione diversa da quelle previste dal codice
civile, che sia destinata a ricadere nella giurisdizione del giudice contabile. 3.7. Giova ancora aggiungere che
l'esclusione dell'ipotizzata giurisdizione del giudice contabile per l'azione di risarcimento di danni cagionati al
patrimonio della società partecipata da un ente pubblico neppure provoca, a ben vedere, il rischio di una lacuna
nella tutela dell'interresse pubblico coinvolto nella descritta situazione.
Nell'attuale disciplina della società azionaria - ed in misura ancor maggiore in quella della società a responsabilità
limitata - l'esercizio dell'azione sociale di responsabilità, in caso di mala gestio imputabile agli organi della società,
non è più monopolio dell'assemblea e non è più, quindi, unicamente rimessa alla discrezionalità della
maggioranza dei soci. Una minoranza qualificata dei partecipanti alla società azionaria (art. 2393 - bis c.c.) ed
addirittura ciascun singolo socio della società a responsabilità limitata (art. 2476 c.c., comma 3) sono infatti
legittimati ad esercitare tale azione (anche nel proprio interesse, ma a beneficio della società) eventualmente
sopperendo all'inerzia della maggioranza.
Ne consegue che, trattandosi di società a partecipazione pubblica, il socio pubblico è di regola in grado di tutelare
egli stesso i propri interessi sociali mediante l'esercizio delle suindicate azioni civili. Se ciò non faccia e se, in
conseguenza di tale omissione, l'ente pubblico abbia a subire un pregiudizio derivante dalla perdita di valore della
partecipazione, è sicuramente prospettabile l'azione del procuratore contabile nei confronti (non già
dell'amministratore della società partecipata, per il danno arrecato al patrimonio sociale, bensì nei confronti) di
chi, quale rappresentante dell'ente partecipante o comunque titolare del potere di decidere per esso, abbia
colpevolmente trascurato di esercitare i propri diritti di socio ed abbia perciò pregiudicato il valore della
partecipazione. Ed è ovvio che, con riguardo ad un'azione siffatta, vi sia piena competenza giurisdizionale della
Corte dei conti.
4.1. Sulla base dei suddetti principi la questione della giurisdizione ha semplice soluzione.
(omissis)
Si tratta, all'evidenza, di tutti danni direttamente subiti dalla società.
4.2. Ne consegue che per le domande relative a tali danni va esclusa la giurisdizione della corte dei conti,
dovendosi affermare la giurisdizione del giudice ordinario.
La giurisdizione della Corte dei conti era configurabile nei confronti di chi, all'interno dell'ente pubblico
partecipante, avesse omesso di adottare, essendo chiamato a farlo, un comportamento volto all'esercizio da parte
del socio - pubblica amministrazione- dell'azione sociale di responsabilità nei confronti degli amministratori, con
conseguente danno della società partecipata e, dunque, dell'ente pubblico partecipante.
5.1. Invece va affermata la giurisdizione delle Corte dei conti solo relativamente alla condanna di risarcimento del
danno all'immagine subita dal Ministero dell'Economia e delle Finanze. Rientra nella giurisdizione della Corte dei
conti l'azione di responsabilità per il danno arrecato all'immagine dell'ente da organi della società partecipata.
Infatti, tale danno, anche se non comporta apparentemente una diminuzione patrimoniale alla pubblica
32
amministrazione, è suscettibile di una valutazione economica finalizzata al ripristino del bene giuridico leso (Cass.
civ., Sez. Unite, 02/04/2007, n. 8098).
(omissis)
9.1.11 motivo è infondato.
In tema di responsabilità per danno erariale, l'esistenza di un rapporto di servizio, quale presupposto
per un addebito di responsabilità al detto titolo, non è limitata al rapporto organico o al rapporto di
impiego pubblico, ma è configurabile anche quando il soggetto, benché estraneo alla Pubblica
Amministrazione, venga investito, anche di fatto, dello svolgimento, in modo continuativo, di una
determinata attività in favore della Pubblica Amministrazione, con inserimento nell'organizzazione
della medesima, e con particolari vincoli ed obblighi diretti ad assicurare la rispondenza dell'attività
stessa alle esigenze generali cui è preordinata. (Cass. Sez. Unite, 12/03/2004, n. 5163; Cass. S.U. n.
19661/2003).
6. LA DISCIPLINA DELLE S.P.A. MISTE: IL MODELLO DI SCELTA
DEL SOCIO: Consiglio di Stato, sezione II, parere n. 456 del 2007
La società mista pubblico-privata in cui il socio privato è scelto con una procedura di evidenza pubblica è compatibile con i principi comunitari che limitano l’affidamento senza gara ad ipotesi eccezionali, qualora si riscontri, in concreto, un modello organizzativo della società mista che garantisca: 1) una sostanziale equiparazione tra gara per l’affidamento del servizio pubblico e la gara per la scelta del socio, di modo che quest’ultimo si configuri come un “socio industriale od operativo” 2) un rinnovo della procedura di selezione alla scadenza del periodo di affidamento, evitando così che il socio divenga “socio stabile”.
5. Appare necessario, in primo luogo, definire la riconducibilità o meno, in via generale, del modello
organizzativo identificato dal legislatore nel caso di specie – ovvero quello della costituzione di una
“società mista” pubblico-privata – al modello dell’in house providing: solo in caso affermativo si potrà
discutere del rinvenimento o meno, in concreto, dei requisiti richiesti dalla giurisprudenza in materia.
5.1. Come è noto, l’espressione in house providing (usata per la prima volta in sede comunitaria nel Libro
Bianco sugli appalti del 1998) identifica il fenomeno di “autoproduzione” di beni, servizi o lavori da parte
della pubblica amministrazione: ciò accade quando quest’ultima acquisisce un bene o un servizio attingendoli
all’interno della propria compagine organizzativa senza ricorrere a terzi tramite gara e dunque al mercato (cfr., in
termini, la recente decisione della VI Sezione di questo Consiglio del 3 aprile 2007, n. 1514, su cui si tornerà più
avanti). Il modello si contrappone a quello dell‘outsourcing, o contracting out (la c.d. esternalizzazione), in cui la
sfera pubblica si rivolge al privato, demandandogli il compito di produrre e /o fornire i beni e servizi necessari
allo svolgimento della funzione amministrativa.
La prima definizione giurisprudenziale della figura è fornita dalla sentenza della Corte di giustizia delle Comunità
europee del 18 novembre 1999, causa C-107/98 – Teckal.
In quella sede – a estrema sintesi delle considerazioni della Corte – si è affermato che non è necessario rispettare
le regole della gara in materia di appalti nell’ipotesi in cui concorrano i seguenti elementi:
a) l’amministrazione aggiudicatrice esercita sul soggetto aggiudicatario un “controllo analogo” a quello
esercitato sui propri servizi;
b) il soggetto aggiudicatario svolge la maggior parte della propria attività in favore dell’ente pubblico di
appartenenza.
In ragione del “controllo analogo” e della “destinazione prevalente dell’attività”, l’ente in house non può ritenersi
“terzo” rispetto all’amministrazione controllante ma deve considerarsi come uno dei servizi propri
dell’amministrazione stessa: non è, pertanto, necessario che l’amministrazione ponga in essere procedure di
evidenza pubblica per l’affidamento di appalti di lavori, servizi e forniture.
33
5.2. Questa Sezione condivide pienamente – come già affermato nel precedente parere n. 3162/06 (cfr. pure, in
termini, la citata decisione della VI Sezione n. 1514/07) – le affermazioni secondo le quali la figura dell’in house
providing si configura come un modello eccezionale, i cui requisiti vanno interpretati restrittivamente poiché
costituiscono una deroga alle regole generali del diritto comunitario.
(omissis)
Il ridimensionamento dell’istituto è da ricondursi anche a fenomeni di distorsione nel ricorso a tale modello, del
quale si tende ad abusare attraverso il fenomeno delle c.d. catene societarie e dei controlli indiretti, nonché
attraverso le attività svolte nei confronti di terzi.
In particolare, la ricordata sentenza Carbotermo dell’11 maggio 2006, causa C-340/04, ha affermato che la
partecipazione pubblica totalitaria è necessaria, ma non sufficiente. Difatti, per giustificare la deroga alle regole
europee di evidenza pubblica occorrono maggiori strumenti di controllo da parte dell’ente rispetto a quelli
previsti dal diritto civile. La giurisprudenza comunitaria e nazionale li ha nel tempo individuati affermando, in
particolare, che:
- il consiglio di amministrazione della società in house non deve avere rilevanti poteri gestionali e l’ente
pubblico deve poter esercitare maggiori poteri rispetto a quelli che il diritto societario riconosce alla
maggioranza sociale;
- l’impresa non deve aver “acquisito una vocazione commerciale che rende precario il controllo” da
parte dell’ente pubblico (tale vocazione risulterebbe, tra l’altro:
dall’ampliamento dell’oggetto sociale; dall’apertura obbligatoria della società, a breve termine, ad altri
capitali; dall’espansione territoriale dell’attività della società a tutta l’Italia e all’estero: cfr., in particolare,
le già citate sentenze 13 ottobre 2005, causa C-458/03 - Parking Brixen GmbH e 10 novembre 2005, causa C-
29/04 - Mödling o Commissione c/Austria);
- le decisioni più importanti devono essere sottoposte al vaglio preventivo dell’ente affidante (cfr. pure la
decisione della V sez. di questo Consiglio di Stato 8 gennaio 2007, n. 5, che ha affermato che se il consiglio di
amministrazione ha poteri ordinari non si può ritenere sussistere un “controllo analogo”);
- il controllo analogo si ritiene escluso dalla semplice previsione nello statuto della cedibilità delle quote a privati
(Tar Puglia, 8 novembre 2006, n. 5197; Consiglio di Stato, V sez., 30 agosto 2006, n. 5072).
La giurisprudenza ha anche chiarito che, in astratto, è configurabile un “controllo analogo” anche nel caso in cui
il pacchetto azionario non sia detenuto direttamente dall’ente pubblico, ma indirettamente mediante una società
per azioni capogruppo (c.d. holding) posseduta al 100% dall’ente medesimo. Tuttavia, una tale forma di
partecipazione “può, a seconda delle circostanze del caso specifico, indebolire il controllo eventualmente
esercitato dall’amministrazione aggiudicatrice su una società per azioni in forza della mera partecipazione al suo
capitale” (cfr. la citata sentenza Carbotermo, 11 maggio 2006, causa C-340/04). In tale ottica, la partecipazione
pubblica indiretta, anche se totalitaria, è in astratto compatibile, ma affievolisce comunque il controllo.
I principi giurisprudenziali sopra accennati appaiono, ormai, largamente condivisi dalle Corti Supreme nazionali,
ivi compreso, come si è detto, questo Consiglio di Stato, il quale (sia nel parere n. 3162/06 che nella decisione
della VI Sezione da ultimo citati) ha anche rilevato che, nel nostro ordinamento, una norma di carattere generale
era stata proposta nel primo schema del codice dei contratti pubblici, ma non è stata poi inserita nel testo finale
del d.lgs. n. 163 del 2006, a conferma della volontà del legislatore di non generalizzare il modello dell’in house a
qualsiasi forma di affidamento di servizi, di lavori, o di forniture (la norma dell’originario schema era l’art. 15,
rubricata “Affidamenti in house”, dal seguente testo: “Il presente decreto non si applica all’affidamento di servizi,
lavori, forniture a società per azioni il cui capitale sia interamente posseduto da un’amministrazione
aggiudicatrice, a condizione che quest’ultima eserciti sulla società un controllo analogo a quello esercitato sui
propri servizi e che la società realizzi la parte più importante della propria attività con l’amministrazione
aggiudicatrice.”; il codice, tuttavia, ha conservato un riferimento generale alle società miste all’art. 1, comma 2, e
all’art. 32: cfr. infra, il punto 7).
5.3. Questo Consiglio di Stato ritiene che l’evoluzione giurisprudenziale consenta, altresì, di escludere,
in via generale, la riconducibilità del modello organizzativo della “società mista” a quello dell’in house
34
providing.
Tale riconducibilità, che in principio era quantomeno dubbia (e molto si è discusso sul punto: svariati autori, in
dottrina, propendevano per la soluzione affermativa e ancora oggi vi sono discipline che ricomprendono
entrambe le situazioni: cfr. l’art. 13 del d.l. n. 223 del 2006, di cui si dirà infra, al punto 7.3), oggi può dirsi ormai
definita in senso negativo dalla giurisprudenza – non risalente ma ormai consolidata – della Corte di giustizia
europea, nelle decisioni in cui ha progressivamente definito il concetto di “controllo analogo”.
In particolare, ciò emerge dalla già menzionata sentenza della Corte 11 gennaio 2005, causa C-26/03 - Stadt Halle
e RPL Lochau: nel dare atto che, in quella controversia, la Stadt Halle si era difesa proprio sostenendo che si
sarebbe trattato “di un’«operazione di ‘in house providing’», alla quale non si applicherebbero le norme
comunitarie in materia di appalti pubblici”, la Corte ha invece affermato che “la partecipazione, anche
minoritaria, di un’impresa privata al capitale di una società alla quale partecipi anche l’amministrazione
aggiudicatrice in questione, esclude in ogni caso che tale amministrazione possa esercitare sulla detta società un
controllo analogo a quello che essa esercita sui propri servizi”.
L’opzione interpretativa è confermata, tra le altre, dalla citata sentenza 6 aprile 2006, causa C-410/04 - ANAV c/
Comune di Bari – laddove afferma che “se la società concessionaria è una società aperta, anche solo in parte, al
capitale privato, tale circostanza impedisce di considerarla una struttura di gestione «interna» di un servizio
pubblico nell’ambito dell’ente pubblico che la detiene (v. già, in senso analogo, anche la sentenza 21 luglio 2005,
causa C-231/03 - Corame)” – e in quella 18 gennaio 2007, causa C-220/05 - Jean Auroux, ove si afferma che
“quanto dichiarato dalla Corte nella sentenza Stadt Halle e RPL Lochau, cit., con riferimento agli appalti pubblici
di servizi si applica anche con riferimento agli appalti pubblici di lavori”.
In altri termini, la Corte di giustizia ha ritenuto che qualsiasi investimento di capitale privato in un’impresa
obbedisca a considerazioni proprie degli interessi privati e persegua obiettivi di natura differente rispetto a quelli
dell’amministrazione pubblica.
Pertanto, in sostanza, oggi si può parlare di società in house soltanto se essa agisce come un vero e proprio
organo dell’amministrazione “dal punto di vista sostantivo”, non contaminato da alcun interesse privato.
Di tali conclusioni questo Consiglio di Stato ha già preso atto quando, con la decisione n. 1514/07 della VI
Sezione, ha affermato – con argomenti che questa Sezione condivide pienamente – che, in un caso diverso da
quello ivi deciso (e definito con la decisione n. 1513/07), “la Sezione ha ritenuto neanche configurabile
l’affidamento in house in considerazione dell’assenza di una partecipazione pubblica totalitaria all’epoca … degli
affidamenti in contestazione in quel procedimento. L’assenza della partecipazione pubblica totalitaria esclude,
infatti, in radice la possibilità di configurare il requisito del controllo analogo, richiesto dalla giurisprudenza
comunitaria per gli affidamenti in house.”.
Da ciò consegue – ad avviso del Collegio – l’inutilità di ricercare, allo scopo di giustificarne la compatibilità con la
disciplina europea, i (sempre più selettivi) requisiti richiesti per l’in house anche nel modello di parternariato
pubblico-privato “società mista” cui si riconduce l’oggetto del quesito in esame.
6. La non riconducibilità alla figura dell’in house non implica, di per sé, la esclusione automatica della
compatibilità comunitaria della diversa figura della società mista a partecipazione pubblica
maggioritaria in cui il socio privato sia scelto con una procedura di evidenza pubblica.
Su tale specifica modalità organizzativa, infatti, non risulta che la Corte di giustizia abbia ancora avuto modo di
pronunciarsi espressamente: anche nelle più importanti sentenze in cui si tratta di società miste (e in particolare la
sentenza 11 gennaio 2005, causa C-26/03 - Stadt Halle e RPL Lochau, e la sentenza 13 ottobre 2005, causa C-
458/03 - Parking Brixen GmbH), il privato era stato individuato senza gara (cfr. amplius infra, il punto 8.2.2).
Per la soluzione del quesito in esame si impone, allora, una verifica autonoma, da condurre alla stregua dei
rigorosi principi dettati dalla Corte di giustizia (sull’in house, ma non solo) ma senza poter contare, allo stato, su
una indicazione specifica in termini.
Tale verifica va condotta, ad avviso della Sezione, avendo sempre presente l’interesse fondamentale che sottende
la attuale disciplina dell’evidenza pubblica: la tutela della concorrenza, cui si applicano anche i principi di parità di
trattamento, di non discriminazione e di trasparenza. Tale interesse appare prevalente rispetto a quello della
35
tutela dell’amministrazione.
La Sezione, difatti, rileva che – se il regime dell’evidenza pubblica per la scelta del contraente privato nei contratti
“passivi” della pubblica amministrazione è presente da tempo nel nostro sistema nazionale, ben da prima
dell’avvento della disciplina comunitaria degli appalti pubblici, in quanto dettato nell’interesse
dell’amministrazione appaltante – con il progressivo avvento della disciplina comunitaria tale regime nazionale è
stato, in parte, conservato nei meccanismi di selezione del contraente, ma investito da una ratio del tutto nuova,
che impone diversi canoni interpretativi e applicativi.
La finalità, l’intera logica di tale disciplina si è, infatti, trasformata – in adesione ai principi europei – da quella
della tutela primaria dell’interesse dell’amministrazione a quella della libera circolazione e della concorrenza.
Di conseguenza, se ciò ha portato (ormai quasi del tutto) alla scomparsa di norme sulla scelta del contraente di
sicuro interesse dell’amministrazione pubblica ma incompatibili con l’interesse alla libera concorrenza, i
meccanismi tradizionali di evidenza pubblica che potevano adeguarsi a questa diversa ratio sono stati, nella
sostanza, recepiti dal nuovo codice dei contratti pubblici (il menzionato d.lgs. n. 163 del 2006), ovvero – se
contenuti in disposizioni speciali – non sono stati espressamente abrogati. Ciò è avvenuto, però, sul presupposto
che tali meccanismi vadano applicati in questa diversa logica.
È in quest’ottica che va esaminata anche la questione in esame.
Non sarà, quindi, sufficiente dimostrare l’interesse dell’amministrazione – pure stigmatizzato, nel caso di specie,
con una apposita lex specialis – ma anche la sua compatibilità con l’interesse per la massima apertura del
mercato, come identificato dai principi definiti dalla Corte di giustizia europea.
Peraltro, come è noto, laddove dovesse risultare evidente una incompatibilità, da parte della legge nazionale, con
la disciplina comunitaria self executing nel nostro ordinamento, l’amministrazione sarebbe tenuta a disapplicarla
(secondo i principi affermati a partire dalla sentenza della Corte costituzionale n. 389 dell’11 luglio 1989).
La suddetta verifica va condotta sia “in astratto”, analizzando il modello generale delle società miste come oggi
presente nell’ordinamento nazionale (cfr. infra, i punti 7 e 8 e i relativi sottopunti), sia “in concreto”, guardando
alla specifica disciplina prevista nel caso in esame e alla sua applicazione nella procedura di selezione del
contraente privato (cfr. infra, il punto 9 e i relativi sottopunti).
7. Come è noto, il modello delle “società miste” è presente da tempo nel nostro ordinamento, ed è oggi previsto
in via generale dall’art. 113, comma 5, lett. b), del d.lgs. n. 267 del 2000 (testo unico delle leggi sull’ordinamento
degli enti locali – t.u.e.l.), introdotto dall’art. 14 del d.l. 30 settembre 2003, n. 269, come modificato dalla relativa
legge di conversione. Tale previsione può essere assunta a paradigma del modello anche ai fini della soluzione del
quesito in oggetto, che pure si caratterizza per una disciplina ad hoc.
Sempre in via generale, il codice dei contratti pubblici, se non prevede più una generalizzazione del modello
dell’in house a qualsiasi forma di affidamento (come si è detto retro, al punto 5.2), contiene invece, all’art. 1,
comma 2, una previsione di carattere generale sulle società miste, secondo la quale, “nei casi in cui le norme
vigenti consentono la costituzione di società miste per la realizzazione e/o gestione di un’opera pubblica o di un
servizio, la scelta del socio privato avviene con procedure di evidenza pubblica”. Anche in questo caso, la norma
non intende affermare la generale ammissibilità delle società miste, che devono intendersi consentite nei soli casi
già previsti da una disciplina speciale, nel rispetto del principio di legalità: si codifica soltanto il principio secondo
il quale, in questi casi, la scelta del socio deve comunque avvenire “con procedure di evidenza pubblica” (non
necessariamente, quindi, ai sensi della disciplina dello stesso codice).
La figura delle società miste compare anche nell’art. 32, al comma 1, lett. c), e al comma 3 (tale ultima
disposizione è stata confermata nel testo definitivo nonostante i rilievi di questo Consiglio di Stato espressi nel
parere della Sezione per gli atti normativi n. 355/06 del 6 febbraio 2006, relativo allo schema di codice dei
contratti pubblici: cfr. infra, il punto 8.4).
7.1. L’art. 113, comma 5, lett. b), del t.u.e.l. dispone che l’erogazione dei servizi per la gestione delle reti, degli
impianti e delle altre dotazioni patrimoniali “avviene secondo le discipline di settore e nel rispetto della normativa
dell’Unione europea, con conferimento della titolarità del servizio …”, tra l’altro, “… b) a società a capitale misto
pubblico privato nelle quali il socio privato venga scelto attraverso l’espletamento di gare con procedure ad
evidenza pubblica che abbiano dato garanzia di rispetto delle norme interne e comunitarie in materia di
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concorrenza secondo le linee di indirizzo emanate dalle autorità competenti attraverso provvedimenti o circolari
specifiche”. Tale norma costituisce, in qualche modo, il paradigma del modello cui si ispira anche la normativa
speciale per il SIAN che è oggetto del quesito in esame.
Lo stesso art. 113 prevede, nella distinta lettera c), in alternativa al ricorso alla società mista, il modello della
società in house a capitale interamente pubblico, richiedendo solo per tale caso i requisiti del “controllo analogo”
e della “destinazione prevalente dell’attività” in favore dell’ente pubblico di appartenenza identificati dalla
sentenza Teckal.
Ciò sembra confermare quanto affermato retro (al punto 5 e ai relativi sottopunti) a proposito della differente
disciplina dei due modelli della società mista e della società in house, anche con riguardo ai requisiti richiesti dal
diritto europeo.
7.2. La figura delle società a capitale misto è stata configurata da autorevole dottrina come una forma di
“collaborazione tra pubblica amministrazione e privati imprenditori nella gestione di un pubblico servizio”; tale
figura, costituendo una modalità organizzativa ulteriore per la soddisfazione delle esigenze generali, rende più
flessibile la risposta istituzionale a determinate esigenze e può risultare – se ricondotta nei canoni del pieno
rispetto dei principi comunitari – di particolare efficacia, almeno in certi casi (cfr., nello stesso senso, il Libro
Verde della Commissione europea del 30 aprile 2004 e la Risoluzione del Parlamento europeo del 26 ottobre
2006, richiamati amplius infra, al punto 8.5).
Inoltre, la necessità di una gara per la scelta del socio – oltre a confermare l’esclusione della riconducibilità alla
figura dell’in house – ha condotto a ritenere non corretto annoverare tale figura tipo di affidamento tra quelli
“diretti”.
Tuttavia, la stessa dottrina – alla luce dell’evoluzione in senso restrittivo della giurisprudenza comunitaria – ha
messo in evidenza la debolezza della tesi della equiparazione automatica fra la procedura di scelta del socio e la
gara per l’affidamento del servizio. Pur riconoscendo la funzionalità del modello, si afferma come ci si trovi di
fronte ad una “figura peculiare che potrà presentare non pochi problemi attuativi e che, per non essere censurata,
dovrà ricevere una applicazione attenta”.
7.3. Sempre in relazione al modello generale, si ricorda l’intervento dell’art 13 del d.l. n. 223 del 2006, convertito
dalla legge n. 248 del 2006, il quale ha introdotto una articolata disciplina che, in linea con i più recenti
orientamenti comunitari volti a limitare l’in house providing, ma anche in relativa autonomia da essi, mira a
evitare il fenomeno della c.d. cross subsidization delle società pubbliche, per cui esse operano al di fuori degli
ambiti territoriali di appartenenza, acquisendo commesse da enti pubblici diversi da quelli controllanti od
affidanti i contratti in house. In tale nuovo regime il d.l. n. 223 del 2006 ha equiparato i due diversi modelli delle
società in house e del partenariato pubblico-privato.
In particolare, si è disposto che le società a capitale interamente pubblico o misto, costituite o partecipate dalle
amministrazioni pubbliche regionali e locali (non da quelle statali, come invece avviene nel caso di specie) per la
produzione di beni e servizi strumentali all’attività di tali enti in funzione della loro attività, con esclusione dei
servizi pubblici locali:
- devono operare esclusivamente con gli enti costituenti o partecipanti o affidanti (viene fissata, quindi, la regola
dell’esclusività, in luogo di quella della prevalenza);
- non possono svolgere prestazioni a favore di altri soggetti pubblici o privati, né in affidamento diretto né con
gara, e non possono partecipare ad altre società o enti;
- sono ad oggetto sociale esclusivo (l’oggetto sociale esclusivo – è stato affermato – non sembra debba essere
inteso come divieto delle c.d. multiutilities, ma appare preferibile ritenere che rafforzi regola dell’esclusività
evitando che dopo affidamento la società possa andare a fare altro).
Si ricorda come alcune Regioni (in particolare, Valle d’Aosta e Friuli Venezia Giulia) hanno impugnato la norma
dinanzi alla Corte Costituzionale, ritenendola discriminatoria delle società regionali e locali, rispetto a quelle
statali e limitativa della capacità contrattuale delle società con riferimento a partecipazioni ulteriori.
7.4. Dell’esigenza, de iure condendo, di un contesto normativo generale più organico e restrittivo a favore della
concorrenza si è fatto carico il recente disegno di legge governativo recante “Delega al governo per il riordino dei
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servizi pubblici locali” (atto Senato n. 772 della XV legislatura, presentato il 7 luglio 2006), il quale prevede che
“l’affidamento delle nuove gestioni ed il rinnovo delle gestioni in essere dei servizi pubblici locali di rilevanza
economica debba avvenire mediante procedure competitive ad evidenza pubblica di scelta del gestore”,
consentendo soltanto “eccezionalmente” l’affidamento a società totalitarie in presenza dei noti presupposti
comunitari e alle società miste locali.
Il d.d.l. AS 772 (all’art. 2, comma 1, lettere c) e d) ) condiziona il ricorso a queste ultime alla “stretta inerenza
delle modalità di selezione e di partecipazione dei soci pubblici e privati agli specifici servizi pubblici locali
oggetto dell’affidamento, ferma restando la scelta dei soci privati mediante procedure competitive” (come recita
la relazione di accompagnamento al d.d.l.). Si prevede, inoltre, la necessità di “norme e clausole volte ad
assicurare un efficace controllo pubblico della gestione del servizio e ad evitare possibili situazioni di conflitto di
interessi”.
La possibilità di acquisire la gestione di servizi diversi o in ambiti territoriali diversi da quelli di appartenenza
viene esclusa dal d.d.l. per i soggetti già affidatari in via diretta di servizi pubblici locali, nonché per le imprese
partecipate da enti locali, che usufruiscano di finanziamenti pubblici diretti o indiretti, salvo che si tratti del
ristoro degli oneri di servizio relativi ad affidamenti effettuati mediante gara, sempreché l’impresa disponga di un
sistema certificato di separazione contabile e gestionale.
Inoltre, si prevede che l’ente locale debba “adeguatamente motivare le ragioni che, alla stregua di una valutazione
ponderata, impongono di ricorrere” alle modalità di affidamento diretto, anziché alle modalità di affidamento
tramite procedure competitive ad evidenza pubblica, e “che debba adottare e pubblicare secondo modalità
idonee il programma volto al superamento, entro un arco temporale definito, della situazione che osta al ricorso
a procedure ad evidenza pubblica, comunicando periodicamente i risultati raggiunti a tale fine”.
8. In conclusione, può affermarsi che il modello della “società a capitale misto pubblico privato” esiste
– come distinto dall’in house – nell’ordinamento nazionale, sia nella disposizione generale dell’art. 113
t.u.e.l. che in varie disposizioni speciali (come quella per il SIAN nel caso di specie). D’altro canto,
però, tale disciplina è in evoluzione, sia de iure condito (art. 1, comma 2, e art. 32 del d.lgs. n. 163 del
2006; art. 13 del d.l. n. 223 del 2006) che de iure condendo (AS n. 772), poiché continua a suscitare
perplessità la piena compatibilità di tale modello con il sistema comunitario, alla stregua della recente e
rapida evoluzione giurisprudenziale (che sembra ancora in corso) e stante l’assenza di decisioni specifiche sul
punto.
La Sezione – nei limiti del quesito in esame – ritiene possibile affermare che tale compatibilità possa
essere rinvenuta, alla stregua dei principi espressi, direttamente o indirettamente, dalla Corte di
giustizia, quantomeno in un caso: quello in cui – avendo riguardo alla sostanza dei rapporti giuridico-
economici tra soggetto pubblico e privato e nel rispetto di specifiche condizioni, di cui si dirà infra, al punto 8.3
– non si possa configurare un “affidamento diretto” alla società mista ma piuttosto un “affidamento
con procedura di evidenza pubblica” dell’attività “operativa” della società mista al partner privato,
tramite la stessa gara volta alla individuazione di quest’ultimo.
In altri termini, in questo caso, indicato di regola come quello del “socio di lavoro”, “socio industriale”
o “socio operativo” (come contrapposti al “socio finanziario”), questo Consiglio di Stato ritiene che
l’attività che si ritiene “affidata” (senza gara) alla società mista sia, nella sostanza, da ritenere affidata
(con gara) al partner privato scelto con una procedura di evidenza pubblica che abbia ad oggetto, al
tempo stesso, anche l’attribuzione dei suoi compiti operativi e quella della qualità di socio.
La peculiarità rispetto alle ordinarie procedure di affidamento sembra allora rinvenirsi, in questo caso, non tanto
nell’assenza di una procedura di evidenza pubblica (che, come si è detto, esiste e opera uno specifico riferimento
all’attività da svolgere) quanto nel tipo di controllo dell’amministrazione appaltante sul privato esecutore: non più
l’ordinario “controllo esterno” dell’amministrazione, secondo i canoni usuali della vigilanza del committente, ma
un più pregnante “controllo interno” del socio pubblico, laddove esso si giustifichi in ragione di particolari
esigenze di interesse pubblico (che nell’ordinamento italiano sono comunque individuate dalla legge).
A tale conclusione sembra doversi giungere alla stregua delle argomentazioni che seguono.
8.1. Non appare, in primo luogo, condivisibile alla Sezione la posizione “estrema” secondo la quale, per
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il solo fatto che il socio privato è scelto tramite procedura di evidenza pubblica, sarebbe in ogni caso
possibile l’affidamento diretto.
Soprattutto, tale ipotesi suscita perplessità per il caso di società miste “aperte”, nelle quali il socio, ancorché
selezionato con gara, non viene scelto per finalità definite, ma soltanto come partner privato per una società
“generalista”, alla quale affidare direttamente l’erogazione di servizi non ancora identificati al momento della
scelta del socio e con lo scopo di svolgere anche attività extra moenia, avvalendosi semmai dei vantaggi derivanti
dal rapporto privilegiato stabilito con il partner pubblico.
Esula, però, dall’oggetto specifico del quesito in esame l’approfondimento di tale ipotesi, poiché, come si vedrà,
essa non sussiste nel caso di specie (cfr. infra, il punto 9 e relativi sottopunti).
8.2. Non sembra alla Sezione condivisibile neppure l’opposta ipotesi “estrema” (che potrebbe avere,
invece, dei riflessi diretti sulla soluzione del quesito in oggetto), secondo la quale la giurisprudenza
comunitaria in materia di in house – e in particolare quella secondo la quale il “controllo analogo” è
escluso quando la società è partecipata da privati (cfr. la più volte citata sentenza 11 gennaio 2005, causa C-
26/03 - Stadt Halle e RPL Lochau) – comporta anche l’incompatibilità assoluta con i principi comunitari,
in qualunque caso, dell’affidamento a società miste.
8.2.1. In tal senso si è di recente pronunciato anche il Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Sicilia
(decisione 27 ottobre 2006 n. 589), che ha ritenuto
“doversi pervenire ad una interpretazione restrittiva, se non addirittura disapplicativa, dell’art. 113, comma 5, lett.
b), nel senso che la costituzione di una società mista, anche con scelta del socio a seguito di gara, non esime dalla
effettuazione di una seconda gara per l’affidamento del servizio”. Se nessuno sembra porre in discussione la
necessità della gara per la scelta del socio (ribadita in via generale, come si è detto, dal codice dei contratti
pubblici all’art. 1, comma 2), si rileva, a sostegno di tale tesi estrema che, pur “in un quadro giurisprudenziale in
generale incline ad escludere la necessità della seconda gara (cfr. da ultimo Consiglio Stato, sez. V, 3 febbraio
2005, n. 272) sembrano emergere opinioni dottrinali di segno contrario”, secondo le quali:
- configura una restrizione del mercato e della concorrenza l’obbligo per l’imprenditore di conseguire
l’affidamento di un servizio, solo entrando in una società, per molti versi anomala, con l’amministrazione;
- la procedura di evidenza pubblica per la scelta del socio non è sovrapponibile, quanto ai contenuti e alle finalità,
a quella per l’affidamento del servizio; la prima è preordinata alla selezione del socio privato in possesso dei
requisiti non solo tecnici ed organizzativi, ma anche e soprattutto finanziari, tali da assicurare l’apporto più
vantaggioso nell’ingresso nella compagine sociale; la seconda è invece esclusivamente diretta alla scelta del
soggetto che offra maggiori garanzie per la gestione del servizio pubblico;
- il sistema di affidamento diretto alla società mista (sia pure dopo scelta tramite procedura ad evidenza del socio
privato) concreterebbe nella sostanza un affidamento in house al di fuori dei requisiti richiesti dal diritto
comunitario;
- se, infatti, un’impresa privata detiene delle quote nella società aggiudicataria occorre presumere che l’autorità
aggiudicatrice non possa esercitare su tale società “un controllo analogo a quello da essa esercitato sui propri
servizi”; una partecipazione minoritaria di un’impresa privata è quindi sufficiente ad escludere l’esistenza di
un’operazione interna (cfr., anche per i richiami in essa contenuti, Corte di giustizia delle Comunità europee, sez.
I, 10 novembre 2005, causa C-29/04 04 - Mödling o Commissione c/ Austria).
In conclusione, secondo tale ipotesi estrema, la costituzione di una società mista (con partner scelto dopo una
gara) non esimerebbe in nessun caso dalla evidenza pubblica le procedure di affidamento del servizio.
8.2.2. La Sezione ritiene che le ragioni poste a sostegno di tale tesi – pur se tutte condivisibili – possano tuttavia
condurre a conclusioni differenti da quella dell’obbligo, in ogni caso, di una seconda gara.
Occorre, infatti, evitare – ad avviso della Sezione – di interpretare i dicta della Corte di giustizia in modo da far
loro conseguire affermazioni che, al di fuori dei casi di specie esaminati in quella sede, potrebbero portare,
paradossalmente, ad effetti opposti, e addirittura contrari allo spirito dei principi sempre affermati dalla Corte di
giustizia.
Come già ricordato in precedenza, nelle fattispecie che hanno condotto alle decisioni più spesso richiamate in
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materia, la Corte di giustizia ha escluso che si potesse applicare il modello dell’in house, ma non si è pronunciata
espressamente sulle condizioni di applicabilità di altri modelli (come sono, appunto, le società miste) nei quali
fosse comunque presente un’applicazione dei principi dell’evidenza pubblica. Difatti, in quei casi il soggetto
privato non era stato scelto con gara: sussisteva, quindi, una totale pretermissione delle procedure di evidenza
pubblica.
A titolo di mero esempio, nella causa C-458/03 - Parking Brixen la gestione del parcheggio, già affidata ad un
operatore, era stata revocata per trasferirla direttamente alla società partecipata, con evidente lesione dei principi
di tutela della concorrenza; la causa C-26/03 - Stadt Halle si riferiva ad un affidamento diretto disposto nel 2001
a favore di una società mista, costituita nel 1996 senza alcuna connessione con l’esercizio dello specifico servizio.
Anche nel caso C-340/04 - Carbotermo la procedura selettiva per l’affidamento del servizio era stata sospesa e
poi revocata dalla stazione appaltante (lo stesso è avvenuto per la causa C-410/04 - ANAV), al solo scopo di
affidare direttamente le prestazioni alla società mista da questa controllata.
La giurisprudenza comunitaria sopra richiamata appare dunque riferirsi, secondo il Collegio, a violazioni
conclamate del diritto degli appalti, dal momento che l’affidamento dei relativi servizi era stato disposto senza
alcuna possibilità per gli operatori di settore di concorrere per la sua aggiudicazione.
La Sezione ritiene che non si possa far derivare da tale giurisprudenza anche la conseguenza – che appare
estranea ai casi in quella sede esaminati – secondo la quale sarebbe necessaria l’indizione, da parte
dell’amministrazione, di una gara nella quale lo stesso soggetto pubblico aggiudicatore possa anche partecipare
come socio (addirittura maggioritario) della società mista aspirante aggiudicataria.
La negazione dei principi della concorrenza varrebbe, in questa ipotesi, non solo nel caso in cui il socio privato
fosse stato scelto senza gara, ma anche nel caso in cui esso fosse stato scelto con una diversa e precedente
procedura di evidenza pubblica: in entrambi i casi, sembrano comunque ravvisarsi elementi di conflitto di
interessi e di distorsione del mercato, senza risolvere la pretesa “anomalia” della società mista ma anzi
consentendole di conservare, nel confronto con le altre imprese “solo” private, la sua “situazione privilegiata”
dell’essere partecipata dalla stessa amministrazione che indice l’appalto.
8.2.3. La difficile sostenibilità di un affidamento tramite una procedura di evidenza pubblica nella quale
l’amministrazione abbia la duplice veste di stazione appaltante e di socio della società che aspira all’affidamento
condurrebbe di fatto, ad avviso della Sezione, alla totale negazione del modulo. Ciò avverrebbe anche nei casi in
cui la legge consente, perché le ritiene funzionali, ulteriori forme di intervento rispetto alle due ipotesi alternative
“tutta pubblica” e “tutta privata”.
Ma allora, nella visione estrema sopra descritta, la condivisa inconfigurabilità del modello dell’in house per le
società miste rischierebbe di condurre, ad avviso della Sezione, a far valere gli indirizzi della Corte di
Lussemburgo come una sorta di “incoraggiamento” alla costituzione di società pubbliche al 100%, senza alcuna
procedura selettiva e senza alcun ricorso al mercato. Questa Sezione ritiene, invece, che l’affidamento a soggetti
pubblici al 100% costituisca, in qualche modo, la negazione del mercato: non si può immaginare che la Corte di
giustizia preferisca tale soluzione rispetto ad un modello che faccia invece rientrare in gioco il mercato e i privati,
tramite regolari procedure di gara e con garanzie precise che possono comunque delimitare (come si dirà infra, al
par. 7.5.3) l’affidamento nell’oggetto e, soprattutto, nel tempo.
Risulterebbe allora paradossale, nella logica comunitaria della tutela della concorrenza, limitare le opzioni di
intervento ai soli due estremi assoluti e quindi consentire
– sia pure con criteri interpretativi molto restrittivi – una soluzione “tutta pubblica” come unica alternativa a
quella, del tutto opposta, del ricorso “pieno” al mercato.
Appare, infatti, illogico ammettere, in alternativa all’affidamento del 100% del servizio all’esterno, la (sola)
rinuncia totale al mercato con la società pubblica in house e non consentire, invece – in settori specifici,
individuati dalla legge considerando la peculiarità di una data materia e quindi l’inopportunità di una totale
devoluzione ai privati, ma anche l’impossibilità tecnica di lasciar gestire il servizio interamente alla “parte
pubblica” – un'apertura parziale a più flessibili “forme di collaborazione” pubblico-privato, laddove tale apertura
si giustifichi razionalmente con l’esigenza di un controllo più stringente sull’operatore, in quanto svolto non nella
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veste di committente ma in quella di socio e – soprattutto – sia delimitata da tutte quelle garanzie di definitezza
dell’oggetto e della durata dell’affidamento che sole possono ricondurre, ad avviso della Sezione, il modello ad un
affidamento all’esterno (sia pure per certi aspetti peculiare) e non come un affidamento in house.
In altri termini, se è vero che la società mista, in quanto tale, non è sottoposta al controllo analogo, è dirimente la
circostanza che proprio la componente esterna che esclude la ricorrenza dell’in house è selezionata con
procedure di evidenza pubblica: la quota esterna alla pubblica amministrazione è, cioè, reperita con il ricorso ad
un mercato che è certamente premiato, diversamente da quanto avviene nel caso della “chiusura in se stessa”
dell’amministrazione in un modello di pura autoproduzione. E ciò avviene coniugando l’interesse alla
valorizzazione delle risorse del mercato, che altrimenti resterebbero disattese da una logica di monopolio
pubblico, con l’interesse dell’amministrazione pubblica alla scelta di moduli organizzatori che le consentano di
esercitare un controllo non solo esterno (come soggetto affidante) ma interno ed organico (come partner
societario) sull’operato del soggetto privato selezionato per la gestione.
8.3. Alla stregua di quanto esposto, sembra allora ammissibile il ricorso alla figura della società mista
(quantomeno) nel caso in cui essa non costituisca, in sostanza, la beneficiaria di un “affidamento
diretto”, ma la modalità organizzativa con la quale l’amministrazione controlla l’affidamento disposto,
con gara, al “socio operativo” della società.
Peraltro, si ricorda che il suddetto modello non è ordinario nel nostro sistema e che – salvi i non frequenti casi
(come quello di specie) in cui il legislatore lo impone senza alternative – l’amministrazione deve comunque
motivare in modo adeguato perchè si avvale di una società mista invece di rivolgersi integralmente al mercato.
Inoltre, il ricorso a tale figura deve comunque avvenire a condizione che sussistano – oltre alla specifica
previsione legislativa che ne fondi la possibilità, alle motivate ragioni e alla scelta del socio con gara, ai sensi
dell’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 163 del 2006 – garanzie tali da fugare gli ulteriori dubbi e ragioni di perplessità
in ordine alla restrizione della concorrenza.
In particolare, appare possibile l’affidamento diretto ad una società mista che sia costituita appositamente per
l’erogazione di uno o più servizi determinati, da rendere almeno in via prevalente a favore dell’autorità pubblica
che procede alla costituzione, attraverso una gara che miri non soltanto alla scelta del socio privato, ma anche –
tramite la definizione dello specifico servizio da svolgere in parternariato con l’amministrazione e delle modalità
di collaborazione con essa – allo stesso affidamento dell’attività da svolgere e che limiti, nel tempo, il rapporto di
parternariato, prevedendo allo scadere una nuova gara.
In altri termini, laddove vi siano giustificate ragioni per non ricorrere ad un affidamento esterno
integrale, appare legittimo configurare, quantomeno, un modello organizzativo in cui ricorrano due
garanzie:
1) che vi sia una sostanziale equiparazione tra gara per l’affidamento del servizio pubblico e gara per la
scelta del socio, in cui quest’ultimo si configuri come un “socio industriale od operativo”, che concorre
materialmente allo svolgimento del servizio pubblico o di fasi dello stesso;
2) che si preveda un rinnovo della procedura di selezione “alla scadenza del periodo di affidamento” (in
tal senso, soccorre già una lettura del comma 5, lett. b), dell’art. 113 t.u.e.l. in stretta connessione con il
successivo comma 12), evitando così che il socio divenga “socio stabile” della società mista,
possibilmente prevedendo che sin dagli atti di gara per la selezione del socio privato siano chiarite le
modalità per l’uscita del socio stesso (con liquidazione della sua posizione), per il caso in cui all’esito
della successiva tara egli risulti non più aggiudicatario.
Almeno nella specifica ipotesi sopra descritta (ma di altre eventuali possibilità, come si è detto, la Sezione non
deve occuparsi, stante l’oggetto del quesito) sembra potersi affermare il rispetto dei principi comunitari anche alla
stregua della giurisprudenza più rigorosa e delle perplessità dottrinarie sopra richiamate (cfr. retro, il punto 7.2 e
lo stesso punto precedente 8.2) le quali, come si è detto, sono pienamente condivise dalla Sezione.
In particolare, in questo caso, grazie alla esistenza di una gara che con la scelta del socio definisca anche
l’affidamento del servizio “operativo”, non sembrerebbe doversi temere quanto affermato nella più volte citata
sentenza C-26/03 - Stadt Halle e RPL Lochau, secondo la quale “l’attribuzione di un appalto pubblico ad una
società mista pubblico-privata senza far appello alla concorrenza pregiudicherebbe l’obiettivo di una concorrenza
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libera e non falsata ed il principio della parità di trattamento degli interessati contemplato dalla direttive 92/50, in
particolare nella misura in cui una procedura siffatta offrirebbe ad un’impresa privata presente nel capitale della
detta società un vantaggio rispetto ai suoi concorrenti”.
Allo stesso modo, sembra non riferirsi al caso in esame anche l’altra importante affermazione della stessa
sentenza, secondo la quale “il rapporto tra un’autorità pubblica, che sia un’amministrazione aggiudicatrice, ed i
suoi servizi sottostà a considerazioni e ad esigenze proprie del perseguimento di obiettivi di interesse pubblico.
Per contro, qualunque investimento di capitale privato in un’impresa obbedisce a considerazioni proprie degli
interessi privati e persegue obiettivi di natura differente”. Ad avviso della Sezione, la presenza di un “interesse
privato” appare, nel caso in esame, ricondotta entro limiti corretti (e propri di tutti gli affidamenti in appalto) se
la gara definisce con sufficiente precisione anche il ruolo “operativo” e non “finanziario” del socio privato da
scegliere.
In tal caso dovrebbe, quindi considerarsi rispettato il precetto conclusivo di quella sentenza, laddove dichiara
“che, nell’ipotesi in cui un’amministrazione aggiudicatrice intenda concludere un contratto a titolo oneroso
relativo a servizi rientranti nell’ambito di applicazione ratione materiae della direttiva 92/50 con una società da
essa giuridicamente distinta, nella quale la detta amministrazione detiene una partecipazione insieme con una o
più imprese private, le procedure di affidamento degli appalti pubblici previste dalla citata direttiva debbono
sempre essere applicate”: la stretta connessione, in una sola gara, della scelta del socio con l’affidamento
dell’appalto sembra ottemperare all’obbligo di applicazione della direttiva statuito dalla Corte di Lussemburgo.
Parimenti insussistente appare, nel caso qui ipotizzato, l’altro rischio paventato dalla recente sentenza 18 gennaio
2007, causa C-220/05 - Jean Auroux (e in particolare dalle conclusioni dell’Avvocato Generale), a proposito del
ricorso al subappalto da parte della società mista. Nel caso di subappalto, ben può verificarsi il pericolo che
“l’oggetto di ogni appalto successivo rappresenti soltanto una quota dell’appalto totale. Ne può derivare che il
valore degli appalti susseguenti aggiudicati da una seconda amministrazione aggiudicatrice sia inferiore a quello
previsto all’art. 6, n. 1, lett. a), della direttiva. Così, attraverso l’attuazione di una serie di appalti successivi,
l’applicazione della direttiva potrebbe essere elusa”. Nell’ipotesi, qui profilata, del “socio di lavoro” scelto con
gara sembra avvenire l’opposto: la società mista non “subappalta” alcunché, mentre il servizio “operativo” viene
affidato direttamente in appalto, per tutto il suo valore, al socio “industriale” che opera sotto il controllo del
“socio pubblico”.
8.4. La Sezione è dell’avviso che tale assetto – che sembra essere molto vicino a quello che verrebbe,
auspicabilmente, meglio chiarito e codificato con l’approvazione dell’iniziativa legislativa in corso (atto Senato n.
772, descritto retro, al punto 7.4) – già oggi non può dirsi escluso dalla normativa vigente, che non va quindi
necessariamente “disapplicata” ma, ove possibile, adeguata anche in via intepretativa, alla luce dei principi
comunitari definiti dalla Corte di Lussemburgo.
Peraltro, in senso pressoché analogo si era espresso anche il parere (citato retro, al punto 7) n. 355/06 del 6
febbraio 2006 della Sezione per gli atti normativi di questo Consiglio, relativo allo schema di codice dei contratti
pubblici. In quella sede, oltre a richiedere una modifica (non recepita dal Governo) della disposizione oggi ancora
contenuta nell’art. 32, comma 3, del codice, si era anche affermato che “in ogni caso, ove si intenda mantenere la
previsione, sul presupposto di una portata ampia della legge delega, che in ogni caso chiama il Governo alla
definizione di un nuovo quadro giuridico per il recepimento, dovrebbe risultare chiaro che la gara per la scelta del
socio è stata svolta in vista proprio della realizzazione dell'opera pubblica o del servizio che successivamente si
affida senza gara, con menzione delle caratteristiche dell'opera e del servizio nel bando della gara celebrata per la
scelta del socio. Ciò al fine di assicurare che il mercato sia stato messo in grado di conoscere la serie di atti che
vengono poi posti in essere con l'affidamento diretto.”.
Si veda pure, sempre nel senso anzidetto, la decisione della V sez. di questo Consiglio di Stato n. 3672/05 – che
si riferisce ad un caso in cui un comune pugliese aveva bandito una gara per la costituzione di una società alla
quale contestualmente affidare la gestione dell’anagrafe tributaria comunale – laddove afferma che, ovviamente,
tale modello è ben diverso da quello dell’in house, ma soprattutto che “tale tipo di parternariato pubblico-privato
altro non è che una “concessione” esercitata sotto forma di società, attribuita in esito ad una selezione
competitiva che si svolge a monte della costituzione del soggetto interposto” (cfr. anche, nello stesso senso, V
42
sez., n. 272/05 e n. 2297/02).
8.5. L’esistenza di una gara che conferisca, di fatto, al socio privato l’“affidamento sostanziale” del servizio svolto
dalla società mista consente di ricondurre l’ipotesi in questione a quel legittimo fenomeno di “parternariato
pubblico-privato” (PPP) già da tempo affrontato dalle istituzioni comunitarie.
Si fa riferimento al Libro Verde pubblicato dalla Commissione europea il 30 aprile 2004 (cfr., in particolare, il
par. 3, punti 53 ss.), laddove si afferma che la “cooperazione diretta tra il partner pubblico ed il partner privato
nel quadro di un ente dotato di personalità giuridica propria …”, tra l’altro, “permette al partner pubblico di
conservare un livello di controllo relativamente elevato sullo svolgimento delle operazioni …”.
Tali tipologie di parternariato – prosegue la Commissione europea – non essendo disciplinate direttamente dal
diritto comunitario degli appalti, dovrebbero comunque essere assoggettate al rispetto delle norme e dei principi
in materia, non potendo “la scelta del partner privato destinato a svolgere tali incarichi nel quadro del
funzionamento di un’impresa mista … essere dunque basata esclusivamente sulla qualità del suo contributo in
capitali o della sua esperienza, ma dovrebbe tenere conto delle caratteristiche della sua offerta – che
economicamente è la più vantaggiosa – per quanto riguarda le prestazioni specifiche da fornire” (Libro Verde,
cit., punto 58; cfr. pure i successivi punti 61, 62 e 63, che appaiono in linea con le affermazioni sin qui svolte
dalla Sezione).
Le medesime conclusioni sono state fatte proprie dal Palamento europeo nella recente “Risoluzione sui
parternariati pubblico-privati e il diritto comunitario degli appalti pubblici e delle concessioni” del 26 ottobre
2006 (2006/2043 (INI)), dove si afferma, tra l’altro, che “se il primo bando di gara per la costituzione di
un’impresa mista è risultato preciso e completo, non è necessario un ulteriore bando di gara” (punto 40).
9. Una volta ritenuta configurabile in via generale, sia pure nei limiti e alle condizioni sopra esposti,
l’ammissibilità del ricorso a una società mista, occorre ora verificare se tali limiti e condizioni siano riscontrabili
nel peculiare caso di specie, alla stregua della disciplina speciale ivi prevista e della più precisa descrizione fornita
dalla riferente amministrazione con la richiesta di riesame del quesito.
9.1. Dalla descrizione dell’assetto della specifica disciplina del caso di specie si evince non tanto un “interesse
dell’amministrazione” a ricorrere al modello in esame (che, di per sé, nonostante l’espressa previsione legislativa,
potrebbe non rivelarsi sufficiente, come si è detto retro, al punto 6) ma piuttosto quasi una necessità, in
considerazione della stretta connessione del SIAN con l’esercizio di funzioni pubbliche (che appaiono ben
definite dall’art. 15 del d.lgs. n. 173 del 1998, riportato retro, al punto 3.1).
Tale connessione – adeguatamente evidenziata dalla nuova ricostruzione del Ministero riferente (riportata retro,
ai punti 3.3 e 3.4) – non sembra consentire un integrale affidamento all’esterno del Sistema Informativo Agricolo
Nazionale, pur rinvenendosi, per converso, l’esigenza di una peculiare professionalità e specializzazione
tecnologica nella gestione del sistema medesimo che richiede, a condizioni ben definite, la “collaborazione” di un
soggetto privato, altamente qualificato, che predisponga e mantenga l’infrastruttura tecnica necessaria a
consentire lo svolgimento di quelle funzioni sul Servizio Informativo.
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