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LA SEMPLIFICAZIONE AMMINISTRATIVA (Fabrizio Dal Passo)

CAPITOLO 1.

SEMPLIFICAZIONE AMMINISTRATIVA: DEFINIZIONE E CRITERI GENERALI 1. Caratteri generali La semplificazione amministrativa, intesa come snellimento dell'attività amministrativa e riduzione degli adempimenti incombenti sui cittadini (esibizione di certificati, autenticazioni di firme, ecc.) costituisce uno dei temi centrali delle riforme amministrative dell'ultimo decennio. L'esigenza di semplificare l'attività amministrativa deriva essenzialmente da due circostanze, oggi di grande importanza nel dibattito politico-ideologico e costituite dalla necessità di rispettare i sempre più stretti vincoli di bilancio (sono purtroppo note a tutti le attuali ristrettezze della finanza pubblica) e dalla necessità di dare vita ad una pubblica amministrazione in linea (soprattutto per quello che riguarda i tempi di definizione dei procedimenti amministrativi) con le burocrazie degli altri Stati Europei. Semplificare l'attività amministrativa significa quindi una pubblica amministrazione che costi meno alla collettività, sia in termini di stanziamenti di bilancio che in termini di costi complessivi (comprensivi delle ore-lavoro che l'acquisizione di inutili certificati o le code davanti agli uffici sottraggono ad ogni cittadino) e soprattutto che lavori meglio. In termini più generali, la semplificazione amministrativa costituisce poi uno dei mezzi per raggiungere due dei principi generali dell'attività amministrativa individuati dall'art. 1 della l. 241/90 e costituiti dall'economicità (intesa come minor dispendio possibile di risorse economiche) e dall'efficacia (intesa come rapporto tra il risultato che ci si prefiggeva di raggiungere ed il risultato effettivamente raggiunto dall'azione amministrativa); semplificare è quindi il mezzo migliore per ottenere una pubblica amministrazione che consumi minori risorse e che raggiunga gli obiettivi prefissi. La semplificazione amministrativa per risultare efficace deve affrontare, sia pure con modalità di approccio essenzialmente diverse, l'intero apparato amministrativo; particolare importanza hanno soprattutto gli interventi sul versante del procedimento amministrativo e sul versante dei rapporti tra p.a. e cittadino. L’esigenza di semplificare l’azione amministrativa di delinea, quindi, come un elemento caratterizzante la produzione normativa del nostro legislatore (1). Conformemente al dettato costituzionale, che impone l’adozione di schemi organizzativi improntati da un lato al buon andamento e dall’altro alla stretta osservanza del principio di legalità, si è tentato di elaborare strumenti procedurali rispondenti a tali principi. Ne è derivata una tendenza a non considerare la fonte normativa primaria quale unica in grado di disciplinare i multiformi aspetti dell’apparato e dell’attività amministrativa, per rinviare alla potestà regolamentare il compito di normare in materia. Il fenomeno ha assunto rilievo soprattutto in relazione alle cc.dd. leggi provvedimento, con cui ci si occupava di questioni che mal si attagliavano con i caratteri di generalità ed astrattezza propri della norma di legge (2). Un primo vero tentativo di delegificazione è rinvenibile nella l. 23 agosto 1988, n. 400, di disciplina dell'attività di Governo e dell’ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri (3), con la quale si è attuato un notevole potenziamento nell’utilizzo dello strumento regolamentare, nelle sue varie manifestazioni. Il meccanismo previsto in tale normativa (art. 17, comma 2) richiede l’individuazione delle norme regolatrici della materia da parte della legge delegificante (4). Inoltre, la stessa disposizione prevede che la legge di delegificazione determini l’abrogazione delle norme vigenti a far data dall’entrata in vigore del regolamento (5).

1 Secondo Carbone L.,La semplificazione dell’azione amministrativa nell’attuazione della l. 59 del 1997, Bologna, 8 marzo 1998, “l’esigenza permanente” di semplificazione nasce da due fattori: il primo, comune ad altri ordinamenti, quale riflesso della pluralità e della natura degli interessi sull’organizzazione e sullo svolgimento dell’azione amministrativa, è costituito dal rapporto tra gli interessi con i moduli orizzontali e consensuali; il secondo, tipico dell’ordinamento italiano, è l’altissimo tasso di dispersione delle funzioni, dovuto ad una loro irrazionale stratificazione nel tempo. 2 Si tenga presente che dalla delegificazione dev’essere distinta la deregolamentazione (c.d. "deregulation"). Con la prima non si ha una modifica in ordine alla sfera di distribuzione del potere, ciò che, invece, si realizza con la seconda, caratterizzata dalla dismissione (o liberalizzazione) d’alcune attività o settori d’attività, che passano dall’ambito pubblico a quello privato, con conseguente limitazione dell’intervento pubblicistico ai soli poteri di regolazione. 3 In Gazz. Uff., 12 settembre 1988, n. 214, S.O. 4 Il Consiglio di Stato (Ad. gen. 16 novembre 1989, n. 100), nell’esercitare la propria funzione consultiva in ordine ad un regolamento per la pratica forense, ha affermato che le norme generali disciplinanti la materia possono essere individuate nella legislazione non delegificata, quindi non disciplinata nel regolamento. 5 Sempre il Consiglio di Stato, nel parere citato nella nota che precede, si è espresso a favore di un’individuazione delle norme di legge abrogate da parte del regolamento, nella predisposizione del quale è possibile delineare le norme primarie da delegificare.

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Al riguardo, sono stati sollevati dubbi circa la compatibilità di tale di tale previsione con il sistema delle fonti normative vigente nel nostro ordinamento. In realtà, la forza delegificata attribuita al regolamento non “brilla di luce propria”, ma deriva dalla legge delegificante, nella misura in cui la potestà regolamentare è esercitata nell’ambito dell’oggetto della delegificazione. L’ampia applicazione dell’istituto derivante dall’applicazione di tale normativa ha avuto il merito di contribuire ad una progressiva accelerazione dell’azione amministrativa, non più cristallizzata entro gli inadatti schemi legislativi, difficilmente modificabili in tempi rapidi e, quindi, non in grado di far fronte alle mutevoli esigenze della collettività. Quella parte della dottrina fautrice dell’introduzione nel nostro ordinamento di un utilizzo sempre più diffuso dello strumento regolamentare, ha salutato con favore questa evoluzione normativa, ma l’ha considerata solo l’inizio di un processo delegificativo che avrebbe dovuto assumere ben più ampie dimensioni. Si è giunti persino a chiedere una modifica del dettato costituzionale in tal senso, volto cioè ad introdurre il principio della c.d. riserva di regolamento in relazione all’organizzazione ed allo svolgimento dell’attività amministrativa. L’abbandono della riserva di legge era visto come un momento essenziale per una presa di posizione forte del nostro legislatore verso un problema, quello della semplificazione amministrativa, ritenuto sempre più attuale. 2. La semplificazione del procedimento amministrativo Il primo terreno di intervento della semplificazione è costituito dalla necessità di prevedere dei procedimenti amministrativi più snelli ed efficienti; semplificare significa quindi, da un lato, eliminare tutti gli adempimenti (ad es. acquisizione di pareri, nulla-osta, ecc.) dei procedimenti amministrativi non più necessari e, dall'altro, prevedere degli strumenti di lavoro che permettano di ridurre i tempi e di semplificare le decisioni. Il risultato è raggiunto prevedendo, da un lato, degli strumenti di lavoro particolarmente efficaci e validi per tutti i procedimenti amministrativi (è questa la strategia seguita dalla legge sul procedimento amministrativo, l. 7 agosto 1990 n. 241) e, dall'altro, procedendo alla ricognizione ed alla semplificazione dei singoli procedimenti (ad es. riducendo gli adempimenti, escludendo i pareri inutili, ecc. del procedimento di concessione dell'equo indennizzo o di liquidazione delle spese della p.a., ecc.). Nella prima categoria rientrano gli istituti di semplificazione previsti dalla legge sul procedimento (l. 241/90) e costituiti dalla conferenza dei servizi, dagli accordi preparatori o sostitutivi del provvedimento e dalla disciplina dei pareri; nella seconda, gli interventi di semplificazione di singoli procedimenti previsti da una serie di leggi di semplificazione e delegificazione ed esercitati con regolamenti che hanno cercato di ridurre gli adempimenti amministrativi necessari per la conclusione dei singoli procedimenti. 3. La conferenza dei servizi La conferenza dei servizi è un istituto, sperimentato dal legislatore in situazioni di particolare urgenza (ad es. realizzazione degli stadi dei Campionati mondiali di calcio del '90) e successivamente generalizzato dall'art. 14 della l. 7 agosto 1990 n. 241, come sostituito dall'art. 9 della l. 24 novembre 2000 n. 340. In precedenza, qualsiasi procedimento complesso (ad es. la realizzazione di uno stadio o di una strada) era caratterizzato dall'acquisizione di tutta una serie di pareri, nulla-osta, assensi di tutte le amministrazioni interessate alla realizzazione dell'opera (ad es., per realizzare uno stadio, l'amministrazione procedente doveva acquisire il parere del CONI, dei Vigili del fuoco, dell'autorità sanitaria, ecc.); l'acquisizione dei pareri avveniva, di regola, richiedendo ad ogni singola amministrazione il proprio avviso, parere, nulla-osta, ecc. È quindi evidente come un simile modo di procedere, oltre ad allungare la durata del procedimento, esponesse l'amministrazione procedente al rischio di blocco del procedimento (ad es., nel caso in cui una sola autorità non desse il proprio avviso) e, soprattutto, al rischio di dover ridiscutere il progetto dopo ogni modificazione derivante dal parere dell'una o dell'altra autorità (c.d. effetto navetta, ad es. un progetto sostanzialmente modificato dopo l'intervento del parere dei Vigili del fuoco doveva essere riportato all'attenzione di tutti gli enti che avevano già espresso il proprio avviso sul progetto originario). Oggi, un simile rischio è mitigato dall'istituto della conferenza dei servizi previsto dall'art. 14 della l. 241/90. La conferenza dei servizi corrisponde ad una "riunione" dei rappresentanti di tutte le amministrazioni interessate ad un determinato procedimento (o dei titolari degli organi di uno stesso ente interessati ad un certo procedimento); riunione che permette a tutte le amministrazioni interessate l'esame contestuale di un determinato progetto di atto amministrativo, raggiungendo così quella che è stata definita semplificazione per concentrazione del procedimento (è infatti evidente come la discussione comune costituisca un mezzo molto più celere ed efficace del colloquio cartolare). Il momento di partenza della conferenza dei servizi è costituito dall'indizione della stessa per iniziativa dell'amministrazione (o meglio, del responsabile del procedimento) che dovrà emettere il procedimento

In tal senso anche Ad. Gen. 13 aprile 1994, n. 123; Ad. Gen. 31 marzo 1994, n. 86; Ad. Gen. 24 marzo 194, n. 49.

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finale. Non è però esclusa la possibilità di indire la conferenza dei servizi per risolvere una serie di procedimenti connessi: in questo caso, l'iniziativa può essere presa da una delle amministrazioni interessate. L'indizione dovrà poi ovviamente contenere la proposta delle determinazioni da assumere in seno alla conferenza. Alla conferenza devono partecipare i rappresentanti delle singole amministrazioni forniti della competenza ad esprimere definitivamente la volontà dell'ente (dirigente, funzionari con competenza esterna, ecc.). La conferenza decide all'unanimità; è quindi necessario che la discussione all'interno della conferenza porti ad una soluzione concordata tra tutte le amministrazioni, con notevoli benefici per la celerità ed efficacia dell'azione amministrativa. L'Amministrazione che non abbia partecipato alla conferenza (o vi abbia inviato rappresentanti privi di competenza decisionale) è considerata assenziente alla decisione presa a meno che non comunichi il proprio motivato dissenso entro venti giorni dalla conferenza (o dalla conoscenza delle determinazioni assunte in quella sede ove si tratti di determinazioni diverse da quelle previste nell'atto di indizione). Significative modifiche all'istituto sono state introdotte dagli artt. 9 e segg. della l. 24 novembre 2000 n. 340. Le modificazioni più recenti (soprattutto ad opera della cd. Bassanini bis, l. 15 maggio 1997 n. 127 e della l. 340/2000) hanno poi previsto dei meccanismi per risolvere il blocco derivante dal dissenso di una o più amministrazioni interessate; meccanismi fondati sull'intervento sostitutivo del Presidente del Consiglio dei Ministri, del Presidente della Regione o del Sindaco. 4. Gli accordi Mentre la conferenza dei servizi mira a raggiungere l'assenso di tutte le amministrazioni interessate ad un determinato procedimento, l'istituto degli accordi previsto dall'art. 11 della l. 7 agosto 1990 n. 241 mira a raggiungere l'assenso dei cittadini destinatari dell'azione amministrativa. L'istituto è quindi finalizzato a neutralizzare l'inefficienza amministrativa e le lungaggini derivanti dal fatto che soluzioni poco ponderate e imposte ai cittadini "dall'alto" spesso danno vita ad una resistenza (soprattutto mediante proposizione di azioni giudiziarie) che, alla fine, allunga i tempi di esecuzione del provvedimento. Meglio quindi tentare di raggiungere una soluzione concordata con i destinatari dell'azione amministrativa che rappresenti una posizione comune tra amministrazione e amministrati. La conclusione degli accordi può essere proposta, sia dai destinatari dell'azione amministrativa (in questo caso, la proposta di accordo costituisce una delle argomentazioni che i destinatari dell'azione amministrativa possono inserire nelle memorie presentate ai sensi dell'art. 10 della l. 241/90), sia dall'amministrazione procedente. Per quello che riguarda il contenuto, la legge non precede particolari vincoli se non nel fatto che il risultato avuto di mira deve essere comunque costituito dal perseguimento del pubblico interesse; il contenuto dell'accordo è quindi quello, di volta in volta, più idoneo a raggiungere il risultato avuto di mira (ad es., in luogo di procedere nell'espropriazione di una casa per la realizzazione di una strada, si raggiunge l'accordo con il proprietario per una modifica del tracciato che risparmi la casa, espropriando una parte del terreno di minor interesse). Gli accordi sono caratterizzati da una doppia tipologia costituita dagli accordi preparatori e dagli accordi sostitutivi. Gli accordi preparatori determinano il contenuto del provvedimento e sono quindi destinati ad essere seguiti comunque dal provvedimento amministrativo (ad. es., nell'ipotesi dell'espropriazione della casa, l'accordo con il proprietario sul tracciato della strada deve poi essere rispecchiato comunque dal provvedimento di espropriazione). Gli accordi sostitutivi, al contrario, sostituiscono totalmente il provvedimento amministrativo (ad es., piuttosto che concordare l'importo dell'indennità di esproprio, il proprietario del bene cede volontariamente lo stesso alla p.a.). La differenza più importante tra le due tipologie di accordi è data dal fatto che, mentre gli accordi preparatori sono di applicazione generalizzata (possono quindi essere conclusi in qualsiasi procedimento amministrativo), gli accordi sostitutivi possono essere conclusi solo nei casi espressamente previsti dalla legge. Gli accordi devono essere obbligatoriamente stipulati per iscritto e sono soggetti all'applicazione della normativa del codice civile in materia di contratti, ovviamente se compatibile con la particolare natura del rapporto. L'amministrazione può recedere dal rapporto (e quindi scioglierlo) solo per sopravvenuti motivi di pubblico interesse (nuove circostanze che rendano inutile o tecnologicamente superato l'accordo); in questo caso, dovrà però corrispondere un indennizzo al cittadino. 5. I pareri Le leggi amministrative spesso prevedono l'acquisizione di un parere da parte di organi (il Consiglio di Stato, l'Avvocatura dello Stato, vari organi consultivi delle singole amministrazioni, ecc.) che esercitano la cd. funzione consultiva cioè la funzione di illuminare l'organo fornito della competenza provvedimentale (la cd. funzione di amministrazione attiva) con le considerazioni derivanti da una particolare competenza tecnica. Molto spesso, la richiesta di un parere è però anche uno dei momenti in cui il provvedimento amministrativo

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rischia di bloccarsi (i tempi per l'acquisizione del parere sono spesso abbastanza lunghi). Proprio per questo, l'art. 16 della l. 7 agosto 1990 n. 241 ha previsto una particolare disciplina della richiesta dei pareri; disciplina, in sostanza, finalizzata a ridurre l'aggravio di tempi procedimentali necessari per l'acquisizione del parere. La disciplina dei pareri è costituita, in sostanza, dall'obbligo, per l'amministrazione consultiva, di fornire il parere richiesto entro 45 giorni dal ricevimento della richiesta (in ipotesi di esigenze istruttorie, il parere deve essere fornito entro 15 giorni dal ricevimento della documentazione richiesta; la richiesta istruttoria può essere formulata una sola volta) e dalla possibilità, per l'Amministrazione richiedente, di decidere indipendentemente dal parere, quando il termine sia stato superato. La riduzione dei tempi del procedimento è poi aumentata dalla possibilità di trasmettere telegraficamente o telematicamente il parere favorevole senza osservazioni da parte dell'organo consultivo. I pareri facoltativi (cioè quelli che sono richiesti solo se ritenuti necessari, di volta in volta, dall'amministrazione) sono poi soggetti ad una disciplina ancora più limitativa e severamente orientata per la riduzione del ricorso all'organo consultivo. Il quadro della disciplina dei pareri non sarebbe poi completo ove non si facesse menzione anche della legislazione (soprattutto l'art. 17 commi 25-28 della cd. Bassanini bis, l. 15 maggio 1997 n. 127) che ha enormemente ridotto l'ambito dei cd. pareri obbligatori (quelli quindi che devono essere sempre richiesti dall'amministrazione) del Consiglio di Stato. 6. La semplificazione dei procedimenti amministrativi Negli ultimi anni, la nostra legislazione è stata caratterizzata da una serie di interventi di semplificazione. Lo schema fondamentale di questi interventi è sempre costituito da una legge (l. 24 dicembre 1993 n. 537, l. 15 marzo 1997 n. 59 cd. Bassanini uno, l. 8 marzo 1999 n. 50) prevedente un lungo elenco di procedimenti da semplificare (ad es. procedimento di riconoscimento dell'equo indennizzo, procedimento di riconoscimento delle persone giuridiche, ecc.) e da un successivo regolamento (un decreto del Presidente della Repubblica), prevedente la nuova disciplina del procedimento in questione e quindi importante l'abrogazione della normativa (spesso farraginosa, complicata e costosa) prima vigente. La tecnica normativa in questione permette quindi di raggiungere due risultati. Il primo è costituito dal fatto che l'emanazione del nuovo regolamento è preceduta dall'esame analitico del singolo procedimento e quindi permette di individuare le "strozzature" e le inefficienze del procedimento e di eliminarle. La seconda è che la tecnica normativa importa una delegificazione cioè un passaggio da una regolamentazione a mezzo legge (che può essere cambiata solo dal Parlamento, oberato di lavoro e non sempre celerissimo) ad una regolamentazione a mezzo regolamento (di più facile modificazione da parte dell'autorità amministrativa). Di recente, l'art. 20 della l. 15 marzo 1997 n. 59 cd. Bassanini uno, ha poi previsto la cd. legge annuale di semplificazione, obbligando il Governo alla presentazione alle Camere di un disegno di legge contenente i procedimenti amministrativi da sottoporre, ogni anno, a semplificazione e delegificazione. Si è data concreta attuazione a tale previsione, di recente, con l'art. 1 della legge 24 novembre 2000 n. 340. Tra gli interventi di semplificazione effettuati in questi anni ricordiamo il riordino della materia dell'autocertificazione operato dal d.P.R. 20 ottobre 1998 n. 403 ed il nuovo regolamento in materia di procedimenti di riconoscimento di infermità o lesione dipendente da causa di servizio e di concessione dell'equo indennizzo (d.P.R. 20 aprile 1994 n. 349). 7. La semplificazione dei rapporti tra p.a. e cittadino La semplificazione dei rapporti tra amministrazione e cittadino costituisce certamente uno dei punti centrali del dibattito amministrativo degli ultimi anni. Sono infatti note a tutti le difficoltà che il cittadino incontra nei rapporti con la pubblica amministrazione: code interminabili, adempimenti amministrativi di difficile comprensione, necessità di acquisire una quantità impressionante di certificati. Uno dei temi di intervento più importanti degli ultimi anni è pertanto costituito dal tentativo di ridurre gli adempimenti posti a carico del cittadino che entra in rapporto con la pubblica amministrazione. Tentativo che, dobbiamo dire, ha anche raggiunto importanti risultati se si guarda ai dati diffusi dalla Funzione pubblica che evidenziano, nell'ultimo triennio (e quindi a partire dalla l. 15 maggio 1997 n. 127, cd. "Bassanini bis" che costituisce il tentativo più serio di disboscare la giungla delle certificazioni), una riduzione del 57% della richiesta di certificati (passata dagli oltre 70 milioni del 1997 agli attuali 30,6 milioni) con una perdita, per l'Amministrazione pubblica (e con un vantaggio per gli utenti), di 2.207 miliardi di lire all'anno6. La norma cardine della semplificazione dei rapporti tra cittadino e amministrazione è indubbiamente costituita dall'art. 18 della l. 7 agosto 1990 n. 241 che viene ad integrare l'ossatura della disciplina del sistema

6 dato del 2000, fonte Italia Oggi del 10 ottobre 2000.

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della documentazione amministrativa (e cioè delle modalità di acquisizione, da parte della p.a., dei dati necessari per l'attività amministrativa). Particolare importanza deve essere attribuita, al proposito, alla norma, prevista nel comma 2 dell'art. 18 della legge 241/90, che impone alla pubblica amministrazione l'obbligo di acquisire d'ufficio (quindi di sua iniziativa e senza gravare il privato dell'esibizione della certificazione) i documenti relativi a fatti o qualità rilevanti per il procedimento, qualora l'interessato dichiari che fatti, stati e qualità sono attestati in documenti già in possesso della stessa amministrazione procedente o di altra pubblica amministrazione. Altrettanto importante è poi la norma (art. 18, comma 3, l. 241/90) che impone alla pubblica amministrazione di accertare d'ufficio il possesso di fatti, stati e qualità che la stessa amministrazione procedente o altra pubblica amministrazione è tenuta a certificare. Non potrà pertanto più verificarsi il poco edificante spettacolo costituito da una pubblica amministrazione che impone al cittadino l'esibizione di certificati di cui è già in possesso o relativi a circostanze che la stessa p.a. è tenuta a certificare. Notevole rilevanza assume per migliorare i rapporti tra p.a. e cittadino anche il c.d. sportello unico delle imprese (artt. 27 e 27-bis d.lvo 31 marzo 1998, n. 112 come modificato dall'art. 6 della l. 24 novembre 2000, n. 340). 8. L'autocertificazione L'autocertificazione, ovvero la possibilità, per il cittadino, di dimostrare il possesso di requisiti rilevanti per il procedimento amministrativo mediante una semplice dichiarazione con la quale ci si assume la responsabilità della veridicità della dichiarazione (in luogo della consueta esibizione dei relativi certificati), è stata introdotta, nel nostro ordinamento, dalla legge 4 gennaio 1968 n. 15. A livello legislativo, l'introduzione di questo "credito di fiducia" nei confronti del cittadino è pertanto abbastanza risalente. Purtroppo, a livello dei rapporti quotidiani tra cittadino e amministrazione, le innovazioni della legge 4 gennaio 1968 n. 15, sono rimaste, per lungo tempo, inoperanti; la pubblica amministrazione ha infatti continuato a richiedere ai cittadini l'esibizione di spesso inutili certificati, in luogo dell'autocertificazione già prevista dall'ordinamento. L'istituto dell'autocertificazione ha pertanto avuto bisogno di una serie di interventi legislativi di riproposizione e rilancio. Particolare importanza hanno, a questo proposito, l'art. 18, comma 1 della l. 7 agosto 1990 n. 241 e, soprattutto, la l. 15 maggio 1997 n. 127 cd. Bassanini bis che ha operato un decisivo rilancio dell'istituto, oggi completato dal testo unico del dicembre 2000 sulla documentazione amministrativa. La disciplina dell'autocertificazione era contenuta soprattutto nel d.P.R. 20 ottobre 1998 n.403 che costituiva uno dei più importanti regolamenti di semplificazione e delegificazione richiamati nei paragrafi precedenti. Tale d.P.R è stato di recente abrogato dal testo unico sulla documentazione amministrativa approvato nel dicembre 2000, che recepisce comunque la totalità dei principi del d.P.R. n.403. L'elenco delle circostanze che possono essere provate mediante dichiarazione sostitutiva è lunghissimo e comprende, oltre alle circostanze già previste dall' art. 2 della l. 4 gennaio 1968 n. 15 e dall'articolo 1 del d.P.R 20 ottobre 1998 n. 403 (oggi abrograti), le situazioni previste dal recente testo unico del dicembre 2000, ovvero: - dichiarazioni sostitutive di certificazioni; - data e il luogo di nascita; - residenza; - cittadinanza; - godimento dei diritti civili e politici; - stato di celibe, coniugato, vedovo o stato libero; - stato di famiglia; - esistenza in vita; - nascita del figlio, decesso del coniuge, dell'ascendente o discendente; - iscrizione in albi, registri o elenchi tenuti da pubbliche amministrazioni; - appartenenza a ordini professionali; - titolo di studio, esami sostenuti; - qualifica professionale posseduta, titolo di specializzazione, di abilitazione, di formazione, di aggiornamento e di qualificazione tecnica; - situazione reddituale o economica anche ai fini della concessione dei benefici di qualsiasi tipo previsti da leggi speciali; - assolvimento di specifici obblighi contributivi con l'indicazione dell'ammontare corrisposto; - possesso e numero del codice fiscale, della partita IVA e di qualsiasi dato presente nell'archivio dell'anagrafe tributaria; - stato di disoccupazione; - qualità di pensionato e categoria di pensione; - qualità di studente; - qualità di legale rappresentante di persone fisiche o giuridiche, di tutore, di curatore e simili;

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- iscrizione presso associazioni o formazioni sociali di qualsiasi tipo; - tutte le situazioni relative all'adempimento degli obblighi militari, ivi comprese quelle attestate nel foglio matricolare dello stato di servizio; - di non aver riportato condanne penali e di non essere destinatario di provvedimenti che riguardano l’applicazione di misure di prevenzione, di decisioni civili e di provvedimenti amministrativi iscritti nel casellario giudiziale ai sensi della vigente normativa; - di non essere a conoscenza di essere sottoposto a procedimenti penali; - qualità di vivenza a carico; - tutti i dati a diretta conoscenza dell'interessato contenuti nei registri dello stato civile; - di non trovarsi in stato di liquidazione o di fallimento e di non aver presentato domanda di concordato; - dichiarazioni sostitutive dell’atto di notorietà - l'atto di notorietà concernente stati, qualità personali o fatti che siano a diretta conoscenza dell'interessato è sostituito da dichiarazione resa e sottoscritta dal medesimo con la osservanza delle modalità di cui all’articolo 38. La dichiarazione resa nell’interesse proprio del dichiarante può riguardare anche stati, qualità personali e fatti relativi ad altri soggetti di cui egli abbia diretta conoscenza; fatte salve le eccezioni espressamente previste per legge, nei rapporti con la pubblica amministrazione e con i concessionari di pubblici servizi, tutti gli stati, le qualità personali e i fatti non espressamente indicati nell'articolo 46 sono comprovati dall'interessato mediante la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà; salvo il caso in cui la legge preveda espressamente che la denuncia all’Autorità di Polizia Giudiziaria è presupposto necessario per attivare il procedimento amministrativo di rilascio del duplicato di documenti di riconoscimento o comunque attestanti stati e qualità personali dell’interessato, lo smarrimento dei documenti medesimi è comprovato da chi ne richiede il duplicato mediante dichiarazione sostitutiva. E' quindi di tutta evidenza come l'ambito dell'autocertificazione copra oggi quasi per intero l'intero terreno dei rapporti tra cittadino e p.a. con particolari "aree forti" costituite dai rapporti di più immediata rilevanza sociale (rapporti familiari, assistenziali, ecc.) oggetto di previsioni particolarmente penetranti. Per quello che riguarda le modalità applicative, il diritto all'autocertificazione si esercita mediante presentazione di dichiarazione (anche contenuta nell'istanza rivolta alla p.a.) sottoscritta dall'interessato in presenza di un dipendente della p.a. o del responsabile del procedimento che hanno comunque l'obbligo giuridico di ricevere l'autodichiarazione (la mancata accettazione dell'autocertificazione costituisce infatti violazione dei doveri d'ufficio ed è rilevante ai fini disciplinari). La veridicità delle autodichiarazioni è verificata dall'amministrazione tramite idonei controlli, anche a campione, sulle dichiarazioni sostitutive; la non veridicità delle dichiarazioni importa poi, oltre a responsabilità penale (art. 26 l. 4 gennaio 1968 n. 15 e testo unico del dicembre 2000), anche la decadenza dai benefici conseguiti in virtù della falsa dichiarazione. Nel dicembre 2000 è stato emanato un basilare testo unico (raccolta organica di tutte le norme legislative e regolamentari vigenti nella materia) sulla documentazione amministrativa7, che ha trovato applicazione a partire dal gennaio 2001; il testo unico, nell'abrogare la legge 4 gennaio 1968 n.15 nonché l'art.3 co. 1,4,5 e 11, della legge 15 maggio 1997 n.127 e il d.P.R. 20 ottobre 98 n.403, opera una riorganizzazione e razionalizzazione della materia utile sia per mettere ordine in un sistema normativo molto frastagliato, sia per affrontare organicamente problematiche moderne (come la firma elettronica, o la trasmissione di istanze tramite Internet o altri mezzi telematici, gestione informatica dei documenti) ormai non più rinviabili. Inoltre, tale testo unico: - ha ampliato il numero di certificati non più richiedibili al cittadino; - ha sancito che tutte le domande e le dichiarazioni sostitutive dell'atto di notorietà rivolte alla p.a. non dovranno essere autenticate ma basterà apporre la firma in presenza del pubblico dipendente addetto al ritiro dell'atto. Sarà possibile inviarle anche per posta o per fax corredate dalla fotocopia del documento di identità. 9. La riduzione degli adempimenti amministrativi e gli interventi sulle certificazioni La semplificazione dei rapporti tra cittadino e amministrazione è assicurata da una serie di interventi su adempimenti amministrativi (come le autentiche di firma o i certificati) che, molto spesso, venivano ad integrare inutili ostacoli ad un rapporto più diretto tra cittadino e p.a.. Particolarmente importante è, a questo proposito, la possibilità, prevista dall'art. 3, comma 11 l. 15 maggio 1997 n. 127 cd. Bassanini bis, di prescindere dall'autenticazione della sottoscrizione di istanze rivolte alla p.a. ove l'istanza sia sottoscritta in presenza del dipendente addetto oppure ove l'istanza sia presentata unitamente a copia fotostatica di un documento di identità del sottoscrittore. Sempre l'art. 3 della l. 15 maggio 1997 n. 127 cd. Bassanini bis, al comma 5, ha poi introdotto il divieto per le

7 Si tratta del D.Lgs. 28-12-2000 n. 443 Disposizioni legislative in materia di documentazione amministrativa; pubblicato nella Gazz. Uff. 20 febbraio 2001, n. 42, S.O.

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pubbliche amministrazioni di richiedere l'autenticazione della sottoscrizione delle domande di partecipazione a concorsi, selezioni per l'assunzione nonché a qualsiasi tipo di esame; è stato quindi eliminato un adempimento percepito come fonte di disagio dalla coscienza sociale. Per quello che riguarda la materia delle certificazioni (oggi ridotte di importanza dopo l'incremento del sistema dell'autocertificazione), l'intervento del legislatore si è polarizzato soprattutto sulla tematica della durata temporale dei certificati. L'art. 2 della l. 15 maggio 1997 n. 127 cd. Bassanini bis ha infatti attribuito validità temporale illimitata ai certificati attestanti stati e fatti personali non soggetti a modificazioni (ad es. morte, ecc.). Le restanti certificazioni hanno validità di sei mesi dalla data di rilascio, salvo che disposizioni di legge o regolamentari prevedano una validità superiore. Ove poi il certificato abbia superato il periodo di validità (sia quindi "scaduto"), il cittadino può comunque utilizzare la certificazione dichiarando, mediante autodichiarazione posta in fondo al documento, che le informazioni contenute nel certificato stesso non hanno subìto variazioni dalla data di rilascio. In questo caso, la dichiarazione del privato segue (soprattutto per quello che riguarda le sanzioni per la falsità della dichiarazione) il regime dell'autocertificazione. Si segnala, infine, che l'art. 2 della l. 24 novembre 2000 n. 340 ha previsto che gli strumenti di semplificazione (autocertificazione, etc.) possono essere utilizzati "anche nei rapporti tra privati che vi consentano". Tutti i principi suddetti, codificati nella legge n.127 del 1997, sono stati successivamente recepiti nel già richiamato testo unico sulla documentazione amministrativa approvato nel dicembre 2000. 10. La Rete unitaria della p.a. (R.U.P.A.) La problematica dei rapporti tra cittadino e pubblica amministrazione, finora prevalentemente risolta mediante gli strumenti della semplificazione amministrativa, riceverà una decisiva riorganizzazione per effetto della progressiva entrata in funzione della cd. Rete unitaria della Pubblica amministrazione prevista dalla Direttiva Pres. Consiglio dei Ministri 5 settembre 1995 e recentemente divenuta operativa. L'idea fondamentale alla base della Rete è quella di permettere lo scambio di informazioni, per via telematica, tra tutte le amministrazioni pubbliche. Quando la Rete diventerà pienamente operativa (uno dei punti problematici più grossi è infatti costituito dalla non obbligatorietà dell'adesione alla Rete delle amministrazioni comunali) sarà possibile scambiarsi direttamente, per via telematica, quelle informazioni che oggi devono essere fornite dai cittadini mediante esibizione di certificati, o nel migliore dei casi, mediante autodichiarazione. È quindi evidente il beneficio che potrà derivare ai rapporti tra cittadino e amministrazione dall'operatività piena di una simile innovazione. 11. La legge 15 marzo 1997, n. 59 (8). Il legislatore, non ha sempre seguito la strada indicata dalla dottrina appena citata. Nel corso degli anni passati si è cercato, piuttosto, di rimanere nel solco tracciato dai costituenti, orientando la produzione normativa verso un’incentivazione della normazione secondaria. In tal senso, si colloca la l. 24 dicembre 1993, n. 537, con cui è stata realizzata una delegificazione di procedimenti amministrativi espressamente previsti ovvero legati a questi ultimi da un nesso di condizionalità o di necessità. Si tratta, in questo caso, di una normativa contenente importanti disposizioni di principio (9), come già era avvenuto per la l. 400/88, ma non pienamente attuata. Per dare nuova linfa ad un processo di delegificazione, trascinatosi per oltre un decennio con alterne vicende, si è dovuto attendere l’emanazione del c.d. pacchetto Bassanini. In particolare, con la legge 15 marzo 1997, n. 59, che costituisce il cardine dell’intero processo di riforma, sono state poste le basi per un notevole potenziamento dello strumento regolamentare. Ci si riferisce al disposto di cui all’art. 20 della stessa legge, con cui viene istituito un automatismo di delegificazione normativa relativa ai procedimenti amministrativi, da attuarsi annualmente mediante la presentazione di una proposta di legge d’iniziativa governativa, di cui fa parte integrante un allegato, ove sono indicati i procedimenti da semplificare (10).Nell’individuare i criteri generali per l’esercizio della potestà regolamentare, si è fatto ampio

8 Sull’argomento, tra gli altri: Barbiero A. (a cura di), Il nuovo sistema delle autonomie locali territoriali (la riforma del ruolo delle regioni e degli enti locali avviata dalle leggi n. 59/1997 e 127/1997), in Prime Note Zoom, 1997, n. 28; Caringella f., Crisafulli A., De Marco G., Romano f., Il nuovo volto della Pubblica Amministrazione tra federalismo e semplificazione; Commento organico alle leggi Bassanini ed ai Decreti Delegati attuativi delle circolari interpretative, ed. Simone, 1997; AA.VV., Legge Bassanini: Le nuove autonomie delle regioni e degli enti locali, Supplemento al n. 12 del 23.03.1997 di Guida al Diritto de Il Sole 24 Ore. 9 V. infra, nota 12. 10 L’allegato 1 della l. 59/97 indica ben 112 procedimenti, mentre il testo della legge (art. 20, comma 8) fa riferimento ad altri tre procedimenti e ad una serie di materie, tutte relative al settore universitario. Con la l. 16 giugno 1998, n. 191 si è provveduto ad integrare tale elenco con altri 10 procedimenti, dal n. 112-bis al n. 112-undecies, oltre ad apportarvi alcune modifiche. L’aver introdotto in tale elencazione anche alcuni procedimenti previsti già dalla l. 537/93 è da spiegare con l’esigenza di utilizzare il raggio più ampio che la l. 59/97 riconosce al Governo per la semplificazione.Con la legge 8 marzo 1999 n. 50 (c.d. Bassanini-quater), prima legge annuale di semplificazione, sono stati emanati regolamenti per la delegificazione e la semplificazione dei procedimenti amministrativi indicati nell’allegato 1 alla stessa legge.

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riferimento a quanto già in precedenza era stato oggetto d’espressa previsione. è il caso della riduzione delle fasi procedimentali (11) e dei termini relativi, principi già affermati con gli artt. 1 e 2, l. 241/90, e con la disciplina della conferenza dei servizi ivi contenuta, all’art. 14 (12). La legge 59/97 ha introdotto anche nuovi criteri direttivi. In ordine alla distribuzione delle competenze, è interessante rilevare come rispetto alle previsioni della l. 537/93 si sottolinea la necessità di riordinare le competenze degli uffici, accorpando le funzioni per settori omogenei, sopprimendo gli organi superflui (13) e costituendo centri interservizi. Delle esigenze di razionalizzazione della produzione normativa secondaria, poi, si è fatto carico l’art. 20, lett. d), l. 59/97, in cui si fa riferimento alla riduzione del numero ed all’accorpamento dei procedimenti relativi ad una stessa attività, mediante lo strumento della riunione nel regolamento di disposizioni provenienti da fonti anche di rango diverso. In tal modo, si è affermato fortemente il nuovo ruolo assegnato alla fonte regolamentare, come destinata da un lato a raccogliere precetti di provenienza anche legislativa, nell’ottica di una delegificazione sempre più spinta, ma, dall’altro, volta a ridurre il numero eccessivo di regolamenti, attraverso la loro necessaria riunificazione. Nello stesso senso è da leggersi la disposizione di recente introduzione, di cui all’art. 1, comma 17, l. 16 giugno 1998, n. 191, con cui, integrando il disposto dell’art. 20 mediante l’aggiunta di una lettera g-bis), si prevede la soppressione di procedimenti non più rispondenti alle finalità ed agli obiettivi fondamentali definiti dalla legislazione di settore o che risultano in contrasto con i principi generali dell’ordinamento giuridico nazionale o comunitario (14). Di rilievo è, ancora, la previsione, contenuta sempre nell’art. 20, secondo cui la delegificazione può riferirsi a procedimenti coinvolgenti anche amministrazioni locali o autonome (comma 1). A tal fine, attraverso gli strumenti della Conferenza Stato-Regioni, della Conferenza Stato Città ed autonomie locali e della Conferenza unificata, il Governo individua i procedimenti che possono essere autonomamente disciplinati dalle regioni e dagli enti locali (15). In via più ampia, il comma 7, art 20, dispone che le norme sulla semplificazione contenute nella legge costituiscono norme di principio per le regioni a statuto ordinario, mentre per quelle a statuto speciale e le Province autonome di Trento e Bolzano, bisogna provvedere all’adeguamento dei rispettivi ordinamenti entro due anni(16) dalla legge. Con tali disposizioni, se da un lato si chiarisce che la delegificazione è un fenomeno che interessa tutti i soggetti dotati di autonomia normativa, dall’altro si indica che non è possibile legiferare a livello regionale su ciò che si delegifica a livello centrale(17). Inoltre, sempre con riferimento all’autonomia normativa appena citata, è da sottolineare come la stessa si configura non più come relativa all’applicazione delle regole, ma come riferentesi alla produzione stessa delle regole. Questo comporta non pochi problemi sia per la miriade di Comuni, spesso di dimensioni ridotte, non in grado di esercitare con la dovuta preparazione tali nuovi poteri, sia per gli utenti finali, i cittadini, che si trovano innanzi a normative estremamente variegate anche in territori sostanzialmente omogenei (18). 12. I problemi della delegificazione. Possibili soluzioni. La codificazione. L’utilizzo dello strumento delegificativo, come delineatosi a seguito della normativa suaccennata, comporta anche la risoluzione di alcuni problemi incontrati nella sua concreta applicazione. Infatti, spesso in passato è accaduto che ad una semplificazione derivante dalla delegificazione di talune materie seguiva una modifica

11 I primi commentatori della disposizione in esame (Forlenza O., un appuntamento all’anno con le linee guida della semplificazione, in Dossier n. 3 del marzo 1997 di Guida al Diritto de Il Sole 24 Ore) hanno sottolineato come a tale processo sia strettamente connesso il ripensamento degli interessi pubblici secondari coinvolti nel procedimento. 12 Anche nella l. 573/93 erano contenuti alcuni principi di delegificazione, quali la riduzione del numero delle fasi procedimentali e dei termini per la conclusione dei procedimenti, l’uniformazione dei tempi di conclusione dei procedimenti tra loro analoghi. Nell’ottica, più generale, della semplificazione s’inquadrano, invece, i principi di accelerazione delle procedure di spesa, l’autocertificazione, la denuncia d’inizio del procedimento ed il silenzio-assenso. 13 Al riguardo si segnala l’art. 41, Comma 1, l. 27 dicembre 1997, n. 449, il quale, nell’ambito delle misure di razionalizzazione e di recupero dell’efficienza nella pubblica amministrazione, ha previsto che gli organi di direzione politica, entro sei mesi dall’inizio dell’esercizio finanziario, devono individuare gli organi collegiali, comitati commissioni, consigli, che svolgono funzioni amministrative ritenute indispensabili per la realizzazione dei fini istituzionali (V. Circolare P.C.M. – Dipartimento Funzione pubblica n. 1/2000 dell’11.01.2000).Relativamente alla realtà comunale, la giurisprudenza ha ritenuto che la Commissione Edilizia rientra tra gli organismi che possono essere soppressi (TAR Calabria, 48/99). Il Ministero dell’Interno, invece, si è espresso negativamente in ordine alla soppressione della Commissione Elettorale Comunale, poiché destinata a disciplinare una materia regolata da normativa speciale (nota Ministero prot. n. 15900/641/1-bis/legge 142 del 22.07.99). 14 Al riguardo, è significativa la recente Direttiva della Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento della Funzione Pubblica secondo cui ogni schema di regolamento dev’essere accompagnato da una relazione sull’Analisi tecnico normativa (Atn). V. infra, nota. 20. 15 Per le potestà legislativa e regolamentare delle regioni, Vedi, ora, la legge costituzionale n. 3 del 18 ottobre 2001, Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione (GU n. 248 del 24-10-2001). 16 Termine così modificato dall’art. 1, comma 18, l. 16 giugno 1998, n. 191, rispetto al termine precedente di un anno. 17 La Corte Costituzionale (sent. 4 dicembre 1991, n. 465) ha chiarito che i regolamenti di delegificazione non possono disciplinare direttamente i procedimenti amministrativi regionali, mentre successivamente (sentt. 1 marzo 1995, nn. 69 e 70) ha precisato che gli stessi non possono incidere sul riparto d’attribuzioni tra Stato e regioni. 18 Per Vandelli l. (La semplificazione nel quadro delle riforme amministrative, Bologna, 1998) a conciliare le esigenze di flessibilità normativa e semplificazione può giovare la linea tracciata dal decreto 112/98, ove (all’art. 3, comma 2) si prevede che al fine di “favorire l’esercizio associato delle funzioni (comprese quelle normative) dei comuni di minore dimensione demografica, le regioni individuano livelli ottimali d’esercizio delle stesse, concordandoli nelle sedi concertative… Nell’ambito della previsione regionale, i comuni esercitano le funzioni in forma associata, individuando autonomamente i soggetti, le forme e le metodologie …”.

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della normativa semplificata attraverso norme diverse, sovente contenute in fonti normative primarie. A questo pericolo si è cercato di ovviare predisponendo schemi regolamentari contenenti disposizioni astratte e flessibili, tali da potersi adattare all’evoluzione della materia senza doverli sottoporre a continue modifiche. Inoltre, in ordine al potere attribuito al Governo, a volte si è scisso nettamente il disegno strutturale e le funzioni svolte dalle fasi procedimentali, correndo il rischio di snellire l’iter pur lasciando inalterati i rapporti sostanziali (es. nel passaggio dal regime concessorio a quello autorizzatorio)(19). La soluzione, in questo caso, può derivare da un’interpretazione ampia dei principi contenuti nelle lettere a) (semplificazione dei procedimenti amministrativi, e di quelli che agli stessi risultino strettamente connessi o strumentali (20)… anche riordinando le competenze degli uffici) e d) (riduzione del numero di procedimenti amministrativi ed accorpamento dei procedimenti che si riferiscono alla medesima attività, anche riunendo in un’unica fonte regolamentare …) del comma 5, art. 20 cit. Ancora, in relazione alla sovrapposizione dei regolamenti di semplificazione alle fonti già esistenti ed alla complicazione derivante dalla contestualità del processo di semplificazione rispetto al conferimento di funzioni statali agli enti locali, la soluzione è fornita dall’art. 20, comma 11, attraverso la compilazione di testi unici legislativi o regolamentari. Si sottolineano, al riguardo, le recenti disposizioni contenute nella l. 8 marzo 1999, n. 50, in cui, nell’ambito di una programmazione governativa, si prevede un riordino delle norme legislative e regolamentari entro il 31.12.2001 mediante l’emanazione di Testi Unici riguardanti materie e settori omogenei (21), comprendenti in un unico contesto e con le opportune evidenziazioni, disposizioni legislative e regolamentari. 13. Considerazioni generali In definitiva, può affermarsi che nel disegno complessivo di delegificazione quale emergente dal sistema delle leggi Bassanini, si rileva una tendenza volta ad affidare al potere esecutivo la disciplina d’intere materie, restituendo al Parlamento un ruolo di definizione di principi in cui tale potere può esprimersi (22).Si vuole in pratica rivalutare il ruolo delle fonti secondarie, quali istituzionalmente competenti alla normazione di determinate materie, sottratte alla fonte legislativa. In questo modo, l’obiettivo da raggiungere è il ripristino di un corretto rapporto istituzionale in ordine alla produzione normativa tra Governo e Parlamento, al quale ultimo dev’essere restituita la dignità di elaborare solo i principi generali dell’ordinamento giuridico.

19 In tal senso, carbone, op. cit. 20 Un’elencazione dei procedimenti strumentali da disciplinare in modo uniforme è contenuta nell’allegato due alla legge 8.3.1999 n. 50. Trattasi di n. 5 procedimenti di cui il più complesso è il «Procedimento di spese in economia», disciplinato da ben ventinove norme giuridiche. I primi Testi Unici riguarderanno i sette settori delle «Materie oggetto di riordino» di cui all’allegato 3, l. 50/99:1) Ambiente e tutela del territorio;2) Urbanistica ed espropriazione;3) Finanze e tributi;4) Documentazione amministrativa e anagrafica;5) Agricoltura;6) Pesca e acquicoltura;7) Università e ricerca. 21 Sempre nella stessa legge, è stabilito che dalla data d’entrata in vigore di ciascun Testo Unico sono abrogate le norme che regolano la materia oggetto di delegificazione.Inoltre, il Governo può demandare la redazione degli schemi di Testi Unici al Consiglio di Stato, che ha la facoltà di avvalersi d’esperti in discipline non giuridiche, in numero non superiore a cinque. Le disposizioni contenute in un Testo Unico, poi, non possono essere abrogate, derogate, sospese o comunque modificate se non in modo esplicito, mediante l’indicazione precisa delle fonti da abrogare, derogare, sospendere o modificare. La Presidenza del Consiglio dei Ministri adotta gli opportuni atti d’indirizzo e di coordinamento per assicurare che i successivi interventi normativi incidenti sulle materie oggetto di riordino siano attuati esclusivamente mediante la modifica o l’integrazione delle disposizioni contenute nei Testi Unici. Infine, entro il 31.12.1999, il Governo avrebbe dovuto provvedere ad emanare un Testo Unico per il riordino delle norme, diverse da quelle del codice civile e delle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa, che regolano i rapporti di lavoro dei dipendenti delle Amministrazioni pubbliche di cui all’art. 2, comma due, del D. Lgs. n. 29/93. 22 Il supporto occorrente alla Presidenza del Consiglio dei Ministri ed al Ministro delegato per la Funzione Pubblica a dare attuazione ai processi di delegificazione è assicurato da un Nucleo per la semplificazione delle norme e delle procedure, composto da 25 esperti, ai sensi dell’art. 3, l. 50/99.Una recente Direttiva della Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento della Funzione Pubblica prevede che ogni bozza di regolamento dovrà essere accompagnata, oltre che dalle usuali relazione illustrativa e finanziaria, anche da una relazione sull’analisi tecnico normativa (Atn), nella quale si deve verificare l’incidenza della proposta sulle norme esistenti, unitamente alla compatibilità con la disciplina comunitaria, con il quadro costituzionale, con l’evoluzione giurisprudenziale e con le grandi riforme, e da una relazione sull’analisi dell’impatto di regolazione (Air), in cui l’ambito valutativo si sposta sull’impatto della nuova disciplina sull’organizzazione delle amministrazioni pubbliche e sull’attività di cittadini ed imprese, individuando i costi ed i benefici per lo Stato e per i destinatari finali (rogari m., Attacco da due lati contro il burocratese, in Il Sole 24 Ore, lunedì 10/04/2000, pag. 17).

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CAPITOLO 2 LA SEMPLIFICAZIONE AMMINISTRATIVA DELINEATA DALLA LEGGE 241/1990 E

L'AMMINISTRAZIONE SCOLASTICA 1. Considerazioni generali sulla legge 241/1990 La pubblica amministrazione, e dunque anche l'amministrazione scolastica, agisce ed opera le sue scelte, di regola, attraverso procedimenti, ovvero attraverso una serie di atti, successivi ed eterogenei, finalizzati all'emanazione di un provvedimento amministrativo. Tale attività procedimentalizzata si articola in tre fasi essenziali: l'iniziativa (di parte o d'ufficio), l'istruttoria e la determinazione finale, costituita dall'atto amministrativo a rilevanza esterna. Si pensi, tra i tanti esempi, alle procedure concorsuali volte all'assunzione di personale, in cui si rinvengono i tre suddetti momenti nella pubblicazione del bando (iniziativa), nell'espletamento della procedura (istruttoria) e nella approvazione della graduatoria finale (determinazione finale). Si pensi ancora alle procedure di trasferimento di pubblici dipendenti, alle procedure di espropriazione, alle procedure autorizzatorie o concessorie, ai procedimenti disciplinari, ai procedimenti per l'accesso a documenti dell'istituzione scolastica, alle procedure di riqualificazione, etc. Nonostante il frequentissimo utilizzo del modello procedimentale da parte della pubblica amministrazione, sino al 1990, data di entrata in vigore della l.7 agosto 1990 n.241, non esisteva nel nostro ordinamento una disciplina generale del procedimento amministrativo, ma solo settoriali previsioni per alcuni, specifici, procedimenti (es. procedimento disciplinare). Mancava, dunque, una regolamentazione dei tempi dell'azione amministrativa, del contraddittorio con il cittadino, della trasparenza dell'azione pubblica, della motivazione degli atti etc. Tale carenza normativa attribuiva all'amministrazione una notevole discrezionalità nella gestione dell'iter procedimentale, e poneva il cittadino in una situazione di "sudditanza" nei confronti della p.a., non avendo alcuna possibilità, se non per alcuni procedimenti settoriali, di far sentire la propria voce in sede istruttoria. Il cittadino aveva dunque, come unico strumento di tutela, l'impugnativa del provvedimento conclusivo dell'iter procedimentale, ove lesivo della propria sfera soggettiva. Con la legge 7 agosto 1990 n.241 il legislatore, con esemplare tecnica normativa, pone rimedio a tale stato di fatto, introducendo una disciplina puntuale e moderna dell'azione procedimentale della pubblica amministrazione. Le linee portanti, o principi fondamentali, di tale legge, possono così schematizzarsi: I PRINCIPI PORTANTI DELLA L.241 DEL 1990 - valorizzazione della partecipazione del cittadino all'istruttoria procedimentale in cui vengono effettuate le scelte della p.a. (v. art.7, art.9, art.10, art.11, l. n.241); - fissazione dell'obbligo di concludere i procedimenti con provvedimenti espressi (art.2, co.1, l. n.241) e motivati (art.3, l. cit.); - fissazione dell'obbligo di concludere i procedimenti entro termini certi (art.2, co.2 e 3, l. n.241); - previsione di un obbligo di pubblicazione degli atti di maggior rilevanzaesterna (art.26, l.cit.); - valorizzazione della trasparenza dell'azione amministrativa, rendendo pienamente accessibili al cittadino i documenti pubblici, nei limiti di legge (art.10 e art.22 seg., l. n.241 cit.); - introduzione di moduli convenzionali tra p.a. e cittadino per la fissazione del contenuto dei provvedimenti o per sostituire il provvedimento con un accordo (art.11, l.cit.); - semplificazione dell'azione amministrativa attraverso la previsione, a favore del cittadino, di meccanismi di silenzio-assenso per il rilascio di autorizzazioni, licenze, abilitazioni etc. (art.20, l. n.241 cit.), di ipotesi di inizio di attività su mera comunicazione alla p.a. (art.19, l.cit.), di regole generali, quali il silenzio "devolutivo" in caso di inerzia di organi consultivi o tecnici (art.16 e art.17, l.cit.), di snellimenti documentali con l'autocertificazione (art.18, l.cit.). Tali principi portanti della legge 7 agosto 1990 n.241 rispondono a quattro finalità di fondo: FINALITÀ ULTIME DELLA L.241/1990 - rendere comprensibili le scelte operate dalla pubblica amministrazione; - rendere conoscibili le scelte operate dalla pubblica amministrazione; - semplificare la lenta e complessa azione della p.a.; - migliorare i rapporti tra la p.a. ed il cittadino. Nel prosieguo del testo saranno esaminati i principi più vicini all'attività dell'amministrazione scolastica, e, dunque, più di frequente applicati dai dipendenti della stessa. 2. Analisi dei principi della legge 241. - la conclusione esplicita del procedimento e i tempi massimi di chiusura dei procedimenti

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dell'amministrazione scolastica: il d.m. 6 aprile 1995 n.190. L'art.2, co.1, l.n.241 del 1990 introduce il fondamentale principio della doverosa conclusione del procedimento amministrativo con un provvedimento espresso. L'amministrazione non può dunque rimanere silente, ma ha un espresso dovere di esternare, in modo esplicito, le proprie decisioni. Il silenzio resta pertanto, anche dopo la l. n.241 del 1990, la "patologia" dell'azione amministrativa ed il cittadino può dunque impugnare tale inerzia innanzi al giudice. Inoltre, il legislatore ha fissato anche i termini massimi entro cui tale decisione espressa deve intervenire (art.2, co.2 e 3, l.cit.): si tratta di uno dei più rilevanti principi introdotti dalla legge n.241 del 1990, che attenta dottrina ha efficacemente definito come il diritto del privato alla "certezza del tempo dell'agire della pubblica amministrazione". Difatti, ferma restando la discrezionalità dell'amministrazione nell'operare le proprie scelte sui contenuti dell'atto finale (motivandole, v. art. 3, l. n.241), il tempo entro cui le stesse devono intervenire è prefissato da ciascun ente attraverso propri regolamenti che tengono conto delle diverse realtà in cui l'ente stesso opera. Qualora tali regolamenti non fossero adottati, il termine massimo di chiusura dei procedimenti viene fissato in via residuale dal legislatore in 30 giorni dalla domanda (per i procedimenti a domanda), o dall'inizio d'ufficio (per i procedimenti d'ufficio). Analogo termine vale qualora i regolamenti siano stati adottati, ma alcuni procedimenti, per disguidi o omissioni, non siano stati inseriti in tali norme delegate. Restano ovviamente fermi, anche dopo la l.n.241 del 1990, i termini procedimentali fissati da apposite leggi o fonti contrattuali per specifici procedimenti (es. procedimento disciplinare per il personale dell'amministrazione scolastica, regolato, anche in ordine ai tempi, dagli art.23-26 del primo contratto collettivo, quadriennio 1994-1997) Il Ministero della pubblica istruzione ha dato attuazione all'art.2, co.2, l. n.241, adottando il d.m. 6 aprile 1995 n.190, con cui vengono fissati i termini massimi di chiusura dei procedimenti di competenza degli organi ed uffici dell'amministrazione scolastica e si individuano le unità operative responsabili per ciascun procedimento. Tali termini, come è facilmente riscontrabile da una lettura del decreto, sono ben superiori ai trenta giorni statuiti in via residuale dall'art.2, co.3, l. n.241. Pertanto ogni dipendente dell'amministrazione scolastica, per conoscere i tempi massimi entro cui va concluso un qualsiasi procedimento della propria amministrazione, deve far capo al d.m. n.190 del 1995. Tra i procedimenti menzionati nel d.m. n.190 del 1995, sono elencati quelli di competenza degli uffici delle varie direzioni generali e dei diversi ispettorati del Ministero, nonché quelli di competenza di provveditorati e sovrintendenze scolastiche. La recente ristrutturazione del Ministero, porterà sicuramente ad una doverosa modifica del d.m. n.190 del 1995, in considerazione della ridistribuzione delle competenze procedimentali a livello centrale e periferico. Non si rinvengono invece procedimenti di competenza delle istituzioni scolastiche. A queste ultime, il d.m. n.190 dedica un breve inciso, contenuto nell'art.9, co.3, ove si legge che "Gli enti e le istituzioni con personalità giuridica adegueranno i propri statuti alle disposizioni della l. n.241/1990". Deve quindi concludersi che per i procedimenti che fanno capo alle istituzioni scolastiche, ove non vi sia una disciplina statutaria sui tempi procedimentali, i termini massimi di chiusura del procedimento coincidono con i 30 giorni di cui all'art.2, co.3, l. n.241. Responsabile di tali procedimenti è, in base al predetto art.9, co.3, d.m. n.190 del 1995, l'istituzione scolastica stessa, e dunque il dirigente scolastico, o soggetto da lui delegato (es. il direttore dei servizi generali e amministrativi). Il decreto n.190 del 1995, sebbene destinato a doverose modifiche in vista della ristrutturazione del Ministero della pubblica istruzione e della scomparsa di provveditorati e sovrintendenze, rappresenta, ad oggi, un basilare referente, oltre che per conoscere i termini massimi per la chiusura dei procedimenti, anche per meglio comprendere e risolvere alcuni problemi pratici, quali, soprattutto, l'individuazione in concreto del termine iniziale e finale del procedimento (v. art.2, 3 e art.6, d.m. cit.). La discrezionalità di cui ha goduto l'amministrazione nell'autodisciplinare i tempi procedimentali dovrebbe comportare una migliore organizzazione interna, che viene tarata su detti tempi, ritenuti congrui per la chiusura dei vari procedimenti. Resta ovviamente ferma, ed è anzi auspicabile, la possibilità che il responsabile del procedimento, dipendente del Ministero della p.i., non utilizzi l'intero termine autodeterminato, ma adotti, ove possibile, anche in tempi più brevi l'atto finale (art.6, co.3 del d.m. n.190). Occorre da ultimo evidenziare che la scadenza dei termini massimi fissati dal decreto n.190 del 1995 o nell'art.2, co.3, l.n.241 del 1990 non preclude all'amministrazione scolastica di adottare, con ogni sollecitudine, il provvedimento finale, che, sebbene tardivo, non sarà per tale motivo illegittimo (pur potendolo essere per altre ragioni). Tuttavia, l'inosservanza dei termini suddetti, può configurare comunque incapo al responsabile del procedimento le seguenti responsabilità: - penale (ove sussistano i presupposti dell'art.328 c.p., o dell'art.323 c.p.); - disciplinare (traducendosi il ritardo nella inosservanza del dovere di inosservanza della l.n.241/90 previsto dall'art.23, primo c.c.n.l. Ministeri 1994-1997); - civile (art.17, co.1, lett.f, l.15 marzo 1997 n.59, che ha demandato all'attività regolamentare del Governo la "previsione, per i casi di mancato rispetto del termine del procedimento, di mancata o ritardata adozione del

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provvedimento, di ritardato o incompleto assolvimento degli obblighi e delle prestazioni da parte della pubblica amministrazione, di forme di indennizzo automatico e forfettario a favore dei soggetti richiedenti il provvedimento"); - amministrativo-contabile (qualora dalla tardiva chiusura del procedimento discenda un danno per l'amministrazione scolastica: es. pagamento di interessi su una somma pagata in ritardo ad un terzo per la tardiva chiusura del procedimento amministrativo da parte del responsabile del procedimento; es. perdita di un finanziamento comunitario per chiusura tardiva di un procedimento; pagamento di una sanzione amministrativa per tardiva chiusura di un procedimento etc.); - dirigenziale (la sistematica chiusura in ritardo di procedimenti amministrativi che fanno capo ad una determinata unità organizzativa potrebbe essere indice di "risultati negativi di gestione" o di "mancato raggiungimento degli obiettivi", e, dunque, di incapacità del relativo dirigente, con conseguente applicazione delle misure previste dall'art.21, d.lvo 3 febbraio 1993 n.29). - La tempestività dell'azione amministrativa: altri istituti rilevanti Alla medesima finalità acceleratoria procedimentale a cui risponde la disciplina dei termini sin qui esaminata, si ispirano anche altri istituti della l. n.241 che sono più diffusamente analizzati nella scheda dedicata alla semplificazione amministrativa. Tali istituti sono in particolare: lo strumento dell'accordo integrativo del provvedimento di cui all'art.11 l. n.241 del 1990, volto a determinare consensualmente il contenuto discrezionale dell'atto; le ipotesi semplificatorie previste dagli art.19 e 20, l. 7 agosto 1990, n.241, che, in talune tassative ipotesi (previste dai d.P.R 26 aprile 1992 n.300, 9 maggio 1994 n.407, 9 maggio 1994 n.411), consentono, rispettivamente, l'inizio di attività su mera denuncia all'amministrazione (art.19) e il rilascio di autorizzazioni, licenze, nulla-osta etc. in base al meccanismo del c.d. silenzio-assenso (art.20); le previsioni volte a superare i ritardi di organi consultivi nel fornire pareri giuridici (art.16) o valutazioni tecniche (art.17) all'amministrazione attiva. In tali evenienze il legislatore prevede che, in caso di ritardo nella trasmissione del parere, l'amministrazione attiva, decorsi 45 giorni dalla ricezione della richiesta, può procedere prescindendo dal parere (art.16, co.2). In caso invece di ritardo nella trasmissione della valutazione tecnica, l'amministrazione attiva, decorsi 90 giorni dalla ricezione della richiesta, deve richiedere la valutazione ad altro organismo pubblico di pari competenza (art.17, co.1); le disposizioni sulla conferenza di servizi (art.14 seg., l. 241), istituto volto a consentire il coordinamento tra diverse amministrazioni per una contestuale trattazione degli interessi coinvolti in un procedimento amministrativo, al fine di accelerare i tempi dell'istruttoria. - la motivazione degli atti. Un altro basilare principio introdotto dalla legge n.241 del 1990 è quello della doverosa motivazione di tutti gli atti amministrativi (art.3, l.cit.). Motivare significa indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che sono alla base della decisione amministrativa. Tale previsione, rispondente al principio di trasparenza e di buon andamento dell'azione amministrativa, consente di dare contezza al cittadino dei motivi che hanno indotto la p.a. ad operare una determinata scelta ed evidenzia l'avvenuta o meno valutazione degli interessi, pubblici e privati, coinvolti nel procedimento da parte dell'amministrazione. Tale obbligo di comparazione trae conferma anche dall'art.10, lett. b), l. n. 241, che impone alla p.a. un espresso dovere di valutare le memorie presentate dal cittadino. È evidente la più ampia tutela accordata da questa previsione al cittadino, che disporrà in sede giurisdizionale di una più ampia tutela, risultando più evidenti eventuali vizi logici esternati in sede motiva dell'amministrazione. L'obbligo di motivazione è escluso per i soli atti normativi (regolamenti) o a contenuto generale. Il legislatore ha inoltre ammesso (art.3, co.3, l.n.241) per la prima volta nel nostro ordinamento la c.d. motivazione per relationem, ovvero la motivazione risultante non dal provvedimento adottato, ma dagli atti precedentemente compiuti nel corso dell'iter procedimentale (pareri, proposte, etc.): si pensi ad un atto di trasferimento per incompatibilità ambientale assunto sulla scorta delle risultanze di una relazione ispettiva. Se l'amministrazione intenda valersi di tale tecnica di motivazione, dovrà indicare e rendere disponibile anche l'atto a cui si richiama, che dovrà dunque essere disponibile contestualmente al provvedimento a cui accede. La mancanza di motivazione di un atto configura una evidente violazione di legge che potrà essere fatta valere in un eventuale ricorso amministrativo o giurisdizionale. Una motivazione illogica o contraddittoria configurerà invece un eccesso di potere, parimenti sindacabile in sede giustiziale. - il responsabile del procedimento. La gestione dei procedimenti amministrativi, prima dell'intervento della l.n.241 del 1990, era caratterizzata sia da un generalizzato anonimato circa le persone fisiche responsabili dell'istruttoria, sia dalla mancanza di

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una autorità che fungesse da guida nella conduzione del procedimento. Tale situazione di fatto (e di diritto), oltre a violare il basilare principio di trasparenza della p.a., favoriva una gestione inefficiente della macchina amministrativa, in quanto l'anonimato, garanzia di (tendenziale) impunità, induceva spesso ad una poco solerte chiusura dell'iter procedimentale presso molte amministrazioni. Con la legge n.241 viene finalmente introdotto il principio della "responsabilizzazione" nella conduzione del procedimento amministrativo, attraverso l'individuazione del responsabile del procedimento, che coincide con il dirigente (o con l'organo apicale) dell'unità organizzativa responsabile dell'istruttoria, di ogni altro adempimento procedimentale e dell'adozione del provvedimento finale (art.4 co.1, l. n.241 del 1990 e art.9 del d.m. 6 aprile 1995 n.190). Queste unità operative, che coincidono con le diverse previgenti articolazioni (uffici o divisioni) delle varie direzioni generali (e ispettorati) del Ministero della p.i., con i provveditorati e con le sovrintendenze, sono indicate nella tabella A allegata al d.m. n.190 cit.: per ogni procedimento che fa capo al Ministero della p.i. viene dunque indicata la competente unità operativa responsabile ed il termine massimo di chiusura dell'iter decisionale. Per le istituzioni scolastiche l'unità operativa responsabile coincide con l'istituzione scolastica stessa (art.9, co.3, d.m. n.190). Come già ricordato, la recente ristrutturazione del Ministero, porterà sicuramente ad una doverosa modifica del d.m. n.190 del 1995, in considerazione della ridistribuzione delle competenze procedimentali a livello centrale e periferico. Va sottolineato che, al fine di superare l'anonimato che caratterizzava il previgente sistema, il referente per il cittadino non è rappresentato da una entità impersonale (l'unita organizzativa), ma dalla persona fisica che ne è al vertice: pertanto il cittadino non avrà come contraddittore una istituzione scolastica, un provveditorato o una direzione generale, bensì un dirigente scolastico, un provveditore o un dirigente di ufficio dirigenziale generale, ovvero gli organi apicali di dette strutture centrali o periferiche. Nell'ambito dei soggetti preposti a tali unità organizzative, il dirigente, che costituisce di regola il "responsabile del procedimento", può tuttavia individuare il dipendente cui affidare, con una delega scritta (che può essere contenuta anche in un ordine di servizio di portata generale valevole per tutti i procedimenti che fanno capo ad una direzione generale, ad una divisione, ad un provveditorato, ad una sovrintendenza), l'istruttoria del singolo procedimento (art.5, l. n.241 del 1990 e art.10,co.1 del d.m. 190 cit.). L'assegnazione ad altro dipendente sottordinato della responsabilità per l'istruttoria non comporta il necessario trasferimento anche della responsabilità per l'adozione del provvedimento finale, che rimane in capo al dirigente dell'unità organizzativa, salvo espressa previsione che devolva ad altro soggetto anche tale potere di firma. Ove manchi tale potere di adozione (e firma) dell'atto finale, il responsabile dell'istruttoria deve sollecitamente trasmettere le risultanze procedimentali al proprio dirigente (o comunque al responsabile dell'atto finale) per l'adozione del provvedimento conclusivo. Il regolamento n.190 del 1995 non indica i requisiti formali prescritti per tale procedimento di assegnazione della responsabilità dell'istruttoria: devono ritenersi comunque indefettibili la forma scritta, la data, la firma del dirigente e, ovviamente, l'indicazione del procedimento assegnato. Trattasi di una delega amministrativa in senso tecnico, originante una personale responsabilità del delegato-assegnatario dell'istruttoria. Resta fermo l'obbligo di comunicare al soggetto interessato al procedimento (cittadino, collega, subordinato etc.) chi sia il funzionario responsabile dello stesso. Sul responsabile del procedimento, sia questo il dirigente o il dipendente assegnatario, gravano tutti gli obblighi prescritti dall'art.6 della legge n.241 del 1990, così schematizzabili: COMPITI E POTERI DEL RESPONSABILE DEL PROCEDIMENTO - valuta le condizioni di ammissibilità, i requisiti di legittimazione ed i presupposti che siano rilevanti per l'emanazione del provvedimento; - accerta d'ufficio i fatti, disponendo il compimento degli atti a ciò necessari nel rispetto dei tempi procedimentali. Può chiedere il rilascio di dichiarazioni e la rettifica di dichiarazioni o istanze erronee o incomplete e può esperire accertamenti tecnici ed ispezioni ed ordinare l'esibizione di documenti; - cura l'indizione o indice le conferenze di servizi; - cura le comunicazioni, le pubblicazioni e le notificazioni previste dalla legge e dai regolamenti; - adotta il provvedimento finale ove di sua competenza, o trasmette gli atti all'organo competente per l'adozione (art.6, l.n.241 del 1990). Sul responsabile del procedimento gravano le seguenti responsabilità cui si è già fatto cenno (penale, disciplinare, civile, amministrativo-contabile, dirigenziale). L'attuale definizione delle diverse unità operative responsabili, a livello centrale o periferico, dei vari procedimenti del Ministero della pubblica istruzione, operata dal d.m. n.190 del 1995, è ovviamente destinata a radicali modifiche a seguito della ristrutturazione dell'amministrazione scolastica.

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- la comunicazione di avvio di procedimento e la partecipazione all'istruttoria. Notevole rilevanza (anche per i riflessi giurisdizionali) assume l'obbligo gravante sul responsabile del procedimento di comunicare l'inizio dello stesso: - ai soggetti nei confronti dei quali il provvedimento finale è destinato a produrre effetti; - ai soggetti la cui partecipazione al procedimento sia prevista da legge o regolamento; - ai soggetti, individuati o facilmente individuabili, ai quali possa derivare un pregiudizio dal provvedimento (art.7, l.n.241 e art.4, co.1 del d.m. n.190 cit.). Detta comunicazione deve obbligatoriamente indicare i punti elencati nello schema seguente (art.8, co.2, l.n.241 del 1990). Tali indicazioni è opportuno che siano già contenute nella ricevuta rilasciata all'interessato al momento della presentazione della domanda all'amministrazione scolastica (art.3, co.3 del d.m. n.190). La mancata comunicazione dell'avvio di procedimento o la mancanza delle indicazioni formalmente richieste dalla legge, comporta l'illegittimità dell'atto finale (invalidità derivata). Tuttavia, un recente indirizzo del Consiglio di Stato, ha ritenuto che l'omessa comunicazione dell'avvio non invalida l'atto finale se: - la finalità della comunicazione (garanzia del contraddittorio e possibilità di far valere le proprie ragioni nella fase formativa della volontà amministrativa) risulti essere stata egualmente soddisfatta anche se con forme diverse da quelle contemplate dalla legge n. 241 del 1990, purché per iscritto (ad esempio la contestazione degli addebiti in sede disciplinare è pienamente equipollente alla comunicazione di avvio di procedimento, che non va dunque data); - il contraddittorio sia stato egualmente garantito attraverso la partecipazione dell'interessato al procedimento (attraverso produzione di memorie, audizioni etc.); - si tratti di procedimenti vincolati (in cui il cittadino non può dare alcun contributo istruttorio) o "ad iniziativa di parte" (se è il cittadino ad aver attivato il procedimento, non necessita di essere avvisato). Tale ultimo indirizzo non è tuttavia univoco. Se vi fosse un eccessivo numero di destinatari dell'avviso di procedimento (es. procedure concorsuali, trasferimenti), o sussistessero esigenze di celerità, la comunicazione può essere effettuata attraverso la sua affissione nell'albo del Ministero della p.i. o del provveditorato o con pubblicazione nel relativo bollettino ufficiale (art.4, co.2, d.m. n.190 cit.). I destinatari della comunicazione di avvio di procedimento (i soggetti nei cui confronti il provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti; i soggetti, diversi da questi ultimi, ai quali possa derivare un pregiudizio dal provvedimento finale), nonché i soggetti portatori di interessi diffusi cui possa derivare un pregiudizio dal provvedimento (art.9, l. n.241), potranno partecipare allo stesso, sia prendendo visione degli atti istruttori, sia presentando memorie e documenti che l'amministrazione ha l'obbligo di valutare se pertinenti all'oggetto del procedimento (art.10, l. n.241). La ratio di quest'ultima previsione va ricercata, oltre che nei principi di trasparenza ed imparzialità dell'azione amministrativa, nell'opportunità di forme di partecipazione collaborativa degli interessati alla determinazione consensuale del provvedimento finale, componendo interessi contrapposti e prevenendo eventuali contestazioni giurisdizionali. 3. Il diritto di accesso: nozione e finalità Uno dei più rilevanti istituti introdotti dalla l. n.241 del 1990 e che ha profondamente inciso sull'attività della pubblica amministrazione e, dunque, anche dell'amministrazione scolastica, è rappresentato dal diritto di accesso ai documenti, inteso sia come diritto a visionare atti, sia come diritto ad ottenerne copia. Nel nostro ordinamento l'antinomia tra le esigenze di trasparenza e quelle di segretezza dell'azione amministrativa si è decisamente evoluta verso la valorizzazione della prima. Del principio costituisce massima espressione, accanto a previgenti norme settoriali, soprattutto la legge n. 241 del 1990 (art.10 e art.22-27), che ha riconosciuto un generale diritto di accesso ai documenti amministrativi, ad eccezione di quelli tassativamente segretati, di seguito analizzati. L'istituto dell'accesso risponde ad esigenze di controllo "sociale" sull'attività amministrativa per migliorarne l'efficienza, l'imparzialità e la stessa legittimità (art.98 cost.): la trasparenza concorre a prevenire favoritismi e collusioni, o, comunque, attenua possibili errori valutativi dell'amministrazione. Inoltre, l'accesso è espressione del basilare diritto all'informazione riconosciuto dalla carta costituzionale (art.21 cost.). Viene quindi formalmente ribaltato il vecchio principio, codificato nell'art.15, d.P.R. 10 gennaio 1957 n.3, secondo cui nella p.a. il segreto documentale rappresentava la regola, mentre l'accessibilità era l'eccezione (tassativamente prevista da leggi): oggi la regola è rappresentata dalla piena accessibilità a tutti i documenti dell'amministrazione, mentre l'eccezione è rappresentata dalla segretazione di ben individuati documenti attraverso specifici regolamenti adottati da ciascuna amministrazione (per il Ministero della pubblica istruzione v. il d.m. 10 gennaio 1996 n.60). In sintonia con tale evoluzione normativa si pone anche il d.lvo 3 febbraio 1993 n.29, che istituisce gli uffici relazioni con il pubblico (art.12), preposti, a livello centrale o periferico, a favorire i diritti partecipativi

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riconosciuti dalla l. n.241 al cittadino e ad informare quest'ultimo sullo stato dei procedimenti che li riguardino. Le fonti normative che disciplinano il diritto di accesso presso l'amministrazione scolastica, sia in ordine ai profili procedurali che a quelli concernenti gli atti segretati, possono così riassumersi: LE FONTI SUL DIRITTO DI ACCESSO - art.10 e art.22-28, l.7 agosto 1990 n.241; - d.P.R. 27 giugno 1992 n.352; - d.m. pubblica istruzione 10 gennaio 1996 n.60. Per meglio comprendere l'articolata materia del diritto di accesso, è opportuno schematicamente illustrare il futuro sviluppo dell'analisi, in cui si toccheranno i seguenti punti: IL DIRITTO DI ACCESSO NELL'AMMINISTRAZIONE SCOLASTICA Chi può accedere: legittimazione ed interesse all'accesso. A cosa si può accedere: nozione di documento. A chi va inoltrata l'istanza di accesso. La risposta dell'amministrazione. Il diritto di accesso è riconosciuto a favore del destinatario del provvedimento finale e del controinteressato all'adozione di tale provvedimento (c.d. accesso interno,art.10, lett. a), l. n.241del 1990), a favore di "chiunque vi abbia interesse perla tutela di situazioni giuridicamente rilevanti" (c.d. accesso esterno,art.22, l. n.241). Il cittadino (o la persona giuridica: es. una società) legittimato all'accesso documentale, deve quindi essere titolare di una situazione soggettiva giuridicamente rilevante, e deve essere portatore di un interesse concreto e personale. In merito a quest'ultimo requisito (personalità dell'interesse), deve ritenersi che la richiesta di accesso deve provenire dal diretto interessato al procedimento e non da altri. Ne consegue che, ad esempio, la richiesta di accesso alle valutazioni interne di un alunno non promosso non compete ad un mero conoscente del ragazzo, ma ai genitori esercenti la patria potestà. Parimenti l'accesso agli atti di un procedimento disciplinare spetta al dipendente sottoposto all'iter sanzionatorio e non già ad un sindacalista "interessato" alla questione; l'accesso ad un procedimento di riscatto compete all'interessato e non ad un amico, ad un parente o ad un collega. A tale regola generale sulla coincidenza tra legittimazione all'accesso e interesse allo specifico procedimento fa eccezione, in base a fondamentali principi, l'ipotesi in cui il diretto interessato deleghi altro soggetto ad effettuare l'accesso-visione o a richiedere ed ottenere copia di atti: ogni cittadino ha dunque facoltà di delegare un parente, un collega, un sindacalista, un avvocato etc. per l'esercizio del proprio diritto. In tale evenienza il delegato dovrà esibire idonea delega (anche non notarile) con copia del documento del delegante. È bene avere chiara tale conclusione, in quanto molto spesso nell'amministrazione scolastica, come in tante altre amministrazioni, si corre il rischio di consentire illegittimi accessi a soggetti non legittimati solo perché questi ultimi rivestono qualifica (senza darne spesso prova) di "avvocati" del diretto interessato, o perché affiliati ad un sindacato cui appartiene anche il diretto interessato: in dette evenienze occorre acquisire doverosamente la delega del diretto interessato al cennato avvocato o sindacalista. In caso contrario, il responsabile del procedimento di accesso potrebbe incorrere in responsabilità penali e disciplinari svelando dati personali o "sensibili" (ex l. n.675 del 1996) di soggetti diversi da quelli che materialmente esercitano il diritto di accesso. Venendo al secondo e concorrente requisito che deve far capo al soggetto legittimato all'accesso, è necessario che quest'ultimo sia portatore, come si è detto, di un interesse giuridicamente rilevante, non necessariamente coincidente con un diritto o un interesse legittimo, ma anche corrispondente ad una mera aspettativa o un interesse diffuso. Non deve comunque trattarsi di un interesse meramente emulativo o frutto di semplice curiosità. Con riferimento all'amministrazione scolastica, la giurisprudenza ha ritenuto che sussista un interesse giuridicamente rilevante, concreto e personale, nei seguenti casi: - richiesta di accesso da parte dei genitori di un alunno ai verbali interni contenenti le valutazioni che hanno portato alla bocciatura del ragazzo, con esclusione dei giudizi relativi ad altri alunni; - richiesta di accesso da parte dei genitori di un alunno ai compiti scritti e ai verbali delle interrogazioni orali del figlio; - richiesta di accesso, a procedura conclusa, da parte di una impresa non vincitrice di una gara, agli atti della procedura stessa; - richiesta di accesso, ad ispezione conclusa, da parte di un insegnante (o dirigente scolastico) agli atti dell'ispettore che abbia effettuato un accertamento in una istituzione scolastica; - richiesta di accesso agli atti del procedimento disciplinare nei confronti di un insegnante da parte di

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quest'ultimo; - richiesta di accesso da parte di un insegnante utilmente collocato in graduatoria agli atti concernenti la determinazione degli organici sulla cui base vengono disposte le nomine in ruolo; - richiesta di accesso, da parte di un dipendente, agli atti relativi all'istruttoria della propria domanda di trasferimento; - richiesta di accesso da parte di un sindacato agli atti istruttori di un procedimento confluito nell'adozione di un atto lesivo della sfera soggettiva del sindacato stesso. Va da ultimo sottolineato che l'interesse ad accedere agli atti della p.a. non va confuso con l'interesse ad impugnare l'atto conclusivo del procedimento, in quanto per poter proporre un ricorso avverso tale ultimo atto occorre che lo stesso sia immediatamente lesivo della sfera soggettiva del ricorrente, mentre è possibile accedere a documenti istruttori ancora non immediatamente lesivi, ove l'interessato vi abbia un interesse giuridicamente rilevante. Per esemplificare sul punto, la relazione di un ispettore sull'attività di un dirigente scolastico o di un funzionario di un Provveditorato, pur non potendo essere impugnata in sede amministrativa o giurisdizionale in quanto atto interno non lesivo dell'interessato (sarà invece impugnabile il successivo provvedimento disciplinare o di trasferimento del dirigente o del funzionario assunto sulla scorta della relazione ispettiva negativa), potrà essere oggetto di una legittima richiesta di accesso, formulata per potersi meglio difendere nell'eventuale successivo ricorso avverso il consequenziale atto lesivo. L'autonomia dell'interesse all'accesso rispetto all'interesse all'impugnativa dell'atto finale comporta che l'istanza di accesso può essere formulata anche se l'atto finale del procedimento è divenuto inoppugnabile per decorso dei termini processuali: l'interessato potrebbe avere interesse al documento non tanto per proporre (un ormai irricevibile in quanto tardivo) ricorso gerarchico, straordinario o al Tar, ma per promuovere una azione risarcitoria contro la pubblica amministrazione (l'azione è sottoposta a termine prescrizionale), per inoltrare una denuncia penale contro il responsabile del procedimento, per presentare una istanza di revoca del provvedimento assunto. L'accesso può essere esercitato anche da associazioni portatrici di interessi collettivi (a tutela dei consumatori, dell'ambiente, dei lavoratori etc.). Nell'amministrazione scolastica è frequente che le istanze di accesso provengano da sindacati ove gli atti richiesti attengano alle finalità istituzionali del sindacato stesso. L'accesso, come si è detto, può essere esercitato nei confronti di documenti amministrativi "formati o utilizzati" dalla p.a. (art. 25, co. 2, l. n.241). La nozione di documento amministrativo è particolarmente ampia in base al disposto dell'art.22, co.2, cit., e ricomprende non solo i documenti cartacei, ma anche ogni "rappresentazione grafica, fotocinematografica, elettromagnetica" di cui la p.a. sia in possesso. Inoltre, l'accesso non è limitato agli atti formati dalla p.a., ma comprende anche gli atti dalla stessa utilizzati, e dunque anche eventuali atti di soggetti privati confluiti in un procedimento amministrativo. Sono inoltre accessibili anche gli "atti interni" formati o utilizzati dall'amministrazione (es. carteggio interno, pareri, appunti, relazioni ispettive etc.). Dopo un lungo contrasto giurisprudenziale, il Consiglio di Stato, in adunanza plenaria(23), ha stabilito che sono accessibili anche gli atti di diritto privato della pubblica amministrazione. Tale conclusione è assai rilevante dopo la privatizzazione del rapporto di pubblico impiego, in quanto gli atti gestionali del datore di lavoro pubblico (es. trasferimenti, sanzioni disciplinari, sospensioni cautelari etc.) hanno oggi natura privatistica-negoziale e non già natura pubblicistica-provvedimentale. L'interessato all'accesso deve inoltrare l'istanza all'amministrazione che ha formato il documento o lo detenga stabilmente (art.25, co.2, l. n.241). Ove venga erroneamente presentata ad amministrazione diversa, quest'ultima deve d'ufficio trasmettere l'istanza alla competente struttura amministrativa (art.4, co.3, d.P.R. n.352 del 1992). Ove presso l'amministrazione (es. presso il Ministero della p.i. o presso un provveditorato) fosse stato istituito un ufficio relazioni con il pubblico (art.12, d.lvo n.29 del 1993), l'istanza di accesso può essere presentata presso l'u.r.p., che provvederà a trasmetterla al competente ufficio, centrale o periferico. L'istanza deve essere motivata, attraverso l'indicazione delle ragioni che legittimano l'interessato a visionare o acquisire copia dei documenti richiesti. Secondo un ormai consolidato indirizzo giurisprudenziale, è tuttavia sufficiente che il richiedente adduca un generico interesse "a curare o difendere propri interessi giuridici" perché l'istanza debba essere accolta(24), non avendo l'amministrazione alcun sindacato circa la veridicità o meno di quanto asserito dal cittadino. Inoltre, il richiedente dovrà indicare nell'istanza le proprie generalità, il proprio indirizzo e i documenti richiesti (non è necessario specificare data e numero di protocollo, essendo sufficiente fornire elementi per la loro identificabilità). L'istanza dovrà essere firmata. Qualora la richiesta di accesso riguardi atti che incidono sulla sfera soggettiva di soggetti terzi, l'amministrazione dovrà dare comunicazione di avvio di procedimento al terzo controinteressato (art.7, l.

23 ad. plen. 22 aprile 1999 n.5, in Foro it., 1999, III, 305. 24 Cons. St., ad. plen., 4 febbraio 1997 n.5, in Cons. St., 1997, I, 423

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n.241), che potrà partecipare all'istruttoria, prospettando le proprie ragioni ostative all'accoglimento dell'istanza (es. accesso agli elaborati di tutti i vincitori di una procedura concorsuale da parte di un soggetto escluso). Qualora la richiesta di accesso non ponga alcun problema di legittimazione del richiedente, né sorgano questioni di segretazione dell'atto richiesto, la domanda potrà essere formulata anche oralmente ed essere accolta, senza formalità, anche contestualmente alla presentazione della richiesta, consentendo la visione o il rilascio dei documenti richiesti. In tale ipotesi siamo innanzi ad un caso di accesso informale (art.3, d.P.R. n.352 del 1992), che può verificarsi, ad esempio, a fronte della richiesta di un insegnante che chieda copia della graduatoria della procedura di trasferimento a cui abbia partecipato. Qualora, invece, sorgano dubbi sulla legittimazione del richiedente, sulla sua identità, o sulla segretazione dell'atto preteso, la p.a. dovrà invitare l'interessato a presentare un'istanza formale, riservandosi di valutarla entro il termine massimo di 30 giorni dalla presentazione (art.4, d.P.R. n.352 cit.). Responsabile del procedimento di accesso è il dirigente dell'unità organizzativa competente a formare l'atto o a detenerlo stabilmente, o suo delegato (art.4, co.7, d.P.R. n.352). A seguito della doverosa istruttoria sulla istanza di accesso, il suddetto responsabile potrà effettuare, entro il termine di trenta giorni, quattro fondamentali scelte, così schematizzabili:

Per comprendere compiutamente le ragioni che conducono l'amministrazione ad operare l'una o l'altra delle suddette quattro scelte, occorre doverosamente soffermarsi sulla attuale nozione di atto segretato, ovvero sottratto (stabilmente o temporaneamente) all'accesso. L'art. 15 della l. 24 novembre 2000 n. 340 ha modificato l'art. 25 comma 4 della l. 241/90 prevedendo, in caso di diniego di accesso, in alternativa al ricorso giurisdizionale, il ricorso al difensore civico. 4. Gli atti sottratti all'accesso presso l'amministrazione scolastica: il d.m. 10 gennaio 1996 n.60 Si è già evidenziato come la legge 7 agosto 1990 n.241 abbia ribaltato il vecchio principio, codificato nell'art.15, d.P.R. 10 gennaio 1957 n.3, secondo cui presso la p.a. il segreto documentale rappresentava la regola, mentre l'accessibilità era l'eccezione (tassativamente prevista da leggi): oggi la regola è rappresentata dalla piena accessibilità a tutti i documenti dell'amministrazione, mentre l'eccezione è rappresentata dalla segretazione di ben individuati documenti. Con riferimento all'attività dell'amministrazione scolastica, il testo fondamentale per stabilire se l'atto sia segretato o meno, è costituito dal d.m. pubblica istruzione 10 gennaio 1996 n.60 (Regolamento per l'esclusione del diritto di accesso ai documenti amministrativi) che trova testuale applicazione non solo per il Ministero e i suoi organi periferici, ma anche per le istituzioni scolastiche (art.1, d.m. n.190 cit.).

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Tale regolamento opera una fondamentale distinzione tra: A - atti sottratti (stabilmente) all'accesso B - atti ad accesso differito Gli atti sottratti (stabilmente) all'accesso per motivi di riservatezza di terzi, persone, gruppi e imprese sono i seguenti: - rapporti informativi sul personale dipendente; - documenti contenenti informazioni di carattere psico-attitudinale; - documenti rappresentativi di accertamenti medico-legali; - documenti relativi alla salute delle persone; - documenti relativi ad indagini della magistratura ordinaria o contabile; - denunce alla Corte dei conti di fatti dannosi per l'erario da parte dell'amministrazione scolastica. B - Gli atti ad accesso differito, ovvero visionabili solo al termine del relativo procedimento, sono i seguenti: - le relazioni e i verbali ispettivi; - gli elaborati concorsuali e le schede valutative di pubbliche selezioni relative al solo richiedente; - le offerte formulate nell'ambito delle procedure di gara per acquisto di beni, forniture e servizi. Va sottolineato che il responsabile del procedimento di accesso presso l'amministrazione scolastica è vincolato all'osservanza non solo del regolamento n.60 del 1996, ma anche degli analoghi regolamenti, di similare contenuto, che presso le altre pubbliche amministrazioni individuano gli atti sottratti all'accesso presso le stesse. Tale precisazione è necessaria con riferimento ad eventuali richieste di accesso formulate presso l'amministrazione scolastica e relative a documenti da queste stabilmente detenuti (art.25, co.2, l. n.241) anche se adottati da altra amministrazione (es. documenti adottati da aziende sanitarie e utilizzati dal Ministero della p.i. per procedimenti di trasferimento o congedi; es. documenti adottati dall'Inpdap ed utilizzati dall'amministrazione scolastica etc.). Il diniego o il differimento di accesso, essendo adottati con provvedimento, vanno motivati, indicando la norma regolamentare o legislativa ostativa alla visione dell'atto richiesto. Uno dei più frequenti problemi originati dalla disciplina sul segreto documentale riguarda la possibilità o meno di superare la segretazione qualora l'atto sia necessario al richiedente per difendersi in giudizio. Si pensi, tra i tanti, al caso dell'insegnante che subisca uno "scavalco" in una graduatoria da parte di un collega che abbia fruito, previa produzione di idonea documentazione sanitaria comprovante la necessità di assistere una madre portatrice di handicap (art.33, l. n.104 del 1992), di un trasferimento su una sede cui ambiva anche il lavoratore "scavalcato": il lavoratore "scavalcato", ove avesse dubbi circa la legittimità della documentazione sanitaria prodotta dal collega, dovrebbe accedere alla stessa prima di proporre un ricorso giurisdizionale avverso il trasferimento (asseritamente) illegittimo. Tuttavia l'amministrazione scolastica, in base all'art.2, lett.c, d.m. n.60 del 1996, dovrebbe rigettare l'istanza di accesso, trattandosi di atto segretato in quanto contenente dati sanitari di terzi, precludendo al richiedente una idonea difesa in sede di ricorso giurisdizionale. Su questioni come quella esemplificata si è aperto un vasto contrasto giurisprudenziale, contrapponendosi due diritti di valenza costituzionale: il diritto di accesso volto alla difesa in giudizio (art.24, 103, 113 cost.) ed il diritto alla riservatezza personale su dati sanitari (diritto fondamentale ex art.2 cost.). Il Consiglio di Stato, con decisione dell'adunanza plenaria 4 febbraio 1997 n.5, ha ritenuto che in tali situazioni, in base anche all'art.24, co.2, lett.d), l. n.241 del 1990, prevalga sulla riservatezza di terzi il diritto di accesso, ove sorretto dalla necessità di "difendere un interesse giuridico", ma con un limite "modale": l'interessato potrà solo visionare la documentazione, senza poterne ottenere copia. La previsione regolamentare che segreta il documento verrà in tal caso disapplicata. Alla luce di quanto detto, la segretazione dei documenti riguardanti la riservatezza del terzo, anche se prevista nei regolamenti ministeriali (quali il d.m. n.60 del 1996) attuativi dell'art.24, co.4, l. n.241, soccombe a fronte di una istanza di accesso in cui il richiedente dichiari di avere necessità del documento per "la cura o difesa di interessi giuridici". Si è già evidenziato che l'amministrazione non ha alcun sindacato circa la veridicità o meno di quanto asserito sul punto dal cittadino. 5. I rapporti con la legge 675 del 1996 sulla privacy Tali conclusioni sul rapporto accesso-segretazione, sono state messe in seria discussione ad opera della legge 31 dicembre 1996 n.675 (norme sulla tutela delle persone e di altri soggetti rispetto al trattamento dei dati personali, c.d. legge sulla privacy) che disciplina il trattamento, anche da parte di soggetti pubblici, dei dati personali, alcuni dei quali possono finire con il coincidere con i dati ai quali un cittadino intende accedere presso l'amministrazione scolastica in base alla legge n.241 del 1990. Tale normativa del 1996 si ispira ad una finalità, quella della tutela della privacy, sostanzialmente antitetica rispetto alla valorizzazione della trasparenza e dunque dell'accesso operata dalla legge n.241 del 1990. In particolare, il capo V della legge n.675 cit. individua, accanto ai "normali" dati personali, uno "zoccolo duro" nell'ambito dei dati personali trattati (anche da pubbliche amministrazioni) costituito dai "dati

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sensibili" (art.22, l. cit.). Si tratta dei dati idonei a rivelare: - l'origine razziale ed etnica; - le convinzioni religiose o di altro genere; - le opinioni politiche; - l'adesione a partiti, sindacati, associazioni od organizzazioni a carattere religioso, filosofico, politico o sindacale; - lo stato di salute e la vita sessuale. La gestione dei dati sensibili è consentita solo con il consenso dell'interessato e l'autorizzazione del Garante e purché vi sia una legge che individui i dati da trattare, le operazioni eseguibili e le finalità che deve perseguire il soggetto che tratti i dati. La sopravvenienza normativa del 1996 pone dunque un prioritario quesito circa la permanenza in vita della disciplina sull'accesso codificata negli art.22 ss., l. 241 del 1990. La risposta positiva è desumibile sia dall'art.43, co.2, l. n.675, sia dall'art.16, del d.lvo 11 maggio 1999 n.135 sul trattamento dei dati sensibili da parte dei soggetti pubblici, che fanno espressamente salva la previgente normativa sul diritto di accesso. Dovrebbe dunque concludersi che, anche dopo l'entrata in vigore della l. n.675 del 1996 e del d.lvo n.135 del 1999, il diritto di accesso per "la cura o difesa di interessi giuridici" prevalga sulla riservatezza del terzo, ancorché si tocchino dati sensibili dello stesso. Su tali conclusioni si attende un consolidamento giurisprudenziale. 6. Diniego di accesso e tutela giurisdizionale Come si è già evidenziato, l'amministrazione destinataria della richiesta di accesso può effettuare, entro il termine di trenta giorni dalla ricezione, quattro fondamentali scelte: - accogliere l'istanza, consentendo l'accesso; - rigettare l'istanza per vari motivi (l'atto è segretato; l'istante non è legittimato; l'istante è privo di delega da parte del titolare dell'interesse etc.); - rimanere silente, in quanto la legge equipara il silenzio protratto oltre trenta giorni dall'istanza al rigetto espresso (art.25, co.4, l. n.241); - differire l'accesso obbligatoriamente (nelle ipotesi previste dai regolamenti attuativi dell'art.24, co.4, l. n.241 del 1990: v. art.3, d.m. pubblica istruzione n.60 del 1996),o facoltativamente, qualora l'accesso possa "impedire o gravemente ostacolare lo svolgimento dell'azione amministrativa" (art.24, co.6, l. n.241). Qualora il cittadino si veda opposto un diniego, espresso o tacito (ex art.25, co.4, l. n.241), o un differimento, e ritenga tale scelta illegittima, può proporre un ricorso al Tar entro il termine decadenziale di trenta giorni dal rigetto (o differimento). Il giudice adito deciderà la controversia, fissando la camera di consiglio nei trenta giorni successivi alla scadenza per il deposito del ricorso. La difesa in giudizio dell'amministrazione scolastica in materia di accesso, a séguito della recente novella introdotta dall'art.4, co.3, l.21 luglio 2000 n.205, spetta direttamente a propri "dirigenti" autorizzati "dal legale rappresentante dell'ente", e non più all'Avvocatura dello Stato: da qui l'importanza di una puntuale conoscenza della materia da parte dei nuovi difensori dell'amministrazione. In caso di accoglimento, il giudice ordinerà all'amministrazione di esibire il documento all'interessato. La decisione di primo grado è appellabile al Consiglio di Stato nei trenta giorni successivi alla notifica della sentenza. Secondo il prevalente indirizzo della giurisprudenza penale, la mancata risposta dell'amministrazione nei trenta giorni dalla ricezione della richiesta di accesso, non configura il reato di omissione di atti d'ufficio (art.328 cod.pen.), in quanto tale condotta silente è equiparata per legge al rigetto espresso (art.25, co.4, l. n.241).

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CAPITOLO 3 STUDI SULLA LEGGE 59/1997

1 Nozione "storica" di delegificazione Nel linguaggio giuridico moderno la delegificazione assume significati diversi e spesso contrapposti. Secondo una prima accezione, mutuata dalla dottrina dominante, la delegificazione va definita come "la dismissione della disciplina di una determinata materia o attività ad opera di norme contenute in fonti legali siano esse di primo o di secondo grado". In questo senso la delegificazione presuppone "una rinunzia da parte dello Stato a disciplinare materie od attività, in quanto ritenute non più meritevoli di tutela" da parte dell’ordinamento. Questa è l’ipotesi dal significato più lato in senso assoluto, e designa la volontà dello Stato di abbandonare spazi prima occupati da norme giuridiche, ossia ridurre l’ambito normativo delle fonti legali. è lapalissiano che le materie "legislative", ossia quelle coperte da una riserva di legge in Costituzione sono sicuramente interdette a qualsiasi intervento delegificativo di questo tipo, poiché non suscettibili di essere private di una disciplina normativa di legge. Le materie poste nell’ambito del giuridicamente irrilevante potranno di fatto essere disciplinate dalle regole dell’autonomia privata. Detta configurazione trova un riferimento storico nell’esperienza soprattutto britannica ed americana della "deregulation". Detto ritrarsi della disciplina giuridica può trovare un bilanciamento riservando al pubblico potere un’area di intervento, di indirizzo e coordinamento, che regoli l’attività dei soggetti privati con una disciplina generale di principio (25). Sempre nell’area concettuale della delegificazione in senso ampio si deve considerare la cosiddetta "denazionalizzazione" che si ha quando "lo Stato già titolare di una impresa o di una attività, decide di ritrarsi da tali campi di intervento e di affidare per intero ai privati la relativa disciplina che obbedirà, pertanto, nell’ipotesi che si tratti di un’attività economica alle regole del libero mercato". In realtà questa fattispecie non configura un concetto autonomo, ma rappresenta la premessa per attribuire un diverso assetto alla disciplina legale in una determinata materia. Infatti il trasferimento della proprietà pubblica di una impresa o di una attività economica al settore privato comporta un coincidente affievolimento delle funzioni statali nell’ambito privatizzato. In tale prospettiva è da qualificarsi come uno degli strumenti di manovra nel campo economico, per arrivare alla "deregulation" e, quindi, strettamente dipendente da questa ipotesi. Una ultima ipotesi, da ricondurre sempre nell’ambito concettuale della delegificazione in senso lato, è rappresentata dalla cosiddetta "deburocratizzazione" tendente a rendere più agevole ed efficiente la pubblica amministrazione mediante l’eliminazione di norme che appesantiscono le attività ed i procedimenti amministrativi(26). Si tratta di norme giuridiche sostituite con regole poste dai titolari delle strutture organizzative della Pubblica Amministrazione. Questa ipotesi è strettamente legata al filone degli studi sulla fattibilità delle leggi e sulla loro effettività che risponde alla finalità di predisporre il campo per l’introduzione di procedure amministrative più semplici e flessibili che permettano l’effettiva attuazione legislativa. Avendo fino ad ora dato conto dei diversi significati attribuibili, in senso lato, alla delegificazione, è utile comprendere a questo punto della disamina della sua definizione, mutuata dal linguaggio giuridico moderno dottrinale e legislativo, una accezione che sia utile a comprendere questo fenomeno nell’ambito del sistema delle fonti; ossia quando la delegificazione compie non una dismissione del potere normativo, ma una sua redistribuzione. In una prospettiva di analisi che tenga fermo il sistema dato delle fonti del diritto, la delegificazione deve essere configurata come trasferimento della funzione normativa (su determinate materie) dalla sede legislativa statale ad altra sede normativa. Questa è la definizione in senso tecnico che meglio rappresenta l’esigenza di superare l’uso massiccio della legge statale, che potrà devolvere un potere normativo in materie non coperte da riserva assoluta di legge stabilita dalla Costituzione alla potestà regolamentare governativa, alla potestà legislativa regionale, alle fonti di autonomia territoriale, alle Università, alle autorità amministrative indipendenti. 2 Il problema del rapporto tra legge e regolamento nella funzione di organizzazione in una prospettiva storica. La riserva di legge nell’art. 97 co. 1 Cost.: l’evoluzione dell’interpretazione dottrinale Il capo terzo della legge n. 59/1997 contempla disposizioni che mirano al riordinamento ed alla modernizzazione della pubblica amministrazione attraverso una imponente opera di delegificazione. La considerazione del meccanismo delegificativo ripropone il tema dei rapporti tra legge e regolamento, quali strumenti attraverso i quali si è, storicamente, esercitata la funzione di amministrazione nel suo duplice profilo organizzativo-decisionale. In realtà l’amministrazione è attività organizzata in quanto la gestione concreta degli interessi generali richiede la necessaria predisposizione di un complesso di uffici idonei a concretarli e ad attuarli. D’altra parte

25 S. Cassese, E. Gerelli, La deregolamentazione amministrativa e legislativa, Giuffré, Milano 26 T. Martinez, Diritto Costituzionale, Giuffré, Milano, 1994, pag. 73.

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l’organizzazione è coordinamento, direzione, razionalizzazione, adeguamento ai canoni dell’efficienza ed economicità e, in quanto tale, essa non si esaurisce in una mera preparazione dell’attività amministrativa ma ne guida lo svolgimento, influenzando la realizzazione degli interessi della comunità. La decisione organizzativa rileva come decisione di indirizzo politico dell’attività e, pertanto, il problema del rapporto tra legge e regolamento, quali fonti di produzione di norme di organizzazione, diventa quello della ripartizione della funzione di indirizzo. In Italia le dispute dottrinali e le lotte politiche non si sono svolte intorno alla titolarità esclusiva della funzione di organizzazione, ma intorno ai limiti delle competenze e delle funzioni del Parlamento e del Potere esecutivo, riconosciuti contitolari di tale funzione. In una prospettiva storica è dato rilevare come nel periodo che va dal 1848 alla prima guerra mondiale vi sia un graduale aumento dell’ingerenza del Parlamento nella normazione organizzativa. Più precisamente si ha il passaggio da un regime di contitolarità delle funzioni di governo con preminenza del re ad un regime di contitolarità con preminenza del Parlamento(27). Il periodo storico compreso tra il 1860 e il 1900 è caratterizzato dalla ripartizione fondamentalmente paritaria della funzione di organizzazione fra Parlamento e Governo dotati di pari dignità e pari poteri in materia di produzione normativa e di direzione politica. La classe politica ed i giuristi dell’epoca discutono sul punto se l’organizzazione dei ministeri sia materia spettante al Potere esecutivo, mentre con riferimento alla generale funzione di organizzazione si considera che un’equilibrata distribuzione della stessa tra potere legislativo e potere esecutivo consenta da una parte, con la fonte regolamentare, di evitare l’irrigidimento delle strutture di un'amministrazione che deve essere elastica per poter conseguire con efficacia i suoi fini, e dall’altra, con la legge, di evitare la commistione di politica ed amministrazione. Nei primi anni del 1900, a causa dell’accresciuto peso politico della borghesia e del venir meno della preminenza della classe aristocratica, muta il rapporto di forza esistente fra Parlamento e Governo a tutto vantaggio del primo(28). Espressione di questo spostamento di forza politica e giuridica dal Governo al Parlamento, in materia di organizzazione, è la legge n. 372 del 1904, con la quale si riserva al legislatore il potere di modificare il numero dei ministeri. Venuta meno la pari dignità delle fonti legislative e governative, la legge diventa fonte primaria, il regolamento fonte secondaria subordinata ad essa, e, in essa, rinveniente la sua legittimazione formale. La riforma fascista operata dalla legge n. 100 del 31 gennaio 1926 opera un’inversione di tendenza rispetto all’assetto delle competenze: la normazione in tema di organizzazione è riservata, salvo eccezioni, al potere esecutivo. Tale riserva è una conseguenza della sottrazione al Parlamento e della concentrazione nel Governo della direzione politica dello Stato ed esprime, evidentemente, l’intento centralizzatore del governo fascista(29). Quanto agli strumenti giuridici per l’esercizio degli accresciuti poteri dell’esecutivo, il regolamento si trasforma da indipendente (indipendente da specifiche autorizzazioni legislative perché ricollegantesi all’ordinamento generale delle competenze statali fissato dalla costituzione) in regolamento riservato, nell’ambito di un sistema di distribuzione di competenze esclusive. L’articolo 1 della legge n. 100 del 1926 riservava al potere regolamentare del governo di disciplinare "l’organizzazione ed il funzionamento delle amministrazioni dello stato, l’ordinamento del personale, nonché degli enti e degli istituti pubblici" e lasciava alla legge le decisioni di spesa e la disciplina dell’ordinamento giudiziario. L’articolo 1 succitato attribuiva, inoltre, al regolamento una particolare efficacia, per cui esso, grazie ad una delegificazione della materia, poteva disciplinare la stessa anche indipendentemente o, se del caso, in contrasto con disposizioni legislative. è interessante notare come la legge n. 100 del 1926 non prevedesse la previa acquisizione del parere del Consiglio di Stato nel procedimento di adozione del regolamento così come attualmente previsto dall’articolo 17 L. 400/1988. In realtà il processo di centralizzazione, conseguente all’assetto totalitario determinatosi in epoca fascista, provoca oltre che un fenomeno di redistribuzione del potere all’interno degli apparati ministeriali un rafforzamento della Presidenza del Consiglio dei ministri. Da quel momento furono posti alle dipendenze della Presidenza del Consiglio i tre più importanti organi consultivi dello Stato: Consiglio di Stato, Corte dei Conti, Avvocatura dello Stato. Le funzioni di responsabilità politica e di direzione amministrativa proprie del Consiglio di Stato e degli altri organi consultivi venivano così ad assommarsi direttamente intorno alla figura del Capo del Governo(30). All’indomani del crollo del regime fascista emerge l’esigenza di riordinare l’organizzazione amministrativa dello Stato su basi democratiche. In quest’ottica operano, in particolare, alcune commissioni di studio, le quali evidenziano come il riconoscimento della competenza del Parlamento rispondesse a principi democratici ed alla tradizione liberale dell’Italia prefascista. Tali preoccupazioni di tipo garantistico spingono ad attribuire al Parlamento la competenza a dettare le norme fondamentali sulla struttura della pubblica amministrazione ed in particolare a fissare il numero e la disciplina dei ministeri. Come ha ben evidenziato un’autorevole dottrina(31), l’assemblea costituente nel prevedere una generale riserva di legge in materia di organizzazione dei pubblici uffici mostra solo di preoccuparsi del recupero del ruolo del Parlamento; non

27 M. Nigro, Studi sulla funzione organizzatrice della pubblica amministrazione, Giuffré, Milano, 1966, pag. 46. 28 Galli, Corso di diritto amministrativo, Cedam, Padova, 1991. 29 M. Nigro, Studi sulla funzione organizzatrice della pubblica amministrazione, Giuffré, Milano, 1966, pag. 57. 30 S. Sepe, Amministrazione e Storia, Maggioli, Rimini, 1995, pag. 226. 31 P. Caretti, La pubblica amministrazione, commento all'art. 97 Cost., Il Mulino, Bologna, 1992.

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risultano invece risolti i problemi legati all’individuazione dei limiti entro i quali il potere di organizzazione del potere esecutivo può essere esercitato. Una lacuna questa che ha prodotto come conseguenza il perpetuarsi delle incertezze sulla esatta definizione dei contorni della fonte regolamentare. L’opinione che prevale negli anni immediatamente successivi all’entrata in vigore della Costituzione è quella dell’avvenuta affermazione di una riserva di legge assoluta tale dunque da rendere illegittima ogni forma di esercizio del potere di organizzazione diversa da quella che si realizza attraverso la legge del Parlamento. Questa posizione, tuttavia, era destinata ad essere ben presto abbandonata in considerazione dell’ineliminabile concorrenza della legge e del regolamento nella disciplina della materia considerata. Il primo passo verso l’interpretazione, poi universalmente accolta, della natura relativa e non assoluta della riserva disposta dall’art. 97, co. 1, fu rappresentato dall’affermata ammissibilità di regolamenti esecutivi intesi come fonti che non si limitano ad un’esecuzione della legge, in senso stretto, ma dettano anche norme integrative dei principi posti dalle fonti primarie. In questa fase, comunque, il regolamento si configura come espressione di un potere di organizzazione del Governo non già originario bensì derivato dalla legge, trovando in essa il suo fondamento e collocandosi rispetto ad essa in una posizione gerarchicamente subordinata. A partire dagli inizi degli anni ‘60 si verifica una svolta importante nel dibattito scientifico sull’interpretazione dell’art. 97 co. 1 della Costituzione, poiché comincia a farsi strada la concezione di una riserva alla legge della disciplina solo di una parte della materia, quella nella quale entrano in gioco le scelte organizzative generali di livello superiore, destinate ad informare di sé ed a condizionare le scelte di livello immediatamente inferiore, da operarsi attraverso la fonte regolamentare. Intesa la riserva di legge come riserva di una sola quota della disciplina della materia, muta profondamente la concezione della fonte regolamentare: non si tratta più di una fonte meramente esecutiva-integrativa delle disposizioni legislative, ma piuttosto di una fonte alla quale deve essere riconosciuto un ambito di operatività ben definito e distinto dall’area riservata al legislatore. Il piano di intervento del Governo, sebbene di livello inferiore, si raccorda ad un potere organizzatorio che si configura come originario, in quanto trova il suo riconoscimento direttamente nella Costituzione. All’affermazione della natura originaria del potere di organizzazione del Governo consegue una diversa collocazione del regolamento nel sistema delle fonti. Infatti esso è collocato in una posizione sempre di subordinazione rispetto alla legge, ma non più tanto in virtù di un rapporto gerarchico, quanto piuttosto in termini di riparto delle competenze. Si perviene pertanto alla definizione di un rapporto fra legge e regolamento che è insieme di reciproca integrazione, ma anche di necessario rispetto dei diversi livelli di intervento delle due fonti. Di recente, la dottrina più avvertita ha proposto un’interpretazione della riserva di legge in maniera capovolta rispetto a quella tradizionalmente intesa: non già difesa di un’area di intervento riservata al legislatore da indebite ingerenze regolamentari, ma salvaguardia del regolamento quale fonte formalmente tipizzata, nel preciso intento di tutelare la capacità del Governo di mantenere l’unità del suo indirizzo politico-amministrativo. Se guardiamo agli sviluppi normativi dell’organizzazione dei pubblici uffici dopo l’entrata in vigore della Costituzione, possiamo notare che il legislatore non è seriamente intervenuto per ricondurre tutta la normazione sulla Pubblica Amministrazione nel quadro dei principi di efficienza ed imparzialità fissati dall’art. 97 Cost. Al suo posto è intervenuto il Governo con lo strumento regolamentare. Si è rivelata, pertanto, alquanto labile la linea di demarcazione fra legge e regolamento. In una visuale che attribuisce un confine flessibile al rapporto fra la legge ed il regolamento, si pone la tematica della delegificazione quale strumento utilizzato dal Governo per colmare gli spazi, intenzionalmente, liberati dal Parlamento. 3 Excursus storico della "Delegificazione" dalla fine degli anni ‘70 sino alla legge n. 400/88 Dopo aver argomentato sulle varie ipotesi dottrinali e giurisprudenziali tese a definire, da un lato, il concetto di riserva assoluta di legge e, dall’altro, il concetto giuridico di delegificazione, appare opportuno dare spazio alla disamina dei numerosi tentativi di applicazione del fenomeno a partire dalla fine degli anni settanta, laddove ci si riporta all’analisi dei lavori delle commissioni di studio parlamentare governative succedutesi in materia. La prima indicazione sul tema della delegificazione è rintracciabile nel "Rapporto sui principali problemi dell’amministrazione dello Stato" dell’allora Ministro della Funzione Pubblica Giannini presentato al Parlamento il 16 novembre 1979. In particolare il rapporto si soffermò sull’arretratezza delle tecniche di amministrazione estremamente procedimentalizzate, con la partecipazione di più organi ed uffici, ostacolo questo di grande tenore ai fini della produttività e dell’efficienza dell’azione delle amministrazioni pubbliche. secondo Giannini le suddette tecniche avrebbero dovuto subire un’opera perseverante di delegificazione. In sintesi l’ipotesi del fenomeno delegificativo emerso nel rapporto Giannini è quella di una delegificazione unitaria, anche se in apparenza diversificata, che intende sottolineare, principalmente, la semplificazione degli strumenti e dei modi di azione dei pubblici poteri; risultato questo da ottenersi eliminando quei vincoli e quegli obblighi superflui (dettati da norme sia primarie che secondarie) che rendono le procedure particolarmente farraginose. Da quanto sopra esposto emerge che l’amministrazione avrebbe dovuto dettare, negli ambiti resi liberi, le regole più duttili all’organizzazione del lavoro e la legge per il futuro avrebbe dovuto adeguarsi a tale

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ristrutturazione. In altri termini la delegificazione designa il trasferimento della funzione normativa dalla sede legislativa statale ad altra sede normativa, ipotizzando un passaggio dall’etero all’autoregolamentazione, dove la legge non definisca più in modo completo una pluralità di obiettivi da raggiungere ma lasci alle fonti interne, all’organizzazione-Pubblica Amministrazione il compito di definirli. è facilmente arguibile dal rapporto in esame un netto disfavore nei riguardi della fonte primaria, considerata ormai irrimediabilmente "corrotta" dalla "amministrativizzazione", per cui, secondo M. S. Giannini, solo facendo tornare all’amministrazione ciò che le è stato sottratto, ma che le appartiene istituzionalmente, si potrebbe ristabilire un qualche equilibrio. Quanto sopra espresso, è pacifico che l’idea di Giannini sul fenomeno delegificativo non potesse riscuotere il consenso necessario, tale da essere recepito in norme: e ciò perché avrebbe inevitabilmente contribuito ad esautorare il Parlamento della sua potestà legislativa primaria. Soltanto a partire dagli anni ottanta, il tema della delegificazione venne analizzato più a fondo da varie commissioni di studio, ad iniziare da quella per la ristrutturazione dei poteri centrali, la cosiddetta "Commissione Piga", istituita con decreto del Ministro per la Funzione Pubblica, a seguito della presentazione del Rapporto Giannini. In questa ipotesi di riforma, matura l’idea della delegificazione, spostandosi dall’autoregolazione, prodotta dalla struttura organizzativa, alla eteroregolazione mediante definizione dei limiti del potere regolamentare governativo, operata con una legge quadro. Dai lavori di questa Commissione emerge, diversamente da quanto esposto nel rapporto Giannini, la legge di principio per gli aspetti di maggior rilievo e per gli indirizzi da assegnare alla normazione attuativa: e non una semplice deliberazione del Consiglio dei Ministri. Si tratta di una anticipazione importante, in quanto delinea uno dei tratti del modello generale di delegificazione di cui all’art. 17, secondo comma, legge 400/88: la legge delegificante "è necessariamente una legge di principio che dispone il passaggio da una disciplina legislativa del principio e del dettaglio ad una disciplina legislativa del principio e regolamentare del dettaglio(32). Un maggiore approfondimento sul fenomeno delegificativo è stato effettuato dalla sottocommissione Cassese, istituita presso la Presidenza del Consiglio il 3 dicembre 1983, al fine di compiere la ricognizione e conseguente eliminazione delle norme legislative e regolamentari che appesantiscono in modo irragionevolmente minuzioso i procedimenti ed i rapporti con i concittadini(33). L’obiettivo di riforma delegificativa perseguito dalla predetta Commissione è quello: 1) di individuare complessi normativi in cui vi sia bisogno di abrogare, delegificare o coordinare norme; 2) determinare principi generali e criteri generali secondo cui operare per ogni complesso normativo o settore; 3) redigere, per i singoli complessi normativi o settori, o per gruppi di questi, norme di delega al Governo per il riordino. Lo strumento individuato per il riordino della normativa vigente è quello dei testi unici redatti a carattere innovativo, coordinando le norme in modo da sistemare in corpi normativi organici la legislazione primaria. La delegificazione, dunque, si afferma come tecnica volta al riconoscimento di un potere regolamentare governativo negli spazi lasciati vuoti dalla fonte legislativa. Di delegificazione si è occupata anche la Commissione parlamentare per le riforme istituzionali, cosiddetta "Commissione Bozzi", istituita il 14 aprile 1983. Nella sua relazione finale si sottolinea la necessità di affrontare "la crisi della legge", ovvero la crisi di una normazione primaria che ha in gran parte perduto le sue caratteristiche di normazione generale ed astratta, nel senso di affidare, compiendo una decisiva inversione di tendenza, ad organi o a sedi diverse dal Parlamento (il Governo, le Regioni, l’autonomia contrattuale dei privati e delle formazioni sociali) tutta la normativa applicativa e di dettaglio, prevedendo un vasto processo di delegificazione e di decentramento legislativo e così restituendo al Parlamento il tempo e la possibilità di rivedere ed aggiornare gradualmente alle nuove esigenze la "grande legislazione". La Commissione Bozzi ha suggerito di introdurre nella Costituzione un articolo, il 77 bis, che ha suscitato critiche, poiché il secondo comma nell’autorizzare il Governo ad emanare norme giuridiche, anche in deroga a leggi ordinarie in materia di organizzazione di pubblici uffici, ed in altre materie non comprese tra quelle di cui all’ultimo comma dell’art. 72, finirebbe per decentrare più che delegificare, in quanto i decreti governativi assumerebbero forza di legge, ossia non avrebbero natura regolamentare, sicché non si potrebbe parlare di delegificazione in senso tecnico. Nonostante le critiche ricevute, i lavori delle summenzionate Commissioni di studio risultano significativi anche perché sono stati accompagnati o seguiti dalla presentazione di progetti di legge volti ad introdurre la delegificazione. Tale processo assume il suo momento di maggiore efficacia anche sul piano concreto nell’emanazione della legge 23 agosto 1988, n. 400 "Disciplina dell’attività di Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri", che introduce il primo vero schema generale di delegificazione, utilizzabile da leggi successive in qualsiasi materia, salvi i limiti prefissati nello strumento medesimo che si conformano, ovviamente, a quelli costituzionali. Nell’ambito di tali confini, che pur lasciano adito a talune incertezze interpretative, avviene l’abrogazione della disciplina vigente, a carattere primario, che cessa di regolamentare la materia delegificata, per effetto della norma delegante. A tal proposito è emerso nella

32 M. Pedrazza-Gorlero, Le fonti del diritto, Cedam, Padova, 1995. 33 Sottocommissione nominata con D.P.C.M. del 3 dicembre 1983.

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dottrina il problema dell’efficacia abrogante della norma di delega nei confronti della previgente disciplina: un tentativo di soluzione si delinea nel senso di ritenere la legge delega caratterizzata da efficacia condizionata e differita fino all’entrata in vigore del regolamento correlativo. Il vero aspetto innovativo della legge 400/88, intesa, così come in precedenza è stato evidenziato, quale fondamentale caso di delegificazione verificatosi nel nostro ordinamento, è rappresentato dal disposto normativo dell’art. 17, secondo comma, che ammette la delegificazione in materie non coperte da riserva assoluta di legge costituzionalmente prevista, ossia la vieta nelle materie coperte da riserva assoluta di legge, stabilita dalla Costituzione. Il disposto non vieta la delegificazione in tutte le materie riservate alla legge, ma la ammette nelle materie coperte da riserva relativa. Il summenzionato articolo 17, secondo comma, nell’autorizzare in via preventiva l’emanazione di appositi regolamenti in materia non coperta da riserva assoluta di legge, fissa in proposito almeno tre vincoli, in relazione al contenuto della norma delegata ovvero di secondo grado: 1) l’indicazione dell’autorizzazione all’esercizio della potestà regolamentare; 2) l’abrogazione differita della disciplina previgente; 3) la determinazione delle norme generali regolatrici della materia. Tali criteri legittimano la norma sotto il profilo costituzionale, conformemente a quanto sopra osservato. La delegificazione prevista nell’art. 17, secondo comma, legge n. 400/88, è stata valutata favorevolmente in dottrina sotto molteplici profili. Si è sottolineato che la delegificazione in parola rispetta il principio della preferenza di legge, poiché il regolamento interviene in un ambito già reso libero, per volontà del legislatore, dalle norme primarie e rispetta altresì l’istituto della riserva di legge, in quanto nelle materie coperte da riserva assoluta la delegificazione è esclusa e nelle materie coperte da riserva relativa, ove la delegificazione è ammessa, il legislatore deve intervenire prima del regolamento formulando le norme generali regolatrici della materia. Inoltre si è posto in luce che la suddetta delegificazione soddisfa sia le esigenze formali connesse al rispetto della gerarchia delle fonti, poiché è la legge e non il regolamento ad abrogare le norme legislative in vigore nelle materie da delegificarsi, sia le esigenze sostanziali derivanti dal principio di legalità, giacché la potestà regolamentare deve esercitarsi svolgendo le norme generali regolatrici della materia dettata dalla legge(34). Malgrado la suddetta valutazione dottrinale favorevole del meccanismo delegificativo sopra illustrato, si è sentita l’esigenza di riformulare l’art. 17, secondo comma, nel senso di sancire in questo un’attribuzione generale di potestà regolamentare anche ai regolamenti delegati: ciò eliminerebbe la necessità di specifiche leggi di delegificazione, le quali sono invece necessarie alla stregua del vigente articolo 17, secondo comma, che rinvia "alla buona volontà del futuro legislatore" l’attuazione del meccanismo delegificativo. 4 Casi di delegificazione successivi alla legge n. 400/88 La pur ampia previsione delegificativa stabilita dalla legge n. 400/88 non esaurisce le iniziative legislative intese a realizzare la medesima ratio, con la conseguenza che, se da un lato si assiste alla scarsa utilizzazione degli strumenti semplificatori introdotti con la normativa de qua, per altro verso continua, nel periodo successivo, l’emanazione di ulteriore normazione di delega al governo per la disciplina ex novo di materie particolari. In tal senso, attesi la molteplicità degli aspetti oggetto delle singole deleghe ed il conseguente incremento nella produzione di norme deleganti potenzialmente delegificatorie, appare necessario soffermare l’analisi sui casi più rilevanti, per l’ampiezza e per l’estensione degli interessi collocati nell’ambito della nuova disciplina. Più in particolare, la legge 9 marzo 1989, n. 86, che interviene a distanza infra annuale, rispetto alla previsione di carattere generale di cui alla richiamata legge 400/88, disciplina l’attuazione ed il recepimento delle direttive comunitarie mediante autorizzazione al Governo ad emanare appositi specifici regolamenti. Stabilisce, tra l’altro, l’art. 4 che ciascun "disegno di legge comunitaria"debba contenere o prevedere specifica ulteriore delega per le ipotesi in cui la direttiva da attuare comporti aggravi di bilancio o introduca sanzioni: in tal modo differenziandosi rispetto alla previsione generale ex lege n. 400/88, in relazione a tali specifici e peculiari aspetti, attinenti alla normazione sovranazionale, opportunamente armonizzati con le esigenze di legittimità costituzionale. Non può, infatti, fondatamente ammettersi l’introduzione di previsioni sanzionatorie, specie in materia penale, per mezzo di regolamenti delegati, ostandovi il disposto di cui all’art. 25 comma secondo della Costituzione. Ulteriori casi di delegificazione si ritrovano nell’ambito delle previsioni di cui alle leggi n. 168/89 e 142/90, accomunabili in ragione della medesima ratio, tendenti a valorizzare l’autonomia, rispettivamente, delle università e degli enti locali, secondo le conformi previsioni costituzionali (articoli 33 e 5 della Costituzione). Nel caso particolare della legge sulle "autonomie locali" l’intento delegificatorio assume singolare valenza in favore non più dell’attività regolamentare governativa, bensì dell’espansione della potestà legislativa degli enti locali, così concretamente avviando quel processo autonomistico che trova più ampia realizzazione nei disegni di legge odierni.

34 Carlassarre, Prime impressioni sulla nuova disciplina del potere regolamentare prevista dalla legge n. 400 del 1988 a confronto col principio di legalità, in "Giurisprudenza Costituzionale", 1988, II, pag. 1480.

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Singolare, per altro verso, va considerato il disposto della legge 11 febbraio 1994, n. 109, in quanto demanda al Governo di produrre un vero e proprio ordinamento generale in materia di lavori pubblici, la cui rilevanza generale, quantomeno nelle intenzioni del delegante e prescindendo dagli ulteriori interventi settoriali, merita senz’altro di essere positivamente considerata. è agevole osservare come la cultura normativa caratteristica del periodo in esame assuma un corso evolutivo nel senso di dare concretezza ai principi costituzionali in materia di autonomie locali e di trasparenza e buon andamento della pubblica amministrazione, principi ritenuti, non a torto, sempre più collegati ed interdipendenti. In tale ambito matura e si realizza la nuova disciplina generale del procedimento amministrativo, introdotta con la legge n. 241/90, che risponde, in attuazione dei principi richiamati, anche ad un serio intento delegificatorio, in quanto prevede, in misura sufficientemente ampia da assumere valenza pressoché generale, due fondamentali concezioni, che la rendono altamente innovativa rispetto all’impianto esistente ed all’ambito culturale in cui operano le strutture amministrative. In primo luogo, estende il più possibile la previsione del cosiddetto "silenzio assenso", che opera quindi ex lege, nei casi previsti e decorsi i termini fissati con disposizione regolamentare emanata dall’esecutivo; analogamente, in secondo luogo, il regolamento stabilirà le ipotesi in cui non è consentito l’accesso e la partecipazione al procedimento amministrativo, che divengono, in via generale, diritti esercitabili e, occorrendo, azionabili da parte del cittadino direttamente interessato o portatore di interessi diffusi. La legge attribuisce a tali previsioni la valenza di principi, a cui, peraltro, già si sono uniformati taluni organi regionali, che hanno provveduto ad emanare correlative disposizioni, negli ambiti di rispettiva competenza. Può indubbiamente osservarsi come la statuizione di nuovi e così fondamentali principi non possa evitare, suo malgrado, un notevole ampliamento del campo giurisdizionale amministrativo, giacché l’organo di giustizia sarà più frequentemente chiamato a verificare la conformità della normativa sottoordinata rispetto ai principi sanciti ex novo: ciò che può vedersi come un costo necessario, in rapporto agli indubbi benefici derivanti dalla semplificazione. Sempre nell’ambito attuativo del dettato costituzionale, per la parte che attiene al buon andamento della pubblica amministrazione, non può infine sottacersi il fondamentale contributo costituito dalla nuova disciplina del rapporto di pubblico impiego, dettata dall’ormai noto provvedimento legislativo n. 29/93, esempio non meno importante di delegificazione, ancorché derivante da norma di grado sottordinato, se si considera come, tra l’altro, nell’indicare espressamente le fonti (art. 2) che ordinano le pubbliche amministrazioni, attribuisce in via generale efficacia normativa alle clausole provenienti dalla contrattazione collettiva, addirittura con effetto abrogativo rispetto alle leggi previgenti, salvo che non si tratti di materia soggetta a riserva assoluta, indicata nella norma primaria (Legge n. 421/92). La portata innovativa è di tutta evidenza e conferma l’indirizzo ormai irreversibile verso un ampliamento sempre più marcato dell’area delegificata. 5. Crisi della legge e delegificazione L’analisi sulla crisi della legge non può che partire dall’esame dei dati relativi alla produzione normativa italiana. Dal rapporto sulle condizioni delle Pubbliche Amministrazioni, presentato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento per la funzione Pubblica, risulta che le leggi sono tra le 100-150.000. Il primato dell’eccesso di delegificazione nei Paesi dell’area occidentale spetta all’Italia con ampio margine rispetto alle realtà francese e tedesca che nel 1990 presentavano rispettivamente 7.300 e 5.500 leggi. E' interessante notare che la crisi della legislazione non è solo crisi di un meccanismo giuridico ma soprattutto dell’obiettivo che intende perseguire: la certezza del diritto. Infatti, la legislazione ha perso il suo valore tipico della oggettività per assumere il ruolo ancillare di strumento per l’assolvimento di interessi partitici che hanno condotto, da un lato, al fenomeno di una normazione di tipo puntuale, e quindi "a pioggia", dall’altro, a norme intrinsecamente contraddittorie per l’effetto della cosiddetta legislazione contrattata: in sintesi se è possibile formulare un modello di funzionamento del fenomeno, si può sostenere che la ricerca del risultato, da parte di una pluralità di centri d’interesse, ha portato alla incertezza del diritto. Il motivo di tale eccessiva produzione è stato precisamente individuato dall’On. Battaglia, in sede di relazione al progetto di legge divenuto la L. n. 400 del 1988, nella ricerca da parte della maggioranza di imbrigliare il più possibile il raggio di azione dell’Esecutivo. Non solo, si è riscontrato, altresì, che le forze di opposizione hanno visto nelle cosiddette leggine lo strumento più efficace per consolidare i loro ambiti di intervento. Decisamente significativo è il considerare che da questa situazione estremamente confusa e magmatica ha indubbiamente tratto vantaggio la burocrazia per esimersi dall’assumere le proprie responsabilità, nonché al fine di evitare le resistenze derivanti dai rapporti con altre amministrazioni. Il quadro della situazione non può che arricchirsi di considerazioni operanti sul piano squisitamente qualitativo. Le leggi, invero, si presentano in più occasioni oscure ed incomprensibili. Ciò è dovuto in primo luogo all’adozione di tecniche di formulazione che accrescono il disagio dell’interprete. è il caso del cosiddetto "gioco dell’oca" cui lo stesso è inevitabilmente costretto allorquando si trova dinanzi a disposizioni di questo genere: "...chi si trova in una delle situazioni dell’art. n della Legge x, e sia in possesso dei requisiti di cui all’art. nn della Legge xx è ammesso a ...". Ciò, evidentemente, scoraggia il destinatario che dovrà attivarsi

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per una serie di ricerche defatiganti. Ma oltre ad una sorta di sciatteria del Legislatore, sembra che il fenomeno della poca chiarezza delle leggi sia collegato direttamente ad un dato ben definito. Infatti, spesso le leggi nascono da una serie di compromessi tra le forze politiche che ne frustrano l’ambizione di divenire "leggi di unificazione" (D’Auria) nella affannosa ricerca di approdare ad un minimo comune multiplo. Proprio la difficoltà del Governo di formulare programmi di ampio respiro ha portato lo stesso a tutelare situazioni con decreti legge, la cui abnorme produzione ha avuto inizio sin dall’VIII Legislatura. L’aver delineato questo quadro sulla situazione al giorno d’oggi, unitamente alla prospettazione delle possibili cause, permette di addentrarci nel tema delle conseguenze sulla Amministrazione della ipertrofia legislativa. In primo luogo va rilevato che per modificare l’ordinamento in relazione alle esigenze che si prospettano l’amministrazione pubblica non può che ricorrere al legislatore. Infatti, in virtù della gerarchia delle fonti di produzione normativa, non si può modificare una legge se non con il ricorso ad un’altra legge, con la conseguenza di creare il rischio di duplicazioni o sovrapposizioni di fonti sulla medesima materia. Inoltre va rilevato che le "Amministrazioni divengono più rigide, meno adattabili, sclerotiche" (D’Auria) in quanto l’azione amministrativa richiede, per l’imprescindibile necessità di adattare l’interesse pubblico al caso concreto, una elasticità che la legge non è in grado di soddisfare. Pertanto, si verifica un fenomeno del tutto singolare in quanto il burocrate ritiene di poter esercitare la propria discrezionalità nella scelta dell’una o dell’altra fonte normativa. Ciò, evidentemente, implica lo snaturarsi del concetto di discrezionalità amministrativa con il rischio di diventare arbitrio. L’inflazione normativa produce, inoltre, l’effetto di rendere l’operato del burocrate facilmente assoggettabile al sindacato sia dell’organo politico sia della magistratura amministrativa e penale. Per evitare di incorrere nelle suddette responsabilità, è indotto all’immobilismo che determina la disapplicazione di fatto delle norme creando il fenomeno delle cosiddette consuetudini disapplicative. Ne sono prova le leggi che riprendono disposizioni contenute in altre precedenti. Tutto ciò comporta una notevole attività di interpretazione delle fonti normative da parte dei dirigenti e dei funzionari, i quali declinano ogni tipo di decisione richiedendo pareri e dettagliate istruzioni che sfociano a loro volta in una produzione di circolari e quant’altro possa essere utile per risolvere il caso con notevole accrescimento della confusione e del disordine. Per il superamento di questo impasse, il legislatore si orienta a ricorrere a strutture e modelli alternativi a quelli tradizionali, quali le amministrazioni indipendenti, ed allo sviluppo degli accordi tra amministrazioni. L’esperienza sopra sintetizzata è essenziale per tentare di sviluppare un progetto per la riorganizzazione consapevole dei vari livelli di normazione, dove il Parlamento deve occuparsi principalmente della legislazione che contiene gli assunti fondamentali, il Governo individua le strategie d’azione per perseguire gli obiettivi individuati dal Parlamento e le amministrazioni si prefiggono il concreto perseguimento dei fini. 6. La delegificazione nella legge n. 59/1997 Il fenomeno dell’inflazione normativa caratterizza dunque l’ordinamento italiano in modo assai pregnante. La particolare produzione normativa di origine amministrativa ha registrato sviluppi parossistici che finiscono per impedire la stessa attività amministrativa. In tale contesto, neppure la migliore burocrazia può riuscire a funzionare bene in quanto continuamente paralizzata da una valanga di disposizioni che, come si è già avuto modo di illustrare, si sono spesso mostrate contraddittorie e di difficile comprensione. Alla luce di tali considerazioni, e per ovviare a tale fenomeno produttivo di effetti paralizzanti sulla stessa attività amministrativa, la legge n. 59/1997 intende avviare un’azione di delegificazione e, nel suo ambito, anche di deregolamentazione e semplificazione procedurale e amministrativa. Occorre in via preliminare chiarire il concetto di deregolamentazione così come inteso dall’artefice del progetto di riforma. Per deregolamentare non si intende sostenere che non ci vogliono regole bensì che è necessario intervenire per identificare, in primo luogo, quali sono quelle necessarie o per garantire interessi generali o collettivi reali, quelle che sono effettivamente utili a tal fine, nonché quelle che è utile mantengano la forma e gli effetti della legge. Su tutto occorre intervenire per deregolare laddove la norma non sia necessaria, o almeno delegificare, affidando la disciplina a strumenti più flessibili di normazione che non sono solo i regolamenti del Governo, ma anche gli atti normativi degli enti territoriali (Regioni, Province, Comuni), gli strumenti di regolazione delle autorità indipendenti di garanzia, le norme interne di altre istituzioni dotate di autonomia e responsabilità, come per esempio le Università. L’operazione di delegificazione si inserisce in un disegno più ampio che mira ad un duplice obiettivo: la semplificazione delle procedure e il riorientamento della legislazione sull’attività amministrativa al fine di garantire l’efficacia e i risultati. Fine realizzabile riducendo l’ambito della legge soltanto a ciò che necessita di una garanzia a tutela di interessi o di diritti del cittadino o di interessi collettivi. Si pone così il problema della esatta individuazione dell’ampiezza della delega di cui all’art. 20 della legge n. 59/1997. Dall’esame degli atti parlamentari emerge che mentre i diritti e gli interessi collettivi generali vanno

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mantenuti con una garanzia legislativa, l’organizzazione, le procedure possono essere strumentati con atti di normazione più flessibili. L’obiettivo da perseguire è l’efficienza dei servizi pubblici potenziandone l’efficacia e verificandone altresì il grado di soddisfazione dell’utenza, per avvicinare il più possibile l’amministrazione pubblica al cittadino. La valorizzazione delle autonomie presuppone che queste ultime, e in particolare Regioni, Province, Comuni ed altre istituzioni autonome dovranno avere il potere e l’autonomia per autoriformarsi, per autorganizzarsi, per scegliere i propri modelli organizzativi, nel rispetto di pochi principi generali contenuti nelle leggi. Sarà pertanto necessario e indispensabile adattare i modelli organizzativi alle esigenze del caso concreto, sperimentando, se del caso, modelli diversi. Quello che si mira a realizzare è un modello di tipo pluralistico decentrato e flessibile proprio come quello sperimentato nell’esperienza degli Stati Uniti di America, dalla Germania e, a ben vedere, dalla stessa Gran Bretagna. è interessante sottolineare la sostanziale convergenza dei deputati sulla riforma basata sul principio del "federalismo cooperativo" e, cioè, di un federalismo che parte dal basso valorizzando, prima di tutto, il ruolo dei comuni. La delegificazione potrà essere attuata seguendo l’iter indicato dall’art. 20 della legge n. 59/1997 e che sarà dettagliatamente analizzato poco più avanti. Quel che qui importa evidenziare è come il contenuto della legge delega si proponga, non solo la semplificazione dei procedimenti amministrativi di competenza statale, ma anche il trasferimento alle regioni ed agli enti locali di tutte le funzioni relative alla cura degli interessi delle rispettive comunità e di tutti i compiti amministrativi localizzabili nei rispettivi territori, oggi svolti dallo Stato per il tramite di uffici periferici. 7. L’analisi della previsione normativa L’art. 20 della legge n. 59/1997 prospetta un meccanismo di delegificazione nell’ambito del quale è possibile cogliere non pochi elementi di particolare interesse. In primo luogo, è importante rilevare come la legge n. 59/1997, se da un verso individua alcune materie nelle quali il Governo è, da subito, autorizzato ad intervenire con norme regolamentari, dall’altro conferisce all’opera di delegificazione un carattere, che potremmo definire "permanente". Il primo comma dell’art. 20, infatti, prevede che il Governo, "entro il 31 gennaio di ogni anno", presenti un disegno di legge in materia di delegificazione, così conferendo all’azione delegificatrice una sistematicità ulteriormente videnziata dalla previsione che, nella stessa occasione, venga presentata un’apposita relazione "sullo stato di attuazione della semplificazione dei procedimenti amministrativi", settore di attività che, come si vedrà in seguito, rappresenta uno dei principali obiettivi cui finalizzare l’attività regolamentare di cui qui si discute. Un secondo momento di riflessione è da riservare alla circostanza che l’oggetto dell’opera delegificatrice - per espressa previsione normativa - è il procedimento amministrativo, sia quando lo stesso attenga ad attribuzioni di amministrazioni centrali, che nell’ipotesi in cui lo stesso rientri nella sfera di competenze di enti locali o amministrazioni autonome. Solo in via secondaria, cioè quando richiesto da esigenze di semplificazione procedurale, l’opera di revisione regolamentare potrà interessare le competenze degli uffici, l’esatta organizzazione delle funzioni espletate e la stessa sopravvivenza degli organi che dovessero risultare superflui. La materia della riorganizzazione della P.A. trova, infatti, specifica ed autonoma trattazione nell’ambito del Titolo II. Si è già avuto modo di osservare come l’opera di delegificazione abbia ad oggetto i procedimenti amministrativi; quanto invece al contenuto, non appare disutile precisare come il Governo, nell’ambito del disegno di legge, debba individuare i singoli procedimenti per i quali ravvisa la necessità di operare la delegificazione delle fonti normative distinguendo, altresì, tra quelli da attribuire alla potestà normativa delle regioni e degli enti locali e quelli da riorganizzare con regolamenti governativi. Nella prima ipotesi, che potremmo definire di "decentramento normativo", il Governo individua, altresì, i principi che restano regolati con legge della Repubblica, ai sensi dell’art. 117, I e II comma, e 118 della Costituzione(35). Tali principi, unitamente a quelli desumibili dalle disposizioni contenute nell’articolo in esame, costituiscono la "cornice" entro la quale dovrà esplicarsi l’attività normativa delle regioni. Nel secondo caso, invece, l’esecutivo dovrà specificare preventivamente i criteri con i quali eserciterà la potestà regolamentare. A quest’ultimo proposito, va rilevato come alcuni dei criteri e principi, cui dovranno conformarsi i futuri regolamenti, vengono già individuati nella stessa legge di delega. Gli stessi sono sostanzialmente imperniati su due nuclei qualificanti: la semplificazione e la razionalizzazione dei procedimenti e la responsabilizzazione dei centri decisionali. La semplificazione del complesso universo procedimentale che caratterizza il nostro ordinamento andrà perseguita attraverso un’articolata opera di riorganizzazione che, dopo aver ridotto, in assoluto, il numero dei procedimenti amministrativi, dovrà curarsi di dare agli stessi un regime tipologicamente uniforme, riducendone i termini per la conclusione. Al conseguimento di questo obiettivo potranno significativamente

35 Per le potestà legislativa e regolamentare delle regioni, Vedi, ora, la legge costituzionale n. 3 del 18 ottobre 2001, Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione (GU n. 248 del 24-10-2001).

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contribuire non solo la riduzione del numero delle fasi procedimentali e delle amministrazioni intervenienti ma anche la riunione, in un’unica fonte regolamentare, di disposizioni che, pur provenendo da fonti di rango diverso, concorrono alla disciplina di medesime attività. Proprio su quest’aspetto, che non appare fuori luogo ricondurre alla logica del "testo unico", poi puntualmente ribadita dall’XI comma dell’articolo in esame, piace, per ultimo, porre l’accento. E' di tutta evidenza, infatti, che solo la compilazione di testi unici, legislativi o regolamentari che siano, potrà dare effettiva concretezza a quell’ipotesi di razionalizzazione e semplificazione dei procedimenti cui aspira il dettato normativo in esame. Quanto, poi, agli strumenti normativi individuati dall’art. 20 della legge n. 59/1997, va infine rilevato come la procedura di emanazione dei regolamenti si caratterizzi, rispetto alla tipologia delineata dall’art. 17 della legge 23 agosto 1988 n. 400, per l’introduzione del parere delle Commissioni Parlamentari competenti nelle materie oggetto di disciplina regolamentare. è questa una previsione che, raccordandosi con la già richiamata previsione dell’obbligo per il Governo di riferire annualmente al Parlamento in merito allo stato di attuazione dell’opera di semplificazione dei procedimenti, evidenzia ulteriormente l’idea che il nuovo risalto e la stretta attualità conferiti allo strumento regolamentare e, con esso, alla potestà normativa dell’esecutivo rimangano strettamente coniugati al perdurare di una pregnante opera di vigilanza e controllo, anche in tema regolamentare, della quale il Parlamento non mostra di volersi definitivamente spogliare. Particolare significato, di natura segnatamente politica, è infine, da attribuire al fatto che, come accennato in precedenza, la legge n. 59/1997 non si limita a congegnare i meccanismi con i quali il Governo potrà richiedere l’emanazione di norme delegificanti, ma si spinge oltre, individuando una serie di procedimenti ed indicando specifiche materie destinate a formare oggetto di intervento regolamentare già in sede di prima attuazione. Pur senza soffermarci sui procedimenti o sulle particolari materie, quale l’istruzione universitaria, cui si è appena fatto riferimento, è importante sottolineare come il tema del sostegno alle attività produttive ed imprenditoriali trovi ulteriore rilievo nella delega al Governo ad emanare - nel rispetto di eventuali riserve assolute di legge - norme delegificatrici e testi unici che, anche attraverso le necessarie modifiche, integrazioni o abrogazione di norme, incidano immediatamente sulla concreta disciplina del settore. 8. La responsabilizzazione dei centri decisionali Sempre in seno all’art. 20 della legge n. 59/1997, è poi operata l’individuazione di centri di responsabilità e la previsione che, in caso di mancato rispetto del termine entro il quale l’amministrazione deve emanare il provvedimento (legge n. 241/90), devono essere contemplati, nei regolamenti oggetto della delegificazione, forme di indennizzo automatico da corrispondere ai cittadini. Come affermato dal prof. Satta, in ambito comunitario non esiste la distinzione tra diritto soggettivo ed interesse legittimo. Nella legislazione amministrativa italiana bisognerebbe prevedere forme di risarcimento del danno sulla base dei principi civilistici e comunitari anche in caso di mancato rispetto di interessi legittimi. La Comunità Europea ha previsto che, nei casi in cui la nazione aderente non ha attuato una direttiva CE, il cittadino ha diritto al risarcimento del danno. Quindi, si è voluto introdurre un principio di indennizzo, sicuramente di minore portata rispetto al principio di risarcimento, ma questo indica la volontà di iniziare ad intraprendere il cammino verso forme e procedimenti che individuano il responsabile del procedimento ed il diritto del cittadino a percepire delle somme di denaro a titolo di indennizzo per compensare i danni a lui provocati dalla ritardata emanazione dell’atto amministrativo. Quindi il meccanismo che può garantire il buon funzionamento della P.A. non è l’emissione di nuove norme, ma solo l’individuazione dei soggetti responsabili. Non lo Stato nel suo complesso deve rispondere del danno provocato, ma il soggetto responsabile del procedimento, la cui inerzia, o il cui agire con dolo o colpa, esclusa la colpa lieve, come di recente affermato, causa pregiudizi a danno dei cittadini. Certo questo è un primo passo, ma un segno importante che indica la volontà di superare uno dei più gravi difetti della P.A. italiana: un’ampia diffusione del potere che si lega però alla difficoltà di individuare con precisione il soggetto responsabile. In tema di responsabilizzazione dei centri decisionali della P.A. è bene richiamare anche l’art. 4, lett. a), nel punto in cui si evidenzia la necessità di attribuire a soggetti pubblici ben definiti le responsabilità, al fine di favorire l’assolvimento di compiti e funzioni di rilevanza sociale da parte dei soggetti più vicini ai cittadini interessati dal procedimento, rendendo responsabili e partecipi le famiglie, le associazioni, gli enti territoriali, quali soggetti più vicini ai cittadini. Al punto e), del citato articolo, si richiama il principio di unicità e responsabilità della P.A., individuando con precisione il soggetto pubblico responsabile, al fine di instaurare un rapporto diretto e certo tra cittadino ed amministrazione, e introdurre con il principio di responsabilizzazione il solo meccanismo che può garantire un efficiente funzionamento degli enti pubblici. Al punto l) si afferma, come logica conseguenza della responsabilizzazione degli enti locali, per le funzioni ed i compiti ad essi trasferiti, il principio dell’autonomia organizzativa e regolamentare che consente all’ente in parola di adattare ai contesti locali la normativa generale dettata dai regolamenti emanati dal potere centrale.

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Conferire ad un ente una responsabilità senza consentirgli di organizzare e regolamentare autonomamente le funzioni ad esso attribuite, causerebbe un grave pregiudizio alla comunità locale; gli amministratori, pur gravati da responsabilità, non sarebbero in grado di rispondere in maniera adeguata alle istanze dei propri amministrati. Questo è confermato all’art. 17, lettera b), nel quale si afferma il principio della valutazione dei risultati della P.A., che soprattutto in tema di erogazione di servizi pubblici deve adottare delle carte dei servizi, definite con la collaborazione degli utenti, prevedendo, in caso di una loro violazione, forme sanzionatorie a carico del soggetto responsabile dell’erogazione del servizio. 9. Alcune considerazioni conclusive Concludendo, appare opportuno esaminare l’idoneità dello strumento legislativo ad operare la delegificazione ed i vincoli o, meglio, le resistenze che si oppongono a tale processo. Sotto il primo aspetto, va rilevato come nella nostra Carta Fondamentale manchi un criterio regolatore tra le fonti primarie e quelle secondarie. Secondo parte della dottrina (Crisafulli - Zagrebelsky) ciò induce ad attribuire alla legge formale una posizione di supremazia gerarchica rispetto alle altre fonti da essa non separate secondo il criterio della competenza. Pertanto, non sarebbe ammissibile l’introduzione di fonti di grado inferiore abilitate a derogare alla legge. Secondo altra dottrina (Pizzorusso) le varie fonti risultano disposte su una serie di livelli ciascuno dei quali comprende un complesso di disposizioni e norme integrative di quelle appartenenti al livello superiore, configurando in tal modo un’attività normativa secondaria praeter legem. In realtà il vero problema è quello di garantire alla delegificazione la stabilità e l’applicazione nel tempo, così come configurato dall’art. 20 della legge n. 59/1997. A tal fine, però, sembra insufficiente lo strumento legislativo ordinario, essendo necessaria, a nostro parere, una riserva di regolamento di livello costituzionale, così da evitare la possibilità di riappropriazione di materie già delegificate, da parte della legge. Con l’introduzione di una riserva di regolamento, infatti, si ridurrebbe l’ambito di operatività della legge in quanto si traccerebbe un netto riparto tra le competenze della fonte legislativa e le competenze della fonte regolamentare, così come previsto dall’ordinamento costituzionale francese. è auspicabile, pertanto, che il problema venga affrontato nel processo di riforme costituzionali in atto, anche in considerazione del fatto che ogni modifica del riparto tra legge e regolamento incide sull’assetto dei rapporti tra Parlamento e Governo e quindi sul sistema istituzionale complessivo. Senza questa necessaria condizione, l’intento riformatore rischia di essere vanificato e non avere alcuna rilevanza concreta. Non vanno, però, trascurati quegli aspetti che si pongono quali vincoli o resistenze al processo di delegificazione e che possono essere individuati in vari ordini di fattori. In primo luogo nelle caratteristiche del sistema amministrativo italiano, così come è venuto configurandosi nel corso dell’ultimo secolo, in termini di accentramento, rigidità ed uniformità e che ha trovato la sua massima espressione nel principio di legalità. Tale principio, come ha osservato Giorgio Berti, con il passare del tempo è degenerato in una sorta di simbolo di un potere illimitato ed arbitrario del legislatore, dando luogo ad un legalismo astratto e burocratico; "la legalità, riversata nella disciplina dei rapporti tra lo Stato e la società, non poteva non perdersi in una sorta di gioco formale e sterile"(36). Se è vero, allora, come ha sostenuto Flick nel corso di una conferenza tenuta il 20 febbraio 1997 presso il Centro Alti Studi della Difesa, che occorre cambiare prospettiva e dimensione al principio di legalità: non più semplice osservanza della legge, ma individuazione degli interessi pubblici garantiti dalla legge e cioè legalità sostanziale, sia nei confronti dei cittadini, attraverso un collegamento paritario con gli stessi, sia in termini di snellimento e semplificazione dell’azione amministrativa. Si tratta, in altri termini, di una innovazione colossale che richiede un sostanziale cambiamento di impostazione culturale. In secondo luogo vanno considerate le resistenze che provengono dalle istituzioni stesse ed in particolare dal Parlamento. Ciò è dimostrato dalla scarsa attuazione da parte delle Camere del meccanismo delegificatorio previsto dall’art. 17, II comma, della legge 400/88. In effetti "non sembra facile sottrarre al Parlamento poteri che esso stesso si è conquistato e che servono altrettanto bene ai parlamentari della maggioranza quanto a quelli dell’opposizione, difficilmente inquadrabili in una politica di governo, ma preziosi per organizzare il consenso elettorale"(37). La delegificazione costituisce, inoltre, una perdita di potere in capo ai "burocrati legislatori" in considerazione del ruolo che questi hanno assunto nella approvazione di gran parte delle leggi, soprattutto di settore, e dei vari gruppi di pressione, anch’essi determinanti nel proliferare della cosiddetta "microlegislazione clientelare". Ciò premesso, è evidente che l’accettazione di un self-restraint da parte dei succitati organi presuppone una

36 G. Berti, Il rispetto della legalità nelle istituzioni, in "La cultura della legalità, Atti della conferenza nazionale", Min. Interno, 1991. 37 P. Vipiana, La delegificazione, in "Politica del diritto", n. 2, 1994.

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larga convergenza da parte delle forze politiche sul problema in esame anche in considerazione della crescente esasperazione manifestata dai cittadini che si sentono soffocati dalla giungla normativa. Non è un caso che tutti i governi che si sono succeduti negli ultimi anni, nelle rispettive dichiarazioni programmatiche, hanno sempre posto l’accento sulla necessità di trovare un rimedio al caos legislativo attraverso uno sfoltimento delle leggi, soprattutto con la stesura di testi unici. Va tuttavia evidenziato che se questa è davvero "l’età della delegificazione"(38) essa non rappresenta certo la panacea. ma non vi è dubbio che occorre procedere rapidamente in tale direzione. L’urgenza di provvedere risulta particolarmente negli intenti della Corte Costituzionale. Si veda, solo ad esempio, la clamorosa sentenza n. 364 del 1988 sull’ammissibilità dell’ignoranza inevitabile della legge come necessario temperamento al rigido principio contenuto nell’art. 5 c.p. e quella, recentissima, in materia di reiterazione dei decreti-legge. Non può certo dubitarsi che queste sentenze costituiscano una sostanziale presa d’atto dello stato di degrado complessivo in cui versa la legislazione nel nostro paese. L’ipotesi delegificatrice, cui abbiamo appena dedicato le note che precedono, se consapevolmente e coerentemente condotta, potrebbe segnare l’avvio di una nuova fase normativa dei cui positivi effetti verrebbero a beneficiare non solo i cittadini ma, per prima, la stessa burocrazia che, finalmente, avrebbe la possibilità di misurarsi "ad armi pari" con la sempre più incalzante e qualificata richiesta di servizi ad essa rivolta da un’utenza non più disposta a tollerare ritardi ed inefficienze.

38 M. Nunziata, in "Il nuovo Diritto", n. 2/3, 1995.

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CAPITOLO 4 LA RIFORMA DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE:

L'AMMINISTRAZIONE SCOLASTICA

1. Il federalismo amministrativo e il d. lvo 31 marzo 1998 n. 112 Il dibattito politico-ideologico degli ultimi anni si è spesso soffermato sul tema dell'attribuzione alle collettività locali di forme di autonomia più marcate rispetto a quelle finora conosciute dal nostro ordinamento. L'attenzione per il tema risponde certamente ad esigenze profonde della nostra collettività ed all'esigenza di decentrare una pubblica Amministrazione indubbiamente troppo accentrata e concepita durante un periodo storico caratterizzato da impostazioni politico-ideologiche completamente differenti. La tensione verso il decentramento ha trovato una forte risposta nelle riforme legislative contenute nel cd. pacchetto Bassanini e, soprattutto, nel forte decentramento operato con il d. lvo 31 marzo 1998 n. 112 sulla base di una delega legislativa prevista dalla l. 15 marzo 1997 n. 59 (cd. legge Bassanini uno). A base del decreto legislativo è la volontà di attribuire alle collettività locali la gran parte delle funzioni amministrative di interesse locale; e soprattutto la volontà di attribuire alle collettività locali il massimo delle funzioni amministrative che la nostra Costituzione (probabilmente troppo timida nei confronti delle Regioni e delle autonomie locali(39) considera suscettibili di trasferimento alle Regioni. Proprio per questa impostazione di fondo, il d. lvo 31 marzo 1998 n. 112 è molto spesso denominato, soprattutto dalla grande stampa, come federalismo amministrativo, così evidenziando la volontà legislativa di anticipare, per quanto permesso dalla nostra Carta costituzionale, quella riorganizzazione della nostra organizzazione statuale che, almeno in alcune proposte, sembra rivolta verso modelli di stato federale o comunque verso modelli costituzionali che assicurino ampio spazio alle collettività minori. Sotto il profilo storico, il decentramento di funzioni operato dal d. lvo 31 marzo 1998 n. 112 viene poi ad integrare il terzo conferimento di funzioni alle Regioni dopo quelli operati nel 1972 e nel 1977; proprio per questo, il decreto legislativo è spesso denominato terzo decentramento, così sottolineando una certa continuità storica con il processo progressivo di incremento delle funzioni amministrative delle Regioni seguito dal nostro ordinamento. Nella filosofia del federalismo amministrativo ben si inquadra la previsione, nell'art. 4, comma 3 della l. 15 marzo 1997 n. 59, di un criterio di individuazione delle materie da trasferire proprio degli ordinamenti federali e costituito dal cd. e cioè da un criterio che attribuisce all'autorità territorialmente e funzionalmente più vicina ai cittadini interessati le competenze amministrative, fatte salve le sole competenze incompatibili (perché relative ad ambiti territoriali più estesi o perché involgenti questioni di interesse nazionale) con le dimensioni medesime. Il principio di sussidiarietà è poi richiamato dal d. lvo 31 marzo 1998 n. 112 come criterio di delimitazione delle sfere rispettive delle Regioni e delle altre autonomie locali; è infatti previsto l'obbligo per le Regioni di attribuire il concreto esercizio delle funzioni trasferite con il decreto legislativo ai Comuni, alle Province e alle Comunità montane secondo il principio di sussidiarietà e quindi facendo salve le sole funzioni che richiedano l'unitario esercizio a livello regionale. Per quello che riguarda il contenuto, il d. lvo 31 marzo 1998 n. 112 è caratterizzato da un massiccio trasferimento di funzioni, non solo alle Regioni ed alle altre autonomie locali (Comuni, Province e Comunità montane), ma anche ad altri enti pubblici (particolare importanza hanno infatti anche i trasferimenti di funzioni in materia economica alle Camere di commercio) e complessivamente all'intera società civile; non mancano, infatti, nel decreto legislativo una serie di abrogazioni di istituti (soprattutto autorizzazioni all'esercizio di determinate attività) che caratterizzano il provvedimento anche come deregulation e quindi come riduzione degli stessi ambiti di intervento del potere pubblico. Proprio per questi aspetti (utilizzazione del principio di sussidiarietà come criterio organizzativo, limitazione degli spazi di intervento dell'autorità amministrativa), il d. lvo 31 marzo 1998 n. 112 può essere considerato, più che un provvedimento finalizzato alla modificazione del sistema delle competenze, una grande riforma tesa ad avvicinare l'Amministrazione ai cittadini. 2. La riforma dell'organizzazione del governo In questi ultimi anni il nostro diritto amministrativo ha subito una serie importanti di trasformazioni; soprattutto hanno subito una serie importanti di trasformazioni il settore del lavoro pubblico (profondamente trasformato dal d. lvo 3 febbraio 1993 n. 29) ed il sistema delle competenze (interessato da quella profonda trasformazione chiamata terzo decentramento o federalismo amministrativo che ha dato

39 Ma ora sostituita dalla recente Legge Costituzionale 18 ottobre 2001, n.3 Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione. (GU n. 248 del 24-10-2001) testo in vigore dal: 8-11-2001.

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vita, con il d. lvo 31 marzo 1998 n. 112, ad un decisivo trasferimento di funzioni amministrative alle Regioni). Soprattutto il decentramento di competenze statali alle Regioni imponeva, contrariamente a quanto avvenuto in occasione dei primi due decentramenti del 1972 e del 1977, di procedere alla riscrittura dell'organizzazione ministeriale per adeguare gli apparati amministrativi alle funzioni, notevolmente diverse, oggi assolte dal Governo della Repubblica. L'evenienza rappresentava poi utile occasione per procedere all'emanazione di quella legge sul numero, le attribuzioni e l'organizzazione dei Ministeri prevista dall'art. 95, comma 3 della Cost. e mai emanata. La riforma del Governo ha trovato estrinsecazione in due decreti legislativi: il primo (si tratta del d. lvo 30 luglio 1999 n. 303) riforma l'organizzazione della Presidenza del Consiglio dei Ministri, il secondo (d. lvo 30 luglio 1999 n. 300) riforma l'organizzazione dei Ministeri. La riforma ha inciso profondamente, anche a livello di figure organizzative, sulla tradizionale organizzazione ministeriale, rimasta in sostanza ferma a modelli spesso molto risalenti (l'ultima riforma organica dell'intero novero dei Ministeri risale infatti alla riforma Crispi del 1888). La riforma dei Ministeri è stata preceduta da un lavoro di rilevazione ed elaborazione che ha evidenziato ben 74 macrofunzioni (cioè i compiti dell'amministrazione pubblica caratterizzati da una sostanziale omogeneità), in precedenza riportabili a ben 200 Direzioni generali; macrofunzioni da organizzare e da distribuire in modo armonico. Le 74 macrofunzioni sono state poi raggruppate per aree caratterizzate da una sostanziale affinità ed attribuite, finalmente, a 12 Ministeri, 34 Dipartimenti, 40 Direzioni generali e 13 Agenzie. Il primo dato che balza agli occhi è quindi costituito dalla sostanziale riduzione delle strutture burocratiche rispetto all'attuale consistenza dell'organizzazione ministeriale. I Ministeri, previsti dal d. lvo 30 luglio 1999 n. 300 in numero decisamente inferiore al precedente, sono 12: 1) Ministero degli affari esteri; 2) Ministero dell'interno; 3) Ministero della giustizia; 4) Ministero della difesa; 5) Ministero dell'economia e delle finanze; 6) Ministero delle attività produttive; 7) Ministero delle politiche agricole e forestali; 8) Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio; 9) Ministero delle infrastrutture dei trasporti; 10) Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali; 11) Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca; 12) Ministero per i beni e le attività culturali. Per quello che riguarda l'organizzazione, il d.lvo 300/99 prevede tre schemi organizzativi fondamentali costituiti: - dai Ministeri (9, comprensivi dei Ministeri dell'interno, della giustizia, delle attività produttive, dell'istruzione, università e ricerca) organizzati per Dipartimenti; - dai Ministeri organizzati per Direzioni generali, con un Segretario generale a fare da snodo tra Ministri e Direttori generali; - dalle Agenzie affiancate ad alcuni Ministeri e caratterizzate da una pluralità di soluzioni organizzative (alcune sono da considerarsi meri prolungamenti dell'organizzazione ministeriale; altre, al contrario, danno vita a nuove figure organizzative compartecipate dallo Stato, dalle Regioni e dagli enti locali). 3. Il Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca L'art. 49 del d. lvo 30 luglio 1999 n. 300 ha previsto l'istituzione del Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca con competenza estesa a tutte le funzioni e compiti spettanti allo Stato in materia di istruzione scolastica ed istruzione superiore, istruzione universitaria, ricerca scientifica e tecnologica. In particolare, per quello che riguarda la comparazione con il vecchio ordinamento, il nuovo Ministero somma le competenze, in precedenza, attribuite ai "vecchi" Ministeri della pubblica istruzione e dell'università e ricerca scientifica e tecnologica. Il Ministero viene poi organizzato, mediante regolamenti o decreti del Ministro, secondo il modello costituito dai Dipartimenti. In particolare, il regolamento (o decreto) ministeriale in materia di organizzazione fondamentale del Ministero prevede una struttura articolata su un numero di Dipartimenti non superiore a tre e tale da assicurare l'esercizio delle due macrofunzioni costituite dall'istruzione non universitaria e dall'indirizzo, programmazione e coordinamento della ricerca scientifica e tecnologica nazionale (comprensiva di tutti i compiti relativi all'istruzione universitaria). Il d. lvo 30 luglio 1999 n. 300 ha poi previsto l'attribuzione al Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca di una struttura periferica. Il Ministero continua pertanto a mantenere la propria organizzazione periferica e non è costretto, come altre amministrazioni, ad utilizzare gli Uffici territoriali del governo che, oltre a sostituire le attuali Prefetture, eserciteranno anche tutte le funzioni delle amministrazioni ministeriali

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sfornite di una rete periferica autonoma. 4. Cenni sulla riforma della pubblica amministrazione. La riforma della pubblica amministrazione, per altro già avviata con importanti innovazioni legislative nel corso degli anni novanta (riforma degli enti locali, legge sulla trasparenza, responsabilità dei dirigenti pubblici, etc.), trova nella legge 15 marzo 1997 n. 59 un punto di svolta, con la preliminare individuazione dei compiti che spettano allo Stato, in un quadro di generale spostamento di funzioni verso le Regioni e gli enti locali. - La legge 15 marzo 1997 n. 59 (comunemente designata "Bassanini uno") fa parte di un "pacchetto" predisposto dal Ministro Bassanini, che vede completato il suo iter di perfezionamento attraverso tre distinti provvedimenti: - la legge 15 maggio 1997 n. 127 "Misure urgenti per lo snellimento dell'attività amministrativa e dei procedimenti di decisione e di controllo", nota come "Bassanini bis"; - la legge 16 giugno 1998 n. 191 "Modifiche ed integrazioni alle leggi 59/97 e 127/97": "Bassanini ter"; - la legge 8 marzo 1999 n. 50 "Delegificazioni e testi unici concernenti procedimenti amministrativi": "Bassanini quater". 5. Le conseguenze della riforma sul sistema scolastico La legge 15 marzo 1997 n. 59 introduce forme di decentramento assai incisive nel nostro ordinamento: vediamone allora le conseguenze sul versante del sistema scolastico. Allo Stato restano le funzioni ed i compiti riconducibili a: - "istruzione universitaria, ordinamenti scolastici, programmi scolastici, organizzazione generale dell'istruzione scolastica e stato giuridico del personale" (legge 59 del 15 marzo 1997, art. 1). In concreto continuano ad essere di pertinenza dello Stato (e delle sue articolazioni periferiche) i compiti relativi a: - criteri e parametri per l'organizzazione della rete scolastica; - valutazione del sistema scolastico; - determinazione e assegnazione delle risorse finanziarie (bilancio dello Stato) e del personale alle istituzioni scolastiche (d.lvo 31 marzo 1998 n. 112, art.137). Alle Regioni vengono invece attribuite le decisioni in merito a: - programmazione dell'offerta formativa integrata e della rete scolastica; - calendario scolastico; - contributi alle scuole non statali. A Provincie e Comuni in base all'ordine scolastico competono: - redazione dei piani di dimensionamento, - supporto all'handicap, - utilizzo di edifici e attrezzature, - sospensione delle lezioni, - vigilanza sugli organi collegiali territoriali. Ai Comuni d'intesa con le istituzioni scolastiche spettano funzioni in merito: - all'educazione degli adulti, - all'orientamento, - alle pari opportunità, - alla continuità orizzontale e verticale, - alla dispersione, - all'educazione alla salute. La tendenza a trasferire alle periferie ampie sfere di decisioni e funzioni nella cura di interessi pubblici (principio di sussidiarietà) trova così un corrispettivo nell'esigenza di salvaguardare livelli qualitativi unitari di fruizione dei servizi pubblici, a maggior ragione quando sono in questione non mere prestazioni sociali, ma diritti e interessi tutelati dalla Costituzione. L'evoluzione del quadro normativo delinea un duplice processo di devoluzione di compiti e funzioni dallo Stato verso gli enti locali (d.lvo 31 marzo 1998 n. 112, art.137 e segg.) e verso le scuole (art. 21, legge 15 marzo 1997 n. 59), mentre allo Stato restano funzioni di garanzia, indirizzo, controllo. In questo contesto si colloca il progetto di riforma del Ministero della pubblica istruzione e delle sue articolazioni periferiche. 6. La riforma dell'amministrazione della pubblica istruzione Il d.P.R. 6 novembre 2000 n. 347 (Regolamento di riordino del MPI) prevede un sensibile processo di "dimagrimento" del Ministero, che dovrebbe operare attraverso due soli Dipartimenti con un'articolazione interna in servizi operativi.

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L'art. 75 del d.lvo 30 Luglio 1999 n. 300 ("riforma dell'organizzazione del Governo a norma dell'art. 11 della legge 15 marzo 1997 n.59"), nel fissare i principi e i criteri direttivi cui dovrà attenersi il citato regolamento prevede: - l'individuazione dei Dipartimenti in numero non superiore a due e la ripartizione fra essi dei compiti e delle funzioni secondo criteri di omogeneità, coerenza e completezza; - l'individuazione (quali uffici di livello dirigenziale generale) di Servizi (Centrali) autonomi di supporto, in numero non superiore a tre, per l'esercizio di funzioni strumentali di interesse comune ai dipartimenti, con particolare riferimento ai compiti in materia di: - informatizzazione, - comunicazione, - affari economici; - Uffici Scolastici Regionali di livello dirigenziale generale, quali autonomi centri di responsabilità amministrativa; 7. L'articolazione del Ministero della Pubblica Istruzione In attuazione del d.lvo 30 luglio 1999 n. 300, il d.P.R. 6 novembre 2000 n. 347 (art. 1, co. 1), prevede "l'articolazione del Ministero della pubblica istruzione" in due Dipartimenti che assumono rispettivamente la denominazione di: - Dipartimento per lo Sviluppo dell'Istruzione - Dipartimento per i Servizi nel Territorio. In estrema sintesi il Dipartimento per lo Sviluppo dell'Istruzione approfondirà ed attuerà le politiche della formazione sotto il profilo della definizione e della qualità dei percorsi di istruzione; il Dipartimento per i Servizi nel Territorio individuerà e cercherà di garantire standard elevati ed omogenei di servizi sul territorio nazionale. Occorre puntualizzare, prima di passare in rassegna i compiti spettanti ai due Dipartimenti, che fino all'emanazione del regolamento di riordino del MPI, permangono in vigore le strutture organizzative e le competenze assegnate alle Direzioni Generali le quali (tuttavia nel contesto di una prima sperimentazione di nuovi modelli organizzativi) assumono la gestione unitaria di talune missioni e obiettivi trasversali all'attuale ripartizione di competenze - d.m. 15 dicembre 1999 n. 301, art. 6. - Uffici territoriali di consulenza alle istituzioni scolastiche. Il Dipartimento per lo Sviluppo dell'Istruzione comprende in tre aree organizzative i seguenti uffici di livello dirigenziale generale: - la direzione generale per gli ordinamenti scolastici, che svolge, in particolare, i compiti relativi a: a) ordinamenti, curricoli e programmi scolastici; b) definizione delle classi di concorso e dei programmi delle prove c) concorsuali del personale della scuola; d) ricerca e innovazione nei diversi gradi e settori dell'istruzione avvalendosi a tal fine della collaborazione dell'Istituto nazionale di documentazione per l'innovazione e la ricerca educativa; e) la materia degli esami, delle certificazioni e del riconoscimento di titoli di studio stranieri; f) individuazione delle priorità in materia di valutazione e alla promozione di appositi progetti; g) vigilanza sull'Istituto nazionale per la valutazione del sistema di istruzione e sull'istituto nazionale di documentazione per l'innovazione e la ricerca educativa; h) la direzione generale per la formazione e l'aggiornamento del personale della scuola, che provvede, in particolare, alla definizione degli indirizzi generali nelle materie di competenza; i) la direzione generale per le relazioni internazionali, che cura, coordinandosi con i competenti uffici del Dipartimento per i servizi nel territorio, le relazioni internazionali, inclusa la collaborazione con l'Unione Europea e con gli organismi internazionali (reg. riordino MPI, art. 3 co. 2). Il Dipartimento per i Servizi nel Territorio comprende in 4 aree organizzative ed i seguenti uffici di livello dirigenziale generale: - la direzione generale per l'organizzazione dei servizi nel territorio, - la direzione generale per l'istruzione post-secondaria e degli adulti e per i percorsi integrati, - la direzione generale per lo status dello studente, per le politiche giovanili e per le attività motorie, - la direzione generale del personale della scuola e dell'amministrazione. La direzione generale per l'organizzazione dei servizi nel territorio svolge, in particolare, i compiti relativi a: a) definizione degli indirizzi per l'organizzazione dei servizi nel territorio e per la valutazione della loro efficienza, al fine di garantire il coordinamento dell'organizzazione e l'uniformità dei relativi livelli in tutto il territorio nazionale; b) servizi per l'integrazione degli studenti in situazione di handicap e per l'accoglienza e l'integrazione degli studenti immigrati; c) indirizzi in materia di vigilanza sulle scuole e corsi di formazione non statale e sulle scuole straniere in

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Italia; d) vigilanza sull'agenzia per la formazione e l'istruzione professionale di cui all'art. 88 del d.lvo 30 luglio 1999 n. 300; e) vigilanza o sorveglianza sugli enti di cui ai commi 2 e 3 dell'art. 605 del d.lvo 16 aprile 1994 n. 297; f) problemi generali del territorio nel rispetto delle competenze delle regioni, segnatamente quelli relativi al diritto allo studio; g) dimensionamento delle istituzioni scolastiche, alla distribuzione territoriale delle scuole e degli indirizzi di studio; h) edilizia scolastica. La direzione generale per l'istruzione post-secondaria e degli adulti e per i percorsi integrati, fatte salve comunque le competenze delle Regioni, è competente in materia di: a) percorsi integrati di istruzione e formazione; b) educazione ed istruzione permanente; c) istruzione superiore non universitaria, ivi compresa l'istruzione e la formazione tecnica superiore. La direzione generale per lo status dello studente, per le politiche giovanili e le attività motorie, svolge in particolare i compiti relativi a: a) la materia dello status dello studente; b) indirizzi e strategie nazionali in materia di rapporti della scuola con lo sport; c) strategie sulle attività e sull'associazionismo degli studenti e sulle politiche sociali in favore dei giovani; d) supporto dell'attività della conferenza nazionale dei presidenti delle consulte provinciali degli studenti; e) rapporti con le associazioni dei genitori e al supporto della loro attività. La direzione generale del personale della scuola e dell'amministrazione, svolge in particolare, i compiti relativi a: a) definizione degli indirizzi generali e della disciplina giuridica ed economica del rapporto di lavoro e di nuovi modelli di prestazione del servizio del personale scolastico e, d'intesa con il Dipartimento per lo Sviluppo dell'Istruzione, alla relativa contrattazione; b) attuazione delle direttive del Ministro in materia di politiche del personale amministrativo e tecnico del Ministero; c) reclutamento; d) formazione generale; e) relazioni sindacali; f) contrattazione e mobilità. Al Dipartimento per i Servizi nel Territorio è affidata inoltre l'organizzazione del servizio del contenzioso, per l'assolvimento delle funzioni strumentali comuni ai dipartimenti e ai servizi dell'amministrazione centrale e per la formulazione degli indirizzi in materia di amministrazione periferica. Il Dipartimento infine fornisce le linee di indirizzo generale nelle materie di propria competenza, agli uffici regionali scolastici e ne verifica la coerenza di attuazione (reg. riord. MPI, art 4, co. 3). Il d.m. 15 dicembre 1999 n. 301 agli artt. 1, 2 e 3 prevede che a decorrere dal 1° gennaio 2000 e fino all'emanazione del Regolamento di attuazione del d.lvo 300 del 1999, sono sperimentati tre modelli di struttura organizzativa: 1) il Servizio Centrale per il Bilancio e gli Affari Economico-Finanziari; 2) il Servizio Centrale per l'Automazione Informatica e l'Innovazione Tecnologica; 3) il Servizio Centrale per l'Organizzazione e la Comunicazione. I tre Servizi Centrali, di livello dirigenziale generale ma non equiparati agli uffici dirigenziali dipartimentali, esercitano funzioni strumentali di interesse comune ai dipartimenti e agli uffici scolastici regionali. Si articolano in uffici di livello dirigenziale non generale. Il Servizio Centrale per gli Affari Economico-Finanziari (Art. 5 comma 2 d.P.R. 6 novembre 2000 n. 347) Compito essenziale del Servizio per gli Affari Economico-Finanziari è quello di censire tutti i bisogni e garantire una ripartizione perequata delle risorse economiche sul territorio nazionale; in particolare esso deve: - provvedere all'attività di consulenza e assistenza tecnica sulle materie giuridico-contabili di competenza dei diversi Uffici centrali e periferici; - predisporre le relazioni tecniche sui provvedimenti normativi avvalendosi dei dati forniti dai dipartimenti, dagli altri servizi e dagli uffici scolastici regionali; - rilevare il fabbisogno finanziario del Ministero della pubblica istruzione; - elaborare i programmi di ripartizione delle risorse finanziarie ai vari centri di responsabilità e ai centri di costo; - svolgere attività di rendicontazione al Parlamento e agli organi di controllo; - espletare il monitoraggio e l'analisi dei flussi finanziari;

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- definire gli indirizzi per la gestione amministrativa e contabile delle amministrazioni scolastiche; - curare la redazione del bilancio, le operazioni di variazione ed assestamento. Il Servizio Centrale per l'Automazione Informatica e l'Innovazione Tecnologica (Art. 5 comma 3 d.P.R. 6 novembre 2000 n. 347). Il Servizio per l'Automazione Informatica e l'Innovazione Tecnologica è una struttura che deve occuparsi del sistema informativo e dell'innovazione tecnologica dell'amministrazione scolastica. Esso ha il compito di: - curare i rapporti con gli aggiudicatari delle gare relative al sistema informativo e di vigilare sull'applicazione dei relativi contratti; - provvede alla definizione di standard tecnologici e alla consulenza alle scuole in materia di strutture tecnologiche; - pianifica le attività del sistema informativo con riferimento alle applicazioni e agli sviluppi del sistema stesso. Questo servizio dovrebbe funzionare quale effettivo supporto di assistenza con tecnici hardware e software che si rechino di persona nelle scuole. Il Servizio Centrale per l'Organizzazione e la Comunicazione (Art. 5 comma 4 d.P.R. 6 novembre 2000 n. 347). Il Servizio per l'Organizzazione e la Comunicazione: - coordina la comunicazione istituzionale, anche con riguardo agli strumenti multimediali e alla rete Intranet; - promuove monitoraggi e indagini demoscopiche; - è responsabile degli Uffici Relazioni con il Pubblico a livello centrale ecoordina l'attività degli U.R.P. a livello periferico. La Conferenza Permanente dei Dirigenti Generali (Art. 7 d.P.R. 6 novembre 2000 n. 347). A coordinare l'attività degli uffici centrali è preposta la conferenza permanente dei dirigenti generali, ne fanno parte i capi dei dipartimenti, i dirigenti generali del Ministero preposti alle aree dei dipartimenti, ai servizi, agli uffici scolastici periferici. La conferenza, presieduta a turno dai capi dei dipartimenti, è convocata con cadenza trimestrale; alle sedute della conferenza possono partecipare anche il Ministro e il capo di gabinetto. Il Centro di Servizio per il Contenzioso(Art. 75, comma 5 Decreto Legislativo n. 300 del 1999; Art. 7 Decreto Ministeriale n. 301 del 15 dicembre 1999; Art. 4 d.P.R. 6 novembre 2000 n. 347) Il Centro di Servizio per il Contenzioso, è istituito con decorrenza 1° gennaio 2000; ad esso competono: - le attività giudiziali e stragiudiziali relative al contenzioso degli Uffici Centrali; - il coordinamento e omogeneizzazione delle linee di attuazione e di indirizzo nei confronti degli analoghi uffici territoriali. Per il Servizio di Controllo Interno, l' Ufficio di Statistica, l' Ufficio Legislativo, il regolamento non apporta alcuna innovazione, per essi pertanto, rimane in vigore la disciplina vigente. 8. La Direzione Generale Regionale (Cfr. Art. 6 d.P.R. 6 novembre 2000 n. 347) In ciascun capoluogo di regione è istituito l'Ufficio Scolastico Regionale, di livello dirigenziale generale, che costituisce un autonomo centro di responsabilità amministrativa. Esso assorbe gli uffici scolastici regionali ed espleta tutte le funzioni già spettanti agli uffici periferici dell'amministrazione della pubblica istruzione a norma della vigente legislazione. Questi ultimi sono soppressi alla data di entrata in vigore del regolamento. Le direzioni generali regionali svolgono le loro funzioni in raccordo con i dipartimenti e i servizi centrali. Gli uffici scolastici regionali assolveranno essenzialmente al compito di garantire che gli standard formativi e i servizi di consulenza e supporto alle scuole trovino efficace attuazione sul territorio. Essi dovranno offrire alle istituzioni scolastiche tutti i supporti necessari per facilitare e consolidare la gestione dei processi di autonomia. Tali processi riguardano sia l'organizzazione amministrativa sia l'organizzazione didattica delle scuole: a) gestione del fascicolo del personale scolastico, dall'assunzione al pensionamento; b) integrazione dei curricoli nazionali con la quota oraria riservata alle singole scuole; c) individuazione di metodologie didattiche e organizzative che diano spazio ai percorsi formativi individualizzati; d) costruzione di strategie per il recupero della dispersione scolastica; e) elaborazione di proposte di innovazione degli ordinamenti;

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f) organizzazione di reti di scuole per l'istituzione di laboratori di ricerca didattica e di formazione g) raccordo con gli altri sistemi formativi; h) formazione in servizio del personale docente; i) integrazione degli alunni in situazione di handicap; l) coinvolgimento delle famiglie e delle comunità locali nelle scelte educative e in quelle degli indirizzi di studio. La direzione generale regionale espleta in particolare i seguenti compiti: 1. vigila sull'attuazione degli ordinamenti scolastici, sui livelli di efficacia dell'attività formativa e sull'osservanza degli standard programmati; 2. promuove la ricognizione delle esigenze formative e lo sviluppo della relativa offerta sul territorio in collaborazione con la Regione e gli enti locali; 3. cura l'attuazione delle politiche nazionali per gli studenti; 4. formula al servizio per gli affari economico-finanziari e ai dipartimenti le proprie proposte per l'assegnazione delle risorse finanziarie e di personale; 5. provvede alla costituzione della Segreteria del Consiglio Regionale dell'istruzione a norma dell'articolo 4 del d.lvo 30 giugno 1999 n. 233; 6. cura i rapporti con l'amministrazione regionale e con gli enti locali, per quanto di competenza statale e nel rispetto comunque dell'autonomia delle istituzioni scolastiche, relativamente all'offerta formativa integrata, all'educazione degli adulti; 7. esercita la vigilanza sulle scuole e corsi di istruzione non statati e sulle scuole straniere in Italia; 8. fornisce assistenza e supporto alle istituzioni scolastiche e vigila sul loro funzionamento nel rispetto dell'autonomia ad esse riconosciuta; assegna alle istituzioni scolastiche le risorse finanziarie; 9. assegna alle istituzioni scolastiche le risorse di personale ed esercita tutte le competenze in materia, ivi comprese quelle attinenti alle relazioni sindacali, non attribuite alle istituzioni scolastiche o non riservate all'Amministrazione centrale; 10. assicura, con i modi e gli strumenti più opportuni, la diffusione delle informazioni. Il dirigente preposto all'ufficio scolastico regionale, in particolare, stipula i contratti individuali con i dirigenti scolastici ed emette i relativi atti di incarico; nell'esercizio dei propri compiti il dirigente dell'ufficio regionale si avvale dei servizi funzionali e territoriali, nonché dell'istituto regionale di ricerca educativa. Tenuto conto che la legge 15 marzo 1997 n. 59 e il conseguente d.lvo 31 marzo 1998 n. 112 assegnano alle Regioni e agli enti locali (Provincie, Comuni) nuove e precise responsabilità in ordine alla programmazione dell'offerta formativa del territorio, decentrando molte funzioni ora attribuite allo Stato, compito della Direzione Regionale sarà di indicare i protocolli comuni con le Regioni e gli enti locali con cui ciascuna unità di servizi territoriali si porrà in relazione, per favorire uno stretto raccordo tra le scuole, l'amministrazione centrale e periferica del Ministero della pubblica istruzione, la Regione, la Provincia e i Comuni compresi nello ambito territoriale di competenza, nel rispetto delle singole autonomie e delle specificità di compiti e funzioni di tutti i singoli soggetti istituzionali. Gli articoli 138 e 139 del d.lvo 31 marzo 1998 n. 112 consegnano agli enti locali, nel disegno generale di un forte decentramento delle funzioni amministrative, una serie di compiti che vanno sostenuti e supportati dall'impegno cooperativo di tutti i soggetti coinvolti. I decentramenti dei poteri e conseguentemente degli oneri, derivati dalla legge 15 marzo 1997 n. 59, non possono realmente trovare una loro piena realizzazione se non sono sostenuti da un sistema di monitoraggio strutturale integrato. Questo servirà a stabilire i criteri distributivi, gli indicatori di lettura dei territori, a programmare e operare delle scelte di finanziamento, a svolgere delle normali verifiche di spesa di quanto venga distribuito. Fondamentale appare il compito della comunicazione da parte della Direzione Regionale, che dovrà garantire: un'informazione di qualità; un coordinamento, attraverso la rete telematica, di tutte le unità interprovinciali; la circolazione delle informazioni. La Direzione Regionale Scolastica della Lombardia, che rappresenta un basilare modello sperimentale per tali innovazioni, si è basata sui concetti sovraesposti e, per dare attuazione al modello sperimentale proposto, si è riferita all'architettura di sistema che segue. 9. Gli Uffici Scolastici Regionali Sperimentali: l'utile esperienza della Lombardia (I d.m. del 15 Dicembre 1999 n. 302, n. 303, n. 304, n. 305 e il d.m. 21 Gennaio 2000) A seguito dell'emanazione dei d.m. 15 Dicembre 1999 n. 302, n. 303, n. 304, n. 305 e del d.m. 21 Gennaio 2000, è stata avviata la sperimentazione delle direzioni generali regionali in Lombardia, Liguria, Toscana, Sicilia. Si tratta di strutture che, attraverso la sperimentazione dei nuovi modelli organizzativi di livello periferico, possono non solo precorrere i tempi di attuazione della riforma strutturale, ma consentire anche la verifica, da subito, dei nuovi rapporti istituzionali con le scuole che operano già in regime di autonomia dal 1°

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settembre 2000. Gli uffici regionali di livello dirigenziale generale, dotati di autonomia e responsabilità amministrativa, esercitano le funzioni inerenti: attività di supporto alle istituzioni scolastiche autonome; rapporti con le amministrazioni regionali e con gli enti locali; rapporti con le Università e le Agenzie formative; reclutamento e alla mobilità del personale scolastico; assegnazione alle istituzioni scolastiche delle risorse finanziarie e del personale. Sempre in Lombardia, negli uffici sul territorio, che attualmente sono riferiti agli ex provveditorati agli studi, ma che, in seguito, potranno avere una articolazione territoriale diversa, in relazione alle diverse esigenze, sono stati posti, con funzioni di coordinamento tecnico-didattico, dirigenti della funzione ispettiva, con un rapporto di dipendenza funzionale con la direzione regionale. In un momento di forte coinvolgimento, come quello attuale, si è cercato di introdurre il nuovo modello sperimentale regionale senza smantellare la struttura organizzativa dei provveditorati agli studi, senza i quali non si sarebbe potuto assicurare una corretta chiusura dell'anno scolastico e un ordinato avvio del corrente anno scolastico. Interessante, sotto il profilo istituzionale, è la costituzione (reg. riordino MPI art.6 co.4), all'interno di ciascun ufficio scolastico regionale, di un organo collegiale a composizione mista, "... con rappresentanti dello Stato, della regione e delle autonomie locali interessate", per facilitare l'esercizio coordinato delle funzioni pubbliche in materia di istruzione, prevenendo così i possibili conflitti di competenza che potrebbero insorgere a seguito della ridistribuzione dei compiti operata dal d.lvo 31 marzo 1998 n. 112. I Provveditorati non coinvolti nella sperimentazione. Il d.m. 15 Dicembre 1999 n. 305 all'art. 1 prevede che: "a decorrere dal 1° gennaio 2000, anche gli uffici scolastici non coinvolti nel modello sperimentale possono promuovere singolarmente o d'intesa tra più uffici della medesima regione progetti comuni di riorganizzazione delle proprie strutture". Tutti i provveditorati quindi possono organizzarsi e trasformarsi in centri di servizi, di supporto e consulenza per l'attuazione dell'autonomia senza rinunciare alle proprie competenze prima dei tempi previsti dal d.P.R. 8 marzo 1999 n. 275. La costituzione dei Servizi Territoriali di Consulenza alla scuole (Art. 6 comma 2 d.P.R. 6 novembre 2000 n. 347). Al fine di assicurare una costante presenza sul territorio e di garantire adeguate risorse professionali, sia nella fase di avvio dell'autonomia scolastica che, soprattutto, a regime, il d.P.R. 6 novembre 2000 n. 347 all'art. 6 comma 2 prevede che: "L'ufficio scolastico regionale, sentita la Regione si articola per funzioni e sul territorio. A tal fine sono istituiti servizi di consulenza e supporto alle istituzioni scolastiche, anche per funzioni specifiche". Nella logica del decentramento e nel rispetto del principio della sussidiarietà "verticale" è prevista dunque un'ulteriore articolazione territoriale dell'Amministrazione, attraverso la costituzione di Servizi di consulenza e supporto alle istituzioni scolastiche, a livello provinciale o sub-provinciale. Queste articolazioni territoriali sono state dunque pensate come strutture di servizio, con funzioni strumentali o "serventi", destinate principalmente a supportare l'attività amministrativa e gestionale delle scuole. Ciò non esclude, anzi suggerisce, la necessità di affidare loro anche la gestione dei compiti amministrativi esclusi dalla diretta responsabilità delle scuole (quali, ad esempio, la mobilità del personale, il reclutamento, la stipula di contratti di lavoro a tempo determinato di durata annuale), che vedono nel livello provinciale una sede appropriata di gestione che non interferisce con l'autonomia delle istituzioni scolastiche e non crea all'utenza e al personale i prevedibili disagi logistici e gli inevitabili "ingorghi" amministrativi derivanti dall'eventuale concentrazione di queste competenze presso l'ufficio scolastico regionale. 10. La Riforma del CEDE, della BDP e degli IRRSAE D.lvo 20 Luglio 1999 n.258 (CEDE e BDP);Regolamento esecutivo del d.lvo 30 Luglio 1999 n.300 (IRRSAE) La legge 15 marzo 1997 n. 59 all'art. 21, co. 10, stabilisce che "le istituzioni scolastiche autonome hanno anche autonomia di ricerca, sperimentazione e sviluppo nei limiti dei proficuo esercizio dell'autonomia didattica e organizzativa". In tale prospettiva, nel successivo periodo, si afferma che "gli IRRSAE, il CEDE e la BDP... sono riformati come enti finalizzati al supporto dell'autonomia delle istituzioni scolastiche". Con il d.lvo. 20 luglio 1999 n. 258, concernente il "Riordino del Centro Europeo dell'Educazione, della Biblioteca di Documentazione Pedagogica", il CEDE viene trasformato in "Istituto Nazionale per la Valutazione del Sistema dell'Istruzione" con i seguenti compiti: valutazione dell'efficienza e dell'efficacia del sistema di istruzione nel suo complesso ed analiticamente; studio delle cause dell'insuccesso e della dispersione scolastica con riferimento al contesto sociale ed alle tipologie dell'offerta formativa; conduzione di attività di valutazione sulla soddisfazione dell'utenza; supporto e assistenza tecnica all'amministrazione per la realizzazione di autonome iniziative di valutazione e supporto anche alle singole istituzioni scolastiche; valutazione degli effetti degli esiti applicativi delle iniziative legislative che riguardano la scuola;

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valutazione degli effetti dei progetti e delle iniziative di innovazione promossi in ambito nazionale; partecipazione italiana a progetti di ricerca internazionale in campo valutativo e nei settori connessi all'innovazione organizzativa e didattica. La biblioteca di documentazione pedagogica viene trasformata in "Istituto Nazionale di Documentazione per l'Innovazione e la Ricerca Educativa", con i seguenti compiti: sviluppo di un sistema di documentazione finalizzato alle esperienze nazionali ed internazionali di ricerca e innovazione pedagogica e didattica e alla creazione di servizi e materiali a sostegno dell'attività didattica e del processo di autonomia; rilevazione dei bisogni formativi con riferimento ai risultati della ricerca; sostegno alle strategie di ricerca e formazione; elaborazione e realizzazione di progetti nazionali di ricerca; collaborazione con il Ministero della pubblica istruzione per la gestione dei programmi e dei progetti dell'U.E.; sviluppo dell'informazione e produzione della documentazione a sostegno dell'innovazione didattica e dell'autonomia; sostegno allo sviluppo e alla diffusione delle tecnologie dell'informazione, della documentazione, valorizzazione del patrimonio bibliografico e documentario già appartenente alla BDP. Ciascuno dei due istituti è retto da un consiglio di amministrazione che dura in carica 3 anni; il Consiglio è composto da un Presidente e 4 componenti nominati dal Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro della pubblica istruzione. La struttura organizzativa e funzionale, la dotazione organica di personale, ed ogni altro aspetto connesso all'esercizio dei rispettivi compiti, viene demandato ad un successivo regolamento. Quanto agli IRRSAE (istituti regionali di ricerca sperimentazione e aggiornamento educativi), essi saranno trasformati in IRRE (istituti regionali di ricerca educativa), che svolgeranno attività di ricerca negli ambiti didattico-pedagogico e della formazione del personale della scuola, inoltre essi svolgeranno funzioni di supporto agli Uffici dell'amministrazione regionale di competenza ed alle rispettive articolazioni provinciali e subprovinciali, alle istituzioni scolastiche; essi infine si coordineranno con il nuovo istituto nazionale per la valutazione del sistema di istruzione. L'Agenzia per la Formazione e l'Istruzione Professionale. Nella nuova architettura organizzativa si inserisce anche l'Agenzia per la Formazione e l'Istruzione Professionale (d.lvo 30 luglio 1999 n. 300) che esercita, in forma unificata e coordinata, i compiti precedentemente svolti dai Ministeri del lavoro e della previdenza sociale e della pubblica istruzione in materia di sistema integrato di istruzione e formazione professionale. La missione istituzionale dell'Agenzia è molto delicata in quanto deve realizzare, ai fini della compiuta attuazione del sistema formativo integrato, un difficile equilibrio tra le competenze regionali in materia di formazione professionale e le esigenze generali del sistema scolastico, avendo a riferimento l'assetto delle competenze definite dal d.lvo 31 marzo 1998 n. 112. Spetta in particolare all'agenzia la funzione di accreditamento delle strutture di formazione professionale che agiscono nel settore e la validazione dei programmi integrati di istruzione e formazione anche nei corsi finalizzati al conseguimento del titolo di studio o diploma di istruzione secondaria superiore. Pur godendo, come tutte le Agenzie, in quanto struttura tecnica altamente specializzata, di ampia autonomia organizzativa e gestionale, è sottoposta alla vigilanza del Ministero del lavoro e del Ministero della p.i. per i profili di rispettiva competenza, nel quadro degli indirizzi definiti con un'apposita direttiva del Consiglio dei Ministri. 11. L'autonomia scolastica. La prima tappa del processo riformatore (legge 15 marzo del 1997 n. 59 art. 21)L'art. 21, comma 1 della legge 15 marzo 1997 n. 59 recita: "L'autonomia delle istituzioni scolastiche e degli istituti educativi si inserisce nel processo di realizzazione dell'autonomia e della riorganizzazione dell'intero sistema formativo…" Ma che cosa si intende, in concreto, per autonomia scolastica? L'autonomia scolastica è la capacità giuridica delle singole scuole, riconosciuta dalla legge, di progettare e realizzare, coerentemente con le finalità e gli obiettivi generali del sistema di istruzione e con le caratteristiche specifiche degli alunni (ma anche, in certi casi, degli adulti, sotto forma di educazione permanente), interventi di educazione, formazione ed istruzione, mirati allo sviluppo della persona umana, adeguati ai diversi contesti e alla domanda delle famiglie, e con l'esigenza di migliorare l'efficacia del processo di insegnamento e di apprendimento al fine di garantire ai soggetti coinvolti il successo formativo, mediante l'impiego delle indispensabili risorse umane, finanziarie e strutturali. Quando dunque una scuola si può definire autonoma ? Quando è in possesso: di un capo di istituto che abbia ottenuto la qualifica dirigenziale; di una pianta organica "funzionale" del corpo docente (d.P.R. 18 giugno 1988, n. 233), che contempli stabilmente figure professionali finora più o meno precarie, come, per esempio, quella dell'Operatore psico-pedagogico, dell'Operatore tecnologico, del Docente di sostegno; della personalità giuridica, che è un pò il

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suggello dei precedenti requisiti. Per "personalità giuridica", conferita con decreto del Capo dello Stato, si intende, la "titolarità di diritti e di obblighi". Emerge dall'art. 21 un modello di autonomia che non è quello di una deregulation intesa come "assenza di regole"; le scuole dovranno pertanto muoversi e agire, pur nel rispetto dei principi dettati dalla legge e dai regolamenti, potendo disporre di una forte flessibilità nell'organizzazione della didattica e dandosi un nuovo modello organizzativo che consenta loro di fare istruzione, ricerca e formazione secondo standard di qualità fissati dal "centro", un centro, però, affrancato da compiti di gestione e prevalentemente dotato di funzioni di indirizzo e di controllo. Il programma nazionale di avvio sperimentale dell'autonomia(d.m. 29 maggio 1998 n. 251). In attesa dell'emanazione dei numerosi provvedimenti attuativi, è stato necessario varare un provvedimento amministrativo che autorizzasse le scuole a realizzare, sperimentalmente, ciò che la legge aveva già chiaramente ed esplicitamente sancito. Il primo provvedimento attuativo dell'autonomia scolastica, è stato dunque il d.m. 27 novembre 1997 n. 765, sostituito e riproposto con il d.m. 29 maggio 1998 n. 251. Il d.m. 29 maggio 1998 n. 251, prevede l'attivazione di un programma nazionale di sperimentazione di nuovi modelli di organizzazione della scuola, volto ad accompagnare la transizione del sistema nell'autonomia, individuando obiettivi, metodologie, strumenti, condizioni di organizzazione e responsabilità, soggetti competenti. L'uso dello strumento del d. m. legittima le iniziative che ogni singola scuola, utilizzando spazi ed opportunità offerti dal vigente ordinamento, mette in atto. L'adesione da parte delle istituzioni scolastiche al programma nazionale di sperimentazione rimane volontaria, non richiede autorizzazioni preventive, presuppone scelte e delibere da parte degli organi di governo competenti, nel rispetto degli obiettivi fondamentali propri del tipo ed ordine di scuola e nei limiti delle disponibilità di bilancio; la sua attuazione si fonda nella ricerca di collaborazione ed adesione di tutte le componenti scolastiche ed anche dell'ente locale. E' possibile leggere in questa dimensione nazionale della sperimentazione un impegno dichiarato dell'amministrazione, teso a guidare una fase delicata di transizione verso assetti nuovi di organizzazione del sistema che richiedono orientamenti certi ed adeguato sostegno per un proficuo avvio della riforma, in un contesto di gradualità e processualità costruttive. In particolare, viene individuata la piena realizzazione dell'autonomia scolastica come obiettivo unitario da perseguire attraverso lo sviluppo delle iniziative e delle attività previste dal d.m. 29 maggio 1998 n. 251, affidate alla progettazione delle singole unità scolastiche in raccordo con le esigenze espresse dalla realtà locale. A tal fine la direttiva ministeriale del 29 maggio 1998 n. 252 che finalizza l'utilizzazione, per il 1998, delle risorse stanziate dalla legge 18 dicembre 1997 n. 440 come "Fondo per l'arricchimento e l'ampliamento dell'offerta formativa e per gli interventi perequativi", individua alcune priorità volte ad arricchire l'offerta formativa, anche in prosecuzione di iniziative a carattere sperimentale già avviate dalle scuole. Le priorità attengono ad es. all'introduzione della seconda lingua comunitaria nella scuola media, allo sviluppo della formazione continua. La direttiva quantifica per ogni intervento, individuato come prioritario, gli stanziamenti; fornisce indicazioni sulle modalità di gestione delle risorse nell'ambito di criteri che ne privilegiano l'attribuzione alle istituzioni scolastiche; rimette all'amministrazione alcune quote destinate a interventi di respiro più generale. Dimensioni e tipologia delle istituzioni scolastiche nonché complessità del progetto diventano ulteriori criteri per l'attribuzione delle risorse specificamente destinate all'attuazione di flessibilità didattiche ed organizzative. Gli ambiti di sperimentazione suggeriti dal d.m. 29 maggio 1998 n. 251 sono 8: 1) adattamento del calendario scolastico 2) flessibilità dell'orario e diversa articolazione della durata della lezione 3) articolazione flessibile del gruppo classe, delle classi o sezioni 4) organizzazione di iniziative di recupero e sostegno 5) attivazione di insegnamenti integrativi facoltativi 6) realizzazione di attività organizzate in collaborazione con altre scuole o con soggetti esterni per l'integrazione della scuola con il territorio 7) iniziative di orientamento scolastico e professionale 8) iniziative di continuità. Il Regolamento sull'autonomia delle istituzioni scolastiche (d.P.R. 8 marzo 1999 n. 275)Il d.P.R. 8 marzo 1999 n. 275 recante "Disposizioni in materia di autonomia delle istituzioni scolastiche", rappresenta il "cuore" dell'intero progetto riformatore imperniato sull'autonomia. Esso è entrato in vigore, come espressamente sancito dall'art. 2, comma 2, a decorrere dal 1° settembre 2000. L'art. 1 comma 2 prevede un regime transitorio (che in effetti è valso limitatamente all'anno scolastico

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1999/2000), ribadisce la possibilità di esercitare l'autonomia ai sensi del d.m. 29 maggio 1998 n. 251, e del successivo d.m. 19 luglio 1999 n. 179. 12. L'autonomia didattica delle istituzioni scolastiche. L'autonomia didattica delle istituzioni scolastiche si esercita nel rispetto delle "tre libertà" richiamate dalla legge: la libertà di insegnamento, la libertà di scelta educativa delle famiglie, il diritto ad apprendere degli alunni. Lo scopo è il perseguimento delle finalità generali del sistema nazionale di istruzione, promuovendo la crescita educativa di tutti gli alunni, riconoscendo e valorizzando le diversità e le potenzialità di ciascuno. L'autonomia, pertanto, si esprimerà completamente nella definizione del "curricolo", cioè del piano di studi, che deve risultare coerente con gli obiettivi "generali ed educativi" dei diversi tipi e indirizzi di studi determinati a livello nazionale (a norma del successivo art. 8 del regolamento) e riflettere le esigenze del contesto culturale, sociale ed economico della realtà locale. Nel rispetto del monte ore stabilito a livello nazionale, ogni istituzione scolastica compone il quadro unitario in cui sono indicate le discipline e le attività fondamentali definite a livello nazionale, le discipline fondamentali alternative tra di loro, le discipline integrative, nonché gli "spazi di flessibilità". La struttura del curricolo, quindi, si articola in tre livelli che integrano decisioni centrali e periferiche: 1) una parte prescrittiva, con le attività e le discipline fondamentali, il monte orario annuale da dedicarvi, gli obiettivi e gli standard d'apprendimento, determinati a livello nazionale; 2) una parte opzionale, (comprendente attività e discipline tra loro alternative) che integra obbligatoriamente il curricolo, lasciato all'autonoma determinazione delle scuole, con una pluralità di offerte tra le quali gli alunni hanno il dovere di scegliere; 3) una parte facoltativa, con l'arricchimento del curricolo attraverso attività aggiuntive, programmate e realizzate anche con l'accordo dei soggetti esterni alla scuola (enti locali/agenzie formative, ecc.). E' nel curricolo che si salda e si risolve quella che molti avevano indicato come l'antinomia dell'art. 21: come valorizzare la specificità del territorio e la diversificata domanda formativa, garantendo nel contempo il carattere unitario e nazionale della formazione? La risposta al quesito è data dal P.O.F (piano dell'offerta formativa). L'esercizio della flessibilità riguarda: l'articolazione modulare del monte ore annuale di ciascuna disciplina (con conseguente superamento del vincolo settimanale); la definizione di unità d'insegnamento (unità didattiche) non coincidenti con l'unità oraria; l'espletamento della lezione (con possibilità di utilizzazione degli spazi residui per integrazioni, arricchimenti e approfondimenti); l'attivazione di percorsi didattici individualizzati; l'articolazione modulare di gruppi di alunni, provenienti dalla stessa o da diverse classi; l'aggregazione delle discipline in aree/ambiti disciplinari. 13. L'autonomia organizzativa delle istituzioni scolastiche L'autonomia organizzativa riguarda: l'adattamento del calendario scolastico; la programmazione plurisettimanale dell'orario del curricolo in non meno di 5 giorni settimanali e nel rispetto del monte ore annuale previsto per le singole discipline e attività obbligatorie; l'impiego flessibile dei docenti nelle varie classi e sezioni in funzione delle eventuali opzioni metodologiche ed organizzative adottate nel P.O.F. La parte più delicata del regolamento è relativa alla definizione dei curricoli (art. 8) basata su un'ampia delegificazione della materia. Viene infatti demandata al Ministro della p.i. la competenza a definire: gli obiettivi generali del processo formativo; gli obiettivi specifici di apprendimento relativi alle "competenze" degli alunni (competenze intreccio di conoscenze e abilità/capacità - "sapere" e "saper fare"); le discipline e le attività costituenti la quota nazionale del curricolo e il relativo monte ore annuo; l'orario obbligatorio annuale complessivo dei curricoli, comprensivo della quota nazionale obbligatoria e della quota obbligatoria riservata alle scuole; i limiti di flessibilità temporale per le compensazioni tra le discipline; gli standard di qualità del servizio; gli indirizzi generali per la valutazione degli alunni e il riconoscimento dei crediti e dei debiti formativi. Nel contesto normativo afferente alla regolazione della vita e dell'attività della scuola nel suo complesso, si inserisce anche il Regolamento che disciplina le iniziative complementari e le attività scolastiche integrative, originariamente approvato con d.P.R. 10 ottobre 1996 n. 567, e recentemente modificato con d.P.R. 9 aprile

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1999 n. 156. Il d.P.R. 9 aprile 1999 n. 156 contiene una significativa novità per il nostro sistema scolastico in quanto definisce "attività scolastiche a tutti gli effetti", e perciò anche ai fini dell'ordinaria copertura assicurati INAIL, "tutte le attività organizzate dalle istituzioni scolastiche sulla base di progetti educativi, anche in rete o in partenariato con altre istituzioni e agenzie del territorio..."Siamo in presenza di un'altra rivoluzione copernicana rispetto al tradizionale rapporto scuola territorio: non è più la scuola che si proietta verso il territorio, ma è quest'ultimo che "entra" nel scuola e interagisce con essa. Altra importante novità del decreto (art. 5 co.1 bis) consiste nell'estendere alle associazioni studentesche l'applicabilità delle norme del codice civile sulle associazioni non riconosciute e la destinazione di apposite risorse finanziarie per l'organizzazione e il funzionamento delle Consulte provinciali degli studenti, che acquisiscono così una specifica connotazione istituzionale ed un proprio assetto ordinamentale. 14. Il Piano dell'Offerta Formativa (P.O.F.) e le funzioni obiettivo L'espressione massima dell'autonomia didattica ed organizzativa delle istituzioni scolastiche è il piano dell'offerta formativa (P.O.F.), definito nel comma 1 dell'art. 3 "documento fondamentale costitutivo dell'identità culturale e progettuale delle istituzioni scolastiche" che "esplicita la progettazione curricolare, extra curricolare, educativa ed organizzativa che le singole scuole adottano nell'ambito della loro autonomia". Il P.O.F. è elaborato dal collegio dei docenti sulla base degli indirizzi generali per le attività della scuola e delle scelte generali di gestione e amministrazione definiti del consiglio di circolo/istituto. Il piano deve essere coerente con gli obiettivi generali dei diversi indirizzi di studi determinati a livello nazionale. Il piano dell'offerta formativa è pubblico e viene consegnato alle famiglie all'atto dell'iscrizione. Per valorizzare le professionalità e l'impegno aggiuntivo degli insegnanti e per la realizzazione del piano dell'offerta formativa il secondo CCNL 1998/2001 ha introdotto, in tutti gli ordini e gradi di scuola le "funzioni obiettivo". Le funzioni obiettivo da assegnare in ogni scuola sono quattro. Nel numero delle funzioni obiettivo è compresa la funzione del collaboratore vicario del capo d'istituto. Il collegio dei docenti identifica le funzioni sulla base del piano dell'offerta formativa, definisce le competenze e i requisiti professionali necessari e i criteri di valutazione. I docenti presentano la domanda con il curricolo e la dichiarazione di disponibilità a frequentare i corsi di formazione. Costituisce titolo di preferenza la dichiarata disponibilità a permanere nella scuola per l'intera durata dell'incarico. Il collegio designa i docenti cui affidare gli incarichi con delibera motivata. Non possono essere incaricati i docenti che svolgono orario a tempo parziale o sono autorizzati allo svolgimento della libera professione. Gli incarichi sono conferiti dal dirigente scolastico. A fine anno scolastico e non oltre il mese di giugno il collegio esprime una valutazione ai fini della conferma degli incarichi, in occasione della verifica del P.O.F., sulla base della relazione redatta da ciascun insegnante incaricato della funzione e delle indicazioni del capo d'istituto. 15. L'autonomia finanziaria delle istituzioni scolastiche Conseguenza necessaria della previsione del riconoscimento ai singoli istituti della autonomia e della personalità giuridica è il riconoscimento agli stessi dell'autonomia finanziaria. Il co.5 dell'art. 21 della legge 15 marzo 1997 n. 59, ha previsto che i singoli istituti, al conseguimento della personalità giuridica, abbiano una "dotazione finanziaria essenziale costituita dall'assegnazione dello Stato per il funzionamento amministrativo e didattico". Gli stanziamenti sono ripartiti dal Ministero della Pubblica Istruzione su base regionale e quindi assegnati, dopo essere stati suddivisi su base provinciale o sub provinciale, ai singoli istituti, dai dirigenti degli uffici periferici dell'amministrazione scolastica. La dotazione si suddivide in assegnazione ordinaria e assegnazione perequativa, ed è senza altro vincolo di destinazione se non quello dell'utilizzazione prioritaria per lo svolgimento delle attività di istruzione, di formazione e di orientamento proprie di ciascuna tipologia e di ciascun indirizzo di scuola. L'assegnazione ordinaria ha carattere uniforme e risponde a parametri fissi, quali il numero di studenti e tipologia di studi. L'assegnazione perequativa ha invece natura integrativa, per fare supportare istituti in difficoltà economica e supplire a disomogeneità territoriali. Nel contempo la legge 15 marzo 1997 n. 59, promuove il ricorso dei singoli istituti all'autofinanziamento. In quest'ottica, il regolamento (decreto ministeriale 1 febbraio 2001 n. 44, Regolamento concernente le «Istruzioni generali sulla gestione amministrativo-contabile delle istituzioni scolastiche», Pubblicato nella Gazz. Uff. 9 marzo 2001, n. 57, S.O.) abroga le disposizioni che prevedono autorizzazioni preventive per l'accettazione di donazioni, eredità e legati da parte delle istituzioni scolastiche. Sempre in tale finalità, il regolamento, specifica, che l'assegnazione della dotazione in esame non esclude l'apporto di ulteriori risorse finanziarie da parte dello Stato, delle regioni, degli enti locali, di altri enti e di privati per l'attuazione di progetti promossi e finanziati con risorse a destinazione specifica. Punti salienti del regolamento sono:

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la gestione per cassa (art. 1), l'esercizio finanziario su base annuale per anno solare (art. 2), la gestione della spesa sulla base di programma annuale (art.4), l'obbligo di utilizzo di istituto cassiere (art. 12), la possibilità di utilizzare le strutture scolastiche per lo svolgimento di attività e servizi per conto terzi, con vantaggio economico dell'istituto (art. 16), obbligo di tenuta di scritture contabili (titolo III), piena capacità negoziale, da esercitarsi nelle procedure di legge, individuazione della procedura ordinaria di contrattazione, per gli importi eccedenti 2000 euro (pari a circa lire 4.000.000) sulla base delle offerte di almeno tre ditte direttamente interessate (art. 28). Quali sono dunque gli aspetti più significativi del regolamento sulla gestione amministrativo contabile delle istituzioni scolastiche? Il collegio dei revisori dei conti; Il programma annuale; La capacità negoziale; Il consegnatario dei beni. Il comma 1 dello stesso articolo 21, prevede la possibilità di deroga alle norme di contabilità di Stato, riaffermato dall’art. 14, comma 3, d.P.R. 275/99. Il regolamento è stato di recente emanato con d.m. 44/200140. Le istruzioni generali ivi contenute dovevano essere applicate in via sperimentale e progressivamente estese a tutte le istituzioni scolastiche dell'anno finanziario immediatamente successivo alla loro emanazione e quindi dal 2002. Ma, con l'emanazione del d.P.R. 352 del 4 agosto 2001, è stato modificato il comma 4 dell'art. 12 del d.P.R. 275/1999, prevedendo che le suddette istruzioni generali si applichino a decorrere dal 1° settembre 200141. Esaminando in sintesi la nuova disciplina sulla gestione contabile, si rilevano le seguenti caratteristiche del nuovo sistema di gestione: 1. la dotazione finanziaria dello Stato sarà suddivisa ”dotazione ordinaria e dotazione perequativa”. La dotazione perequativa, verrà calcolata in relazione alle condizioni demografiche, orografiche, economiche e socio culturali del territorio. Sui criteri di ripartizione delle assegnazioni perequative è sentito il parere della conferenza unificata Stato-regioni-città e autonomie locali (art. 6 d.P.R. 233/1988)42. 2. l’attività finanziaria (il cui esercizio ha inizio il primo gennaio e termina il 31 dicembre di ogni anno), si svolge sulla base di un programma annuale, predisposto dal dirigente scolastico e proposto dalla giunta esecutiva con apposita relazione e con il parere di regolarità contabile del Collegio dei revisori, entro il 31 ottobre al Consiglio di Istituto o di circolo, per l’approvazione. Nella relazione sono individuati gli obbiettivi da conseguire e la destinazione delle risorse in coerenza con il P.O.F.43 La delibera di approvazione è adottata dal Consiglio di Istituto entro il 15 dicembre dell’anno di riferimento. L’approvazione del programma, comporta l’autorizzazione al pagamento delle spese ivi previste. Il programma è affisso all’albo della istituzione scolastica entro quindici giorni dalla approvazione e inserito, ove possibile, nel sito WEB dell’istituzione scolastica. 3. Il programma è realizzato dal dirigente scolastico, nell’esercizio dei compiti e delle responsabilità di gestione di cui all’art. 25 bis d.lgs. 29/93, come integrato dal d.lgs. 59/98. 4. Le entrate sono riscosse dall’istituto di credito che gestisce il servizio di cassa. Il servizio di cassa e quello di custodia e amministrazione di titoli della istituzione scolastica, è affidato ad un unico servizio di credito.

40 Il regolamento è suddiviso in cinque titoli: Titolo I: Gestione Finanziaria; Capo I: principi e programma annuale; capo II: Realizzazione del programma annuale; capo III: Servizi cassa; Capo IV: Conto consuntivo; Capo V: Gestioni economiche separate; Titolo II: Gestione patrimoniale-beni e inventari; Titolo III: Scritture contabili e contabilita’ informatizzata; Titolo IV: attività’ negoziale; Capo I - Principi generali; capo II: Singolari figure contrattuali; capo III: Altre attività’ negoziali; Titolo V: Controllo di regolarità’ amministrativa contabile; Titolo VI: Attività’ di consulenza contabile; Titolo VII: Disposizioni finali. 41 Il suddetto d.P.R. n. 352/2001 ha inserito un comma 7-bis aggiuntivo all'art. 14 del d.P.R. 275/1999, prevedendo che: "L'Avvocatura dello Stato continua ad assumere la rappresentanza e la difesa nei giudizi attivi e passivi davanti le autorità giudiziarie, i collegi arbitrari e le giurisdizioni amministrative e speciali di tutte le istituzioni scolastiche cui è stata attribuita l'autonomia e la personalità giuridica a norma dell'art. 21 della l. 59/1997". 42 Con circolare Ministeriale 187 del 21 luglio 2000 sono state fornite alle Istituti scolastiche "istruzioni amministrativo-contabili per le istituzioni che acquistano personalità giuridica a decorrere dal 1° settembre 2000". Secondo il d. l. 28 agosto 2000, n. 240 conv. in L. 27 ottobre 2000, n. 306 la "dotazione ordinaria è stabilita in misura tale da consentire l'acquisizione da parte delle istituzioni scolastiche dei beni di consumo e strumentali necessari a garantire l'efficacia del processo di insegnamento-apprendimento nei vari gradi e tipologie dell'istruzione". 43 il programma deve contenere altri elementi contabili: e cioè tutte le entrate, aggregate secondo la loro provenienza, nonché la predisposizione di schede illustrative finanziarie per ogni progetto compreso nel programma.

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5. Il conto consuntivo44 è rimesso dal dirigente scolastico all’esame del collegio dei revisori dei conti e successivamente (entro il 30 aprile), sottoposto alla approvazione del Consiglio di istituto. Il regolamento prevede la nomina di un commissario ad acta, ove il Consiglio non deliberi sul conto consultivo entro 60 giorni dalla sua presentazione. Il conto consultivo è pubblicato all’albo della istituzione. 6. Al controllo di regolarità amministrativa contabile (di cui all’art. 2 del d.lgs. 286/99)45 provvede un collegio di revisori dei conti, nominato dall’ufficio scolastico regionale. Il collegio è costituito da tre membri (uno nominato dal Ministero della Pubblica Istruzione; uno dalla Ragioneria e uno dagli enti locali). 46 16. Il collegio dei revisori dei conti Tutti gli ordini di scuola, dalla primaria alla secondaria, dovranno "fare i conti" con il collegio dei revisori (tre membri nominati dal nuovo Ufficio scolastico regionale) che avrà il compito di controllare, passo passo, la correttezza dell'amministrazione e della gestione contabile delle istituzioni autonome. I compiti del collegio dei revisori cominciano prima dell'inizio dell'esercizio finanziario (1° gennaio-31 dicembre), quando ricevono per conoscenza entro il 31 dicembre precedente il programma annuale approvato dal consiglio dell'istituzione scolastica autonoma. Il termine "programma" ha un'accezione nuova nel regolamento amministrativo-contabile: è l'equivalente di quello che prima veniva chiamato bilancio di previsione. Ma torniamo al collegio dei revisori: questo organo, con visite periodiche, deve procedere alla verifica delle legittimità e regolarità di tutte le scritture contabili, nonché alla coerenza di impiego delle risorse rispetto agli obiettivi del programma annuale. Quello dei revisori potremmo definirlo un ruolo a metà fra l'azione fiscale di controllo e l'intervento di assistenza. Decisivo comunque il loro intervento soprattutto in occasione dell'approvazione del conto consuntivo: se l'istituzione dovesse approvare il conto in difformità del parere del collegio dei revisori la competenza ad intervenire sull'eventuale ripristino di regolarità di funzionamento passerebbe all'ufficio scolastico regionale. Ogni intervento di controllo del collegio viene verbalizzato e raccolto presso l'istituzione scolastica; il verbale relativo al conto consuntivo e ad eventuali anomalie riscontrate in fase di controllo viene messo a disposizione dell'ufficio scolastico regionale e della Ragioneria Provinciale dello Stato. Il programma annuale Il programma annuale (o quello che eravamo abituati a chiamare bilancio di previsione) dispone liberamente delle risorse finanziarie assegnate, in base agli obiettivi e ai progetti approvati dal consiglio dell'istituzione scolastica autonoma, in coerenza con le previsioni del piano dell'offerta formativa (P.O.F.). L'articolo 1 della bozza di regolamento amministrativo-contabile dispone infatti che "le risorse assegnate dallo Stato (dotazione finanziaria di istituto) sono utilizzate... senza altro vincolo di destinazione o per lo svolgimento delle attività di istruzione, di formazione e di orientamento proprie dell'istituzione competente,

44 che si compone della situazione della cassa, della situazione patrimoniale e del prospetto delle spese per il personale e per i contratti d’opera, nonché di un prospetto sintetico dei risultati economici della gestione. Il bilancio sarà quindi un bilancio di cassa, e non più di competenza, con i residui attivi e passivi. 45 Il d. lgs. 286 del 30 luglio 1999 prevede il "riordino e potenziamento dei meccanismi e strumenti di monitoraggio e valutazione dei costi, dei rendimenti e dei risultati delle attività svolte dalle amministrazioni pubbliche, a norma dell'articolo 11 della legge 15 marzo 1999, n. 59". Secondo tale disciplina le pubbliche amministrazioni, nell'ambito della rispettiva autonomia, si dotano di strumenti adeguati a: a) garantire la legittimità, regolarità e correttezza dell'azione amministrativa (controllo di regolarità amministrativa contabile); b) verificare l'efficacia, efficienza ed economicità dell'azione amministrativa al fine di ottimizzare, anche mediante tempestivi interventi di correzione, il rapporto tra costi e risultati (controllo di gestione); c) valutare le prestazioni del personale con qualifica dirigenziale (valutazione della dirigenza); d) valutare l'adeguatezza delle scelte compiute in sede di attuazione dei piani, programmi ed altri strumenti di determinazione dell'indirizzo politico, in termini di congruenza tra risultati conseguiti e obiettivi predefiniti (valutazione e controllo strategico) (Art. 1). Come esplicitato dall'art. 1 comma 4: "Il presente decreto non si applica alla valutazione dell'attività didattica e di ricerca dei professori e ricercatori delle università, alla attività didattica del personale della scuola, all'attività di ricerca dei ricercatori e tecnologi degli enti di ricerca". Ai controlli di regolarità amministrativa e contabile provvedono gli organi appositamente previsti dalle disposizioni vigenti nei diversi comparti della pubblica amministrazione e, in particolare, gli organi di revisione, ovvero gli uffici di ragioneria, nonché i servizi ispettivi. Le verifiche di regolarità amministrativa e contabile devono rispettare, in quanto applicabili alla pubblica amministrazione, i principi generali della revisione aziendale asseverati dagli ordini e collegi professionali operanti nel settore. 46 le novità introdotte dal regolamento, sono in parte anticipate dalla circolare 272 del 12 novembre 1999, riguardante il “bilancio di previsione per l’anno finanziario 2000-istituzioni scolastiche di ogni ordine e grado, artistiche, educative e distretti scolastici. La circolare contiene anche istruzioni per gli istituti comprensivi/verticalizzati e orizzontali (unificazione di scuole dello stesso grado). Il bilancio, che deve essere anche per quest’anno approvato dal Provveditore, è redatto in base a nuovi modelli, allegati alla circolare. Viene istituito il capitolo di “finanziamento compensi ed indennità per il miglioramento dell’offerta formativa (in sostituzione di altri precedenti capitoli), vengono soppresse le articolazioni presenti nei capitoli di entrata. Si fa però rilevare che la creazione nel bilancio delle istituzioni scolastiche di capitoli unici in entrata e in uscita nei quali far confluire o far gravare indistintamente le provviste finanziarie o le spese per le diverse esigenze, se da una parte consente maggiori spazi di flessibilità nell’utilizzo delle risorse stesse, dall’altro rende però necessario attivare, da parte delle singole scuole, specifici atti di amministrazione e schede contabili che consentano la dimostrazione dei diversi interventi finanziari operati in ossequi al principio di trasparenza e in considerazione di sicure e puntuali iniziative di monitoraggio da parte del Ministero.

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come previste e organizzate nel piano dell'offerta formativa... "Per l'impiego "autonomo" delle risorse finanziarie disponibili il dirigente predispone entro il 31 ottobre una proposta annuale corredata da apposita relazione. Entro il 20 dicembre il consiglio di istituto delibera il programma annuale che viene al fisso all'albo ed inviato al collegio dei revisori dei conti entro il 31 dicembre. L'approvazione del programma comporta l'autorizzazione al pagamento delle spese previste. Nel caso in cui il Consiglio non approvi il programma entro l'inizio dell'esercizio finanziario (10 gennaio), il dirigente provvede alla gestione provvisoria nei limiti delle spese necessarie per la prosecuzione dei progetti avviati e, nel limite di un dodicesimo, della spesa sostenuta nell'esercizio precedente per il funzionamento generale. Se il programma non viene approvato entro 60 giorni dall'inizio dell'esercizio finanziario il dirigente scolastico regionale nomina un commissario ad acta che provvede all'adempimento dell'approvazione del programma annuale entro un termine stabilito. 17. La capacità negoziale L'acquisizione della personalità giuridica conferisce alle istituzioni scolastiche un più ampio potere gestionale anche nei confronti di terzi estranei alla p.a. In particolare, le istituzioni possono stipulare convenzioni e contratti, esclusi i contratti per operazioni finanziarie speculative. Possono partecipare a società di persone e a società di capitali. Spetta al dirigente, quale rappresentante legale dell'istituzione sottoscrivere contratti o convenzioni oppure delegare il direttore dei servizi generali e amministrativi per lo svolgimento di attività negoziali. Il consiglio di istituto delibera i criteri e i limiti per lo svolgimento da parte del dirigente di queste attività negoziali: contratti di sponsorizzazione, di locazione di immobili appartenenti alla istituzione, utilizzazione di locali e beni appartenenti all'istituzione; convenzioni relative a prestazioni del personale della scuola per conto terzi; alienazione di beni prodotti dall'istituzione; contratti d'opera con esperti; partecipazione a progetti internazionali. 18. Il consegnatario dei beni Da sempre il consegnatario dei beni mobili e immobili dell'istituzione, cioè il responsabile della conservazione e dell'impiego delle risorse materiali di proprietà dello Stato e data in uso alla istituzione scolastica, è sempre stato il direttore didattico o il preside. Il passaggio di consegne, in caso di cambio di titolarità nell'istituzione scolastica, comportava un particolare processo in contraddittorio fra i due capi d'istituto alla presenza di un rappresentante della Ragioneria Provinciale dello Stato. Il regolamento introduce definitivamente il cambiamento di competenze: l'articolo 19 prevede infatti che il direttore dei servizi generali e amministrativi abbia la responsabilità di consegnatario dei beni dell'istituzione e la tenuta del relativo inventario. Quando il direttore cessa dal suo ufficio, il passaggio di consegne avviene mediante ricognizione materiale dei beni in contraddittorio con il consegnatario subentrante, in presenza del dirigente e del presidente del consiglio di istituto. 19. Disciplina della qualifica dirigenziale dei capi d'istituto (Il decreto legislativo n. 59 del 6 marzo 1998) L'art. 21 comma 16 del decreto legislativo 15 marzo 1997 n.59 prevede che "nel rispetto del principio della libertà d'insegnamento e in connessione con l'individuazione di nuove figure professionali del personale docente, ferma restando l'unicità della funzione, ai capi d'istituto è conferita la qualifica dirigenziale contestualmente all'acquisto della personalità e dell'autonomia da parte delle singole istituzioni scolastiche". L'impianto e le sequenze logiche e cronologiche delineate dall'art.21, risultano chiare ed evidenti: dimensionamento ottimale delle istituzioni scolastiche; conseguente attribuzione di autonomia e personalità giuridica; conferimento della qualifica dirigenziale ai capi d'istituto in servizio, "contestualmente all'acquisto della personalità giuridica e dell'autonomia", previa frequenza di un "apposito" corso di formazione. I contenuti e le specificità della qualifica dirigenziale sono state individuate con il d.lvo 6 marzo 1998 n. 59 ("Disciplina della qualifica dirigenziale dei capi d'istituto delle istituzioni scolastiche autonome, a norma dell'art. 21 comma 16 della legge 15 marzo 1997 n.59") secondo il quale il conferimento della dirigenza deve avvenire nel rispetto del principio della libertà d'insegnamento e in connessione con l'individuazione di nuove figure professionali del personale docente, ferma restando l'unicità della funzione docente stessa. L'acquisizione dello status dirigenziale comporta l'affidamento di:

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autonomi compiti di direzione, di coordinamento e valorizzazione delle risorse umane autonomi compiti di gestione di risorse finanziarie e strumentali, con connesse responsabilità in ordine ai risultati, il tutto nel rispetto delle competenze degli organi collegiali scolastici. Il d.lvo n. 59 si compone di unico articolo, che introduce modifiche al d.lvo 3 febbraio 1993 n. 29, mediante l'inserimento di articoli aggiuntivi: art. 25-bis "Dirigenti delle istituzioni scolastiche"; art. 25-ter "Inquadramento nei ruoli regionali dei dirigenti scolastici dei capi d'istituto in servizio"; art. 28-bis "Reclutamento dei dirigenti scolastici"47. 20. Dirigenti delle istituzioni scolastiche art.25-bis del d.lvo 3 febbraio 1993 n. 29. I dirigenti scolastici sono inquadrati in ruoli di dimensione regionale; rispondono in ordine ai risultati a norma dell'art. 21 del d.lvo 3 febbraio 1993 n.29(48) (verifica dei risultati, responsabilità dirigenziali), che sono valutati tenuto conto delle specificità delle funzioni, sulla base delle verifiche effettuate da un nucleo di valutazione istituito presso l'amministrazione scolastica regionale, presieduto da un dirigente e composto da esperti anche non appartenenti all'amministrazione stessa. Il dirigente scolastico: assicura la gestione unitaria dell'istituzione scolastica; ne ha la rappresentanza legale; è responsabile della gestione delle risorse finanziarie e strumentali e dei risultati del servizio; ha autonomi poteri di direzione, coordinamento e valorizzazione delle risorse umane, nel rispetto delle competenze degli organi collegiali scolastici; organizza l'attività scolastica secondo criteri di efficienza e di efficacia formativi; è titolare delle relazioni sindacali; promuove gli interventi per assicurare la qualità dei processi formativi e la collaborazione delle risorse culturali, professionali, sociali ed economiche del territorio; predispone le condizioni: per il pieno esercizio della libertà d'insegnamento (intesa "anche" come ricerca e innovazione metodologico-didattica); per l'esercizio della libertà di scelta educativa delle famiglie; per l'attuazione del diritto all'apprendimento degli alunni. Nell'ambito delle funzioni attribuite alle istituzioni scolastiche spetta al dirigente l'adozione degli atti di gestione delle risorse e del personale. Nello svolgimento delle funzioni di natura organizzativa, il dirigente scolastico può avvalersi di docenti da lui individuati, ai quali può delegare "specifici compiti". Per le funzioni di natura amministrativa, è coadiuvato dal direttore dei servizi generali e amministrativi che sovrintende, nell'ambito delle direttive di massima impartite e degli obiettivi assegnati, ai servizi amministrativi e ai servizi generali dell'istituzione scolastica, coordinando il relativo personale (la precedente formulazione era: "... che esercita le funzioni di direzione degli uffici amministrativi della scuola". Il dirigente scolastico presenta "periodicamente" al consiglio di circolo/istituto una motivata relazione sulla "direzione" e sul "coordinamento" dell'attività formativa, organizzativa e amministrativa. La qualifica dirigenziale viene assunta da parte di ciascun capo d'istituto all'atto della preposizione alle istituzioni scolastiche dotate di autonomia e della personalità giuridica, salvaguardando, per quanto possibile, la titolarità della sede di servizio (la precedente formulazione era: "... all'atto dell'attribuzione all'istituzione scolastica di titolarità dell'autonomia e della personalità giuridica), e previa frequenza di "appositi" corsi di formazione. Il reclutamento dei dirigenti scolastici si è realizzato mediante corso-concorso selettivo di formazione. Al corso concorso è ammesso il personale docente ed educativo delle istituzioni statali che abbia maturato, dopo la nomina in ruolo un servizio effettivamente prestato di almeno 7 anni con possesso di laurea. Il corso concorso si è articolato in una in una selezione per titoli, in un concorso di ammissione, in un periodo di formazione e in un esame finale. 22. La razionalizzazione della rete scolastica (d.P.R. 18 giugno 1998 n. 233) Non sarebbe stato possibile avviare l'autonomia scolastica senza avere ridisegnato e razionalizzato la rete delle scuole, un arcipelago affollatissimo.

47 Sulla valutazione dei capi di istituto, v., ora, art. 25, comma 1, d.lgs. 165/2001: I dirigenti scolastici sono inquadrati in ruoli di dimensione regionale e rispondono, agli effetti dell'articolo 21, in ordine ai risultati, che sono valutati tenuto conto della specificità delle funzioni e sulla base delle verifiche effettuate da un nucleo di valutazione istituito presso l'amministrazione scolastica regionale, presieduto da un dirigente e composto da esperti anche non appartenenti all'amministrazione stessa". 48 Ora confronta il Decreto Legislativo 30 marzo 2001, n. 165, "Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche" (pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 106 del 9 maggio 2001- Supplemento Ordinario n. 112).

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Ciò per motivi funzionali, didattici, di ottimizzazione dei costi e delle risorse umane, ma, soprattutto, per assicurare a tutti gli alunni quella molteplicità di servizi che solo le unità di una certa dimensione consentono di offrire. Anche le norme sulla ristrutturazione della rete scolastica prendono origine dall'art. 21 della legge 15 marzo 1997 n. 59. Più dettagliatamente l'argomento è regolato dal d.P.R. 18 giugno 1998 n. 233 ("Regolamento recante norme per il dimensionamento ottimale delle istituzioni scolastiche e per la determinazione degli organici funzionali dei singoli istituti, etc."). Qual'è l'operazione indicata dalla legge? Si è cercato di creare comprensori scolastici di più scuole dello stesso livello ("razionalizzazione orizzontale"), ma meglio se di livello integrato ("razionalizzazione verticale", per esempio elementari più medie), ognuno sotto un unico dirigente, aventi alla base una popolazione scolastica, accertata come stabile nell'ultimo quinquennio, da 500 a 900 alunni. Ovviamente, la legge prevede eccezioni per le piccole isole, per i comuni montani e per le aree contraddistinte da specificità etniche o linguistiche. Sono nati così (e alcuni sono già funzionanti in talune grandi città, a titolo sperimentale) i cosiddetti Istituti comprensivi. 23. La riforma dei cicli (legge 10 febbraio 2000 n.30) La legge del 10 febbraio 2000 n. 30 riforma i segmenti in cui si divide il percorso scolastico che va dalla prima classe che si frequenta a sei anni, quando ha inizio l'obbligo scolastico, fino alle soglie dell'università o dell'ingresso nel lavoro (o nel sistema di formazione professionale superiore, regionale o statale). Con la nuova legge, la scuola elementare e la scuola media vengono unificate in un unico ciclo denominato "ciclo primario", della durata di sette anni (un anno in meno degli otto risultanti dall'attuale scansione "elementari più media, cioè cinque più tre anni"). La riforma dovrebbe scattare progressivamente a partire dalle prime classi delle attuali scuole elementari e medie. In quanto al secondo ciclo, è quello dell'istruzione secondaria post-settennio (che non si chiamerà più secondaria superiore, in quanto, con la scomparsa della scuola media come ciclo autonomo, non ci sarà più una secondaria inferiore). Il ciclo secondario avrà un biennio di completamento dell'obbligo scolastico e un triennio conclusivo. La legge prevede che progressivamente l'obbligo scolastico giunga ai 18 anni di età, ma dopo i 15 anni si potrà lasciare la scuola ordinaria e l'obbligo scolastico (cioè compiuto nelle scuole ordinarie) per passare ad adempiere "l'obbligo formativo" nelle apposite istituzioni statali o regionali. Tutta la presente materia è ora in corso di rielaborazione e di ridefinizione a seguito della legge-delega al Governo per la ridefinizione delle norme generali sull'istruzione e dei livelli essenziali delle prestazioni in materia di istruzione e di formazione professionale. 24. La riforma degli organi collegiali esterni alla scuola (d.lvo 30 giugno 1999 n. 233: "Riforma degli Organi collegiali territoriali") Il quadro riformatore conosce come ulteriore tassello, quello della riforma degli organi collegiali esterni alla scuola, quali gli organi collegiali territoriali. I meccanismi di riforma (d.lvo 30 giugno 1999, n. 233: "Riforma degli organi collegiali territoriali", a norma dell'articolo 21 della legge 15 marzo 1997 n. 59, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 170 del 22 luglio 1999) sono già avviati e culmineranno nel 2001 con l'elezione dei componenti dei nuovi organi. Con il 1° settembre 2001 cesseranno di esistere i Consigli Scolastici Distrettuali, i Consigli Scolastici Provinciali e il Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione. Al loro posto subentreranno: i "Consigli Scolastici Locali" (che assorbiranno le attuali funzioni dei Consigli scolastici provinciali e distrettuali), i "Consigli Regionali dell'Istruzione", il "Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione". 25. I Consigli Scolastici Locali I Consigli Scolastici Locali, inizieranno a funzionare dal 1° settembre 2001. Se tuttavia funzioneranno a livello provinciale o a livello subprovinciale (e quindi ancora distrettuale) non è possibile saperlo fino a quando i Direttori Generali Regionali, d'intesa con le rispettive Regioni, non avranno deciso che territorio assegnare ai loro futuri "uffici periferici". Il d.lvo del 30 giugno 1999 n. 233 prevede infatti all'art. 5 che "i consigli scolastici locali (...) sono istituiti in corrispondenza delle articolazioni territoriali dell'amministrazione periferica" Dalla legge si desumono i compiti dei C.S.L., così sintetizzabili: Durata: tre anni. Compiti: dare pareri e avanzare proposte nei confronti a) del capo dell'ufficio scolastico regionale; b) delle singole scuole autonome in merito: all'organizzazione scolastica sul territorio di riferimento;

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all'edilizia scolastica; alla "circolazione dell'informazione sul territorio"; alle reti di scuole; all'informatizzazione; alla distribuzione dell'offerta formativa; all'educazione permanente; all'orientamento; alla continuità tra i vari cicli dell'istruzione; all'integrazione degli alunni portatori di handicap; all'attuazione del diritto allo studio; all'adempimento dell'obbligo; al monitoraggio dei bisogni formativi sul territorio; al censimento delle opportunità culturali e sportive offerte ai giovani. Presidente: eletto dal consiglio in seno al medesimo. Composizione: i membri del consiglio scolastico locale variano da 35 a 37 7. 26. Il Consiglio Regionale dell'Istruzione Dal 1° settembre 2001 è istituito presso ogni ufficio periferico regionale dell'istruzione, il Consiglio Regionale dell'Istruzione Durata: tre anni. Compiti: 1. competenze consultive e di supporto all'amministrazione a livello regionale; 2. fornire pareri obbligatori in materia di autonomia delle istituzioni e di attuazione degli ordinamenti, di distribuzione dell'offerta formativa e di integrazione tra istruzione e formazione professionale, di educazione permanente, di politiche compensative con particolare riferimento all'obbligo formativo, al diritto allo studio, di reclutamento e mobilità del personale, di attuazione degli organici funzionali d'istituto; 3. fornire pareri obbligatori sui provvedimenti relativi al personale docente per i quali la disciplina sullo stato giuridico preveda il parere dell'organo collegiale a tutela della libertà di insegnamento. Composizione: il consiglio scolastico regionale è costituito dai presidenti dei consigli scolastici locali, da componenti eletti dalla rappresentanza del personale della scuola statale nei consigli scolastici locali; da 3 componenti eletti dai rappresentanti delle scuole pubbliche non statali nei consigli locali e da 5 rappresentanti designati dalle organizzazioni rappresentative dei datori di lavoro e dei lavoratori. Del consiglio fa parte di diritto il dirigente dell'ufficio periferico regionale. Il numero complessivo dei componenti eletti dai consigli scolastici locali in rappresentanza del personale scolastico in servizio nella Regione è determinato in proporzione al numero degli appartenenti al personale dirigente, docente, amministrativo tecnico e ausiliario in servizio nelle scuole statali. A queste categorie spettano complessivamente 14 seggi quando il suddetto personale è in numero non superiore a 50.000 unità; spettano 16 seggi quando tale numero è superiore a detta cifra. Nella attribuzione dei seggi deve essere garantita la rappresentanza rispettivamente di 3 ovvero 4 seggi al personale docente per ciascun grado di istruzione, mentre almeno un seggio va assegnato alla categoria dei dirigenti scolastici e un altro al personale amministrativo tecnico e ausiliario. Presidente: Il consiglio lo elegge a maggioranza assoluta dei suoi componenti. Qualora nella prima votazione non si raggiunga tale maggioranza, il Presidente è eletto a maggioranza relativa dei votanti. Il consiglio adotta un proprio regolamento, nel quale è prevista la creazione di una giunta esecutiva, che sarà presieduta dal dirigente dell'ufficio regionale dell'istruzione. 27. Il Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione Il consiglio superiore della pubblica istruzione sostituirà dal 1° settembre 2001 il consiglio nazionale della pubblica istruzione. Durata: la sua durata è di cinque anni. Compiti: il consiglio superiore della pubblica istruzione esercita le seguenti funzioni: a) esprime pareri obbligatori circa: le politiche del personale della scuola; la valutazione del sistema dell'istruzione; gli obiettivi nazionali e standard del sistema di istruzione; le quote di insegnamento liberamente scelto dalle scuole autonome; l'organizzazione generale dell'istruzione; b) esprime pareri su qualsiasi altra materia il Ministro decida di sottoporgli; c) esprime pareri facoltativi, anche di propria iniziativa, su proposte di legge in materia legislativa e normativa attinente all'istruzione; d) promuove indagini conoscitive sullo stato di settori specifici dell'istruzione e ne relaziona al Ministro della

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pubblica istruzione. Non possono fare parte del consiglio superiore della pubblica istruzione parlamentari nazionali o europei o altri ministri o sottosegretari di Stato. I membri del CSPI possono essere eletti una sola volta. Il personale scolastico può chiedere di essere esonerato dal servizio per il quinquennio con diritto della validità del servizio stesso ad ogni effetto. Il consiglio elegge nel suo seno, a maggioranza assoluta dei suoi componenti, il Presidente. Qualora nella prima votazione non si raggiunga tale maggioranza, il Presidente è eletto a maggioranza relativa dei votanti. Il consiglio rappresenta l'organo di garanzia dell'unitarietà del sistema nazionale dell'istruzione e di supposto tecnico-scientifico delle funzioni del Ministro della pubblica istruzione.

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CAPITOLO 5 IL NUOVO TITOLO V DELLA COSTITUZIONE

1. Legislazione statale e regionale in materia di istruzione secondo la legge 3/2001 Secondo le previgenti norme costituzionali, la potestà legislativa generale spettava allo Stato. Gli art.116 e 117 Costituzione attribuivano alle Regioni il potere legislativo su specifiche e tassative materie. Con riferimento al vecchio testo della Costituzione sono stati elaborati i seguenti concetti- tutt’oggi validi- in base ai quali viene distinta la potestà legislativa nei rapporti Stato-Regioni. legislazione esclusiva (o piena): Le Regioni a Statuto speciale sono titolari del c.d. potere di “legislazione piena od esclusiva” limitatamente alle materie indicate nei rispettivi Statuti che riguardano soprattutto il benessere e il progresso sociale e sulle quali la Regione ha una riserva piena di competenza, che esclude l’intervento di leggi statali anche a carattere generale. (c.d. ripartizione orizzontale di competenza). -limiti alla legislazione esclusiva La legislazione esclusiva soggiace alla sola legislazione costituzionale e ai principi generali dell’ordinamento giuridico e non alle singole leggi dello Stato (per un principio generale ricavabile dagli art.10,11,80 e 87 Cost. limite alla legislazione regionale esclusiva sono anche i principi dell’ordinamento internazionale e le direttive della Comunità europea). I principi generali che limitano la legislazione esclusiva sono stati interpretati dalla Corte Costituzionale come i principi e gli interessi cui si informa l’intero complesso delle leggi relative alle materie regionali, nonché le norme fondamentali delle riforme economico-sociali, cioè quelle che rendono unitario l’indirizzo politico in quelle materie, d’applicazione generale e universale. (cfr. per tutte sent. 80/1996). La Corte Costituzionale ha altresì precisato che in materia di legislazione esclusiva la singola legge statale non può imporre l’obbligo di adeguamento ai principi della legge medesima, perché in tal modo si viene ad incidere sulla materia devoluta alla Regione (v. per tutte Corte Cost.241/1997 in materia di procedure per il rilascio di concessioni edilizie). la legislazione concorrente Le regioni a Statuto ordinario avevano - secondo il vecchio testo dell'art. 117 Cost - una competenza legislativa nelle materie esplicitamente indicate dall’art.117 predetto. Per le materie di competenza delle Regioni a statuto ordinario, si parla di legislazione concorrente (o ripartita), nel senso che la materia appare ripartita verticalmente tra Stato e Regione e le due fonti, statale e regionale, concorrono a formare la definitiva e completa disciplina. - limiti alla legislazione concorrente Secondo il vecchio testo dell’art.117 nelle elencate materie, emana norme legislative “nei limiti dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato, sempreché le norme stesse non siano in contrasto con l’interesse nazionale e con quello delle altre Regioni”. Spetta quindi allo Stato dettare i principi fondamentali per ciascuna materia: si tratta delle c.d. “leggi cornice” che recano una sistematica disciplina di principio relativa ad interi settori di competenza regionale. Poiché, però, non sempre lo Stato ha emanato le leggi cornice e poiché non era possibile bloccare il potere legislativo regionale in attesa di tali leggi, si è convenuto (art.17 l.16 maggio 1970 n.281) che i principi fondamentali fossero desumibili implicitamente dalle leggi statali vigenti. Lo Stato, però, non può formulare tali principi in modo così minuzioso da rendere inutile la legge regionale; spetta quindi esclusivamente alla Regione rendere operativi quei principi, e quindi formulare la legge operativa nel rispetto dei medesimi. In materia scolastica, l’art.117 Cost. prevedeva che la competenza concorrente delle Regioni solo per la “istruzione artigiana e professionale e assistenza scolastica”. Lo Stato ha emanato la legge quadro in materia di formazione professionale (l.845/1978). la legislazione delegata Vi è un terzo tipo di competenza legislativa regionale, quella c.d. “delegata”. Rientrano in questo tipo le leggi che la regione emana su delega dello Stato, allorché il Parlamento attribuisce alle Regioni il potere di attuare con proprie norme una specifica legge (art.117 u.c.)(esempio di tale legge: la n.59/1997). 2. la legge costituzionale 2001 n.3: le modifiche al titolo V della Costituzione

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La legge costituzionale 2001 n. 3 modifica sostanzialmente e profondamente i rapporti Stato-Regione. La potestà legislativa generale, mentre prima spettava allo Stato, ora spetta alle Regioni. Al riguardo la legge distingue: • la competenza esclusiva dello Stato Si prevedono esplicitamente e tassativamente i casi in cui lo Stato ha la legislazione esclusiva. Tra tali materie rientrano le “norme generali sull’istruzione”.

• la competenza concorrente dello Stato Si ridefiniscono le ipotesi di legislazione concorrente, prevedendo materie molto più ampie di quelle contemplate dal riformato art.117 cost. La norma chiarisce che nelle materie di legislazione concorrente, spetta alle Regioni la potestà legislativa salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato. Tale concetto non sembra differire da quello elaborato dalla dottrina e dalla giurisprudenza circa il contenuto della legislazione concorrente: e cioè che i principi fondamentali presuppongono una legge cornice e che le regioni, nel rispetto dei principi dettati, provvedono a legiferare. Tra le materie oggetto di legislazione concorrente è prevista la “istruzione, salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche e con esclusione della istruzione e della formazione professionale;

• la potestà sussidiaria dello Stato La legge n. 3 è già in vigore e quindi si pone il problema della sorte delle leggi con essa incompatibili. Secondo le prime opinioni non di verifica una abrogazione automatica di tutte le leggi incompatibili emanate dallo Stato e attualmente di competenza della Regione, e ciò per evitare vuoti normativi. Si ricorre al concetto di sussidiarietà più volte enunciato dalla legge. Secondo tale impostazione, fino a quando la legge regionale non regoli la materia ad essa spettante, resterà in vigore la normativa statale. 3. Le competenze legislative in materia di istruzione La legge 3/2001 pone rilevanti problemi interpretativi, per quanto concerne i limiti delle Regioni nel legiferare e i rapporti con la legislazione statale. Già sono allo studio sia modifiche legislative alle legge 3 (v. proposta Bossi), che un disegno di legge per l’attuazione della medesima. Non essendo ancora legge, si ritiene opportuno trattare della materia scolastica avendo ad unico riferimento la legge 3/2001. Per quanto concerne la materia dell’istruzione il problema più rilevante che pone la legge 3 è il rapporto tra la materia soggetta alla giurisdizione esclusiva dello Stato “norme generali sull’istruzione” e quella soggetta alla legislazione concorrente. Rientra tra la legislazione concorrente, infatti, anche la materia dell’ “istruzione, salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche e con esclusione della istruzione e della formazione professionale”. Occorre chiedersi al riguardo se l'espressione "norme generali sull'istruzione" sia pleonastica rispetto al termine "istruzione" previsto dalla legislazione concorrente, atteso che anche nel caso della legislazione concorrente lo Stato deve limitarsi a fissare i principi generali in materia, sebbene utilizzando le c.d. "leggi-quadro". Si ritiene al riguardo che la potestà esclusiva statale sulle norme generali sull'istruzione, per essere ben interpretata, debba essere letta in raccordo con l'espressione contenuta sub m) della legge e cioè che spetta esclusivamente allo Stato la "determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale". Poiché, infatti, il diritto all'istruzione è riconosciuto come diritto sociale di tutti i cittadini (art. 34 Costituzione: "la scuola è aperta a tutti"), spetta quindi allo Stato la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni rese dal servizio dell'istruzione. Ciò comporta il diritto-dovere dello Stato di prevedere parametri di valutazione validi su tutto il territorio nazionale; di garantire la libertà di insegnamento; di tutelare le fasce di soggetti più deboli (alunni portatori di handicap), nonché di garantire il diritto delle famiglie alla libertà di scelta tra scuola pubblica e privata e i diritti-doveri degli alunni, nonché di definizione degli ordinamenti scolastici essenziali. Di conseguenza anche nelle materia di competenza esclusiva delle Regioni, le stesse incontreranno come limite - laddove si tratta di realizzazione di diritti sociali e civili - il potere statale di legificazione, che potrà anche esprimersi in forma regolamentare (secondo la legge 3, infatti, il potere regolamentare è attribuito allo Stato solo in materia di competenza esclusiva). ******** Si possono esaminare più in dettaglio i vari ambiti relativi all'istruzione al fine di verificare la suddivisione di competenze:

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a) inizio dell’obbligo scolastico e sua durata; b) ordinamento scolastico; c) valutazione del sistema educativo di istruzione e formazione professionale; d) nozione di credito scolastico e formativo; e) individuazione del contenuto essenziale dei piani di studio; f) esami di Stato; g) requisiti richiesti per l’abilitazione all’insegnamento; h) standard formativi richiesti per la spendibilità nazionale dei titoli professionali e per i passaggi dai percorsi formativi ai percorsi dell’istruzione. a) Inizio dell’obbligo scolastico e sua durata Tale materia rientra nella competenza legislativa esclusiva statale sia sotto il profilo della sua appartenenza alle norme generali sull’istruzione, sia sotto il profilo della sua riconduzione nell’ambito dei livelli essenziali di prestazione. La durata dell’obbligo scolastico deve essere infatti ritenuta un principio generale e cardine dell’istruzione da leggersi in correlazione all’articolo 3, all’articolo 5 ed all’articolo 33 della Costituzione. Tali norme, infatti, garantiscono una parità a tutti i cittadini nell’inserimento nel mondo del lavoro e quindi una condizione di uguaglianza che deve essere tutelata da norme dello Stato in termini omogenei su tutto il territorio nazionale. L’assolvimento dell’obbligo scolastico dovrà essere assicurato in termini adeguati alle diverse situazioni ed età degli studenti, e a tal fine non si potrà provvedere che con regolamento. b) Ordinamento scolastico Per ordinamento scolastico ci si intende riferire agli ordini ed ai gradi di scuole, alle tipologie ed ai relativi indirizzi di studio, che devono essere omogenei su tutto il territorio nazionale al fine di assicurare la mobilità degli studenti da una Regione all’altra. La definizione degli ordinamenti non può che spettare, quindi, allo Stato, come potestà legislativa esclusiva. c) Valutazione del sistema educativo di istruzione e formazione professionale Fermo restando che la valutazione degli alunni compete ai docenti della classe frequentata, la valutazione del sistema educativo nel suo complesso, che richiede anche sistematiche verifiche dei livelli di apprendimento, dovrà essere assicurata sulla base di criteri nazionali. d) Nozione di credito scolastico e di credito formativo Le prospettive di trasferimento alle Regioni dell’istruzione professionale e l’esigenza di conservare l’omogeneità dei titoli professionali regionali, che devono restare spendibili su tutto il territorio nazionale, nonché di consentire il passaggio dal sistema di formazione professionale al sistema di istruzione, impone di adottare in tutto il sistema educativo una unità di misura uniforme, la cui definizione non può che essere riservata allo Stato in quanto essa deve valere su tutto il territorio nazionale. c) Piani di studio Lo Stato deve stabilire la quota nazionale dei piani di studio, le relative discipline e attività di insegnamento, il relativo monte ore, gli obiettivi nazionali di apprendimento degli alunni, l’orario annuale complessivo comprensivo della quota nazionale obbligatoria e della quota riservata alle scuole; i criteri generali di flessibilità dei piani di studio; gli standard relativi alla qualità del servizio; gli indirizzi e i criteri generali circa la valutazione degli alunni; il riconoscimento dei debiti e dei crediti formativi. In base poi al nuovo progetto di modifica dell’articolo 117 della Costituzione, una quota dei piani di studio dovrà essere determinata dalle Regioni. d) Esame di Stato Ai sensi dell’articolo 33 della Costituzione, l’esame di Stato è titolo necessario per accedere ai vari ordini e gradi di scuola, nonché titolo legale di studio su tutto il territorio nazionale. La disciplina relativa compete quindi allo Stato. e) Standard formativi Per quanto riguarda, poi, il settore dell’istruzione e formazione professionale, fermo restando che esso è rimesso alla potestà legislativa e regolamentare delle Regioni, rientra nella potestà legislativa esclusiva dello Stato la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni, in quanto la fruizione del tipo di formazione di cui trattasi rientra anch’essa nel novero dei diritti civili e sociali, per i quali devono essere assicurati livelli essenziali su tutto territorio nazionale, a norma dell’articolo 117, secondo comma, lett. m). Rientra pertanto nella competenza statale la definizione di standard minimi, richiesti per la spendibilità nazionale dei titoli professionali conseguiti all’esito dei percorsi formativi, nonché per i passaggi dai percorsi formativi ai

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percorsi dell’istruzione. Poiché inoltre l’istruzione professionale è una branca dell’istruzione, compete allo Stato di dettare norme generali anche relativamente alla istruzione professionale (ordine degli studi, contenuti dei piani di studio, valutazione etc...). ********** Individuati gli ambiti di cui lo Stato ha il potere/dovere di emanare norme legislative di carattere generale, occorre ora determinare quando tale legislazione in materia scolastica richieda un ulteriore livello di normazione, come quello regolamentare, in assenza del quale si determinerebbe una assenza di disciplina su aspetti che caratterizzano gli elementi essenziali del sistema formativo. La fonte regolamentare si rende infatti necessaria in ragione della natura squisitamente tecnica della materia dell’istruzione, che non può essere disciplinata in tutto a livello legislativo. Tale ulteriore livello è da individuare con riferimento ai seguenti aspetti: 1) determinazione delle modalità di valutazione dei crediti scolastici; 2) individuazione del contenuto dei curricoli scolastici per la quota nazionale (obiettivi specifici di apprendimento, discipline e attività costituenti la quota nazionale del curricolo, orari, limiti di flessibilità interni nell’organizzazione delle discipline), perché si tratta di materie non riconducibili ad una fonte tendenzialmente rigida come quella legislativa, anche per i suoi profili prevalentemente tecnici; i piani di studio dovranno contenere un nucleo essenziale, omogeneo su base nazionale che rispecchi la cultura, le tradizioni e l’identità nazionale, e una quota da definirsi da parte delle regioni e degli istituti scolastici, più strettamente collegata alle realtà locali; 3) Struttura degli esami di Stato: egualmente dicasi per la struttura degli esami di Stato, che richiede una normazione puntuale e specifica, relativa allo svolgimento degli esami, alla modalità di scelta delle materie, alla composizione delle commissioni, alla valutazione dei crediti formativi e scolastici. Lo Stato, oltre a definirne i contenuti essenziali, dovrebbe altresì con regolamento disciplinarne lo svolgimento, e ciò, appunto, perché ai sensi dell'art. 33 Cost. (non modificato), rimane un esame di "Stato", che serve per accedere ai vari ordini e gradi di scuola o per la conclusione di essi e per il riconoscimento del titolo legale di studio su tutto il territorio nazionale. ******** Rientrano nella legislazione concorrente tra Stato e Regione le materie relative alla istruzione, quali ad esempio: organizzazione scolastica; ordinamenti scolastici, obbligo scolastico, distribuzione delle scuole sul territorio (razionalizzazione della rete scolastica) ecc. Ciò significa che lo Stato deve limitarsi a fissare i principi fondamentali o legge-cornice, senza entrare nei dettagli, i quali spettano alla normativa regionale. Sarebbe pertanto necessaria una ricognizione per verificare quanto -nella legislazione esistente- dovrebbe essere devoluto alla competenza regionale. E' pur vero che, fino a che non interviene una legge regionale in applicazione del principio di sussidiarietà sopra richiamato, devono ritenersi operanti le norme statali. Per quanto concerne ad es. la istituzione di nuove scuole, l'art. 33 della Cost. (che non ha subito modifiche), prevede che la Repubblica istituisce scuole "statali" per tutti gli ordini e gradi. Tale formulazione non impedisce la istituzione di scuole da parte delle autonomie, tenendo presente che in base alla nuova formulazione dell'art. 114 Cost. la Repubblica è costituita: dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato". Tuttavia tali scuole dovrebbero, secondo il dettato della Costituzione, rimanere statali (e non regionali). La normativa concorrente non opera nei seguenti casi: a) “...salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche” La legge n. 3 costituzionalizza per la prima volta il principio della autonomia delle istituzioni scolastiche senza però definirne il contenuto. Dal contesto della norma pare però chiaro che tutto ciò che concerne l’autonomia delle scuole esula dalla competenza regionale; I principi generali in materia di autonomia devono essere dati dalla legge statale, rientrando tale materia nelle “norme generali sull’istruzione” oggetto di competenza esclusiva dello Stato. Già è presente una normativa che stabilisce l’ambito e i limiti della autonomia didattica, organizzativa e gestionale delle istituzioni scolastiche (d.p.r. 275/1999; d.m. 44/2001) Tale normativa prevede che le scuole determinino anche parte dei curricoli obbligatori. La definizione degli ordinamenti scolastici essenziali spetta comunque allo Stato, dovendosi far rientrare nelle "norme generali sull'istruzione" di competenza esclusiva dello Stato. Non sarebbe, quindi, costituzionale, una legge che svuotasse di significato il principio dell’autonomia. Al contrario, sarebbe in linea con la costituzione una normativa che ne ampliasse i limiti, prevedendo eventualmente un maggiore potere di autorganizzazione, anche, se del caso, in relazione alla scelta del personale docente (e non solo alla sua gestione amministrativa) quantomeno per lo svolgimento della parte del curricolo di competenza delle scuole.

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b)” ...con esclusione della istruzione e della formazione professionale” secondo il vecchio testo dell’art.117 l’istruzione professionale (intesa poi come formazione professionale), rientrava nella legislazione concorrente Stato-regione. Nel nuovo testo, la materia è demandata alla legislazione esclusiva della Regione. Egualmente l’art. 116 del nuovo testo prevede che possono essere attribuite in materia di istruzione a Regione diverse da quelle a Statuto speciale “forme e condizioni particolari di autonomia” con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata. In entrambi i casi si deve ritenere però che valgano i limiti alla legislazione esclusiva rappresentati dalle norme costituzionali (tra cui il principio di unità della Repubblica), trattandosi di normativa ad esse subordinata, nonché i principi generali dell’ordinamento scolastico, secondo l'elaborazione della Corte Costituzionale in materia di giurisdizione esclusiva, infine i limiti posti dal rispetto del servizio minimo di qualità delle prestazioni concernenti il diritto all'istruzione, come sopra ricordato. Si pongono però delicati problemi interpretativi in particolare per quanto concerne la materia della “istruzione” professionale: il nuovo testo della Costituzione riporta ambedue i termini: "istruzione e formazione professionale", ad evitare che in futuro possa riproporsi il problema se l'istruzione professionale sia o meno di competenza regionale. Per questo settore si pongono però delicati problemi interpretativi per quanto concerne l'istruzione "tout court" e l'istruzione professionale. Occorreranno quindi delle leggi che individuino con chiarezza tali confini. Le soluzioni possono essere diverse: dal prevedere il passaggio degli istituti professionali alle Regioni, allo stabilire che le Regioni possano istituire vere e proprie scuole di istruzione professionale. 4. La riforma del Titolo V della Costituzione in materia di funzioni amministrative. La legge costituzionale n. 3/2001, nel ridelineare il quadro delle competenze di Stato, Regioni, ed enti locali, è incisivamente intervenuta in materia di funzioni amministrative, e di loro distribuzione. Il nuovo art. 118 Cost. prevede infatti che «le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario, siano conferite a Province , Città metropolitane, Regioni e Stato (...)». La disposizione costituzionale chiarisce come l’eventuale conferimento delle funzioni amministrative - normalmente spettanti ai Comuni - a Province, Città metropolitane, Regioni o Stato, debba avvenire sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza. Punti focali della riforma dell’assetto delle funzioni amministrative risultano dunque: - I Comuni divengono «cuore amministrativo» della Repubblica49, in quanto di norma titolari delle funzioni amministrative. - Risulta così superato il c.d. principio del “parallelismo”, previsto nel vecchio testo dell’art. 118 Cost, in base al quale alla potestà legislativa in taluna materia, si accompagnava la titolarità delle funzioni amministrative nella materia medesima (nella specie: alle Regioni spettavano le funzioni amministrative nelle materie di propria potestà legislativa, elencate nell’art. 117 vecchio testo). - rispetto al precedente assetto istituzionale, che già prevedeva il normale esercizio di funzioni da parte delle Regioni, attraverso delega delle stesse a Province , Comuni od altri enti locali, l’attuale quadro istituzionale riformato prevede che Stato e Regioni (non possano, ma) debbono attribuire le proprie funzioni agli enti locali, salvo motivare espressamente le ragioni che giustifichino un eventuale trattenimento delle funzioni a livello di Provincia, Città metropolitana, Regione o Stato. - Tale eventuale “sottrazione” di funzioni ai Comuni dovrà, in base al dettato costituzionale, radicarsi in esigenze di «esercizio unitario», valutate sulla base dei citati principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza. 5. Il precedente assetto costituzionale ed il superamento del «principio del parallelismo» Il previgente testo dell’art. 118 Cost. incentrava l’attribuzione delle funzioni amministrative sul c.d. principio del “parallelismo”, in base al quale alla potestà legislativa in taluna materia, si accompagnava la titolarità delle funzioni amministrative nella materia medesima. Più dettagliatamente, il previgente assetto istituzionale, come delineato nel precedente titolo V della Cost., prevedeva che: - nelle materie oggetto di potestà legislativa delle Regioni (legislazione concorrente, come delineata dall’art. 117 vecchio testo), spettavano alle Regioni stesse anche le funzioni amministrative. Emergeva perciò la scelta del Costituente di istituire un inscindibile nesso tra competenza legislativa, da un lato, e funzione amministrativa, dall’altro. - Il previgente art. 118 faceva comunque salva la possibilità di attribuzione con leggi della Repubblica, a Province, Comuni od altri enti locali, delle funzioni inerenti materie di interesse esclusivamente locale.

49 L’espressione è di G. D’AURIA, in Foro it., 2001.

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- Era inoltre fatta salva la possibilità di delega dallo Stato alle Regioni, con legge dello Stato, dell’esercizio di altre funzioni amministrative, anche, dunque, in materie non oggetto di competenza legislativa regionale. - Infine, il dettato costituzionale (art. 118 ult. comma, vecchio testo) prevedeva come il normale esercizio delle funzioni spettanti alle Regioni, avvenisse attraverso delega a Province, Comuni od altri enti locali, o valendosi dei loro uffici. Pur nel riconoscimento, operato con tale previsione, del ruolo degli enti locali (riconoscimento peraltro disatteso nella prassi amministrativa, che ha visto scarso ricorso a tale meccanismo di normale esercizio di funzioni, relegato piuttosto nell’eccezione), è necessario sottolineare come la delega costituzionalmente prevista operava sul mero piano dell’esercizio di funzioni, lasciando immutata la loro titolarità, in capo alle Regioni. Come accennato, tale assetto istituzionale risulta oggi profondamente mutato, alla luce di modifiche così sintetizzabili: 1) Superamento del cd. principio del parallelismo; 2) Trasformazione di quella che era mera facoltà di attribuzione di funzioni – rectius: di delega all’esercizio delle stesse- agli enti locali, in un obbligo di attribuzione delle funzioni amministrative ai Comuni, salvo l’esistenza di ragioni di esercizio unitario che giustifichino la permanenza delle funzioni stesse in capo a Province, Città metropolitane, Regioni, Stato; 3) L’attuale attribuzione di funzioni agli enti locali, dunque, si iscrive non già nel quadro di una delega, bensì comporta l’assunzione, per Comuni, ma anche per Province e Città metropolitane, di titolarità delle funzioni stesse. 6. la distinzione tra funzioni proprie e funzioni conferite Il nuovo art. 118 Cost. individua due categorie di funzioni, di cui Comuni, Province e Città metropolitane siano titolari: le funzioni amministrative proprie, e quelle conferite con legge statale o regionale. (i) funzioni proprie La categoria delle funzioni proprie appare di difficile individuazione concreta: il legislatore della riforma del Titolo V della Costituzione tace, difatti, ogni elemento indicativo in materia, rimandando all’interprete ogni valutazione in tema. Le difficoltà interpretative permangono, in considerazione del dettato dell’art. 117 Cost, lett. p), dove il legislatore della Riforma ha inserito, tra le materie oggetto di competenza legislativa esclusiva dello Stato, anche le «funzioni fondamentali di Comuni, Province, Città metropolitane». Risulta dunque opportuno chiedersi se funzioni proprie - cui, in via interpretativa, deve riconoscersi un qualche carattere di essenzialità a livello locale – e funzioni fondamentali – cui lo stesso carattere non potrebbe negarsi – in definitiva siano da considerare categorie coincidenti. In tal caso, se si riconoscesse tale coincidenza, la normativa costituzionale apparirebbe contraddittoria, laddove si afferma da un lato la titolarità, in capo agli enti locali, di funzioni proprie, quasi “ontologicamente” loro spettanti, e perciò distinte dalle funzioni conferite; e poi si affida l’individuazione di tali funzioni “proprie” ad altro soggetto istituzionale, lo Stato, attraverso la propria legislazione esclusiva. Tuttavia secondo la tesi prevalente le funzioni “fondamentali” e le funzioni “proprie” sarebbero la stessa cosa. (ii) funzioni conferite Il conferimento di tale seconda categoria di funzioni avviene con legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze. Tuttavia anche tale terminologia è ambigua, non risultando chiara la distinzione tra funzioni fondamentali, proprie e conferite. L’analisi del dettato costituzionale induce in definitiva a ritenere che spetti tuttora a scelte discrezionali dello Stato e delle Regioni l’individuazione delle funzioni da intestare agli enti locali. Risulta in tal senso ipotizzabile il sorgere di controversie tra enti locali, Stato e Regioni, circa le future scelte di allocazione delle funzioni da questi ultimi operate: ciò sia nel senso di una rivendicazione, da parte degli enti locali -dei Comuni in primis - di funzioni loro non attribuite, sia, viceversa, nel senso di una “ricusazione” di compiti loro assegnati, in base ai menzionati princìpi di sussidiarietà, adeguatezza e differenziazione, che determinino esigenze di «esercizio unitario» delle funzioni amministrative. In tali ipotesi di conflittualità, peraltro, gli enti locali risulterebbero però privi, rispetto agli altri soggetti istituzionali, di efficaci strumenti di tutela, non risultando loro possibile adire la Corte Costituzionale. Unica ipotesi di tutela, evincibile dalla nuova disciplina costituzionale, consiste nell’ipotizzare un azionarsi del Governo, quale “garante” delle autonomie locali, di fronte alla Consulta, attraverso promozione della questione di legittimità costituzionale, «quando ritenga che una legge regionale ecceda la competenza della Regione» (ledendo, eventualmente, le competenze degli enti locali)(art. 127 nuovo testo). 7. La legislazione ordinaria in materia di funzioni: il decr. legislativo 112/1998.

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La materia delle funzioni amministrative risultava già interessata, anteriormente alla modifica del titolo V delle Costituzione, da un processo di profonda riforma, iniziato con la l. 142 / 1990 (legge sulle autonomie locali), e proseguita sino alla l. 59/1997 (ed ai decreti legislativi a questa seguiti), con la quale si è dato avvio al c.d. terzo decentramento amministrativo, rovesciando il rapporto tra “centro” e “periferia” nella distribuzione delle funzioni amministrative. Tale rovesciamento, che ha visto un radicale ridimensionamento del ruolo dello Stato, in favore di Regioni ed enti locali, risulta reso operativo con decr. lgs. 31 marzo 1998, n. 112, recante “Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59”. Con tale decreto, si è operato il consistente trasferimento delle funzioni di amministrazione a Regioni, Comuni, Province e Città metropolitane, residuando in capo allo Stato i soli compiti tassativamente previsti dalle norme del decreto in ciascuna materia trattata. In via residuale, il decreto riconosce allo Stato poteri di indirizzo e coordinamento (art. 4 decr. 112), e poteri sostitutivi, esercitabili in casi di accertata inattività dell’ente titolare delle funzioni, in presenza di determinati requisiti ed attraverso apposito procedimento (art. 5 decr. 112). 8. l’istruzione scolastica nel decr. 112/98. Il titolo IV (Servizi alla persona e alla Comunità), Capo III, del decreto 112/98, disciplina in modo specifico il conferimento delle funzioni amministrative a Regioni ed enti locali in materia di istruzione scolastica. Oggetto specifico di tale conferimento risulta la «programmazione e gestione amministrativa del servizio scolastico», fatto salvo il trasferimento di compiti alle istituzioni scolastiche come previsto dall’art. 21 della legge 59/97. Il legislatore definisce «programmazione e gestione amministrativa del servizio scolastico», come «l’insieme delle funzioni e dei compiti volti a consentire la concreta e continua erogazione del servizio di istruzione» (art. 136 comma 1, decr.112), fornendo il contenuto definitorio del concetto di funzione, per la materia dell’istruzione scolastica. In base alla lettera del decreto (art. 137 decr. 112), risultano permanere in capo allo Stato i compiti e le funzioni concernenti: a) criteri e parametri per l’organizzazione della rete scolastica b) valutazione del sistema scolastico c) determinazione e assegnazione delle risorse finanziarie a carico del bilancio dello Stato e del personale delle istituzioni scolastiche d) conservatori di musica, accademie di belle arti, istituti superiori per le industrie artistiche, accademia nazionale di arte drammatica, nonché di danza, scuole ed istituzioni culturali straniere in Italia (categorie escluse, dunque, dal processo di conferimento agli enti locali). Risultano invece delegate alle Regioni le funzioni amministrative: a) di programmazione dell’offerta formativa integrata tra istruzione e formazione professionale; b) di programmazione della rete scolastica a livello regionale (nei limiti delle risorse umane e finanziarie, ed in coordinamento con la programmazione con l’offerta formativa integrata di cui alle lett. precedente); c) di suddivisione, anche sulla base delle proposte degli enti locali interessati, del territorio regionale in ambiti territoriali funzionali ad una migliore offerta formativa; d) di determinazione del calendario scolastico; e) dei contributi alle scuole non statali; f) di attività di promozione nelle materie oggetto delle funzioni conferite; Risultano infine conferiti a Province e Comuni le funzioni in materia di: a) istituzione, soppressione, aggregazione, fusione di scuole, in attuazione degli strumenti di programmazione; b) redazione dei piani di organizzazione della rete di istituzioni scolastiche; c) supporto organizzativo, per prestazione del servizio di istruzione a portatori di handicap; d) piano di utilizzazione degli edifici e delle attrezzature, in accordo con le istituzioni scolastiche; e) sospensione delle lezioni in casi urgenti; g) costituzione e controllo sugli organi collegiali scolastici a livello territoriale. La ripartizione interna di tale ultimo blocco di funzioni tra Province e Comuni, vede le prime competenti in relazione all’istruzione secondaria superiore, i secondi, invece, competenti relativamente ai gradi di scuola inferiori. ********************* La riforma costituzionale non lascia immutato tale quadro di allocazione. Si profilano, difatti, una serie di dubbi circa la conformità al nuovo testo costituzionale di tali previsioni legislative, gerarchicamente subordinate, in quanto fonti ordinarie, alle previsioni contenute in Costituzione.

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In particolare, sorgono dubbi circa le seguenti questioni: - la stessa dicitura del decreto legislativo, art. 138, rubricato “deleghe alle Regioni”, appare attualmente dicitura impropria. Il concetto di delega, che si attagliava nello schema del decreto al vecchio art. 118 Cost. comma 2, mal si concilia con la attuale formulazione dell’art. 118 Cost., e con l’intero piano di redistribuzione delle competenze delineato dalla l. Cost. 3/2001. Nell’attuale assetto istituzionale, infatti, le Regioni risultano non già destinatarie di deleghe funzionali da parte dello Stato, quanto esse stesse soggetto istituzionale che conferisce agli enti locali funzioni amministrative (non più soggetto “passivo” della delega, bensì soggetto “attivo” del conferimento). Inoltre, laddove le Regioni svolgano funzioni amministrative, tale esercizio avviene non già a titolo di delega all’esercizio (come era in passato), bensì in forza della titolarità, in capo all’ente regionale, delle funzioni stesse, sulla base di esigenze di «esercizio unitario» che non permettano l’attribuzione ai Comuni (art. 118, Cost., comma 1). - la disciplina del trasferimento di funzioni a Province e Comuni (art. 139 decr. 112) risulta difficilmente conciliabile con le nuove norme costituzionali. In primo luogo, l’attribuzione di competenze amministrative a Comuni e Province avviene, nel decreto legislativo 112, «ai sensi dell’art. 128 Cost.». Tale disposizione costituzionale risulta tuttavia attualmente soppressa, e con essa la centralità del soggetto istituzionale Stato, invece fortemente ridimensionata dalla riforma costituzionale. - Per quanto attiene ai profili contenutistici della distribuzione di funzioni amministrative, come delineata nel decreto legislativo del 1998, egualmente potrebbero venire sollevate questioni di compatibilità con la nuova disciplina costituzionale. Province e Comuni risultano, nel decreto 112/98, “equiparati” sotto il profilo dei compiti amministrativi; il nuovo art. 118 Cost., appare invece sottolineare, nel comma primo, una centralità dei Comuni, rispetto agli altri enti locali, quanto ad attribuzione delle funzioni. Sotto il profilo contenutistico, inoltre, il decr. lgs. 112/98 riserva ampio spazio alle Regioni, quanto ad esercizio delle funzioni amministrative. L’importanza del ruolo rivestito, nell’amministrazione dell’istruzione, dalle Regioni, nel quadro del decreto, emerge ad una analisi qualitativa dei compiti regionali: basti pensare ai compiti di programmazione (lett. a) e b) art. 138 decr.), al tema dei contributi alle scuole non statali, alla suddivisione del territorio in ambiti funzionali strumentali al miglioramento dell’offerta formativa (art. 138 decr). La centralità dei Comuni, come delineata dal nuovo art. 118 Cost., emerge, nel quadro del decreto 112, in maniera attenuata rispetto al testo costituzionale. Appare tuttavia necessario osservare come la materia dell’istruzione scolastica, per la sua natura di servizio fondamentale, e di diritto di ogni cittadino (art. 34 Cost.), manifesti quelle esigenze di «esercizio unitario», che giustificherebbero, ai sensi del nuovo art. 118 Cost., un mantenimento in capo a Stato e Regioni di funzioni amministrative di particolare rilevanza (determinazioni di programmazioni essenziali; la stessa razionalizzazione della rete scolastica, difficilmente realizzabile a livello esclusivamente comunale). ******************** In conclusione, la normativa del decreto legislativo n. 112/98, in materia di distribuzione di funzioni per l’istruzione scolastica, pone fondati dubbi di conformità alla nuova disciplina costituzionale. Per tale ragione, risulta ipotizzabile una futura sottoposizione, dinanzi la Corte costituzionale, di questione di legittimità costituzionale, avente ad oggetto le norme del decreto esaminate, salvo il previo intervento del legislatore ordinario nel senso di un “riallineamento” della disciplina ordinaria al mutato assetto istituzionale. 9. L’autonomia finanziaria e la potestà’ regolamentare degli enti destinatari di funzioni. L’attribuzione di funzioni, da parte di Stato o Regioni, agli enti locali, comporterà la predisposizione, presso i nuovi soggetti istituzionali destinatari delle funzioni, della dotazione finanziaria necessaria all’esercizio dell’amministrazione. A tale proposito, l’art. 119 nuovo testo Cost. stabilisce l’autonomia finanziaria e patrimoniale di Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni. In tal senso, tali enti risultano investiti di capacità impositiva (applicazione di tributi ed entrate propri), «al fine di finanziare integralmente le funzioni loro attribuite». Enti locali e Regioni risultano altresì possibili beneficiari di «risorse aggiuntive» e di «interventi speciali» destinati dallo Stato, al fine di promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, la rimozione di squilibri economici e sociali. Un «fondo perequativo» è istituito con legge dello Stato, a favore dei territori con minore capacità fiscale per abitante (art. 119 Cost. nuovo testo). Tali ultime previsioni costituzionali evidenziano, anche vigente il nuovo quadro istituzionale delineato dalla riforma, la persistenza di un ruolo dello Stato, quale garante dell’effettiva realizzabilità delle funzioni amministrative differentemente attribuite.

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Ciò trova conferma anche nella disposizione del nuovo art. 120 Cost, comma secondo, ove si prevede che il Governo possa sostituirsi ad organi delle Regioni, delle Città metropolitane, delle Province e dei Comuni, in caso –tra gli altri- di tutela dell’unità giuridica ed economica, particolarmente ai fini della tutela dei livelli essenziali di prestazioni concernenti i diritti civili e sociali. Tale previsione risulta suscettibile di applicazione in materia di esercizio di compiti amministrativi per l’istruzione scolastica, in ragione del carattere dell’istruzione di diritto civile e sociale (art. 34 Cost). Per l’attivarsi di tale meccanismo di garanzia, risulta tuttavia necessario l’intervento del legislatore ordinario, che disciplini procedure conformi ai princìpi di sussidiarietà e di leale collaborazione (art. 120 Cost, ult. comma), ed affronti la materia dei controlli – evidentemente postulati da qualunque “intervento statale”- del tutto assente nel testo costituzionale riformato. ********* Corollario ulteriore di tale conferimento di funzioni agli enti locali, consiste nella contestuale attribuzione a Comuni, Province e Città metropolitane della «potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite» (art. 117, comma 6). In materia di istruzione, è prevedibile dunque la futura adozione, da parte degli enti locali, di atti regolamentari che disciplinino nel dettaglio le tipologie di funzioni, nonché le concrete modalità del loro esercizio. 10. Sussidiarietà’ orizzontale e verticale L’art. 118 Cost. nuovo testo prevede, al comma terzo, che la legge statale disciplini forme di coordinamento fra Stato e Regioni, in determinate materie (immigrazione, ordine pubblico e sicurezza, tutela dei beni culturali), per quanto attiene evidentemente l’esercizio delle funzioni amministrative. La disposizione è espressione del principio di sussidiarietà, in base al quale i compiti di gestione amministrativa della cosa pubblica devono essere affidati alla struttura più vicina alla cittadinanza (dunque all’ente locale), lasciando alle strutture amministrative sovraordinate le sole funzioni che, per loro natura, non possono essere svolte localmente. In particolare, l’art. 118 comma 3, parte prima, risulta applicazione della c.d. sussidiarietà verticale, regolativa dei rapporti enti locali/Governo, il cui intervento si renda necessario per ragioni di garanzia di organicità d’esercizio delle funzioni. Manca tra le materie in tal senso indicate, l’istruzione scolastica. La scelta così operata dal legislatore costituzionale pone in evidenza il rischio circa il verificarsi di disomogeneità di programmazione ed esercizio dei compiti amministrativi. Resta salvo, tuttavia, il potere di intervento e sostituzione del Governo, ai sensi dell’art. 120 comma 2 nuovo testo, già esaminato (per finalità di tutela di unità giuridica e di prestazioni concernenti diritti civili e sociali). Emerge perciò la discrasia tra una scelta del riformatore costituzionale che, sul piano della potestà legislativa, si sforza di ancorare le norme generali sull’istruzione nelle mani esclusive dello Stato, e poi, invece, sul piano delle funzioni, tralascia la materia scolastica, non consentendo allo Stato una legislazione (preventiva) di raccordo (fatto salvo il potere, meramente successivo, di sostituzione ex art. 120). Sotto altro profilo, la disposizione costituzionale aggiunge che Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’iniziativa autonoma dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale (art. 118, comma 3, ult. parte)” sulla base del principio di sussidiarietà”. Si tratta della c.d. sussidiarietà orizzontale, inerente l’associazione all’esercizio delle funzioni, principio che potrà rivelarsi di ampia portata applicativa in materia di organizzazione, gestione e programmazione scolastica.

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CAPITOLO 1: SEMPLIFICAZIONE AMMINISTRATIVA: DEFINIZIONE E CRITERI GENERALI 1. Caratteri generali 2. La semplificazione del procedimento amministrativo 3. La conferenza dei servizi 4. Gli accordi 5. I pareri 6. La semplificazione dei procedimenti amministrativi 7. La semplificazione dei rapporti tra p.a. e cittadino 8. L'autocertificazione 9. La riduzione degli adempimenti amministrativi e gli interventi sulle certificazioni 10. La Rete unitaria della p.a. (R.U.P.A.) 11. La legge 15 marzo 1997, n. 59 12. I problemi della delegificazione. Possibili soluzioni. La codificazione. 13. Considerazioni generali CAPITOLO 2: LA SEMPLIFICAZIONE AMMINISTRATIVA DELINEATA DALLA LEGGE 241/1990 E L'AMMINISTRAZIONE SCOLASTICA 1. Considerazioni generali sulla legge 241 2. Analisi dei principi della legge 241: - la conclusione esplicita del procedimento e i tempi massimi di chiusura dei procedimenti dell'amministrazione scolastica: il d.m. 6 aprile 1995 n.190 - La tempestività dell'azione amministrativa: altri istituti rilevanti - la motivazione degli atti - il responsabile del procedimento - la comunicazione di avvio di procedimento e la partecipazione all'istruttoria 3. Il diritto di accesso: nozione e finalità 4. Gli atti sottratti all'accesso presso l'amministrazione scolastica: il d.m. 10 gennaio 1996 n.60 5. I rapporti con la legge 675 del 1996 sulla privacy 6. Diniego di accesso e tutela giurisdizionale CAPITOLO 3: STUDI SULLA LEGGE 59/1997 1. Nozione "storica" di delegificazione 2 Il problema del rapporto tra legge e regolamento nella funzione di organizzazione in una prospettiva storica. 3 Excursus storico della "Delegificazione" dalla fine degli anni ‘70 sino alla legge n. 400/88 4 Casi di delegificazione successivi alla legge n. 400/88 5. Crisi della legge e delegificazione 6. La delegificazione nella legge n. 59/1997 7. L’analisi della previsione normativa 8. La responsabilizzazione dei centri decisionali 9. Alcune considerazioni conclusive CAPITOLO 4: LA RIFORMA DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE. L'AMMINISTRAZIONE SCOLASTICA 1. Il federalismo amministrativo e il d. lvo 31 marzo 1998 n. 112 2. La riforma dell'organizzazione del governo 3. Il Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca 4. Cenni sulla riforma della pubblica amministrazione. 5. Le conseguenze della riforma sul sistema scolastico 6. La riforma dell'amministrazione della pubblica istruzione 7. L'articolazione del Ministero della Pubblica Istruzione 8. La Direzione Generale Regionale 9. Gli Uffici Scolastici Regionali Sperimentali: l'utile esperienza della Lombardia 10. La Riforma del CEDE, della BDP e degli IRRSAE

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11. L'autonomia scolastica. 12. L'autonomia didattica delle istituzioni scolastiche. 13. L'autonomia organizzativa delle istituzioni scolastiche 14. Il Piano dell'Offerta Formativa (P.O.F.) e le funzioni obiettivo 15. L'autonomia finanziaria delle istituzioni scolastiche 16. Il collegio dei revisori dei conti 17. La capacità negoziale 18. Il consegnatario dei beni 19. Disciplina della qualifica dirigenziale dei capi d'istituto 20. Dirigenti delle istituzioni scolastiche 22. La razionalizzazione della rete scolastica (d.P.R. 18 giugno 1998 n. 233) 23. La riforma dei cicli (legge 10 febbraio 2000 n.30) 24. La riforma degli organi collegiali esterni alla scuola (d.lvo 30 giugno 1999 n. 233: "Riforma degli Organi collegiali territoriali") 25. I Consigli Scolastici Locali 26. Il Consiglio Regionale dell'Istruzione 27. Il Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione CAPITOLO 5: IL NUOVO TITOLO V DELLA COSTITUZIONE 1. Legislazione statale e regionale in materia di istruzione secondo la legge 3/2001 2. la legge costituzionale 2001 n.3: le modifiche al titolo V della Costituzione 3. Le competenze legislative in materia di istruzione 4. La riforma del Titolo V della Costituzione in materia di funzioni amministrative. 5. Il precedente assetto costituzionale ed il superamento del «principio del parallelismo» 6. la distinzione tra funzioni proprie e funzioni conferite34. La legislazione ordinaria in materia di funzioni: il decr. legislativo 112/1998. 7. La legislazione ordinaria in materia di funzioni: il decr. legislativo 112/1998. 8. l’istruzione scolastica nel decr. 112/98. 9. L’autonomia finanziaria e la potestà’ regolamentare degli enti destinatari di funzioni. 10. Sussidiarietà orizzontale e verticale. APPENDICE