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AREA CIVILE LEZIONE I

LA RESPONSABILITÀ EXTRACONTRATTUALE

In questa prima lezione del corso on line viene delineato il modello generale di responsabilità di cui all’art. 2043, individuando i requisiti costitutivi della responsabilità aquiliana nonché i criteri di imputazione alternativi nelle ipotesi di responsabilità speciale codicistiche .

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L’ILLECITO CIVILE: FONDAMENTO E STRUTTURA 1. Fondamento e funzione - 2. Criteri di imputazione della responsabilità tra unità e pluralità - 3. I c.d.punitive damages. 4.Gli elementi strutturali: a)Il fatto; b)L‟imputabilità e la colpevolezza c)Il danno ingiusto (rinvio); d) Il nesso di causalità: causalità materiale e giuridica. Danno-evento e danno conse-guenza. Le concause.

II LE RESPONSABILITÀ SPECIALI “TIPIZZATE”:FIGURE CODICISTICHE 1. La responsabilità dei genitori. 2. La responsabilità degli insegnanti (autolesioni). 3. La responsabilità dei padroni e committenti. 4. La responsabilità da attività pericolosa. 4.1. Danni da fumo attivo. 4.2. La responsabilità del gestore di impianti sciistici. 4.3. La responsabilità della P.A. da sangue infetto. 5. La responsabilità per danno cagionato da cose in custodia. 5.1 L‟art. 2051 e la responsabilità della P.A. da omessa custodia dei propri beni. 5.2. L‟art. 2051 e il condominio. 6. La responsabilità per danno cagionato da animali. 7. Rovina di edificio. 8. La responsabilità da circolazione stradale. 8.1. La responsabilità del proprietario e del costruttore.

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I L’ILLECITO CIVILE - FONDAMENTO E STRUTTURA

1.Fondamento e funzione. Tra le fonti di obbligazione enumerate dall‟art. 1173 c.c. il fatto illecito assume un‟importanza particolare in considerazione della frequenza che ha nella realtà sociale. Diversamente da ciò che avviene nelle ipotesi c.d. di responsabilità contrattuale l‟obbligazione risarcitoria non nasce in tal caso dalla violazione di una preesistente relazione giuridicamente vincolante o quanto meno da un contatto sociale qualificato, bensì dall‟interferenza illecita in una sfera giuridica per così dire estranea, che il danneggiante è tenuto genericamente a rispettare. La funzione ed il fondamento attuale della responsabilità extracontrattuale risulta notevolmente mutato nel tempo attraverso un lungo percorso evolutivo, che ha condotto storicamente al superamento della concezione tradizionale della responsabilità civile, di matrice romanistica, che ne ha esaltava la funzione sanzionatoria, per cuialla violazione di un (preesistente) precetto, assistita da volontà colpevole, doveva conseguire una sanzione nei confronti del trasgressore. Il richiamo al dolo e alla colpa operato dal legislatore del 1942 all‟art 2043 c.c. indusse la maggior parte degli interpreti a considerare la responsabilità civile come un’applicazione del principio romanistico del neminem laedere, formula omnicomprensiva indicante la necessità di reazione dell‟ordinamento contro la violazione colpevole, da parte del reo, di uno dei doveri posti a carico di tutti consociati a protezione dei diritti soggettivi assoluti patrimoniali (poiché il danno non patrimoniale, ex art. 2059 c.c., veniva ritenuto dal legislatore come risarcibile nei soli casi previsti dalla legge). È evidente nella ricostruzione precedente l’influsso del diritto penale sulla c.d. concezione sanzionatoria della responsabilità civile. La responsabilità aquiliana è considerata principalmente un

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rimedio contro la violazione dei diritti altrui da parte di chi si sia deliberatamente o colpevolmente determinato a danneggiarli, in un‟applicazione della tradizionale massima nulla poena sine culpa. Ben presto però questo inquadramento rivelò tutta la sua inadeguatezza di fronte a complesse trasformazioni sociali. In effetti dal 1942 alla metà degli anni „60 la società italiana subisce uno stravolgimento totale: da un‟economia di tipo rurale - al cui interno effettivamente una condotta diligente è in grado di escludere il prodursi di danni alla sfera dei terzi - si passa ad una società industriale, nella quale si moltiplicano occasioni di danni che sfuggono al controllo dei produttori e divengono, di conseguenza, imprevedibili. Le occasioni di danno si moltiplicano. Il criterio della colpa si rivela decisamente insufficiente a ricomprendere questi pericoli ed a garantire la collettività. Negli anni settanta dello scorso secolo, si afferma così la c.d. teoria economica del diritto: in una dimensione essenzialmente “vittimologica” il risarcimento funge da indennizzo per colui che ha ricevuto un danno (la vittima appunto). La responsabilità civile costituisce, quanto meno nei casi di responsabilità di impresa, un meccanismo di traslazione economica dei rischi derivati da determinate attività, fondato su precise regole di politica del diritto. Tale tesi segna il tramonto del dogma della colpevolezza, che cede il passo all‟affermarsi di criteri alternativi di imputazione delle conseguenze del fatto dannoso, idonei pertanto (anche) a perseguire finalità redistributive dei vantaggi derivati da attività economiche potenzialmente dannose. L’illecito civile perde il carattere di sanzione per il trasgressore. Non è più considerata una norma secondaria, destinata ad operare solo nel caso in cui sia stato violato un preesistente precetto (cd. primario) attraverso il compimento di un‟attività determinata dalla propria volontà colpevole (fatto ingiusto o contra jus), incentrata sul danneggiante e sul suo atteggiamento doloso o colposo, volto alla lesione di un diritto suscettibile di tutela erga omnes. Lo stesso art. 2043 c.c. assurge a norma primaria, recuperandone la funzione riparatoria-ripristinatoria, in cui il risarcimento assolve il compito fondamentale di ristorare il danneggiato dalla lesione subita. L‟abbandono della concezione sanzionatoria è dipesa in gran parte dalla evoluzione giurisprudenziale della nozione di “danno ingiusto”, causato non più solo dalla lesione di diritti soggettivi (prima solo assoluti e poi anche di credito), ma anche di aspettative e posizioni di fatto o interessi legittimi; apertura che ha segnato l‟avvento di una nuova concezione volta appunto a riconoscere all‟art. 2043 c.c. una funzione precettiva (v.CHINÈ-FRATINI-ZOPPINI, Manualedi diritto civile, VI Ed., Roma 2015, p.2070 ss.). 2. Criterio di imputazione della responsabilità tra unità e pluralità. Da tutto quanto precede, appare abbastanza evidente come nella sostanza il principio generale del “fatto doloso o colposo”, previsto dall‟art. 2043 c.c., per l‟imputazione del danno ingiusto a chi debba essere chiamato a risponderne, abbia visto nella stessa sistematica del Codice civile del 1942 il proprio superamento ad opera di una serie di disposizioni che, di fatto, determinano l’inversione del rapporto regola-eccezione tra la fattispecie ex art. 2043 c.c. e le altre contenute nel Titolo IX del Libro IV del Codice. Il passaggio dalla concezione soggettivo-sanzionatoria dell‟illecito a quella oggettivo-riparatoria, incentrata sul danno e non più sul fatto ingiusto, non poteva non favorire un concetto di responsabilità civile in termini meno condizionati da oltre 20 secoli di elaborazioni legate a modelli di società non industriale. Le nuove istanze sociali meno legate alla tutela dei diritti assoluti di proprietà e della personalità porta all‟affermarsi di criteri di imputazione della responsabilità aquiliana diversi da quello tradizionale della colpevolezza, con il conseguente superamento della tradizionale funzione sanzionatoria-preventiva dell‟art. 2043 c.c. La ricerca di ulteriori e diversi criteri di imputazione rispondono alla nuova funzione riparatorio-compensativa del risarcimento danni. I nuovi criteri sono essenzialmente legati all’evoluzione in senso industriale della società tanto da essere indissolubilmente legati al rischio-profitto, al rischio creato, all‟esposizione a pericolo, al rischio d‟impresa, pur non potendo riconoscere ad essi valenza assoluta tanto da configurare un unico criterio alternativo a quello della responsabilità aquiliana per fatto proprio colpevole.

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Le susseguenti fattispecie codicistiche e quelle reperibili nelle leggi speciali hanno evidenziato chela clausola generale dell’art. 2043 c.c., sin da subito, sia stata accompagnata da una pluralità di criteri di imputazione del fatto dannoso al responsabile. Il Codice del ‟42 contempla sia ipotesi di c.d. responsabilità indiretta che di responsabilità oggettiva. Tra le ipotesi di c.d. “responsabilità indiretta” sono in genere collocate quelle disciplinate dagli artt. 2048-2049 c.c. (cui si accompagnano, non senza ipotesi discordanti, i casi previsti dagli artt. 2047, 2053 e 2054, 3° comma, c.c. con riferimento alla figura del proprietario, dell‟usufruttuario ovvero dell‟acquirente con patto di riservato dominio ). Tali disposizioni individuano quella che è stata definita la “responsabilità indiretta” o “responsabilità per fatto altrui” , in quanto non legata ad un fatto colpevole da parte del soggetto tenuto a risarcire il danno ingiusto, ma al particolare rapporto che lega chi materialmente abbia causato il danno stesso a chi poi sia chiamato a risarcirne, per l‟appunto, gli esiti. In tali casi, è stato osservato, viene in rilievo un‟obbligazione di garanzia, variamente accompagnata a fatti colpevoli ma anche, come nel caso del fatto compiuto dall‟incapace ex artt. 2046-2047 c.c., a fatti esenti da una valutazione di antigiuridicità in quanto scriminati dall‟incapacità di colui che materialmente li pone in essere, ed anche a fatti c.d. “anonimi”, ossia posti in essere da soggetti non identificati ma dei quali sia possibile provare, ad esempio, il rapporto con il soggetto tenuto al risarcimento (ad esempio, il proprietario dell‟auto ex art. 2054 3° comma c.c., ovvero il padrone o il committente nel caso dell‟art. 2049 c.c. ). In passato si è tentato di ricondurre tali ipotesi ad una responsabilità per colpa, sub specie di culpa in vigilando ovvero di culpa in eligendo, evidenziando in realtà il tentativo - soprattutto giurisprudenziale - di riportare la fattispecie nell‟ambito dello schema generale dell‟art 2043 c.c.. Tuttavia, considerato il peculiare onus probandi che connota tale ipotesi, non è sembrato errato qualificare la fattispecie in termini di responsabilità presunta. È pur vero che anche a voler offrire una lettura in termini di colpa delle ipotesi in questione, tale elemento soggettivo si atteggia in modo molto diverso dalla colpa di cui all‟art. 2043 c.c.: avremmo una colpa avverso la quale non è possibile (né richiesto) offrire la prova contraria. Si comprende bene come questa colpa sarebbe un mero concetto giuridico, ma sostanzialmente non assurgerebbe ad alcuna funzione pratica quale criterio di imputabilità della responsabilità del danneggiante. Una considerazione emerge da quanto dianzi esposto: le eccezioni alla regola (dell‟art. 2043 c.c.) sono tali e tante che, nella pratica, il rapporto fra regola ed eccezione appare capovolto. Sembra che l‟area della responsabilità oggettiva sia più vasta di quella della responsabilità per dolo o colpa. In altri termini, dolo e colpa divengono criteri di valutazione della responsabilità in un certo qual modo residuali, atteso che si applicano ogni qualvolta l’interprete, pur accertandoun’evenienza dannosa prodotta da un soggetto nella sfera di un terzo, nonrinvenga in essa i presupposti indicati dalle norme che seguono l’art. 2043 c.c. A parte le ipotesi di responsabilità oggettiva previste dalle leggi speciali, in ambito codicistico devono segnalarsi quelle relative all‟esercizio di attività pericolose (art. 2050 c.c.), al danno da cosa in custodia o animali (artt. 2051-2052 c.c.) ed alla responsabilità per danno nella circolazione dei veicoli (art. 2054 c.c.), che saranno oggetto di indagine nella seconda parte della presente lezione. 3. I c.d. punitive damnages. Sotto il profilo funzionaleparte della dottrina rileva l‟ammissibilità di una ulteriore funzione dell‟illecito civile, individuata nella funzione “punitiva”, analogamente a quanto accade nei sistemi di common law. A fondamento di tale tesi si adduce l‟interpretazione delle disposizioni contenute in alcune norme speciali quali l‟art. 18 della legge n. 349/1986, oggi abrogato dal d.lgs. n. 152/2006, in materia di danno ambientale, l‟art. 125 del d.lgs n. 30/2005 in tema di proprietà industriale, l‟art. 12 della legge sulla stampa ed anche talune norme codicistiche, quali l‟art. 1148 c.c., che disciplina il regime della titolarità dei frutti da parte del possessore di buona fede, l‟art. 1382 c.c., sugli effetti della clausola penale, cui si aggiungerebbe l‟art. 96 del c.p.c. per la responsabilità aggravata da c.d. “lite temeraria”.

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Tali norme, a cui si unisce per identità di ratio anche il risarcimento del danno morale ex art. 2059 c.c., delineerebbero un “mini-sistema” nell‟ambito del quale il risarcimento dovuto viene parametrato in base a criteri più ampi (se non diversi) da quelli indicati dal combinato disposto dagli artt. 2056, 1223, 1226 e 1227 c.c., e più orientati in senso sanzionatorio nei confronti del responsabile. In realtà la possibilità di ammettere i c.d. punitive damages nel nostro ordinamento è molto dibattuta in dottrina, anche tenuto conto delle considerazioni dianzi esposte. I danni punitivi, come noto, sono estranei alle tradizioni dei paesi di civil law, e costituiscono un elemento di difformità rispetto alle esperienze di common law. Vi è in effetti una certa riluttanza nell‟ammettere forme di risarcimento finalizzate ad un obiettivo diverso dalla riparazione del danno effettivamente subito e provato. Molteplici sono le ragioni individuabili a fondamento di una siffatta chiusura. In primo luogo, si ritiene che la funzione punitiva sia appannaggio esclusivo del diritto penale, anche perché il processo penale è l‟unico che garantisce una determinata tutela, anche in considerazione di un rischio di commistione tra funzioni proprie del diritto penale e del diritto civile. La motivazione principale che osta all‟ingresso dei danni punitivi è però quella della violazione del principio di integrale riparazione del danno, in virtù del quale il danno patito e provato dal danneggiato funge da tetto massimo all‟entità del risarcimento. Nonostante l‟asserita sussistenza di istituti qualificati in termini di pena privata e la circostanza che la prospettiva comparatistica abbia sempre affascinato parte della dottrina italiana, le corti italiane hanno sempre rilevato un atteggiamento di netta chiusura nei confronti di tale figura. La Suprema Corte ha avuto modo di pronunciarsi già alcuni anni addietro in merito alla delibazione in Italia di sentenze di condanna al pagamento dei cosiddetti “danni punitivi” previsti dall’ordinamento statunitense, ritenendo tale condanna non conforme al diritto interno e quindi non ammissibile, come si legge nella sentenza del 19 gennaio 2007, n. 1183, sia sulla base della valutazione in termini “...di eccessività o sproporzionatezza della somma liquidata in sé, attesi i criteri generalmente seguiti dai giudici italiani”, sia “in relazione a quanto già di considerevole conseguito dalla madre allo stesso titolo dalla conducente dell‟autovettura con la quale era andato a scontrarsi la motocicletta del figlio, dalla società produttrice del casco e da altri soggetti pure convenuti in giudizio”. La Corte ha chiarito che “clausola penale non ha natura e finalità sanzionatoria o punitiva. Essa assolve la funzione di rafforzare il vincolo contrattuale e di liquidare preventivamente la prestazione risarcitoria, tant'è che se l'ammontare fissato venga a configurare, secondo l'apprezzamento discrezionale del giudice, un abuso o sconfinamento dell'autonomia privata oltre determinati limiti di equilibrio contrattuale, può essere equamente ridotta. Quindi, se la somma prevista a titolo di penale è dovuta indipendentemente dalla prova del danno subito e da una rigida correlazione con la sua entità, è in ogni caso da escludere che la clausola di cui all'art. 1382 c.c. possa essere ricondotta all'istituto dei punitive damages proprio del diritto nordamericano, istituto che non solo si collega, appunto per la sua funzione, alla condotta dell'autore dell'illecito e non al tipo di lesione del danneggiato, ma si caratterizza per un'ingiustificata sproporzione tra l'importo liquidato e il danno effettivamente subito. Del pari errata è da ritenere qualsiasi identificazione o anche solo parziale equiparazione del risarcimento del danno morale con l'istituto dei danni punitivi. Il danno morale corrisponde ad una lesione subita dal danneggiato e ad essa è ragguagliato l'ammontare del risarcimento. Nell'ipotesi del danno morale, infatti, l'accento è posto sulla sfera del danneggiato e non del danneggiante: la finalità perseguita è soprattutto quella di reintegrare la lesione, mentre nel caso dei punitive damages, come si è visto, non c'è alcuna corrispondenza tra l'ammontare del risarcimento e il danno effettivamente subito. Nel vigente ordinamento l'idea della punizione e della sanzione è estranea al risarcimento del danno, così come è indifferente la condotta del danneggiante. Alla responsabilità civile è assegnato il compito precipuo di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subito la lesione, mediante il pagamento di una somma di denaro che tenda ad eliminare le conseguenze del danno arrecato. E ciò vale per qualsiasi danno, compreso il danno non patrimoniale o morale, per il cui risarcimento, proprio perché non possono ad esso riconoscersi finalità punitive, non solo sono irrilevanti lo stato di bisogno del danneggiato e la capacità patrimoniale dell'obbligato, ma

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occorre altresì la prova dell'esistenza della sofferenza determinata dall'illecito, mediante l'allegazione di concrete circostanze di fatto da cui presumerlo, restando escluso che tale prova possa considerarsi "in re ipsa" (Cass. n. 10024/1997, n. 12767/1998, n. 1633/2000)”. Più di recente la Cassazione, con la sentenza 8 febbraio 2012, n. 1781 (in Corriere giur., 2012, fasc. 8-9, p. 1068 e ss.), allegata in dispensa, si è pronunciata nuovamente sulla questione della riconoscibilità di una sentenza straniera con cui venga concesso un risarcimento notevolmente superiore a quanto richiesto dalla parte attrice, ribadendo che nel nostro ordinamento il risarcimento del danno deve essere riconosciuto in relazione all’effettivo pregiudizio subito dal titolare del diritto leso. La vicenda de qua traeva origine da un‟azione di risarcimento intentata da un lavoratore negli Stati Uniti relativamente ai danni subiti in relazione ad un infortunio sul lavoro. La Corte Suprema del Massachussets aveva condannato le società convenute (italiane) a corrispondere ciascuna al lavoratore l‟importo di cinque milioni di dollari (elevati, poi, a otto, a fronte degli interessi maturati), nonostante la richiesta dell‟attore non superasse i trecentocinquantamila dollari. L‟attore, a questo punto, adiva la Corte d‟Appello di Torino per chiedere che le pronunce fossero riconosciute e dichiarate efficaci in Italia. La Corte d‟Appello, dichiarava efficace in Italia una sola delle summenzionate pronunce, ritenendo che non sussistessero ragioni ostative per il riconoscimento della sentenza Statunitense. Di diverso avviso la Cassazione che, con la sentenza in esame, ha cassato la pronuncia della Corte Sabauda, ritenendo che la sentenza de qua non potesse essere riconosciuta nel nostro ordinamento per contrarietà con l’ordine pubblico. Segnatamente all‟accertamento del suddetto requisito, la Corte ha richiamato i principi consolidati in materia di risarcimento del danno ed, in particolare, ha chiarito che: a) Il nostro ordinamento subordina il diritto al risarcimento del danno alla prova di un concreto pregiudizio economico (cfr. Cass. n. 15184 del 2008) b) Deve rimanere estranea al nostro sistema l‟idea della punizione del responsabile civile, per cui appare indifferente la valutazione a tal fine della sua condotta (Cass. n. 1183 del 2007); c) La valutazione della natura e finalità punitiva dell‟eccessività dell‟importo liquidato dal giudice straniero si risolve in un apprezzamento di fatto del giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità se adeguatamente motivato. Sulla base di tali principi, la Corte ha ritenuto viziata la sentenza impugnata sotto il profilo motivazionale, ritenendo che questa si fosse discostata, senza giustificate ragioni, dal precedente orientamento della Cassazione, cristallizzato nella citata Cass. civ., n. 1183 del 2007, secondo cui: non sono risarcibili i c.d. danni punitivi, in quanto la loro funzione sanzionatoria contrasta con i principi fondamentali dell’ordinamento interno, che assegna alla responsabilità civile una funzione ripristinatoria della sfera patrimoniale del soggetto leso. Dobbiamo, tuttavia, sottolineare che, fermo restando il riconoscimento della natura compensativa e non punitiva del nostro sistema di responsabilità civile, negli ultimi anni la Corte di Cassazione aveva, con due significative pronunce, di fatto, aperto uno spiraglio all‟affermazione di una funzione anche sanzionatoria dell‟istituto del risarcimento dei danni. Con riferimento ad un‟ipotesi di risarcimento danni da illecito sfruttamento dell‟immagine di un giovane ballerino da parte di una scuola di ballo, la Cassazione, con la sentenza n. 11353 del 2010, ha affermato che: l’illecita pubblicazione dell’immagine altrui obbliga al risarcimento anche dei danni patrimoniali, che consistono nel pregiudizio economico di cui la persona danneggiata abbia risentito per effetto della predetta pubblicazione e di cui abbia fornito la prova. In ogni caso, qualora – come accade soprattutto se il soggetto leso non è persona nota – non possano essere dimostrate specifiche voci di danno patrimoniale, la parte lesa può far valere (conformemente ad un principio recepito dall’art. 128 della legge 22 aprile 1941, n. 633, novellato dal d.lgs. 16 marzo 2006, n. 140, non applicabile alla specie “ratione temporis”) il diritto al pagamento di una somma corrispondente al compenso che avrebbe presumibilmente richiesto per concedere il suo consenso alla pubblicazione, determinandosi tale importo in via equitativa, avuto riguardo al vantaggio economico presumibilmente conseguito dell’autore dell’illecita pubblicazione in relazione alla diffusione del mezzo sul quale la pubblicazione è avvenuta, alle finalità perseguite e ad ogni altra circostanza congruente con lo scopo della liquidazione. (Cassa con rinvio, App. Roma, 06/06/2005). Di fatto, pur utilizzando uno strumento “tipico” quale la retroversione degli utili, aveva manifestato una prima intenzione di ampliare la

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sfera del risarcimento del danni, superando l‟idea secondo cui l‟autore del fatto illecito è obbligato a risarcire il solo pregiudizio arrecato al danneggiato. In una successiva pronuncia, Cass. Civ., n. 8730 del 2011, ci si spinge ancora più avanti affermando che: in tema di risarcimento dei danni patrimoniali conseguenti all’illecito sfruttamento del diritto d’autore, ai fini della valutazione equitativa del danno determinato dalla perdita del vantaggio economico che il titolare del diritto avrebbe potuto conseguire se avesse ceduto a titolo oneroso i diritti dell’opera, si può ricorrere al parametro costituito dagli utili conseguiti dall’utilizzatore abusivo, mediante la condanna di quest’ultimo alla devoluzione degli stessi a vantaggio del titolare del diritto. Con tale criterio, la quantificazione del risarcimento, più che ripristinare le perdite patrimoniali subite, svolge una funzione parzialmente sanzionatoria, in quanto diretta anche ad impedire che l’autore dell’illecito possa farne propri i vantaggi. (Cassa con rinvio, App. Roma, 23/11/2009). In conclusione, con la pronuncia in commento la Suprema Corte si discosta sensibilmente dalle due pronunce da ultimo richiamate – che, come detto, si erano mostrate favorevoli al riconoscimento di una qualche funzione sanzionatoria del risarcimento del danno – ribadendo la funzione esclusivamente compensativo-riparatoria dell’istituto de quo. Possiamo allora concludereche nel nostro ordinamento l‟idea della punizione e della sanzione è estranea al risarcimento del danno, cosi come è indifferente la condotta del danneggiante. L‟evoluzione del sistema di responsabilità civile è stata invero caratterizzata dal graduale abbandono del concetto di responsabilità individuale - attraverso il graduale ridimensionamento della colpa, che un tempo ne rappresentava il cardine essenziale – a vantaggio di una sua rivisitazione in chiave solidaristica. Alla responsabilità civile è oggi assegnato il compito di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subito la lesione, mediante il pagamento di una somma di denaro che tenda ad eliminare le conseguenze del danno arrecato. E ciò vale per qualsiasi danno, compreso il danno non patrimoniale o morale, per il cui risarcimento, proprio perché non possono ad esso riconoscersi finalità punitive, non solo sono irrilevanti lo stato di bisogno del danneggiato e la capacità patrimoniale dell‟obbligato, ma occorre altresì la prova dell‟esistenza della sofferenza determinata dall‟illecito, mediante l‟allegazione di concrete circostanze di fatto da cui presumerlo, restando escluso che tale prova possa considerarsi in re ipsa . 4) Gli elementi strutturali: a) Il fatto In base all‟art. 2043 c.c., a configurare la responsabilità aquiliana concorrono i seguenti elementi costitutivi: a) l‟esistenza di un fatto; b) imputabile dal punto di vista soggettivo, a titolo di dolo o colpa; c) che sia produttivo di un danno ingiusto; d) in base al nesso di causalità. I primi due elementi costituiscono rispettivamente l‟elemento materiale della responsabilità e l‟elemento volontaristico. La qualificazione in senso volontaristico differenzia la responsabilità aquiliana dagli altri tipi di responsabilità individuati dal titolo IX del libro quarto del Codice Civile e dalle norme extracodicistiche. L‟elemento del danno ingiusto individua, invece, l‟effetto del fatto illecito, ossia la conseguenza pregiudizievole, che l‟ordinamento qualifica appunto come “ingiusta” (ossia non jure, in quanto valutata con disfavore dallo stesso). L‟ultimo elemento (nesso eziologico) rappresenta il legame tra il fatto illecito ed il danno ingiusto, in termini di conseguenzialità causale. Iniziando l‟analisi degli elementi strutturali, viene in rilievo anzitutto l‟elemento materiale. Il fattoè un comportamento umano, commissivo (consistente in un fare) od omissivo (consistente in un non fare). È commissivo, ad esempio, il comportamento di chi, con un‟arma, uccide o ferisce altri, oppure il comportamento di chi, alla guida di un‟automobile, investe un pedone. È fatto omissivo, ad esempio, il non prestare soccorso ad un ferito. Nelle ipotesi di responsabilità oggettiva, la distinzione tra azione ed omissione non riveste particolare utilità, mentre nelle altre ipotesi il fatto omissivo è fatto illecito solo se il soggetto, la cui omissione ha

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cagionato il danno, aveva l’obbligo giuridico di evitarlo:l‟obbligo di prestare soccorso risulta dall‟art. 593 c.p., ma dove non è configurabileun obbligo di evitare il danno non c‟è responsabilità per l‟evento dannoso; chi, adesempio, si accorge che l‟edificio del vicino è pericolante e si astiene dall‟avvertire ilproprietario non risponde del danno che la sua omissione ha cagionato perché nonha, per legge, l‟obbligo di adoperarsi per evitare che i beni altrui provochino danni. Per una recente applicazione del principio, v. Cass. civ., sez. III, 21 maggio 2013, n. 12401, allegata in dispensa (conf. App. Perugia, sez. lav., 2 ottobre 2013, n. 182). b)L’imputabilità e la colpevolezza. Quanto all‟elemento soggettivo del fatto illecito (dolo e colpa) va preliminarmente chiarito che è imprescindibile che un fatto sia stato commesso da un soggetto e che ad esso sia riconducibile. Anticamera della colpevolezza è quindi innanzitutto l’imputabilità, requisito previsto e disciplinato dall’art. 2046 c.c.. Il fatto deve essere stato compiuto da chi aveva la capacità di intendere e di volere al momento in cui lo ha commesso. Detto requisito vale, peraltro, solo per la responsabilità da fatto proprio e non per quella da fatto altrui, né vale per la responsabilità da cose. La questione è differente nel diritto penale, là dove sussiste un regime che prevede l‟esclusione dell‟imputabilità in alcuni casi (vizio totale di mente, ubriachezza e uso di stupefacenti, nonché per il minore di 14 anni), mentre prevede una diminuzione delle pena in altri (minore infraquattordicenne e vizio parziale di mente): la non funzionalità di tali criteri al concetto di riparatorietà della sanzione per l’illecito civile ha indotto il legislatore ad adottare, in tal sede, un criterio elastico ed affidato alla valutazione del giudice. Nel diritto civile rileva anche lo stato di incapacità determinato, in termini generali, da un atto colposo del soggetto, e non solo quello preordinato a commettere il reato o a procacciarsi una scusa (come nel caso dell‟art. 87 c.p.). L’incapacità naturale va accertata di volta in volta, attraverso l‟apprezzamento di tutte le circostanze del caso concreto dalle quali è possibile desumere la capacità di comprendere e di autodeterminarsi dell‟agente (l‟età, lo sviluppo psico-fisico, il grado di maturità, le malattie anche transitorie, la forza del carattere, la capacità di volere). L‟attenuazione della originaria natura sanzionatoria della responsabilità civile e l‟affermazione della funzione riparatoria ha ridimensionato il ruolo della colpevolezza(sotto il profilo deldolo o della colpa dell‟agente), che rappresenta solo uno dei possibili criteri di imputazione dell‟illecito, affiancato da altri criteri fondati sulla responsabilità oggettiva, presunta o per fatto altrui. Nella struttura dell‟illecito ex art. 2043 c.c., che esige una valutazione psicologica della condotta del danneggiante, il dolo e la colpa costituiscono appunto l‟elemento soggettivo della fattispecie. Nel sistema della responsabilità civile manca una definizione dei concetti di dolo e di colpa da parte di apposite norme. Il relativo concetto è desumibile mediante il ricorso alla definizione fornita dall’art. 43 c.p., secondo il quale è doloso il fatto posto in essere dal responsabile mediante coscienza e volontà dell’azione e delle sue conseguenze, mentre è colposo il fatto posto in essere per effetto di negligenza, imprudenza, imperizia ovvero inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline (cfr. Cass. civ., sez. un., 12 maggio 2009, n. 10854). Nell‟ipotesi di colpa, è solitamente voluta l‟azione ma non le sue conseguenze, salvo il caso di colpa con previsione. Poca rilevanza assume nel diritto civile il dolo che, invece, rappresenta il criterio di imputazione tipico e generale dei delitti nel diritto penale, mentre maggiore importanza è riconnessa alla colpa. Rinviando alla trattazione manualistica per l‟individuazione degli aspetti di maggiore rilevanza sulla tematica in questione, in questa sede occorrerà appuntare solo alcuni principi. In primis il dolo ex art. 2043 c.c. è l’intenzione di provocare l’evento dannoso (es. l‟intenzione di uccidere nell‟omicidio volontario), ma non coincide con la mala fede, nella duplice configurazione sia di consapevolezza di ledere l‟altrui diritto (art. 1147 c.c.) sia della condotta contraria alla correttezza (art. 1137 c.c.), poiché se il dolo implica sempre la mala fede, non sempre è vero il contrario. Il dolo dell’illecito aquiliano nulla ha a che vedere con il dolo vizio del consenso rilevante per l‟annullamento del contratto (dove dolo equivale ad inganno), pur sussistendo ipotesi nelle quali le due

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figure si sovrappongono, come quella del dolo incidente per effetto dei raggiri di un terzo (art. 1440 c.c), che determina una responsabilità extracontrattuale del terzo per i danni cagionati al contraente in buona fede. Particolare rilevanza assume il concorso tra dolo e colpaa proposito di nesso di causalità. Qualora infatti concorrano, ai fini della produzione dell‟evento dannoso, un antecedente fatto illecito doloso di un soggetto ed uno colposo di un altro soggetto, il fatto colposo successivo non interrompe il nesso causale tra quello illecito precedente e il danno, ma il secondo (quello colposo) può venire assorbito nell‟ambito di quello doloso con effetto di esclusione della responsabilità verso il terzo di chi lo abbia commesso, oppure conservare la propria rilevanza (come nel caso del soggetto in colpa che sia in grado di prevedere le conseguenze dannose della propria azione, ad es. un medico che operi maldestramente un ferito da sinistro stradale) comportando la responsabilità solidale di entrambi gli autori, con diritto di regresso dell‟autore del fatto colposo nei confronti del coautore doloso del risarcimento versato. La colpa tradizionalmente veniva valutata in termini soggettivi, sul modello penalistico, ossia secondo una concreta valutazione basata sulla personalità e sulla psicologia dell’agente. La progressiva presa di distanza tra l‟illecito civile e la responsabilità penale, a cui si è più volte fatto riferimento, ha tuttavia comportato l‟adozione, ai fini della responsabilità aquiliana, di un metro oggettivo della colpa (peraltro sempre ricavabile, in via indiretta, dalle disposizioni in materia penale non sussistendo un‟autonoma definizione civilistica), in termini di obiettiva difformità del comportamento concretamente tenuto dal parametro astrattamente predefinito da criteri codificati espressamente, o comunque desumibili dal dovere di diligenza che l’homo eiusdem condicionis et professionis è tenuto ad osservare. Tuttavia un‟interpretazione della colpa in senso oggettivo (come nel caso della responsabilità per inadempimento) avrebbe comportato, di fatto, conseguenze inaccettabili, come nel caso in cui il danneggiante disponga, per particolari capacità o condizioni soggettive, di un grado di preparazione professionale o culturale tale da consentirgli un notevole grado di elevazione rispetto ai parametri medi di valutazione ovvero, all‟opposto, quando particolari situazioni non consentano in concreto all‟agente di esplicare la propria condotta nei termini astrattamente esigibili. Così si è affermato in giurisprudenza che in caso di illecito civile può tenersi conto delle qualità e del danneggiante e del danneggiato, operando così un temperamento sia verso l‟alto che verso il basso; si è poi ritenuta non configurabile la colpa dell‟agente quando l‟evento intercorso fosse, per lo stesso, totalmente imprevedibile da parte dell‟agente, temperando così il concetto della diligenza media con quello delle circostanze concrete di verificazione dell‟evento. All‟estremo opposto, e quindi ai confini con il dolo, deve invece ritenersi l‟ipotesi della colpa con previsione, che si verifica là dove l‟agente abbia posto in essere la propria condotta, pur nella rappresentazione dell‟evento illecito, rimanendo tuttavia convinto che esso non si sarebbe verificato. La colpa, in tale ipotesi, consiste precisamente nell‟imprudente convinzione della non verificabilità dell‟evento, poi di fatto avveratosi a seguito della condotta negligente, imprudente o imperita del soggetto. Quanto alla colpa professionale, ossia intervenuta nello svolgimento di attività per le quali è richiesta una particolare competenza tecnico-intellettuale, come quella medica, la stessa sarà oggetto di approfondita trattazione nelle lezioni successive. L’onere di provare il dolo o la colpa del danneggiante incombe sul danneggiato; e questa costituisce una rilevante differenza rispetto alla responsabilitàcontrattuale, nella quale è il debitore che deve provare che la prestazione è divenutaimpossibile per causa a lui non imputabile (ossia l‟assenza di colpa). In ordine all‟accertamento della colpa (in particolare rifiutando la cd. culpa in re ipsa) sono intervenute le Sezioni Unite della Cassazione con la sentenza n. 500/1999, escludendo che l‟adozione volontaria di un provvedimento amministrativo dalla cui illiceità discenda la lesione di un interesse legittimo, sia di per sé fonte di produzione di un danno ingiusto ex art. 2043 c.c. La sentenza in parola ha concluso per la non applicabilità, ai fini dell‟accertamento della colpa, del principio secondo il quale la colpa della struttura pubblica sarebbe in re ipsa, poiché tale principio, enunciato dalla precedente giurisprudenza di legittimità con riferimento all‟ipotesi di attività illecita

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derivante da lesione di un diritto soggettivo secondo l‟interpretazione tradizionale dell‟art. 2043 c.c., non è stata ritenuta conciliabile con la più ampia lettura della norma. Da allora la giurisprudenza di legittimità ha costantemente ribadito la necessità dell‟accertamento in concreto dell‟elemento psicologico (dolo o colpa) in capo alla P.A. (cfr., ex plurimis, Cass. civ., sez. III, 10 marzo 2014, n. 5500; Cass. civ., sez. III, 31 ottobre 2014, n. 23170, in dispensa). Analogo principio è stato affermato dalla giurisprudenza amministrativa, di recente, in relazione a richiesta di risarcimento del danno derivante dalla tardiva emanazione di un provvedimento

favorevole(v. Consiglio di Stato,sez. III, 23 aprile 2015, n. 2040; Consiglio di Stato, sez. V, 17 giugno 2015, n. 3047, in dispensa) o, più in generale, da lesione di un interesse legittimo (v.Consiglio di Stato, sez. IV, 20 maggio 2014, n. 2560; Consiglio di Stato, sez. VI, 5 marzo 2015, n. 1099, in dispensa). Per la trattazione del tema della responsabilità della P.A. da azione amministrativa si rinvia alle lezioni di amministrativo. c) Il danno ingiusto(cenni e rinvio alla lezione 3). Una particolare attenzione merita il requisito del danno ingiusto. Sin da ora si rinvia alla trattazione manualistica per l‟individuazione della nozione e dei criteri emersi in dottrina ma soprattutto in giurisprudenza per la sua individuazione anche ai fini del contenimento dell‟area del risarcibile. Si tenga altresì presente che il tema dell‟ingiustizia del danno, e più in particolare delle singole ipotesi applicative emerse in giurisprudenza, saranno oggetto di studio approfondito nella successivalezionen. 3 del corso. In questa sede ci si intende soffermare sulla contaminazione tra iniuria e colpevolezza. Nell‟ipotesi in cui l‟apparente esercizio del diritto da parte dell‟agente (e quindi in posizione di una condotta lecita) celi, in realtà, la volontà di produrre un danno a terzi e, di conseguenza, integri in concreto quel comportamento non jure che è alla base dell‟illecito aquiliano, la lesione dell‟altrui posizione deriva da un comportamento apparentemente scriminato dalla sussistenza dell‟esercizio del proprio diritto, tanto che nella specie si è parlato di contaminazione tra culpa ed iniuria, proprio perché la valutazione dello status soggettivo del danneggiante assumerebbe rilievo preminente, indipendentemente dalla natura dell‟interesse leso. Vengono all‟attenzione principalmente quelle fattispecie nell‟ambito delle quali la condotta del danneggiante non può, secondo la giurisprudenza, non assumere una connotazione dolosa (si pensi ai casi dell‟induzione all‟inadempimento, della doppia alienazione immobiliare, dello storno di dipendenti e così via) che di fatto integrano, al di là del formale esercizio dell‟autonomia negoziale normativamente tutelata, ipotesi di lesione da parte del terzo dell‟altrui diritto mediante la cooperazione nell‟inadempimento altrui. È parso incongruo in dottrina ritenere, infatti, sanzionabile il soggetto che con semplice colpa ponga in essere i relativi comportamenti, senza volere deliberatamente danneggiare l‟altrui posizione, anche se in concreto tale posizione sembrerebbe in apparente contrasto con la sostanziale parificazione, ai fini della configurazione dell‟illecito ex art. 2043 c.c., tra il dolo e la colpa. Tale contraddizione non appare insuperabile, posto che l‟argomento in questione sembrerebbe provare troppo: non pare sembra infatti che l‟art. 2043 c.c. impedisca la possibilità di configurare un risarcimento per comportamenti risarcibili solo se posti in essere a titolo di dolo, bensì prevedere un criterio generale (per l‟appunto la sufficienza della colpa ai fini della configurabilità dell‟illecito civile) comunque derogabile in relazione a determinate fattispecie, rispetto alle quali dovrebbe invece essere necessaria una particolare colorazione dell‟elemento soggettivo ai fini della stessa configurabilità di un illecito ex art. 2043 c.c.. Si tratterebbe, anche in questo caso, di procedere ad una valutazione comparativa degli interessi in gioco alla luce dei principi generali dell‟ordinamento, secondo i parametri ricordati in precedenza. A tale proposito è interessante considerare come sia da tempo emersa in dottrina una tesi per la quale nell‟esercizio del diritto, nella consapevolezza di arrecare ad altri un danno ingiusto, sarebbe configurabile il c.d. abuso del diritto (del quale si è parlato, non a caso, anche a proposito della fattispecie appena considerata), ossia la violazione di quel limite generale desumibile dalla valorizzazione del precetto di solidarietà sancito costituzionalmente dall‟art. 2 Cost., oltre che da varie altre norme di

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pari livello (si pensi agli artt. 41 e 42 Cost.) nonché da norme di rango ordinario tra le quali un ruolo importante riveste l‟art. 833 c.c., in materia di atti emulativi. Ne deriverebbe, in altri termini, l‟affermazione di un principio di correttezza destinato a rivestire un‟importanza generale anche al di là delle norme che espressamente lo prevedono, ad es. in ambito contrattuale (artt. 1175 e 1375 c.c.). Anche in questo caso, la valutazione dello status soggettivo da parte dell‟agente assumerebbe valore essenziale ai fini della stessa configurazione dell‟illecito, determinando anche sotto questo profilo quella contaminazione tra culpa ed iniuria dalla quale abbiamo preso le mosse all‟inizio di questa trattazione. d) Il nesso di causalità Causalità: materiale e giuridica. Quanto all‟accertamento circa la sussistenza del legame materiale tra l‟evento dannoso, potenzialmente produttivo di conseguenze pregiudizievoli, ed una pregressa circostanza rilevante come criterio di imputazione della responsabilità, il Codice civile tace. In realtà, sullo sfondo dell‟art. 2043 c.c. l‟utilizzo del termine “cagiona” allude proprio alla problematica del collegamento tra il fatto dannoso (il danno-evento) e le conseguenze del fatto stesso (il danno-conseguenza). Alla distinzione tra danno-evento e danno-conseguenza è, inoltre, ricollegata quella tra la causalità “materiale” (cioè il collegamento naturalistico tra la condotta, attiva od omissiva, e la causazione dell‟evento) e la causalità “giuridica”, ovvero il legame tra il comportamento e l‟evento ritenuto a termini di legge indispensabile perché possa configurarsi una responsabilità in termini giuridicamente vincolanti (consistente, per l‟appunto, nel risarcimento del danno). La problematica risulta essere particolarmente delicata nel caso in cui il danno sia conseguenza di unacondotta omissiva, ciò che accade sovente nell‟ambito della responsabilità medica, a proposito della quale la Cassazione penale, nella celebre sentenza Franzese (n. 30328/2002) ebbe modo di dare precise indicazioni nel senso dell‟accettazione di un orientamento intermedio tra la “certezza” e la “probabilità statistico-scientifica”, in favore dell‟”alto o elevato grado di credibilità razionale” dell‟accertamento giudiziale con i criteri della “probabilità logica”. Veniva al contempo abbandonato il criterio del c.d. “aumento del rischio” che trasformerebbe, secondo la Corte penale, il reato omissivo improprio da reato “di danno” in reato “di pericolo” (orientamento condiviso anche dalla sentenza della Cass., sez. III, n. 21619 del 2007, della quale ci occuperemo più ampiamente tra breve). In altri termini, la sussistenza di un ragionevole dubbio sulla reale efficacia condizionante della condotta omissiva del medico rispetto ad altri fattori interagenti nella produzione dell‟evento lesivo comporta l‟esito assolutorio del giudizio penale. Vedremo subito come la sentenza appena citata si ponga su di una linea di pensiero differente, abbandonando le concezioni tradizionali che, sulla scorta della concezione sanzionatoria della responsabilità civile allora in voga, consideravano la causalità omissiva impropria come un‟ipotesi di causalità necessariamente “giuridica”, ovvero basata su un giudizio ipotetico fondato sull‟equivalenza tra il non impedire l‟evento dannoso e il cagionarlo, il cui termine di riferimento obbligato è la norma di condotta impositiva al danneggiante del dovere di attivarsi. In tale ottica, come detto, la causalità materiale veniva decisamente svalutata nella sua autonomia e sostanzialmente assorbita in quella giuridica. Come si è appena evidenziato, la giurisprudenza civile già da alcuni anni (v. Cass. civ., sez. III, 2 febbraio 2007, n. 2305 e, amplius, la citata n. 21619 del medesimo anno; Cass., Sez. Un., 11 gennaio 2008, n. 581 e Cass. civ., sez. III, 30 ottobre 2009, n. 23059), al contrario, ha evidenziato le differenze tra la causalità in ambito civile ed in ambito penale. Secondo la Corte, infatti, “è lo stesso principio della coincidenza tra concetto di causalità in sede penale e di causalità in sede civile… che non può dirsi condivisibile… invero, le esigenze de-costruttive e ricostruttive dell‟istituto del nesso di causa sottese al sottosistema penalistico non sono in alcun modo riprodotte (né riproducibili) nella diversa e più ampia dimensione dell‟illecito aquiliano, tanto sotto il profilo morfologico della fattispecie, quanto sotto l‟aspetto funzionale. Sotto il profilo morfologico, difatti, va considerato, da un canto, come il baricentro della disciplina penale con riferimento al profilo causale del fatto sia sempre e comunque rivolto verso l‟autore del reato/soggetto responsabile,

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orbitando, viceversa, l‟illecito civile (quantomeno a far data dagli anni „60) intorno alla figura del danneggiato; dall‟altro, come, alla peculiare tipicità del fatto reato, faccia da speculare contralto il sistema aperto ed atipico dell‟illecito civile…”. Di conseguenza, non potrà ritenersi automaticamente applicabile anche in sede civile il principio per cui l’esistenza di un ragionevole dubbio sull’efficienza causale della condotta omissiva dovrebbe comportare sempre l’esonero dalla responsabilità del danneggiante, come enunciato, in ambito penalistico, sempre dalla citata sentenza Franzese. Nella più recente sentenza in esame, invece, la Cassazione, premessa la necessità di distinguere tra i concetti di danno-evento e danno-conseguenza, appunta la propria attenzione sul secondo e proprio dal relativo esame deduce l‟estraneità del concetto di prevedibilità/evitabilità dell‟evento dalla causalità rilevante ai fini civilistici. A giudizio della Corte, “… risolto il problema della imputazione del fatto, e dunque della identificazione del soggetto responsabile, le norme in tema di responsabilità delimitano l‟ambito della risarcibilità delle singole conseguenze dannose attraverso una disciplina parzialmente difforme nelle due diverse ipotesi di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, per la limitazione, contenuta nella norma di rinvio dell‟art. 2056 c.c., in base alla quale viene esclusa l‟applicabilità dell‟art. 1225 c.c. (prevedibilità dal danno) nei casi di obbligazioni risarcitorie derivanti da fatto illecito. Quello che ancora giova sottolineare, nella dimensione dell‟illecito contrattuale, è la relazione differenziale tra il disposto dell‟art. 1223 c.c. in tema di risarcibilità di danni “conseguenze dirette e immediate” dell‟inadempimento, e quello di cui al successivo art. 1225 c.c., che limita tale risarcimento, in caso di inadempimento colposo, ai soli “danni prevedibili”. Pur essendo vero che la prima delle due norme regola il nesso di causa non tra condotta ed evento, ma tra l‟evento (l‟inadempimento) e il danno risarcibile (e, come si è avuto modo di sottolineare in precedenza, secondo una attenta dottrina non sarebbero neppure funzionali all‟accertamento del nesso di causalità condotta/evento di danno), questo Collegio ritiene che possa non illegittimamente ipotizzarsi come il concetto di prevedibilità resti comunque estraneo, in parte qua, alla struttura oggettiva dell‟illecito (perché, in caso di inadempimento doloso, il debitore risarcirà sì i danni imprevedibili, ma che siano pur sempre conseguenza diretta ed immediata dell‟inadempimento, di talché la “diretta immediatezza” della realizzazione del danno non è destinata ad incidere sulla sua prevedibilità)”. La conseguenza dell‟esclusione del concetto di prevedibilità dall‟individuazione del nesso causale rilevante ai fini civilistici appena esposta è che “…il nesso di causalità è elemento strutturale dell‟illecito, che corre - su di un piano strettamente oggettivo - tra un comportamento (dell‟autore del fatto) astrattamente considerato (e non ancora qualificabile come generatore di un damnum iniuria datum), e un evento (dannoso). Nell‟individuazione di tale relazione primaria tra condotta ed evento si prescinde in prima istanza da ogni valutazione di prevedibilità, tanto soggettiva quanto “oggettivata”, da parte dell‟autore del fatto, essendo il concetto di prevedibilità/previsione insito nella fattispecie della colpa (elemento qualificativo del momento soggettivo dell‟illecito, momento di analisi collocato in un ideale posterius rispetto alla ricostruzione della fattispecie). Solo il positivo accertamento del nesso di causalità materiale così rettamente inteso consente, allora, la traslazione, logicamente e cronologicamente conseguente sul piano dimostrativo, verso la dimensione dell‟illecito costituito dal suo elemento soggettivo, e cioè verso l‟analisi della sussistenza o meno della colpa dell‟agente (o, se del caso, del dolo), elemento di fattispecie la cui impredicabilità nella singola vicenda, pur in presenza di un nesso causale accertato, ben potrebbe escludere l‟esistenza dell‟illecito secondo criteri (storicamente “elastici”) della prevedibilità ed evitabilità del fatto. Criteri questi che restano iscritti nell‟orbita dell‟elemento soggettivo del fatto dannoso e postulano il positivo oggettivo accertamento del preesistente nesso causale, elemento strutturale del torto al quale non è consentito di collegare alcuna inferenza fondata sulla dicotomia colpevolezza/incolpevolezza, attenendo tale aspetto al successivo momento di valutazione della colpa”. In altri termini la Corte, partendo dall‟esame delle norme in tema di quantificazione delle conseguenze del danno, rileva come il concetto di prevedibilità è limitato, anche nel caso di responsabilità contrattuale derivante da inadempimento doloso, al risarcimento dei danni che siano conseguenza immediata e diretta dell‟inadempimento stesso: sicché, nella ricostruzione effettuata, l‟applicazione delle

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norme in questione postula il preventivo accertamento, in termini positivi, della possibilità di collegare la condotta dell‟agente al fatto dannoso, che è esattamente quanto si intende con la locuzione “causalità materiale”. La prevedibilità attiene, invece, all‟altro elemento costitutivo della fattispecie ex art. 2043 c.c., ovvero l‟elemento soggettivo della colpa o del dolo. In questa ricostruzione “il nesso causale diviene la misura della relazione probabilistica concreta (e svincolata da ogni riferimento soggettivo) tra comportamento e fatto dannoso (quel comportamento e quel fatto dannoso) da ricostruirsi anche sulla base dello scopo della norma violata, mentre tutto ciò che attiene alla sfera dei doveri di avvedutezza comportamentale (o, se si vuole, di previsione e prevenzione, attesa la funzione – anche - preventiva della responsabilità civile, che si estende sino alla previsione delle conseguenze a loro volta normalmente ipotizzabili in mancanza di tale avvedutezza) andrà più propriamente ad iscriversi entro l‟orbita soggettiva (la colpevolezza) dell‟illecito”. Premettendo, quindi, il proprio deciso orientamento verso la valutazione in termini obiettivi della causalità e di conseguenza nell‟abbandono di una concezione “normativa” di questa, la Corte conclude che “quasi certezza (ovvero altro grado di credibilità razionale), probabilità relativa e possibilità sono, dunque, in conclusione, le tre categorie concettuali che, oggi, presiedono all‟indagine sul nesso causale nei vari rami dell‟ordinamento”. Pertanto, la causalità civile “ordinaria” secondo la Corte è caratterizzata dalla probabilità relativa (o “variabile”), consistente, specie in ipotesi di reato ommissivo, nell’accedere ad una soglia meno elevata di probabilità rispetto a quella penale,stante la diversità dei valori in gioco nei due tipi di processi, ciò che giustifica una differenza negli standard probatori ed il diverso livello di incertezza da assumersi come ragionevolmente accettabile. Il compito del giudice civile, pertanto, sarà quello “di operare una selezione di scelte giuridicamente opportune in un dato momento storico [sulla base delle risultanze processuali] senza trasformare il processo civile (e la verifica processuale in ordine all‟esistenza del nesso di causa) in una questione di verifica (solo) scientifica demandabile tout court al consulente tecnico”. Secondo la Corte, in definitiva, la causalità civilistica ordinaria obbedisce alla logica del “più probabile che non”, mentre la causalità da perdita di chance è invece attestata “tout court sul versante della mera possibilità di conseguimento di un diverso risultato terapeutico, da intendersi, rettamente, non come mancato conseguimento di un risultato soltanto possibile, bensì, come sacrificio della possibilità di conseguirlo, inteso tale aspettativa (la guarigione da parte del paziente) come “bene”, come diritto attuale, autonomo e diverso rispetto a quello alla salute. Le pronunce più recenti della Cassazione confermano l’approdo verso una concezione della causalità civile ordinaria ancorata al parametro concettuale della ragionevole probabilità (o probabilità logica), consistente nell‟accedere ad una soglia meno elevata di probabilità rispetto a quella penale, mentre la causalità da perdita di chance è invece attestata sul versante della mera possibilità del conseguimento di un diverso risultato (inteso tale aspettativa come “bene”, come diritto attuale ed autonomo) (v. Cass. civ., sez. III, 8 luglio 2010, n. 16123; Cass. civ., sez. III, 13 luglio 2010, n. 16381; Cass. civ., sez. III, 20 aprile 2012, n. 6275; Cass. civ., sez. III, 18 giugno 2012, n. 9927;Cass. civ., sez. III, 17 ottobre 2013, n.23575; Cass. civ., sez. III, 20 ottobre 2014, n. 22225; Cass. civ., sez. III, 20 febbraio 2015, n. 3390, allegatain dispensa; nella giurisprudenza di merito, cfr. Trib. Reggio Emilia, sez. II, 27 febbraio 2014, n. 338, pure in dispensa) (Sull‟argomento v., amplius, GUAGLIONE, Studi di diritto civile, vol. I, Obbligazioni e responsabilità civile, Roma, 2011, p. 296 ss.). Parimenti, anche la Corte di Giustizia è indirizzata ad accettare che la causalità non possa che poggiarsi su logiche di tipo probabilistico (Corte Giust. 3/7/2006 cause riunite C-295/04 e C-298/04, nonché Corte Giust. 15/2/2005 causa C-12/03, entrambe in tema di tutela della concorrenza). Riepilogando quanto sopra esaminato, può delinearsi una “scala discendente di valori” (cui si ac-compagna un diverso metro di valutazione del nesso causale), così strutturata: 1)sul gradino più alto si pone la causalità penale, dominata dal percorso di credibilità razionale inaugurato dalla sentenza Franzese; 2) ad un livello inferiore, si pone la causalità civile “ordinaria”, attestata sul versante della probabilità relativa(o variabile)e, dunque, caratterizzata dall'accedere ad una soglia meno elevata di

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probabilità rispetto a quella penale; in definitiva, mentre la causalità penale richiede la certezza processuale che la condotta alternativa omessa avrebbe impedito l'evento “al di la di ogni ragionevole Dubbio”, la causalità civile obbedisce alla logica del “più probabile che non”; 3) al terzo gradino, sempre nell'orbita del sottosistema civilistico, residuerebbe la causalità da perdita di chance, la quale si pone sul fronte della “mera possibilità” di conseguimento di un diverso risultato terapeutico(la guarigione del paziente), da intendersi, rettamente, non come mancato conseguimento di un risultato lo possibile, bensì, come sacrificio della concreta ed effettiva “possibilità di conseguirlo, quale bene a sé stante, diritto 'attuale”, autonomo e diverso rispetto a quello alla salute (v. CHINÈ-FRATINI-ZOPPINI, Manuale di diritto civile, cit., p. 2131 ss.;FRATINI, Compendio di diritto civile, Roma, 2014-2015, p. 867). Danno-evento e danno conseguenza. La distinzione tra danno-evento e danno-conseguenza è stata per lungo tempo trascurata, per effetto della ben maggiore attenzione dedicata dagli interpreti al secondo, in relazione alla concezione di causalità giuridica largamente diffusa nella giurisprudenza, come abbiamo visto in precedenza. Secondo la dottrina, il concetto di danno-evento è essenzialmente relativo all’accertamento del collegamento tra l’evento dannoso ed un soggetto, ovvero un bene (si pensi all‟art. 2051 c.c.), ed alla misura di tale collegamento nel caso di concorso di cause. In difetto di un‟espressa indicazione normativa, come si diceva nel paragrafo precedente, gli interpreti ritenevano di dover fare riferimento agli artt. 40 e 41 c.p. (un caso emblematico è rappresentato dalla citata sentenza sul c.d. caso Meroni, che definiva tali norme come “pacificamente applicabili anche all‟illecito civile”). E ciò quanto meno con riferimento all‟ipotesi-base prevista dall‟art. 2043 c.c., facendo le successive fattispecie disciplinate dal Codice riferimento anche ad ipotesi nelle quali la causalità è soltanto indirettamente ricollegabile ad un soggetto, trovando altrove il proprio referente primario: così, ad esempio, nel collegamento tra un soggetto ed un bene (il ricordato caso dell‟art. 2051 c.c., cui deve aggiungersi anche l‟art. 2052 c.c.) oppure nel fatto altrui (artt. 2047 e 2049 c.c.). Il danno-conseguenza, invece, consiste nelle conseguenze di ordine economico ricollegate alla condotta dannosa. Come evidenziato nella più volte ricordata sentenza della Cassazione n. 21619 del 2007, si tratta di un posterius rispetto all’individuazione del nesso di causalità materiale tra la condotta ed il fatto dannoso, anche se l‟attenzione dedicata al concetto di causalità giuridica dalla giurisprudenza civilistica consolidata ha determinato una sorta di contaminatio tra gli elementi costitutivi della fattispecie ex art. 2043 c.c.. Ciò è avvenuto, segnatamente, tra la prevedibilità delle conseguenze e l‟attribuzione dell‟evento, attinenti la prima all‟elemento soggettivo (ovvero ai fini della valutazione della colpa o del dolo), e la seconda a quello oggettivo dell‟illecito. Viceversa, nell‟insegnamento più recente della Cassazione, come abbiamo già visto, i due profili debbono essere distinti e separati (v. di recente, Cass. civ., sez. III, 3 luglio 2014, n. 15240; Cass. civ., sez. II, 27 marzo 2015, n. 6285, in dispensa). Ai sensi dell’art. 2056 c.c., che si occupa specificamente del danno-conseguenza, il risarcimento dovuto al danneggiato si deve determinare secondo le disposizioni degli artt. 1223, 1226 e 1227 c.c., mentre il lucro cessante è valutato dal giudice con equo apprezzamento delle circostanze del caso. La prima norma stabilisce che sono risarcibili soltanto i danni che siano conseguenza immediata e diretta del fatto lesivo (rectius del danno-evento), mentre la seconda legittima il giudice alla valutazione equitativa del danno qualora non sia possibile procedere ad una precisa quantificazione dello stesso. L‟art. 1227, infine, si riferisce all‟effetto sull‟obbligazione risarcitoria derivante dal concorso del danneggiato e di esso ci occuperemo nel paragrafo successivo. Le concause. Per concludere il discorso sulla causalità resta, ora, da affrontare il problema delle concause, ovvero dell‟inserimento nella serie causale, che ha portato dal fatto illecito al danno ingiusto, di elementi diversi dalla condotta attiva od omissiva dell‟agente.

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Talvolta tali elementi non assurgono al ruolo di fattori determinanti delle conseguenze dannose, ma molto spesso il danno ingiusto è il risultato complessivo della compresenza di una pluralità di condotte dannose, ovvero di eventi naturali preesistenti, concomitanti o successivi che in qualche caso agevolano, in qualche altro determinano, in altri ancora si affiancano alla condotta illecita originaria, assumendo autonoma rilevanza causale nella produzione del danno. Occorre, allora, verificare quali siano i criteri che disciplinano i rapporti tra i vari fatti od atti che concorrono in senso naturalistico alla produzione dell‟evento (nel senso che la mancata presenza di uno o più di essi comporterebbe la non verificazione del danno ingiusto, ovvero un minore effetto negativo di questo), per verificare quali siano le regole giuridiche (prevalentemente di tipo risarcitorio ma, talvolta, anche di carattere riparatorio-preventivo) previste dall‟ordinamento ai fini del collegamento tra tali atti o fatti e le conseguenze negative dell‟illecito. Vengono, allora, in evidenza le ipotesi di concorso del danneggiato alla produzione del fatto dannoso regolate dall‟art. 1227, comma 1, c.c. (cfr. Cass. civ., sez. III, 13 febbraio 2013, n. 3542;Cass. civ., sez. III, 3 aprile 2014, n. 7777;Cass. civ., sez. II, 21 aprile 2015, n. 8109, allegata in dispensa), quelle del concorso di più soggetti alla produzione del danno, di cui si occupa l‟art. 2055 c.c. (cfr.Cass. civ., sez. I, 12 dicembre 2013, n. 27875; Cass. civ., sez. III, 25 settembre 2014, n. 20192;Cass. civ., sez.III, 6 maggio 2015, n. 9012, allegata in dispensa; Trib. Monza, sez. II, 6 marzo 2014), ed infine quelle di concorso tra atti umani e fatti giuridici naturali(cfr. Cass. civ., Sez. Un., 21 novembre 2011, n. 24408, allegata in dispensa). In tal caso il problema (molto delicato, per l‟assenza di specifiche norme dettate dal Codice in merito) è precisamente quello di verificare se un siffatto collegamento, sotto il profilo giuridico, sia possibile, come nel caso degli artt. 2051 e 2052 c.c. (che disciplinano per l‟appunto l‟attribuzione ad un soggetto di fatti naturali in ragione del rapporto di custodia o di utilizzazione), ovvero se non sia possibile individuare alcuna relazione tra il danneggiante e i fatti verificatisi (perché, ad es., si tratti di eventi del tutto sottratti alla sua capacità di intervento, come quando, pur essendo astrattamente possibile un intervento del danneggiante al fine di scongiurare il danno ingiusto, ricorrano gli estremi del caso fortuito o della forza maggiore che per l‟appunto escludono la ricollegabilità dell‟evento al danneggiante stesso, come disposto proprio dai citati artt. 2051 e 2052 c.c.). Le conseguenze non sono di poco conto, perché consentono in concreto di escludere o limitare la responsabilità del danneggiante con le relative conseguenze patrimoniali (per una trattazione più diffusa dell‟argomento, v. CHINE‟-FRATINI-ZOPPINI, Manuale di diritto civile, cit., p. 2144 ss.).

II LE RESPONSABILITÀ SPECIALI “TIPIZZATE”: LE FIGURE CODICISTICHE

Rinviando alla trattazione manualistica per la ricostruzione degli elementi strutturali che connotano le singole ipotesi di responsabilità tipicizzate, in questa sede ci si soffermerà sulla natura della responsabilità in questione e sulla relativa prova liberatoria. Le fattispecie di responsabilità disciplinate dagli artt. 2047 ss. c.c. costituiscono modelli speciali di responsabilità, che si connotano per la loro diversità ed autonomia rispetto al modello generale disciplinato dall’art. 2043 c.c. In tutte queste ipotesi, diverse l‟una dall‟altra, la responsabilità si basa su criteri di imputazione sempre più nettamente distinti da quello che anima l’art. 2043 c.c. Questi criteri, come si è già osservato in precedenza, rispondono all‟esigenza di far fronte alle conseguenze dannose derivanti dallo svolgimento di attività che comportano inevitabilmente l‟insorgere di rischi. In linea di principio, essi pongono l‟obbligazione risarcitoria a carico dei soggetti che sono più in grado di adottare le opportune contromisure atte a prevenire i rischi di danno o a tenerli sotto controllo,indipendentemente dalla valutazione della condotta secondo il parametro della colpa. Tra gli artt. 2043 e 2047 e ss. c.c. sussistono, dunque, diversità di operatività e difunzione. L‟art. 2043 c.c. contiene una regola generale; è espressione del principio diatipicità dell‟illecito civile. Gli artt. 2047 e ss. c.c. individuano una serie di settori incui operano diverse previsioni di

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responsabilità.Si tratta di fattispecie normativetipiche che non trovano applicazione al di fuori della propria area diappartenenza, né in via analogica e neppure in via estensiva. Le varie fattispecie hanno in comune l‟esistenza di una particolare relazione per la quale avviene l’attribuzione della responsabilità in capo ad un determinato soggetto. Sulla base di tale relazione è possibile distinguere tre grandi categorie: responsabilità per fatto altrui (artt. 2047, 2048, 2049 c.c.), responsabilità collegata all‟esercizio di un‟attività (art. 2050 c.c.) e responsabilità derivanti dal rapporto di un soggetto con una cosa o con un animale (artt. 2051, 2052, 2053 e 2054 c.c.) (cfr. CHINÈ-FRATINI-ZOPPINI, Manuale di diritto civile, cit., p. 2305). Per ognuna di queste fattispecie l‟attribuzione della responsabilità appare dunque diversificata, come emerge dalla lettura dei dati normativi e, soprattutto, dal contenuto della prova liberatoria a carico del soggetto chiamato a rispondere del danno. In alcune di esse, infatti, opera una presunzione di colpa (artt. 2047, 2048, 2054 comma 1 c.c.), in altre ipotesi, invece, il criterio di imputazione prescinde dalla colpevolezza del comportamento dannoso (artt. 2049, 2050, 2051, 2052, 2053 e 2054, comma 4 c.c.) e si è in presenza di una responsabilità c.d. oggettiva. Nelle fattispecie di responsabilità oggettiva, tuttavia, si riscontrano differenze nel grado in cui le varie previsioni legislative superano la soglia della colpa. Si è ipotizzata, pertanto, l‟esistenza di figure di responsabilità intermedie tra la responsabilità per colpa e quella oggettiva; conseguentemente la sistemazione e semplificazione della disciplina delle responsabilità speciali si è rivelata uno dei problemi più complessi e controversi del diritto civile, anche perché connesso al dibattito sulle funzioni del giudizio di responsabilità. È evidente inoltre come anche la giurisprudenza, in continua evoluzione, abbia contribuito a far ipotizzare non una netta demarcazione tra le categorie di responsabilità, bensì l‟esistenza di un continuum che va dalla colpa soggettiva alla responsabilità oggettiva. I confini tra le due categorie di responsabilità, infatti, dipendono strettamente anche dalla prova richiesta per dimostrare la colpa del danneggiante: se si giunge a ritenere sufficiente che la colpa sia dimostrata attraverso la prova del danno e del nesso eziologico (c.d. teoria della res ipsa loquitur), sotto le spoglie di una responsabilità per colpa si celerà, in realtà, un‟ipotesi di responsabilità “intermedia”. Appare difficile, pertanto, ricondurre le varie ipotesi di responsabilità attorno ai due poli contrapposti della responsabilità per colpa ed oggettiva. La necessità di tener conto dei diversificati modelli di disciplina delle norme in esame e della pluralità di criteri di imputazione ad essi sottesi induce, quindi, a riconsiderare la problematica alla luce della logica interna alle singole fattispecie. 1. La responsabilità dei genitori: art. 2048, comma 1, c.c. Quanto alla responsabilità dei genitori, la cui disciplina è contenuta nel comma 1 dell‟art. 2048 c.c., la giurisprudenza la ricostruisce sulla base di una duplice presunzione di colpa, in vigilando ed in educando. Ne consegue che, per andare esente da responsabilità, il genitore deve fornire una prova idonea a superare ambedue le suddette presunzioni. La prova liberatoria prevista dall‟art. 2048, comma 3, c.c. (formulata in termini negativi, come dimostrazione di “non aver potuto impedire il fatto”) deve pertanto tradursi nella prova positiva di aver adeguatamente vigilato ed educato il minore, in conformità alle condizioni sociali, familiari, all‟età, al carattere e all‟indole dello stesso (cfr., ex plurimis, Cass. civ., sez. III, 20 ottobre 2005, n. 20322; Cass. civ., sez. III, 6 dicembre 2011, n. 26200). È altresì frequente in giurisprudenza l‟affermazione secondo cui l‟inadeguatezza della educazione impartita (culpa in educando) e della vigilanza esercitata (culpa in vigilando) può desumersi - in mancanza di una concludente prova contraria - dalle stesse modalità con cui è avvenuto il fatto illecito, atteso che tali modalità ben possono rivelare lo stato di maturità, il temperamento e, in genere l‟educazione del minore. È stata ritenuta inammissibile, invece, la valutazione reciproca, e cioè che dalle modalità del fatto illecito possa desumersi l‟adeguatezza dell‟educazione impartita e della vigilanza esercitata dai genitori (cfr. Cass. civ., sez. III, 18 novembre 2014, n. 24475, allegata in dispensa). Discussa è la natura giuridica di detta responsabilità. Parte della dottrina ha ricostruito la responsabilità ex art. 2048 c.c. in chiave oggettiva, affermando che il criterio di imputazione dell‟illecito commesso dal minore sarebbe correlato allo status di genitore. Di diverso avviso è la giurisprudenza,

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anche più recente, che ricostruisce la responsabilità in esame in termini di responsabilità diretta dei genitori, per fatto proprio, fondata sulla colpa dei genitori, peraltro presunta(v. Cass., n. 5957 del 2000; Cass. n. 9815 del 1997; Cass. n. 4945 del1997; Cass. n. 5306 del 1994). Presupposto della responsabilità ex art. 2048 c.c. è, anzitutto, la capacità di intendereevolere dei minori soggetti alla vigilanza dei soggetti richiamati dalla norma de qua. Il requisito dell'imputabilità, infatti, costituisce il criterio distintivo tra l'art. 2048 c.c. e l‟art. 2047 c.c.: se il danno è cagionato da un minore incapace, i genitori, o l‟insegnante risponderanno in qualità di sorveglianti (ex art. 2047, comma 1, c.c.); viceversa, se sussiste nel minore la capacità di intendere e volere al momento delcompimento del fatto, troverà applicazione l'art. 2048 c.c.. Per tale motivo, si ritiene che la responsabilità ex art. 2047 c.c. e quella ex art. 2048 c.c. siano alternative e non concorrenti tra loro. La riconducibilità all'una o all'altra delle due fattispecie in esame ha delle rilevanti conseguenze: in base all'art. 2047, infatti, il sorvegliante sarà responsabile in via esclusiva del danno dell'incapace (senza poter agire in regresso); applicando l'art. 2048, la responsabilità dei genitori concorrerà, in via solidale, con quella del minore imputabile (ed eventualmente con quella dell'insegnante o del datore di lavoro). 2. La responsabilità degli insegnati: art. 2048, comma 2, c.c.. Il comma 2 dell‟art. 2048 c.c. disciplina la responsabilità degli insegnanti o più in generale di colui al quale il minore è affidato dai genitori per fini di istruzione. Ne consegue che la responsabilità degli insegnanti si fonda su un’omessa vigilanza e non concerne l‟intero sistema educativo, al contrario di quanto accade per i genitori. La responsabilità degli insegnanti è quindi meno gravosa rispetto a quella dei genitori: i primi, infatti, si sostituiscono ai secondi solo nel dovere di vigilanza, e non anche in quello di educazione; gli insegnanti inoltre (diversamente dai genitori) rispondono degli illeciti compiuti dagli allievi solamente nel tempo in cui sono sotto la loro vigilanza. È possibile, dunque, che si verifichi un concorso di responsabilità dell’insegnante (per culpa in vigilando) e del genitore (per culpa in educando) nei casi in cui l’illecito del minore sia causalmente riconducibile ad un’omessa vigilanza e ad una carente educazione. La diversità delle due forme di responsabilità tale da giustificare il loro eventuale concorso spiega anche il diverso atteggiarsi della prova liberatoria che incombe sul precettore. Il limite del dovere di vigilanza e della relativa responsabilità coincide con l‟evento imprevedibile. Per essere esente da responsabilità, quindi, l‟insegnante dovrà dimostrare di avere esercitato la vigilanza nella misura dovuta (il che presuppone anche l‟adozione, in via preventiva, delle misure organizzative idonee ad evitare una situazione di pericolo) e dovrà inoltre fornire la prova dell‟imprevedibilità e repentinità, in concreto, dell‟azione dannosa. Un chiarimento si impone: rientra nella previsione dell’art. 2048 c.c. – quindi della relativa presunzione di responsabilità - il fatto doloso o colposo commesso dal minore in danno di terzi nel tempo in cui era affidato alla vigilanza dell’insegnante, ma non anche il danno a sé stesso (cd. autolesioni). Le Sezioni Unite Civili della Cassazione (con sentenza 27 giugno 2002, n. 9346) hanno statuito l‟inapplicabilità dell‟art. 2048 c.c. (e dello schema di responsabilità extracontrattuale in generale) all‟ipotesi del danno cagionato dall’allievo a sé stesso, attraverso l‟inquadramento della fattispecie in chiave contrattuale, anziché aquiliana. La Corte, dato atto del contrasto giurisprudenziale, aderisce all‟orientamento maggioritario esprimendosi nei termini che seguono: “...deve escludersi che sia invocabile la presunzione di responsabilità posta dall'art. 2048, comma 2, nei confronti dei precettori, al fine di ottenere il risarcimento dei danni che l'allievo abbia procurato a se stesso. Il contrario assunto postula infatti una radicale alterazione della struttura della norma, che delinea una ipotesi di responsabilità per fatto altrui, in quanto il precettore risponde verso il terzo danneggiato per il fatto illecita compiuto dall'allievo in danno del terzo, per non averlo impedito in ragione di una presunzione di culpa in vigilando, laddove nel caso di autolesione il precettore sarebbe ritenuto direttamente responsabile verso l'alunno per un fatto illecito proprio, consistente nel non aver impedito, violando l'obbligo di vigilanza, che venisse compiuta la condotta auto lesiva”.

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Per completezza d'esame, le Sezioni Unite ritengono di precisare che, nel caso di danno arrecato dall'allievo a se stesso, appare più corretto ricondurre la responsabilità dell'istituto scolastico e dell'insegnante non già nell'ambito della responsabilità extracontrattuale, con conseguente onere per il danneggiato di fornire la prova di tutti gli elementi costitutivi del fatto illecito di cui all'art. 2043 c. c., bensì nell'ambito della responsabilità contrattuale, con conseguente applicazione del regime probatorio desumibile dall'art. 1218 c. c.. Quanto all'istituto scolastico, l'accoglimento della domanda di iscrizione e la conseguente ammissione dell'allievo determina infatti l'instaurazione di un vincolo negoziale da contatto sociale qualificato, in virtù del quale, nell'ambito delle obbligazioni assunte dall'istituto, deve ritenersi sicuramente inclusa quella di vigilare anche sulla sicurezza e l'incolumità dell'allievo nel tempo in cui fruisce della prestazione scolastica in tutte le sue espressioni, anche al fine di evitare che l'allievo procuri danno a se stesso ( v. Cass. civ., sez. III, 15 maggio 2013, n. 11751; Cass. civ., sez. III, 4 ottobre 2013, n. 22752;Cass. civ.,sez. III, 4 febbraio 2014, n. 2413, allegata in dispensa). Quanto al precettore dipendente dall'istituto scolastico, osta alla configurabilità di una responsabilità extracontrattuale il rilievo che tra precettore ed allievo si instaura pur sempre, per contatto sociale, un rapporto giuridico, nell'ambito del quale il precettore assume, nel quadro del complessivo obbligo di istruire ed educare, anche uno specifico obbligo di protezione e di vigilanza, onde evitare che l'allievo si procuri da solo un danno alla persona (v. Cass. civ., sez. III, 3 marzo 2010, n. 5067). Circa l'onere probatorio, nelle controversie instaurate per il risarcimento del danno da autolesione nei confronti dell'istituto scolastico e dell'insegnante, l'attore dovrà quindi soltanto provare che il danno si è verificato nel corso dello svolgimento del rapporto, mentre sarà onere dei convenuti dimostrare che l'evento dannoso è stato determinato da causa a loro non imputabile (cfr.Cass., sez. III, 31marzo 2007, n. 8067, in Foro it., 2007, I,c. 3468; Cass. civ., sez. III, 3 febbraio 2011, n. 2559). Riepilogando: per quanto attiene alla responsabilità del "precettore" verso gli alunni, è incontestabile che esistono attualmente due diversi titoli di responsabilità astrattamente applicabili, in relazione alle diverse modalità con cui si verifica il danno. Infatti, se un minore riceve un danno da un compagno di classe la responsabilità del precettore è extracontrattuale (ex art. 2048, comma 2, c.c.), mentre se lo stesso minore si cagiona da solo anche il medesimo danno, la responsabilità è contrattuale: e ciò in base alla interpretazione che si è ormai affermata della norma codicistica nel diritto vivente. L'art. 2048, comma 2, c.c., pone in effetti a carico dei precettori una responsabilità del danno per fatto altrui (impropriamente indicata spesso come "oggettiva") per i fatti illeciti cagionati dagli allievi "nel tempo in cui sono sotto la loro vigilanza". È pacifico che l'operatività di tale norma è limitata ai danni che il minore capace di intendere e di volere cagioni ad altri, ma non a quelli che procuri a se stesso. In tale ultimo caso invece, il tipo di responsabilità che ne deriva è fondato su una responsabilità contrattuale sia dell'istituto scolastico che del precettore, basata sul rapporto sorto a seguito della iscrizione/ammissione scolastica dell'alunno che determinerebbe un vincolo negoziale da c.d. "contatto sociale". È appena il caso di rammentare, come "in tema di responsabilità civile ex art. 2048 c.c., il dovere di vigilanza dell'insegnante va commisurato all'età e al grado di maturazione raggiunto dagli allievi in relazione alle circostanze del caso concreto”. Non è poi da dimenticare che nelle ipotesi di danno verso terzi in casi diversi da quelli commessi in culpa in vigilando, sussiste una responsabilità solidale del precettore con lo stesso alunno danneggiante, ove capace di intendere e di volere. Il terzo leso potrebbe quindi agire sia verso l'alunno danneggiante che verso il precettore. Autorevole dottrina, ipotizza che il precettore abbia anche rivalsa nei confronti dell'allievo che abbia materialmente compiuto l'illecito. In ogni caso, in tale contesto di attività scolastica per il fatto lesivo commesso dall'alunno (verso terzi ovvero verso anche se stesso), è legittimato passivo per la richiesta del risarcimento non il precettore, ma l'istituto scolastico in forza dello specifico dettato di cui all'art. 61, comma 2, legge 11 luglio 1980, n. 312 (v. Cass. civ., sez. III, 3 marzo 2010, n. 5067, allegata in dispensa; App. L'Aquila, 14 gennaio 2015, n. 55).

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Rimane l'ipotesi di azioni dirette dei genitori o di terzi lesi verso gli insegnanti per quanto possa accadere al di fuori dell'esercizio della vigilanza, e l'ipotesi non appare meramente teorica. Si deve riconoscere che il periodo di vigilanza non si limita allo stretto tempo della lezione, ma si estende anche alla ricreazione, alle gite scolastiche, alle ore di svago trascorse nei locali scolastici o di pertinenza della scuola, fino al momento della riconsegna ai genitori. Sostanzialmente, dal momento in cui gli alunni varcano la soglia dell'istituto scolastico essi sono sottoposti al regime normativo dell'art. 2048 c.c. Appare utile menzionare che a norma dell'art. 29, comma 5, del C.C.N.L. - Scuola 2006/2009, Per assicurare l'accoglienza e la vigilanza degli alunni, gli insegnanti sono tenuti a trovarsi in classe 5 minuti prima dell'inizio delle lezioni e ad assistere all'uscita degli alunni medesimi. Inoltre, il d.lgs. n. 297/1994, (modificato dal d.l. 28 agosto 1995, n. 361, convertito con modificazioni dalla legge 27 ottobre 1995, n. 437) prevede all'art. 494, comma 1, lett. c), la sanzione disciplinare della "Sospensione dall'insegna-mento o dall'ufficio fino a un mese" nel caso in cui il dipendente abbia "omesso di compiere gli atti dovuti in relazione ai doveri di vigilanza", e pertanto qualsiasi fatto che dovesse accadere al di fuori dell'esercizio della loro vigilanza sembrerebbe attenere, per esclusione logica, alla loro vita di privati cittadini. Se risultano quindi chiari nella loro particolare complessità i profili della responsabilità degli insegnanti, giova adesso individuarequali sono ipunti di sovrapposizione con quella dei genitori. A tale scopo, occorre ribadire come è proprio il meccanismo sopra descritto delle responsabilità per i fatti accaduti in ambito scolastico che già rende teoricamente operanti due tipi di responsabilità per un medesimo fatto.Tale connessione è un aspetto già noto, poiché consolidato orientamento giurisprudenziale ritiene che nelle ipotesi di fatti illeciti commessi da alunni durante le attività scolastiche sussista una responsabilità concorrente, solidale, e non alternativa dei genitori e del precettore (Cass. civ. sez. III, 21 settembre 2000, n. 12501). Le responsabilità del genitore e quella del precettore per il fatto commesso da un minore affidato alla vigilanza di quest'ultimo, non sono infatti alternative, giacché l'affidamento del minore alla custodia di terzi, se solleva il genitore dalla presunzione di "culpa in vigilando", non lo solleva da quella di "culpa in educando", rimanendo comunque i genitori tenuti a dimostrare, per liberarsi da responsabilità per il fatto compito dal minore pur quando sotto la vigilanza di terzi, di avere impartito al minore stesso una educazione adeguata a prevenire comportamenti illeciti. La connessione delle due situazioni di responsabilità attraverso il meccanismo giuridico della solidarietà è posta a tutela dei terzi danneggiati, ed apre anzitutto la strada ad una ripartizione percentuale della colpa in via interna tra i soggetti responsabili tra i quali potrebbe poi farsi valere la rivalsa. Sarà eventualmente il giudice in base al fatto concreto così come si è verificato a stabilire se ed in che misura il comportamento del minorenne/allievo sia frutto di carenze educative e di mancata vigilanza del precettore. Le sfumature della potenziale casistica sono infinite, e non si dimentichi che il dovere di vigilanza dell'insegnante va sempre e comunque commisurato all'età ed al grado di maturazione (rectius al suo livello di educazione) raggiunto dagli allievi in relazione alle circostanze del caso concreto. Per quanto attiene poi alle ipotesi di autolesionismo il danneggiato è il figlio/alunno intorno al quale si giocherà la partita per definire se una autolesione o un danno subito ad opera dell'alunno stesso sia risarcibile da parte di chi doveva controllare - ossia scuola ed insegnanti - sottoposti alla prova liberatoria del dovere dimostrare che l'evento dannoso è stato determinato da causa ad essi non imputabile. Anche in questo caso sarebbero coinvolgibili le responsabilità dei genitori, a seconda della dinamica del fatto, e senza arrivare ad apparenti errate conclusioni sull'onda di sentenze che sembrerebbero avallare la responsabilità della scuola e degli insegnanti anche per le "nascoste e recondite idiosincrasie dell'adolescente" (l'inciso è mutuato dal commento a Trib. Catanzaro, sez. I, 18 giugno 2009). La sentenza riguardava il noto caso della alunna suicida durante la mattutina attività scolastica, e la responsabilità del Ministero convenuto è stata in quel caso motivata con la mancata (prova della) attività di sorveglianza da parte dell'insegnante. Sarebbe risultato molto difficile invece addivenire ad una condanna qualora la vigilanza fosse stata coerente con "il comportamento minimo che ad un educatore viene richiesto". Infatti, in presenza di un valido controllo, nessuno avrebbe

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potuto conoscere gli intimi propositi suicidi dell'alunna, sicuramente maturati in ambito familiare o comunque per una distorta educazione alla gestione delle preoccupazioni che la vita può dare in ogni momento ed a qualsiasi età. Anche in presenza del principio della solidarietà tra genitori e precettori, nella prassi i terzi agiscono direttamente verso l'istituzione scolastica soprattutto se la dinamica dei fatti rientra nel dettato dell'art. 61, l. n. 312/1980, e cioè nei casi di responsabilità degli insegnanti nell'esercizio della vigilanza. È infatti più facile agire contro il ministero legittimato passivo necessario, per sfruttare la sua migliore solvibilità ed ottenere comunque il pagamento dell'intero ammontare del danno. Sarà poi il ministero ad agire in rivalsa verso i genitori, ove abbia anche anticipato il pagamento della quota di danno che il giudicante ritenesse di imputare alla responsabilità dei genitori per loro "culpa in educando". È allora evidente che la probabilità che il terzo danneggiato agisca direttamente contro i genitori per i fatti illeciti commessi dai figli durante le attività scolastiche sia tanto più alta quanto più alta è la possibilità di provare agevolmente la loro responsabilità, ovvero quanto più evidentemente ricada fuori dall'alveo della attività di vigilanza degli insegnanti. Ma il terreno più scoperto per il verificarsi della culpa in vigilando degli insegnanti è quello dei danni da autolesione. Le casistiche giudiziarie dimostrano come (a prescindere dall'esito delle iniziative, spesso non favorevole) i genitori tendano comunque a colpevolizzare il lavoro degli insegnanti, intentando azioni giudiziarie (anche penali) per le più svariate motivazioni. Si sta sempre più diffondendo il convincimento che ciò sia giusto, perché i genitori in realtà stanno lentamente rinunciando al loro ruolo di educatori, scivolando verso la richiesta per fatti concludenti di una specie di assistenzialismo pubblico al potere educativo, in base al quale si pensa che i figli lasciati a scuola non appartengono più in alcun modo alla loro sfera di controllo, come se essi non fossero vettori di valori e disvalori appresi in ambito familiare. È necessario riequilibrare questa tendenza, cercando di fare riemergere il contenuto di ruoli sociali che stanno gradualmente depotenziandosi. In materia di responsabilità disciplinare degli studenti si è assistito ad una notevole evoluzione che può dirsi iniziata con l'introduzione dello Statuto delle Studentesse e degli Studenti (d.P.R. 24 giugno 1998, n. 249) che ha avuto il merito di avere procedimentalizzato la materia, dettando anche norme quadro che permettessero ai singoli istituti di operare in autonomia. La disciplina consiste nell'insieme in quei particolari doveri di comportamento richiesti agli studenti nell'ambito della attività scolastica. Essa quindi si basa su un complesso di norme (e sulla osservanza delle stesse) volte ad assicurare il buon ordine e la regolarità della vita della comunità scolastica. La comunità scolastica può affinare alcuni profili della educazione alla convivenza: gli alunni vivono quotidianamente in contatto con adulti e coetanei nei confronti dei quali si scontrano le rispettive individualità; vivono in un ambiente dove appare essenziale convivere rispettando l'altrui libertà e tollerando l'altrui diversità di posizione; conoscono l'esistenza di regole la cui osservanza viene rimessa al corpo docente, responsabile della crescita educativa degli allievi, oltre che della loro maturazione formativa in senso stretto. La scuola non dovrebbe diventare il luogo dove i suoi componenti cercano di scaricarsi reciprocamente delle mere responsabilità. È per questo motivo che lo stesso Statuto delle Studentesse e degli Studenti prevede (Articolo 5-bis: Patto educativo di corresponsabilità: "Contestualmente all'iscrizione alla singola istituzione scolastica, è richiesta la sottoscrizione da parte dei genitori e degli studenti di un Patto educativo di corresponsabilità, finalizzato a definire in maniera dettagliata e condivisa diritti e doveri nel rapporto tra istituzione scolastica autonoma, studenti e famiglie...", quello che dovrebbe essere lo strumento per coinvolgere i genitori nella consapevolezza del loro ruolo, che si svolge all'esterno, ma produce effetti anche all'interno della vita scolastica ed ottenerne piena condivisione degli obiettivi e delle scelte educative operanti anche in ambito scolastico). I genitori sono chiamati a sottoscrivere tale patto educativo all'atto della iscrizione, ed appare indubbio che l'adesione comporta delle conseguenze di carattere giuridico.

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Basti solo pensare a quanto sopra detto sulla responsabilità da "contatto sociale", di natura contrattuale, che decorre dalla iscrizione all'istituto. Un'iscrizione integrata da specifiche condivisioni di obiettivi (anche) educativi sicuramente obbliga le due parti, ciascuna per quanto di sua competenza. Pertanto, fermi restando i superiori obblighi di legge relativi alla vigilanza, i genitori manifestano alla sottoscrizione del patto una piena consapevolezza che essi non saranno semplici spettatori passivi di ciò che accadrà nell'ambito della vita scolastica. Essi si assumono l'onere di intervenire costantemente sui loro figli e di tenere conto di tutti i segnali che dovessero provenire dalla scuola che si ponessero come indici di un loro potenziale fallimento educativo. Anche la scuola, in questo contesto, rafforza il legame contrattuale e lo c olma di un progetto ben definito, dove l'inadempimento è più individuabile da parte dei danneggiati che avessero interesse a farlo valere, anche in via extracontrattuale. 3. La responsabilità dei padroni e committenti: art. 2049 c.c. Si rinvia alla manualistica per l‟individuazione dei requisiti della responsabilità di cui all‟art. 2049 c.c.; in questa sede ci si soffermerà sulla natura e prova liberatoria. Quanto alla natura della responsabilità dei padroni e committenti, l‟art. 2049 c.c. stabilisce che questi sono responsabili per i danni arrecati dal fatto illecito dei loro domestici e commessi nell‟esercizio delle incombenze a cui sono adibiti. Oggi la dottrina più moderna preferisce parlare di responsabilità dei preponenti per i fatti dei loro preposti, formula che, ricomprendendo tutte le relazioni in base alle quali un soggetto utilizza e dispone del lavoro altrui per i propri fini, è idonea ad impedire che le stesse si identifichino con uno o più rapporti giuridici tipici (quale, ad es., il solo rapporto di lavoro subordinato). La responsabilità dei preponenti è una responsabilità oggettiva per il fatto illecito altrui: essa prescinde del tutto, infatti, da una culpa in eligendo o in vigilando da parte del datore di lavoro ed è insensibile, quindi, all‟eventuale dimostrazione dell‟assenza di colpa (cfr. Cass. civ., sez. III, 10 aprile 2014, n. 8410; Cass. civ., sez. III, 24 settembre 2015, n. 18860, allegata in dispensa). Ciò si desume dalla stessa lettera della norma, la quale non prevede per il datore di lavoro alcuna prova liberatoria con i caratteri del fatto impeditivo. Ipotizzare, come in passato, l‟esistenza di una presunzione assoluta di colpa, significherebbe, pertanto, inserire surrettiziamente nella struttura dell‟art. 2049 c.c. un presupposto che è ad essa del tutto estraneo. La responsabilità oggettiva in questo caso rinviene la sua ratioin un principio di equità che impone di trasferire l’obbligo di risarcimento del danno daidipendenti ai datori di lavoro, cioè di trasferirlo in capo al soggettoeconomicamente più forte (che trae vantaggio dal rapporto con il preposto) in modo tale da assicurare al danneggiato una completariparazione del danno subìto. La stessa giurisprudenza prevalente - lungi dal soffermarsi su qualsivoglia profilo di colpa - focalizza l‟attenzione sulla nozione di nesso di “occasionalità necessaria” tra l‟attività svolta dal dipendente e il danno occorso, nel senso che le mansioni affidate al dipendente abbiano reso possibile o comunque agevolato il comportamento produttivo del danno al terzo. Tale responsabilità, a ben vedere, opera tutte le volte in cui l’atto illecito viene a realizzarsi nell’ambito di un’attività spiegata dal danneggiante al servizio e nell’interesse di un altro soggetto e che, in particolare, si inserisce nell’ambito di una relazione organizzata da quest’ultimo. Il danno viene cosìimputato anche al soggetto cui si riferisce tale organizzazione, la quale puòmanifestarsi in una vasta gamma di relazioni giuridiche caratterizzate da un differentegrado di complessità. È, pertanto, ormai generalmente condiviso l‟assunto per cui, ai fini della responsabilità ex art. 2049 c.c., non occorre un rapporto di lavoro vero e proprio,ma è sufficiente la circostanza dell’inserimento del preposto nell’impresa, anche in via occasionale; ciò che rileva è che il comportamento illecito del preposto sia stato agevolato o reso possibile dallo svolgimento delle incombenze poste in essere per conto e sotto la vigilanza del preponente (cfr., tra le più recenti,Cass.

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civ., sez. lav., 25 marzo 2013, n. 7403; Cass. civ., sez. III, 6 giugno 2014, n. 12828,allegata in dispensa). In ogni caso, trattandosi di responsabilità oggettiva per fatto illecito altrui, è sempre possibile che il committente agisca in regresso nei confronti dell‟autore del danno. Il principio enunciato dall’art. 2049 c.c.opera anche in ambito contrattuale ai sensi dell’art. 1228 c.c., secondo il quale “salva diversa volontà delle parti, il debitore che nell‟adempimento dell‟obbligazione si vale dell‟opera di terzi, risponde anche dei fatti dolosi o colposi di costoro”. Parte della dottrina sottolinea il parallelismo delle due norme sulla base della comune ratio, che risiede nella opportunità di accollare il rischio dell‟attività dei collaboratori a chi se ne serve per un proprio vantaggio, sicchè in entrambi i casi la responsabilità si fonderebbe su una sorta di garanzia assunta nei confronti del creditore o dei terzi. Altra dottrina tuttavia contesta l’allineamento tra gli artt. 1228 e 2049 c.c., valorizzando la diversità di accezioni date ai termini “ausiliario” e “commesso”: in ambito contrattuale qualsiasi terzo può essere incaricato dal debitore di eseguire la prestazione, mentre in ambito extracontrattuale, invece, viene in rilievo la responsabilità di coloro che sono legati al datore di lavoro da un preciso rapporto di preposizione. La nozione di ausiliario sarebbe, pertanto, caratterizzata da una maggiore latitudine rispetto alle nozioni di domestico e commesso. 4. La responsabilità da attività pericolosa: art. 2050 c.c.. Di peculiare interesse è, di poi, il criterio di imputazione della responsabilità e la prova liberatoria in tema di attività pericolosa ex art. 2050 c.c.. Assai controversa è apparsa agli interpreti la determinazione della natura della responsabilità per l‟esercizio di attività pericolose, attesa l‟incertezza che connota la formula usata dal legislatore nell‟art. 2050 c.c., laddove si stabilisce che chi svolge tali attività è tenuto al risarcimento se non prova di aver adottato tutte le misure idonee ad evitarlo. Al riguardo sono state elaborate tre teorie. a) Tesi della responsabilità per colpa presunta. Il criterio di imputazione della responsabilità in questione deve essere rinvenuto nell‟elemento soggettivo. La rilevanza dello stesso appare ricavabile dalla previsione di una prova liberatoria imperniata su una valutazione del comportamento dell’esercente. Nell‟art. 2050 c.c., a differenza che nell‟art. 2043 c.c., risulterebbe applicata un‟inversione dell‟onere della prova con riguardo all‟elemento soggettivo, derivante proprio dalla presunzione iuris tantum di colpa. La circostanza che un fatto dannoso si sia comunque verificato costituirebbe di per sé la prova della mancata adozione di tutte le misure preventive del danno. Rispetto a quanto previsto dall‟art. 2043 c.c., quindi, il danneggiato godrebbe di una tutela più ampia, non essendo egli tenuto a dimostrare la colpa dell‟esercente, dovendosi la stessa ritenere presunta ex lege. In senso critico nei confronti di una simile prospettiva, è stato osservato che identificare il contenuto della prova liberatoria nella dimostrazione della diligenza sarebbe incongruo rispetto alla lettera della norma, la quale richiede l‟adozione di “tutte” le misure idonee ad evitare il danno, e non solo di quelle che, secondo l‟ordinaria diligenza sarebbero a tal fine opportune. È pur vero che, come sostenuto da altra dottrina, così intesa la prova liberatoria non potrebbe mai essere fornita, poiché l‟adozione di tutti i mezzi astrattamente possibili varrebbe sempre a scongiurare il pericolo. La prova liberatoria prevista dall’art. 2050 c.c. implicherebbe, infatti, un inasprimento del dovere di diligenza posto a carico dell’esercente; pertanto il legislatore, nel disciplinare l‟esercizio delle attività pericolose, non si sarebbe riferito all‟ordinaria diligenza, bensì ad un grado di diligenza tipico dell‟attività svolta, da alcuni identificato nella diligenza professionale, che segnerebbe, pertanto, il limite della responsabilità di colui che esercita l‟attività pericolosa. Sarebbe sufficiente a fondare la responsabilità dell‟esercente la c.d. culpa laevissima, ossia un grado lievissimo di colpa. Esisterebbe, infatti, una differenza tra il comune concetto di colpa e quello previsto dalla norma in questione, richiedendo la stessa, come visto, il rispetto di uno standard particolarmente

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rigoroso di diligenza, che si traduce nella necessità per l‟esercente della dimostrazione di essersi comportato come un soggetto estremamente meticoloso ed esperto. Il criterio della culpa laevissima, tuttavia non appare essere un criterio di imputazione diverso rispetto a quello della colpa. L‟art. 2043 c.c. non distingue, infatti, a seconda dell‟intensità dell‟elemento soggettivo: la circostanza che la colpa sia lieve, pertanto, non sarà di per sé dirimente rispetto al problema del fondamento della responsabilità. b) Tesi intermedia. E‟ stata sostenuta dalla Suprema Corte in una pronuncia del 2003 (v. Cass. civ., 15 maggio 2003, n. 7298), secondo cui la responsabilità per l‟esercizio di attività pericolose, pur rientrando tra le ipotesi di responsabilità per colpa, si pone “ai limiti ultimi e più prossimi a quella della responsabilità oggettiva” per effetto dell‟ampliamento del contenuto del dovere di diligenza. La Cassazione era intervenuta in merito alla responsabilità di un‟impresa, esercente un‟attività di esecuzione di lavori sulla pubblica strada, nei confronti di un soggetto caduto nell‟asfalto bollente del marciapiede dinanzi alla propria autorimessa. Di seguito si riportano i punti salienti della motivazione. Osserva preliminarmente la Corte che a norma dell'art. 2050 c. c. "chiunque cagiona danno ad altri nello svolgimento di un' attività pericolosa, per sua natura o per la natura dei mezzi adoperati, è tenuto al risarcimento, se non prova di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno". Consentendo la norma una prova "liberatoria" consistente nella dimostrazione di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno, è discusso se ci si trovi in presenza di una responsabilità comunque fondata su di una colpa, presunta ma rilevante, pur se di tenuissima entità, ovvero di una responsabilità oggettiva, anche in considerazione del fatto che soggettivamente (soprattutto se si tratta di imprenditore) il responsabile può non aver colpa alcuna nella mancata predisposizione di tutte le misure. La stessa giurisprudenza di legittimità a volte propende per un'ipotesi di responsabilità costruita sulla presunzione di colpa (Cass. n. 1425/1983; Cass. 21.6.1984, n. 3678) altre volte fa riferimento ad una presunzione di responsabilità (Cass. 4.6.1998, n. 4777; Cass. 19.1.1995, n. 567), sembrando, quindi, propendere per l'ipotesi della responsabilità oggettiva. Il problema non è solo teorico, ma si riverbera sul contenuto e sui limiti della prova "liberatoria". Secondo la relazione al codice (e la dottrina che ritiene sussistere un'ipotesi solo di presunzione di colpa) la deroga al principio di responsabilità per colpa (art. 2043 c. c.) si limita all'inversione dell'onere probatorio ed alla sufficienza di un grado lievissimo di colpa, minore di quello richiesto dall'art. 2043 c. c. L'orientamento contrario ritiene che, pur versandosi in ipotesi di responsabilità oggettiva, trattasi di una figura particolare più limitata di quella che ha per limite il caso fortuito. Come è stato efficacemente segnalato, l'art. 2050 costituisce in effetti il maggior ostacolo all'individua-zione di un principio generale di responsabilità oggettiva dell'impresa nel sistema del codice civile. Proprio nell'ipotesi che più, infatti, sembra implicare l'esigenza di svincolare la responsabilità dalla colpa, la previsione legale consente l'esonero attraverso una formula che non sembra riconducibile alla categoria della responsabilità oggettiva in senso proprio. Sembra in realtà che la norma, pur costituendo un'ipotesi di responsabilità per colpa, nell'ambito di questa categoria si ponga ai limiti ultimi e più prossimi a quella della responsabilità oggettiva, comportando, come è stato rilevato, un ampliamento del contenuto del dovere di diligenza con riferimento alla natura dell' attività dannosa. Sotto questo profilo la formulazione normativa appare in sintonia con la nozione moderna di colpa, per il preminente significato oggettivo. Chi pone in essere un' attività pericolosa deve organizzarla preventivamente secondo modalità idonee ad evitare che la pericolosità si traduca in danno. La verifica della congruità a tal fine delle misure adottate, sulla base delle risorse offerte dalla tecnologia esistente ed in relazione alle condizioni concrete, costituisce il contenuto del giudizio da operare ai fini della sufficienza degli elementi addotti dal convenuto per l'esonero della responsabilità. Che poi nella pratica tale esonero molto spesso finisca per aversi solo se dalla prova addotta possano ricavarsi elementi presuntivi circa l'identificazione di una causa non imputabile che abbia reso oggettivamente impossibile l'adempimento dell'ampio dovere di diligenza previsto dall'art. 2050 c. c. e

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che, quindi, in concreto, la differenza con il limite del fortuito si attenui sensibilmente, ciò non esclude che la responsabilità in questione sia pur sempre fondata su una presunzione di colpa, ma anzi conferma che essa è posta ai limiti estremi di detta categoria, prossima alla responsabilità oggettiva, ma, estranea alla stessa. D'altra parte l'obiettivazione del parametro della diligenza nei termini suddetti (che è evidentemente profilo diverso tanto dalla rilevanza dell'intensità della colpa, quanto dall'oggettivazione della responsabilità) assume nell'art. 2050 c. c. la massima intensità anche nel senso che il soggetto chiamato a rispondere, nell'ipotesi che l' attività assuma forma di impresa, è colui che ha il controllo dell' attività al momento del danno, sul solo presupposto dell'oggettiva mancanza delle misure protet-tive idonee, non essendogli sufficiente per ottenere l'esonero, la prova di essere personalmente incol-pevole. Ma tale esito discende dal fatto che la valutazione richiesta dalla norma concerne l' attività nella sua interezza ed oggettività e non il comportamento personale dell'imprenditore. Né ciò risulta contraddittorio, una volta abbandonata l'idea che la responsabilità per colpa implichi un giudizio di riprorevolezza o sia finalizzata alla punizione del colpevole. Sulla base di queste premesse si possono trarre alcune conseguenze. Anzitutto, la sola "informazione" della pericolosità dell' attività - da parte del soggetto esercente - nei confronti dei potenziali soggetti "danneggiandi" non esaurisce di per sé l'adozione delle misure idonee ad evitare il danno. Se così fosse, la sola presenza di questa "informazione" finirebbe sempre per scaricare sul compor-tamento (commissivo o omissivo) del danneggiato, per il solo fatto di essere stato "avvertito", una capacità eziologica del danno, per giunta esclusiva, con un ampliamento non previsto dall'art. 1227, c. 1, c. c. (nel combinato disposto con l'art. 2056) che richiede, invece un comportamento colposo del danneggiato nella produzione dell'evento. Se la sola informazione fosse sufficiente ad esentare da responsabilità l'esercente, di essa sarebbe equipollente anche la conoscenza che il soggetto danneggiato avesse per scienza diretta della pericolosità dell' attività. Inoltre la norma in questione richiede che l'esercente l' attività pericolosa, per andare esente da responsabilità, deve provare di aver posto in essere "tutte le misure idonee ad evitare il danno". Come sopra si è rilevato, dette misure devono essere tutte quelle offerte dalla tecnologia esistente ed organizzate precedentemente, secondo modalità in astratto idonee ad evitare il danno: quindi da una parte esse non si esauriscono in solo quelle previste eventualmente dalla normativa primaria o secondaria, ove il caso concreto e la tecnologia esistente ne renda possibili di più efficaci, e dall'altra il silenzio della normativa sul punto non esenta dalla presunzione di colpa l'esercente l' attività pericolosa. Sebbene il giudizio sull'idoneità delle misure vada necessariamente effettuato ex ante, in esso va tenuto conto anche delle prevedibili imprudenze o negligenze del soggetto danneggiato. Pertanto la presunzione di colpa, contemplata dalla norma dall'art. 2050 c. c. per le attività pericolose, può essere vinta solo con una prova particolarmente rigorosa, essendo posto a carico dell'esercente l' attività pericolosa l'onere di dimostrare l'adozione di tutte le misure idonee ad evitare il danno: quindi non basta la prova negativa di non aver commesso alcuna violazione delle norme di legge o di comune prudenza, ma occorre quella positiva di aver impiegato ogni cura o misura atta ad impedire l'evento dannoso, di guisa che anche il fatto del danneggiato o del terzo può produrre effetti liberatori solo se per la sua incidenza e rilevanza sia tale da escludere, in modo certo, il nesso causale tra attività pericolosa e l'evento e non già quando costituisce elemento concorrente nella produzione del danno, inserendosi in una situazione di pericolo che ne abbia reso possibile l'insorgenza a causa dell'inidoneità delle misure preventive adottate (Cfr. Cass. civ., 21 novembre 1984, n. 5960; Cass. 29 aprile 1991, n. 4710; Cass. 4 giugno 1998, n. 5484). Stante la suddetta presunzione di colpa a carico del danneggiante, il danneggiato ha il solo onere di provare l'esistenza del nesso causale tra l'attività pericolosa ed il danno subito; incombe invece sull'esercente l'attività pericolosa l'onere di provare di avere adottato tutte le misure idonee a prevenire il danno (Cass. 4 dicembre 1998, n. 12307).

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c) Teoria della responsabilità oggettiva. Gli elementi richiesti i fini della configurabilità dell‟illecito di cui all‟art. 2050 c.c. sarebbero solamente due: l‟esercizio di un‟attività pericolosa ed il nesso di causalità tra la stessa ed il danno. Chi ha cagionato il danno nell’esercizio di una attività pericolosa ne risponde anche se, al momento del fatto, ha usato diligenza, prudenza, perizia. La responsabilità si basa sulla esistenza di un rapporto di causalità fra l‟attività esercitata e l‟evento dannoso.L‟imprenditore, ad esempio, è responsabile del danno provocato dalle esalazioni nocive, che un guasto agli impianti di depurazione ha fatto fuoriuscire dal suo stabilimento chimico, per il solo fatto che le esalazioni sono fuoriuscite dal suo stabilimento e che hanno cagionato danni a persone o a cose; anche se non gli si può essere rimproverata alcuna negligenza o imprudenza o imperizia in relazione alle cause che hanno prodotto il guasto agli impianti (anche se gli impianti cioè erano in perfetto stato di manutenzione ed erano diligentemente controllati da personale esperto). L’adesione alla tesi della responsabilità oggettiva è stata espressamente affermata dalla Suprema Corte con la decisione 4 maggio 2004, n. 8457, in cui si legge che: “..la responsabilità ex art. 2050 c. c. rientra nelle figure di responsabilità oggettiva, vale a dire quelle forme di responsabilità che prescindono dalla colpa del responsabile. La responsabilità viene fatta gravare su chi ha posto in essere l'attività, senza riguardo all'eventuale colposità del proprio comportamento, come nell'ipotesi di cui all'art. 2051 c. c. . Pur differenziandosi le norme in esame per il fatto che in un caso il danno deriva dall'attività e nell'altro dalla cosa, nulla esclude che il danno sia imputabile al soggetto quale esercente un'attività pericolosa e quale custode di una cosa. Pertanto, al di là delle opinioni profilatesi in dottrina e in giurisprudenza, sarà compito dell'interprete valutare caso per caso l'operatività della presunzione di responsabilità prevista dall'art. 2050 c. c. piuttosto che quella di cui all'art. 2051 c. c., ricorrendo in particolare modo al carattere dinamico dell'attività o statico della res custodita”. L'esercente l'attività pericolosa è assoggettato alla presunzione di responsabilità ai sensi dell'art. 2050 c. c. in relazione ai danni cagionati nello svolgimento dell'attività, presunzione che lo stesso può vincere fornendo la dimostrazione di avere adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno. Nella scelta di tali misure, egli dispone di un certo margine di discrezionalità, da esercitare facendo uso della normale prudenza e tenendo conto dello sviluppo della tecnica e delle condizioni pratiche in cui si svolge l'attività. Siffatta discrezionalità, peraltro, viene meno quando è la legge ad imporre l'obbligo di adottare talune misure. Pertanto, la presunzione di responsabilità opera nei confronti dell'esercente l'attività pericolosa che abbia adottato misure diverse da quelle prescritte da norme legislative (o regolamentari), senza che vi sia alcuna possibilità, in tal caso, di valutarne l'idoneità (Cass. civ., 2 marzo 2001, n. 3022). Sennonché, pur versandosi in ipotesi di presunzione di responsabilità e non di presunzione di colpa, essa pur sempre presuppone il previo accertamento dell'esistenza del nesso eziologico - la prova del quale incombe al danneggiato - tra l'esercizio dell'attività e l'evento dannoso, non potendo il soggetto agente essere investito da una presunzione di responsabilità rispetto ad un evento che non è ad esso riconducibile (v., tra le più recenti, Cass. civ., sez. III, 14 maggio 2013, n. 11575;Cass. civ., sez. III, 22 settembre 2014, n. 19872,allegata in dispensa). In tema di illecito aquiliano (anche nelle ipotesi di responsabilità oggettiva), perché rilevi il nesso di causalità tra un antecedente e l'evento lesivo deve ricorrere la duplice condizione che si tratti di un antecedente necessario dell'evento, nel senso che questo rientri tra le conseguenze normali ed ordinarie del fatto, e che l'antecedente medesimo non sia poi neutralizzato, sul piano eziologico, dalla sopravvenienza di un fatto di per sé idoneo a determinare l'evento (v. Cass. civ., 15 febbraio 2003, n. 2312). Ne consegue che, anche nell'ipotesi in cui l'esercente dell'attività pericolosa non abbia adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno, realizzando quindi una situazione astrattamente idonea a fondare una sua responsabilità ex art. 2050 c. c., la causa efficiente sopravvenuta, che da sola sia stata idonea a causare l'evento, recide il nesso eziologico che si sarebbe innestato tra l'attività pericolosa stessa, esercitata in assenza di misure di cautela idonee, e l'evento, se questa causa sopravvenuta è idonea a determinare l'evento in via esclusiva, costituendo - invece - causa concorrente, se l'evento dannoso si ricolleghi eziologicamente ad entrambe le cause (cioè all'attività pericolosa, in assenza di idonee cautele, ed alla causa sopravvenuta).

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Questa causa sopravvenuta deve avere i requisiti del caso fortuito (eccezionalità ed oggettiva imprevedibilità), che, sebbene espressamente previsto come causa liberatoria solo nell'ipotesi di cui agli artt. 2051 e 2052 c. c., in effetti rileva in ogni ipotesi di responsabilità oggettiva, sulla base del principio generale che anche in queste ipotesi di responsabilità è necessario il nesso eziologico tra il fatto generatore e l'evento dannoso. Anche il fatto del danneggiato o del terzo può integrare il caso fortuito e quindi produrre effetti liberatori, sempre che per la sua incidenza e rilevanza sia tale da escludere, in modo certo, il nesso causale tra attività pericolosa e l'evento e non già quando costituisce elemento concorrente nella produzione del danno, inserendosi in una situazione di pericolo che ne abbia reso possibile l'insorgenza a causa della inidoneità delle misure preventive adottate. Quanto alla nozione di attività pericolosa, può dirsi in prima approssimazione che la stessa va individuata nell‟attività caratterizzata da notevole potenzialità di danno, da una pericolosità intrinseca o comunque dipendente dalle modalità di esercizio e dai mezzi di lavoro impiegati. Ma come si individua un’attività pericolosa? Gli “Ermellini” al riguardo osservano che sono da reputarsi pericolose quelle attività le quali, per loro stessa natura o per i mezzi impiegati, rendono probabile e non meramente possibile il verificarsi di un evento dannoso(cfr., ex plurimis, Cass. civ., sez. III, 16 gennaio 2013, n. 919; Cass. civ., sez. III, 29 luglio 2015, n. 16052, allegata in dispensa). L’accertamento circa la pericolosità di un’attività spetta naturalmente al giudice, senza dimenticare vi sono attività qualificate espressamente come pericolose, ex art. 2050 c.c., dalla legge, come nel caso delle leggi di pubblica sicurezza o di altre leggi speciali, come il D.lgs. n. 196/2003, che definisce come pericolosa l‟attività di trattamento dei dati personali e sensibili. Per adeguati approfondimenti in relazione a talune attività (danno da fumo attivo e passivo, gestione di impianti sciistici e responsabilità della P.A. per il danno da sangue infetto),rispetto alle quali si è incentrato il dibattito dottrinale e giurisprudenziale circa la loro riconducibilità all‟art. 2050 c.c., in applicazione dei criteri di pericolosità comunemente accolti, si rinvia a CHINE-FRATINI-ZOPPINI, Manuale di diritto civile, cit., p. 2330 ss.). 5. La responsabilità per danno cagionato causato da cose in custodia: art. 2051 c.c. L'art. 2051 c.c. prevede la responsabilità per danni cagionati da cose in custodia, che è quella responsabilità - di tipo rigorosamente oggettivo - che fa capo ad un soggetto a prescindere da ogni valutazione circa eventuali profili di colpa del responsabile, per il solo fatto di ricoprire il ruolo di custode della cosa che ha cagionato il danno verificatosi e lo obbliga a risarcire il danno (Sull‟argomento v., amplius, GUAGLIONE, Studi di diritto civile, vol. I, Obbligazioni e responsabilità civile, cit., p. 335 ss.; CHINÈ -FRATINI-ZOPPINI, Manualedi diritto civile, cit., pag. 2338 ss.). Al fine di poter fondare la risarcibilità del danno ex art. 2051, dunque, è sufficiente provare il nesso di causalità tra la cosa in custodia e il danno, rimanendo del tutto estraneo alla struttura della previsione normativa il profilo del comportamento del custode, che non potrà essere preso in considerazione neppure attraverso il riconoscimento di una presunzione di colpa. Il custode, dunque, non potra' sottrarsi alla responsabilita' dimostrando semplicemente di aver adottato le regole di diligenza e le cautele idonee ad impedire l'evento. Sul custode incombe, dunque, una presunzione di responsabilità, che riveste carattere oggettivo. L'unico limite posto dal dettato legislativo a tale responsabilità è quello rappresentato dal caso fortuito, che assume un ruolo esimente solo qualora sia rigorosamente provato. In particolare, il caso fortuito può sussistere: - quando, nella sequenza degli eventi, si inserisce un fattore esterno di per se' stesso idoneo a produrre l'evento dannoso (il cosiddetto fortuito autonomo); - nel caso in cui il danno venga prodotto direttamente dalla cosa in custodia, ma in conseguenza di un fattore esterno imprevedibile che abbia inciso sulla stessa (il caso fortuito detto incidentale). Il fattore esterno in questione può essere individuato tanto in un evento naturalistico, quanto in un comporta-mento dello stesso danneggiato.

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La rilevanza esimente del caso fortuito, dunque, attiene al profilo strettamente causale, con conseguente inversione dell'onere della prova, per cui all'attore competerà provare l'esistenza di un rapporto eziologico tra la cosa in custodia e l'evento lesivo, mentre farà capo al custode che intenda sgravarsi dalla responsabilità la prova dell'esistenza di un fattore estraneo che rivesta le dette caratteristiche del caso fortuito. Il soggetto che agisce per ottenere il risarcimento ai sensi dell'art. 2051 c.c., dunque, sarà tenuto a provare in primo luogo l'esistenza e l'entità del danno stesso e, in secondo luogo, l'esistenza del nesso di causalità tra l'evento lesivo e il bene in custodia, unitamente all'effettiva relazione (qualificabile, appunto, come custodia) tra la cosa ed il convenuto (cfr. Cass. civ., sez. VI, 4 ottobre 2013, n. 22684;Cass. civ., sez. VI, 27 novembre 2014, n. 25214, allegata in dispensa). Quest'ultimo, dal canto suo, potrà liberarsi dalla responsabilità provando, nei termini descritti, il caso fortuito (cfr. Cass. civ., sez. VI,30 settembre 2014, n. 20619; Cass. civ., sez. III, 4 maggio 2015, n. 8893;Cass. civ., sez. VI, 9 ottobre 2015, n. 20366, allegata in dispensa) . Le relative valutazioni competono al giudice di merito e non sono sindacabili in sede di giudizio di legittimità, ove sorrette da idonea, completa ed esaustiva motivazione. È da segnalare, ancora, che, nel caso in cui non risulti compiutamente provata la concreta causa del danno, resterà a carico del custode il rischio del fatto ignoto. L'accertamento positivo del caso fortuito, tra l'altro, varrà ad escludere non soltanto la responsabilità per danni derivati da cose in custodia, bensì anche la responsabilità exart. 2043 c.c. Data la rilevanza centrale che assume il rapporto di custodia nell'attribuzione della responsabilità ex art. 2051 cod. civ., dunque, è importante specificare bene il significato della figura del custode. La giurisprudenza si è a lungo dibattuta in materia. La corrente giurisprudenziale maggioritaria individua il custode in quel soggetto che, di fatto, ha la disponibilità del bene, situazione che gli consente, pur in mancanza di uno specifico obbligo, di effettuare un efficace controllo e di intervenire tempestivamente in caso di pericolo, al fine di eliminare o attenuare le conseguenze dannose(v.Cass. civ., sez. III, 18 settembre 2014, n. 19657,allegata in dispensa). Una corrente giurisprudenziale minoritaria, invece, individua il custode in quel soggetto al quale fa capo il godimento della cosa e che è in grado, dunque, di trarne profitto. Tra le ipotesi applicative dell‟art. 2051 c.c.,più ricorrenti nella prassi giurisprudenziale, merita particolare menzione quella afferente la responsabilità della P.A. per omessa manutenzione dei propri beni. 5.1. La responsabilità della P.A da omessa custodia dei propri beni. Quanto alla responsabilità da cose in custodia, occorre soffermarsi sulla tematica della responsabilità della P.A. da omessa custodia di propri beni patrimoniali o demaniali. Per lungo tempo la giurisprudenza ha sostanzialmente disapplicato l’art. 2051 c.c. ove custode fosse una pubblica amministrazione facendo leva sulla presunzione di legittimità dell’agire amministrativo. L‟indirizzo si ricollegava all‟idea più generale secondo cui doveva ritenersi inibita l‟estensione alla amministrazione di tutte quelle norme civilistiche, dettate specie in ambito contrattuale, introduttive di presunzioni di colpa o comunque finalizzate a sanzionare determinate scorrettezze comportamentali del singolo (si pensi, avuto riguardo a questo diverso ambito, alle norme in tema di responsabilità precontrattuale o in materia di clausole vessatorie). L’orientamento è stato superato anzitutto rilevandosi che l’assoggettamento della P.A. alle regole del diritto privato e la collocazione della medesima su un piano di parità con gli altri soggetti quando agisce iure privatorum, nell‟ambito dei comuni rapporti della vita di relazione, risponde ormai ad un’esigenza pienamente avvertita dalla coscienza sociale. In passato, presunta la correttezza dell‟azione della p.a. si affermava che la responsabilità della stessa per omessa manutenzione di beni pubblici dovesse essere rigorosamente dimostrata dal danneggiato in tutti i suoi elementi, secondo lo schema di cui alla clausola generale dell‟art. 2043 c.c.. Era, allora, la natura demaniale o patrimoniale indisponibile della cosa produttiva di danno a determinare automaticamente l‟inoperatività dell‟art. 2051 c.c..

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Detta giurisprudenza, nel corso della sua successiva elaborazione, ha operato un’importante precisazione, sostenendo che la presunzione di responsabilità per danni da cose in custodia non sia applicabile agli enti pubblici ogni qual volta il bene, sia esso demaniale o patrimoniale, per le sue caratteristiche (estensione e modalità d’uso) sia oggetto di un’utilizzazione generale e diretta da parte di terzi, che limiti in concreto le possibilità di custodia e vigilanza sulla cosa; solo in questi casi, perciò, si è puntualizzato, l’ente pubblico risponde secondo l’art. 2043 c.c. dei danni subiti da terzi a causa di un’insidia stradalequando l’insidia stessa non sia visibile e neppure prevedibile. In tal modo si è inteso evidenziare che non si tratta di riconoscere alla p.a. un ingiustificato privilegio, inconcepibile in uno Stato di diritto, ma soltanto di verificare nel caso concreto la reale sussistenza del presupposto della effettiva custodia. A partire dagli anni ottanta si è sempre più fatto ricorso alle nozioni, di invenzione pretoriale, di “insidia” e di “trabocchetto”, contestate da chi le ha ritenute introdotte ad hoc, nell‟ambito di una precisa strategia volta a nascondere un più o meno velato fine di limitazione della responsabilità civile dell‟amministrazione. L‟evoluzione giurisprudenziale successiva è caratterizzata dal costante riferimento alla questione della natura della responsabilità e dal susseguirsi di contrastanti prese di posizione provenienti tutte dalla stessa terza sezione della Cassazione (cfr. Cass. sez. III, 20 febbraio 2006, n. 3651, Cass. sez. III, 02 febbraio 2007, n. 2308 e Cass., sez. III, 06 luglio 2006, n. 15383). Le prime sentenze chiariscono che tale tipo di responsabilità è esclusa solamente dal caso fortuito, con ciò riferendosi a quel fattore che attiene non già ad un comportamento del responsabile bensì al profilo causale dell‟evento, riconducibile non alla cosa che ne è fonte immediata ma ad un elemento esterno, recante i caratteri dell‟imprevedibilità e dell‟inevitabilità. Si ribadisce il significato del concetto di “custodia” nel suo contenuto di “potere di governo” della cosa, negando, però, che lo stesso possa surrettiziamente introdurre elementi di soggettività nella fattispecie in quanto si afferma che il custode risponde dei danni prodotti dalla cosa non perchè ha assunto un comportamento poco diligente, ma più semplicemente per la particolare posizione in cui si trovava rispetto alla cosa danneggiante, e quindi secondo una logica che è propria della responsabilità oggettiva. In tema di danni derivanti dall’utilizzo delle strade ed autostrade, la Cassazione, ribadisce ancora una volta l’interpretazione in chiave oggettiva dell’art. 2051 c.c. dopo aver premesso che l’applicabilità dello stesso alla p.a. è subordinato al previo accertamento della possibilità, nel caso concreto, di esercitare un effettivo controllo sul bene. Segnatamente, per i beni del demanio stradale detta verifica va compiuta valutando, non solo l‟estensione della strada, ma anche le sue caratteristiche, la posizione, le dotazioni, i sistemi di assistenza che la connotano, avuto riguardo agli strumenti che il progresso tecnologico di volta in volta appresta e che condizionano le aspettative degli utenti. Ed allora, alla stregua di tali parametri, si afferma, quanto alle autostrade destinate per loro stessa natura alla percorrenza veloce in condizioni di sicurezza, nonché per le strade site all’interno della perimetrazione del centro abitato la ricorrenza del presupposto del governo della res rispettivamente in capo al concessionario ed al proprietario, e dunque l’operatività, nei confronti dei medesimi del regime probatorio dell’art. 2051 c.c., e non di quello residuale di cui all’art. 2043 c.c., senza che la visibilità dello stato di abbandono, e perciò la pericolosità della sede stradale valgano ad escludere la responsabilità degli stessi. L'affermazione di questa ipotesi di responsabilità è avvenuta per gradi e ha conosciuto negli ultimi tempi nuovo impulso. Invero negli ultimi anni si è arrivati a sostenere (v. Cass. civ., 20 febbraio 2006, n. 3651; Cass. civ., 8 marzo 2007, n. 5308, inGiust. civ., 2008, I, 2990; Cass. civ., 6 giugno 2008, 15042, in Resp. civ. e prev., 2008, 1915 ss.; Cass. civ., 25 luglio 2008, n. 20427) una piena applicabilità della presunzione di responsabilità di cui all'art. 2051 c.c. alla P.A., escludendola nei soli casi in cui è impossibile esercitare un effettivo controllo sul bene custodito. La piena applicabilità della presunzione di cui all'art. 2051 c.c. viene espressamente affermata nella sentenza n. 20427 del 2008, in cui la Suprema Corte, fondando la responsabilità sul mero rapporto di custodia tra la P.A. e il bene demaniale, ritiene l'ente pubblico sempre responsabile ai sensi dell'art. 2051 c.c., salvo il caso fortuito. La Cassazione, partendo da un'interpretazione letterale della norma e

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valorizzando il concetto di «custodia», ha ritenuto che la P.A. sia sempre in grado di esercitare il potere di controllo sul demanio stradale, ad eccezione dei casi in cui viene a crearsi una situazione di pericolo improvvisa, provocata dagli stessi utenti della strada o da una «repentina e non prevedibile alterazione dello stato della cosa, tale da non poter essere rimossa o segnalata, per difetto del tempo strettamente necessario a provvedere» (Cass. civ., 25 luglio 2008, n. 20427).Ad avviso della Corte, l'ente pubblico proprietario della rete viaria è tenuto ex lege a manutenere le strade, per cui è senza dubbio «custode» nel senso tecnico-giuridico recepito dallo art. 2051 c.c., cioè un soggetto dotato del potere di sorvegliare la cosa, di impedire eventuali situazioni di pericolo che possono sorgere e di escludere terzi dall'ingerenza sul bene. In quest'ottica, una volta accertato che il fatto dannoso si è prodotto nell'ambito del dinamismo connaturale del bene, è sempre configurabile la responsabilità dell'ente pubblico custode, a meno che quest'ultimo non dimostri il «caso fortuito», inteso quale «fattore che attiene non già ad un comportamento del responsabile bensì al profilo causale dell'evento, riconducibile non alla cosa che ne è fonte immediata ma ad un elemento esterno, recante i caratteri dell'imprevedibilità e dell'inevitabilità» (28) La responsabilità della P.A. ai sensi dell'art. 2051 c.c. è, quindi, esclusa quando il danno deriva da una causa esterna non prevedibile o proveniente da terzi, ma se la causa del danno è intrinseca alla natura del bene, come nel caso di dissesto o presenza di buche, allora è senza dubbio configurabile. Questa pronuncia sembrerebbe sancire definitivamente la fine del fondamento colposo nella responsabilità per danni da cose in custodia; tuttavia, in alcune pronunce successive si ravvisa ancora la sopravvivenza di un giudizio in ordine alla colpa della P.A. Viene, infatti, attribuito rilievo all'indagine circa l'effettività del potere di vigilanza sulla cosa da parte del soggetto pubblico, ammettendo la possibilità di situazioni in cui l'ente pubblico non è comunque in grado di esercitare un controllo effettivo sul bene. In altra recente sentenza (Cass. civ., 22 aprile 2010, n. 9546, inRep. Foro it., 2010, voceResponsabilità civile, n. 288 ss.) la Corte ha sostenuto che come non può essere escluso a priori il rapporto di custodia in relazione alla natura demaniale del bene, così lo stesso non può nemmeno ritenersi sussistente «anche quando vi è l'oggettiva impossibilità di tale potere di controllo sul bene, che è il presupposto necessario per la modifica della situazione di pericolo». Confutando l'orientamento seguito dalla precedente sentenza del 2008, la Corte afferma che per valutare l'esigibilità della custodia in relazione ai beni demaniali di grandi dimensioni quali la rete viaria non si può far riferimento ai poteri giuridici astratti della P.A., ma è necessaria un'analisi in concreto. Il potere di effettivo controllo sul demanio stradale deve essere accertato tenendo conto non solo della notevole estensione del bene demaniale e dell'uso generalizzato dello stesso da parte della collettività, ma anche delle caratteristiche delle strade, la loro posizione, le dotazioni, i sistemi di assistenza e gli strumenti tecnologici che le connotano: se dall'analisi emerge che la custodia non è concretamente esigibile, la tutela risarcitoria del danneggiato rimarrà affidata esclusivamente alla disciplina di cui all'art. 2043 c.c. Nelle ultime pronunce in materia torna così ad assumere notevole rilievo il concetto di custodia inteso non come possibilità astratta di controllo, ma come facoltà effettiva di vigilanza del soggetto, con riferimento alla specifica vicenda in cui la cosa ha prodotto il danno(v. Cass. civ., sez. VI, 17 settembre 2013, n. 21233; Cass. civ.,sez. VI, 19 giugno 2015, n. 12821). Ciò mal si concilia con una lettura oggettiva della responsabilità di cui all'art. 2051 c.c., poiché in tale ottica non vi è spazio per limitazioni relative al tipo di bene o valutazioni circa la condotta del custode. Aderendo alla natura oggettiva della responsabilità, infatti, il custode risponderebbe del danno derivante dalla res anche in assenza di una sua concreta possibilità di intervento nel processo di causazione del danno e andrebbe esente da responsabilità solo dimostrando il caso fortuito, inteso come evento imprevedibile ed eccezionale, senza invocare l'impossibilità materiale di esercitare sulla cosa un effettivo potere di controllo e di governo. È chiaro, quindi, che la giurisprudenza recente, pur rifiutando espressamente il fondamento colposo della responsabilità ex art. 2051 c.c., accoglie un concetto di custodia improntato all'effettività della stessa (cfr. Cass. civ., sez. III, 2 marzo 2012, n. 3253; Cass. civ., sez. VI, 4 ottobre 2013, n. 22684, cit.). Il criterio dell'esigibilità della custodia in concreto, tuttavia, non allevia nuovamente la P.A. dagli obblighi risarcitori (v.LAGHEZZA,Trabocchetto e responsabilità della P.A., inResp. civ., 2009, 876), bensì determina una maggior severità di giudizio: il richiamo all'effettività del

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potere di controllo e sorveglianza, infatti, permette di arrivare quasi sempre a riconoscere che, nel caso concreto, la custodia da parte dell'ente pubblico era esigibile. Alla luce delle considerazioni fin qui avanzate, si può concludere che l'evoluzione del pensiero giurisprudenziale in materia non è poi così netta: analizzando a fondo tutte le pronunce intervenute in questi anni, si evince che non c'è mai stato un vero passaggio dalla responsabilità per colpa aggravata alla responsabilità di tipo oggettivo: l'unica evoluzione che può rilevarsi è quella dalla presunzione di irresponsabilità assoluta della P.A. a quella relativa (FRENDA,La Pubblica amministrazione e la responsabilità per il danno da cose in custodia, inResp. civ., 2009, 1033, che sottolinea come sia la tesi tradizionale sia quella più recente siano incentrate sullo stesso elemento prima negato in radice e ora da verificarsi caso per caso costituito dalla possibilità materiale e concreta, per il soggetto pubblico, di esercitare un controllo completo e continuo sulla cosa produttiva di danno). Si è passati dalla tesi tradizionale che, negando la possibilità di un potere di custodia in capo all'ente pubblico, escludeva tout court l'applicabilità della disciplina di cui all'art. 2051 c.c. alla P.A., al più recente orientamento che propende per la piena operatività della norma, contemperata dalla necessità di accertare l'esigibilità della custodia in concreto. È evidente che il dibattito intorno alla responsabilità da cose in custodia in capo alla P.A. è tutt'altro che sopito e si auspica un intervento chiarificatore delle Sezioni Unite al fine di trovare un'interpretazione condivisa che tenga conto sia del dato letterale della norma, sia del dibattito fiorito intorno alla stessa.

6. La responsabilità per danno cagionato da animali: art. 2052 c.c. Altra ipotesi di responsabilità oggettiva è quella disciplinata dall‟art. 2052 c.c. per il danno cagionato da animali. Benché non siano mancate opinioni contrarie che inquadravano la fattispecie di cui all‟art. 2052 c.c. in una ipotesi di presunzione di colpa, è ormai opinione diffusa che si tratti di un caso di responsabilità oggettiva, atteso che in tali ipotesi la causa dell‟evento di danno non è costituita da una condotta dolosa o colposa del soggetto che l‟ordinamento individua come obbligato al risarcimento, ma sulla mera sussistenza del nesso eziologico. La causalità deve, quindi, essere intesa in senso più lato e indiretto: essa intercorre non tra il danno e la condotta del danneggiante, ma tra il danno e la cosa o l‟animale o la persona (diversa dal soggetto obbligato al risarcimento) dei cui danneggiamenti deve rispondere detto soggetto individuato come responsabile dall‟ordinamento. In altri termini, il proprietario o utilizzatore di un animale risponde, sulla base non già di un proprio comportamento o di una propria attività, ma sulla base della mera relazione (di proprietà o di uso) intercorrente fra lui e l’animale,nonché del nesso di causalità sussistente fra il comportamento di quest’ultimo e l’evento dannoso, salvo prova del caso fortuito (ossia dell‟intervento di un fattore esterno idoneo a interrompere il nesso di causalità tra il comportamento dell‟animale e l‟evento lesivo, comprensivo anche del fatto del terzo o del fatto colposo del danneggiato che abbia avuto efficacia causale esclusiva nella produzione del danno) (cfr., tra le più recenti,Cass. civ., sez. III, 22 marzo 2013, n. 7260;Cass. civ., sez. III, 28 luglio 2014, n. 17091,entrambe allegate in dispensa). Un caso peculiare è quello della responsabilità della P.A. per danno cagionato dalla fauna selvatica affrontato dalla sentenza 21 novembre 2008 n. 27763 e risolto in termini di inapplicabilità della presunzione di responsabilità di cui all’art. 2052, riconducendo l’ipotesi de qua nell’alveo dell’art. 2043 c.c. La corte chiarisce che secondo la giurisprudenza di legittimità, nel caso di specie, la responsabilità della Regione e' configurabile solo ex art. 2043 c.c., con le note implicazioni circa l'onere probatorio. Secondo l'indirizzo prevalente, il danno cagionato dalla fauna selvatica, che ai sensi della Legge 27 dicembre 1977, n. 968, appartiene alla categoria dei beni patrimoniali indisponibili dello Stato, non e' risarcibile in base alla presunzione stabilita nell'articolo 2052 c.c., inapplicabile con riguardo alla selvaggina, il cui stato di libertà e' incompatibile con un qualsiasi obbligo di custodia da parte della p.a., ma solamente alla stregua dei principi generali della responsabilità extracontrattuale di cui all'articolo 2043 c.c., anche in tema di onere della prova e richiede, pertanto, l'accertamento di un concreto comportamento colposo ascrivibile all'Ente pubblico (cfr. Cass. civ., sez. III, 6 dicembre 2011, n.

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26197; Cass. civ., sez. III, 24 ottobre 2013, n. 24121; Cass civ., sez. III,24 aprile 2014, n. 9276, allegata in dispensa). La situazione non e' poi mutata con l'entrata in vigore della Legge n. 157 del 1992, la quale ha ribadito che: "la fauna selvatica e' patrimonio indisponibile dello Stato ed e' tutelata nell'interesse della comunità nazionale ed internazionale". Anche la Corte Costituzionale ha escluso la sussistenza di una irragionevole disparità di trattamento tra il privato, proprietario di un animale domestico (o in cattività), e la Pubblica Amministrazione, nel cui patrimonio sono ricompresi anche gli animali selvatici, sotto il profilo che gli eventuali pregiudizi, provocati da "animali che soddisfano il godimento della intera collettività, costituiscono un evento puramente naturale di cui la comunità intera deve farsi carico, secondo il regime ordinario e solidaristico di imputazione della responsabilità civile, ex articolo 2043 c.c." (ord. n. 4 del 4 gennaio 2001). La corte ribadisce, quasi emulando una motivazione largamente impiegata, ma ormai del tutto recessiva, in tema di responsabilità della P.A. da omessa custodia dei propri beni (ex art. 2051 c.c. infra), che non possono essere pretese dall'Ente pubblico la recinzione e la segnalazione generalizzate di tutti i perimetri boschivi indipendentemente dalle loro peculiarità concrete. 7. Rovina di edificio: art. 2053 c.c. Discorso analogo vale anche per la previsione di cui all‟art. 2053 c.c. in tema di responsabilità per rovina di edificio. Per la sussistenza di tale responsabilità, che ha carattere oggettivo, è sufficiente il riscontro di un rapporto causale tra il vizio o difetto (costruttivo o manutentivo) e il danno. Essa viene attribuita al soggetto che risulta, al momento della rovina, proprietario dell‟immobile che, per andare esente da responsabilità, dovrà fornire la prova che la rovina non è dovuta a difetto di manutenzione o a vizio di costruzione. A ben vedere, la fattispecie presa in esame dall‟art. 2053 c.c. viene considerata quale ipotesi particolare rispetto a quella di più ampio spettro cui si riferiscel‟art. 2051 c.c., a proposito dei danni cagionati da cose. Del resto, la sovrapposizione delle due ipotesi è accentuata dal fatto che nella «rovina di edifici» si tende a ricomprendere non solo il caso più grave rappresentato dalla rovina totale (si pensiad esempio al crollo), ma anche quella della rovina parziale che ben può riguardare anche manufatti o elementi accessori stabilmente incorporati nella costruzione: si pensi alla rottura dei tubi dell‟impianto idrico, al distacco di uno dei tasselli di vetrocemento di cui l‟opera è composta, alla caduta di tegole o lamiere metalliche. In realtà, a differenza della fattispecie di cui all’art. 2051 c.c., per la rovina di edifici il criterio di imputazione della responsabilità è costituito semplicemente dallaposizione di proprietario dell’immobile, il quale è responsabile e garante per i danni subiti dai terzi, pur se il godimento del bene e la relazione di fatto con la cosa, ossia la custodia di cui all‟art. 2051, spettino ad altro soggetto (v. Cass. civ., sez. III, 23 maggio 2012, n. 8141; Cass. civ., sez. III, 18 settembre 2014 n. 19657, cit.; Cass. civ., sez. III, 20 maggio 2015 n. 10287, in dispensa). Secondo autorevole dottrina sono da intendersi costruzioni tutte le opere, che si elevino sopra o sotto il suolo, le quali siano incorporate al suolo anche in modo transitorio. Pertanto, ad esempio, non potrebbe considerarsi rovina un cedimento della sede stradale, come è stato anche stabilito dalla giurisprudenza. Sono invece da considerarsi costruzioni, secondo l‟art. 2053 c.c., a mero titolo esemplificativo, la rete metallica che chiude un fondo, la trave del solaio, la tribuna di uno stadio, le mura di una città, il muro costruito lungo la strada a sostegno di un fondo, un rudere, e cioè un edificio fatiscente ed inabitabile, purchè ristrutturabile (un mucchio di rovina pertanto non sarà considerabile edificio). Anche certi accessori possono essere fatti rientrare nell‟ambito dell‟art. 2053 c.c., quali gli oggetti ornamentali, le balaustre, le saracinesche, le imposte, i vetri e le finestre, i lucernari, etc.. La Suprema Corte ha più volte affermato che la responsabilità oggettiva, posta a carico del proprietario o di altro titolare di diritto reale di godimento per rovina di edificio (o di altra costruzione) ai sensi dell'art. 2053 c.c., può essere esclusa soltanto dalla dimostrazione che i danni causati dalla rovina dell'edificio non siano riconducibili a vizi di costruzione o difetto di

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manutenzione, bensì ad un fatto dotato di efficacia causale autonoma rilevante come caso fortuito, comprensivo del fatto del terzo o del danneggiato, anche se tale fatto esterno non presenti i caratteri della imprevedibilità ed inevitabilità (cfr., ex plurimis, Cass. civ., sez. III, 21 gennaio 2010, n. 1002, nella giurisprudenza di merito, v. Appello Roma, sez. IV, 21 ottobre 2009, n. 4137; Trib. Ivrea, 12 gennaio 2013, n. 17 ). 8. La responsabilità da circolazione stradale: art. 2054 c.c. Infine una particolare attenzione merita la responsabilità per il danno cagionato dalla circolazione dei veicoli, pur nella consueta avvertenza che per i profili strutturali occorrerà riferirsi alla trattazione manualistica cui diffusamente si rinvia. La disciplina dettata dall‟art. 2054 c.c. (che si riferisce esclusivamente agli incidenti legati alla circolazione di veicoli senza guida di rotaie) abbraccia diverse ipotesi che, nel segno di una evidente continuità con le disposizioni dianzi esaminate, prendono le distanze dal criterio di imputazionedella responsabilità fondato sulla colpa. Il primo comma dell’art. 2054 c.c. stabilisce che il conducente di un veicolo senza guida di rotaie è obbligato a risarcire il danno prodotto a persone o a cose dalla circolazione del veicolo, se non prova di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno. La norma introduce una presunzione di colpa nella guida a carico del conducente che, per andare esente da responsabilità, deve dimostrare di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno. Quanto al contenuto di tale prova liberatoria si ritiene che compete al conducente l‟onere di dimostrare di aver fatto ricorso alle manovre di fortuna che si presentavano più opportune ed efficaci nel caso concreto e di averle attuate con perizia e diligenza, o viceversa l‟impossibilità di fare alcunché per le circostanze del caso specifico, assumendo come parametro di valutazione la prevedibilità di una persona di normale avvedutezza. Detta prova potrebbe anche non essere data in modo diretto dimostrando di aver tenuto un comportamento esente da colpa, bensì risultare dall‟accertamento che il comportamento della vittima sia stato il fattore causale esclusivo dell‟incidente o comunque concorrente. Ed infatti, si ritiene che, ove il conducente non abbia fornito prova idonea a vincere la presunzione ciò non esclude l’indagine circa l’eventuale concorso di colpa del danneggiato. Allora, una volta accertata l‟imprudenza della condotta del pedone investito da un veicolo, la colpa di questi concorre, ai sensi dell‟art. 1227 c.c., comma 1, con quella (presunta o accertata) del conducente, prevista dall‟art. 2054, comma 1, c.c. (v. Cass. civ., sez. III, 5 marzo 2013, n. 5399;Cass. civ., sez. III, 18 novembre 2014, n. 24472; Cass. civ., sez. III, 22 gennaio 2015, n. 1135, allegata in dispensa). Viceversa, il conducente del veicolo coinvolto nel sinistro non incorre in alcuna responsabilità ex art. 2054 c.c. laddove risulti provato che non vi era, da parte di quest‟ultimo, alcuna possibilità di prevenire l‟evento, situazione, questa, ricorrente allorché il pedone abbia tenuto una condotta imprevedibile e anormale, sicché l‟automobilista si sia trovato nell‟oggettiva impossibilità di avvistarlo e comunque di osservarne tempestivamente i movimenti (Si pensi, ad esempio, al caso in cui il pedone appare all‟improvviso sulla traiettoria del veicolo che procede regolarmente sulla strada, rispettando tutte le norme della circolazione stradale e quelle di comune prudenza e diligenza incidenti con nesso di causalità sul sinistro). La presunzione di responsabilità di cui al primo comma va letta congiuntamente a quella di cui al comma 4. Quest‟ultimo imputa al conducente (come al proprietario, all‟usufruttuario, all‟acquirente con patto di riservato dominio) la responsabilità per i danni derivati da vizi di costruzione o difetti di manutenzione del veicolo (infra). In tale evenienza la norma accolla integralmente il rischio della mancanza di sicurezza del veicolo, dovuta a vizi di costruzione e di manutenzione, sia alproprietario che al conducente, i quali sono chiamati a garantire i terzi dei danni subiti senza poter fornire alcuna prova liberatoria: ciò significa che è del tutto irrilevante il fatto che il vizio di costruzione sia sconosciuto e non conoscibile da parte del proprietario o che il vizio di manutenzione sia pur sempre rimasto, sebbene tale soggetto si sia diligentemente rivolto ad un‟officina specializzata

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Peculiare è la responsabilità de qua in caso di scontro tra veicoli, in cui l’art. 2054,secondo comma, c.c. dispone che debba presumersi, sino a prova contraria, che ciascuno dei conducenti abbia concorso ugualmente a cagionare il danno. La Cassazione ha affermato il principio che la presunzione di uguale concorso di colpa dei conducenti costituisce criterio di distribuzione della responsabilità che opera sul presupposto della impossibilità di accertare con indagini specifiche le modalità del sinistro e le rispettive responsabilità oppure di stabilire con certezza l‟incidenza delle singole condotte colpose nella causazione dell‟evento e che detta presunzione può essere superata anche dall‟accertamento in concreto che la condotta di uno dei conducenti ha avuto efficacia causale assorbente nella produzione dell‟evento dannoso (cfr. Cass. civ., sez. VI, 19 novembre 2014, n. 24676, allegata in dispensa). Peraltro, l‟accertamento in concreto della colpa di uno dei due conducenti non comporta di per sé il superamento della presunzione di colpa concorrente dell‟altro, all‟uopo occorrendo che quest‟ultimo fornisca la prova liberatoria, con la dimostrazione di essersi uniformato alle norme sulla circolazione e a quelle della comune prudenza (cfr. Cass. civ., sez. III, 31 luglio 2013, n. 18340, allegata in dispensa). Inoltre, tale presunzione non opera allorquando risulti che uno dei conducenti abbia determinato lo scontro con dolo, non potendosi configurare un concorso tra una condotta eventualmente colposa dell‟uno, da una parte, e una dolosa, dell‟altro. Quando si ha scontro tra veicoli? Due sono le tesi. 1)primo orientamento: si ha scontro di veicoli quando ricorre un nesso eziologico tra le reciproche manovre e l‟evento lesivo; 2) secondo orientamento (prevalente): è necessaria la collisione fisica tra i veicoli coinvolti. Questione di particolare interesse è quella che attiene alla tematica dei terzi trasportati. Superato l‟orientamento tradizione, è ormai principio acquisito, – com‟è indirettamente confermato dall‟art. 122 comma 2 del codice delle assicurazioni private, secondo cui l‟assicurazione comprende la responsabilità per i danni alla persona causati ai trasportati, qualunque sia il titolo in base al quale il trasporto è effettuato - che in tema di responsabilità derivante dalla circolazione dei veicoli, l‟art. 2054 c.c. esprime, in ciascuno dei commi che lo compongono, principi di carattere generale, applicabili a tutti i soggetti che da tale circolazione comunque ricevano danno, e quindi anche ai trasportati, indipenden-temente dal titolo del trasporto, di cortesia ovvero contrattuale, oneroso o gratuito (v. Cass. civ., sez. III, 7 ottobre 2010, n. 20810). Da ultimo la corte di cassazione ha affermato che in tema di trasporto "amichevole o di cortesia", diversamente dal trasporto "gratuito", il titolo di responsabilità di colui che lo effettua è di natura extracontrattuale, come tale interamente regolato dall'art. 2043 c.c. Ne consegue che, nell'azione risarcitoria, devono essere accertati in concreto sia il dolo che la colpa, quali elementi costitutivi dell'illecito, ricorrendo la seconda ogni qualvolta il vettore abbia tenuto un comportamento non improntato ai canoni oggettivi della perizia e della diligenza (Cass. civ., 8 ottobre 2009, n. 21389). Pertanto, il trasportato, indipendentemente dal titolo del trasporto, può invocare i primi due commi della disposizione citata per far valere la responsabilità del conducente del veicolo a bordo del quale viaggiava o quella solidale del proprietario: quest‟ultimo può liberarsi solo provando che la circolazione del veicolo è avvenuta contro la sua volontà, mentre al conducente spetta provare di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno. Ai fini dell‟affermazione della responsabilità solidale del proprietario ai sensi dell‟art. 2054 c.c. è, irrilevante che quella del conducente sia riconosciuta in via presuntiva ai sensi dell‟art. 2054 c.c. ovvero sulla base di un accertamento in concreto della colpa (ex art. 2043 c.c.), giacchè l‟estensione della responsabilità al proprietario mira a soddisfare la generale, fondamentale esigenza di garantire il risarcimento al danneggiato. La responsabilità del vettore nei confronti del passeggero può essere ridotta ove risulti provato il concorso del fatto colposo di quest’ultimo nella causazione dei danni dallo stesso riportati. La giurisprudenza della Suprema Corte è consolidata nel ritenere che la mancata adozione di misure di sicurezza da parte del passeggero integri una ipotesi di cooperazione colposa, da imputare al danneggiato medesimo in base al principio di autoresponsabilità, rilevante ai sensi dell‟art. 1227 c.c., con conseguente riduzione proporzionale del risarcimento del danno (v. Cass. civ., sez. III, 12 ottobre 2012, n. 17407,Cass. civ., sez. III, 3 aprile 2014, n. 7777, in dispensa.)

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Ma del mancato rispetto di tale obbligo, e dunque dei danni ad esso conseguenti, è chiamato a rispondere anche il conducente? La Cassazione risponde affermativamente: è vero, infatti, che nell‟ordinamento non esiste alcuna previsione positiva che prescriva al conducente di un autoveicolo di controllare che i passeggeri indossino le cinture di sicurezza, e che anzi una norma impone l‟utilizzo delle dette misure al trasportato, prevedendo anche una sanzione amministrativa a suo carico per l‟inosservanza, nondimeno si riconosce la concorrente responsabilità del vettore in applicazione delle regole di comune prudenza e diligenza prescritte dall‟art. 1176 c.c., oltre che da puntuali prescrizioni del codice della strada. V‟è chi rintraccia in questo modo, nella persona del conducente, in quanto colui che rende possibile la circolazione, una “posizione di controllo”, finalizzata a porre in essere tutti i comportamenti che risultino necessari alla salvaguardia dell‟incolumità dei “terzi”, siano essi totalmente estranei alla circolazione” ovvero indirettamente coinvolti in quanto trasportati . In realtà i giudici di legittimità riconoscono che detta fattispecie presenta elementi di similitudine con quella in cui il trasportato produca danni a terzi: anche in tale eventualità il conducente è stato chiamato a risponderne in quanto egli stesso è responsabile dei danni prodotti dalla circolazione del veicolo, sia pure in concorso con il trasportato. Ed allora, l‟ottica è la stessa, ricorrendo, infatti, un concorso eziologico di cause, disciplinato dall‟art. 1227, c. 1, c.p.c., pure nel caso in cui il trasportato, con il suo comportamento, cagioni danni a sé stesso. Il terzo comma dell’art. 2054 c.c., infine, pone a carico del proprietario, dell’usufruttuario, dell’acquirente con patto di riservato dominio una responsabilità solidale con il conducente per i danni a cose o a persone arrecati per effetto della circolazione del veicolo. E‟ prevista una prova liberatoria: la dimostrazione che la circolazione sia avvenuta contro la sua volontà. Trattasi, allora, di una responsabilità oggettiva per fatto altrui, giacché il criterio di imputazione, più che fondato sulla diligenza, è volto ad addossare al proprietario, ed ai soggetti ad esso equiparati, una responsabilità conseguente all‟esplicazione delle potenzialità dannose del veicolo in base al titolo giuridico che attribuisce ai medesimi un potere di godimento della res, e conseguentemente quello di trasferire tale godimento a terzi ovvero di impedirne l‟altrui utilizzo Per la prova liberatoria della presunzione di tale colpa, non è sufficiente dimostrare che la circolazione del veicolo sia avvenuta senza il consenso del proprietario, ma al contrario è necessario che detta circolazione sia avvenuta contro la sua volontà, la quale deve estrinsecarsi in un concreto ed idoneo comportamento specificamente inteso a vietare ed impedire la circolazione del veicolo mediante l‟adozione di cautele tali che la volontà del proprietario non possa risultare superata (cfr. Cass. civ., sez. III, 12 febbraio 2013, n. 3296;Cass. civ., sez. VI, 21 ottobre 2014, n. 22318, allegata in dispensa). Il proprietario del veicolo, sul quale la legge fa gravare questa responsabilità per fatto altrui non è colui che tale risulta presso i registri del PRA. A seguito della modifica dell‟art. 91 co. 2 cod. strad., anche se, formalmente, non è stato modificato l‟art. 2054 c.c. poiché lo stesso inserisce tra i soggetti responsabili nel caso di circolazione dei veicoli il “locatario”, esso modifica di fatto l‟art. 2054 c.c. che va così letto: “il proprietario del veicolo o, in sua vece, l‟usufruttuario o l‟acquirente con patto di riservato dominio o l‟utilizzatore a titolo di locazione finanziaria, è responsabile in solido col conducente, se non prova che la circolazione del veicolo è avvenuta contro la sua volontà ”. La ratio è, ancora una volta, quella di far gravare l‟obbligazione risarcitoria soltanto su colui che godendo della disponibilità giuridica del veicolo, avrebbe potuto e dovuto esercitare il divieto di farlo circolare. Con una norma di chiusura, il legislatore, al fine di agevolare lo spostamento delle conseguenze economiche negative discendenti dal sinistro su persona diversa dal danneggiato, addossa al conducente, nonché ai soggetti contemplati dal comma 3, una responsabilità oggettiva per i danni derivanti da vizi di costruzione o difetto di manutenzione del veicolo. Sul punto, richiamandosi quanto già espresso nel paragrafo relativo alla responsabilità del conducente, si evidenzia che detta responsabilità, prescindendo dal comportamento colpevole dei soggetti cui viene imputata, consente agli stessi di non risponderne solo previa dimostrazione dell‟interruzione del nesso causale tra il guasto

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ed il danno, provando, cioè, la ricorrenza di un fattore esterno che con propria e autonoma efficienza causale ha provocato il danno. Si rinvia alla lezione II per la trattazione delle ipotesi di responsabilità speciali non codificate.


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