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TRASH POLITICO> Quando il cinema è

In sette terrorizzati da un pettirosso+I bei tomi antichi+Il terzo paradiso+Illuminazionit:Venezia incontra l'arte=?

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4Sommario

Trash politico pg 4In sette terrorizzati da un pettirosso pg 10I bei tomi antichi pg 18Il terzo paradiso pg 22Illuminazioni pg 24Incipit & Explicit pg 30EyesWideShut pg 32Heartbit pg 34Speaker's corner pg 36

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uando si pensa al cinema po-litico, quelli con qualche pri-mavera in più sulle spalle non possono fare a meno di pensa-

re al grandissimo passato italiano con i vari Elio Petri (“La classe operaia va in paradiso"), Francesco Rosi (“Il caso Mat-tei”) e compagnia cantando. I più giovin-celli avranno, invece, ancora fresco nella mente il ricordo de il caimano-Berlusco-ni o il divo-Andreotti.Ma se con tutta probabilità, negli anni 70 come oggi, il pubblico dei meravi-gliosi film appena citati è composto da persone che hanno una ben formata co-scienza politica e che (solo come con-seguenza) per questa loro formazione vanno a vedere i cosiddetti film politici; allora si potrebbe dire che le tesi pero-

rate da questi film andranno facilmente a confermare quelli del pubblico che li va a vedere. Credo che la classe politi-ca e i vertici militari della prima guerra mondiale abbiano operato per sfruttare il proletariato e utilizzarlo come carne da macello al fronte per interessi particolari interni alla casta? Allora vado a veder-mi “Uomini contro” e ne esco ancora più convinto.Credo che Berlusconi abbia traviato il paese attraverso le sue televisioni e sia diventato potente grazie ad operazioni finanziarie poco limpide? Vado a vedermi “Il Caimano” e ne esco rinfrancato.Bene. Ma, ribadendo il valore cinemato-graficamente eccelso di tutti i film di cui si leggono i titoli in queste righe, quanto è politicamente efficace questo (ma an-

che quello di Ken Loach, tanto per sca-valcare Alpi e Manica) cinema politico?A mio parere meno di quanto efficaci si-ano film di genere (se non trash) come “Starship Troopers - Fanteria dello spa-zio” (Paul Verhoeven, 1997); “La terra dei morti viventi” (G. A. Romero, 2005) o del recentissimo “Machete” (Robert Ro-driguez, 2010). Tre film che, tra spruzza-te di sangue ad ogni piè sospinto e un po' di mostri e zombi qua e là, nascon-dono (ma neanche tanto) un messaggio politico che magari non è compiutissimo, ma sicuramente colpisce. E soprattutto colpisce (ferisce) un pubblico che non se lo aspettava (e magari non lo voleva) e che finisce per portarsi a casa i segni di questo messaggio.

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Ovvero: quando il cinema di genere (magari con una spruzzata rosso sangue di trash) è più politico del cinema-politico.

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Starship Troopers

Partiamo dal meno recente dei tre: Starship Troopers. In un futuro non lon-tanissimo, il pianeta Terra viene colpito da un attacco galattico da parte di alie-ni molto simili a ragni giganteschi. Per combattere e distruggere la minaccia aracnide, la fanteria dello spazio sbarca nel pianeta alieno e stermina, tra storie d'amore, amputazioni e squartamenti vari, i mostri cattivi. Questa la trama in soldoni. Ma prima, ovviamente, c'è un “prima”: sappiamo che la Terra degli uo-mini è, tutta, tenuta sotto una dittatura militare (un caso che il personaggio pro-

tagonista sia argentino?) che vive di vio-lenza e propaganda (e che ipocritamen-te censura le immagini truculente chepassa nei suoi spot televisivi). Qui per acquisire diritti civili per noi imprescindi-bili, come il diritto di voto, è necessario arruolarsi nell'esercito. Questo incipit, te-nuto in sottofondo anche nelle più pure e cruente scene di battaglia, mostra le conseguenze (la mancanza di diritti e la violenza insita) di un regime totalitario e fascista. Il regista olandese Paul Verhoeven ha affermato di essersi ispirato agli Stati Uniti, considerati come un paese milita-rizzato fino all'osso alla continua ricerca di un nemico da distruggere, magari con

il sacrificio necessario di quella fascia di popolazione meno istruita e più influen-zabile (da dire che era il 1997, pratica-mente un lustro prima della guerra in Afganistan post 11 settembre).Si sia o meno d'accordo con Verhoeven, è evidente che anche nello spettatore più superficiale, complici scene gratuita-mente cruente o nudi completi improvvi-si che senza dubbio colpiscono, qualche domanda sorge. Ma è davvero necessa-ria questa violenza? C'è un collegamento tra il potere che hanno i militari e la ne-cessità di una guerra? La risposta, come ovvio, è dello spettatore, ma la domanda è del/nel film.

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Land of the dead

Altro film, ma stesso messaggio, è quello di George Romero “La terra dei morti viventi” in cui avviene lo scontro tra la “civiltà” dei ricchi appro-fittatori, rinchiusi nelle loro torri d'avorio tra mura di contenimento e forze militari a difesa della loro sicurezza, e il popolo degli zombie derubato e vilipeso. Anche qui il riferimento è alla politica nazionale e soprattutto internazionale degli Stati Uniti, tra globalizzazione e neocoloniali-smo, temi cari da almeno 30 anni al ci-nema Romero (il quale, ma sarà anche questo un caso, è di padre cubano). Qui il messaggio critico nei confronti delle società opulente (USA in primis) è stra-evidente, ma la sua efficacia politica non sta tanto nel messaggio, bensì nella ca-pacità di passare il messaggio attraverso una pellicola di genere (horror) piena di “entertainment” che ha, ontologicamen-te, un vasto audience tra gli adolescenti e i giovani adulti che film come “Hotel Rwanda” (sulle responsabilità dell'Oc-cidente nella guerra civile ruandese) o “Blood diamond” (su quanto sporchi di sangue siano i diamanti che troviamo nelle gioiellerie di tutto il mondo) non avranno mai.

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ni e modi che facilmente si potrebbero sentire in qualche raduno o comizio dei gruppi politici xenofobi che tanto suc-cesso stanno avendo in Europa (vedi in Danimarca) e anche in Italia: immigrati definiti come parassiti, vermi, terroristi che, con il loro sconfinamento, fanno un'implicita dichiarazione di guerra al paese “ospitante” il quale è, di conse-guenza, legittimato a rispondere con mezzi estremi (e il senatore decide di ri-spondere a fucilate per esempio).Ecco, la critica del film verso questa po-litica e verso questi personaggi non sarà sicuramente raffinata, ma di certo è pa-lese ed esplicita. E poi, quanti tra quelli che simpatizzano per posizioni xenofo-be andrebbero a vedere un film di Ken Loach (magari uno sull'amore tra un pakistano e un'irlandese in Scozia come succede in “Un bacio appassionato”), e quanti invece andranno a vedere un film come “Machete”?

Machete

Concludiamo con il film più trash dei tre: “Machete” del texano (la terra di frontie-ra che più terra di frontiera non si può) dal cognome molto messicano Robert Rodriguez. Al centro della vicenda c'è una storia di vendetta. Un operaio mes-sicano, Machete appunto, immigrato clandestino negli USA, viene coinvolto in un complotto per uccidere, duran-te un comizio, un senatore xenofobo il quale si diverte ad uccidere gli immigrati messicani che tentano di introdursi ille-galmente nel “suo” paese. In realtà l'at-tentato è organizzato da uno scagnozzo del senatore il quale vuole far accusare l'immigrato Machete del tentato omicidio (infatti l'attentato fallirà) e portare così una caterva di voti al senatore razzista sfruttando l'odio nei confronti del “crimi-nale” clandestino.Il senatore, interpretato da Robert De Niro, utilizza, nei suoi comizi, espressio-

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Ok, non è che ora si sta affermando che se qualcuno va a vedere “Machete” diven-ta, poi, un paladino dei diritti umani. Non è questo l'obiettivo del film e, soprattutto, non è compito del cinema. Ma se all'in-terno di un prodotto (perché di questo stiamo parlando) di puro intrattenimento si trova qualche messaggio politico (più o meno profondo), questo potrebbe avere un effetto su chi certe questioni magari, al solito, nemmeno se le pone e che si ri-trova, invece e forse inaspettatamente, in un film che lui ha scelto e da cui si aspet-tava di trovare solamente l'esaudimento di quel che, in principio, andava cercando: l'intrattenimento. E credo che questo sia, soprattutto in riferimento ad un pubblico giovane e disinteressato, uno strumento efficace per trattare (non imporre) certe questioni.In fondo, spostando (anche se non di mol-to) il tiro, in un cineforum per adolescenti sul tema dell'Olocausto fareste vedere il drammatico e, ahimé, super realistico ca-polavoro di Steven Spielberg “Schindler's List” o un meno complesso e a tratti mol-to divertente “La vita è bella”? Quale dei due lascerebbe qualcosa ai ragazzi?

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enire a contatto con le opere di Enrico Mitrovich significa dover fare i conti con alcune qualità assai rare in un mondo (quello

dell'arte contemporanea) normalmen-te impegnato a prendersi terribilmente sul serio: l'ironia, l'umorismo sottile e lo sberleffo sembrano rivolti al fruitore dell'opera tutto preso e pensoso di fron-te a tele che “essendo arte” non posso-no che ispirare serissime e meditatis-sime riflessioni. Enrico ci guida invece, attraverso un uso intelligente dei titoli, ad una lettura “sovversiva” della realtà così come “appare”, andando a colpire soprattutto la vanagloria di un mondo che si arresta spaventato di fronte ad un pettirosso o a irridere il severo scrutare dei raggi X che rivelano un orsacchiotto nel bagaglio di un bambino. Affascinato

Alberto FabrisSoundtrack:

Autobahn- KraftwerkThanks to Luca Illetterati

Vdall'immagine fotografica Mitrovich non si accontenta di collezionarla e ripropor-la come percorso della memoria, spesso invece è proprio l'immagine a spinger-lo verso una reinterpretazione dei det-tagli del mondo, vendicando in qualche modo la pittura messa all'angolo dalla fotografia e spinta ai margini estremi del concettuale per usarla come fonte ermeneutica, come ribaltamento del “fal-so” fotografico nell'autentico pittorico. Mitrovich ci invita con la sua intelligenza mite e leggera a riflettere sulle parole di Richard Bandler: “Se siete seri siete bloccati. L'umorismo è la via più rapida per invertire questo processo. Se potete ridere di una cosa, potete anche cam-biarla.”

in sette

Terrorizzati da un pettirosso

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in sette

Terrorizzati da un pettirosso

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Parlare di Enrico Mitrovich vuol dire parlare anche di Officina, centro d'iniziative cultu-rali che spaziano dagli allestimenti d'arte ai concerti, dalla poesia alla pittura, dall'incisio-ne alla stampa raffinatissima di piccole pub-blicazioni con vecchi macchinari e caratteri mobili raccolti nel tempo e riproposti come sopravvivenza di una qualità e bellezza tipo-grafiche, fatta di lavoro e manualità, ormai perdute. Officina si trova a Vicenza in Contrà Carpagnon al numero 17, in una ex fabbrica di scarpe, 300 metri quadrati di tavoli sedie tele macchine libri colori lastre, in un caos tipicamente da 'fabrica' luogo di attività e d'incontro che ha visto il passaggio e la col-laborazione di poeti e artisti come Guy Gof-fette, Yves Bonnefoy, Chris Fallace-Crabbe, Fernando Bandini, Alberto Casiraghi, Achille Bonito Oliva, Guido Giuffrè.

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Enrico Mitrovich a Bassano il 21 maggio inaugura Atelier MoMo.Ore 18,00. Cocktail con mostra dei suoi lavori,

Per chi avesse l’occasione di passare questo è l’indirizzo:via Scalabrini, 76 Bassano

Atelier di Monica Monta

Il balzo compiuto dal ghepardo per superare un ca-pitello ionico(la cui texture ricorda il design postmo-derno) si svolge in un contesto artificiale, enfatizzato dalla presenza di neon*che riproducono la sequenza dei numeri Fibonacci (dal nome del matematico pi-sano del Trecento Leonardo Fibonacci, che li for-malizzò per descrivere la crescita riproduttiva di una coppia di conigli in cattività).Nella composizione di questo quadro ho cercato di seguire le riflessioni del pittore inglese Francis Bacon: “Vogliamo qual-cosa di nuovo. Non un realismo illustrativo, ma un realismo che scaturisca dall’invenzione di un modo effettivamente nuovo di bloccare la realtà in qualco-sa di completamente arbitrario”.

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cerco il pelo nell’uovo paolo parisi

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www.paoloparisi.it

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el mondo della cultura ci sono spesso dogmi incrollabili e con-tro cui è parecchio difficile lot-tare: gli impressionisti sono dei

geni assoluti, la tragedia greca è insuperabi-le, l’opera italiana non ha nulla a che vedere con le altri nazioni, il cinema giapponese in-comprensibile…Molti di questi dogmi, che spesso ci si vede bene dal criticare per non risultare esclusi da un certo ambito di riconoscimento intellet-tuale, sono anche perfettamente ragionevoli e meritori. Sono allo stesso tempo piuttosto astratti: uno può ritenere l’espressionismo russo migliore dell’impressionismo france-se, bluffare dicendo il contrario e continuare in pace la propria vita. Ci sono altri obblighi assoluti e intoccabili, invece, soprattutto nel

sistema scolastico su cui sembra non poter-si sollevare il minimo dubbio senza poi sca-tenare polemiche sbrodolose.Sì, ce l’ho coi Promessi Sposi che, a parte un giudizio prettamente personale dell’auto-re qui che li ritiene un romanzo dalla linea-rità discutibile e dall’impianto provvidenzia-le piuttosto irrealistico (altro che romanzo storico), sono imposti ormai da decenni allo studio dei ragazzini dei primi anni delle su-periori. Un altro obbligo simile c’è per la Di-vina Commedia negli anni successivi, ma lì l’intoccabilità è di ben altri livelli.Siamo chiari: un’opera come quella di Man-zoni è fondamentale per varie ragioni nel-la storia letteraria italiana, se non altro per evidenti meriti di uniformazione linguistica (l’italiano che parliamo adesso l’hanno fatto

Manzoni e la Rai, fondamentalmente). Certo che, dopo anni di imperterrita e spietata ino-culazione dei Promessi Sposi – per gli amici PS – a tre-quattordicenni, vieni da chiedersi se effettivamente sia il caso. I risultati di tale operazione narrativa sono variabili ma col-legati: avversione totale per i PS che dura tutta la vita, abbandono autoimposto del genere prosastico per gettarsi su qualsiasi poesia basta-che-vada-a-capo-ogni-riga, odio generico e diffuso per qualsiasi tipo di lettura ecc.Bisogna affrontare la dura realtà: i PS sono un romanzo complesso, denso, dalla sintassi estenuante e dalla trama puritana e sconta-tamente a lieto fine. Somministrare un tomo del genere a ragazzini che a malapena tolle-rano di arrivare in fondo alla lista del menù in

Paolo Armelli I bei tomiantichiN

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I bei tomiantichi

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pizzeria è inutile, se non masochistico. Non scatta nemmeno più il meccanismo che in letteratura dovrebbe essere fondamentale: l’immedesimazione. Basta fare un confron-to: Lucia e ragazzina che guarda Gossip Girl; Renzo e bulletto anabolizzato che si spinzetta le sopracciglia; il cardinal Bor-romeo e papa Ratzinger. Insomma, i tempi son cambiati e le sensibilità letterarie pure: pretendere che i giovani conoscano e ma-gari apprezzino per forza i PS – quando una stringata ed efficiente scelta antologica col-pirebbe più nel segno – è un’idiozia, cercare oltretutto di farli appassionare di letteratura in questo modo lo è ancor di più.E che i PS avessero qualche problemino non l’han mica scoperto in tempi recenti; il poeta scapigliato di fine Ottocento Iginio Tarchet-ti affermava: “Non vi ha luogo a dubitare

che i Promessi Sposi sieno finora il miglio-re romanzo italiano, ma non occorre dimo-strare come esso non sia che un mediocre romanzo in confronto dei capolavori delle altre nazioni.” Intorno alle date dei PS (dal 1827 al 1840), in Europa, escono romanzi dai sapori più intensi e dalle capacità spe-rimentali estremamente più appassionanti: Les Chouans di Balzac nel 1829, Il rosso e il nero di Stendhal nel 1830, Notre-Dame de Paris di Hugo nel 1831, Oliver Twist di Dickens nel 1837, Il sosia di Dostojevskij nel 1845 (e perfino nella giovanissima Ameri-ca bastano pochi altri anni perché qualcuno scriva un romanzo monumentale: Moby Dick è del 1861).Il problema fra i romanzi dell’Ottocento in Italia non sono certamente solo i PS (che pur faranno “danni”, dopo la loro pubblica-

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zione, esaurendo in qualche modo le po-tenzialità romanzesche e costringendo a poco meritevoli imitazioni di genere e stile gli scrittori successivi). Prendete, ad esem-pio, le Confessioni di un italiano di Ippolito Nievo, scritto fra 1857 e 1858: un romanzo di mille pagine, dai capitoli infiniti, denso di eventi privati mescolati ad eventi storici, con un numero spropositato di personaggi… In-somma, una palla pazzesca (anche se con alcuni moti di spirito e di vitalità estrema-mente più rari, invece, nei PS).Non si più biasimare nessuno, comunque: la cultura italiana nell’Ottocento era provincia-le ed arretrata, impegnata a discutere que-stioni filosofiche ed estetiche che altri paesi europei avevano già digerito e rielaborato da tempo – con buona pace degli assertori della superiorità del genio italico.

Probabilmente il genere romanzesco non si sarebbe ripreso mai più, nonostante slanci di genialità sporadici, ma sempre un tono più sotto rispetto alle esperienze europee (basta confrontare D’Annunzio e Wilde, Sve-vo e Joyce…). Ciò non toglie che la letteratura italiana sia (stata) grande: il problema è se valga la pena ancora insegnarla così, andando avan-ti per preconcetti e paletti prestabiliti, o non si debba invece trasmetterne la grandezza e la varietà attraverso scelte più intelligenti e magari meno convenzionali.

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alibran: serata inaugurale della Biennale danza. In sce-na l’ultimo lavoro, in ordine di tempo, del suo curatore,

Ismael Ivo. E non è casuale il titolo “Babilo-nia – il terzo paradiso”. Un forte messaggio che il coreografo di origini brasiliane Ismael Ivo vuole offrire alla fine della sua trilogia alla Biennale Danza. Babilonia è un sogno, il desiderio di arrivare alla felicità intesa come accettazione delle differenze tra i vari mondi e le varie culture. Tutto inizia in un’atmosfera ovattata: in sce-na un unico colore non-colore, il tutto bianco dall’inizio alla fine. Una fitta nebbia attraver-so la quale venticinque danzatori si rincor-

rono, freneticamente, per poi cadere ammassati uno sull’altro, tutti eguali.

La terra, ovvero la Babilonia che rimanda all’idea di confusione,

caos, subbuglio, è invece una mescolanza di linguaggi e di culture (non a caso i danza-

Manuela de Lorenzi

tori provengono da più parti del mondo). È il luogo dove ciascuno con la propria iden-tità comunica all’altro senza prevaricazione. È il “donare” la propria esperienza e far sì che l’altro ne possa usufruire. È guardarsi allo specchio e prendere coscienza dell’al-trui diversità e farne tesoro. È il condividere, come un’ultima cena, le esperienze, e non tradire, perché solo superando uno sterile individualismo si può raggiungere la felicità. Il messaggio forte e chiaro è trasmesso at-traverso una danza fatta di movimenti, gesti e silenzi, non sempre sincronizzati con la musica, a sottolineare appunto le diversità. L’attesa di un movimento corale non viene soddisfatta, forse perché troppo scontata.

Ma forse il significato è da trovarsi pro-prio nella volontà di non omologa-

re pensieri o movimenti diversi e mantenere, nell’armonia comune, l’accettazione per potersi cono-scere.

Ismael Ivo, nato a San Paolo del Brasile, è direttore artistico del Set-tore Danza della Biennale di Venezia dal 2005. Deve la sua forma-zione alle esperienze con Alvin Ailey a New York e a Berlino con Johann Kresnik e Ushhio Amagatsu, l’artista giapponese dei Sankai Juku: tutte esperienze che si fondono con la sua naturale essenza afro-brasiliana.

Babilonia –Il terzo paradiso è un nuovo tassello ai suoi precedenti lavori realizzati per l’Arsenale Danza. Si aggiunge infatti a The

Waste Land che esprimeva la desolazione della terra mi-nacciata dalla devastazione dell’uomo e Oxygene che

parlava invece della capacità di sopravvivenza dell’uo-mo ponendo l’attenzione soprattutto sul respiro, l’at-tività più naturale e necessaria.

Il terzoparadisoM

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Il terzoparadisoIsmael Ivo è l’ideatore a Venezia dell’ Arsenale della Danza, centro di perfezionamento di danza contemporanea, giunto al suo terzo anno, nel quale vengono accolti dan-zatori da varie parti del mondo, con l’intento di creare un luogo d’incontro, di scambio e di crescita per le nuove generazioni.

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algrado sia ora più che centena-ria, il secolo se lo porta benissi-mo, anzi sembra proprio in ottima forma. Risale infatti al 30 aprile

1895 l’inaugurazione a Venezia della prima Esposizione Biennale Artistica Nazionale, più conosciuta come Biennale Arte. Istituita dall’allora giunta guidata dal sindaco Ric-cardo Selvatico, la rassegna ha attraversato nei decenni alterne vicende e tra scandali e guerre ha seguito, nella sua evoluzione, il percorso della storia d’Italia. Diretta da Bice Curiger, storica dell’arte, critica e curatrice di mostre a livello inter-nazionale, la 54ª Biennale Arte di Venezia coinvolgerà, dal 4 giugno al 27 novembre 2011, gli spazi dei Giardini e dell’Arsenale per estendersi con gli eventi collaterali all’in-

tera città.Sono 89 le partecipazioni nazionali rispetto ai 77 paesi presenti nella passata edizione Fare Mondi del 2009. Andorra, Arabia Sau-dita, Bangladesh e Haiti sono presenti per la prima volta mentre altri tra cui India, Iraq, Congo, Sudafrica tornano dopo una lunga assenza. Inoltre 37 eventi collaterali proposti da enti ed istituzioni internazionali coinvol-geranno l’intera città.È un avvenimento al quale si accompagna-no, oltre ad una certa dose di polemiche, soprattutto molte aspettative. La Biennale rappresenta lo stato dell’arte internazionale e anche per coloro che sono assolutamen-te digiuni di correnti e tendenze artistiche, nuove espressioni e ricerca, la visita degli spazi espositivi rappresenta un tuffo, ovvero

un’immersione totale in quello che verrà. Percorsi i giardini attraverso i padiglioni dei singoli paesi o gli ampi spazi dell’arsenale si esce magari con qualche perplessità ma sicuramente con l’impressione di essere parte di un mondo che cambia, con grande ricchezza di espressioni e linguaggi, e con la consapevolezza che ci sia ancora molto da dire. Una vera scossa per i cinque sen-si ed uno stimolo a guardare oltre ciò che appare, ad indagare la nostra storia e il do-mani con occhi diversi. È come un viaggio attraverso il mondo, dove la lingua parlata perde limiti e importanza perché la comu-nicazione avviene attraverso altri canali, a volte inimmaginabili. È l’arte contemporanea che superata la fase di “anti-arte” e con il recupero dei generi classici (quali pittura,

ILLUMI-nazioni

Elisabetta Badiello

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INFORMAZIONI

Venezia, Giardini – Arsenale, 4 giugno > 27 novembre 2011Orario: 10.00 - 18.00Chiuso il lunedì escluso lunedì 6 giugno e lunedì 21 novembre 2011 BiglietterieArsenale, Giardini e Ponte dei Pensieri

Come raggiungere le sedi espositiveda Piazzale Roma / Ferrovia:per Arsenale: linee ACTV 1, 41per Giardini: linee ACTV 1, 2, 41, 51, 61 solo da Piazzale Roma

scultura, fotografia e video) tende a risve-gliare il potenziale latente impegnando sem-pre di più il pubblico nel suo coinvolgimento. Quale espressione di tendenze collettive e identità frammentarie, l’arte contemporanea è fortemente radicata nell’interiorità ed è per questo che richiede una complicità sempre maggiore da parte dell’individuo/spettatore rispetto all’opera.Riguardo all’ultima Biennale “Fare mondi”, dove il curatore Daniel Birnbaum poneva l’enfasi sulla creatività costruttiva, il titolo scelto da Bice Curiger è ILLUMInazioni, con riferimento alla “luce” generata dall’incontro con l’arte. ILLUMInazione anche per il suo richiamo agli echi dell’Illuminismo, perché

rappresenta una “luce” sugli sviluppi attuali dell’arte, un’occasione di riflessione che va oltre i confini nazionali in una società svin-colata dalle singole identità, dove gli stessi artisti sono divenuti dei migranti culturali. L’arte affina la percezione, acuisce il senti-re attraverso nuove possibili esperienze. Ci parla del futuro perché è in continua evolu-zione. La biennale è forte dell’incontro con le voci del mondo, è come una luce che guida i visitatori, coloro che vi partecipano come membri della società che sta sempre più ab-bandonando i confini nazionali.Una novità è costituita anche dal criterio di scelta degli artisti presenti al Padiglione Ita-lia all’Arsenale. Il curatore Vittorio Sgarbi ha

infatti coinvolto scrittori, poeti, registi e uo-mini di pensiero (di riconosciuto prestigio in-ternazionale e volutamente non critici d’arte) chiedendo loro singolarmente di individuare, motivandone la scelta, un artista da invita-re alla Biennale. È stato così costituito un Comitato tecnico scientifico che ha scelto i 200 nomi presenti in Biennale. Il progetto, oltre ad uno spazio riservato ai 150 dell’Unità d’Italia, si completa con la presenza delle Venti Accademie di Belle Arti che hanno selezionato i loro allievi più promettenti e che saranno presenti all’espo-sizione.

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Giulia Piscitelli Lyin Faulkes

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strada statale 11, Km 33136053 Gambellara VI (Italy) [email protected]

www.lineabeta.com

Si, mi lavo la faccia e vado a dormirema quando mi sveglio sono sempre Lady Gaga.

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INCIPIT&EXPLICIT

Paolo Armelli

"Se una notte d’inverno un viag-giatore" di Italo Calvino è un libro che sorprende per tantissime ra-gioni. La principale è perché è un libro fatto di incipit.Sviluppandosi come una straordi-naria carrellata sulle potenzialità della parola e dell’inventiva, l’o-pera segue un lettore (il Lettore) alle prese con un romanzo di cui non riesce a proseguire la lettura a causa di misteriosi errori di stam-pa o problemi tipografici; la ricerca del seguito lo porterà a leggere ben dieci inizi di romanzi diversi e a trovare anche l’anima gemella: la Lettrice.Calvino dimostra la sua genialità compositiva (composizionale) già nell’incipit vero e proprio del libro, un capolavoro di allusione meta-narrativa: “Stai per cominciare a leggere il nuovo romanzo Se una notte d'inverno un viaggiatore di Italo Calvino. Rilassati. Raccogliti.

Allontana da te ogni altro pensiero. Lascia che il mondo che ti circon-da sfumi nell'indistinto. La porta è meglio chiuderla; di là c'è sempre la televisione accesa. (…) dillo più forte, grida: «Sto cominciando a leggere il nuovo romanzo di Italo Calvino!» O se non vuoi non dirlo; speriamo che ti lascino in pace.”I mondi diversissimi fra loro che Calvino abbozza nei successivi dieci incipit – da una grigia rare-fatta stazione al Giappone magico, a uno sperduto villaggio sudameri-cano… – danno l’idea di quanto la letteratura possa destrutturarsi pur rimanendo affascinante e coinvol-gente.In un estremo tocco di genio (non leggete questa se vi è venuta vo-glia di prendere il libro, fatelo dopo), Calvino ha legato i vari incipit dei capitoli in un ennesimo incipit au-tonomo: “Se una notte d’inverno un viaggiatore, fuori dall’abitato di

Malbork, sporgendosi dalla costa scoscesa senza temere il vento e la vertigine, guarda in basso dove l’ombra s’addensa in una rete di li-nee che s’allacciano…”La magia della letteratura sta nell’incipit, tutta quanta lì.

SE UNA NOTTE D'INVERNO

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QUENTIN BELLVIRGINIA WOOLF, MIA ZIA | La Tartaruga

“Da signorina, Virginia Woolf si chiamava Stephen. Quella degli Stephen è una fami-glia che emerge dall’oscurità verso la metà

del XVIII secolo. Erano agricoltori, mercanti e trafficanti di merci di contrabbando

nell’Aberdeenshire.”*

“Deposto il bastone sulla riva del fiume, si infilò una grossa pietra nella tasca della

giacca. Poi andò incontro alla morte: «l’unica esperienza», come aveva detto a Vita,

«che non descriverò mai».”

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EYES|WIDE|SHUT

Federico Tosato

Siamo in sala, coinvolti dal film che stiamo seguendo. Osservia-mo un’inquadratura. Si passa alla successiva e quindi a quella dopo ancora… Di inquadratura in inqua-dratura il film termina e noi, più o meno eccitati, galvanizzati, anno-iati, delusi, entusiasti, divertiti, tesi o compiaciuti, usciamo. Ma vi siete mai chiesti i motivi per i quali quel certo film ci ha così appassionati? Tra i tanti, uno è senz’altro il mon-taggio, che in senso pratico con-siste nell’unire la fine di un’inqua-dratura con l’inizio di quella che la segue. Perciò il montaggio relazio-na reciprocamente alcuni elementi, realizzando, per mezzo di uno stac-co, la transizione da un’inquadratu-ra all’altra. Si passa da “A” a “B” con uno stacco, come appena detto, oppure per mezzo di altri elemen-ti, quali la dissolvenza d’apertura (l’immagine appare a partire dal nero dello schermo), quella in chiu-

sura (l’immagine scompare fino a diventare nera, generalmente), quella incrociata (l’immagine che compare e quella che scompare si sovrappongono per alcuni istanti; splendida, per fare un esempio, è la dissolvenza incrociata in Psyco che mostra sovrapporsi, anche ge-ometricamente, l’occhio di Marion appena assassinata e il sifone del-la vasca da bagno). Transizioni di questo tipo si utilizzano in special modo per sottolineare la presenza di un’ellissi o di un salto temporale, in primis quelle in chiusura, che in maniera ancor più netta delle altre interrompono il flusso narrativo e separano ciò che precede da ciò che segue. Anche se ormai quasi completamente in disuso, altri ele-menti di punteggiatura sono poi l’iris e la tendina.Tanto premesso, torniamo al mon-taggio in senso stretto: complican-do un po’ il concetto, possiamo

dire che la sua funzione è di arti-colare lo spazio diegetico in diffe-renti unità, evidenziandone le più rilevanti – e conseguentemente gli eventi che le rappresentano –, se-lezionando così i momenti salienti della vicenda narrata e, al contra-rio, spingendo nelle ellissi gli altri. La settima arte mostra insomma la vita, depennandone però i momen-ti diegeticamente inefficaci al fine del prosieguo della storia. «Drama is life with the dull bits cut out», ha detto Hitchcock.Sullo schermo vediamo una seg-mentazione spaziotemporale; seg-mentazione che tecnicamente si definisce découpage. I suoi “estre-mi” sono noti: ricordate le “vedute” dei Lumiere, quei pochi secondi di immagini prive di movimenti di macchina che mostrano ad esem-pio l’arrivo del treno in stazione, l’abbattimento di un muro, l’usci-ta degli operai dalla fabbrica o la

POCHI ELEMENTI DI ANALISI

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colazione del bambino? In quelle “vedute”, così come nel cinema pri-mitivo, il découpage non c’era, non era ancora stato concepito. Ma ne-gli anni ci saranno poi autori che lo useranno sino alle sue massime possibilità narrative, espressive, intellettuali o tecniche: per esem-plificare, senza scomodare qui Ejzenstejn, al quale relativamente al montaggio si deve molto, sarà sufficiente rifarsi nuovamente al film di Hitchcock del ’60 e precisa-mente alla scena che mostra l’as-sassinio della giovane donna sotto la doccia; provate a cronometrarne la durata e a contare, se ci riuscite, il numero delle inquadrature. L’u-so che però più frequentemente si fa del découpage, perlomeno nei lungometraggi narrativi, è co-nosciuto col nome di découpage classico, col quale il passaggio da un’inquadratura alla successiva sembra scomparire; ovviamente

rimane, non potrebbe essere al-trimenti, ma noi spettatori non lo percepiamo, immersi come siamo nel flusso narrativo della vicenda che si snoda in ordine cronologi-co, ad eccezione dell’eventuale presenza di flashback, o, più rari, di flashforward. L’elemento primario al fine di ottenere un montaggio invisibile è il raccordo, che di base conta tre tipologie: quello di posi-zione, di direzione e di direzioni di sguardi. Per esemplificare il primo, se in un’inquadratura il personag-gio “A” è ripreso a destra e “B” a sinistra, nella successiva dovranno mantenere la medesima posizione; per il secondo, possiamo dire che se un soggetto esce di campo a destra, nell’inquadratura succes-siva dovrà rientrare da sinistra, perché in caso contrario avremmo l’impressione che se ne stia tor-nando indietro; per l’ultimo, inqua-drato singolarmente, l’attante “A”

mostrerà lo sguardo rivolto a “B” e viceversa.Muovendo da questi pochi concetti di fondo, la faccenda si complica poi meravigliosamente.

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HEARTBIT

DJ ChemikangeloCompost/Schema records

È proprio vero che gli anni Ottanta stanno tornando di moda, e se così è non potevano certo mancare loro, i Duran Duran, il gruppo-ban-diera di quel periodo. Da qualche mese è uscito il loro (atteso?) lavo-ro dal titolo “All You Need Is Now”. Si tratta del tredicesimo album del-la loro carriera, grazie all'arrivo in squadra del’abile produttore Mark Ronson, amante dei pastiche e gran rimestatore di suoni, il quale per questo progetto ha voluto riav-volgere indietro il nastro dei ricordi e stopparlo al 1983 (quando lui aveva otto anni) per assemblare una sorta di “figlio di Rio”, come questo disco è già stato da taluni battezzato.Effetto Nostalgia 80? Ebbene, sì, e stavolta riesce assai bene…I quat-tro signori panciuti di Birmingham di mezza età suonano bene, sem-brano rinvigoriti dopo il tremendo flop dell’ultimo album e il paladino

dell’ondata New Romantic Simon Le Bon canta quasi meglio adesso che vent’anni fa, un mezzo miraco-lo...?Indubbiamente i Duran Duran ri-mangono nell’Olimpo degli anni 80, un miracolo mediatico dell’innova-zione – dai primi video che asso-darono un’ancora incerta MTV fino a quei “fidanzamenti di massa” con fan ossesse – ma la scure dell’e-tà e del fluire delle mode non co-nosce passati, ed ora con questa nuova prova/esame i Durans sono arrivati all’ultimo tentativo di salire di nuovo su di un palco d’interesse oppure, ahimè, finire come figurine della Panini incollate dentro album spiegazzati…E la novità è che la band non ha più vergogna di essere quello che è. È come se degli eleganti cin-quantenni che hanno ammassato fortune le avessero prima disper-se e poi recuperate, e qui siamo

proprio alla fase dei ritrovamen-ti insperati. Si sentono gli slap di John Taylor che piacciono tanto ai Killers (Girl Panic), i ritmi disco ser-rati di Roger Taylor rubati dai Whi-te Lies (Blame The Machines), i tappeti vintage dei synth analogici di Nick Rhodes, arguti ripescaggi sonori presi dai Cure, dai Depeche Mode, dagli Chic, distribuiti equa-mente nelle 9 tracce, che provo-cheranno invidia alle centinaia di b-boy indie band sparse per tutta Europa. Un album decisamente british, e quando i Duran fanno i Duran sul serio Simon si riprende quel tono acuto pre-Arcadia che non si sentiva da tempo, le liriche ritornano più ironiche, Safe riapre la serranda dello Studio 54 e Be-fore The Rain il portale della catte-drale gotica dove i Depeche Mode hanno fatto Peace. Anche i Duran Duran del 2010 hanno fatto pace, con se stessi.

OLD/NEW ROMANTIC GENERATION

Riapriamo dunque gli armadi e tiriamo fuori il polveroso schele-tro degli anni 80, tanto non fa più puzza e la muffa la si può coprire con naftalina, vaniglia e luccichii di paillettes.Ops, anche il Tony Hadley dei rivali Spandau Ballet ritorna sulla scena in questi giorni cantando a squar-ciagola nel singolone pop-trash del nostro Caparezza, ma questo è un altro capitolo..In ogni caso mi sa tanto che sare-mo in molti wild boys a rivederli sul palco il 22 luglio all’Anfiteatro Ca-merini di Piazzola sul Brenta, vicino a Padova; in fondo in fondo pure io sono un figlio di Rio.

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SPEAKERS' CORNER

Marco Piazza

L’atteggiamento che nei secoli la civiltà occidentale ha mostrato verso il concetto di lavoro presenta una natura ambivalente, oscillante tra l’esaltazione e l’abbattimento: esaltazione quando il lavoro rap-presenta uno strumento di benes-sere e di autorealizzazione, ab-battimento se diventa alienante e orientato al mero consumo.Un breve excursus storico ci per-mette di risalire a questo dualismo, che nasconde però un sostrato comune di tipo materialista, legato all’importanza del fattore tecnico.Per i filosofi greci il lavoro non ap-partiene alle attività che perfezio-nano l’uomo, ma è un aspetto degli affari quotidiani che tolgono tempo alla perfezione umana, che si rag-giunge con la ricerca della virtù e la contemplazione delle verità eterne. Anche la concezione romana del lavoro, in linea con quella greca, mantiene un’accezione negativa,

di fatica (labor in latino).Nel Medioevo tale concezione classica subisce l’influenza del cri-stianesimo: la regola benedettina ora et labora è un invito ad evita-re il vizio dell’ozio, ma conserva il dualismo tra vita contemplativa e quella attiva, in una sorta di dop-pio binario, che comunque innalza il lavoro al livello della preghiera, aprendo le porte all’umanesimo delle arti e dei mestieri.La svolta avviene con la riforma protestante e con il razionalismo cartesiano: nel primo caso il lavoro quotidiano diventa vocazione (be-ruf in tedesco), dove il successo terreno è una misura della bene-volenza divina; nel secondo si ha un’esaltazione della ragione tecni-ca, che offre dignità al lavoro come attività propria dell’uomo e della sua ragione, in quanto permette di dominare la natura al proprio volere, al servizio di un progresso

continuo, che verrà ripreso dall’Il-luminismo.Con lo sviluppo tecnologico ed il progresso delle rivoluzioni in-dustriali, il lavoro diventa azione meccanica, ordinata alla produzio-ne di beni, e mantiene una con-cezione materialistica del lavoro. Adam Smith afferma che il lavoro sta all’origine della ricchezza delle nazioni, mentre Karl Marx, profetiz-zando l’avvento del fordismo e del taylorismo, elabora la sua filoso-fia materialista ed in particolare il concetto di alienazione: l’uomo di-venta l’oggetto del sistema capita-listico perdendo la soggettività che lo caratterizza.La seconda parte del XX secolo segna l’importanza della cono-scenza di tipo scientifico, astratto, intellettuale, dove prevalgono so-cialmente i lavori che richiedono innovazione e creatività; si diffon-de parallelamente una sorta di ido-

ANTROPOLOGIA DEL LAVORO

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latria del lavoro, di matrice anglo-sassone e protestante.La tendenza di fondo di queste concezioni è la concezione mate-rialistica del lavoro, che perde tutta una serie di elementi che caratte-rizzano l’uomo a livello psicologico, sociale, economico, culturale, e che diventa quindi antropologica-mente alienante.In effetti le più recenti teorie socio-logiche rivedono la situazione del lavoratore, da oggetto a soggetto, considerandolo nella sua condizio-ne di animale, razionale e libero, ma soprattutto vulnerabile e di-pendente dall’altro, quindi sociale, con uno spostamento dell’interes-se dal mero risultato dell’attività la-vorativa alla conoscenza, socialità ed esperienza necessari ad otte-nerlo. Ne sono una prova l’introdu-zione nelle aziende di nuovi siste-mi organizzativi di partecipazione auto gestionale (team working), di

compartecipazione fra produttori e consumatori (prosumers), di rota-zione delle mansioni (job rotation), di arricchimento dei compiti e del-le funzioni (job enlargement), e di progetti di qualità (total quality).Oltre alle varie interpretazioni so-ciologiche ed economico-organiz-zative, fra le più originali interpre-tazioni segnalerei quella di stampo teologico, elaborata da Josemaria Escrivà, Santo della Chiesa Catto-lica e fondatore dell’Opus Dei, che intende il lavoro come occasione di santificazione del cristiano nel-la vita lavorativa, cioè perfeziona-mento umano e soprannaturale.Credo quindi che questa nuova visione antropologica del lavoro possa contribuire a riconsidera-re l’uomo non solo come pedina inerte del sistema economico, ma come protagonista attivo e centra-le, con una sua valorizzazione che è mancata negli ultimi secoli.

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SPEAKERS' CORNER

Mauro Pes

Che hai compagnia te ne accorgi sulle piastrelle, non importa quali. Puoi trovarti in cucina o in ufficio, a casa tua o in qualche cesso di bar. Non cambia niente: le rivela-zioni te le fanno solo le piastrelle, punto. Appena entri dalla porta tua moglie ti guarda, la commessa (la più brutta, ovvio) ti guarda, quel cacchio di vecchio con l’Amplifon ti guarda (ma non sa il perché, ov-vio). Il fatto è che quel dannato breccio-lino è sempre della misura giusta, è perfetto. Creato ad arte per infi-larsi sotto le suole. Nel carrarmato dei tuoi anfibi, tra le scanalature delle tue (nuove, ovvio) scarpet-te ginniche, nei fori traspiranti dei tuoi mocassini anti puzza, che pian piano diventano dei barconi pieni di sudore. Così tu avanzi nel locale come se stessi camminando sulle uova, come se la stanza fosse un nido di serpenti a sonagli. Come se

LA CREAZIONE DEL BRECCIOLINO

ti avessero minato il terreno tutto attorno e tu cercassi di disattiva-re le cariche esplosive ballando la versione idiota del Tip-tap: il Tic-tac, il balletto con le mentine sotto le suole. E ogni volta hai una performance diversa, un’esibizione che cambia a seconda della pa-vimentazione. Sul cotto il Tic-tac è attenuato, più caldo, si direbbe quasi timido. Ricorda i martelletti di una macchina da scrivere su di un doppio foglio imbottito con della carta calcante. Il Tic-tac sul cotto è un romanzo in fase di scrittura e se in sala non sono proprio tutti stronzi ci fai la tua porca figura. Sul marmo invece sono un altro paio di maniche. Il tic è rapido, è una fru-stata e ricorda la scossa di un ac-cendino per fornelli a gas. Tic-tic-tic-tic-tic, non so se rendo l’idea. Il tac invece è quello della lancetta dei secondi dell’orologio da cucina di tua nonna. Tac-Tac-tac-tac-tac,

il rumore del tempo che passa, mentre ti rompi le palle aspettan-do che il tempo passi. Col Tic-tac sul marmo la gente nove volte su dieci chiama i carabinieri, per farti sloggiare. Ma perché? Voglio dire, da dove viene questo accanimento del brecciolino nei nostri confronti? Perché la sua perfezione ci per-seguita? Qual è l’origine di questa piaga moderna?Una risposta precisa alle nostre domande non c’è, quello che si sa è solo che nella notte tra il Terzo e il Quarto giorno Dio creò il brec-ciolino. Non lo fece apposta, fu per via di uno slancio di generosità. Aveva passato tutto il Terzo gior-no a separare la terra dall’acqua plasmando mari e monti, laghi e colline, altipiani e pianure e a tarda sera, stanco morto, s’era ritrovato con un avanzo di migliaia di inuti-li pietroni. Massi informi che in un

colpo di genio o di poesia la sua mano aveva trasformato in stelle, lanciandoli uno ad uno nell’oscuri-tà del lago nero sopra la sua testa. Fu sotto la luce del firmamento che Dio si avvide del brecciolino, fi-glio dei pietroni e nipote delle stel-le, e non avendo più ne voglia ne forza per sbarazzarsene lo lasciò lì a godersi lo spettacolo dal cielo e a progettare invasioni di scarpe e pneumatici. A insegnare il verbo sdrucciolevole a figli di Adamo. Ad allungare le frenate dei SUV sotto i sederi delle figlie di Eva. E se fosse proprio il brecciolino la famosa “Particella Dio”, quella che da tempo stanno cercando di individuare al CERN di Ginevra? Chi glielo dice a quel fior fior di scienziati che ciò che cercano noi l’abbiamo da sempre? Ogni santo giorno, sotto le scarpe.

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Federico Gobetti

Un foglio bianco. All'inizio è solo un grande vuoto. E se non hai idee con cui riempirlo, beh, qualcosa devi trovare. Allora ti inventi qual-cosa. Improvvisi. Ogni giorno tutti ci troviamo ad im-provvisare: quando discutiamo su un argomento che non conoscia-mo a fondo, quando torniamo a casa in macchina e un gatto ci at-traversa la strada, quando passeg-giando una persona ci ferma per salutarci e non abbiamo la minima idea di chi sia, quando ci rendiamo conto che siamo senza la moneti-na da 5 centesimi che manca per comprare le sigarette. E allora che si fa? Si improvvisa; ci si inventa qualcosa lì per lì. Ci si affida all'i-spirazione, alla fantasia, all'istinto.Si può dire che nell'ordinarietà delle nostre giornate ci viene più facile improvvisare le nostre azioni piuttosto che pianificarle a tavoli-no. È naturale.

Se nella vita di tutti i giorni l'im-provvisare però è sinonimo di “tro-vare rapidamente una soluzione ad un problema”, con conseguenza che il risultato finale, proprio per-ché inventato al momento, risulti “scialbo”, in campo artistico invece il gesto improvvisato diventa l'atto principe. Pensiamo alla musica: il jazz per esempio. L'improvvisazio-ne è parte fondante della canzone, che gira intorno ad un tema prin-cipale nella parte iniziale e finale, mentre il resto è lasciato alla fan-tasia di ogni musicista della band (nel bebop). L'assolo improvvisa-to è dunque il momento in cui il musicista ha la massima libertà di esprimere se stesso e tutta la sua passione. Senza note “giuste” o “sbagliate”. Senza suoni “belli” o “brutti”. Solamente la sua anima, direttamente dal cuore alle mani, alle orecchie di chi ascolta. In po-chissimo tempo, naturalmente. “In

IMPROVVISAZIONE: L'ARTE DI TUTTI

quindici secondi, la differenza fra improvvisazione e composizione è che nella composizione hai tutto il tempo che vuoi per decidere cosa dire in quindici secondi, mentre nell'improvvisazione hai quindici secondi” disse Steve Lacy (cita-zione fatta da Riccardo Brazzale in Vicenza Jazz 2011). E tutti, possono improvvisare arte. Alla faccia di chi dice che solo i maestri possono creare un capo-lavoro improvvisando. Certo, un'im-provvisazione di un amatore non potrebbe mai avvicinarsi a un Jaco Pastorius, o un Dizzy Gillespie, un Louis Armstrong o un Duke Elling-ton. Neanche col telescopio. Ma l'improvvisazione è la libertà. Di es-sere; di fare ciò che si vuole, come si vuole. Lì, al momento. Nella ma-niera più spontanea e naturale del mondo. E credere che quello che fai sia Arte (con la a maiuscola). Anche se apparentemente non

ha senso nemmeno per te che lo stai facendo. Quando improvvisi tu stesso sei l'arte. E proprio per questo, che tu stia scarabocchian-do su un muro, sorridendo a una vecchietta o tamburellando sulle pentole della mamma, sarà sem-pre e comunque uno spettacolo grandioso.

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IMAGINAREASushi

Enrico Capitanio

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<prossima uscita>ventitregiugnoduemilaundici