Download - Dispensa di diritto amministrativo 4 - corsolexfor.it. AMMINISTRATIVO - Gli enti... · Dispensa di diritto amministrativo 4 . 2 Gli enti pubblici con veste privata: società pubbliche,

Transcript

1

A cura del cons. Francesco Caringella

Dispensa di diritto amministrativo 4

2

Gli enti pubblici con veste privata: società pubbliche, organismo in house, organismi di diritto pubblico e imprese pubbliche

3

Indice

1. NOZIONE VARIABILE DI ENTE PUBBLICO: IL CASO

INTERPORTO TOSCANO : Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza n. 1478 del 1998

2. I LIMITI ALLA PUBBLICIZZAZIONE LEGISLATIVA DI ENTI

PRIVATI: Corte Costituzionale, sentenza n. 396 del 1998

3. TECKAL, IL MONDO DELL’IN HOUSE: Corte di Giustizia, sentenza del 18

novembre 1999, 107/98

4. LO STRANO CASO DELLA RAI: Corte di Cassazione, Sezioni Unite, ordinanza n.

27092 del 2009

5. LA RESPONSABILITÀ PER MALA GESTIO DELLE SOCIETÀ

PUBBLICHE NON IN HOUSE NON È ERARIALE: Corte di Cassazione,

Sezioni Unite, sentenza del 19 dicembre 2009, n. 26806

6. LA DISCIPLINA DELLE S.P.A. MISTE: IL MODELLO DI SCELTA

DEL SOCIO: Consiglio di Stato, sezione II, parere n. 456 del 2007

4

Selezione giurisprudenziale

1. NOZIONE VARIABILE DI ENTE PUBBLICO: IL CASO

INTERPORTO TOSCANO : Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza n. 1478 del 1998

(omissis) La capacità di un atto soggettivamente privato di incidere, sovvertendo il principio di parità delle posizioni, sulle situazioni giuridiche di altri soggetti privati, decretandone l'affievolimento da diritti e soggettivi ad interessi legittimi e comprimendo in modo significativo , stante il radicamento della giurisdizione degli interessi, i tempi di reazione processuale, non può non necessitare di una disposizione di legge che, sola, costituisce, come detto, la fonte del potere pubblico. Hanno natura eccezionale, e come tali sfuggono ad ogni tentativo di interpretazione analogica o anche solo estensiva, le norme le quali espressamente prevedono che i concessionari, quali soggetti privati, possano emanare atti amministrativi Non solo non è rintracciabile, in materia di opere pubbliche, una norma che attribuisca in via generale veste pubblicistica agli atti del concessionario, imprimendo all'atto concessorio la capacità di trasferire l'esercizio di potestà pubblicistiche, ma, al contrario, emerge in modo non equivoco la scelta contraria del legislatore di considerare non riferibili all'esercizio delle funzioni pubbliche le manifestazioni di volontà del concessionario di opere pubbliche Proprio al fine di evitare che il rigorismo formale possa ingenerare elusione della disciplina comunitaria in tema di apertura delle gare ai concorrenti in ambito europeo e, quindi, frustrare i principi in tema di libertà di circolazione di beni, persone e servizi l'ordinamento comunitario ha inteso "snidare la pubblicità reale" che si nasconde sotto diverse forme prescindendo dal criterio della pubblicità formale ed optando per la pubblicità sostanziale del soggetto aggiudicatore.

(omissis)

2) All'attenzione del Collegio è posta la questione relativa alla possibilità di riconoscere carattere

amministrativo alle determinazioni adottate da società per azioni a partecipazione (nella specie totale)

pubblica - nel caso in questione l' Interporto Toscano S.p.A. - in sede di gara indetta per l'affidamento di

lavori (costruzione di edifici).

La disamina della problematica presuppone la ricognizione degli orientamenti pretorili in subiecta materia.

La possibilità di annettere carattere pubblicistico agli atti promananti da soggetto formalmente privato,

o comunque di regola operante in base a canoni di diritto privato (enti pubblici economici), è stata

ammessa dalla Corte di Cassazione (a partire dal notissimo arresto di cui alla sentenza delle Sezioni unite 29

dicembre 1990, n. 12221), nell'ipotesi in cui lo stesso rivesta i panni di concessionario (in particolare di

concessionario di opera pubblica nelle plurime forme di concessione di committenza, di costruzione e gestione e

di sola costruzione). L'architrave del percorso argomentativo della Corte è rappresentato dalla considerazione a

tenore della quale la concessione traslativa, quale è da intendersi in linea generale la concessione di

opera pubblica, comporta un trasferimento di funzioni e poteri amministrativi dal concedente al

concessionario, con ciò conferendo dignità sostanzialmente amministrativa agli atti posti in essere da

quest'ultimo nell'esercizio delle funzioni pubbliche trasferite. Nell'ambito di detti atti vanno per certo

annoverate le determinazioni pertinenti alla procedura per l'assegnazione degli appalti, trattandosi di una "tipica

funzione dell'ente pubblico competente per la realizzazione della singola opera pubblica". Di qui la conclusione,

sul versante della natura oggettivamente amministrativa, relativa all'emersione di "un caso tipico di esercizio

privato di pubbliche funzioni", nel quale le funzioni non cessano di essere pubbliche per il solo fatto di essere

assolte da privati.

5

Ciò detto sul piano oggettivo, la riconducibilità, sul versante soggettivo, degli atti di che trattasi alla

Pubblica Amministrazione è stata affermata per il tramite dell'attribuzione al concessionario della

qualità di "organo indiretto della pubblica amministrazione": "indiretto", dal momento che esercita un

nome proprio le funzioni trasferite; "organo" in quanto svolge comunque un'attività di carattere

amministrativo.

La contemporanea emersione dei requisiti oggettivo e soggettivo convince in sostanza, secondo la Corte

Suprema, a qualificare in termini di interesse legittimo la situazione del soggetto partecipante alla gara

indetta dal concessionario in ordine al rispetto, da parte di questi, delle norme procedurali di evidenza

pubblica, norme che sono poste dalla legge non solo a tutela diretta dei contraenti ma anche e

soprattutto al fine di garantire "l'interesse pubblico ad una effettiva pluralità di partecipanti alla gara".

Sul piano dell'opportunità il percorso argomentativo è irrobustito dal rilevo che una soluzione che giungesse a

conclusioni opposte sul crinale della giurisdizione, a seconda che la procedura sia direttamente o indirettamente

gestita dalla P.A., avallerebbe risultati ingiustificatamente discriminati sul piano della pienezza della tutela

giurisdizionale, stante la minore incisività dei poteri, cautelari e sostitutivi, spettanti al Giudice ordinario.

2a) L'itinerario concettuale (in senso conforme al dictum del 1990 si veda Cass., Sez. unite, 18 marzo 1992, n.

3359; 15 ottobre 1992, n. 11264 e, da ultimo, 28 agosto 1998, n. 8541) è stato anche di recente ribadito dalla

Corte di legittimità che, per l'appunto facendo perno sull'assenza di un titolo concessorio capace di conferire

natura pubblicistica agli atti relativi a gare, ha escluso la giurisdizione amministrativa in ordine a controversie

relative a contratti stipulati dalle società per azioni, a prevalere partecipazione pubblica deputate alle gestione di

servizi pubblici locali ai sensi dell'art. 22 della legge n. 142/1990 (Cass., Sezioni unite, 6 maggio 1995, n. 4949 e n.

4991, che richiamano sul punto la decisione delle Sezioni unite 4 gennaio 1993, n. 3; conf. 27 marzo 1997, n.

2738).

La Suprema Corte ha nella fattispecie dovuto prendere le mosse dal problema della natura giuridica degli

organismi societari de quibus.

Sul punto si è infatti registrata, già all'indomani della legge sulle autonomie locali, in ambito dottrinale ed in sede

pretoria, una contrapposizione - simile a quella emersa in merito alla reale consistenza giuridica delle società

derivanti dalla privatizzazione degli enti economici - tra quanti hanno ritenuto trattasi di società di natura

interamente privatistica, sottoposte esclusivamente alla disciplina delle società commerciali, e quanti ,

valorizzandone il connotato di specialità, hanno reputato che quello societario sia solo un paravento dietro il

quale si cela una struttura organicamente collegata all'ente territoriale, ossia un mero organo strumentale di

quest'ultimo.

L'organismo delle due correnti di pensiero ha prodotto inevitabili divergenze in ordine alle modalità di

costituzione delle società: i sostenitori della tesi privatistica hanno optato per la piena libertà di scelta degli

azionisti privati da parte dell'ente locale; i fautori dell'approccio pubblicistico, confortati dal testo della legge n.

498/1992, del D.L. n. 26/1995, conv. In legge n. 95/1995, e del regolamento di esecuzione emanato con il

D.P.R. n. 533/1996, hanno reputato che la scelta dei soci privati debba essere effettuata seguendo le procedure

dell'evidenza pubblica, volte a garantire, nell'ottica della ottimizzazione dell'interesse pubblico e dell'inabdicabilità

di esigenze di trasparenza, la selezione di partners privati più affidabili per l'ente locale.

Quanto alla necessità di apposito provvedimento concessorio per l'affidamento della gestione del servizio alla

società, è invece prevalsa la tesi negativa, indipendentemente dal carattere pubblico o privato della stessa.

L'assunto è stato confortato dalla circostanza che le leggi nn. 142/1990 e 498/1992, rispettivamente in tema di

società a partecipazione pubblica maggioritaria e minoritaria, considerano il modulo concessorio alternativo, non

propedeutico, rispetto a quello dell'affidamento a società a partecipazione pubblica.

Con le citate decisioni la Corte di Cassazione ha sposato la tesi privatistica, osservando che le società in esame,

pur se a prevalente partecipazione pubblica, sono soggetti di diritto privato del tutto distinti dall'amministrazione

pubblica. A seguito dell'esaurimento della fase pubblicistica con la scelta del modello organizzatorio,

ossia con l'affidamento del servizio alla società, la possibilità di interferenza dell'ente pubblico nella

sfera di azione della società privata è infatti preclusa dalla circostanza che i due soggetti agiscono "in

sfere diverse, per fini diversi (anche se non incompatibili) e con diversi strumenti giuridici". Ne

6

consegue che, salva l'ipotesi del trasferimento alla società anche i poteri pubblicistici, con correlativa

trasformazione in organo indiretto della P.A. a guisa di concessionaria di funzioni pubbliche, gli atti

posti in essere dalla società medesima nei rapporti con i terzi risultano interamente privatistici. In

specie, la scelta del contraente da parte della società ai fini dell'esecuzione di un'opera funzionale alla

gestione del servizio non è soggetta alla procedura dell'evidenza pubblica, e le relative controversie

vanno devolute alla giurisdizione ordinaria. È inoltre da escludere l'inclusione delle società in parola

nell'ambito degli organismi di diritto pubblico tenuti all'osservanza delle norme di evidenza pubblica, atteso che

la struttura societaria, connotata in modo indefettibile dal fine di lucro, collide con il requisito, necessario per la

configurazione di un organismo di diritto pubblico, dato dalla funzionalizzazione al soddisfacimento di bisogni a

carattere non industriale e commerciale. In ogni caso, l'eventuale qualificazione della società in parola

quale" l'amministrazione aggiudicatrice", ai sensi del D.Lgs. n. 406/1991, non conferirebbe natura

pubblicistica al soggetto ma rileverebbe esclusivamente ai fini della individuazione, sul versante

sostanziale, della disciplina di gara, senza comportare lo spostamento della giurisdizione in favore del

giudice degli interessi.

Quanto al citato problema della libera scelta dei partners da parte dell'ente locale, secondo la S.C., proprio

la previsione legislativa del 1992, sancendo, per le sole società a partecipazione pubblica minoritaria, l'obbligo

dell'indizione di una gara comunitaria ai fini della scelta dei soci privati e dell'affidamento all'esterno delle opere,

si rivela sintomatica della volontà del legislatore di non estendere detti meccanismi di evidenza pubblica alle

società a partecipazione maggioritaria.

2b) Le stesse coordinate interpretative sono state tracciate, con l'applicazione all'incontrario della teoria

dell'organo indiretto di derivazione concessoria, in ordine alla indefettibilità del titolo provvedimentale

traslativo ai fini del radicamento della giurisdizione amministrativa in tema di appalti di enti pubblici economici e,

più in generale, di tutti i soggetti non pubblici costretti, in quanto inclusi nel novero delle amministrazioni

aggiudicatrici, a rispettare le regole di evidenza pubblica ai fini della stipulazione di contratti con terzi.

La circostanza che il legislatore abbia previsto la soggezione di detti enti (pubblici economici e privati tout

court), alle procedure di evidenza pubblica (cfr. legge n. 109/1994 e D.Lgs n. 406/1991 in tema di organismi

di diritto pubblico), non consente infatti all'ermeneuta di eludere il fondamentale problema di verificare,

alla luce delle regole generali in tema di riparto di giurisdizione, se chi si duole della violazione delle

regole di cui si discorre sia portatore di una posizione di diritto soggettivo o di mero interesse legittimo.

In tale indagine non può trascurarsi, quanto all'ente pubblico economico, che quest'ultimo - al di fuori

dell'ambito di esplicazione della potestà di auto - organizzazione - non possiede, al pari dei soggetti privati, il

potere di segnare la degradazione delle posizioni soggettive degli interlocutori ove detto privilegium non sia

scolpito, con l'attribuzione del munus di organo indiretto, in virtù di atto concessorio. In mancanza di detto

titolo, pertanto, l'equiparazione alle pubbliche amministrazioni sancita della norma sugli appalti, segnatamente in

ragioni della vasta nozione di organismo di diritto pubblico e della maggiore latitudine del perimetro delle

amministrazioni aggiudicatrici rispetto al novero delle amministrazioni pubbliche in senso tecnico, rileva al solo

fine di costringere anche soggetti privati, o operati alla stregua di stilemi privatistici, alle regole di evidenza

pubblica ma non muta la natura privatistica degli atti adottati da soggetti operanti fisiologicamente su un piede di

parità con gli interlocutori in quanto non investiti di potestà pubblicistiche (Cass., Sezioni unite, 28 novembre

1996, n. 10616). Non assumono rilievo in senso contrario, a dire della Corte di legittimità, le disposizioni dettate

dall'art. 13 della legge n. 142/1992, in tema di preventivo annullamento da parte del G.A. rispetto all'attivazione

del rimedio risarcitorio innanzi al G.O., e dall'art. 31 bis, comma secondo, della legge n. 109/1994, come mod.

dalla legge n. 216/1995, in ordine alla trattazione accelerata dei ricorsi innanzi al G.A. in caso di concessione

della tutela cautelare: entrambe le norme, nello scandire gli snodi processuali della tutela del terzo,

presuppongono, sulla base del normale principio del riparto, senza fondarla, la giurisdizione del giudice

amministrativo. In definitiva, l'eventuale qualificazione di soggetto privato (o ente pubblico economico) alla

stregua di amministrazione aggiudicatrice rileva al solo fine di stabilire la disciplina sostanziale di gara da seguire e

non già, stante il difetto del carattere soggettivamente amministrativo, per lo scioglimento del nodo della

giurisdizione.

7

In altre parole l'attività procedimentalizzata di evidenza pubblica è neutra, ossia suscettibile di assumere

connotazione pubblicistica o privatistica a seconda della natura del soggetto procedente.

3) In sostanza le coordinate della giurisprudenza della Corte Suprema, in toto recepite dai primi Giudici nella

fattispecie posta all'attenzione del Collegio, si condensano in due principi di fondo: l'intervento di titolo

concessorio traslativo trasforma il soggetto concessionario, anche se formalmente di estrazione

privatistica, in organo indiretto della P.A. e annette alle sue determinazioni non esulanti dal raggio di

azione del provvedimento, quali sono da reputarsi gli atti relativi alle procedure di gara per la stipula

con i terzi, il rango di atti amministrativi da sottoporre allo scrutinio del G.A.; in assenza di detto titolo

concessorio, ovvero in caso di eccentricità rispetto alla sfera di operatività dello stesso, vengono meno

le condizioni, sul versante soggettivo, affinché si possa parlare di atto amministrativo e si possa

configurare in testa al terzo aspirante alla stipula una posizione di interesse legittimo conoscibile dal

giudice amministrativo. Nessun rilievo assume all'uopo la qualifica di amministrazione aggiudicatrice,

significativa solo sul versante della disciplina sostanziale di gara e non anche sotto il profilo della natura degli atti

e del riparto di giurisdizione.

4) Entrambe le conclusioni - sufficienza ed indispensabilità del provvedimento di concessione al fine del

radicamento della giurisdizione amministrativa - non sono convincenti.

5) Quanto al primo punto questo Consiglio (Sezione VI, 20 dicembre 1996, n. 1577) ha già osservato che la

semplice qualifica di concessionario di opera pubblica non vale ex se a conferire agli atti da questo

emanati la natura di provvedimenti amministrativi idonei a sortire l'effetto di affievolimento delle

posizioni soggettive degli interlocutori. La vis cogente del principio di legalità, cristalizzato dall'art. 97

della Carta fondamentale, nel pretendere, in armonia con i principi di imparzialità e buona

amministrazione, che la fonte del potere pubblico sia sempre e solo nella legge, non tollera che

un'Amministrazione pubblica, nei casi non previsti dalla normativa di rango primario, si arroghi il

potere di trasferire le proprie funzioni istituzionali ad un soggetto privato così risolvendosi a non

esercitare le competenze ed a non avere quelle responsabilità che l'ordinamento le attribuisce. Nel

decisum segnalato il Consiglio ha puntualizzato che "se è pacifico in giurisprudenza ed in dottrina che la

delegazione intersoggettiva (per la quale i pubblici poteri sono trasferiti da una ad un'altra pubblica

amministrazione ) è una figura organizzativa concepibile nei soli casi espressamente previsti dalla legge, andando

ad incidere sulle norme primarie che regolano le competenze, a maggior ragione una norma di legge è necessaria

perché possa verificarsi il trasferimento di funzioni in favore di soggetti privati". In sostanza, la capacità di un

atto soggettivamente privato di incidere, sovvertendo il principio di parità delle posizioni, sulle

situazioni giuridiche di altri soggetti privati, decretandone l'affievolimento da diritti e soggettivi ad

interessi legittimi e comprimendo in modo significativo , stante il radicamento della giurisdizione degli

interessi, i tempi di reazione processuale, non può non necessitare di una disposizione di legge che,

sola, costituisce, come detto, la fonte del potere pubblico. La stessa legge 7 agosto 1990, n. 241, recante le

regole generali in tema di attività amministrativa, non si premura di dettare alcuna disciplina sugli atti

amministrativi di soggetti privati, salvo il solo riferimento all'eccesso agli atti concessionari di servizi pubblici

(non già di opere o funzioni di carattere pubblicistico). La parabola argomentativa - irrobustita dalla

considerazione che "l'ambito della giurisdizione del giudice ordinario e di quello amministrativo, è regolato, in

base agli artt. 24, 101, 102,103, 104, 111, e 113 della Costituzione, solo dalla legge e non può essere modificato da

atipiche determinazioni del potere esecutivo" - sfocia nella considerazione conclusiva secondo cui hanno natura

eccezionale, e come tali sfuggono ad ogni tentativo di interpretazione analogica o anche solo estensiva,

le norme le quali espressamente prevedono che i concessionari, quali soggetti privati, possano emanare

atti amministrativi (v. ad esempio l'art. 4 bis del decreto legge 11 luglio 1992, n. 333, come convertito nella

legge 8 agosto 1992, n. 359, in tema di provvisoria conservazione dei poteri pubblicistici di cui già erano titolari le

Amministrazioni pubbliche trasformate in società per azioni; la conseguente qualificazione come concessionaria

ex lege della S.p.A. Ferrovie dello Stato è stata sostenuta dalla decisione di questa Sezione 20 maggio 1995, n.

498).

8

Ciò detto sul versante del difetto del presupposto oggettivo del trasferimento di funzioni pubbliche, ove questo

non sia corroborato da puntuale disposizione normativa, ha suscitato perplessità, sul piano squisitamente

dogmatico, anche l'affermazione secondo la quale la postulata traslazione di funzioni comporterebbe

ex se la trasformazione della natura meramente privata del soggetto agente mercé la creazione di un

organo indiretto dalla P.A.. Ad un simile circuito argomentativo si è replicato in dottrina, per un verso, che il

riferimento all'organo indiretto è improprio in quanto il meccanismo del rapporto organico comporta

l'imputazione ad un soggetto del comportamento di altro soggetto e delle relative responsabilità, mentre nel caso

del concessionario si è di norma al cospetto di soggetto che agisce esclusivamente nel proprio interesse, al quale

solo si riferiscono fattispecie e responsabilità; per altro verso che la stessa elaborazione dottrinale alla quale è da

riferire il varo della teoria dell'organo indiretto ha escluso con nettezza la qualificabilità dei relativi atti sub specie

di atti amministrativi e la conseguente impugnabilità innanzi al giudice amministrativo.

Tanto premesso per quel che attiene alle valutazioni della Corte di Cassazione relativamente ai profili soggettivi

degli atti da ascriversi ai concessionari, non sembra decisivo, al fine di puntellare la costruzione dell'organo

indiretto sub specie di concessionario, il riferimento alle presunte disparità di trattamento delle situazioni

soggettive dei terzi, i quali sarebbero costretti a rivolgersi al giudice amministrativo ove la procedura sia posta in

essere direttamente dall'amministrazione e davanti al giudice ordinario in caso di gara bandita da soggetto privato

concessionario. In linea generale si deve ricordare che il principio di effettività della tutela giurisdizionale non

richiede unicità del giudice chiamato a dirimere controversie anche di carattere omogeneo così come non impone

identità degli strumenti processuali di tutela ma semplicemente vuole che ognuno di questi non ostacoli la seria

ed effettiva possibilità di tutela delle ragioni dedotte. In detto quadro non è seriamente dubitabile che la piena

tutela giurisdizionale sia suscettibile di essere assicurata, segnatamente con riferimento alle stipulazioni dei

concessionari con i terzi, anche per mano del Giudice ordinario, non costretto ad imbattersi nei limiti di cui agli

artt. 4 e 5 della legge sull'abolizione del contenzioso amministrativo ove si verta in tema di atti realmente soggetti

a regime privatistico. La Giurisprudenza della stessa Cassazione ha infatti da tempo rinvenuto nell'ordinamento

civilistico i rimedi per garantire la regolarità dei procedimenti selettivo - concorsuali (sia per selezioni e

promozioni del personale che per le stipule contrattuali) indetti da soggetti privati. Segnatamente, la garanzia

delle aspettative dei partecipanti al rispetto delle regole del giuoco passa attraverso la considerazione che, se è

certa la pertinenza tipica della posizione di interesse legittimo al diritto pubblico, essa non è tuttavia sconosciuta

al diritto privato, ove, l'appunto in tema di procedure concorsuali e selettive, è suscettibile di venire in rilievo e

trovare tutela innanzi al giudice ordinario.

5a) Trasponendo dette coordinate ermeneutiche di respiro generale - circa la non configurabilità di un soggetto

privato concessionario legittimato all'adozione di atti amministrativi in assenza di un referente normativo

primario - alla materia specifica delle concessioni di opere pubbliche, è agevole rilevare che il sistema vigente

esclude l'attribuzione per via solo concessoria di funzioni e poteri pubblici. La nuova normativa sugli

appalti dettata con la legge n. 109/1994 e succ. mod. contraddice la propensione giurisprudenziale a intravedere

nella concessione di opera pubblica una fattispecie traslativa idonea a decretare la trasformazione del privato

concessionario in organo indiretto alla stregua dell'itinerario ermeneutico di cui si è dato conto. Come è noto la

giurisprudenza ha creato tale figura facendo perno sulle disposizioni legislative che prevedono il trasferimento a

privati di pubbliche funzioni (si pensi alla concessione per la riscossione di tributi, in forza della quale il

concessionario della riscossione può emanare, nei casi previsti dalla legge, atti amministrativi, devoluti di regola

alla giurisdizione tributaria; alla concessione autostradale, nella quale la società concessionaria emana atti

amministrativi in luogo della Pubblica Amministrazione concedente; alla concessione ferroviaria), modellando

sulla falsariga delle stesse l'istituto della concessione di opera pubblica (Cass. N. 12221/1990 cit.) come

particolare concessione traslativa, anch'essa riconducibile alle concessioni assoggettate alla giurisdizione esclusiva

del G.A. ai sensi dell'art. 5 L. TAR (che pure testualmente fa riferimento alle sole concessioni di beni e servizi).

Nell'ambito della figura generale della concessione di opera pubblica sono state incasellate la concessione di sola

costruzione, la concessione di costruzione e gestione e la concessione di committenza.

Nella concessione di sola costruzione, il concessionario si impegna, contro un corrispettivo dato, come per

l'appalto, da un prezzo, a realizzare con mezzi propri un'opera pubblica, assumendo altresì obbligazioni

9

accessorie (ad esempio di dirigere i lavori): l'effetto traslativo è stato rintracciato da Cass., Sezioni unite 13

dicembre 1996, n. 12966, nelle pubbliche funzioni inerenti all'attività organizzativa.

Nella concessione di costruzione e gestione, invece, il concessionario, a fronte dell'obbligo di realizzare l'opera

pubblica, ottiene in corrispettivo, in tutto o in parte, la possibilità di gestirla per un certo periodo di tempo

percependone gli utili conseguenti.

Diversa figura è infine quella della concessione di committenza, in seno alla quale il concessionario, sostituendosi

alla Pubblica Amministrazione concedente, funge da stazione appaltante e pone in essere tutti gli adempimenti

occorrenti per la realizzazione dell'opera, compresa la progettazione, l'acquisizione delle aree, l'ottenimento dei

permessi amministrativi, l'individuazione, con l'espletamento delle relative procedure, dell'appaltatore e la

vigilanza sull'esecuzione.

Esulando dall'ambito della presente indagine la verifica delle conseguenze delle figure in esame circa la necessità,

o non, per l'Amministrazione di indire gara pubblica per la scelta del concessionario, al pari di quanto previsto

per la stipula di contratto di appalto, giova solo ricordare che la soluzione affermativa, basata sull'equiparazione

della stipula di appalto al rilascio di provvedimento concessorio, è stata delineata sin dalla legge 8 agosto 1977, n.

584 (art. 1, comma 2, pur se con riferimento specifico alla sola concessione di costruzione e gestione ) per poi

essere ribadita dal D.Lgs 19 dicembre 1991, n. 406 (artt. 4 comma 2, e 8, comma 3, a tenore dei quali le

concessioni di opera pubblica sono attribuite con le procedure della licitazione privata). In sostanza la

normativa ha escluso ogni tratto distintivo tra concessione ed appalto sul versante della procedura di

gara statuendo che anche il concessionario, al pari dell'appaltatore, deve essere scelto, in omaggio a

esigenze intuibili di trasparenza ed efficienza, con il sistema della gara pubblica.

In sostanza, già prima del varo della legge n. 109/1994 (che ha ribadito il principio con l'art. 2, comma 3), il

legislatore ha sancito l'equiparazione del concessionario all'appaltatore, sia pure sul versante della gara da indire

da parte della P.A., evidentemente facendo leva sull'assenza di una traslazione di poteri pubblicistici che possa

giustificare una scelta fiduciaria e deproceduralizzata.

Detta assimilazione non può non sortire effetto, in assenza, ripetesi, di norma traslativa di poteri pubblici, in

merito alla impossibilità di annettere il rango di atti amministrativi impugnabili innanzi al G.A. agli atti adottati

dal concessionario nell'ambito della concessione.

Merita ricordare sul punto che, antecedentemente al varo della legge n. 109/1994, autorevole dottrina, di fronte

alla concessione di opera pubblica, riteneva di trovarsi in presenza di un'ipotesi contrattuale atipica comunque

riconducibile allo schema dell'appalto. Si sarebbe trattato in buona sostanza non di fattispecie pubblicistiche, ma

di normali contratti.

A tal proposito, si è ricordato come l'art. 324 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, allegato F sia stato interpretato

nel senso che l'appaltatore può svolgere mansioni esecutive riguardanti lo svolgimento della procedura

espropriativa; d'altra parte, è anche consentito che, nell'appalto - concorso, all'appaltatore sia affidata la

progettazione dell'opera. Quindi le attività degli appaltatori, in ciò non distinguendosi da quelle dei concessionari,

possono anche non essere limitate alla materiale esecuzione dei lavori: compiti quali la progettazione dell'opera,

la direzione dei lavori e la relativa sorveglianza, non si connotano per un particolare rapporto con l'interesse

pubblico, perché si tratta di attività che non si differenziano dallo svolgimento di compiti strumentali del tutto

compatibili con la struttura del rapporto originario. Di qui la conclusione della sostanziale identità della

concessione di opera pubblica rispetto alla fattispecie contrattuale dell'appalto.

5c) La costruzione giurisprudenziale intesa ad attribuire carattere amministrativo agli atti del concessionario di

opera pubblica è stata definitivamente superata in linea generale - salvo quanto si dirà in seguito in merito alla

nozione di amministrazione aggiudicatrice - dal varo della nuova legge quadro sugli appalti di lavori pubblici

(legge n. 109/1994, come mod. dalla legge n. 216/1995).

In linea generale l'art. 31 bis, comma 4, della legge 11 febbraio 1994, n. 109, come mod. dalla legge n. 216/1995

(di conversione del D.L. n. 101/1995), dispone che "ai fini della tutela giurisdizionale le concessioni in materia di

opere pubbliche sono equiparate agli appalti", sancendo, stante la dizione omnicomprensiva, un'equiparazione

valevole sia in ordine ai rapporti intercorrenti tra P.A. e concessionario di opera pubblica che, salve le eccezioni

che si esamineranno in seguito, in merito alle relazioni tra concessionario e terzi.

10

(omissis)

Dall'esame coordinato di dette norme si desume quindi che, limitata la figura della concessione di opera pubblica

alla concessione di costruzione e gestione, per questa, salvo le diverse disposizioni in ordine al procedimento di

gara, gli atti adottati dal concessionario nei rapporti con i terzi non perdono la connotazione privatistica e,

pertanto, soggiacciono alla cognizione del giudice ordinario.

In definitiva, non solo non è rintracciabile, in materia di opere pubbliche, una norma che attribuisca in

via generale veste pubblicistica agli atti del concessionario, imprimendo all'atto concessorio la capacità

di trasferire l'esercizio di potestà pubblicistiche, ma, al contrario, emerge in modo non equivoco la

scelta contraria del legislatore di considerare non riferibili all'esercizio delle funzioni pubbliche le

manifestazioni di volontà del concessionario di opere pubbliche.

Unica deroga al sistema è data dalle ipotesi in cui - limitatamente alla legislazione sui lavori pubblici - il soggetto

concessionario sia a determinate condizioni qualificato come amministrazione aggiudicatrice, ossia soggetto

destinato a seguire le procedure di evidenza pubblica e, per l'effetto, ad assumere, in virtù di legge e non certo di

atipica determinazione dell'autorità, statuizioni amministrative (cfr., sul punto, Cons. Stato, Sez. IV, 5 giugno

1998, n. 918).

6) Se non appare convincente la derivazione in via automatica dal provvedimento di concessione, in assenza di

norma di legge traslativa, della natura amministrativa degli atti posti in essere dal concessionario, parimenti non

condivisibile si appalesa l'affermazione speculare, costituente il rovescio della medaglia della teoria dell'organo

indiretto, a dire della quale, in mancanza del supporto concessorio, l'attribuzione ad un soggetto privato (o

normalmente operante in base a stilemi di diritto privato) della qualifica di amministrazione aggiudicatrice - come

tale tenuta, al pari delle amministrazioni pubbliche in senso stretto, ad uniformare le procedure contrattuali alle

norme in tema di gara pubblica comunitaria - non sposterebbe il baricentro della giurisdizione verso il giudice

degli interessi.

È noto che la disciplina comunitaria, in sede di enucleazione dei soggetti tenuti al rispetto delle regole di evidenza

ispirate al principio della gara comunitaria, si è emancipata dalla nozione formale di ente pubblico accolta nei

singoli ordinamenti nazionali accedendo ad un concetto sostanziale di organismo di diritto pubblico, che

comprende anche soggetti che, pur se non formalmente pubblici in base ai canoni ermeneutici interni,

possiedono una rilevanza pubblicistica in quanto fungono da strumenti alternativi, rispetto agli organi classici

della P.A., per l'esercizio di compiti di questa mediante l'utilizzazione di fondi pubblici.

In sostanza, proprio al fine di evitare che il rigorismo formale possa ingenerare elusione della disciplina

comunitaria in tema di apertura delle gare ai concorrenti in ambito europeo e, quindi, frustrare i

principi in tema di libertà di circolazione di beni, persone e servizi - così in definitiva attentando alla libertà

di concorrenza - l'ordinamento comunitario ha inteso "snidare la pubblicità reale" che si nasconde sotto

diverse forme prescindendo dal criterio della pubblicità formale ed optando per la pubblicità

sostanziale del soggetto aggiudicatore. In altre parole la sottoposizione alle regole procedurali, mercé la

qualificazione di un soggetto come pubblico ai fini degli appalti, finisce per prescindere dall'attribuzione della

personalità giuridica pubblicistica da parte dello Stato nazionale e va a reggersi sul dato sostanziale relativo

all'esercizio da parte dei poteri pubblici di un'influenza dominante sulla proprietà, sulla partecipazione

finanziaria e sull'ordinamento dell'impresa (Corte di Giustizia 3 ottobre 1985, causa 311/84). Si è così

passati, attraverso l'inclusione dei cosiddetti "organismi di diritto pubblico" nell'ampliata sfera delle

amministrazioni aggiudicatrici, dal primigenio carattere tassativo dell'elencazione dei soggetti tenuti al

rispetto della disciplina comunitaria (cfr. direttiva 71/305/CEE) ad un criterio enumerativo - definitorio,

in forza del quale il rispetto delle regole di gara pubblica si impone, oltre che ai soggetti

nominativamente indicati e sicuramente pubblici (primi tra tutti Stato ed enti locali), anche ad una pletora di

soggetti - appunto gli organismi di diritto pubblico - individuati attraverso indici rivelatori concretantisi nella cura

di interessi generali non economici, nella personalità giuridica (privata o pubblica) e nel finanziamento o

controllo pubblico (art. 1 lett. b, della direttiva n. 89/440/CEE, non modificata sul punto, dalla direttiva n.

93/37/CEE). Segnatamente, detta norma stabilisce che si considerano amministrazioni aggiudicatrici, oltre allo

Stato ed agli enti territoriali, anche gli organismi di diritto pubblico, tali dovendosi intendere quei soggetti

11

giuridici "istituiti per soddisfare specificatamente bisogni di interesse generale aventi carattere non industriale e

commerciale, dotati di personalità giuridica e la cui attività sia finanziata in modo maggioritario dallo Stato, dagli

enti locali o da altri organismi di diritto pubblico, oppure la cui gestione è sottoposta a controllo di questi ultimi,

oppure i cui organi di amministrazione, di direzione o di vigilanza sono costituiti da membri più della metà dei

quali è designata dallo Stato, dagli enti locali o da altri organismi di diritto pubblico" (conf. La direttiva servizi 18

giugno 1992, n. 92/50 CEE). L'esame degli indici sintomatici della sussistenza di un organismo di diritto

pubblico consente di toccare con mano l'irrilevanza della qualificazione pubblicistica interna e la centralità del

profilo sostanziale dell'influenza dominante, si da consentire, ed anzi imporre, l'attrazione anche di soggetti

formalmente privatistici.

6a) L'impostazione comunitaria è stata recepita dal legislatore interno, il quale ha assoggettato alle procedure di

evidenza pubblica anche soggetti di carattere privato.

Si ponga mente in prima battuta, in tema di appalti di lavori pubblici, all'art. 2 ed all'allegato G. al Decreto

legislativo n. 406/1991 ed all'art. 2 della legge n. 109/1994, e succ. mod., i quali, nel recepire la categoria

comunitaria degli organismi di diritto pubblico, impongono anche a soggetti pacificamente privati, o

normalmente operanti jure privatorum, il rispetto delle procedure pubbliche di gara. In particolare, l'art. 2,

comma secondo, della legge n. 109/1994 sancisce l'applicazione delle norme di gara agli enti pubblici economici

ed agli "altri organismi di diritto pubblico" (lettera a), ai concessionari di lavori pubblici e di esercizio di

infrastrutture destinate al pubblico servizio ed alle società con capitale pubblico, in misura anche non prevalente,

che abbiano ad oggetto la produzione di beni e servizi non destinati ad essere collocati sul mercato in regime di

libera concorrenza, ai concessionari di pubblici servizi, qualora operino in virtù di diritti speciali ed esclusivi

(lettera b), ai soggetti privati relativamente ai lavori di cui all'allegato A del decreto legislativo n. 406/1991 nonché

ad altri lavori tassativamente enucleati e per i quali sia previsto un contributo da soggetti od organismi pubblici

superiore al 50% dell'importo dei lavori (lettera c).

(omissis)

Si impone a questo punto la verifica della ricordata enunciazione della Corte di legittimità a dire della

quale l'assoggettamento ai veicoli della pubblica evidenza sarebbe priva di rilievo sul versante della

natura giuridica degli atti adottati in sede di gara e, per l'effetto, su quello del radicamento della

giurisdizione.

L'assunto posto a sostegno del principio, id est la pretesa neutralità della procedura di evidenza pubblica circa la

forza sostanziale ed il regime processuale delle determinazioni afferenti all'iter procedurale, sottoposte alle

proprie regole pubblicistiche o privatistiche a seconda della natura dei soggetti interessati, è contraddetto, ad

avviso del Consiglio, sia dal dato positivo che da considerazioni di ordine logico - sistematico.

Sul versante squisitamente positivo l'attribuzione di spessore pubblicistico agli atti adottati da amministrazioni

aggiudicatrici, pur se non pubbliche secondo gli stilemi tradizionali, è confermata dall'art. 13 della legge 19

febbraio 1992, n. 142 - da ultimo in via parziale abrogato dal decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80 - i cui primi

due commi prevedono che i soggetti che abbiano subito un danno a seguito della violazione del diritto

comunitario in materia di appalti di lavori e forniture o delle relative norme di recepimento possono chiedere

all'Amministrazione aggiudicatrice il risarcimento del danno e proporre all'uopo domanda al giudice ordinario

previo annullamento dell'atto lesivo con sentenza del giudice amministrativo. Identico principio è stato ribadito,

in tema di pubblici servizi, dal citato D.Lgs. n. 157/1995 (art. 30, quale contiene il rinvio alle disposizioni recate

dagli artt. 12 e 13 della legge n. 142/1992).

Da una prima lettura della disposizione si evince che la norma non si riferisce, al fine di radicare il doppio binario

di tutela giurisdizionale, al soggetto che emana l'atto ma alla norma violata: se tale norma si ritiene trasgredita da

soggetto privato, tenuto all'applicazione delle disposizioni dettate in tema di appalti di opere, forniture o servizi,

gli atti devono essere comunque assoggettati al preventivo vaglio giurisdizionale amministrativo. In sostanza la

sottoposizione al doppio snodo processuale di qualsiasi pretesa risarcitoria, a prescindere dal carattere privato o

meno dell'amministrazione aggiudicatrice, avalla l'assunto secondo cui la definizione pubblicistica di

amministrazione aggiudicatrice incide non solo sulla determinazione della disciplina sostanziale di gara ma anche

in ordine al riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo (così Cons. Stato, Sezione V, n.

12

1577/1996, cit., in tema di appalto di forniture indetto da un consorzio privatistico di enti locali e Sezione IV, 3

febbraio 1996, n. 147, in tema di procedura espletata dalla S.p.A. Lombardia Informatica). Il legislatore, in altre

parole, probabilmente anche allo scopo di fissare termini perentori per la maturazione dell'inoppugnabilità di atti

volti a soddisfare, al pari di quelli adottati da enti pubblici in senso classico, primarie esigenze di interesse

pubblico, considera che, limitatamente alla materia in esame, anche gli atti di soggetti altrimenti privati sono

espressione di un pubblico potere e debbono essere pertanto equiparati in toto agli atti amministrativi, ossia

essere considerati a tutti gli effetti tali. Di qui un allargamento delle maglie della giurisdizione amministrativa,

derivante non già da un'opinabile creazione dottrinale e giurisprudenziale, quale alla fine risulta, in assenza di

puntello legislativo espresso, la teoria dell'organo indiretto di derivazione concessoria, ma per mezzo di una

inequivoca opzione legislativa, che, nel rispetto del principio di legalità di cui all'art. 97 della Carta fondamentale,

qualifica come pubblici gli atti emanati da soggetti privati e richiede la soggezione degli stessi allo scrutinio del

Giudice degli interessi.

La conclusione è avvalorata dal dettato dell'art. 11, comma 1, della legge 19 dicembre 1992, n. 489, che pur se

con riferimento ai settori esclusi, ha previsto l'applicazione degli artt. 12 e 13 della legge n. 142/1992 alle

procedure di appalto degli " enti costituiti in forma di società per azioni di cui alla direttiva n. 90/531/CEE", così

sancendo per tabulas il vaglio del giudice amministrativo anche in relazione ad atti adottati da soggetti

formalmente privati come le società di capitali.

Se alla generalizzazione della portata precettiva del dato normativo ora descritto si può opporre il respiro

settoriale della disposizione, ciò non toglie che trattasi di disposizione la quale disancora, per la prima volta in

modo così perentorio, il fondamento della giurisdizione amministrativa dalla natura formalmente pubblicistica,

secondo le coordinate classiche, dell'atto e, quindi, depone a favore dell'insussistenza di sbarramenti assoluti alla

configurabilità di determinazione amministrative non adottate da soggetti pubblici nell'accezione tradizionale del

termine.

Lo stesso art. 31 bis della legge n. 109/1994 e succ. mod. reca una disciplina speciale del processo amministrativo

originato dalla violazione delle norme regolatrici della gara senza distinguere tra atti di stazioni appaltanti

pubbliche e di stazioni appaltanti formalmente private. Di qui l'implicita riconduzione nell'alveo della

giurisdizione amministrativa delle contestazioni derivanti dall'impugnazione di atti emanati da organismi

formalmente di diritto privato.

(omissis)

6d) L'elaborazione proposta non incontra gli ostacoli che si frappongono alla costruzione dell'organo indiretto di

estrazione concessoria, posto che, diversamente dall'ipotesi della concessione traslativa in tema di opere

pubbliche, in questo caso il trasferimento di poteri pubblicistici, quali sono quelli inerenti alla gestione di gara

informata all'evidenza pubblica, non deriva da un'atipica determinazione amministrativa ma dalle norme primarie

che annettono dignità sostanzialmente amministrativa (legge n. 109/1994, art. 2) ad atti adottati da soggetti

privati sussumibili nel novero degli organismi di diritto pubblico - e, più in generale, delle amministrazioni

aggiudicatrici non formalmente pubbliche - e, in via conseguenziale, fissano il preventivo vaglio del giudice

amministrativo in caso di controversia risarcitoria innescata dalla violazione delle regole comunitarie ed interne di

recepimento (vedi l'art. 13 della legge n. 142/1992, in correlazione al citato art. 11, comma 1, della legge n.

489/1992). Il discorso vale per gli stessi concessionari di opere pubbliche che, non più in base al titolo ma in

forza della sussunzione legislativa nelle amministrazioni aggiudicatrici, vengono, limitatamente agli appalti di

lavori, muniti dalla legge di poteri pubblici (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, n. 918/1998, cit.)

6e) Del pari non sembra cogliere nel segno l'obiezione secondo cui, anche a voler ritenere la natura

oggettivamente amministrativa degli atti in esame, farebbe difetto il profilo soggettivo della provenienza da una

Pubblica Amministrazione, profilo pure ineluttabile affinché si possa parlare di atto conoscibile dal G.A. in sede

di legittimità ai sensi del T.U. del Consiglio di Stato 26 giugno 1924, n. 1054 (a tenore del quale alla cognizione

del Consiglio di Stato sono soggetti "atti e provvedimenti di un'autorità amministrativa o di un corpo

amministrativo") e della legge 6 dicembre 1971, n. 1034 (il cui art. 3 radica la competenza dei tribunali

amministrativi sulla base della provenienza dell'atto dagli organi, centrali o periferici, dello Stato o da altri enti

13

pubblici, mentre l'art. 37, in materia di giudizio di ottemperanza, fa riferimento al concetto di "autorità

amministrativa").

L'obiezione non tiene conto, per un verso, della sempre più accentuata labilità della linea di confine tra

soggetti pubblici e soggetti privati (cfr. Corte Costituzionale 23 dicembre 1993, n. 466, la quale ha concluso

per la permanenza del controllo della Corte dei Conti sulle società residuanti dalla privatizzazione solo formale

degli enti pubblici economici); per altro verso non si coniuga con la dilatazione del concetto di soggetto pubblico,

e , quindi, di atto pubblico, derivante dalla penetrazione del diritto comunitario nel tessuto dell'ordinamento

nazionale.

Sul punto assume valore dirimente il rilievo che il legislatore interno in tema di appalti, con le norme richiamate,

in qualche modo integrando il dettato del TU del Consiglio di Stato e della legge TAR, ha ampliato a monte in

subiecta materia il concetto di pubbliche amministrazioni, e quindi, di atto amministrativo, senza intaccare per

conseguenza le coordinate costituzionali che ai sensi degli artt. 103 e 113 pretendono la derivazione soggettiva da

una Pubblica Amministrazione degli att conoscibili dal giudice amministrativo.

Dalla trama normativa ripercorsa emerge in altri termini con nettezza che anche i soggetti privati, che presentino

le caratteristiche richieste dalla disciplina comunitaria e dalla legge interna di adeguamento, sono, laddove

operino come amministrazioni aggiudicatrici, e quindi limitatamente agli atti della serie procedimentale di

evidenza pubblica, pubbliche amministrazioni in senso soggettivo, come tali deputate all'esercizio di potestà

pubbliche capaci di sortire un effetto di affievolimento nei confronti delle posizioni dei partecipanti alla gara. Si

ricordi che l'art. 2 del decreto legislativo n. 406/1991 ha stabilito che "si considera ente pubblico qualsiasi

organismo dotato di personalità giuridica".", riproducendo poi la definizione comunitaria più volte richiamata di

organismo di diritto pubblico, e precisando, in apertura della norma, "ai fini del presente decreto". Tra le due

strade teoricamente percorribili a fronte della non conseguenza della nozione interna con quella comunitaria di

amministrazione - riscrittura funditus dei connotati generali degli enti pubblici, con inclusione di taluni soggetti

privati, ed equiparazione dei soggetti privati con determinate caratteristiche agli enti pubblici tradizionali ai soli

fini delle procedure di appalto - il legislatore ha imboccato la seconda, meglio armonizzabile con il sistema

amministrativo interno, consentendo l'assimilazione dei soggetti privati qualificabili come organismi di diritto

pubblico - e più in generale come amministrazioni aggiudicatrici - nella sola materia degli appalti, e segnatamente

per gli atti adottati nella veste di stazione appaltante (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 21 aprile 1995, n. 353, in merito ad

appalto bandito dall'ente Fiera di Milano; vedi però Cons. Stato, Sez. VI, 16 settembre 1998, n. 1267, che, pur

non disconoscendo le conseguenze derivanti sul piano della giurisdizione dalla qualificazione di un soggetto alla

stregua di amministrazione giudicatrice, ha negato l'iscrizione all'ente Fiera della veste di organismo di diritto

pubblico in considerazione della non ricorrenza del requisito teleologico costituito dal carattere non industriale e

commerciale dei bisogni di interessi generali soddisfatti dall'istituzione dell'ente).

Detta equiparazione, anzi detta identificazione per materia, non può non comportare, pena l'illogicità

del sistema, l'ampliamento non solo del novero delle amministrazioni ma anche dello spettro degli atti

amministrativi.

Ebbene, se gli atti delle amministrazioni aggiudicatrici tutte, anche se in altri campi trattasi di soggetti

privati, sono per forza di legge caratterizzati dagli stessi connotati, soggettivi ed oggettivi, degli atti

amministrativi classici - come questi si presentano vincolati, sotto il profilo procedurale e funzionale, alla

normativa di diritto pubblico, a partire dai principi costituzionali di imparzialità e buon andamento - dette

determinazioni devono godere del medesimo trattamento giurisdizionale, radicando, in ossequio al

binomio interesse legittimo - potere pubblico, la giurisdizione degli interessi.

Per converso, al di fuori dei settori, di stretta interpretazione, in cui detti soggetti operano in modo

funzionalizzato, la relativa azione torna ad essere libera, ossia esplicazione di autonomia negoziale in

posizione di parità con gli interlocutori privati, con conseguente destinazione dei relativi atti alla

giurisdizione di diritto comune.

6f) Per completezza si deve osservare che anche le norme sopravvenute al quadro ora tracciato, pur se non

rilevanti ratione temporis ai fini della controversia, suffragano l'assunto della rimessione al giudice amministrativo

delle controversie relative ad appalti di soggetti non formalmente pubblici.

14

In particolare, l'art. 19 del decreto legge 25 marzo 1997, n. 67, convertito in legge 23 maggio 1997, n. 135, in sede

di fissazione delle regole processuali per la definizione accelerata delle controversie in tema di appalti di lavori

pubblici, sottintende la devoluzione al giudice amministrativo (art. 19, primo comma) anche delle contese relative

ad appalti per la realizzazione di "opere di pubblica utilità", ossia di opere di pertinenza, diversamente dalle

"opere pubbliche", di soggetti non pubblici ma ciò nondimeno funzionali al soddisfacimento di interessi pubblici.

Parimenti, a conferma della sempre maggiore labilità del confine tra soggetti pubblici e privati, il D.Lgs. 31 marzo

1998, n. 80, che ha sancito la giurisdizione amministrativa esclusiva per le procedure di appalto relative ai settori

oggetto di delega ai sensi della legge n. 59/1997, con correlativa abrogazione in parte qua delle menzionate

norme sul doppio binario di tutela, considera non decisivo il profilo formale della pertinenza dell'appalto a

soggetto pubblico o privato facendo riferimento alle procedure di affidamento di "appalti svolte da soggetti

comunque tenuti all'applicazione delle norme comunitarie o della normativa nazionale o regionale" (art. 33,

comma II, lett. E).

7(omissis)

7b) Si è già rimarcato in precedenza che la normativa nazionale, in ciò ricalcando il testo delle direttive

comunitarie, subordina l'attribuzione della qualifica di organismo di diritto pubblico alla ricorrenza di tre requisiti:

a) la personalità giuridica; b) l'istituzione per soddisfare specificatamente bisogni di interesse generale aventi

carattere non industriale e commerciale; c) il finanziamento in modo maggioritario da parte dello Stato, di enti

locali o di organismi di diritto pubblico oppure la sottoposizione della gestione al controllo di questi ultimi

oppure la costituzione degli organi di amministrazione, di direzione e di vigilanza da membri più della metà dei

quali è designata dallo Stato, dagli enti locali o da altri organismi di diritto pubblico.

Giova premettere che detti requisiti, secondo il diritto vivente, devono ricorrere in via cumulativa sì che l'assenza

anche solo di uno di essi pregiudica in radice l'identificabilità degli estremi dell'organismo di diritto pubblico (in

questo senso Corte di Giustizia CE 15 gennaio 1998, C-44/96; Cons. Stato, Sezione VI, n. 1267/1998 cit.).

(omissis)

7e) Tanto premesso, e passando a verificare la sussistenza del requisito teleologico di cui si discorre in testa ad

una società a partecipazione totalmente pubblica deputata alla gestione di un servizio pubblico, si deve prendere

le mosse dall'esame degli orientamenti ermeneutici emersi in ordine all'identificazione del concetto di

destinazione dell'ente al soddisfacimento di bisogni di interesse generale a carattere non industriale e

commerciale. Secondo una tesi letterale di tipo "gestionale", non potrebbe venire in rilievo un organismo di

diritto pubblico qualora l'attività dell'ente sia retta da regole di economicità (metodo economico) e tenda a

perseguire direttamente fini di lucro. Di qui l'automatica estraneità al corpo degli organismi di diritto pubblico dei

soggetti che rivestano forma societaria, essendo quest'ultima connaturata la finalità lucrativa.

Ad avviso della concezione finalistica, invece, ai fini dell'identificazione dell'organismo rileverebbe invece

l'individuazione di un interesse generale della collettività, mentre risulterebbero neutre la forma giuridica del

soggetto e le modalità gestionali suscettibili di assumere connotazioni anche di tipo economico e commerciale.

La tesi gestionale - intesa ad escludere in radice l'incasellabilità del tipo societario nel novero degli organismi di

diritto pubblico, indipendentemente dalla natura dell'attività svolta e dalla composizione azionaria - non risulta

persuasiva sul versante positivo e sistematico.

La valorizzazione, in chiave ostativa, del profilo formale non appare, in primo luogo, coerente con

l'atteggiamento dell'ordinamento comunitario, indifferente, in distonia con le passate legislazioni nazionali, ai

profili formali dei soggetti aggiudicatori ed attento a cogliere il dato sostanziale del coinvolgimento pubblico nella

gestione di un determinato assetto di interessi. L'adozione di un principio interpretativo improntato ad un

nominalismo rigido comporterebbe infatti la frustrazione delle ragioni - tutela della libertà di concorrenza in

primis - che hanno indotto il legislatore europeo a pervenire ad una nozione elastica di amministrazione ai fini

della disciplina degli appalti. La creazione di società per azioni controllate da parte dell'Amministrazione pubblica

- e quindi in sostanza strumenti alternativi a disposizione di quest'ultima per il perseguimento, con una forma

privatistica più duttile, degli interessi istituzionali - sarebbe infatti un'agevole scappatoia percorribile dai soggetti

pubblici per sottrarsi alle regole della gara comunitaria e, quindi, eludere, a parità di interessi pubblici coinvolti, il

15

perseguimento delle finalità concorrenziali perseguite dalle direttive con la creazione della categoria elastica degli

organismi di diritto pubblico.

Inoltre, sempre nell'ottica del diritto comunitario, un'interpretazione rigida del concetto teleologico metterebbe

in luce la difficile armonizzabilità con il diritto comunitario delle forme di affidamento diretto del servizio alle

società di cui all'art. 22 della legge n. 142/1990, senza preventiva procedura di gara. Il mancato rispetto delle

norme di gara, evincibile dal sistema della legge sulle autonomie locali, è infatti giustificato dalla connotazione in

termini pubblicistici delle finalità perseguite dalle società, con correlativa non ricorrenza dell'esigenza di garantire

la piena competizione degli operatori commerciali. Non sembra invece compatibile con il sistema comunitario la

gestione diretta, senza preventiva gara, delle attività in questione da parte di società che si reputino di carattere

puramente privatistico, non riconducibili all'ambito delle amministrazioni aggiudicatrici, e quindi destinate ad

operare alla stregua di normali imprenditori privati in posizione di parità con i competitori. Dalla premessa

dell'effettiva terzietà delle società di che trattasi rispetto alle amministrazioni pubbliche non potrebbe non trarsi

infatti il corollario della parificazione agli altri operatori commerciali ai fini dell'affidamento della gestione del

servizio nell'ambito di procedura selettiva di evidenza pubblica.

La distonia sarebbe ulteriormente aggravata nell'ipotesi in cui si tratti, come nella specie, di società a

partecipazione totalmente pubblica, ove il mancato ricorso alla gara per il conferimento non è neanche

compensato dalla procedura selettiva reputata dalla giurisprudenza più recente del Consiglio indispensabile per la

selezione del partner privato anche nelle società a partecipazione pubblica maggioritaria oltre che in quelle a

partecipazione pubblica minoritaria (Cons. Stato, Sezione V, 19 febbraio 1998, n. 192).

(omissis)

La neutralizzazione della veste societaria rispetto alla natura sostanzialmente pubblicistica dell'ente è stata

sottolineata dalla giurisprudenza costituzionale (vedi la ricordata sentenza 28 dicembre 1993, n. 466), che, al fine

di giustificare la permanenza del controllo della Corte dei Conti sulle società per azioni soggette a privatizzazione

solo formale degli enti pubblici economici, ha ricordato come "si presenti oggi sfumata la linea di confine

che".viene a distinguere gli enti pubblici dalle società di diritto privato", specie ove permanga il controllo

azionario maggioritario da parte dello Stato.

In sintonia con l'impostazione del Giudice delle leggi, questa Sezione del Consiglio (decisione 20 maggio 1995, n.

498) ha ribadito la permanenza della caratterizzazione pubblicistica degli atti adottati in sede di gara da soggetti

societari il cui patrimonio azionario permanga nella mano pubblica (nella specie Ferrovie dello Stato S.p.A.) e si

pongano in linea di continuità con l'ente pubblico di derivazione sotto il profilo dei compiti assolti e delle

funzioni esercitate.

In definitiva si può dubitare fortemente che le società a partecipazione pubblica, specie se caratterizzate dalla

proprietà esclusiva o maggioritaria del pacchetto azionario da parte dello Stato o di altri enti pubblici, rivestano

nella materia che interessa natura realmente privata e non siano invece, specie alla luce della nozione allargata di

pubblico potere nel diritto comunitario, articolazioni organizzative degli enti pubblici di pertinenza (sub specie di

organi entificati), ossia strumenti più elastici e duttili di azione nelle mani di questi ultimi per il perseguimento dei

propri fini istituzionali.

Per quel che in questa sede importa, si deve ritenere in definitiva che la forma societaria sia neutra ai

fini dell'identificazione dell'organismo di diritto pubblico mentre assume rilievo la verifica della

struttura e delle attività da questi esercitate. La non incompatibilità del modello societario con lo strumento

dell'organismo di diritto pubblico è dimostrata dal tenore dell'art. 2, comma 2, lettera b, della legge n. 109/1994,

ove si fa riferimento alle "società con capitale pubblico destinate alla produzione di beni e servizi non destinati ad

essere collocati sul mercato in regime di libera concorrenza". Se è infatti vero che formalmente dette società sono

distinte dagli organismi di diritto pubblico, questo accade non per una differenza sul piano teleologico ma in

ragione della ricorrenza in questi ultimi degli ulteriori profili finanziari ed organizzativi necessari per l'emersione

dell'organismo di diritto pubblico.

7g) Posta quindi l'insussistenza di un'incompatibilità radicale del modello societario con il requisito teleologico

degli organismi di diritto pubblico, la soluzione va data sulla scorta dell'apprezzamento delle caratteristiche

concrete, strutturali e funzionali, delle società.

16

Nel caso di specie, la qualificazione come organismo di diritto pubblico della società di cui si discorre deriva, sul

versante strutturale, dal carattere totale della partecipazione pubblica e, sul piano funzionale, dal fine della

gestione, in via esclusiva, di un servizio pubblico.

7h) Sotto il primo punto di vista, alla luce delle indicazioni della Corte Costituzionale e di questo stesso

Consiglio, l'integrale pertinenza a referenti pubblici del pacchetto azionario dimostra che si è al cospetto di uno

strumento, alternativo alle forme tradizionali di intervento (costituzione di aziende municipalizzate, oggi aziende

speciali, e provvedimento concessorio), per il perseguimento dei fini istituzionali dell'ente pubblico nell'ambito

dei servizi pubblici. La partecipazione totale (o anche maggioritaria) dell'ente pubblico consente di ritenere,

secondo il criterio sostanzialistico proprio del diritto comunitario, che detta società si presenti - per questo non

abbisognando di un provvedimento concessorio che faccia seguito a procedura di gara - come un'articolazione

organizzativa dell'ente o degli enti pubblici di riferimento. Ne deriva, come evidenziato dalla ricordata

giurisprudenza costituzionale e del Consiglio, il dubbio circa l'effettività della linea di demarcazione rispetto

all'ente pubblico in senso stretto.

7i) Sul versante funzionale - posto che per bisogno non industriale e commerciale non si intende, alla luce dei

rilievi svolti, non imprenditorialità della gestione ma funzionalizzazione per il soddisfacimento di bisogni generali

della collettività in una posizione di non concorrenza con altri operatori del mercato - il requisito è soddisfatto

dalla circostanza che trattasi di società costituita per il solo fine di gestire in via esclusiva il servizio pubblico

interportuale per il soddisfacimento di un interesse generale di pertinenza della collettività territoriale. Se si

interpreta il requisito teleologico nel quadro sistematico, ossia se si tiene conto della finalità comunitaria di

perseguire gli obiettivi della tutela del mercato e della concorrenza, assume valore decisivo, per risolvere in

termini positivi la questione, la circostanza che la società non nasce per porsi in una posizione concorrenziale con

operatori privati - nel qual caso non si giustificherebbe la deroga al principio della gara comunitaria - ma per

erogare in via esclusiva e direttamente, in via alternativa al sistema della concessione, il servizio pubblico, ossia

per espletare un'attività dai connotati spiccatamente pubblicistici. L'attività svolta in tale contesto pubblicistico

dai privati si presenta cioè funzionale all'interesse pubblico - come dimostrato dai limiti e dai vincoli operativi che

la legislazione su dette società prevede - e per questo idonea, stante l'inclusione nel novero delle amministrazioni

aggiudicatrici, a sortire un effetto degradatorio delle posizioni di diritto soggettivo dei terzi.

Il perseguimento di uno scopo pubblico non è per contro in contraddizione con il fine societario lucrativo

descritto dall'art. 2247 c.c., dal momento che la presenza di un utile di gestione è del tutto compatibile con la

gestione dei servizi pubblici.

7l) Le considerazioni svolte sono in sintonia con gli orientamenti della giurisprudenza del Consiglio, la quale

ancora di recente ha ribadito che le società per azioni di cui si discorre sono in senso sostanziale "organi della

pubblica amministrazione", deputati, sulla base di norma legittimante , alla gestione del servizio pubblico

(all'organo indiretto si riferisce l'Adunanza Generale del Consiglio di Stato, parere 16 maggio 1996, n. 90; nonché

la decisione della Sezione V n. 192/1998 cit., in tema di scelta dei soci di minoranza con il sistema della gara

pubblica).

7m) La caratterizzazione pubblicistica e funzionale della gestione di un servizio pubblico è ulteriormente

confermata dall'art. della legge n. 241/1990, che assoggetta anche i concessionari di pubblici servizi alle norme in

tema di accesso ai documenti amministrativi. Merita inoltre rilevare che lo stesso art. 2 della legge n. 109/1994

assoggetta alle norme sull'evidenza pubblica i concessionari di servizi pubblici ed i concessionari di esercizio di

infrastrutture destinate al pubblico servizio, con norma estensibile per identità di ratio ai soggetti deputati in via

diretta sulla base di legge all'esercizio ed alla gestione diretta. Infine, non va sottaciuto che lo stesso art. 12,

comma 3, della legge n. 498/1992, in tema di S.p.A. a partecipazione pubblica minoritaria per la gestione di

servizi pubblici locali, obbliga, per le procedure in tema di opere pubbliche, al rispetto delle norme di cui al

decreto legislativo n. 406/1991 - con rinvio mobile estensibile alla sopravvenuta legge n. 109/1994 - dettando

una disciplina per identità di ratio estensibile alle società a partecipazione pubblica maggioritaria e totale.

(omissis)

8) L'inclusione della società appaltante nel novero delle amministrazioni aggiudicatrici imprime carattere

amministrativo agli atti di gara e, alla luce dei rilievi svolti, radica la giurisdizione del giudice amministrativo.

17

2. I LIMITI ALLA PUBBLICIZZAZIONE LEGISLATIVA DI ENTI

PRIVATI: Corte Costituzionale, sentenza n. 396 del 1998

La Corte Costituzionale dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 1 della legge 17 luglio 1890 n. 6972 (<Norme sulle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza>) nella parte in cui non prevede che le IPAB regionali e infraregionali possano continuare a sussistere assumendo la personalità giuridica di diritto privato, qualora abbiano tuttora i requisiti di un'istituzione privata.

l. -E' sottoposta all'esame della Corte la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1 della legge 17 luglio 1890

n. 6972 (c.d. legge Crispi) perchè esso, riconducendo nell'ambito degli enti pubblici tutte le istituzioni di

assistenza e beneficenza (IPAB), sarebbe in contrasto con l'art. 38, ultimo comma, Cost. che tutela la libertà

dell'assistenza privata.

Ad avviso del giudice a quo, non può revocarsi in dubbio che, come riconosciuto dalla dottrina e dalla

giurisprudenza unanimi, la norma denunciata abbia prodotto una generalizzata pubblicizzazione delle Istituzioni

predette, ciò discendendo dalla inequivoca intestazione della legge, dalla struttura e dalla disciplina ad esse

imposta, dalla esplicita qualificazione loro attribuita.

Il monopolio pubblico dell'assistenza esercitata dagli enti riconosciuti, così determinato, comprimerebbe perciò

in modo consistente la libertà dei privati di contribuire all'assistenza predetta, in contrasto con l'opposto

principio sancito dal precetto costituzionale invocato.

(omissis)

4. - Nel merito la questione é fondata.

Sembra opportuno premettere che la Corte é stata già investita della medesima questione nel giudizio definito

con la sentenza n. 173 del 1981, nella quale il suo esame era però rimasto, per espressa affermazione in questo

senso, assorbito dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale dell'art. 25, comma quinto, del d.P.R. 24 luglio

1977 n. 616.

Tuttavia, già in tale occasione la Corte aveva avuto modo di rilevare che la legge del 1890 n. 6972, avendo

disciplinato una serie di istituzioni aventi uno <spessore storico> del tutto peculiare, era ispirata a due principi

fondamentali, quali il rispetto della volontà dei fondatori e i controlli giustificati dal fine pubblico dell'attività

svolta in situazione di autonomia.

Questa posizione ambivalente di dette istituzioni e stata ancora più di recente messa in evidenza nella sentenza n.

195 del 1987, in cui si é rilevato come il loro regime giuridico sia caratterizzato dall'intrecciarsi di una disciplina

pubblicistica in funzione di controllo, con una notevole permanenza di elementi privatistici, il che conferisce ad

esse una impronta assai peculiare rispetto agli altri enti pubblici.

In presenza di tali peculiarità devesi convenire con quella dottrina che parla di una assoluta tipicità di questi

particolari enti pubblici, in cui convivono forti poteri di vigilanza e tutela pubblica con un ruolo

ineliminabile e spesso decisivo della volontà dei privati, siano essi i fondatori, gli amministratori o la

base associativa. Esse quindi sono istituzioni pubbliche che, non solo in riferimento alla situazione precedente

alla legge del 1890, ma anche per le successive iniziative assistenziali, sono per lo più il prodotto del

riconoscimento di iniziative private, sia inter vivos che mortis causa.

La scelta operata dalla legge Crispi, come é stato ben messo in evidenza dalla dottrina, non fu una vera e propria

pubblicizzazione del settore della beneficenza e poi (per effetto del r.d. n. 2841 del 1923) della assistenza, ma la

creazione progressiva di strumenti statali di <beneficenza legale> e la predisposizione di forme di controllo e di

disciplina uniforme, nella beneficenza di origine privata.

Così ancora la dottrina, commentando il sistema della legge del 1890 nell'immediatezza della sua emanazione,

aveva posto in evidenza come l'assunzione, da parte di dette istituzioni, della personalità giuridica, che non

poteva non essere pubblica, era finalizzata allo scopo <di mettere il Governo in grado di assicurare che la

18

personalità giuridica della nuova istituzione ... non solo e realmente di beneficenza ... ma che inoltre contribuisce

alla soddisfazione di un interesse pubblico armonizzante con l'indirizzo generale della beneficenza>.

Il rafforzamento dell'obbligo di riconoscimento come persona giuridica pubblica di ogni istituzione di origine

privata, finalizzata alla beneficenza, anche se strutturata in forma minima, era garantito dall'art. 103 della legge in

parola, che sanciva la nullità delle disposizioni o convenzioni dirette a sottrarre alla tutela o alla vigilanza delle

pubbliche autorità le istituzioni di beneficenza, nonchè successivamente dall'art. 26 del r.d. del 1923 n. 2841, che

attribuiva al prefetto il potere di promuovere di ufficio la fondazione di nuove istituzioni.

Disposizione quest'ultima che é stata esattamente indicata come ulteriore strumento volto a trasferire all'area

degli enti pubblici tutte le strutture di beneficenza e di assistenza che potessero sfuggire alla pubblicizzazione.

Da ciò l'esclusione dalla possibilità che, nell'area dell'assistenza e beneficenza, esistano fondazioni ed associazioni

dotate di personalità giuridica privata.

5.-Gli aspetti teste evidenziati e l'esame delle modalità di applicazione della legge Crispi nella sua evoluzione

portano a concludere che nel tempo sono finiti per essere ad essa assoggettati non solo enti che, in quanto

erogatori di servizi pubblici, avrebbero potuto, aspirare a pieno titolo alla qualificazione di enti pubblici, anche se

non fosse stato sancito il monopolio ora messo in discussione ma pure <organizzazioni espressive

dell'autonomia dei privati che hanno conservato caratteri propri dell'organizzazione civile anche dopo la loro

formale pubblicizzazione>.

Una prima rottura del sistema monolitico così descritto é derivata dalla legge del 1968 n. 195 che, in una

prospettiva di progressivo avvicinamento (conclusosi nel 1978 con la legge di riforma sanitaria n. 833) al sistema

di sicurezza sociale, ha sottratto alla disciplina della legge del 1890 le istituzioni sorte, soprattutto ad iniziativa di

privati, per l'assistenza ospedaliera.

Le istituzioni preesistenti sono state perciò assorbite negli enti ospedalieri, determinandosi così varii effetti e cioé,

da un canto, quello della impossibilita per le istituzioni aventi finalità ospedaliere di essere riconosciute come

I.P.A.B. (se nuove) o di continuare a sopravvivere (se già esistenti) nel sistema della legge Crispi del 1890,

dall'altro la possibilità per il futuro di istituire enti ospedalieri con personalità giuri dica privata, perchè questo

settore dell'assistenza ospedaliera non era ormai più compreso, da quel momento, nel sistema delle I.P.A.B.

Invece, ancorchè l'art. 38, u.c., Cost. tuteli ormai la libertà dell'assistenza privata, e rimasta immutata fino ad oggi

la situazione delle istituzioni che, sorte per iniziativa privata, svolgono altre svariate forme di beneficenza e di

assistenza, diverse da quella ospedaliera.

Mentre per le istituzioni a carattere interregionale, il loro assetto é stato definito con la disciplina dettata dagli

artt. 113 e segg. del d.P.R. n. 616 del 1977, quelle a carattere regionale e infraregionale sono tuttora assoggettate

al regime della legge del 1890, anche se, nonostante la loro formale pubblicizzazione, necessitata dalla previsione

generalizzante dell'art. 1 di detta legge, esse abbiano requisiti tali da poter continuare ad esistere come persone

giuridiche private. E ciò perchè, da un lato, i fini di esse non sono per loro natura esclusivi delle strutture

pubbliche, e dall'altro perchè lo Stato e gli altri enti pubblici, ove ritengano di dover realizzare certi fini di

assistenza e beneficenza, ben potrebbero ormai farlo attraverso proprie strutture, come e già in larga parte

avvenuto.

Sono, quindi, venuti ormai meno i presupposti che avevano presieduto, all'epoca della legge Crispi, al

generalizzato regime di pubblicizzazione, oggi non più aderente alla mutata situazione dei tempi ed

alla evoluzione degli apparati pubblici, per l'avvenuta assunzione diretta da parte di questi di certe categorie di

interessi, la cui realizzazione era invece assi curata, nel sistema della legge del 1890, quasi esclusivamente dalla

iniziativa dei privati, che veniva poi assoggettata al controllo pubblico per costituire un sistema di <beneficenza

legale>, che altrimenti sarebbe mancata del tutto.

Una volta mutata tale situazione, non possono ormai non essere assecondate le aspirazioni di quelle figure

soggettive sorte nell'ambito dell'autonomia privata, di vedersi riconosciuta l'originaria natura.

Questa esigenza é imposta dal principio pluralistico che ispira nel suo complesso la Costituzione repubblicana e

che, nel campo della assistenza, e garantito, quanto alle iniziative private, dall'ultimo comma dell'art. 38, rispetto

al quale e divenuto ormai incompatibile il monopolio pubblico delle istituzioni relative.

19

6. -Le considerazioni che precedono denotano, perciò, il contrasto con la norma costituzionale citata, dell'art. 1

della legge del 1890, che invece continua ad esigere-pur essendo superata la situazione sociale e l'assetto delle

strutture dello Stato che avevano ispirato la legge stessa-un sistema di pubblicizzazione generalizzato, esteso a

tutte le iniziative originate dall'autonomia privata.

Queste perciò ben potrebbero essere restituite all'ambito privato ove fosse constatata la presenza di requisiti

propri di una persona giuridica privata.

7. -Per quel che riguarda gli enti di nuova istituzione, non può non prendersi atto di quanto già riferito in

precedenza, e che e stato posto in luce sia in dottrina che negli scritti difensivi, circa il già avvenuto

superamento del regime di obbligatoria pubblicizzazione proprio della legge Crispi.

Questo superamento manifestatosi più di recente sia in sede amministrativa, sia in sede di controllo, sia in sede

giurisdizionale, afferma il principio che enti di nuova istituzione, aventi finalità di assistenza e di beneficenza,

possano essere riconosciuti come persone giuridiche private: un principio che é la diretta conseguenza del

precetto costituzionale dell'art. 38, u.c., Cost., il quale, affermando la libertà dell'assistenza privata e conformando

l'intero sistema costituzionale dell'assistenza ai principi pluralistici, sancisce il diritto dei privati di istituire

liberamente enti di assistenza e, conseguenzialmente, quello di vedersi riconosciuta, per tali enti, una

qualificazione giuridica conforme alla propria effettiva natura.

Per effetto della Costituzione, si é perciò già realizzata un'inversione di tendenza, nel senso del superamento del

principio di pubblicizzazione generalizzata per realizzare quel sistema di <pluralismo delle istituzioni in relazione

alla possibilità di pluralismo nelle istituzioni>, auspicato dalla già richiamata sentenza n. 173 del 1981, che le

interpretazioni e le prassi applicative prima ricordate, hanno puntualmente colto.

Ciò basta per esimere questa Corte dal dover dichiarare l'illegittimità costituzionale della norma impugnata con

riferimento alle nuove istituzioni di assistenza, relativamente alle quali, in base all'indicata inversione di tendenza,

é già possibile il loro riconoscimento come enti privati.

Per le istituzioni preesistenti, invece, la cui pubblicizzazione non sia aderente alle caratteristiche dell'ente, la loro

riprivatizzazione, garantita dall'art. 38, u.c., Cost. é possibile solo a seguito della dichiarazione di illegittimità della

norma denunciata, che afferma l'opposto principio.

8.-La Corte non può comunque non sottolineare come, nonostante il lungo tempo trascorso, sia rimasto

irrealizzato l'auspicio che, nella già richiamata sentenza n. 173 del 1981, era stato formulato, sia pure in forma

indiretta, circa l'esigenza di un intervento legislativo di carattere generale che prendesse atto del superamento del

regime della legge n. 6972 del 1890. Di un intervento cioé che avrebbe dovuto riconsiderare i principi

fondamentali che avevano ispirato, all'epoca, il regime di pubblicizzazione generalizzato nel campo della

assistenza e riflettere sulla pluralità di forme e di modi in cui l'attività assistenziale viene prestata, differenze

queste che non erano state prese in considerazione dalla legge Crispi che aveva perseguito l'opposto disegno.

Essendo mancato fino ad oggi un intervento organico, non può ulteriormente rimanere disattesa l'esigenza di

adeguamento del sistema al principio costituzionale di libertà dell'assistenza privata. Nè potrebbe costituire

remora alla realizzazione di tale esigenza la considerazione della mancanza di una espressa disciplina alternativa

che, per effetto della dichiarazione di illegittimità costituzionale, possa consentire in concreto il rientro delle

istituzioni preesistenti, che ne presentino i requisiti, nella categoria dei soggetti privati, cui per loro natura

sarebbero fin dalle origini dovute appartenere, ove non fosse diversamente stato imposto dalla pubblicizzazione

generalizzatrice della legge del 1890.

Al riguardo sembra sufficiente considerare che, anche in mancanza di una apposita normativa che disciplini le

ipotesi ed i procedimenti per l'accertamento della natura privata delle I.P.A.B., la possibilita di realizzare in

concreto le finalità auspicate dall'ordinanza di rimessione sarebbero offerte, non solo perseguendo la via

dell'accertamento giudiziale, come nel caso oggetto del giudizio a quo, ma anche la via della trasformazione in via

amministrativa, sulla base dell'esercizio dei poteri di cui sono titolari sia l'amministrazione statale che quella

regionale in tema di riconoscimento, trasformazione ed estinzione delle persone giuridiche private.

Al riguardo potrebbe costituire utile punto di riferimento, in quanto esprime principi generali insiti

nell'ordinamento, l'art. 17 del d.P.R. 19 giugno 1979 n. 348 (recante norme di attuazione dello Statuto speciale

per la Sardegna) il quale indica una serie di caratteristiche e di presupposti come idonei a consentire la

20

trasformazione in persone giuridiche private, di enti già in precedenza appartenenti alla categoria delle IPAB,

sottraendoli così alla soppressione prevista per le istituzioni aventi natura di enti pubblici veri e propri.

Altro esempio normativo da assumere in proposito come punto di riferimento, in quanto anche esso espressione

di principi generali, può essere considerato l'art. 30 della legge regionale siciliana n. 22 del 1986 il quale prevede

che <le istituzioni in atto qualificate quali IPAB per atto positivo di riconoscimento o per possesso di Stato, che,

avuto riguardo alle disposizioni della legge fondamentale sulle opere pie 17 luglio 1890 n. 6972 e successive

modifiche, agli atti di fondazione ed agli statuti delle istituzioni medesime, nonchè ai criteri selettivi da

determinare con le procedure di cui al successivo comma, per prevalenza di elementi essenziali sono classificabili

quali enti privati, sono incluse dal Presidente della Regione, su proposta dell'Assessore regionale per gli enti

locali, in apposito elenco ai fini del riconoscimento ai sensi dell'art. 12 del Codice civile>.

Gli esempi normativi richiamati, a parte le indicazioni procedimentali, che potrebbero valere solo per le Regioni

cui esse si riferiscono, costituiscono per il resto un significativo superamento della legge n. 6972 del 1890, con

l'indicazione di principi e criteri che, ove dovesse ancora mancare una apposita normativa che disciplini

compiutamente la materia dell'assistenza, in conformità ai principi costituzionali, possono essere considerati utili

punti di riferimento, per far conseguire nelle competenti sedi giudiziarie o amministrative, la qualificazione

privatistica a quelle IPAB che dovessero mostrarsi interessate a tale diverso riconoscimento, fino ad oggi

impedito dalla vigenza della norma di cui viene dichiarata l'illegittimità costituzionale.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 1 della legge 17 luglio 1890 n. 6972 (<Norme sulle istituzioni

pubbliche di assistenza e beneficenza>) nella parte in cui non prevede che le IPAB regionali e infraregionali

possano continuare a sussistere assumendo la personalità giuridica di diritto privato, qualora abbiano tuttora i

requisiti di un'istituzione privata.

3. TECKAL, IL MONDO DELL’IN HOUSE: Corte di Giustizia, sentenza del 18

novembre 1999, 107/98

Nell'ambito del procedimento ex art. 177 del Trattato (divenuto art. 234 CE), spetta alla Corte, di fronte a questioni formulate in modo impreciso, trarre dal complesso dei dati forniti dal giudice nazionale e dal fascicolo della causa principale i punti di diritto comunitario che vanno interpretati, tenuto conto dell'oggetto della lite. Per fornire una soluzione utile al giudice che le ha sottoposto una questione pregiudiziale, la Corte può essere indotta a prendere in considerazione norme di diritto comunitario alle quali il giudice nazionale non ha fatto riferimento nel formulare la questione. Nella ripartizione dei compiti stabilita dal suddetto articolo, spetta invece al giudice nazionale applicare al caso concreto le norme di diritto comunitario come interpretate dalla Corte. Infatti una siffatta applicazione non può essere effettuata senza una valutazione dei fatti di causa nel loro complesso. La direttiva 93/36, che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture, è applicabile ove un'amministrazione aggiudicatrice, quale un ente locale, decida di stipulare per iscritto, con un ente distinto da essa sul piano formale e autonomo rispetto ad essa sul piano decisionale - ipotesi che non ricorre nel caso in cui, nel contempo, l'ente locale eserciti sulla persona da esso giuridicamente distinta un controllo analogo a quello che esso esercita sui propri servizi e questa persona realizzi la parte più importante della propria attività con l'ente o con gli enti locali che la controllano -, un contratto a titolo oneroso avente ad oggetto la fornitura di prodotti, indipendentemente dal fatto che tale ultimo ente sia a sua volta un'amministrazione aggiudicatrice o meno. Infatti, le sole eccezioni consentite all'applicazione della direttiva 93/36 sono quelle in essa limitativamente ed esplicitamente indicate. Ora, tale direttiva non contiene alcuna disposizione analoga all'art. 6 della direttiva 92/50, che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di servizi, la quale escluda dal suo ambito di applicazione appalti pubblici aggiudicati, a talune condizioni, ad amministrazioni aggiudicatrici.

21

1 Con ordinanza 10 marzo 1998, pervenuta in cancelleria il 14 aprile successivo, il Tribunale amministrativo

regionale per l'Emilia-Romagna ha sottoposto a questa Corte, ai sensi dell'art. 177 del Trattato CE (divenuto art.

234 CE), una questione pregiudiziale relativa all'interpretazione dell'art. 6 della direttiva del Consiglio 18

giugno 1992, 92/50/CEE, che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di servizi

(GU L 209, pag. 1).

2 Tale questione è stata proposta nell'ambito di una controversia che vede la Teckal Srl (in prosieguo: la

«Teckal») contrapposta al comune di Viano e all'Azienda Gas-Acqua Consorziale (AGAC) di Reggio Emilia (in

prosieguo: l'«AGAC») in ordine all'aggiudicazione, da parte di tale comune, della gestione del servizio di

riscaldamento di taluni edifici comunali.

La normativa comunitaria

3 L'art. 1, lett. a) e b), della direttiva 92/50 dispone:

«Ai fini della presente direttiva s'intendono per:

a) "appalti pubblici di servizi", i contratti a titolo oneroso stipulati in forma scritta tra un prestatore di servizi ed

un'amministrazione aggiudicatrice (...)

b) "amministrazioni aggiudicatrici", lo Stato, gli enti locali, gli organismi di diritto pubblico, le associazioni

costituite da detti enti od organismi di diritto pubblico.

(...)».

4 L'art. 2 della direttiva 92/50 precisa:

«Se un appalto pubblico ha per oggetto sia dei prodotti di cui alla direttiva 77/62/CEE che dei servizi di cui agli

allegati IA e IB della presente direttiva, esso rientra nel campo d'applicazione della presente direttiva qualora il

valore dei servizi in questione superi quello dei prodotti previsti dal contratto».

5 Ai sensi dell'art. 6 della direttiva 92/50:

«La presente direttiva non si applica agli appalti pubblici di servizi aggiudicati ad un ente che sia esso stesso

un'amministrazione ai sensi dell'articolo 1, lettera b), in base a un diritto esclusivo di cui beneficia in virtù delle

disposizioni legislative, regolamentari od amministrative pubblicate, purché tali disposizioni siano compatibili con

il trattato».

6 La direttiva del Consiglio 14 giugno 1993, 93/36/CEE, che coordina le procedure di aggiudicazione degli

appalti pubblici di forniture (GU L 199, pag. 1), ha abrogato la direttiva del Consiglio 21 dicembre 1976,

77/62/CEE, che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture (GU 1977, L 13, pag.

1). I riferimenti fatti alla direttiva abrogata si considerano, ai sensi dell'art. 33 della direttiva 93/36, come fatti a

quest'ultima.

7 L'art. 1, lett. a) e b), della direttiva 93/36 dispone:

«Ai fini della presente direttiva si intendono per:

a) "appalti pubblici di forniture", i contratti a titolo oneroso, aventi per oggetto l'acquisto, il leasing, la locazione,

l'acquisto a riscatto con o senza opzione per l'acquisto di prodotti, conclusi per iscritto fra un fornitore (persona

fisica o giuridica) e una delle amministrazioni aggiudicatrici definite alla lettera b). La fornitura di tali prodotti può

comportare, a titolo accessorio, lavori di posa e installazione;

b) "amministrazioni aggiudicatrici", lo Stato, gli enti locali, gli organismi di diritto pubblico, le associazioni

costituite da detti enti od organismi di diritto pubblico(...)».

La normativa nazionale

8 L'art. 22, n. 1, della legge italiana 8 giugno 1990, n. 142, sull'ordinamento delle autonomie locali (GURI n. 135

del 12 giugno 1990; in prosieguo: la «legge n. 142/90»), stabilisce che i comuni provvedono alla gestione dei

servizi pubblici che abbiano per oggetto la produzione di beni e le attività rivolte a realizzare fini sociali e a

promuovere lo sviluppo economico e civile delle comunità locali.

9 Ai sensi dell'art. 22, n. 3, della legge n. 142/90, i comuni possono fornire tali servizi in economia, in

concessione a terzi, a mezzo di azienda speciale, istituzione o società per azioni a prevalente capitale pubblico

locale.

10 L'art. 23 della legge n. 142/90, che definisce le aziende speciali e le istituzioni, dispone che:

22

«1. L'azienda speciale è ente strumentale dell'ente locale dotato di personalità giuridica, di autonomia

imprenditoriale e di proprio statuto, approvato dal consiglio comunale o provinciale.

(...)

3. Organi dell'azienda e dell'istituzione sono il consiglio di amministrazione, il presidente e il direttore, al quale

compete la responsabilità gestionale. Le modalità di nomina e di revoca degli amministratori sono stabilite dallo

statuto dell'ente locale.

4. L'azienda e l'istituzione informano la loro attività a criteri di efficacia, efficienza ed economicità ed hanno

l'obbligo del pareggio di bilancio da perseguire attraverso l'equilibrio dei costi e dei ricavi, compresi i

trasferimenti.

(...)

6. L'ente locale conferisce il capitale di dotazione; determina le finalità e gli indirizzi; approva gli atti

fondamentali; esercita la vigilanza; verifica i risultati della gestione; provvede alla copertura degli eventuali costi

sociali.

(...)».

11 Ai sensi dell'art. 25 della legge n. 142/90, i comuni e le province, per la gestione associata di uno o più servizi,

possono costituire un consorzio secondo le norme previste per le aziende speciali di cui all'art. 23. A tal fine i

rispettivi consigli comunali approvano, a maggioranza assoluta dei componenti, una convenzione unitamente allo

statuto del consorzio. L'assemblea del consorzio è composta dai rappresentanti degli enti associati, nella persona

del sindaco, del presidente o di un loro delegato. L'assemblea elegge il consiglio di amministrazione e ne approva

gli atti fondamentali previsti dallo statuto.

12 L'AGAC è un consorzio costituito da diversi comuni - tra i quali quello di Viano - per la gestione dei servizi

dell'energia e dell'ambiente, ai sensi dell'art. 25 della legge n. 142/90. In forza dell'art. 1 del proprio statuto (in

prosieguo: lo «statuto»), essa è dotata di personalità giuridica e autonomia imprenditoriale. L'art. 3, n. 1, dello

statuto prevede che essa ha come scopo l'assunzione diretta e la gestione di taluni servizi pubblici elencati, tra i

quali «gas metano per usi civili e produttivi; calore per usi civili e produttivi; attività connesse e accessorie ai

servizi sopra indicati».

13 Ai sensi dell'art. 3, nn. 2-4, dello statuto, l'AGAC può estendere le sue attività ad altri servizi connessi o

accessori, partecipare ad enti e/o a società a capitale pubblico o privato per la gestione di attività connesse e

accessorie, e infine svolgere servizi o provvedere a forniture nei confronti di privati o enti pubblici diversi dai

comuni consorziati.

14 Ai sensi degli artt. 12 e 13 dello statuto, gli atti di gestione più importanti, tra i quali i bilanci preventivi e i

consuntivi, sono approvati dall'assemblea dell'AGAC, composta da rappresentanti dei comuni. Gli altri organi

direttivi sono il consiglio, il presidente del consiglio e il direttore generale. Questi ultimi non rispondono della

loro gestione dinanzi ai comuni. Le persone fisiche che compongono tali organi non rivestono cariche nei

comuni consorziati.

15 L'art. 25 dello statuto sancisce per l'AGAC l'obbligo del pareggio di bilancio e quello dell'economicità

gestionale. In applicazione dell'art. 27 dello statuto, i comuni conferiscono fondi o beni all'AGAC, che versa loro

interessi annui. L'art. 28 dello statuto prevede che gli eventuali utili di esercizio siano ripartiti tra i comuni

consorziati, conservati dall'AGAC per incrementare i fondi di riserva o anche reinvestiti in altre attività

dell'AGAC. A norma dell'art. 29 dello statuto, nel caso di perdita di esercizio, si può procedere al risanamento

della situazione finanziaria, in particolare, attraverso il conferimento di nuovi capitali da parte dei comuni

consorziati.

16 L'art. 35 dello statuto prevede una procedura di arbitrato per la composizione delle controverse tra i comuni

consorziati o tra questi ultimi e l'AGAC.

La controversia nella causa principale

17 Con la sua deliberazione 24 maggio 1997, n. 18 (in prosieguo: la «delibera»), il consiglio comunale di Viano ha

affidato all'AGAC la gestione del servizio di riscaldamento di taluni edifici comunali. Tale delibera non è stata

preceduta da alcuna procedura di gara.

(omissis)

23

41 Al fine di determinare se, per un ente locale, il fatto di affidare la fornitura di prodotti ad un

consorzio al quale esso partecipi debba dar luogo a una procedura di gara prevista dalla direttiva 93/36,

occorre esaminare se tale aggiudicazione costituisca un appalto pubblico di forniture.

42 In caso affermativo e se l'importo stimato dell'appalto, al netto dell'imposta sul valore aggiunto, è pari o

superiore a 200 000 ECU, la direttiva 93/36 è applicabile. Non è determinante al riguardo il fatto che il fornitore

sia o non sia un'amministrazione aggiudicatrice.

43 Infatti, si deve ricordare che le uniche deroghe consentite all'applicazione della direttiva 93/36 sono quelle in

essa tassativamente ed espressamente menzionate (v., in ordine alla direttiva 77/62, sentenza 17 novembre 1993,

causa C-71/92, Commissione/Spagna, Racc. pag. I-5923, punto 10).

44 Ora, la direttiva 93/36 non contiene alcuna disposizione analoga all'art. 6 della direttiva 92/50, che escluda dal

suo ambito di applicazione appalti pubblici aggiudicati, a talune condizioni, ad amministrazioni aggiudicatrici.

(omissis)

48 E' pacifico nella fattispecie che l'AGAC fornisce prodotti, ossia combustibili, al comune di Viano dietro

pagamento di un corrispettivo.

49 Relativamente all'esistenza di un contratto, il giudice nazionale deve verificare se vi sia stato un incontro di

volontà tra due persone distinte.

A questo proposito, conformemente all'art. 1, lett. a), della direttiva 93/36, basta, in linea di principio, che il

contratto sia stato stipulato, da una parte, da un ente locale e, dall'altra, da una persona giuridicamente distinta da

quest'ultimo. Può avvenire diversamente solo nel caso in cui, nel contempo, l'ente locale eserciti sulla persona di

cui trattasi un controllo analogo a quello da esso esercitato sui propri servizi e questa persona realizzi la parte più

importante della propria attività con l'ente o con gli enti locali che la controllano.

51 Occorre pertanto risolvere la questione pregiudiziale nel senso che la direttiva 93/36 è applicabile ove

un'amministrazione aggiudicatrice, quale un ente locale, decida di stipulare per iscritto, con un ente distinto da

essa sul piano formale e autonomo rispetto ad essa sul piano decisionale, un contratto a titolo oneroso avente ad

oggetto la fornitura di prodotti, indipendentemente dal fatto che tale ultimo ente sia a sua volta

un'amministrazione aggiudicatrice o meno.

(omissis)

Dispositivo

(omissis)

La direttiva del Consiglio 14 giugno 1993, 93/36/CEE, che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti

pubblici di forniture, è applicabile ove un'amministrazione aggiudicatrice, quale un ente locale, decida di stipulare

per iscritto, con un ente distinto da essa sul piano formale e autonomo rispetto ad essa sul piano decisionale, un

contratto a titolo oneroso avente ad oggetto la fornitura di prodotti, indipendentemente dal fatto che tale ultimo

ente sia a sua volta un'amministrazione aggiudicatrice o meno.

4. LO STRANO CASO DELLA RAI: Corte di Cassazione, Sezioni Unite, ordinanza n.

27092 del 2009

Compete al giudice contabile la giurisdizione in ordine alle azioni di responsabilità amministrativa esercitate per ottenere il risarcimento dei danni che si assume essere stati cagionati alla s.p.a. RAI - Radiotelevisione italiana da componenti del suo consiglio di amministrazione e da dipendenti della stessa società e degli enti pubblici azionisti, in seguito alla nomina del direttore generale e alla conclusione di contratti attinenti al trattamento economico del direttore generale e degli ex direttori generali; Compete al giudice ordinario la giurisdizione in ordine alle azioni esercitate per ottenere la dichiarazione della nullità da cui si assume essere affetti i contratti conclusi dalla s.p.a. RAI - Radiotelevisione italiana, attinenti al trattamento economico del direttori generale o degli ex direttori generali; deve dunque essere dichiarata la giurisdizione del giudice contabile in ordine alle azioni di responsabilità e del giudice ordinario in ordine alle azioni di nullità.

24

DIRITTO

che:

(omissis)

con le relative ordinanze è stata dichiarata la giurisdizione del giudice ordinario, per ragioni riguardanti la

generalità di tali società, ma espressamente facendo "salva la specificità di singole società a partecipazione

pubblica il cui statuto sia soggetto a regole legali sui generis, come nel caso della RAI";

per quest'ultima, in effetti, la decisione deve essere diversa, data la natura sostanziale di ente assimilabile a una

amministrazione pubblica che le va riconosciuta, nonostante l'abito formale che riveste di società per azioni

(peraltro partecipata totalitariamente da enti pubblici: lo Stato per il 99.55% e la S.I.A.E. - Società italiana degli

autori ed editori per il residuo 0, 45%); ne discende la qualificabilità come erariale del danno cagionatole dai suoi

agenti, nonché da quelli degli enti pubblici azionisti, con conseguente loro assoggettabilità all'azione di

responsabilità amministrativa davanti al giudice contabile;

lo si desume dai peculiari caratteri del regime della RAI, la quale:

- è designata direttamente dalla legge quale concessionaria dell'essenziale servizio pubblico

radiotelevisivo, svolto nell'interesse generale della collettività nazionale per assicurare il pluralismo, la

democraticità e l'imparzialità dell'informazione;

- è sottoposta, per la verifica della correttezza dell'esercizio di tale funzione, a penetranti poteri di

vigilanza da parte di un'apposita commissione parlamentare, espressione dello Stato- comunità;

- è destinataria, per coprire i costi del servizio, di un canone di abbonamento, avente natura di imposta

e gravante su tutti i detentori di apparecchi di ricezione di trasmissioni radiofoniche e televisive, che è riscosso e

le viene versato dall'Agenzia delle Entrate;

- è compresa tra gli enti cui lo Stato contribuisce in via ordinaria, sottoposti pertanto al controllo della

Corte dei Conti;

- è tenuta all'osservanza delle procedure di evidenza pubblica nell'affidamento di appalti, in quanto

"organismo di diritto pubblico" ai sensi della normativa comunitaria in materia;

queste particolarità - già evidenziate dalla giurisprudenza di legittimità, sia pure ai limitati fini che in quella sede

venivano in considerazione: Cass. 23 aprile 2008 n. 10443 - concordemente e univocamente depongono nel

senso dell'inclusione della RAI nel novero degli enti pubblici;

a fronte di ciò, risultano ininfluenti le argomentazioni svolte dai ricorrenti, nella parte in cui negano l'esperibilità

dell'azione di responsabilità amministrativa nei confronti degli amministratori e dei dipendenti della generalità

delle società in mano pubblica, nel cui ambito la RAI nettamente si differenzia;

quanto poi alle deduzioni che ad essa specificamente sono riferibili, va osservato:

- la L. 14 gennaio 1994, n. 20, art. 1, ha ampliato l'ambito della giurisdizione contabile, comprendendovi la

responsabilità per danno erariale degli amministratori e dipendenti di tutti gli enti pubblici, anche "economici"

(Cass. 22 dicembre 2003 n. 19667, cui si è costantemente uniformata la successiva giurisprudenza di questa

Corte); non difetta dunque il requisito della interpositio legislatoris;

- i dubbi circa la legittimità costituzionale della norma così interpretata, formulati dai ricorrenti, sono per un

verso irrilevanti, in quanto attengono in genere alle società "partecipate", per altro verso manifestamente

infondati, con riguardo agli enti pubblici anche economici, ai quali va equiparata la RAI, poiché la disposizione di

cui si tratta ha esteso la giurisdizione della Corte dei conti non già a indistinti "blocchi di materie", nel senso

precisato da Corte cost. 6 luglio 2004 n. 204 e 11 maggio 2006 n. 191, bensì ad attività già potenzialmente

comprese nella previsione dell'art. 103 Cost., perché riferibili alla pubblica amministrazione e pregiudizievoli per

le sue finanze, anche se svolte in campo economico con gli strumenti del diritto privato;

- i giudizi per i quali è stato chiesto il regolamento di giurisdizione hanno per oggetto atti riguardanti la nomina e

il trattamento economico del direttore generale della RAI, il quale è preposto alla complessiva sua gestione,

organizzazione e funzionamento, con competenze che si estendono a tutto il campo di operatività della società,

senza alcuna esclusione per l'esercizio del servizio pubblico generale radiotelevisivo; non è dunque pertinente

25

l'assunto dei ricorrenti, secondo cui nella RAI sarebbero presenti "due anime", corrispondi ai distinti settori in cui

essa agisce (il servizio pubblico espletato in concessione, finanziato esclusivamente mediante il canone di

abbonamento; l'attività imprenditoriale svolta nel libero mercato radiotelevisivo, finanziata esclusivamente

mediante gli introiti pubblicitari); ne' conseguentemente ostano all'affermazione della giurisdizione della Corte dei

conti, per i giudizi qui in considerazione, le obiezioni relative all'alterazione della concorrenza che in tale mercato

ne deriverebbe, con violazione anche delle regole comunitarie, a causa dell'aggravamento della responsabilità

degli amministratori e dei dipendenti della RAI, rispetto a quelli delle altre imprese radiotelevisive, anche sotto il

profilo del rischio di un'estensione del sindacato giurisdizionale a scelte ispirate a criteri necessariamente diversi

dai canoni da osservare nella gestione del denaro pubblico;

- neppure rileva che il pagamento della sanzione pecuniaria, inflitta alla RAI dall'AGCOM - Autorità per le

garanzie nelle comunicazioni a causa dell'illegittimità della nomina di Alfredo Meocci come componente del

consiglio di amministrazione della società, non sia stato imputato al bilancio della gestione del servizio pubblico,

ma a quello dell'attività commerciale; la circostanza attiene semmai alla sussistenza in concreto di un danno

erariale e quindi al merito della causa, sicché non incide sulla questione di giurisdizione; ma d'altra parte l'importo

della sanzione è soltanto una delle numerose voci del danno di cui sono stati chiamati a rispondere i convenuti,

consistente anche nei compensi erogati a professionisti esterni, per consulenze e pareri sulla validità di quella

nomina, oltre che per la difesa nel giudizio di opposizione al provvedimento irrogativo della sanzione,

nell'aumento del suo ammontare, conseguente al ritardo con cui è stata pagata, nel deterioramento dell'immagine

della società, nei trattamenti economici accordati in via transattiva agli ex direttori generali;

- la previsione legislativa della possibilità di promuovere confronti dei componenti del consiglio di

amministrazione della RAI l'ordinaria azione civilistica di responsabilità (peraltro con il vincolo di una previa

deliberazione conforme della commissione di vigilanza) non implica l'esclusione dell'esperibilità dell'azione di

responsabilità amministrativa davanti al giudice contabile; l'avere entrambe per oggetto il medesimo danno

(peraltro con i limiti che per la seconda derivano dalla diversità dei presupposti e delle conseguenze,

relativamente all'elemento soggettivo, alla solo eccezionale trasmissibilità agli eredi, alla facoltà di riduzione del

quantum) non osta alla loro coesistenza, ne' comporta i rischi di duplicazione del risarcimento prospettati dai

ricorrenti, poiché la giurisdizione civile e quella contabile sono reciprocamente indipendenti nei loro profili

istituzionali, sicché il rapporto tra le due azioni si pone in termini di alternatività anziché di esclusività, dando

luogo a questioni non di giurisdizione, ma di proponibilità della domanda (Cass. 24 marzo 2006 n. 6581);

- il carattere privatistico del rapporto di lavoro subordinato che lega Rubens Esposito alla RAI non lo esenta

dalla giurisdizione contabile, la quale si estende alla responsabilità sia degli amministratori sia dei dipendenti degli

enti pubblici;

- a proposito delle domande intese ad ottenere la dichiarazione di nullità dei negozi intercorsi tra la RAI e

Alfredo Meocci o altri suoi ex direttori generali, il Procuratore regionale presso la sezione giurisdizionale per il

Lazio della Corte dei conti ha sostenuto la tesi della sussistenza della giurisdizione del giudice contabile in base

alla L. 23 dicembre 2005, n. 266, art. 1, comma 174, nel presupposto che riguardi tutte le azioni dirette, come

nella specie, a eliminare la fonte di un danno erariale ed evitare che si aggravi;

l'assunto non è fondato, poiché la disposizione citata abilita il procuratore regionale esclusivamente a esercitare

"tutte le azioni a tutela delle ragioni del creditore previste dalla procedura civile, ivi compresi i mezzi di

conservazione della garanzia patrimoniale di cui al libro 6^, titolo 2^, capo 5^, codice civile"; le azioni di nullità

contrattuale esulano dunque dalle previsioni della norma, nè d'altra parte alla Corte dei conti in sede

giurisdizionale è affidato il compito di prevenire danni erariali non ancora prodotti, insieme con quello di

procurare il ristoro di pregiudizi già verificatisi; i principi da enunciare sono dunque:

- "Compete al giudice contabile la giurisdizione in ordine alle azioni di responsabilità amministrativa

esercitate per ottenere il risarcimento dei danni che si assume essere stati cagionati alla s.p.a. RAI -

Radiotelevisione italiana da componenti del suo consiglio di amministrazione e da dipendenti della

stessa società e degli enti pubblici azionisti, in seguito alla nomina del direttore generale e alla

conclusione di contratti attinenti al trattamento economico del direttore generale e degli ex direttori

generali";

26

- "Compete al giudice ordinario la giurisdizione in ordine alle azioni esercitate per ottenere la

dichiarazione della nullità da cui si assume essere affetti i contratti conclusi dalla s.p.a. RAI -

Radiotelevisione italiana, attinenti al trattamento economico del direttori generale o degli ex direttori

generali";

deve dunque essere dichiarata la giurisdizione del giudice contabile in ordine alle azioni di

responsabilità e del giudice ordinario in ordine alle azioni di nullità;

5. LA RESPONSABILITÀ PER MALA GESTIO DELLE SOCIETÀ

PUBBLICHE NON IN HOUSE NON È ERARIALE: Corte di Cassazione,

Sezioni Unite, sentenza del 19 dicembre 2009, n. 26806

Con la sentenza 26806/2009, modificando il precedente orientamento in materia, la Corte di Cassazione a Sezioni Unite ha stabilito che va affermata la giurisdizione della Corte dei Conti solo ed esclusivamente in relazione ai danni che l’ente pubblico abbia subito direttamente per effetto dei comportamenti illegittimi degli organi societari, restando, al contrario, preclusa nell’ipotesi in cui i predetti danni si siano prodotti nei confronti della società partecipata (c.d. danno al patrimonio societario) e, solo in via mediata, nei confronti dell’ente socio.

Il problema che si pone è quello relativo alla questione se agli amministratori e dipendenti di una s.p.a.

cosiddetta "in mano pubblica" si applichino le norme di diritto societario o se dalla presenza di capitali

pubblici consegua invece l'assoggettamento di questi soggetti alle norme proprie della responsabilità

amministrativa, con la conseguente giurisdizione della Corte dei Conti.

Il problema non è quello di definire se, come e quando una s.p.a. "pubblica" risponda, come persona giuridica

per danno erariale ad una P.A., ma si tratta di stabilire sulla base di quale statuto gli amministratori o i

dipendenti di una s, p.a. "pubblica" rispondano dei danni ad essa direttamente prodotti ed

indirettamente riflessi sulla p.a., in quanto titolare della partecipazione azionaria. La differenza è

rilevante, se si considera che nel primo caso la s.p.a. "pubblica" è il soggetto responsabile del danno

che deve risarcire con il proprio patrimonio sociale, nel secondo caso essa diviene il soggetto

danneggiato il cui patrimonio deve essere reintegrato.

Vanno, quindi, fissati alcuni principi generali.

3.1. Com'è noto, il limite esterno della giurisdizione della Corte dei conti, sul quale le sezioni unite della Corte di

cassazione sono chiamate a pronunciarsi, ha rilevanza costituzionale: discende dal disposto dell'art. 103 Cost.,

comma 2, a tenore del quale "la Corte dei conti ha giurisdizione nelle materie di contabilità pubblica e nelle altre

specificate dalla legge".

Al di fuori delle materie di contabilità pubblica, e quindi anche in tema di responsabilità, occorre dunque che la

giurisdizione della Corte dei conti abbia il suo fondamento in una specifica disposizione di legge.

In termini generali, il contenuto ed i limiti della giurisdizione della Corte dei conti in tema di responsabilità

trovano la loro base normativa nella previsione del R.D. 12 luglio 1934, n. 1214, art. 13, secondo cui la corte

giudica sulla responsabilità per danni arrecati all'erario da pubblici funzionari nell'esercizio delle loro funzioni.

Tali limiti sono stati successivamente ampliati della L. 14 gennaio 1994, n. 20, art. 1, comma 4, che ha esteso il

giudizio della Corte dei conti alla responsabilità di amministratori e dipendenti pubblici anche per danni cagionati

ad amministrazioni o enti pubblici diversi da quelli di appartenenza. La giurisdizione di detta corte non è quindi

circoscritta alla sola ipotesi di responsabilità contrattuale dell'agente, ma può esplicarsi anche in caso di

responsabilità aquiliana.

3.2. In passato i limiti esterni della giurisdizione della Corte dei conti, al pari di quella del giudice amministrativo,

erano però (relativamente) più agevoli da tracciare: la più netta distinzione tra l'area del pubblico e quella del

27

privato, la normale corrispondenza tra la natura pubblica dell'attività svolta dall'agente ed il suo organico

inserimento nei ranghi della pubblica amministrazione, la conseguente più agevole demarcazione di confini tra

l'agire dell'amministrazione in forza della potestà pubblica ad essa spettante e per le finalità tipicamente a questa

connesse ed il suo agire invece iure privatorum: erano tutti elementi che facilitavano anche l'individuazione dei

limiti esterni della giurisdizione in esame.

La più recente evoluzione dell'ordinamento ha reso ora questi confini assai meno chiari, da un lato incanalando

sovente le finalità della pubblica amministrazione in ambiti tipicamente privatistici, dall'altro affidando con

maggiore frequenza a soggetti privati la realizzazione di finalità una volta ritenute di pertinenza esclusiva degli

organi pubblici.

In quest'ottica anche le sezioni unite della Cassazione, per evitare il rischio di un sostanziale svuotamento - o

almeno di un grave indebolimento - della giurisdizione della corte contabile in punto di responsabilità, ha teso a

privilegiare un approccio più "sostanzialistico", sostituendo ad un criterio eminentemente soggettivo, che

identificava l'elemento fondante della giurisdizione della Corte dei conti nella condizione giuridica pubblica

dell'agente, un criterio oggettivo che fa leva sulla natura pubblica delle funzioni espletate e delle risorse

finanziarie a tal fine adoperate.

Si è perciò affermato che, quando si discute del riparto della giurisdizione tra Corte dei conti e giudice

ordinario, occorre aver riguardo al rapporto di servizio tra l'agente e la pubblica amministrazione, ma

che per tale può intendersi anche una relazione con la pubblica amministrazione caratterizzata dal fatto

di investire un soggetto, altrimenti estraneo all'amministrazione medesima, del compito di porre in

essere in sua vece un'attività, senza che rilevi nè la natura giuridica dell'atto di investitura -

provvedimento, convenzione o contratto - ne' quella del soggetto che la riceve, sia essa una persona

giuridica o fisica, privata o pubblica (Sez. un. 3 luglio 2009, n. 15599; 31 gennaio 2008, n. 2289; 22 febbraio

2007, n. 4112; 20 ottobre 2006, n. 22513; 5 giugno 2000, n. 400; Sez. un., 30 marzo 1990, n. 2611, ed altre

conformi).

L'affidamento da parte di un ente pubblico ad un soggetto esterno, da esso controllato, della gestione

di un servizio pubblico integra quindi una relazione funzionale incentrata sull'inserimento del soggetto

medesimo nell'organizzazione funzionale dell'ente pubblico e ne implica, conseguentemente,

l'assoggettamento alla giurisdizione della Corte dei conti per danno erariale, a prescindere dalla natura

privatistica dello stesso soggetto e dello strumento contrattuale con il quale si sia costituito ed attuato il

rapporto (Sez. un. 27 settembre 2006, n. 20886; 1 aprile 2008, n. 8409; 1 marzo 2006, n. 4511; 19 febbraio 2004,

2004, n. 3351), anche se l'estraneo venga investito solo di fatto dello svolgimento di una data attività in

favore della pubblica amministrazione (Sez. un. 9 settembre 2008, n. 22652) ed anche se difetti una

gestione del danaro secondo moduli contabili di tipo pubblico o secondo procedure di rendicontazione

proprie della giurisdizione contabile in senso stretto (Sez. un. 12 ottobre 2004, n. 20132). Lo stesso dicasi

per l'accertamento della responsabilità erariale conseguente all'illecito o indebito utilizzo, da parte di una società

privata, di finanziamenti pubblici (Sez. un. 5 giugno 2008, n. 14825, e Sez. un., n. 4511/06, cit.); o per la

responsabilità in cui può incorrere il concessionario privato di un pubblico servizio o di un'opera pubblica,

quando la concessione investe il privato dell'esercizio di funzioni obiettivamente pubbliche, attribuendogli la

qualifica di organo indiretto dell'amministrazione, onde egli agisce per le finalità proprie di quest'ultima (Sez. un.,

n. 4112/07, cit.). Nella medesima ottica, a partire dal 2003, le sezioni unite di questa l'hanno ritenuto spettare alla

Corte dei conti, dopo l'entrata in vigore della L. n. 20 del 1994, art. 1, u.c., la giurisdizione sulle controversie

aventi ad oggetto la responsabilità di privati funzionar di enti pubblici economici (quali, ad esempio, i consorzi

per la gestione di opere) anche per i danni conseguenti allo svolgimento dell'ordinaria attività imprenditoriale e

non soltanto per quelli cagionati nell'espletamento di funzioni pubbliche o comunque di poteri pubblicistici (Sez.

un., 22 dicembre 2003, n. 19667). Si è sottolineato che si esercita attività amministrativa non solo quando si

svolgono pubbliche funzioni e poteri autoritativi, ma anche quando, nei limiti consentiti

dall'ordinamento, si perseguono le finalità istituzionali proprie dell'amministrazione pubblica mediante

un'attività disciplinata in tutto o in parte dal diritto privato; con la conseguenza - si è precisato - che,

nell'attuale assetto normativo, il dato essenziale che radica la giurisdizione della corte contabile è

28

rappresentato dall'evento dannoso verificatosi a carico di una pubblica amministrazione e non più dal

quadro di riferimento - pubblico o privato - nel quale si colloca la condotta produttiva del danno (Sez.

un., 25 maggio 2005, n. 10973; 20 giugno 2006, n. 14101; 1 marzo 2006, n. 4511; Cass. 15 febbraio 2007, n.

3367).

3.3. Se quanto appena osservato vale certamente per gli enti pubblici economici, i quali restano nell'alveo della

pubblica amministrazione pur quando eventualmente operino imprenditorialmente con strumenti privatistici, è

da stabilire entro quali limiti alla medesima conclusione si debba pervenire anche nel diverso caso della

responsabilità di amministratori di società di diritto privato partecipate da un ente pubblico. Le quali

non perdono la loro natura di enti privati per il solo fatto che il loro capitale sia alimentato anche da

conferimenti provenienti dallo Stato o da altro ente pubblico.

Il codice civile dedica alla società per azioni a partecipazione pubblica solo alcune scarne disposizioni, oggi

contenute nell'art. 2449 (come modificato dalla L. 25 febbraio 2008, n. 34, art. 13, a seguito della pronuncia della

Corte giustizia delle Comunità europee, 6 dicembre 2007, n. 463/04), essendo stato il successivo art. 2450 ormai

abrogato dal D.L. 15 febbraio 2007, n. 10, art. 3, comma 1, convertito con modificazioni dalla L. 6 aprile 2007, n.

46. Ma siffatte residue disposizioni del codice non valgono a configurare uno statuto speciale per dette società

(spesso, viceversa, interessate da norme speciali, non sempre tra loro ben coordinate), salvo per i profili inerenti

alla nomina e revoca degli organi sociali, specificamente ivi contemplati, ne' comunque investono il tema della

responsabilità di detti organi, che resta quindi disciplinato dalle ordinarie norme previste dal codice civile a

questo riguardo, com'è confermato dalla immutata indicazione del comma 2 del citato art. 2449, a tenore del

quale anche i componenti degli organi amministrativi e di controllo di nomina pubblica "hanno i diritti e gli

obblighi dei membri nominati dall'assemblea". Nè pare dubbio che quest'ultimo principio valga anche per le

società a responsabilità limitata eventualmente partecipate da un ente pubblico, in difetto di qualsiasi specifica

disposizione del codice che se ne occupi. Se ne è desunto - anche alla luce di quanto espressamente indicato

nella relazione ("È lo Stato medesimo che si assoggetta alla legge delle società per azioni per assicurare alla

propria gestione maggiore snellezza di forme e nuove possibilità realizzatrici") - che la scelta della pubblica

amministrazione di acquisire partecipazioni in società private implica il suo assoggettamento alle

regole proprie della forma giuridica prescelta. Dall'identità dei diritti e degli obblighi facenti capo ai

componenti degli organi sociali di una società a partecipazione pubblica, pur quando direttamente designati dal

socio pubblico, logicamente perciò discende la responsabilità di detti organi nei confronti della società, dei soci,

dei creditori e dei terzi in genere, nei medesimi termini - contemplati dagli artt. 2392 c.c. e segg. - in cui tali

diverse possibili proiezioni della responsabilità sono configurabili per gli amministratori e per gli organi di

controllo di qualsivoglia altra società privata. 3.4. È innegabile, nondimeno, che si possano determinare dei

problemi quando il modello giuridico - formale prescelto entra in tensione con il fenomeno economico

sottostante, come non di rado accade proprio nel caso in cui lo Stato o altro ente pubblico assume una

partecipazione in una società per perseguire in tal modo finalità di rilevanza pubblica.

Ne è testimone, in certa misura, la sentenza delle sezioni unite 26 febbraio 2004, n. 3899, che, dopo aver ribadito

il principio per cui una società per azioni costituita con capitale maggioritario del comune in vista dello

svolgimento di un servizio pubblico ha una relazione funzionale con l'ente territoriale, caratterizzata

dall'inserimento della società medesima nell'iter procedimentale dell'ente locale e dal conseguente rapporto di

servizio venutosi così a determinare, ha riconosciuto la giurisdizione della Corte dei conti nelle controversie in

materia di responsabilità patrimoniale per danno erariale riguardanti gli amministratori ed i dipendenti di una

siffatta società. La portata di tale affermazione non risulta però del tutto univoca: perché nella medesima

sentenza si ha cura di specificare, per un verso, che l'elemento determinante della decisione era costituito, in quel

caso, dal rapporto di servizio intercorrente tra la società privata ed il comune (piuttosto che dal rapporto

partecipativo e dal conseguente investimento di risorse finanziarie pubbliche nel patrimonio della società privata)

e, per altro verso, che la questione se il danno subito dal comune partecipante alla società fosse diretto, o

meramente riflesso, rispetto a quello arrecato al patrimonio sociale, costituiva un profilo estraneo al giudizio sui

limiti della giurisdizione. Proprio quest'ultimo profilo sembra invece meritare un ulteriore approfondimento,

potendo assumere carattere decisivo ai fini che qui interesano.

29

3.5. In primo luogo, non sembra si possa prescindere dalla distinzione tra la posizione della società

partecipata, cui eventualmente fa capo il rapporto di servizio instaurato con la pubblica

amministrazione, e quella personale degli amministratori (nonché dei sindaci o degli organi di controllo

della stessa società): i quali, ovviamente, non s'identificano con la società, sicché nulla consente di riferire loro, sic

et simpliciter, il rapporto di servizio di cui la società medesima sia parte. Quanto appena osservato non vale però

a chiudere ogni possibile spazio alla giurisdizione della Corte dei conti in ordine ad eventuali comportamenti

illegittimi imputabili agli organi delle società a partecipazione pubblica, dai quali sia scaturito un danno per il

socio pubblico.

S'è già prima accennato vuoi alla possibilità che tale giurisdizione sia riferita anche ad ipotesi di responsabilità

aquiliana, vuoi alla possibilità che essa si configuri pure in difetto di una formale investitura pubblica dell'agente.

Entra allora in gioco un ulteriore importante elemento normativo, cui finora non si è fatto riferimento ma che

occorre adesso prendere in considerazione. Si allude alla disposizione della L. 28 febbraio 2008, n. 31, art. 16 bis,

(che ha convertito il D.L. 31 dicembre 2007, n. 248), così concepita: "Per le società con azioni quotate in mercati

regolamentati, con partecipazione anche indiretta dello Stato o di altre amministrazioni o di enti pubblici,

inferiore al 50 per cento, nonché per le loro controllate, la responsabilità degli amministratori e dei dipendenti è

regolata dalle norme del diritto civile e le relative controversie sono devolute esclusivamente alla giurisdizione del

giudice ordinario".

Tale norma, benché la sua applicazione ai giudizi in corso alla data di entrata in vigore della legge di conversione

sia espressamente esclusa, assume un evidente significato retrospettivo, nella misura in cui lascia chiaramente

intendere che, in ordine alla responsabilità di amministratori e dipendenti di società a partecipazione pubblica, vi

sia una naturale area di competenza giurisdizionale diversa da quella ordinaria.

Non si capirebbe, altrimenti, la ragione per la quale il legislatore ha inteso stabilire che, per l'avvenire (e

limitatamente alle società quotate, o loro controllate, con partecipazione pubblica inferiore al 50%), la

giurisdizione spetta invece in via esclusiva proprio al giudice ordinario.

Resta però da verificare entro quali limiti, al di fuori del ristretto campo d'applicazione della disposizione

da ultimo richiamata, sia davvero configurabile la giurisdizione del giudice contabile che il legislatore

ha in tal modo presupposto in rapporto ad atti di mala gestio degli organi di società a partecipazione

pubblica.

In difetto di norme esplicite in tal senso (e fatta salva la specificità di singole società a partecipazione pubblica

il cui statuto sia soggetto a regole legali sui generis, come nel caso della Rai), è ai principi generali ed alle linee

portanti del sistema che occorre aver riguardo. Ed è proprio in quest'ottica che assume rilievo decisivo la già

accennata distinzione tra la responsabilità in cui gli organi sociali possono incorrere nei confronti della società

(prevista e disciplinata, per le società azionarie, dagli artt. 2393 e segg. e, per le società a responsabilità limitata,

dell'art. 2476 c.c., commi 1, 3, 4 e 5) e la responsabilità che essi possono assumere direttamente nei confronti di

singoli soci o terzi (prevista e disciplinata, per le società azionarie, dall'art. 2395 c.c., per le società a responsabilità

limitata, del cit. art. 2476 c.c., comma 6).

3.6. In tale ultimo caso la configurabilità dell'azione del procuratore contabile, tesa a far valere la responsabilità

dell'amministratore o del componente di organi di controllo della società partecipata dall'ente pubblico quando

questo sia stato direttamente danneggiato dall'azione illegittima, non incontra particolari ostacoli (nè si pongono

difficoltà derivanti dalla possibile concorrenza di siffatta azione con quella ipotizzata in sede civile dai citati art.

2395 c.c. e art. 2476 c.c., comma 6, poiché l'una e l'altra mirerebbero in definitiva al medesimo risultato). Non

importa qui indagare sulla natura dell'indicata responsabilità: se essa abbia carattere extracontrattuale (come la

giurisprudenza è per lo più incline a ritenere: si vedano, tra le altre, Cass. 5 agosto 2008, n. 21130; 25 luglio 2007,

n. 16416; e 3 aprile 2007, n. 8359) o se pur sempre presupponga la violazione di un preesistente obbligo di

corretto comportamento dell'amministratore e del componente dell'organo di controllo anche nei diretti

confronti di ciascun singolo socio (onde alcune autorevoli voci di dottrina ravvisano anche in tal caso un'ipotesi

di responsabilità almeno lato sensu contrattuale).

Quel che appare certo è che la presenza dell'ente pubblico all'interno della compagine sociale ed il fatto

che la sua partecipazione sia strumentale al perseguimento di finalità pubbliche ed abbia implicato

30

l'impiego di pubbliche risorse non può sfuggire agli organi della società e non può non comportare, per

loro, una peculiare cura nell'evitare comportamenti tali da compromettere la ragione stessa di detta

partecipazione sociale dell'ente pubblico o che possano comunque direttamente cagionare un

pregiudizio al patrimonio di quest'ultimo.

Tipico esempio di questa situazione è il danno all'immagine dell'ente pubblico (su cui si veda Sez. un. 20

giugno 2007, n. 14297) che derivi da atti illegittimi posti in essere dagli organi della società partecipata:

danno che può eventualmente prodursi immediatamente in capo a detto ente pubblico, per il fatto stesso di

essere partecipe di una società in cui quei comportamenti illegittimi si siano manifestati, e che non s'identifica

con il mero riflesso di un pregiudizio arrecato al patrimonio sociale (indipendentemente dall'essere o meno

configurabile e risarcibile anche un autonomo e distinto danno all'immagine della medesima società).

Nessun dubbio, quindi, sulla sussistenza della giurisdizione della Corte dei conti in un'ipotesi siffatta; e se ne trae

conferma anche dal disposto del L. 3 agosto 2009, n. 102, art. 17, comma 30 - ter, (quale risulta dopo le

modifiche apportate dal D.L. in pari data, n. 103, convertito con ulteriori modificazioni nella L. 3 ottobre 2009,

n. 141), che disciplina e limita le modalità dell'azione della magistratura contabile appunto in caso di danno

all'immagine, nelle ipotesi previste dalla L. 27 marzo 2001, n. 97, art. 7, ossia in presenza di una sentenza

irrevocabile di condanna pronunciata nei confronti dei dipendenti indicati nel precedente art. 3 della stessa legge,

compresi quelli evidenti a prevalente partecipazione pubblica". Non si vede come la medesima regola stabilita per

i dipendenti non debba valere anche per gli amministratori e gli organi di controllo della società a partecipazione

pubblica. 3.7. Ad opposta conclusione si deve invece pervenire nel caso in cui l'azione sia proposta per

reagire ad un danno cagionato al patrimonio della società.

Non solo, come detto, non è configurabile alcun rapporto di servizio tra l'ente pubblico partecipante e

l'amministratore (o componente di un organo di controllo) della società partecipata, il cui patrimonio sia stato

leso dall'atto di mala gestio, ma neppure sussiste in tale ipotesi un danno qualificabile come danno erariale, inteso

come pregiudizio direttamente arrecato al patrimonio dello Stato o di altro ente pubblico che della suindicata

società sia socio. La ben nota distinzione tra la personalità giuridica della società di capitali e quella dei

singoli soci e la piena autonomia patrimoniale dell'una rispetto agli altri non consentono di riferire al

patrimonio del socio pubblico il danno che l'illegittimo comportamento degli organi sociali abbia

eventualmente arrecato al patrimonio dell'ente: patrimonio che è e resta privato.

È certo vero che il danno sofferto dal patrimonio della società è per lo più destinato a ripercuotersi anche sui

soci, incidendo negativamente sul valore o sulla redditività della loro quota di partecipazione; ma - fatte salve le

limitate eccezioni oggi introdotte dall'art. 2497 c.c. (come modificato dal D.Lgs. n. 6 del 2003), in tema di

responsabilità dell'ente posto a capo di un gruppo di imprese societarie, che qui non rilevano - il sistema del

diritto societario impone di tener ben distinti i danni direttamente inferti al patrimonio del socio (o del terzo) da

quelli che siano il mero riflesso di danni sofferti dalla società.

Dei danni diretti, cioè di quelli prodotti immediatamente nella sfera giuridico - patrimoniale del socio e

che non consistano nella semplice ripercussione di un danno inferto alla società, solo il socio stesso è

legittimato a dolersi; di quelli sociali, invece, solo alla società compete il risarcimento, di modo che per

il socio anche il ristoro è destinato a realizzarsi unicamente nella medesima maniera indiretta in cui si è

prodotto il suo pregiudizio (principio pacifico: si vedano, ex multis, Cass. 5 agosto 2008, n. 21130; 3 aprile

2007, n. 8359; 27 giugno 1998, n. 6364; e 28 febbraio 1998, n. 2251).

Si capisce, allora, come il danno inferto dagli organi della società al patrimonio sociale, che nel sistema

del codice civile può dar vita all'azione sociale di responsabilità ed eventualmente a quella dei creditori

sociali, non è idoneo a configurare anche un'ipotesi di azione ricadente nella giurisdizione della Corte

dei conti: perché non implica alcun danno erariale, bensì unicamente un danno sofferto da un soggetto

privato (appunto la società), riferibile al patrimonio appartenente soltanto a quel soggetto e non certo ai singoli

soci - pubblici o privati - i quali sono unicamente titolari delle rispettive quote di partecipazione ed i cui originar

conferimenti restano confusi ed assorbiti nell'unico patrimonio sociale.

L'esattezza di tale conclusione trova conferma anche nell'impossibilità di realizzare, altrimenti, un soddisfacente

coordinamento sistematico tra l'ipotizzata azione di responsabilità dinanzi giudice contabile e l'esercizio delle

31

surriferite azioni di responsabilità (sociale e dei creditori sociali) contemplate dal codice civile. L'azione del

procuratore contabile ha presupposti e caratteristiche completamente diverse dalle azioni di responsabilità sociale

e dei creditori sociali contemplate dal codice civile: basta dire che l'una è obbligatoria, le altre discrezionali; l'una

ha finalità essenzialmente sanzionatoria (onde non implica necessariamente il ristoro completo del pregiudizio

subito dal patrimonio danneggiato dalla mala gestio dell'amministratore o dall'omesso controllo del vigilante), le

altre hanno scopo ripristinatorio; l'una richiede il dolo o la colpa grave, e solo in determinati casi è esercitabile

anche contro gli eredi del soggetto responsabile del danno; per le altre è sufficiente anche la colpa lieve ed il

debito risarcitorio è pienamente trasmissibile agli eredi.

D'altronde, almeno in tutti i casi nei quali vi siano anche soci privati la cui partecipazione è suscettibile

di subire danno per effetto del comportamento illegittimo degli organi sociali, sarebbe impossibile

escludere l'esperibilità degli ordinari strumenti di tutela approntati dal codice civile a beneficio della

società (e dei soci privati, nonché eventualmente dei creditori). E però, se si ipotizzasse il possibile concorso tra

l'azione del procuratore contabile e l'azione sociale di responsabilità contemplata dal codice civile, occorrerebbe

poter individuare il modo di disciplinare tale concorso, stante la descritta diversità delle rispettive caratteristiche

delle differenti azioni. L'assenza del benché minino abbozzo di coordinamento normativo in proposito suona

palese conferma della non configurabilità, in simili situazioni, di un'azione diversa da quelle previste dal codice

civile, che sia destinata a ricadere nella giurisdizione del giudice contabile. 3.7. Giova ancora aggiungere che

l'esclusione dell'ipotizzata giurisdizione del giudice contabile per l'azione di risarcimento di danni cagionati al

patrimonio della società partecipata da un ente pubblico neppure provoca, a ben vedere, il rischio di una lacuna

nella tutela dell'interresse pubblico coinvolto nella descritta situazione.

Nell'attuale disciplina della società azionaria - ed in misura ancor maggiore in quella della società a responsabilità

limitata - l'esercizio dell'azione sociale di responsabilità, in caso di mala gestio imputabile agli organi della società,

non è più monopolio dell'assemblea e non è più, quindi, unicamente rimessa alla discrezionalità della

maggioranza dei soci. Una minoranza qualificata dei partecipanti alla società azionaria (art. 2393 - bis c.c.) ed

addirittura ciascun singolo socio della società a responsabilità limitata (art. 2476 c.c., comma 3) sono infatti

legittimati ad esercitare tale azione (anche nel proprio interesse, ma a beneficio della società) eventualmente

sopperendo all'inerzia della maggioranza.

Ne consegue che, trattandosi di società a partecipazione pubblica, il socio pubblico è di regola in grado di tutelare

egli stesso i propri interessi sociali mediante l'esercizio delle suindicate azioni civili. Se ciò non faccia e se, in

conseguenza di tale omissione, l'ente pubblico abbia a subire un pregiudizio derivante dalla perdita di valore della

partecipazione, è sicuramente prospettabile l'azione del procuratore contabile nei confronti (non già

dell'amministratore della società partecipata, per il danno arrecato al patrimonio sociale, bensì nei confronti) di

chi, quale rappresentante dell'ente partecipante o comunque titolare del potere di decidere per esso, abbia

colpevolmente trascurato di esercitare i propri diritti di socio ed abbia perciò pregiudicato il valore della

partecipazione. Ed è ovvio che, con riguardo ad un'azione siffatta, vi sia piena competenza giurisdizionale della

Corte dei conti.

4.1. Sulla base dei suddetti principi la questione della giurisdizione ha semplice soluzione.

(omissis)

Si tratta, all'evidenza, di tutti danni direttamente subiti dalla società.

4.2. Ne consegue che per le domande relative a tali danni va esclusa la giurisdizione della corte dei conti,

dovendosi affermare la giurisdizione del giudice ordinario.

La giurisdizione della Corte dei conti era configurabile nei confronti di chi, all'interno dell'ente pubblico

partecipante, avesse omesso di adottare, essendo chiamato a farlo, un comportamento volto all'esercizio da parte

del socio - pubblica amministrazione- dell'azione sociale di responsabilità nei confronti degli amministratori, con

conseguente danno della società partecipata e, dunque, dell'ente pubblico partecipante.

5.1. Invece va affermata la giurisdizione delle Corte dei conti solo relativamente alla condanna di risarcimento del

danno all'immagine subita dal Ministero dell'Economia e delle Finanze. Rientra nella giurisdizione della Corte dei

conti l'azione di responsabilità per il danno arrecato all'immagine dell'ente da organi della società partecipata.

Infatti, tale danno, anche se non comporta apparentemente una diminuzione patrimoniale alla pubblica

32

amministrazione, è suscettibile di una valutazione economica finalizzata al ripristino del bene giuridico leso (Cass.

civ., Sez. Unite, 02/04/2007, n. 8098).

(omissis)

9.1.11 motivo è infondato.

In tema di responsabilità per danno erariale, l'esistenza di un rapporto di servizio, quale presupposto

per un addebito di responsabilità al detto titolo, non è limitata al rapporto organico o al rapporto di

impiego pubblico, ma è configurabile anche quando il soggetto, benché estraneo alla Pubblica

Amministrazione, venga investito, anche di fatto, dello svolgimento, in modo continuativo, di una

determinata attività in favore della Pubblica Amministrazione, con inserimento nell'organizzazione

della medesima, e con particolari vincoli ed obblighi diretti ad assicurare la rispondenza dell'attività

stessa alle esigenze generali cui è preordinata. (Cass. Sez. Unite, 12/03/2004, n. 5163; Cass. S.U. n.

19661/2003).

6. LA DISCIPLINA DELLE S.P.A. MISTE: IL MODELLO DI SCELTA

DEL SOCIO: Consiglio di Stato, sezione II, parere n. 456 del 2007

La società mista pubblico-privata in cui il socio privato è scelto con una procedura di evidenza pubblica è compatibile con i principi comunitari che limitano l’affidamento senza gara ad ipotesi eccezionali, qualora si riscontri, in concreto, un modello organizzativo della società mista che garantisca: 1) una sostanziale equiparazione tra gara per l’affidamento del servizio pubblico e la gara per la scelta del socio, di modo che quest’ultimo si configuri come un “socio industriale od operativo” 2) un rinnovo della procedura di selezione alla scadenza del periodo di affidamento, evitando così che il socio divenga “socio stabile”.

5. Appare necessario, in primo luogo, definire la riconducibilità o meno, in via generale, del modello

organizzativo identificato dal legislatore nel caso di specie – ovvero quello della costituzione di una

“società mista” pubblico-privata – al modello dell’in house providing: solo in caso affermativo si potrà

discutere del rinvenimento o meno, in concreto, dei requisiti richiesti dalla giurisprudenza in materia.

5.1. Come è noto, l’espressione in house providing (usata per la prima volta in sede comunitaria nel Libro

Bianco sugli appalti del 1998) identifica il fenomeno di “autoproduzione” di beni, servizi o lavori da parte

della pubblica amministrazione: ciò accade quando quest’ultima acquisisce un bene o un servizio attingendoli

all’interno della propria compagine organizzativa senza ricorrere a terzi tramite gara e dunque al mercato (cfr., in

termini, la recente decisione della VI Sezione di questo Consiglio del 3 aprile 2007, n. 1514, su cui si tornerà più

avanti). Il modello si contrappone a quello dell‘outsourcing, o contracting out (la c.d. esternalizzazione), in cui la

sfera pubblica si rivolge al privato, demandandogli il compito di produrre e /o fornire i beni e servizi necessari

allo svolgimento della funzione amministrativa.

La prima definizione giurisprudenziale della figura è fornita dalla sentenza della Corte di giustizia delle Comunità

europee del 18 novembre 1999, causa C-107/98 – Teckal.

In quella sede – a estrema sintesi delle considerazioni della Corte – si è affermato che non è necessario rispettare

le regole della gara in materia di appalti nell’ipotesi in cui concorrano i seguenti elementi:

a) l’amministrazione aggiudicatrice esercita sul soggetto aggiudicatario un “controllo analogo” a quello

esercitato sui propri servizi;

b) il soggetto aggiudicatario svolge la maggior parte della propria attività in favore dell’ente pubblico di

appartenenza.

In ragione del “controllo analogo” e della “destinazione prevalente dell’attività”, l’ente in house non può ritenersi

“terzo” rispetto all’amministrazione controllante ma deve considerarsi come uno dei servizi propri

dell’amministrazione stessa: non è, pertanto, necessario che l’amministrazione ponga in essere procedure di

evidenza pubblica per l’affidamento di appalti di lavori, servizi e forniture.

33

5.2. Questa Sezione condivide pienamente – come già affermato nel precedente parere n. 3162/06 (cfr. pure, in

termini, la citata decisione della VI Sezione n. 1514/07) – le affermazioni secondo le quali la figura dell’in house

providing si configura come un modello eccezionale, i cui requisiti vanno interpretati restrittivamente poiché

costituiscono una deroga alle regole generali del diritto comunitario.

(omissis)

Il ridimensionamento dell’istituto è da ricondursi anche a fenomeni di distorsione nel ricorso a tale modello, del

quale si tende ad abusare attraverso il fenomeno delle c.d. catene societarie e dei controlli indiretti, nonché

attraverso le attività svolte nei confronti di terzi.

In particolare, la ricordata sentenza Carbotermo dell’11 maggio 2006, causa C-340/04, ha affermato che la

partecipazione pubblica totalitaria è necessaria, ma non sufficiente. Difatti, per giustificare la deroga alle regole

europee di evidenza pubblica occorrono maggiori strumenti di controllo da parte dell’ente rispetto a quelli

previsti dal diritto civile. La giurisprudenza comunitaria e nazionale li ha nel tempo individuati affermando, in

particolare, che:

- il consiglio di amministrazione della società in house non deve avere rilevanti poteri gestionali e l’ente

pubblico deve poter esercitare maggiori poteri rispetto a quelli che il diritto societario riconosce alla

maggioranza sociale;

- l’impresa non deve aver “acquisito una vocazione commerciale che rende precario il controllo” da

parte dell’ente pubblico (tale vocazione risulterebbe, tra l’altro:

dall’ampliamento dell’oggetto sociale; dall’apertura obbligatoria della società, a breve termine, ad altri

capitali; dall’espansione territoriale dell’attività della società a tutta l’Italia e all’estero: cfr., in particolare,

le già citate sentenze 13 ottobre 2005, causa C-458/03 - Parking Brixen GmbH e 10 novembre 2005, causa C-

29/04 - Mödling o Commissione c/Austria);

- le decisioni più importanti devono essere sottoposte al vaglio preventivo dell’ente affidante (cfr. pure la

decisione della V sez. di questo Consiglio di Stato 8 gennaio 2007, n. 5, che ha affermato che se il consiglio di

amministrazione ha poteri ordinari non si può ritenere sussistere un “controllo analogo”);

- il controllo analogo si ritiene escluso dalla semplice previsione nello statuto della cedibilità delle quote a privati

(Tar Puglia, 8 novembre 2006, n. 5197; Consiglio di Stato, V sez., 30 agosto 2006, n. 5072).

La giurisprudenza ha anche chiarito che, in astratto, è configurabile un “controllo analogo” anche nel caso in cui

il pacchetto azionario non sia detenuto direttamente dall’ente pubblico, ma indirettamente mediante una società

per azioni capogruppo (c.d. holding) posseduta al 100% dall’ente medesimo. Tuttavia, una tale forma di

partecipazione “può, a seconda delle circostanze del caso specifico, indebolire il controllo eventualmente

esercitato dall’amministrazione aggiudicatrice su una società per azioni in forza della mera partecipazione al suo

capitale” (cfr. la citata sentenza Carbotermo, 11 maggio 2006, causa C-340/04). In tale ottica, la partecipazione

pubblica indiretta, anche se totalitaria, è in astratto compatibile, ma affievolisce comunque il controllo.

I principi giurisprudenziali sopra accennati appaiono, ormai, largamente condivisi dalle Corti Supreme nazionali,

ivi compreso, come si è detto, questo Consiglio di Stato, il quale (sia nel parere n. 3162/06 che nella decisione

della VI Sezione da ultimo citati) ha anche rilevato che, nel nostro ordinamento, una norma di carattere generale

era stata proposta nel primo schema del codice dei contratti pubblici, ma non è stata poi inserita nel testo finale

del d.lgs. n. 163 del 2006, a conferma della volontà del legislatore di non generalizzare il modello dell’in house a

qualsiasi forma di affidamento di servizi, di lavori, o di forniture (la norma dell’originario schema era l’art. 15,

rubricata “Affidamenti in house”, dal seguente testo: “Il presente decreto non si applica all’affidamento di servizi,

lavori, forniture a società per azioni il cui capitale sia interamente posseduto da un’amministrazione

aggiudicatrice, a condizione che quest’ultima eserciti sulla società un controllo analogo a quello esercitato sui

propri servizi e che la società realizzi la parte più importante della propria attività con l’amministrazione

aggiudicatrice.”; il codice, tuttavia, ha conservato un riferimento generale alle società miste all’art. 1, comma 2, e

all’art. 32: cfr. infra, il punto 7).

5.3. Questo Consiglio di Stato ritiene che l’evoluzione giurisprudenziale consenta, altresì, di escludere,

in via generale, la riconducibilità del modello organizzativo della “società mista” a quello dell’in house

34

providing.

Tale riconducibilità, che in principio era quantomeno dubbia (e molto si è discusso sul punto: svariati autori, in

dottrina, propendevano per la soluzione affermativa e ancora oggi vi sono discipline che ricomprendono

entrambe le situazioni: cfr. l’art. 13 del d.l. n. 223 del 2006, di cui si dirà infra, al punto 7.3), oggi può dirsi ormai

definita in senso negativo dalla giurisprudenza – non risalente ma ormai consolidata – della Corte di giustizia

europea, nelle decisioni in cui ha progressivamente definito il concetto di “controllo analogo”.

In particolare, ciò emerge dalla già menzionata sentenza della Corte 11 gennaio 2005, causa C-26/03 - Stadt Halle

e RPL Lochau: nel dare atto che, in quella controversia, la Stadt Halle si era difesa proprio sostenendo che si

sarebbe trattato “di un’«operazione di ‘in house providing’», alla quale non si applicherebbero le norme

comunitarie in materia di appalti pubblici”, la Corte ha invece affermato che “la partecipazione, anche

minoritaria, di un’impresa privata al capitale di una società alla quale partecipi anche l’amministrazione

aggiudicatrice in questione, esclude in ogni caso che tale amministrazione possa esercitare sulla detta società un

controllo analogo a quello che essa esercita sui propri servizi”.

L’opzione interpretativa è confermata, tra le altre, dalla citata sentenza 6 aprile 2006, causa C-410/04 - ANAV c/

Comune di Bari – laddove afferma che “se la società concessionaria è una società aperta, anche solo in parte, al

capitale privato, tale circostanza impedisce di considerarla una struttura di gestione «interna» di un servizio

pubblico nell’ambito dell’ente pubblico che la detiene (v. già, in senso analogo, anche la sentenza 21 luglio 2005,

causa C-231/03 - Corame)” – e in quella 18 gennaio 2007, causa C-220/05 - Jean Auroux, ove si afferma che

“quanto dichiarato dalla Corte nella sentenza Stadt Halle e RPL Lochau, cit., con riferimento agli appalti pubblici

di servizi si applica anche con riferimento agli appalti pubblici di lavori”.

In altri termini, la Corte di giustizia ha ritenuto che qualsiasi investimento di capitale privato in un’impresa

obbedisca a considerazioni proprie degli interessi privati e persegua obiettivi di natura differente rispetto a quelli

dell’amministrazione pubblica.

Pertanto, in sostanza, oggi si può parlare di società in house soltanto se essa agisce come un vero e proprio

organo dell’amministrazione “dal punto di vista sostantivo”, non contaminato da alcun interesse privato.

Di tali conclusioni questo Consiglio di Stato ha già preso atto quando, con la decisione n. 1514/07 della VI

Sezione, ha affermato – con argomenti che questa Sezione condivide pienamente – che, in un caso diverso da

quello ivi deciso (e definito con la decisione n. 1513/07), “la Sezione ha ritenuto neanche configurabile

l’affidamento in house in considerazione dell’assenza di una partecipazione pubblica totalitaria all’epoca … degli

affidamenti in contestazione in quel procedimento. L’assenza della partecipazione pubblica totalitaria esclude,

infatti, in radice la possibilità di configurare il requisito del controllo analogo, richiesto dalla giurisprudenza

comunitaria per gli affidamenti in house.”.

Da ciò consegue – ad avviso del Collegio – l’inutilità di ricercare, allo scopo di giustificarne la compatibilità con la

disciplina europea, i (sempre più selettivi) requisiti richiesti per l’in house anche nel modello di parternariato

pubblico-privato “società mista” cui si riconduce l’oggetto del quesito in esame.

6. La non riconducibilità alla figura dell’in house non implica, di per sé, la esclusione automatica della

compatibilità comunitaria della diversa figura della società mista a partecipazione pubblica

maggioritaria in cui il socio privato sia scelto con una procedura di evidenza pubblica.

Su tale specifica modalità organizzativa, infatti, non risulta che la Corte di giustizia abbia ancora avuto modo di

pronunciarsi espressamente: anche nelle più importanti sentenze in cui si tratta di società miste (e in particolare la

sentenza 11 gennaio 2005, causa C-26/03 - Stadt Halle e RPL Lochau, e la sentenza 13 ottobre 2005, causa C-

458/03 - Parking Brixen GmbH), il privato era stato individuato senza gara (cfr. amplius infra, il punto 8.2.2).

Per la soluzione del quesito in esame si impone, allora, una verifica autonoma, da condurre alla stregua dei

rigorosi principi dettati dalla Corte di giustizia (sull’in house, ma non solo) ma senza poter contare, allo stato, su

una indicazione specifica in termini.

Tale verifica va condotta, ad avviso della Sezione, avendo sempre presente l’interesse fondamentale che sottende

la attuale disciplina dell’evidenza pubblica: la tutela della concorrenza, cui si applicano anche i principi di parità di

trattamento, di non discriminazione e di trasparenza. Tale interesse appare prevalente rispetto a quello della

35

tutela dell’amministrazione.

La Sezione, difatti, rileva che – se il regime dell’evidenza pubblica per la scelta del contraente privato nei contratti

“passivi” della pubblica amministrazione è presente da tempo nel nostro sistema nazionale, ben da prima

dell’avvento della disciplina comunitaria degli appalti pubblici, in quanto dettato nell’interesse

dell’amministrazione appaltante – con il progressivo avvento della disciplina comunitaria tale regime nazionale è

stato, in parte, conservato nei meccanismi di selezione del contraente, ma investito da una ratio del tutto nuova,

che impone diversi canoni interpretativi e applicativi.

La finalità, l’intera logica di tale disciplina si è, infatti, trasformata – in adesione ai principi europei – da quella

della tutela primaria dell’interesse dell’amministrazione a quella della libera circolazione e della concorrenza.

Di conseguenza, se ciò ha portato (ormai quasi del tutto) alla scomparsa di norme sulla scelta del contraente di

sicuro interesse dell’amministrazione pubblica ma incompatibili con l’interesse alla libera concorrenza, i

meccanismi tradizionali di evidenza pubblica che potevano adeguarsi a questa diversa ratio sono stati, nella

sostanza, recepiti dal nuovo codice dei contratti pubblici (il menzionato d.lgs. n. 163 del 2006), ovvero – se

contenuti in disposizioni speciali – non sono stati espressamente abrogati. Ciò è avvenuto, però, sul presupposto

che tali meccanismi vadano applicati in questa diversa logica.

È in quest’ottica che va esaminata anche la questione in esame.

Non sarà, quindi, sufficiente dimostrare l’interesse dell’amministrazione – pure stigmatizzato, nel caso di specie,

con una apposita lex specialis – ma anche la sua compatibilità con l’interesse per la massima apertura del

mercato, come identificato dai principi definiti dalla Corte di giustizia europea.

Peraltro, come è noto, laddove dovesse risultare evidente una incompatibilità, da parte della legge nazionale, con

la disciplina comunitaria self executing nel nostro ordinamento, l’amministrazione sarebbe tenuta a disapplicarla

(secondo i principi affermati a partire dalla sentenza della Corte costituzionale n. 389 dell’11 luglio 1989).

La suddetta verifica va condotta sia “in astratto”, analizzando il modello generale delle società miste come oggi

presente nell’ordinamento nazionale (cfr. infra, i punti 7 e 8 e i relativi sottopunti), sia “in concreto”, guardando

alla specifica disciplina prevista nel caso in esame e alla sua applicazione nella procedura di selezione del

contraente privato (cfr. infra, il punto 9 e i relativi sottopunti).

7. Come è noto, il modello delle “società miste” è presente da tempo nel nostro ordinamento, ed è oggi previsto

in via generale dall’art. 113, comma 5, lett. b), del d.lgs. n. 267 del 2000 (testo unico delle leggi sull’ordinamento

degli enti locali – t.u.e.l.), introdotto dall’art. 14 del d.l. 30 settembre 2003, n. 269, come modificato dalla relativa

legge di conversione. Tale previsione può essere assunta a paradigma del modello anche ai fini della soluzione del

quesito in oggetto, che pure si caratterizza per una disciplina ad hoc.

Sempre in via generale, il codice dei contratti pubblici, se non prevede più una generalizzazione del modello

dell’in house a qualsiasi forma di affidamento (come si è detto retro, al punto 5.2), contiene invece, all’art. 1,

comma 2, una previsione di carattere generale sulle società miste, secondo la quale, “nei casi in cui le norme

vigenti consentono la costituzione di società miste per la realizzazione e/o gestione di un’opera pubblica o di un

servizio, la scelta del socio privato avviene con procedure di evidenza pubblica”. Anche in questo caso, la norma

non intende affermare la generale ammissibilità delle società miste, che devono intendersi consentite nei soli casi

già previsti da una disciplina speciale, nel rispetto del principio di legalità: si codifica soltanto il principio secondo

il quale, in questi casi, la scelta del socio deve comunque avvenire “con procedure di evidenza pubblica” (non

necessariamente, quindi, ai sensi della disciplina dello stesso codice).

La figura delle società miste compare anche nell’art. 32, al comma 1, lett. c), e al comma 3 (tale ultima

disposizione è stata confermata nel testo definitivo nonostante i rilievi di questo Consiglio di Stato espressi nel

parere della Sezione per gli atti normativi n. 355/06 del 6 febbraio 2006, relativo allo schema di codice dei

contratti pubblici: cfr. infra, il punto 8.4).

7.1. L’art. 113, comma 5, lett. b), del t.u.e.l. dispone che l’erogazione dei servizi per la gestione delle reti, degli

impianti e delle altre dotazioni patrimoniali “avviene secondo le discipline di settore e nel rispetto della normativa

dell’Unione europea, con conferimento della titolarità del servizio …”, tra l’altro, “… b) a società a capitale misto

pubblico privato nelle quali il socio privato venga scelto attraverso l’espletamento di gare con procedure ad

evidenza pubblica che abbiano dato garanzia di rispetto delle norme interne e comunitarie in materia di

36

concorrenza secondo le linee di indirizzo emanate dalle autorità competenti attraverso provvedimenti o circolari

specifiche”. Tale norma costituisce, in qualche modo, il paradigma del modello cui si ispira anche la normativa

speciale per il SIAN che è oggetto del quesito in esame.

Lo stesso art. 113 prevede, nella distinta lettera c), in alternativa al ricorso alla società mista, il modello della

società in house a capitale interamente pubblico, richiedendo solo per tale caso i requisiti del “controllo analogo”

e della “destinazione prevalente dell’attività” in favore dell’ente pubblico di appartenenza identificati dalla

sentenza Teckal.

Ciò sembra confermare quanto affermato retro (al punto 5 e ai relativi sottopunti) a proposito della differente

disciplina dei due modelli della società mista e della società in house, anche con riguardo ai requisiti richiesti dal

diritto europeo.

7.2. La figura delle società a capitale misto è stata configurata da autorevole dottrina come una forma di

“collaborazione tra pubblica amministrazione e privati imprenditori nella gestione di un pubblico servizio”; tale

figura, costituendo una modalità organizzativa ulteriore per la soddisfazione delle esigenze generali, rende più

flessibile la risposta istituzionale a determinate esigenze e può risultare – se ricondotta nei canoni del pieno

rispetto dei principi comunitari – di particolare efficacia, almeno in certi casi (cfr., nello stesso senso, il Libro

Verde della Commissione europea del 30 aprile 2004 e la Risoluzione del Parlamento europeo del 26 ottobre

2006, richiamati amplius infra, al punto 8.5).

Inoltre, la necessità di una gara per la scelta del socio – oltre a confermare l’esclusione della riconducibilità alla

figura dell’in house – ha condotto a ritenere non corretto annoverare tale figura tipo di affidamento tra quelli

“diretti”.

Tuttavia, la stessa dottrina – alla luce dell’evoluzione in senso restrittivo della giurisprudenza comunitaria – ha

messo in evidenza la debolezza della tesi della equiparazione automatica fra la procedura di scelta del socio e la

gara per l’affidamento del servizio. Pur riconoscendo la funzionalità del modello, si afferma come ci si trovi di

fronte ad una “figura peculiare che potrà presentare non pochi problemi attuativi e che, per non essere censurata,

dovrà ricevere una applicazione attenta”.

7.3. Sempre in relazione al modello generale, si ricorda l’intervento dell’art 13 del d.l. n. 223 del 2006, convertito

dalla legge n. 248 del 2006, il quale ha introdotto una articolata disciplina che, in linea con i più recenti

orientamenti comunitari volti a limitare l’in house providing, ma anche in relativa autonomia da essi, mira a

evitare il fenomeno della c.d. cross subsidization delle società pubbliche, per cui esse operano al di fuori degli

ambiti territoriali di appartenenza, acquisendo commesse da enti pubblici diversi da quelli controllanti od

affidanti i contratti in house. In tale nuovo regime il d.l. n. 223 del 2006 ha equiparato i due diversi modelli delle

società in house e del partenariato pubblico-privato.

In particolare, si è disposto che le società a capitale interamente pubblico o misto, costituite o partecipate dalle

amministrazioni pubbliche regionali e locali (non da quelle statali, come invece avviene nel caso di specie) per la

produzione di beni e servizi strumentali all’attività di tali enti in funzione della loro attività, con esclusione dei

servizi pubblici locali:

- devono operare esclusivamente con gli enti costituenti o partecipanti o affidanti (viene fissata, quindi, la regola

dell’esclusività, in luogo di quella della prevalenza);

- non possono svolgere prestazioni a favore di altri soggetti pubblici o privati, né in affidamento diretto né con

gara, e non possono partecipare ad altre società o enti;

- sono ad oggetto sociale esclusivo (l’oggetto sociale esclusivo – è stato affermato – non sembra debba essere

inteso come divieto delle c.d. multiutilities, ma appare preferibile ritenere che rafforzi regola dell’esclusività

evitando che dopo affidamento la società possa andare a fare altro).

Si ricorda come alcune Regioni (in particolare, Valle d’Aosta e Friuli Venezia Giulia) hanno impugnato la norma

dinanzi alla Corte Costituzionale, ritenendola discriminatoria delle società regionali e locali, rispetto a quelle

statali e limitativa della capacità contrattuale delle società con riferimento a partecipazioni ulteriori.

7.4. Dell’esigenza, de iure condendo, di un contesto normativo generale più organico e restrittivo a favore della

concorrenza si è fatto carico il recente disegno di legge governativo recante “Delega al governo per il riordino dei

37

servizi pubblici locali” (atto Senato n. 772 della XV legislatura, presentato il 7 luglio 2006), il quale prevede che

“l’affidamento delle nuove gestioni ed il rinnovo delle gestioni in essere dei servizi pubblici locali di rilevanza

economica debba avvenire mediante procedure competitive ad evidenza pubblica di scelta del gestore”,

consentendo soltanto “eccezionalmente” l’affidamento a società totalitarie in presenza dei noti presupposti

comunitari e alle società miste locali.

Il d.d.l. AS 772 (all’art. 2, comma 1, lettere c) e d) ) condiziona il ricorso a queste ultime alla “stretta inerenza

delle modalità di selezione e di partecipazione dei soci pubblici e privati agli specifici servizi pubblici locali

oggetto dell’affidamento, ferma restando la scelta dei soci privati mediante procedure competitive” (come recita

la relazione di accompagnamento al d.d.l.). Si prevede, inoltre, la necessità di “norme e clausole volte ad

assicurare un efficace controllo pubblico della gestione del servizio e ad evitare possibili situazioni di conflitto di

interessi”.

La possibilità di acquisire la gestione di servizi diversi o in ambiti territoriali diversi da quelli di appartenenza

viene esclusa dal d.d.l. per i soggetti già affidatari in via diretta di servizi pubblici locali, nonché per le imprese

partecipate da enti locali, che usufruiscano di finanziamenti pubblici diretti o indiretti, salvo che si tratti del

ristoro degli oneri di servizio relativi ad affidamenti effettuati mediante gara, sempreché l’impresa disponga di un

sistema certificato di separazione contabile e gestionale.

Inoltre, si prevede che l’ente locale debba “adeguatamente motivare le ragioni che, alla stregua di una valutazione

ponderata, impongono di ricorrere” alle modalità di affidamento diretto, anziché alle modalità di affidamento

tramite procedure competitive ad evidenza pubblica, e “che debba adottare e pubblicare secondo modalità

idonee il programma volto al superamento, entro un arco temporale definito, della situazione che osta al ricorso

a procedure ad evidenza pubblica, comunicando periodicamente i risultati raggiunti a tale fine”.

8. In conclusione, può affermarsi che il modello della “società a capitale misto pubblico privato” esiste

– come distinto dall’in house – nell’ordinamento nazionale, sia nella disposizione generale dell’art. 113

t.u.e.l. che in varie disposizioni speciali (come quella per il SIAN nel caso di specie). D’altro canto,

però, tale disciplina è in evoluzione, sia de iure condito (art. 1, comma 2, e art. 32 del d.lgs. n. 163 del

2006; art. 13 del d.l. n. 223 del 2006) che de iure condendo (AS n. 772), poiché continua a suscitare

perplessità la piena compatibilità di tale modello con il sistema comunitario, alla stregua della recente e

rapida evoluzione giurisprudenziale (che sembra ancora in corso) e stante l’assenza di decisioni specifiche sul

punto.

La Sezione – nei limiti del quesito in esame – ritiene possibile affermare che tale compatibilità possa

essere rinvenuta, alla stregua dei principi espressi, direttamente o indirettamente, dalla Corte di

giustizia, quantomeno in un caso: quello in cui – avendo riguardo alla sostanza dei rapporti giuridico-

economici tra soggetto pubblico e privato e nel rispetto di specifiche condizioni, di cui si dirà infra, al punto 8.3

– non si possa configurare un “affidamento diretto” alla società mista ma piuttosto un “affidamento

con procedura di evidenza pubblica” dell’attività “operativa” della società mista al partner privato,

tramite la stessa gara volta alla individuazione di quest’ultimo.

In altri termini, in questo caso, indicato di regola come quello del “socio di lavoro”, “socio industriale”

o “socio operativo” (come contrapposti al “socio finanziario”), questo Consiglio di Stato ritiene che

l’attività che si ritiene “affidata” (senza gara) alla società mista sia, nella sostanza, da ritenere affidata

(con gara) al partner privato scelto con una procedura di evidenza pubblica che abbia ad oggetto, al

tempo stesso, anche l’attribuzione dei suoi compiti operativi e quella della qualità di socio.

La peculiarità rispetto alle ordinarie procedure di affidamento sembra allora rinvenirsi, in questo caso, non tanto

nell’assenza di una procedura di evidenza pubblica (che, come si è detto, esiste e opera uno specifico riferimento

all’attività da svolgere) quanto nel tipo di controllo dell’amministrazione appaltante sul privato esecutore: non più

l’ordinario “controllo esterno” dell’amministrazione, secondo i canoni usuali della vigilanza del committente, ma

un più pregnante “controllo interno” del socio pubblico, laddove esso si giustifichi in ragione di particolari

esigenze di interesse pubblico (che nell’ordinamento italiano sono comunque individuate dalla legge).

A tale conclusione sembra doversi giungere alla stregua delle argomentazioni che seguono.

8.1. Non appare, in primo luogo, condivisibile alla Sezione la posizione “estrema” secondo la quale, per

38

il solo fatto che il socio privato è scelto tramite procedura di evidenza pubblica, sarebbe in ogni caso

possibile l’affidamento diretto.

Soprattutto, tale ipotesi suscita perplessità per il caso di società miste “aperte”, nelle quali il socio, ancorché

selezionato con gara, non viene scelto per finalità definite, ma soltanto come partner privato per una società

“generalista”, alla quale affidare direttamente l’erogazione di servizi non ancora identificati al momento della

scelta del socio e con lo scopo di svolgere anche attività extra moenia, avvalendosi semmai dei vantaggi derivanti

dal rapporto privilegiato stabilito con il partner pubblico.

Esula, però, dall’oggetto specifico del quesito in esame l’approfondimento di tale ipotesi, poiché, come si vedrà,

essa non sussiste nel caso di specie (cfr. infra, il punto 9 e relativi sottopunti).

8.2. Non sembra alla Sezione condivisibile neppure l’opposta ipotesi “estrema” (che potrebbe avere,

invece, dei riflessi diretti sulla soluzione del quesito in oggetto), secondo la quale la giurisprudenza

comunitaria in materia di in house – e in particolare quella secondo la quale il “controllo analogo” è

escluso quando la società è partecipata da privati (cfr. la più volte citata sentenza 11 gennaio 2005, causa C-

26/03 - Stadt Halle e RPL Lochau) – comporta anche l’incompatibilità assoluta con i principi comunitari,

in qualunque caso, dell’affidamento a società miste.

8.2.1. In tal senso si è di recente pronunciato anche il Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Sicilia

(decisione 27 ottobre 2006 n. 589), che ha ritenuto

“doversi pervenire ad una interpretazione restrittiva, se non addirittura disapplicativa, dell’art. 113, comma 5, lett.

b), nel senso che la costituzione di una società mista, anche con scelta del socio a seguito di gara, non esime dalla

effettuazione di una seconda gara per l’affidamento del servizio”. Se nessuno sembra porre in discussione la

necessità della gara per la scelta del socio (ribadita in via generale, come si è detto, dal codice dei contratti

pubblici all’art. 1, comma 2), si rileva, a sostegno di tale tesi estrema che, pur “in un quadro giurisprudenziale in

generale incline ad escludere la necessità della seconda gara (cfr. da ultimo Consiglio Stato, sez. V, 3 febbraio

2005, n. 272) sembrano emergere opinioni dottrinali di segno contrario”, secondo le quali:

- configura una restrizione del mercato e della concorrenza l’obbligo per l’imprenditore di conseguire

l’affidamento di un servizio, solo entrando in una società, per molti versi anomala, con l’amministrazione;

- la procedura di evidenza pubblica per la scelta del socio non è sovrapponibile, quanto ai contenuti e alle finalità,

a quella per l’affidamento del servizio; la prima è preordinata alla selezione del socio privato in possesso dei

requisiti non solo tecnici ed organizzativi, ma anche e soprattutto finanziari, tali da assicurare l’apporto più

vantaggioso nell’ingresso nella compagine sociale; la seconda è invece esclusivamente diretta alla scelta del

soggetto che offra maggiori garanzie per la gestione del servizio pubblico;

- il sistema di affidamento diretto alla società mista (sia pure dopo scelta tramite procedura ad evidenza del socio

privato) concreterebbe nella sostanza un affidamento in house al di fuori dei requisiti richiesti dal diritto

comunitario;

- se, infatti, un’impresa privata detiene delle quote nella società aggiudicataria occorre presumere che l’autorità

aggiudicatrice non possa esercitare su tale società “un controllo analogo a quello da essa esercitato sui propri

servizi”; una partecipazione minoritaria di un’impresa privata è quindi sufficiente ad escludere l’esistenza di

un’operazione interna (cfr., anche per i richiami in essa contenuti, Corte di giustizia delle Comunità europee, sez.

I, 10 novembre 2005, causa C-29/04 04 - Mödling o Commissione c/ Austria).

In conclusione, secondo tale ipotesi estrema, la costituzione di una società mista (con partner scelto dopo una

gara) non esimerebbe in nessun caso dalla evidenza pubblica le procedure di affidamento del servizio.

8.2.2. La Sezione ritiene che le ragioni poste a sostegno di tale tesi – pur se tutte condivisibili – possano tuttavia

condurre a conclusioni differenti da quella dell’obbligo, in ogni caso, di una seconda gara.

Occorre, infatti, evitare – ad avviso della Sezione – di interpretare i dicta della Corte di giustizia in modo da far

loro conseguire affermazioni che, al di fuori dei casi di specie esaminati in quella sede, potrebbero portare,

paradossalmente, ad effetti opposti, e addirittura contrari allo spirito dei principi sempre affermati dalla Corte di

giustizia.

Come già ricordato in precedenza, nelle fattispecie che hanno condotto alle decisioni più spesso richiamate in

39

materia, la Corte di giustizia ha escluso che si potesse applicare il modello dell’in house, ma non si è pronunciata

espressamente sulle condizioni di applicabilità di altri modelli (come sono, appunto, le società miste) nei quali

fosse comunque presente un’applicazione dei principi dell’evidenza pubblica. Difatti, in quei casi il soggetto

privato non era stato scelto con gara: sussisteva, quindi, una totale pretermissione delle procedure di evidenza

pubblica.

A titolo di mero esempio, nella causa C-458/03 - Parking Brixen la gestione del parcheggio, già affidata ad un

operatore, era stata revocata per trasferirla direttamente alla società partecipata, con evidente lesione dei principi

di tutela della concorrenza; la causa C-26/03 - Stadt Halle si riferiva ad un affidamento diretto disposto nel 2001

a favore di una società mista, costituita nel 1996 senza alcuna connessione con l’esercizio dello specifico servizio.

Anche nel caso C-340/04 - Carbotermo la procedura selettiva per l’affidamento del servizio era stata sospesa e

poi revocata dalla stazione appaltante (lo stesso è avvenuto per la causa C-410/04 - ANAV), al solo scopo di

affidare direttamente le prestazioni alla società mista da questa controllata.

La giurisprudenza comunitaria sopra richiamata appare dunque riferirsi, secondo il Collegio, a violazioni

conclamate del diritto degli appalti, dal momento che l’affidamento dei relativi servizi era stato disposto senza

alcuna possibilità per gli operatori di settore di concorrere per la sua aggiudicazione.

La Sezione ritiene che non si possa far derivare da tale giurisprudenza anche la conseguenza – che appare

estranea ai casi in quella sede esaminati – secondo la quale sarebbe necessaria l’indizione, da parte

dell’amministrazione, di una gara nella quale lo stesso soggetto pubblico aggiudicatore possa anche partecipare

come socio (addirittura maggioritario) della società mista aspirante aggiudicataria.

La negazione dei principi della concorrenza varrebbe, in questa ipotesi, non solo nel caso in cui il socio privato

fosse stato scelto senza gara, ma anche nel caso in cui esso fosse stato scelto con una diversa e precedente

procedura di evidenza pubblica: in entrambi i casi, sembrano comunque ravvisarsi elementi di conflitto di

interessi e di distorsione del mercato, senza risolvere la pretesa “anomalia” della società mista ma anzi

consentendole di conservare, nel confronto con le altre imprese “solo” private, la sua “situazione privilegiata”

dell’essere partecipata dalla stessa amministrazione che indice l’appalto.

8.2.3. La difficile sostenibilità di un affidamento tramite una procedura di evidenza pubblica nella quale

l’amministrazione abbia la duplice veste di stazione appaltante e di socio della società che aspira all’affidamento

condurrebbe di fatto, ad avviso della Sezione, alla totale negazione del modulo. Ciò avverrebbe anche nei casi in

cui la legge consente, perché le ritiene funzionali, ulteriori forme di intervento rispetto alle due ipotesi alternative

“tutta pubblica” e “tutta privata”.

Ma allora, nella visione estrema sopra descritta, la condivisa inconfigurabilità del modello dell’in house per le

società miste rischierebbe di condurre, ad avviso della Sezione, a far valere gli indirizzi della Corte di

Lussemburgo come una sorta di “incoraggiamento” alla costituzione di società pubbliche al 100%, senza alcuna

procedura selettiva e senza alcun ricorso al mercato. Questa Sezione ritiene, invece, che l’affidamento a soggetti

pubblici al 100% costituisca, in qualche modo, la negazione del mercato: non si può immaginare che la Corte di

giustizia preferisca tale soluzione rispetto ad un modello che faccia invece rientrare in gioco il mercato e i privati,

tramite regolari procedure di gara e con garanzie precise che possono comunque delimitare (come si dirà infra, al

par. 7.5.3) l’affidamento nell’oggetto e, soprattutto, nel tempo.

Risulterebbe allora paradossale, nella logica comunitaria della tutela della concorrenza, limitare le opzioni di

intervento ai soli due estremi assoluti e quindi consentire

– sia pure con criteri interpretativi molto restrittivi – una soluzione “tutta pubblica” come unica alternativa a

quella, del tutto opposta, del ricorso “pieno” al mercato.

Appare, infatti, illogico ammettere, in alternativa all’affidamento del 100% del servizio all’esterno, la (sola)

rinuncia totale al mercato con la società pubblica in house e non consentire, invece – in settori specifici,

individuati dalla legge considerando la peculiarità di una data materia e quindi l’inopportunità di una totale

devoluzione ai privati, ma anche l’impossibilità tecnica di lasciar gestire il servizio interamente alla “parte

pubblica” – un'apertura parziale a più flessibili “forme di collaborazione” pubblico-privato, laddove tale apertura

si giustifichi razionalmente con l’esigenza di un controllo più stringente sull’operatore, in quanto svolto non nella

40

veste di committente ma in quella di socio e – soprattutto – sia delimitata da tutte quelle garanzie di definitezza

dell’oggetto e della durata dell’affidamento che sole possono ricondurre, ad avviso della Sezione, il modello ad un

affidamento all’esterno (sia pure per certi aspetti peculiare) e non come un affidamento in house.

In altri termini, se è vero che la società mista, in quanto tale, non è sottoposta al controllo analogo, è dirimente la

circostanza che proprio la componente esterna che esclude la ricorrenza dell’in house è selezionata con

procedure di evidenza pubblica: la quota esterna alla pubblica amministrazione è, cioè, reperita con il ricorso ad

un mercato che è certamente premiato, diversamente da quanto avviene nel caso della “chiusura in se stessa”

dell’amministrazione in un modello di pura autoproduzione. E ciò avviene coniugando l’interesse alla

valorizzazione delle risorse del mercato, che altrimenti resterebbero disattese da una logica di monopolio

pubblico, con l’interesse dell’amministrazione pubblica alla scelta di moduli organizzatori che le consentano di

esercitare un controllo non solo esterno (come soggetto affidante) ma interno ed organico (come partner

societario) sull’operato del soggetto privato selezionato per la gestione.

8.3. Alla stregua di quanto esposto, sembra allora ammissibile il ricorso alla figura della società mista

(quantomeno) nel caso in cui essa non costituisca, in sostanza, la beneficiaria di un “affidamento

diretto”, ma la modalità organizzativa con la quale l’amministrazione controlla l’affidamento disposto,

con gara, al “socio operativo” della società.

Peraltro, si ricorda che il suddetto modello non è ordinario nel nostro sistema e che – salvi i non frequenti casi

(come quello di specie) in cui il legislatore lo impone senza alternative – l’amministrazione deve comunque

motivare in modo adeguato perchè si avvale di una società mista invece di rivolgersi integralmente al mercato.

Inoltre, il ricorso a tale figura deve comunque avvenire a condizione che sussistano – oltre alla specifica

previsione legislativa che ne fondi la possibilità, alle motivate ragioni e alla scelta del socio con gara, ai sensi

dell’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 163 del 2006 – garanzie tali da fugare gli ulteriori dubbi e ragioni di perplessità

in ordine alla restrizione della concorrenza.

In particolare, appare possibile l’affidamento diretto ad una società mista che sia costituita appositamente per

l’erogazione di uno o più servizi determinati, da rendere almeno in via prevalente a favore dell’autorità pubblica

che procede alla costituzione, attraverso una gara che miri non soltanto alla scelta del socio privato, ma anche –

tramite la definizione dello specifico servizio da svolgere in parternariato con l’amministrazione e delle modalità

di collaborazione con essa – allo stesso affidamento dell’attività da svolgere e che limiti, nel tempo, il rapporto di

parternariato, prevedendo allo scadere una nuova gara.

In altri termini, laddove vi siano giustificate ragioni per non ricorrere ad un affidamento esterno

integrale, appare legittimo configurare, quantomeno, un modello organizzativo in cui ricorrano due

garanzie:

1) che vi sia una sostanziale equiparazione tra gara per l’affidamento del servizio pubblico e gara per la

scelta del socio, in cui quest’ultimo si configuri come un “socio industriale od operativo”, che concorre

materialmente allo svolgimento del servizio pubblico o di fasi dello stesso;

2) che si preveda un rinnovo della procedura di selezione “alla scadenza del periodo di affidamento” (in

tal senso, soccorre già una lettura del comma 5, lett. b), dell’art. 113 t.u.e.l. in stretta connessione con il

successivo comma 12), evitando così che il socio divenga “socio stabile” della società mista,

possibilmente prevedendo che sin dagli atti di gara per la selezione del socio privato siano chiarite le

modalità per l’uscita del socio stesso (con liquidazione della sua posizione), per il caso in cui all’esito

della successiva tara egli risulti non più aggiudicatario.

Almeno nella specifica ipotesi sopra descritta (ma di altre eventuali possibilità, come si è detto, la Sezione non

deve occuparsi, stante l’oggetto del quesito) sembra potersi affermare il rispetto dei principi comunitari anche alla

stregua della giurisprudenza più rigorosa e delle perplessità dottrinarie sopra richiamate (cfr. retro, il punto 7.2 e

lo stesso punto precedente 8.2) le quali, come si è detto, sono pienamente condivise dalla Sezione.

In particolare, in questo caso, grazie alla esistenza di una gara che con la scelta del socio definisca anche

l’affidamento del servizio “operativo”, non sembrerebbe doversi temere quanto affermato nella più volte citata

sentenza C-26/03 - Stadt Halle e RPL Lochau, secondo la quale “l’attribuzione di un appalto pubblico ad una

società mista pubblico-privata senza far appello alla concorrenza pregiudicherebbe l’obiettivo di una concorrenza

41

libera e non falsata ed il principio della parità di trattamento degli interessati contemplato dalla direttive 92/50, in

particolare nella misura in cui una procedura siffatta offrirebbe ad un’impresa privata presente nel capitale della

detta società un vantaggio rispetto ai suoi concorrenti”.

Allo stesso modo, sembra non riferirsi al caso in esame anche l’altra importante affermazione della stessa

sentenza, secondo la quale “il rapporto tra un’autorità pubblica, che sia un’amministrazione aggiudicatrice, ed i

suoi servizi sottostà a considerazioni e ad esigenze proprie del perseguimento di obiettivi di interesse pubblico.

Per contro, qualunque investimento di capitale privato in un’impresa obbedisce a considerazioni proprie degli

interessi privati e persegue obiettivi di natura differente”. Ad avviso della Sezione, la presenza di un “interesse

privato” appare, nel caso in esame, ricondotta entro limiti corretti (e propri di tutti gli affidamenti in appalto) se

la gara definisce con sufficiente precisione anche il ruolo “operativo” e non “finanziario” del socio privato da

scegliere.

In tal caso dovrebbe, quindi considerarsi rispettato il precetto conclusivo di quella sentenza, laddove dichiara

“che, nell’ipotesi in cui un’amministrazione aggiudicatrice intenda concludere un contratto a titolo oneroso

relativo a servizi rientranti nell’ambito di applicazione ratione materiae della direttiva 92/50 con una società da

essa giuridicamente distinta, nella quale la detta amministrazione detiene una partecipazione insieme con una o

più imprese private, le procedure di affidamento degli appalti pubblici previste dalla citata direttiva debbono

sempre essere applicate”: la stretta connessione, in una sola gara, della scelta del socio con l’affidamento

dell’appalto sembra ottemperare all’obbligo di applicazione della direttiva statuito dalla Corte di Lussemburgo.

Parimenti insussistente appare, nel caso qui ipotizzato, l’altro rischio paventato dalla recente sentenza 18 gennaio

2007, causa C-220/05 - Jean Auroux (e in particolare dalle conclusioni dell’Avvocato Generale), a proposito del

ricorso al subappalto da parte della società mista. Nel caso di subappalto, ben può verificarsi il pericolo che

“l’oggetto di ogni appalto successivo rappresenti soltanto una quota dell’appalto totale. Ne può derivare che il

valore degli appalti susseguenti aggiudicati da una seconda amministrazione aggiudicatrice sia inferiore a quello

previsto all’art. 6, n. 1, lett. a), della direttiva. Così, attraverso l’attuazione di una serie di appalti successivi,

l’applicazione della direttiva potrebbe essere elusa”. Nell’ipotesi, qui profilata, del “socio di lavoro” scelto con

gara sembra avvenire l’opposto: la società mista non “subappalta” alcunché, mentre il servizio “operativo” viene

affidato direttamente in appalto, per tutto il suo valore, al socio “industriale” che opera sotto il controllo del

“socio pubblico”.

8.4. La Sezione è dell’avviso che tale assetto – che sembra essere molto vicino a quello che verrebbe,

auspicabilmente, meglio chiarito e codificato con l’approvazione dell’iniziativa legislativa in corso (atto Senato n.

772, descritto retro, al punto 7.4) – già oggi non può dirsi escluso dalla normativa vigente, che non va quindi

necessariamente “disapplicata” ma, ove possibile, adeguata anche in via intepretativa, alla luce dei principi

comunitari definiti dalla Corte di Lussemburgo.

Peraltro, in senso pressoché analogo si era espresso anche il parere (citato retro, al punto 7) n. 355/06 del 6

febbraio 2006 della Sezione per gli atti normativi di questo Consiglio, relativo allo schema di codice dei contratti

pubblici. In quella sede, oltre a richiedere una modifica (non recepita dal Governo) della disposizione oggi ancora

contenuta nell’art. 32, comma 3, del codice, si era anche affermato che “in ogni caso, ove si intenda mantenere la

previsione, sul presupposto di una portata ampia della legge delega, che in ogni caso chiama il Governo alla

definizione di un nuovo quadro giuridico per il recepimento, dovrebbe risultare chiaro che la gara per la scelta del

socio è stata svolta in vista proprio della realizzazione dell'opera pubblica o del servizio che successivamente si

affida senza gara, con menzione delle caratteristiche dell'opera e del servizio nel bando della gara celebrata per la

scelta del socio. Ciò al fine di assicurare che il mercato sia stato messo in grado di conoscere la serie di atti che

vengono poi posti in essere con l'affidamento diretto.”.

Si veda pure, sempre nel senso anzidetto, la decisione della V sez. di questo Consiglio di Stato n. 3672/05 – che

si riferisce ad un caso in cui un comune pugliese aveva bandito una gara per la costituzione di una società alla

quale contestualmente affidare la gestione dell’anagrafe tributaria comunale – laddove afferma che, ovviamente,

tale modello è ben diverso da quello dell’in house, ma soprattutto che “tale tipo di parternariato pubblico-privato

altro non è che una “concessione” esercitata sotto forma di società, attribuita in esito ad una selezione

competitiva che si svolge a monte della costituzione del soggetto interposto” (cfr. anche, nello stesso senso, V

42

sez., n. 272/05 e n. 2297/02).

8.5. L’esistenza di una gara che conferisca, di fatto, al socio privato l’“affidamento sostanziale” del servizio svolto

dalla società mista consente di ricondurre l’ipotesi in questione a quel legittimo fenomeno di “parternariato

pubblico-privato” (PPP) già da tempo affrontato dalle istituzioni comunitarie.

Si fa riferimento al Libro Verde pubblicato dalla Commissione europea il 30 aprile 2004 (cfr., in particolare, il

par. 3, punti 53 ss.), laddove si afferma che la “cooperazione diretta tra il partner pubblico ed il partner privato

nel quadro di un ente dotato di personalità giuridica propria …”, tra l’altro, “permette al partner pubblico di

conservare un livello di controllo relativamente elevato sullo svolgimento delle operazioni …”.

Tali tipologie di parternariato – prosegue la Commissione europea – non essendo disciplinate direttamente dal

diritto comunitario degli appalti, dovrebbero comunque essere assoggettate al rispetto delle norme e dei principi

in materia, non potendo “la scelta del partner privato destinato a svolgere tali incarichi nel quadro del

funzionamento di un’impresa mista … essere dunque basata esclusivamente sulla qualità del suo contributo in

capitali o della sua esperienza, ma dovrebbe tenere conto delle caratteristiche della sua offerta – che

economicamente è la più vantaggiosa – per quanto riguarda le prestazioni specifiche da fornire” (Libro Verde,

cit., punto 58; cfr. pure i successivi punti 61, 62 e 63, che appaiono in linea con le affermazioni sin qui svolte

dalla Sezione).

Le medesime conclusioni sono state fatte proprie dal Palamento europeo nella recente “Risoluzione sui

parternariati pubblico-privati e il diritto comunitario degli appalti pubblici e delle concessioni” del 26 ottobre

2006 (2006/2043 (INI)), dove si afferma, tra l’altro, che “se il primo bando di gara per la costituzione di

un’impresa mista è risultato preciso e completo, non è necessario un ulteriore bando di gara” (punto 40).

9. Una volta ritenuta configurabile in via generale, sia pure nei limiti e alle condizioni sopra esposti,

l’ammissibilità del ricorso a una società mista, occorre ora verificare se tali limiti e condizioni siano riscontrabili

nel peculiare caso di specie, alla stregua della disciplina speciale ivi prevista e della più precisa descrizione fornita

dalla riferente amministrazione con la richiesta di riesame del quesito.

9.1. Dalla descrizione dell’assetto della specifica disciplina del caso di specie si evince non tanto un “interesse

dell’amministrazione” a ricorrere al modello in esame (che, di per sé, nonostante l’espressa previsione legislativa,

potrebbe non rivelarsi sufficiente, come si è detto retro, al punto 6) ma piuttosto quasi una necessità, in

considerazione della stretta connessione del SIAN con l’esercizio di funzioni pubbliche (che appaiono ben

definite dall’art. 15 del d.lgs. n. 173 del 1998, riportato retro, al punto 3.1).

Tale connessione – adeguatamente evidenziata dalla nuova ricostruzione del Ministero riferente (riportata retro,

ai punti 3.3 e 3.4) – non sembra consentire un integrale affidamento all’esterno del Sistema Informativo Agricolo

Nazionale, pur rinvenendosi, per converso, l’esigenza di una peculiare professionalità e specializzazione

tecnologica nella gestione del sistema medesimo che richiede, a condizioni ben definite, la “collaborazione” di un

soggetto privato, altamente qualificato, che predisponga e mantenga l’infrastruttura tecnica necessaria a

consentire lo svolgimento di quelle funzioni sul Servizio Informativo.