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Settimo itinerario

��� Il Casentino. Territorio, storia e viaggi

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“Varcavano l’Appennino per il gran passo di Monte Bardone fra Valdi Magra e Val di Taro, e per quello dei Mandrioli tra Arezzo e

Bagno di Romagna…”. Così scrive Riccardo Bacchelli in Non ti chia-merò più padre, riferendosi ai principali flussi di transito che all’epocadi San Francesco si svolgevano tra l’Italia peninsulare e la Padania.

Lo scrittore, attento a una rigorosa ricostruzione storica della vi-cenda umana del Santo di Assisi, oltre alla via Francigena fa quindimenzione di un altro importante itinerario che incanalava i viandantie i pellegrini che andavano o tornavano da Roma: la via che nel me-dioevo utilizzava il valico casentinese dell’Alpe di Serra, oggi abbando-nato a favore del passo dei Mandrioli.

In realtà la transappenninica che da Bagno di Romagna portava adArezzo attraverso il Casentino nel XIII secolo aveva pari dignità dellavia Francigena, era anzi da preferire, almeno a giudicare da una auto-revole fonte della metà del Duecento, gli “Annales Stadenses auctoreAlberto”, che la ritiene la miglior via per Roma: “… habes optionemduarum viarum trans montes, vel ad Balneum Sanctae Mariae, vel adAquan Pendentem. Sed puto, quod melior sit via ad Balneum SanctaeMariae”.

Ora bisogna tenere presente che a partire almeno dal XII secolo siera modificato il quadro geografico dei flussi di pellegrinaggio e lamaggior parte dei pellegrini romei era costituita da “tedeschi ed un-gari”, come erano genericamente chiamate tutte le popolazioni cheprovenivano dall’Europa centrale e settentrionale. Se ne ha una con-ferma in quella sorta di consuntivo “ufficiale” del Giubileo dell’anno1300, la relazione del cardinale Stefaneschi (“De centesimo seu Jubi-

RenatoStopani

Alpe di Serra

Il Casentino e la “melior via” per Roma

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leo anno liber”) dove, accennando ai paesi di origine della gran mas-sa dei fedeli che risposero al richiamo della “gran perdonanza”, viendetto che a produrre le “turme grandissime” che affluirono a Romaavevano concorso in special modo la Germania e l’Ungheria, duerealtà geopolitiche che all’epoca erano assai più ampie di quelle at-tuali, comprendendo in pratica tutto il mondo europeo centro-set-tentrionale.

Si comprende pertanto perché fossero privilegiati gli itinerari ro-mipeti più orientali rispetto alla via Francigena, il che spiega l’uso diun valico appenninico come quello dell’Alpe di Serra. È poi da ag-giungere che un tale percorso consentiva ai pellegrini di poter raggiun-gere, mediante brevi diversioni, una località (la Verna) che era statateatro di un evento particolarmente significativo della vita di SanFrancesco, e che già nel Duecento attirava folle di fedeli.

La strada discendeva dal passo del Brennero e nel suo tratto trenti-no, come in quello padano, era chiamata, a motivo della sua prove-nienza, “Teutonica” o “di Alemagna”. Dalla via Emilia, che poteva es-sere raggiunta anche mediante percorsi che utilizzavano in buonaparte vie d’acqua, la strada risaliva la valle del Bidente sino a Santa So-fia, superava poi il passo del Carnaio e digradava nella valle del Savioraggiungendo Bagno di Romagna. Di qui iniziava la ripida salita al va-lico dell’Alpe di Serra, indicato negli “Annales Stadenses” semplice-mente come “Alpes”. La strada, sostanzialmente parallela all’odiernastatale che porta al passo dei Mandrioli, è ancora percorribile, sebbe-ne ridotta a sentiero, e ha conservato tratti di antico selciato e alcunimanufatti altrettanto vetusti (piccoli ponti di pietra, muri di retta,cordoni laterali). Della faticosa e difficile ascesa al valico, specie nellastagione invernale, dà testimonianza la memoria di un pellegrino, ilpatrizio veneto Tommaso Giustiniani, che in una lettera inviata all’a-mico Vincenzo Quirini così ricorda l’impresa, avvenuta nel dicembredel 1510: “… mi avviai, e comincia a montar le Alpi per una natural-mente difficile via, sempre montando, e poi per gli ghiacci difficilissi-ma e pericolosa. Io tremo ora a pensare ad alcuni di quei passi che pas-sai” (Annales Camaldulenses, tomo IX, pp. 467-471).

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Passodei Mandrioli

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Oltre il valico (m 1148) siamo in Casentino, nella valle del torrenteCorsalone, affluente dell’Arno. La strada, in parte ancora lastricata, do-po un paio di chilometri incontrava il villaggetto di Serra, ricordato dal-l’inizio del XII secolo come sede di un “castello et curte”. Di pertinen-za di signori di “nazione” longobarda (i “Lambardi di Serra”), il castellodoveva essere ubicato immediatamente a nord dell’attuale villaggio econtemplare anche una chiesa, la “Ecclesia Sancti Christofori de Serra”,suffraganea della pieve di Partina.

Oltre Serra la strada si svolgeva con un percorso che toccava le lo-calità di Fatucchio, Biforco, Rimbocchi e Buterone. Proseguiva poimantenendosi sulla destra del torrente Corsalone e transitando per ivillaggetti di Pezza, Giona e Banzena. Sin dall’XI secolo sono docu-mentati a Pezza una “via publica” e uno spedale dipendente dalla pie-ve di Partina. Sull’altro versante della valle del Corsalone, su un’alturasovrastante il corso del torrente, si erge il castello di Gello, ricordatoda Matteo Villani come un “bel castelletto attorniato da buoni terre-ni”. Chiamato “Gello dell’Abate” poiché sin dall’XI secolo di perti-nenza dell’abbazia di Prataglia, il castello era dotato di una chiesa, si-gnificativamente intitolata a San Martino, il santo protettore deiviandanti.

La strada giungeva poi a Campi, località nella quale è da riconosce-re quel “Champ” indicato negli “Annales Stadenses” come luogo ditappa immediatamente successivo al valico dell’Alpe di Serra. Questoprimo tratto casentinese dell’itinerario può essere considerato unesempio tipico dei caratteri della viabilità medievale, che spesso con-stava di una “moltitudine di piccoli canali” in mancanza (come in que-sto caso) di un percorso principale “capace di accaparrarsi il traffico”.Di qui, ad esempio, l’esistenza, non lontano da Pezza, ma su un per-corso evidentemente alternativo, di un altro punto di assistenza: lospedale di San Leonardo ad Aiole, documentato dal XII secolo tra i be-ni dell’abbazia di Prataglia.

Campi, che sorge su un’area pianeggiante nel fondo valle del torren-te Corsalone, era particolarmente adatto a costituire un punto di sosta,data la sua ubicazione in prossimità del torrente, nel cui letto peraltro

Santa Mama

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sono stati recentemente rinvenuti i resti di un ponte medievale. Dellestrutture ricettive e assistenziali che dovevano avervi sede rimane ricor-do solo nei documenti, che fanno riferimento a uno spedale, dedicatoa Santa Caterina, dipendente anch’esso dalla pieve di Partina.

Poco dopo Campi il torrente Corsalone confluisce in Arno, nonprima di aver dato nome a un villaggio, Corsalone appunto, posto inprossimità della confluenza, dove il torrente veniva attraversato. Lastrada proseguiva costeggiando l’Arno con un percorso sostanzialmen-te riproposto oggi dalla Statale n. 71 umbro-casentinese per cui transi-tava per Rassina, dopo aver superato l’omonimo torrente con un pon-

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Veduta delnucleo più anticodi Subbiano

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te medievale tuttora esistente. Nei pressi di Rassina sorse la pieve roma-nica di Sant’Antonio a Sòcana, il cui campanile a base cilindrica, richia-mandosi a modelli ravennati, costituisce una precisa testimonianza deilegami artistici e culturali di Arezzo con la capitale dell’Esarcato, cheavvenivano per il tramite della via; lo attesta anche il toponimo di unalocalità che la strada incontrava dopo Rassina: Santa Mama, che haconservato il ricordo di una intitolazione a un santo bizantino (SanMamante).

Proseguendo verso il successivo luogo di sosta ricordato dagli “An-nales Stadenses”, Subbiano (“Subean”), la strada incontrava Spedalet-to, toponimo che rimane forse a testimoniare il sito dell’antico speda-le “Sancti Egidii de Cerreto”. Sorto in corrispondenza di un punto diattraversamento dell’Arno, Subbiano era un insediamento incastella-to ricordato sin dall’XI secolo come pertinenza di signori di originelongobarda. La sua importanza come nodo viario e punto di control-lo della viabilità è confermato da numerosi diplomi imperiali che di-spongono del castello (da Federico I ad Arrigo VI, a Federico II).

Avvicinandosi ad Arezzo la strada, ricordata dai documenti come“strata romea” o “strata romipedarum”, si punteggiava sempre più dispedali per pellegrini: ve ne erano ad esempio al Ponte di Caliano(“Santa Maria “iuxta pontem”) e al Ponte alla Chiassa (“HospitalePontis de Classe”). Ad Arezzo, poi, la città si presentava particolar-mente dotata di strutture atte all’accoglienza dei pellegrini e dei vian-danti, con i suoi numerosi spedali tra i quali emergevano quelli istitui-tivi dalle grandi congregazioni ospedaliere: dai cavalieri Teutonici, aiTemplari, all’ordine di San Lazzaro.

Il restante percorso della strada si svolgeva costeggiando la val diChiana, allora impaludata, toccando Castiglion Fiorentino e transi-tando ai piedi di Cortona. Giungeva poi al lago Trasimeno (Castigliondel Lago) e, per Città della Pieve e Ficulle, arrivava a Orvieto da dovesi dirigeva verso Montefiascone dove si raccordava al percorso della viaFrancigena.