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Cronache di Cammini numero 16

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Cronache di Cammini percorsi, soste, storie nel camminare

Pubblicazione semestrale del Dott. Luciano Mazzucco

Direttore Responsabile Dott. Niccolò Mazzucco

- Numero 16 – ottobre 2019 -

I campanili

Per l’uomo in cammino il campanile è il faro di ter-ra, un segnale di presenza, una guida di direzione e quando il suono delle campane lo raggiunge, il pelle-grino è sicuro di arrivare in una comunità che lo può accogliere. Un suono di campane come richiamo alla

preghiera, all’inizio ed al-la fine della giornata, al-tri suoni come segno di festa o di notizia sono gli antichi messaggi che non avranno tramonto. I campanili possono es-sere costruzioni semplici accanto a piccole chiese o monumenti di altezze da ammirare, opere d’arte in gara fra loro per forme e caratteristiche, ma per i pellegrini il simbolo più caro lo riconoscono in quelle torri campanarie dove di notte si tenevano accesi dei fuochi perché gli uomini in cammino non perdessero la strada.

Il trecentesco campanile della Chiesa di San Jacopo

ad Altopascio. I rintocchi della sua campana, detta

“la smarrita”, indicavano la strada ai pellegrini in

cammino sulla Via Francigena verso Roma.

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Calzadilla de la Cueza di Luciano Mazzucco In cammino fra Burgos e Leon, sulla Via di Santiago, si percorrono le mesetas, altipiani isolati dove si può procedere per molti chilometri senza incontrare nessuno; solo distese infinite di campi coltivati, che dilagano a perdi-ta d’occhio. Qualche pellegrino è inti-morito da tanta solitudine tanto da sal-tare questo percorso lungo circa 200 km, altri lo preferiscono perché si può trovare in questo ambiente lo stimolo per riflessioni. Ci accompagna solo la vista del paese da cui siamo partiti la mattina e che a poco a poco si allonta-na e siamo in cerca davanti a noi di qualche riferimento che ci indichi la meta, magari un campanile. Appare qualche albero di quercia in lontananza, mentre talvolta si cammina accanto ad una fila di pioppi. A volte il paese è co-struito in una depressione, forse per ri-paro dal vento, e ci compare all’improv-viso, anche solo poche centinaia di me-tri prima. E comunque la ricerca di qualcosa è costante. Dopo Carrion de Los Condes, pochi chilometri dopo Bur-gos, la tappa ci propone 24 km in retti-filo continuo, con il sentiero sterrato che corre vicino alla strada asfaltata na-zionale, peraltro poco frequentata, se-gnalato da metodici pilastrini in cemen-

to con la conchiglia. Pochi riferimenti in-torno, qualche quercia isolata si staglia in lontananza mentre si cammina talvolta lungo una fila di alberelli. Piano piano, con il procedere delle ore si comincia ad intravedere in lontananza qualcosa che ricorda un tetto. Il passo si fa più accele-rato sentendo più vicina la meta e conti-nuando si nota che questo tetto si alza e diventa più visibile sulla linea dell’oriz-zonte, ma isolato, senza altre case intor-no. La cosa incuriosisce e man mano che ci si avvicina, ma solo poche centinaia di metri prima, il mistero si risolve: il tetto è la copertura di un campanile di discreta altezza, ma non di una chiesa bensì di un cimitero. La chiesa, nel paese poco di-stante di Calzadilla, posto in una depres-sione, ha invece un campanile “a vela” poco elevato e che si confonde con le al-tre poche case. E’ possibile sostare qui presso l’albergo municipale o anche pres-so l’ “Albergue del Camino Real” o anche completare la tappa continuando ancora per sei km fino a Ledigos, dove si può so-stare per la notte dopo la fatica della giornata. Anche Ledigos ha qualcosa di curioso, le case sono costruite molto semplicemente con paglia e terra, in linea con la essenzialità dell’ambiente circo-stante.

Il campanile del “cemeterio” di Calzadilla de la Cueza

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La Via Julia Augusta

di Niccolò MazzuccoNiccolò Mazzucco

L’imperatore Ottaviano Augusto, per consolidare le conquiste territoriali conseguite in Gallia ed in Hispania e procedere quindi alla loro “romaniz- zazione”, dispose la costruzione di una via di collegamento che unisse Piacenza (Placentia), già unita a Roma tramite la Via Emilia e la Via Aurelia, con Arles (Arelate) in Provenza, dove la strada continuava con la Via Domizia verso la valle del Rodano e la penisola iberica. Lo scopo di base delle strade romane era soprattutto il controllo militare del-le province e quindi era necessario che le truppe potessero spostarsi agevol-mente; infatti la costruzione era affidata ad un console, che solitamente dava il nome alla Via, da qui il nome di “vie consolari”. I lavori di costruzione della Via Julia iniziarono nel 13-12 a.C. su un tracciato che iniziava nella Valle del Trebbia, toccava Voghera (Vicus Iriae) e Tortona (Dertona) che era un impor-tante nodo di vie romane con la Via Po-stumia (da Genova ad Aquileia), la Via Fulvia (da Tortona a Torino), la Via Ma-

la (da Como al Passo dello Spluga) e la Via Emilia Scauri (da Luni a Tortona pas-sando per Vado Ligure). La Via Julia, do-po Tortona, proseguiva verso Acqui Ter-me (Aquae Statiellorum) ed arrivava al mare a Vado Ligure. Da qui il tracciato continuava lungo la costa collegando in progressione la città di Albenga (Albium Ingaunum), Ventimiglia (Al- bintimi-lium), Roccabruna-Mentone, Beausoleil, la Turbie, Nizza per terminare ad Arles. Il percorso della Via Julia è tutt’oggi testimoniato da resti dell’antico tracciato, cippi miliari, monumenti, molti dei quali di tipo funerario. Si ricorda il Trofeo di Augusto a La Turbie (per commemorare la conquista di Augusto dell’arco alpino), l’Oppidum di Mont des Mules, il Mauso-leo di Lumone a Roccabruna, i resti ro-mani negli scavi archeologici a Ventimi-glia. Oggi si può apprezzare e percorrere una breve parte di questo percorso nel tratto fra Albenga ed Alassio, sulla riviera di Ponente fra Savona ed Imperia, con un tratto recuperato a percorso didattico e

La Via Julia Augusta da Piacenza ad Arles (elaborazione su Google Earth)

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culturale, chiamata “passeggiata archeo-logica”. Lungo questo tratto si possono ammirare i resti di alcune necropoli ro-mane. Il lastricato stradale ancor oggi vi-sibile, secondo una più recente interpre-tazione, sembra sia da far risalire al-l’epoca medioevale e costituisca uno dei molti rifacimenti attuati nel corso dei se-coli in seguito a frane e smottamenti. Sui

ciottoli sono ancora evidenti i segni del passaggio dei carri, le strutture per il deflusso delle acque piovane, i bordi di contenimento del terreno, i sedili per la sosta dei viandanti. Comunque sia è pur sempre una testimonianza del tracciato originale della Via Julia Augusta: lo at-testerebbero la presenza dei monumen-ti funerari di epoca romana, che solita-mente erano disposti ai margini delle strade di maggior percorrenza, ed an-che il rinvenimento, sulla terra che rico-priva i marciapiedi, di resti di ceramica di epoca romana. Questa passeggiata archeologica, inizia da Albenga nei pressi dei resti dell’anfiteatro romano e prosegue su un percorso collinare di circa 8 km fino ad Alassio, con ampia e suggestiva vista sul mare e sulla prospiciente isola Gallinara (foto).

Il cammino è ben indicato da segnavia “quadrati rossi”. Comunque questo per-corso oggi fa parte anche dell’odierna via di pellegrinaggio che mette in comu-nicazione Sarzana (Via Francigena ver-so Roma e Gerusalemme) con la Pro-venza (Via Tolosana verso Santiago) co-me descritto nella Guida alla Via della Costa edita da Terre di Mezzo.

Resti del lastricato romano fra Albenga ed Alassio

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Quando si parla di Europa, oggi si tende ad individuare una unione di popo-li che hanno una storia ed una cultura comune, anche religiosa. Anche se questo si è realizzato solo da pochi decenni, già nel medioevo questa idea prendeva cam-po, molto lentamente, ad opera di coloro che si sono adoperati per dare una for-mazione comune, religiosa ma non solo, anche pratica. All’inizio i monaci di San Benedetto nel centro Italia e gli evange-lizzatori di provenienza irlandese (San Colombano, San Gallo ecc) nel resto del-l’Europa, in un momento drammatico della sua storia, si dettero il compito di reagire ad anni di violenza ed anarchia che seguirono alla caduta dell’Impero ro-mano. Fondarono abbazie e monasteri, con l’intento di salvare la civiltà e rico-struire l’Europa, distrutta fisicamente e moralmente da anni di invasioni, guerre, prevaricazioni. Unni, Vandali, Visigoti, Longobardi, Slavi e Ungari furono così cristianizzati con la sola forza dell’esem-pio e della fede; i monaci contrapposero la saggezza ed il pragmatismo dell’ ora et labora e riuscirono con il solo esempio a civilizzare i pagani. Salvarono una cultura millenaria, rimisero in ordine un territorio devasta-to e in preda all’abbandono. Costruiro-no, con monasteri, dei formidabili presi-di di resistenza alla dissoluzione. Pianta-rono presidi di preghiera e lavoro negli spazi più incolti d’Europa per poi tessere tra loro una salda rete di fili. Paolo Rumiz, giornalista scrittore e viaggiatore, ha ripercorso questa rete, facendo un viaggio, fisico ma soprattutto interiore, alla ricerca delle radici dell’Eu-ropa, tra l’Europa di un tempo e quella di oggi. (Il filo infinito, 150 pp., 16 €. Ed. Feltrinelli, Milano, 2019). Partendo da Norcia, Rumiz ha visitato Montecassino, la Baviera, Viboldone, il Tirolo, San Gallo

in Svizzera, Citeaux e Saint Vandrille in Francia, Orval in Belgio, monasteri sperduti in Germania e così via. Ogni monastero, pur parte di una grande or-ganizzazione, è ancor oggi una entità a sé, con le proprie peculiarità, il proprio fascino, che Rumiz svela e racconta ma-gistralmente. Ancora si coltiva l’orto, si produce la birra, si studia la musica, i movimenti delle stelle. Come i monaci rifondarono l’Euro-pa sotto l’urto delle invasioni barbari-che, i padri dell’odierna Unione Europe-a, dopo due sanguinose guerre mondiali, hanno cercato di rendere dignità e ric-chezza ad un continente in ginocchio, tessendo anche loro dei fili, delle rela-zioni internazionali che uniscano gli uo-mini di buona volontà, per abbattere muri ed intolleranza, divisioni ed egoi-smi nazionali.

Immagine della copertina del libro autorizzata da Feltrinelli Editore

Un filo lunghissimo di Luciano Mazzucco

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Il volo delle cicogne di Enrico Marchi Ricordando i campanili non possiamo dimenticare le cicogne ed i loro nidi arditi fatti sui campanili, certamente, perché nel-le campagne che sorvolano nei loro lunghi viaggi spesso il campanile della chiesa è l’unica struttura di una certa altezza. Ma non solo sui campanili; infatti le cicogne nidificano anche su altre strutture alte ed inaccessibili e, se è possibile, anche in si-tuazioni ambientali di caldo, sui camini del-le case ad es., soprattutto quando la coppia si occupa di covare a lungo le uova. Forse proprio per questo motivo le cicogne sono state associate alla nascita di un bambino perché in tale occasione nelle case dove era avvenuta una nascita si teneva più calda la casa. Entrando nei dettagli, la comune ci-cogna che conosciamo è la “Cicogna bian-ca” (Ciconia ciconia), una specie migratrice a distribuzione mediterranea e eurocentro-asiatica; nidifica alle medie latitudini in Eu-ropa, Asia Minore e Nord Africa e sverna prevalentemente in Africa, a sud del Saha-ra. Essa deve la sua fama al fatto di vivere tendenzialmente a stretto contatto con l’uo-mo, soprattutto durante il periodo della ri-produzione. La nidificazione avviene infatti vicino a insediamenti umani e più che albe-ri spesso utilizza strutture create dall’uomo stesso, come appunto su camini, sui campa-nili e tralicci dell’energia elettrica. Recente-mente sono state predisposte (dall’Enel con la collaborazione della Lipu) su alcuni tra-

licci dell’alta tensione, lungo i normali per-corsi di migrazione, piazzole metalliche, iso-late e poste al di sopra dei fili elettrici, dove le cicogne possono fare il nido in tutta sicu-rezza. Dall’alto di tali costruzioni esse tengo-no sotto controllo il territorio circostante e la scelta della particolare altezza del nido è si-curamente legata ad una necessità di sicurez-za lontano dai predatori. Le principali rotte migratorie passano per Gibilterra ed il Bosfo-ro, ma anche l'Italia è interessata da un cre-scente passaggio primaverile ed autunnale, dovuto probabilmente all' aumento delle po-polazioni dei paesi confinanti. Durante le mi-grazioni la specie è gregaria e forma grandi stormi, ma nella fase riproduttiva ha un com-portamento territoriale. La Cicogna bianca si riproduceva in epoca romana in tutto il Paese ma già nel XV secolo era confinata come nidi-ficante alla Pianura Padana e forse già dal XVI secolo completamente estinta in Italia. Nel 1985 la Lipu intraprese una campagna di sensibilizzazione ed un primo progetto di reintroduzione della specie. Dopo vent'anni di impegno, nella stagione riproduttiva 2005, ben 160 coppie di Cicogna bianca nidificava-no in molte regioni italiane, fra cui la Tosca-

Nidi di cicogne sul campanile della chiesa

di Villar de Mazarife (Leon - Spagna)

Campanile della chiesa

di Sanguesa ( Navarra - Spagna)

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Cronache di Cammini

Pubblicazione culturale di percorsi, soste, storie nel cammi-nare. Diffusione semestrale a stampa. Anno 9° - Numero 16 - ottobre 2019 --------------------- Direttore Responsabile: Niccolò Mazzucco Redazione: Luciano Mazzucco. Correzione bozze: Paolo Lip-pi. Direzione, Redazione: Via V. da Filicaia 22 - 50135 Firenze Tel. e fax 055-679925. Cell. 338-6783084 E-mail: [email protected] Sito web. http://www.cronachedicammini.com Registrazione Tribunale di Firenze n° 4157 del 3.8.2011 Stampa: Officine Grafiche Elettra. Via B. Dei, 70 — 50127 Firenze Tel 055-473.809 Proprietario/Editore: Dott. Luciano Mazzucco. Codice Fiscale: MZZLCN53D10D612O

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na. La prima nidificazione allo stato libero in Toscana risale al 2005, quando una cop-pia mista costituita da una femmina prove-niente dal Centro Carapax di Massa Maritti-ma (Gr) e da un maschio probabilmente selvatico si insediò su un traliccio Enel a Fucecchio, ai margini del Padule, riprodu-cendosi con successo anche negli anni suc-cessivi. Sono stati osservati successivamen-te insediamenti anche nell’oasi Wwf di Bol-gheri, nel territorio di Porcari, Iolo e Case-rana. La cicogna si sposta attraverso zone acquitrinose, prati, campi coltivati e risaie e dopo aver individuato la preda l’afferra ra-pidamente con il becco. La caccia avviene quasi sempre di giorno e di solito singolar-mente, raramente in gruppo; è possibile osservare numerosi individui cacciare insie-me nel caso in cui vi sia una enorme dispo-nibilità di prede, come per esempio durante un’invasione di locuste. In genere la ricerca del cibo avviene nelle vicinanze del nido, occasionalmente però possono allontanarsi anche di alcuni chilometri. Si nutrono di una grande quantità di specie animali, in base anche alle aree che frequentano: nelle annate secche e aride, per esempio, caccia-no maggiormente insetti, piccoli rettili e piccoli topi, mentre in periodi più umidi si nutrono principalmente di organismi ac-quatici, come pesci e piccoli invertebrati acquatici. Le due principali rotte migrato-rie, ricostruite anche con le tecniche di stu-dio satellitare, sono attraverso Gibilterra per le cicogne che nidificano in Europa oc-cidentale, e attraverso il Bosforo per coloro che nidificano nell’Europa orientale. I re-

centi interventi di protezione della specie e l’aumento degli esemplari in paesi vicini all’I-talia hanno via via reso il nostro Paese una delle mete prescelte dalle cicogne che oggi si concentrano soprattutto in Sicilia. In Europa il maggior numero di esemplari è concentrato in Spagna (circa 30.000 coppie) dove li pos-siamo vedere lungo il cammino di Santiago, e nell’Europa orientale in Ucraina e Polonia.

Nido di cicogne sul supporto artificiale

di un traliccio Enel (Fucecchio)

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I tanti volti del pellegrino di Lucia Mazzucco Sembra una sorpresa, quasi un re-galo a chi, fra un cammino ed un altro, si dedica alla lettura e trova fra le storie citazioni, similitudini, capitoli e racconti interi dedicati al ‘pellegrino’. E’ un ri-chiamo utile per allargare o anche solo incuriosire su come si può interpretare questa figura e al tempo stesso può far nascere un desiderio di confronto. Che tipo di pellegrino sia questo, quale sia il suo cammino, la sua meta, a cosa si affi-di, che cosa speri, perché lo si definisce tale? Dire e dirsi ‘pellegrino’ è facile ma dietro a questa parola, che viene usata sia nella sua forma di sostantivo che di aggettivo, possono nascondersi le moti-vazioni più lontane, tali che l’una po-trebbe trovare l’altra come non autenti-ca e bugiarda. Come infatti succede che mentre ci si racconta con un certo orgo-glio della propria esperienza di pellegri-no, si possa raccogliere con sorpresa l’ef-fetto di uno sguardo di riprovazione e diffidenza. Il poeta Charles Vildrac ha pre-sentato un personaggio ‘pellegrino’ in una sua pièce teatrale che porta lo stesso titolo. Si tratta di una commedia breve di un solo atto scritta nel 1922 e scelta da Luigi Pirandello per essere rappre-sentata al teatro d’Arte Odescalchi di Roma il 15 maggio 1925, quando era il direttore e capocomico di quel teatro e si avvalse della collaborazione della scrit-trice Sibilla Aleramo, che curò la tradu-zione del testo di Vildrac. Il lavoro non ha avuto importanti repliche ma per noi rimane interessante per questo profilo di pellegrino che appare. Il pellegrino di Vildrac è un uomo di mezza età che arri-va al suo paese dopo una lunga assenza. … Ho voluto compiere un pellegrinag-

gio … e appena sceso dal treno mi sono

accorto che bisognava chiamare a soc-

corso tutto il proprio coraggio per af-

frontare tanti ricordi.

Si chiama Edoardo Desavesnes e da

solo si riconosce come pellegrino in un

cammino che lo esporrà a molte prove.

Incontra la sorella, le due nipoti, rivede

la casa dove aveva vissuto fin dalla nasci-

ta, i luoghi dei giochi, la fabbrica paterna,

il cimitero, affrontando con un passaggio

veloce la trama della sua vita passata. Le

nipoti sono incuriosite e non riconoscono

in lui lo zio di cui avevano sempre sentito

parlare; la sorella lo osserva prima con

un certo affetto, poi lo critica e diventa

severa nel valutare la sua vita. Il contra-

sto maggiore riguarda la sua mancata

partecipazione a mantenere la vecchia

attività del padre, una segheria, che ora è

affidata al cognato mentre lui se ne era

andato a vivere, come giornalista, a Lon-

dra poi a Parigi ed in Italia.

Il confronto finisce per essere dolo-

roso da ambo le parti … ho vissuto in I-

talia con la donna che amavo … e me ne

sono arricchito più di te, con tutta la tua

officina e tutti i tuoi guadagni … e la visi-

ta si fa più rapida del previsto.

Cerca di far capire alla sorella che lo

incalza … ti prego di credere che la vita

come io desideravo viverla l’ho raggiun-

ta, l’ho conquistata. Certo a costo di una

quantità di miserie; ma fino ad ora ho

fatto il mio viaggio duro, ma bello, se-

condo il mio passo, e sulle strade che a-

vevo voglia di fare, senza nulla rifiutar-

mi e senza sottrarmi a colpi di sole né ai

colpi di vento …

ora dice di voler partire per l’India con

nuovi progetti.

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Mentre si avvia da solo e non vuole

essere accompagnato verso la stazione,

vede la vita di una famiglia che continua

nella sua tradizione di fronte alla quale

lui si fa nuovamente pellegrino.

Il testo completo della commedia si

può trovare in uno dei tre volumi di Tut-

to il teatro di tutti i tempi - Editore Ghe-

rardo Casini. Questo il volto del pellegri-

no di Vildrac.

Continuando nella ricerca dei tanti

volti che può assumere un pellegrino ci

affidiamo all’offerta che la scrittrice Elsa

Morante ci ha nascosto fra le righe dei

suoi racconti. Prima di tutto troviamo un

racconto che porta proprio il titolo La

pellegrina. Pubblicato su un numero spe-

ciale di ‘Panorama’ nell’agosto del 1940

la piccola storia propone una pellegrina

nella sua accezione più classica. Racconta

di una anziana signora vedova di un be-

nestante, persona con un carattere auto-

ritario e orgoglioso, di cui lei stessa è fie-

ra e ugualmente vittima, che fa il suo pel-

legrinaggio verso un luogo di devozione

con desiderio di ottenere una grazia. E’ la

notte di Pentecoste, dopo la cena in fami-

glia circondata da figli e dai nipoti che la

temono e la fuggono, la pellegrina esce di

casa lasciando tutti all’oscuro delle sue

intenzioni. Secondo la tradizione in quel

paese quella notte si celebra con un pelle-

grinaggio il miracolo per cui duecento

anni prima un pellegrino con l’aiuto della

Vergine Maria era stato salvato dall’assal-

to di cani furiosi. Dalla cattedrale del pa-

ese una folla di devoti sale fino al Santua-

rio dove si venera la Statua della Vergine,

ma la vecchia signora sola e distante da-

gli altri affronta il percorso e la fatica del-

la salita con il suo bastone: reggeva il lu-

me avanti a se’ come un soldato la sua

lancia. Nel corteo ognuno porta con sé la

sua supplica, ma lei non segue il corteo e

mantiene ferma la sua posizione: quan-

do intorno si recita il rosario lei si dedi-

ca alle laudi e quando si cantano i cori

pensa da sola alla sua supplica.

… Tu m’hai fatta orgogliosa e assetata

di autorità. Avrei dovuto nascere impe-

ratrice e allora, sì, la mia anima sareb-

be stata paga. Esser temuta magari o-

diata da tutto un popolo che al mio pas-

saggio si prosterni nella polvere; que-

sto sì mi converrebbe. Invece, che cosa

hai fatto di me? Una modesta madre di

famiglia, la vedova di un benestante,

con nuora e nipotini. Essi mi temono, è

vero, ma il timore di una donnicciola e

di tre ragazzetti, che valore può avere

per me? …

O Vergine, dopo avermi dato l’anima

superba e inflessibile che si conviene ad

una regina, m’hai gettato in questa val-

le di umiliazione. Per questo vengo in

pellegrinaggio al tuo santuario. Sono

vecchia, e una simile vita mi disgusta.

Ti chiedo di darmi la morte ...

Questa è la preghiera della pelle-

grina che rivolse al miracoloso dipinto.

Intorno al Santuario si irradiava lo spiri-

to delle feste tipiche della fine di ogni

pellegrinaggio, ma la nostra pellegrina,

fatta la sua preghiera, si diresse subito

ad affrontare la discesa. Suo malgrado

presto per la stanchezza fu costretta a

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sedersi vicino ad una tavola di una oste-

ria all’aperto. Fra la compagnia dei pelle-

grini che vi erano seduti, una donna l’av-

vicinò e le chiese il nome mentre un altro

ordinò un bicchiere per lei, e poi tutti la

salutarono e levarono il loro bicchiere

verso di lei. Fu intonato l’inno alla Vergi-

ne e mentre lei provava ad unirsi a loro,

sentì che le forze le venivano meno. Si

appoggiò al tavolo e mentre si sorprende-

va di avvertire un senso di benessere, sta-

va per addormentarsi quando vide una

giovinetta che la fissava ...

“No” balbettò la vecchia sperduta “non

adesso. Lasciami qui con loro”. Muta e

severa la giovinetta parve accennare un

comando e la vecchia la seguì.

Il racconto La pellegrina fu pubbli-

cato con il titolo Il gioco segreto. Oggi il

libro non è più in catalogo, ma il testo lo

si può trovare nella edizione dell’opera

omnia dell’autrice pubblicata da Monda-

dori. Oltre a questo racconto la Morante

quasi consacra la figura del pellegrino

perché la troviamo presente come figura

retorica in tutti i suoi romanzi.

Ne L’ isola di Arturo il personaggio si muove al modo di un pellegrino bendato’ e ne La storia le similitudini sono varie:

… con l’aria di recitare apposta per im-pietosirla, la parte del pellegrino, aveva posato su una palma la guancia recli-nata di chi chiedeva asilo (pag. 64), e per l’atto di festeggiare (pag. 79) … sulle soglie i pellegrini salutano a mani giun-te e di fronte ad un passo falso (pag. 13-2) … le mostrò una faccia amara, come un pellegrino del deserto che avesse in-seguito una montagna e per una ricerca disperata ( pag. 470) come un pellegrino che si butta alla perdizione. Qualche altra citazione ci sarà sfuggita ma è interessante il quadro che Elsa Morante ci ha fornito. ………

Copyright Eredi Elsa Morante. Per gentile concessione. Published by arrangement with The Italian Literary Agency.

Immagini copertine dei libri citati autorizzate da Einaudi Editore

E’ disponibile in libreria, dal giugno 2019, l’ aggiornamento della Guida alla Via degli Abati e del Volto Santo edita da Terre di Mezzo. Dopo l’edizione del febbraio 2017, è stato necessario rivedere i percorsi, proponendone di nuovi e le accoglienze, ora più numerose. Un cammino che trova sempre più camminato-ri disposti a seguire le tracce dei monaci di San Colombano e dei devoti alla reliquia del Volto Santo conservata nel Duomo di Lucca.

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Oggi è un piccolo sobborgo di Bel-fast, nell’Irlanda del Nord, ma in passato Bangor ha rappresentato un centro im-portante della cristianizzazione non solo dell’Irlanda ma anche dell’Europa intera. L’Irlanda era rimasta fuori dalla coloniz-zazione romana per cui non fu subito coinvolta nella diffusione del Cristianesi-mo durante l’impero di Costantino, dedi-ta ancora a riti pagani. Fu papa Celestino I che nel V secolo dette incarico al vesco-vo britannico Patrizio (n.365 – m.461) di evangelizzare l’Irlanda; questi diffuse in questa terra il cristianesimo adattandolo al paganesimo celtico (ad es. adottò la croce celtica al posto della croce latina, un diverso computo della Pasqua, l’auto-rità dell’apostolo Pietro, ecc.) e svilup-pando il monachesimo di impronta celti-ca, con fondazione di monasteri in tutta l’isola. Il luogo di Bangor, dove in seguito il monaco Comgall avrebbe fondato il suo più importante monastero, fu indicato proprio da San Patrizio che aveva descrit-to in un sogno quella valle “piena di luce celeste con numerose schiere di angeli” definendola come la “valle degli angeli”. Comgall, nato ad Antrim vicino a Bangor nel 516, aveva trascorso i primi anni alla scuola monastica presso l’abate Finian nel monastero di Clonard (nei pressi del-l’attuale Dublino), quindi aveva fatto ri-torno a Bangor, dove, con un gruppo di discepoli, nel 558 fece i primi insedia-menti monastici, molto semplici e primi-tivi: piccole capanne di legno e argilla, costruite intorno alla chiesa, in pietra, cui presto si aggiunse il refettorio, la scuola, lo scriptorium e l’ospizio per i poveri. Molte migliaia furono gli studenti che in seguito si formarono presso Bangor stu-diando a fondo le lettere, la grammatica, la retorica, il latino, le Sacre Scritture ma dedicandosi anche al lavoro dei campi e all’allevamento degli animali. Non ultimo

era lo studio e la conservazione dei co-dici classici. La vita del monastero era molto severa; i monaci consumavano solo un pasto alla sera. La dieta era a base di erbe, acqua e pane, e spesso ve-nivano osservati silenzio, digiuno e mortificazione corporale. Il monastero era difeso da una sorta di bastione ed un fossato. Fra i discepoli che formarono qui la propria cultura religiosa e presero i voti, continuando l’opera di diffusione della fede, ci furono, tra i più famosi, san Colombano di Bobbio e san Gallo che nel 590, con un piccolo gruppo di monaci, lasciarono Bangor per evange-lizzare il continente europeo spinti dalla peregrinatio pro Domino. Come sap-piamo furono da essi fondati molti mo-nasteri ed abbazie in Francia (di cui Lu-xeuil fu la più importante), Germania, Svizzera ed Austria. San Gallo si fermò in Svizzera dove fondò un’ abbazia dan-

Un viaggio a Bangor di Lucia Gallori

La croce celtica, un sole che avvolge la croce

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do il nome alla città ed al Cantone, men-tre San Colombano proseguì per Pavia e Bobbio. Per il timore delle incursioni vi-chinghe e danesi cui Bangor è sempre stata esposta, San Colombano ed i suoi portarono con sé vari manoscritti che an-darono ad arricchire la futura biblioteca di Bobbio. In seguito arricchì questa bi-blioteca anche il più antico manoscritto di canti liturgici esistente e scritto a Ban-gor, detto appunto “Antifonario di Ban-gor” (oggi conservato nella Biblioteca Ambrosiana di Milano) che raccoglie Cantici della Bibbia, Te Deum, Gloria in excelsis, numerosi inni metrici ed una forma insolita del Credo.

Oggi l’Abbazia (foto) che ho potuto recentemente visitare a Bangor, è una chiesa parrocchiale circondata da un pic-colo cimitero. L’Abbazia originale, a se-guito delle incursioni del IX secolo, subì un lungo periodo di decadenza e di deva-

stazione; i monasteri erano spesso og-getto di saccheggio e in più occasioni la tomba di Comgall fu aperta e distrutta. Nel X secolo ne erano rimaste solo rovi-ne. Nel 1140 la chiesa fu ricostruita in pietra da San Malachia; di questo perio-do rimane ben poco, solo il cosiddetto “Muro di Malachia” per cui la chiesa attuale si deve alla ricostruzione attuata da Sir James Hamilton nel 1840 circa. La torre principale risale al 1400 e la campana è stata riposta nel 1693. Oggi Bangor è gemellata con la città di Breghenz in Austria. Anche se è rimasto poco di quello che fu 14 secoli fa Bangor rappresenta ancora un luogo significativo, denso di storia, in cui af-fondano le nostre radici culturali e reli-giose, un luogo speciale che San Patri-zio, ispirato, secoli prima aveva visto in sogno come la “valle degli angeli”.