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APPUNTI PER LE LEZIONI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO

Dipartimento di Scienze Giuridiche - LUISS “Guido Carli”

A.A. 2011-2012

Prof. Marcello Clarich

CAP. I

INTRODUZIONE

1. Premessa; 2. Modelli di Stato e nascita del diritto amministrativo; 3. Diritto amministrativo e scienze sociali. La scienza del diritto amministrativo; 4. Il diritto amministrativo e i suoi rapporti con altre branche del diritto; 5. I caratteri generali del diritto amministrativo; 6. Piano dell’opera. (pagg 3-37)

CAP. II

LA FUNZIONE DI REGOLAZIONE E LE FONTI DEL DIRITTO

1. Premessa; 2. La Costituzione; 3. Fonti comunitarie e pubblica amministrazione; 4. Fonti normative statali, riserve di legge, principio di legalità; 5. Le leggi provvedimento e la riserva di amministrazione; 6. I regolamenti governativi; 7. Cenni alle fonti normative regionali, degli enti locali e di altri enti pubblici; 8. Atti di regolazione aventi natura non normativa; 9. Gli atti amministrativi generali: a) i bandi di concorso e gli avvisi di gara; 10. Segue: b) gli atti di pianificazione e di programmazione; 11. Segue: c) le ordinanze contingibili e urgenti; 12. Segue: d) le direttive e gli atti di indirizzo; 13. Segue: e) le norme interne e le circolari; 14. Il riordino della legislazione: i testi unici e i codici; 15. Sviluppi recenti. (pagg 38-71)

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CAP. III

LA FUNZIONE DI AMMINISTRAZIONE ATTIVA

1. Le funzioni e l’attività amministrativa; 2. Segue: il potere, il provvedimento, il procedimento; 3. Il rapporto giuridico amministrativo. I diritti potestativi e il potere amministrativo; 4. Il potere amministrativo e la norma d’azione; 5. Il potere discrezionale; 6. L’interesse legittimo; 7. Segue: l’interesse legittimo oppositivo e pretensivo; 8. Diritti soggettivi e interessi legittimi: criteri di distinzione; 9. Interessi di fatto, diffusi e collettivi; 10. I principi generali. (pagg 72-122)

CAP. IV

IL PROVVEDIMENTO AMMINISTRATIVO

1. Premessa; 2. Il regime del provvedimento amministrativo: a) la tipicità; 3. Segue: b) la cosiddetta imperatività; 4. Segue: c) L’esecutorietà e l’efficacia; d) l’inoppugnabilità; 5. Gli elementi strutturali dell’atto amministrativo. L’obbligo di motivazione; 6. I provvedimenti ablatori reali, i provvedimenti ordinatori, le sanzioni amministrative; 7. Le attività libere assoggettate a regime di comunicazione preventiva. La segnalazione certificata di avvio dell’attività. 8. Le autorizzazioni e le concessioni; 9. Gli atti dichiarativi; 10) Altre classificazioni: atti collettivi, atti plurimi, atti di alta amministrazione, atti collegiali; 11. L’invalidità dell’atto amministrativo; 12. L’annullabilità: a) l’incompetenza; b) la violazione di legge; 13. Segue: c) l’eccesso di potere; 14. La nullità; 15 L’annullamento d’ufficio, la convalida, la ratifica, la sanatoria, la conferma, la conversione, la revoca, il recesso. (pagg 123-186)

CAP. V

IL PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO

1. Nozione e funzioni del procedimento amministrativo; - 2. Le leggi generali sul procedimento e la l. n. 241/1990; - 3. Le fasi del procedimento: a) l’iniziativa; - 4. Segue: b) l’istruttoria; - 5. Segue: c) la

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fase decisionale; - 6. Procedimenti semplici, complessi, collegati. Il sub procedimento; - 7. La conferenza di servizi e altre forme di coordinamento; - 8. Tipi di procedimento. a) L’espropriazione per pubblica utilità; 9. Segue: b) le sanzioni pecuniarie e disciplinari; 10. Segue: c) le autorizzazioni. Il permesso a costruire; 11. Segue: d) I procedimenti concorsuali. L’accesso agli impieghi pubblici; 12. Segue: e) i contratti pubblici per l’affidamento di lavori, servizi e forniture; 13. Segue: f) l’accesso ai documenti amministrativi. (pagg 187-236)

CAP. VI

I CONTROLLI E LA RESPONSABILITA’

A) I CONTROLLI. 1. Premessa; 2. I controlli sugli atti e sull’attività; 3. I controlli gestionali.

B) LA RESPONSABILITA’. 4. Premessa; 5. L’art. 28 della Costituzione e la responsabilità civile da comportamento illecito. 6. La risarcibilità del danno da lesione di interessi legittimi; 7. La responsabilità nel diritto europeo; 8. La responsabilità amministrativa. (pagg 237-262)

CAP. VII

LA GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA

1. Nozione; 2. Cenni storici: a) la legge abolitiva del contenzioso amministrativo; 3. Segue: b) la nascita del giudice amministrativo; 4. La giustizia amministrativa nella Costituzione; 5. L’istituzione dei Tribunali Amministrativi Regionali e le riforme successive; 6. Il dualismo del sistema italiano e il riparto di giurisdizione; 7. La giurisdizione amministrativa di legittimità, esclusiva e di merito; 8. Le azioni nel processo di cognizione, le azioni cautelare ed esecutiva; 9. Lo svolgimento del processo amministrativo. I principi informatori; 10. I ricorsi amministrativi; 11. Cenni alle giurisdizioni amministrative speciali. (pagg 263-290)

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CAP. I

INTRODUZIONE

1. Premessa; 2. Modelli di Stato e nascita del diritto amministrativo; 3. Diritto amministrativo e scienze sociali. La scienza del diritto amministrativo; 4. Il diritto amministrativo e i suoi rapporti con altre branche del diritto; 5. I caratteri generali del diritto amministrativo; 6. Piano dell’opera.

1. Premessa.

Il diritto amministrativo può essere inteso, in prima approssimazione, come quella branca del diritto pubblico interno che ha per oggetto l’organizzazione e l’attività della pubblica amministrazione. Esso riguarda in particolare i rapporti che quest’ultima instaura con i soggetti privati nell’esercizio di poteri ad essa conferiti dalla legge per la cura di interessi della collettività1.

Il diritto amministrativo si compone di un corpo di regole e di principi, autonomo dal diritto privato, che si è andato formando nell’Europa continentale nel corso del XIX secolo in parallelo all’evoluzione dello Stato di diritto.

Rispetto alla tradizione millenaria del diritto privato, si tratta dunque di un diritto recente. Le locuzioni “administration publique” e “burocrazia” comparvero per la prima volta in Francia intorno alla metà del XVIII secolo e vennero riferite alla nascita e al consolidarsi di un potere pubblico nuovo, dai tratti dispotici e autoritari. In epoca napoleonica si

1 Secondo una delle prime definizioni, proposta da Vittorio Emanuele Orlando nei Principii

di diritto amministrativo del 1891, il diritto amministrativo è “il sistema di quei principii giuridici che regolano l’attività dello Stato per il raggiungimento dei suoi fini” . Secondo quella più recente contenuta nel Trattato di diritto amministrativo francese di André de Laubadère, il diritto amministrativo è “la branche du droit public interne qui comprend l’organisation et l’activité de ce qu’on appelle couramment l’administration, c’est-à-dire l’ensemble des autorités, agents et organismes chargés, sous l’impulsion des pouvoirs politiques, d’assurer les multiples interventions de l’Etat moderne”. Per quanto riguarda gli Stati Uniti, secondo il manuale di Stephan Breyer e Richard Stewart, Administrative law and regulatory policy, “Administrative law consists of those legal rules and principles that define the authority and structure of administrative agencies, specify the procedural formalities that agencies employ, determine the validity of particular administrative decisions and define the role of reviewing courts and other organs of government in their relation to administrative agencies”.

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iniziò a utilizzare l’espressione “droit administratif” e il primo trattato di diritto amministrativo fu pubblicato da Gian Domenico Romagnosi nel 1814, ma solo verso la fine del XIX secolo la disciplina trovò un inquadramento più compiuto.

Del resto la distinzione, già nota al diritto romano2, tra diritto privato e diritto pubblico rimase in uno stato embrionale almeno fino in epoca moderna.

Il diritto pubblico si ricollega infatti culturalmente al dibattito politico e filosofico settecentesco sul fondamento e sulla legittimità del potere del sovrano. Assunse poi la consistenza di una branca sviluppata del diritto allorché giunse a maturazione lo Stato costituzionale di diritto (Rechtsstaat, Ėtat de droit), con tempistiche e modalità differenziate nei singoli Stati, a partire dalla rivoluzione francese (1789). Le costituzioni liberali ottocentesche (in Piemonte, lo Statuto albertino del 1848) costituirono la base normativa a partire dalla quale la dottrina, soprattutto tedesca (George Jellinek, Paul Laband, Otto Mayer), elaborò i concetti fondamentali del diritto pubblico (sovranità, Stato persona, diritti pubblici soggettivi, ecc.).

Il diritto amministrativo può essere avvicinato lungo una pluralità di percorsi. In primo luogo, esso va colto in una prospettiva storica, dando conto di due processi: l’emergere di apparati amministrativi stabili posti al servizio del sovrano e l’evolversi nel tempo della struttura della pubblica amministrazione in relazione all’ampiezza delle funzioni assunte via via come proprie dallo Stato; il progressivo assoggettamento della pubblica amministrazione ai principi dello Stato di diritto e la formazione di un diritto speciale ad essa applicabile. In secondo luogo, è utile muovere dalle scienze sociali che analizzano con i propri metodi il fenomeno delle amministrazioni pubbliche e gettano le basi teoriche della teoria della regolazione (regulation). In terzo luogo, occorre fissare le distinzioni e i nessi del diritto amministrativo rispetto ad altre branche del diritto (diritto costituzionale, diritto europeo, diritto privato). Infine, conviene prendere in considerazione alcuni caratteri generali e le principali partizioni della materia.

2. Modelli di Stato e nascita del diritto amministrativo.

2 Secondo la celebre definizione di Ulpiano, jus publicum è “quod ad statum rei Romanae

spectat”, jus privatum “quod ad singulorum utilitatem”.

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2.1. Stato amministrativo.

La presenza di apparati burocratici organizzati secondo criteri razionali è una costante nella storia. Fin dall’antichità i grandi imperi, in Oriente e in Occidente, si dotarono di strutture burocratiche stabili senza le quali nessun sovrano sarebbe stato in grado di esercitare il proprio potere e dominare territori talora assai estesi. L’impero romano fu uno degli esempi più perfetti di organizzazione burocratica volta a dare ordine e tendenziale uniformità nelle strutture portanti del sistema di governo.

Ma gli esempi antichi non sono di aiuto per comprendere il fenomeno amministrativo nella realtà contemporanea. I presupposti culturali, sociali, politici e costituzionali di epoche così lontane sono troppo eterogenei rispetto a quelli dell’epoca moderna per rendere significativi i confronti. Si pensi soltanto alla presenza della schiavitù o alla divisione rigida delle classi sociali.

Bisogna invece prendere le mosse dalla formazione degli Stati nazionali in Europa a partire dal XVI secolo e dal graduale superamento dell’ordinamento feudale. Quest’ultimo era caratterizzato da un’organizzazione politica policentrica e pluralistica, fondata su rapporti personali di tipo pattizio (vassallaggio) e su ampie autonomie e privilegi riconosciuti ad ordinamenti decentrati (comuni e città, ceti e corporazioni). Caratteristica era l’assenza di un centro di potere unitario effettivo. Tale non fu mai il Sacro romano imperatore, in perenne lotta per la sovranità con il papato e con i feudatari. Per esercitare il suo potere non disponeva di un’amministrazione di tipo professionale al proprio servizio.

Considerando come paradigmatico il caso francese, la nascita dello Stato moderno, con l’unificazione del potere politico in capo al re (Stato assoluto), andò di pari passo proprio con la formazione di apparati amministrativi stabili, al centro e in periferia, posti alle dirette dipendenze del sovrano (gli intendenti del Re) e contrapposti ai poteri locali.

L’accentramento burocratico, cioè la formazione di uno Stato amministrativo, costituì uno degli strumenti per ricondurre a unitarietà, in capo al sovrano legibus solutus, il potere politico e statuale3.

3 La nota affermazione di Luigi XIV --- “Lo Stato sono io” --- esprime in modo efficace la

riconduzione della sovranità, nelle sue varie espressioni, a un unico centro di imputazione.

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Nell’esperienza francese lo Stato assoluto si connotava già dunque come Stato amministrativo.

Era inoltre uno Stato che estendeva il suo raggio di azione a numerosi campi. In Francia esso ebbe un ruolo propulsivo (mercantilismo, colbertismo) che si esplicò in interventi di direzione, regolazione e gestione diretta di attività economiche (per esempio, le manifatture reali per la produzione di porcellane e di altri beni).

Nel corso del XVIII secolo lo Stato assoluto assunse i caratteri dell’assolutismo illuminato (per esempio, in Austria o in Prussia). Emerse cioè quello che va sotto il nome di Stato di polizia (Polizeistaat, ove “polizia” va intesa nel significato originario di “politeia”, cioè attinente alla “polis”) che curava la convivenza ordinata e il benessere della collettività (Wohlfahrtstaat), offrendo, con visione paternalistica, ai propri sudditi provvidenze di vario genere.

Presero anche corpo filoni di studi, come la scienza della “polizia” (Polizeiwissenschaft), e la cameralistica, assimilabile per molti aspetti alla scienza dell’amministrazione e alla scienza delle finanze. Queste scienze studiavano i metodi di buona gestione della cosa pubblica nell’interesse delle finanze statali e per la cura dei bisogni generali.

L’espansione dei compiti dello Stato e l’attribuzione di poteri amministrativi ai funzionari delegati del sovrano e agli apparati burocratici stabili portarono poco a poco all’emersione della funzione amministrativa come funzione autonoma, non più inglobata in quella giudiziaria.

In precedenza, in epoca medievale, soltanto la funzione legislativa (imperium) e la funzione giudiziaria (jurisdictio) avevano assunto una fisionomia sufficientemente definita. In Inghilterra, in particolare, i giudici di pace (Justices of the peace) assommavano poteri giurisdizionali e poteri che oggi definiremmo come amministrativi (come, per esempio, le espropriazioni).

Il potere esecutivo acquisì un profilo più autonomo solo in seguito alla formulazione della teoria della separazione dei poteri. E a lungo la dottrina fece fatica a porre una definizione di attività amministrativa e si accontentò di individuarla, in via residuale (o per sottrazione), come

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l’attività dello Stato o di altri poteri pubblici diversa da quella normativa e giurisdizionale (Walter Jellinek, Otto Mayer4).

Il modello dello Stato assoluto entrò in crisi nella seconda metà del XVIII e nel XIX secolo. La rivoluzione francese del 1789 e le costituzioni liberali approvate nei decenni successivi nell’Europa continentale segnarono la nascita del modello dello Stato di diritto (o Stato costituzionale).

2.2. Stato di diritto e Stato a regime di diritto amministrativo.

Lo Stato di diritto, che è oggi uno dei principi fondanti dell’Unione Europea, insieme a quelli della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza e del rispetto dei diritti umani richiamati dall’art. 2 del Trattato sull’Unione europea, si regge su alcuni elementi strutturali che occorre richiamare sinteticamente. Essi costituiscono infatti le precondizioni necessarie per sottoporre gli apparati amministrativi alla signoria della legge e dunque per la stessa nascita di un diritto amministrativo.

a) In primo luogo, lo Stato di diritto presuppone il trasferimento della titolarità della sovranità dal rex legibus solutus (e legittimato in base al principio dinastico) a un Parlamento eletto da un corpo elettorale, dapprima ristretto poi sempre più esteso (suffragio universale).

b) Inoltre, esso si fonda sul principio della tendenziale separazione dei poteri, necessaria per rompere il monopolio del potere in capo al sovrano assoluto, unita alla previsione di un sistema di pesi e contrappesi (check and balance) volto a evitare abusi a danno dei cittadini. Secondo la tripartizione dei poteri, teorizzata per la prima volta nel XVIII secolo da Montesquieu, il potere legislativo spetta a un Parlamento elettivo, il potere esecutivo al re e agli apparati burocratici da esso dipendenti, il potere giudiziario a una magistratura indipendente.

Il potere esecutivo viene così assoggettato alla legge, cioè alla supremazia del Parlamento, espressione della volontà popolare. Per i suoi caratteri di generalità e di astrattezza, la legge rappresenta la garanzia più efficace dell’eguaglianza e dei diritti di libertà dei cittadini contro gli arbitri e gli abusi dell’esecutivo.

4 Secondo Otto Mayer, il concetto di amministrazione può essere definito come “l’attività

dello Stato che non è né legislazione né giustizia” (“ Tätigkeit des Staates, die nicht Gesetzgebung oder Justiz ist”).

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c) Un terzo elemento strutturale dello Stato di diritto è l’inserimento nelle Costituzioni di riserve di legge. Queste escludono (riserva di legge assoluta, come quella in materia penale) o limitano (riserva di legge relativa, come quella in materia tributaria) anzitutto il potere normativo del governo.

Il potere regolamentare dell’esecutivo, come si vedrà, è infatti ammesso esclusivamente nelle materie non assoggettate a riserva di legge assoluta. Nelle materie coperte da riserva di legge relativa, esso può esplicarsi solo nel rispetto dei limiti e dei principi stabiliti dalla legge (regolamenti esecutivi). Anche i poteri puntuali dell’amministrazione che si manifestano in provvedimenti volti a incidere sui diritti dei cittadini (espropriazioni, ordini, sanzioni, autorizzazioni, licenze, ecc.) devono trovare un fondamento nella legge e sono così assoggettati al principio di legalità. Quest’ultimo si pone al centro dell’intera costruzione del diritto amministrativo.

d) Per rendere effettive la sottoposizione del potere esecutivo alla legge e la garanzia dei diritti di libertà, lo Stato di diritto richiede un quarto elemento: che al cittadino sia riconosciuta la possibilità di ottenere la tutela delle proprie ragioni anche nei confronti della pubblica amministrazione innanzi a un giudice imparziale, indipendente dal potere esecutivo.

In Francia e in altri paesi dell’Europa continentale, la giustizia nell’amministrazione venne realizzata, come si vedrà, attraverso l’istituzione verso la fine del XIX secolo di un giudice speciale, separato dal giudice ordinario, che favorì la nascita del diritto amministrativo. Il Conseil d’Ėtat in Francia e il Consiglio di Stato in Italia, infatti, fin dalle loro prime decisioni elaborarono un corpo di principi, autonomo rispetto al diritto comune, che regolano l’organizzazione e l’attività amministrativa. Lo Stato di diritto sfociò dunque nella variante costituita dallo Stato di diritto a regime di diritto amministrativo.

Nei paesi di common law invece per lungo tempo si negò la presenza di un diritto amministrativo. Il principio della “rule of law” implicava anche che all’amministrazione non fosse riconosciuto alcun privilegio e, conseguentemente, che il giudice al quale il cittadino potesse rivolgersi per far valere le proprie ragioni contro il potere esecutivo fosse quello ordinario.

Lo Stato di diritto costituisce ad un tempo un modello, affermatosi progressivamente soprattutto nel mondo occidentale, e un ideale sempre

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perfettibile. Così, per esempio, come si vedrà, in Italia la Costituzione del 1948, la legge 7 agosto 1990, n. 241 sul procedimento amministrativo e il Codice del processo amministrativo del 2010 hanno contribuito ad avvicinarci sempre più tale a ideale. Ulteriori sviluppi sono ancora possibili.

2.3. Stato guardiano notturno, Stato sociale, Stato imprenditore, Stato regolatore.

Il modello teorico dello Stato di diritto è di per sé neutrale rispetto alla gamma e all’ampiezza delle funzioni assunte come proprie dai poteri pubblici. Nel corso del XIX e XX secolo si sono succeduti, con tempi e modalità differenziate nei vari Paesi, una pluralità di fasi e di esperienze.

Con la Rivoluzione francese si fecero strada le ideologie di impronta liberista in campo economico (secondo la dottrina del laissez faire), tendenti a ridurre al minimo gli interventi diretti dello Stato nei rapporti economici e sociali. Ciò come reazione ai mille “lacci e laccioli” e ai regimi speciali e di privilegio che avevano ingessato la società e frenato lo sviluppo economico nel corso del medio evo. L’abolizione dei corpi intermedi tra Stato e cittadino, la generalità e l’astrattezza delle leggi, il principio di eguaglianza formale dei cittadini, il riordino e la razionalizzazione del diritto comune in codici organici consentirono via via di superare gli ordinamenti dell’antico regime.

Emerse così il cosiddetto “Stato guardiano notturno”, dominante per buona parte del secolo XIX. Lo Stato assunse su di sé principalmente due compiti: la garanzia dell’ordine pubblico interno e la difesa del territorio da potenziali nemici esterni. Assicurate le esigenze di sicurezza interna ed esterna, spettavano dunque alla società civile e al mercato la crescita economica e la cura di altri interessi della collettività (per esempio la sanità). Venivano considerate con sfavore le aggregazioni sociali e i corpi intermedi (associazioni, corporazioni, autonomie territoriali, ecc.) tra Stato e individuo. In questo contesto la stessa presenza di apparati amministrativi stabili era ridotta per dimensioni e personale addetto.

La visione liberista e liberale dello Stato entrò in crisi, verso la fine del XIX secolo e l’inizio del XX secolo, con l’affermarsi sulla scena politica e istituzionale di nuove ideologie e classi sociali (socialismo, operaismo, cattolicesimo, ecc.). Lo Stato monoclasse, che rispecchiava cioè essenzialmente gli interessi della società borghese, si trasformò, dal punto di vista sociologico, in pluriclasse, assumendo su di sé l’obiettivo di

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rappresentare e mediare tra gli interessi differenziati e spesso contrapposti di tutti gli strati sociali. Sulla scena politica comparvero movimenti e partiti portatori di istanze di redistribuzione e socializzazione della ricchezza nell’interesse delle classi meno abbienti.

Queste trasformazioni segnarono il trapasso a un modello di Stato che va sotto i nomi in larga misura fungibili di “Stato interventista”, “Stato sociale” o “Stato del benessere” (Welfare State). I primi interventi di legislazione sociale (previdenza, assistenza, ecc.) furono promossi, in particolare, nella Germania bismarkiana e nell’Italia giolittiana. A livello centrale, l’amministrazione dello Stato si potenziò con la crescita dimensionale e numerica dei ministeri e degli enti deputati a svolgere le nuove funzioni. A livello locale, presero avvio esperimenti di socialismo municipale, cioè di assunzione da parte dei poteri locali di servizi pubblici come l’illuminazione pubblica, la costruzione e gestione di acquedotti, l’istituzione di farmacie o di macelli comunali, ecc. Lo sforzo eccezionale di mobilitazione di risorse e di conversione e accelerazione della produzione industriale su impulso diretto dello Stato collegata alla prima guerra mondiale contribuì al superamento definitivo del modello liberista.

La crisi economica degli anni Trenta, provocata dal crollo del mercato borsistico del 1929, provocò fallimenti a catena dei maggiori gruppi finanziari e imprenditoriali e richiese interventi di salvataggio da parte dei pubblici poteri. Si accrebbe così la presenza diretta dello Stato nell’economia e si affermò dunque il modello dello “Stato imprenditore” o gestore diretto di aziende di produzione ed erogazione di un’ampia gamma di beni e servizi. Interventi sottoforma di ausili e contributi finanziari pubblici diretti o indiretti volti a sostenere particolari settori di attività diedero origine alla variante dello “Stato finanziatore”. Proliferarono altresì enti pubblici, imprese in mano pubblica, aziende per la gestione diretta di attività economiche.

In parallelo, l’influenza delle ideologie collettivistiche nel secondo dopoguerra portò all’approvazione di programmi di nazionalizzazione di settori economici strategici. Emerse così anche nelle democrazie occidentali, in forma più o meno accentuata, lo “Stato pianificatore”. Quest’ultimo si caratterizza per predisposizione a livello centrale di piani e programmi settoriali (trasporti, sanità, energia elettrica, rete commerciale, ecc.), volti a coagulare risorse pubbliche e private verso obiettivi predeterminati. L’iniziativa imprenditoriale dei privati viene

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subordinata al rilascio atti autorizzativi in conformità alle previsioni di piano.

La presenza diretta o indiretta dello Stato nelle attività economiche e sociali determinò una crescita esponenziale della spesa pubblica. In molti casi si rese necessario ripianare con fondi erariali i bilanci in perdita di imprese pubbliche gestite in modo non efficiente o gravate di compiti extra aziendali (salvaguardia di livelli di occupazione, politiche di sviluppo delle aree economicamente depresse, ecc.). Nel lungo periodo ciò provocò una crisi finanziaria dello Stato, vista l’impossibilità di aumentare oltre certi limiti la pressione fiscale e l’indebitamento.

La ripresa di ideologie antistataliste (neoliberismo) mise in crisi le fondamenta dello Stato interventista.

A partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, prese così corpo, dapprima in Gran Bretagna e successivamente in altri paesi europei, un movimento nella direzione della riduzione del campo d’azione dei pubblici poteri. Furono avviate politiche di liberalizzazione, con la soppressione di regimi di monopolio legale (privative o riserve di attività a favore dei pubblici poteri), e di privatizzazione di molte attività assunte direttamente dai pubblici poteri (cessione sul mercato di pacchetti azionari di società in mano pubblica).

Un siffatto processo venne promosso in Europa anche da numerose direttive europee comunitarie di liberalizzazione (telecomunicazioni, energia elettrica, gas, servizi postali, ecc.) volte a favorire l’apertura dei mercati alla concorrenza transfrontaliera all’interno del mercato unico. Inoltre la Commissione europea iniziò ad applicare in modo più rigoroso i divieti comunitari in tema di aiuti di Stato, cioè di forme dirette o indirette (finanziamenti diretti, contributi in conto capitale o interessi, garanzie, ecc.) di sussidi alle imprese pubbliche o private tali da alterare la concorrenza.

Lo “Stato imprenditore” si trasformò così via via, ad imitazione del modello affermatosi, come si vedrà, negli Stati Uniti, in “Stato regolatore”. Quest’ultimo rinuncia cioè a dirigere o gestire direttamente attività economiche e sociali e si fa invece carico di predisporre soltanto la cornice di regole e gli strumenti di controllo necessari affinché l’attività dei privati, svolta per quanto possibile in regime di concorrenza, non vada a ledere interessi pubblici rilevanti (tutela degli utenti e dei consumatori, dell’ambiente, della salute, ecc.).

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I compiti di regolazione, che non sono peraltro necessariamente meno complessi di quelli della gestione diretta delle attività, sono stati affidati di norma ad autorità o agenzie indipendenti (o semi-indipendenti) dal Governo (cioè dall’indirizzo politico), così da sottolineare ancor più il ruolo tecnico, neutrale, non dirigista del regolatore pubblico.

Il modello dello “Stato regolatore”, con varianti più o meno estreme, ha costituito il paradigma di riferimento dell’ultimo trentennio.

La crisi finanziaria e la recessione economica mondiale che hanno colpito nel 2008 anzitutto gli Stati Uniti, da dove si sono poi propagate negli altri continenti, hanno messo in luce le carenze strutturali delle concezioni economiche (il cosiddetto fondamentalismo di mercato) sottostanti a tale modello.

Di fronte a una crisi paragonabile, secondo alcuni, a quella degli anni Trenta del secolo scorso, sono state attuate, talora in condizioni di urgenza al fine di evitare il crollo sistemico del sistema finanziario internazionale, misure di intervento pubblico diretto (nazionalizzazioni di istituzioni finanziarie) e indiretto (sussidi alle imprese e alle famiglie) con la mobilitazione di volumi enormi di risorse pubbliche. Si è parlato, a questo riguardo, della rinascita dello Stato interventista (nella variante dello “Stato salvatore”). E’ emersa ancor di più la consapevolezza che i processi di globalizzazione economica vanno governati con istituzioni e meccanismi di regolazione anch’essi globali.

A livello europeo, è stato introdotto il Sistema europeo di vigilanza finanziaria (SEVIF) con l’istituzione dell’Autorità bancaria europea e dell’Autorità europea delle assicurazioni e delle pensioni aziendali e professionali e dell’Autorità europea degli strumenti finanziari e dei mercati (Regolamenti n. 1093, 1094 e 1095/2010 del Parlamento europeo e del Consiglio del 24 novembre 2010). Le nuove autorità europee sono titolari di poteri di impulso e di coordinamento delle autorità nazionali di settore in modo tale da promuovere l’armonizzazione delle regole e il rafforzamento della vigilanza.

In definitiva, l’impegno o il disimpegno dei poteri pubblici nelle attività economiche e sociali --- ovvero, con linguaggio ottocentesco, l’individuazione dei limiti dell’attività dello Stato --- è soggetto a moti storici pendolari in relazione al mutare delle percezioni collettive e delle ideologie. In parallelo all’ampliarsi e al ridursi del raggio di azione dello Stato, si evolvono le tecniche di intervento dei pubblici poteri e dunque l’armamentario degli strumenti a disposizione dell’amministrazione per

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svolgere le proprie funzioni (come si vedrà, autorizzazioni, concessioni, sanzioni, sovvenzioni, atti di programmazione, ecc.)

2.4. Cenni agli ordinamenti anglosassoni: l’Inghilterra e gli Stati Uniti.

L’evoluzione sommariamente descritta nel paragrafo che precede riguarda soprattutto l’Europa continentale. Diverso fu in parte il percorso degli ordinamenti anglosassoni.

L’Inghilterra anzitutto non conobbe il fenomeno dell’accentramento amministrativo che connotò l’esperienza francese. I poteri locali mantennero ampi spazi di autonomia.

Fu mantenuta inoltre la tradizione della common law, cioè un diritto non codificato di derivazione giurisprudenziale. Un solo diritto, l’ ordinary law of the land, governava i rapporti di tutti i soggetti dell’ordinamento, a prescindere dalla loro natura pubblica o privata. Un unico sistema di corti giudiziarie era deputato a risolvere tutte controversie. Le prerogative originarie della Corona, sottoforma di poteri speciali e di immunità (come l’immunità dalla responsabilità secondo il principio “the King can do no wrong”), erano considerate come un elemento eccezionale. Secondo Albert Venn Dicey, autore nel 1885 del volume “Introduction to the Study of the Law of the Constitution” destinato a influire sull’immagine della costituzione inglese per mezzo secolo, la presenza di un diritto amministrativo sarebbe ontologicamente incompatibile con la costituzione inglese fondata sulla sovranità del Parlamento.

In realtà, anche in Inghilterra, verso la fine del XIX secolo prese avvio una legislazione di stampo sociale, che portò all’istituzione di apparati di vario tipo (Commissions, Boards, Authorities) per la gestione dei programmi di intervento. I poteri dell’esecutivo furono rafforzati e vennero istituiti, settore per settore, i cosiddetti tribunals, organi amministrativi incaricati di dirimere in forme paragiurisdizionali controversie in particolari materie (istruzione, provvidenze sociali, edilizia, ecc.) le cui decisioni furono assoggettate al controllo giurisdizionale delle corti ordinarie.

Solo a partire dalla seconda metà del XX secolo, con l’ulteriore sviluppo del Welfare State (teorizzato da William Beveridge) e l’abbandono del principio dell’immunità della Corona (nel 1949), le Corti

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inglesi presero coscienza dell’esistenza di una distinzione tra diritto pubblico e diritto privato e iniziarono a operare un sindacato giurisdizionale più intenso sull’attività dell’esecutivo. Nel 1977 un regolamento di procedura (Order 53) razionalizzò e perfezionò l’ application for judicial review per tutte le questioni relative ai public law rights. Nel 2007 il Tribunals, Courts and Enforcement Act operò un riordino complessivo del sistema dei Tribunals, che svolgono una funzione di filtro e di deflazione del contenzioso propriamente giudiziario secondo il modello delle Alternative Dispute Resolution (ADR).

Il diritto amministrativo nell’ordinamento inglese peraltro non può essere equiparato ancora, per estensione e organicità, agli sviluppi degli ordinamenti continentali. Campi come l’organizzazione e l’attività contrattuale dell’amministrazione fuoriescono in gran parte dal perimetro del diritto amministrativo che resta limitato al judicial review of administrative action, cioè al controllo giurisdizionale sull’attività amministrativa.

All’avanzata del Welfare State fino alla fine degli anni Settanta del secolo scorso, fece seguito, come si è accennato, una fase di ritirata dello Stato dall’intervento nell’economia con le politiche di liberalizzazione e di privatizzazione avviate dal primo ministro Margareth Thatcher. L’organizzazione dei dipartimenti ministeriali venne ripensata secondo il modello dell’agencyfication, cioè con la costituzione di una serie di unità operative autonome o semiautonome dagli apparati centrali e legate a queste da relazioni di tipo contrattuale. Si affermò la scuola del New Public Management volta a introdurre elementi di maggior efficienza e managerialità nel settore pubblico prendendo come modello, con gli adattamenti necessari, l’impresa privata.

Anche negli Stati Uniti lo sviluppo dello Stato regolatore (Regulatory State) e la comparsa del diritto amministrativo avvennero in epoca relativamente recente.

Quanto allo Stato regolatore, esso rappresentò una variante originale di intervento pubblico che si sviluppò proprio negli Stati Uniti, un Paese che, a differenza di quanto accadde in Europa, respinse sempre interventi diretti dei pubblici poteri nella gestione o nella socializzazione o collettivizzazione di imprese.

La prima agenzia venne istituita nel 1887 con il compito di regolare le tariffe praticate dai gestori privati delle linee ferroviarie (Interstate Commerce Commission). Nel 1890, per combattere e i cartelli e i

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monopoli, venne approvato lo Sherman Act, primo esempio di legge antitrust, alla quale seguì nel 1918 l’istituzione di un’apposita agenzia (la Federal Trade Commission).

Negli anni Trenta (all’epoca del cosiddetto New Deal), in reazione alla Grande Crisi del 1929, vennero istituite numerose autorità di regolazione come, per esempio, la Security Exchange Commission, con funzioni di vigilanza sulla borsa e sulle società quotate, la Federal Communication Commission, preposta al settore delle telecomunicazioni, il National Labour Relations Board nel settore delle relazioni sindacali e della contrattazione collettiva, la Tennessee Valley Authority per la promozione dello sviluppo economico in quell’area anche attraverso investimenti in opere pubbliche.

Vennero altresì varati numerosi programmi di intervento pubblico in campo economico e sociale, una tendenza proseguita, fino all’inizio degli anni Settanta del secolo scorso, in coerenza con la visione della Great Society promossa dalle amministrazioni democratiche. Vennero istituite molte altre agenzie di regolazione come la Environmental Protection Agency, la Federal Energy Regulatory Commission o la Nuclear Regulatory Commission.

Questo tipo di evoluzione comportò una forzatura della Costituzione americana. Quest’ultima infatti non prevede che il Congresso possa delegare poteri normativi e amministrativi così ampi ad apparati amministrativi indipendenti dal Presidente (cosiddetta non delegation doctrine). Nel periodo del New Deal la Corte Suprema degli Stati Uniti dichiarò incostituzionali alcune leggi di stampo interventista, e in particolare la legge istitutiva della National Recovery Administration con funzioni di pianificazione economica e di fissazione autoritativa dei prezzi. Ciò determinò uno scontro istituzionale con il presidente degli Stati Uniti, che riteneva invece indispensabili gli interventi pubblici per stimolare la crescita economica.

Un compromesso istituzionale fu raggiunto nel 1946 con l’approvazione dell’Administrative Procedure Act che, come si vedrà, costituisce uno dei modelli principali di legge sul procedimento amministrativo. Questa legge, per un verso, legittimò e consolidò il modello delle agenzie di regolazione; per altro verso, assoggettò la loro attività (rulemaking e adjudication) a una serie di regole procedurali e sostanziali (diritti di partecipazione dei privati, distinzione tra funzioni istruttorie e funzioni decisionali, standard di controllo sulla discrezionalità da applicare in sede di judicial review delle decisioni

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assunte) che costituiscono l’ossatura del diritto amministrativo negli Stati Uniti.

A partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, con la svolta reaganiana, il modello dello Stato regolatore fu oggetto di un ripensamento. Furono introdotte misure volte a controllare e limitare l’attività delle Agenzie e a operare una sostanziale riduzione della quantità e intrusività della regolazione esistente (deregulation) promuovendo un ritiro dello Stato dalle politiche interventiste (rolling back the State). In particolare, a partire dal 1981 le Agenzie vennero assoggettate a un controllo finanziario centralizzato e fu resa obbligatoria l’analisi costi e benefici della regolazione (cost benefit analysis) finalizzata a dimostrare la necessità e l’opportunità delle singole misure da adottare in modo da limitarle al minimo indispensabile.

I processi di liberalizzazione e privatizzazione non produssero sempre i risultati attesi in termini di recupero di efficienza e di qualità delle prestazioni e dei servizi. Negli Stati Uniti, per esempio, la gestione dei servizi di sicurezza e controllo dei passeggeri negli aeroporti, affidata a gestori privati, venne ripubblicizzata in seguito all’attacco terroristico dell’11 settembre 2001. Anche la privatizzazione dei trasporti ferroviari in Gran Bretagna è stata oggetto di critiche poiché non ha prodotto i risultati sperati in termini di miglioramento del servizio.

In generale, si discute sempre più frequentemente, quasi per simmetria rispetto ai cosiddetti “fallimenti del mercato”, soprattutto in seguito alle carenze nel sistema dei controlli pubblici sul sistema bancario e finanziario emerse nel corso della crisi scoppiata a partire dal 2008 e che travolse numerose imprese primarie (per tutte, la Lehman Brothers), di “fallimenti dello Stato”. Per porre rimedio a quest’ultimi, negli Stati Uniti sono state attuate riforme incisive degli assetti istituzionali vigenti, rafforzando in particolare il sistema della vigilanza sulle attività finanziarie e ponendo regole più restrittive all’attività delle banche.

2.5. L’evoluzione della pubblica amministrazione in Italia.

L’avanzata e la ritirata dello Stato e il succedersi dei diversi modelli esaminati nel paragrafo che precede nel corso degli ultimi due secoli sono stati accompagnati, come si è accennato, da un’evoluzione dell’organizzazione e delle funzioni della pubblica amministrazione.

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In Italia, in epoca cavouriana, fu adottato il modello dell’amministrazione per ministeri, con la concentrazione delle poche funzioni pubbliche in capo a un nucleo ristretto di apparati organizzati in base al principio gerarchico e rappresentati al vertice da un ministro politicamente responsabile dell’attività complessiva nei confronti del Parlamento.

Sul finire del secolo XIX, il governo Crispi varò un primo programma riformatore che portò, in particolare, alla pubblicizzazione nel 1890 delle cosiddette Opere pie, cioè della costellazione di enti e strutture private sorte spontaneamente dalla società civile o per impulso delle organizzazioni religiose e operanti nel campo dell’assistenza sanitaria e sociale. Le Opere pie furono riorganizzate e razionalizzate sotto forma di enti pubblici (le cosiddette IPAB, Istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza) assoggettati a controlli penetranti da parte del ministero dell’Interno e, per esso, a livello locale delle prefetture.

All’inizio del XX secolo, in epoca giolittiana, furono potenziate le strutture ministeriali e istituite le prime aziende ed enti pubblici nazionali (Istituto nazionale delle assicurazioni - INA, Istituto nazionale per la previdenza sociale - INPS). A livello locale, specie in seguito alla legge del 1903 sulla municipalizzazione dei pubblici servizi, molti Comuni costituirono aziende per la gestione di numerose attività (trasporti, illuminazione pubblica, macelli, farmacie, ecc.). Nel periodo bellico, l’amministrazione subì una riorganizzazione allo scopo di rispondere alle esigenze eccezionali della mobilitazione e del coordinamento dell’intero sistema economico (consorzi obbligatori, ecc.).

La svolta autoritaria negli anni Venti e l’ideologia statalista e corporativa affermatasi negli anni Trenta innescarono un processo di pubblicizzazione di molte attività economiche e sociali con l’istituzione di numerosi enti pubblici (enti sportivi, organizzazioni professionali e sindacali, ecc.). Nel 1942 venne emanata una legge urbanistica volta a disciplinare in modo unitario e razionale l’assetto del territorio attraverso la pianificazione comunale e il rilascio di titoli abilitativi per l’attività di edificazione.

La Grande Crisi determinò l’estensione della mano pubblica in numerosi settori economici. Nel 1933 venne istituito l’IRI (Istituto per la ricostruzione industriale), ente pubblico economico al quale venne attribuita la titolarità delle azioni di numerose imprese oggetto di interventi di salvataggio. Nel 1936 venne approvata una legge bancaria, rimasta in vigore fino all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso, che

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riorganizzò il sistema bancario secondo una visione pubblicistica e pianificatoria dell’attività creditizia. Vennero così attribuiti ad apparati pubblici (la Banca d’Italia, l’Ispettorato per il Credito e il Risparmio, un comitato interministeriale) funzioni di controllo monetario e di vigilanza sugli istituti di credito molti dei quali avevano assunto la veste giuridica di enti pubblici economici (istituti di credito di diritto pubblico, casse di risparmio).

Nel secondo dopoguerra le imprese di proprietà pubblica vennero riordinate nel sistema delle cosiddette partecipazioni statali. Quest’ultimo assunse una configurazione stabile attraverso l’istituzione di enti pubblici nazionali con funzioni di holding finanziarie di controllo diretto o indiretto delle imprese pubbliche (enti di gestione delle partecipazioni statali, cioè l’IRI, l’ENI, l’EFIM) e assoggettati ai poteri di direttiva e di indirizzo politico governativo (Comitato interministeriale per la programmazione economica e ministero delle Partecipazioni Statali).

L’espansione dei pubblici poteri continuò negli anni Sessanta e Settanta. Nel 1962 venne nazionalizzato il settore dell’energia elettrica e istituito un ente pubblico economico (Enel) per la gestione in regime di monopolio di tutte le attività della filiera (produzione, trasmissione, distribuzione, importazione, ecc.). Verso la fine degli anni Sessanta venne approvato per legge un programma economico quinquennale che si ispirava in qualche modo ai modelli pianificatori sperimentati nelle economie non di mercato e che rimase poi in gran parte inattuato. Nel 1978 venne istituito il Servizio Sanitario Nazionale, ispirato a una logica pianificatoria e di gestione prevalentemente pubblica dell’assistenza sanitaria incentrata su una rete di apparati pubblici che coprono l’intero territorio nazionale (oggi denominate Aziende sanitarie locali).

Negli anni Settanta, con l’attuazione del disegno costituzionale del regionalismo, vennero istituiti nuovi apparati burocratici a livello regionale, anch’essi articolati, secondo il modello ministeriale, in assessorati con competenze riferite alle varie materie di spettanza regionale, e in enti pubblici dipendenti (finanziarie regionali, ecc.)

In conseguenza di questi e altri interventi legislativi, ispirati alla logica dello Stato interventista, imprenditore e pianificatore, l’amministrazione pubblica assunse la conformazione di una costellazione multilivello e policentrica di enti pubblici che affiancano gli apparati ministeriali centrali, anch’essi aumentati di numero nel corso degli anni.

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A partire dagli anni Novanta del secolo scorso, anche in Italia lo Stato imprenditore entrò in crisi dati i suoi costi sempre meno sostenibili in una fase di crisi della finanza pubblica. Vennero così avviati processi di liberalizzazione, imposti, come si è accennato, da direttive comunitarie, e di privatizzazione di imprese ritenute non strategiche. Si fece strada così lo Stato regolatore che comportò un riassetto complessivo degli apparati amministrativi.

Furono anzitutto soppressi il ministero delle Partecipazioni Statali e alcuni comitati interministeriali. Quasi tutti gli enti pubblici economici (preposti alla gestione di banche e di servizi pubblici nazionali) furono stati trasformati in società per azioni. Si attuò così la cosiddetta privatizzazione “fredda”, cioè della mera forma giuridica, un’operazione propedeutica alla cosiddetta privatizzazione “calda”, cioè alla dismissione totale o parziale dei pacchetti azionari in man pubblica. Anche a livello di enti locali le aziende municipalizzate che gestivano servizi pubblici locali vennero trasformate in società per azioni controllate in tutto o in parte (società miste) da uno o più azionisti pubblici. Altri enti pubblici non economici (musei, enti lirici) furono trasformati in fondazioni private.

I processi di liberalizzazione portarono all’istituzione di autorità di regolazione (Autorità per l’energia elettrica e il gas, Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, Autorità garante della concorrenza e del mercato, ecc.) indipendenti dal potere esecutivo e dotati di poteri di regolazione, di vigilanza e sanzionatori assai estesi.

Gli anni Novanta del XX secolo videro anche affermarsi una concezione dello Stato che favorisce processi di decentramento e valorizza le autonomie territoriali e funzionali. In particolare, le Regioni e gli enti locali acquisirono nuove funzioni e spazi di autonomia statutaria, organizzativa e finanziaria e fu operata una riforma dei ministeri (in attuazione soprattutto delle cosiddette leggi Bassanini n. 59 e n. 127 del 1997). Il processo culminò con la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 che ridisegnò l’assetto delle competenze legislative dello Stato e delle Regioni e delle funzioni amministrative dei vari livelli di governo (Stato, Regioni, Province e Comuni) in base al principio della sussidiarietà verticale. Quest’ultimo, come si vedrà, privilegia nell’allocazione delle funzioni per quanto possibile le unità organizzative più vicine ai cittadini destinatari delle attività e dei servizi. Un’ampia autonomia organizzativa, della quale è espressione anche la possibilità di approvare un proprio statuto, venne attribuita anche a enti pubblici quali le Università e le Camere di Commercio. Nell’ambito della riforma

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complessiva degli apparati pubblici, il rapporto di impiego dei dipendenti pubblici venne in gran parte assoggettato a un regime privatistico.

Il processo di riforma della pubblica amministrazione sembra comunque un’operazione mai conclusa. Negli ultimi anni si registra anzi un nuovo attivismo legislativo con l’obiettivo di migliorare la funzionalità e accrescere l’efficienza del sistema amministrativo (riforma del pubblico impiego, degli enti pubblici, dei servizi pubblici locali, dell’università, semplificazione amministrativa, abrogazione di leggi inutili e riassetto normativo con l’adozione di codici e testi unici).

2.6. Cenni conclusivi.

Pur nella varietà dei contesti e con percorsi legati alle specificità di ciascuno Stato, lo sviluppo storico dal XIX secolo ad oggi è stato caratterizzato, schematicamente, da due tipi di fenomeni: un andamento ciclico nell’espansione e nella contrazione del campo di intervento dei pubblici poteri secondo i vari modelli dello Stato via via succedutisi; il consolidarsi degli apparati amministrativi e l’emergere, anche nei paesi di common law, di un diritto speciale per le pubbliche amministrazioni.

Come si vedrà, il diritto amministrativo, con l’ampia gamma di strumenti sperimentati nei vari settori di intervento, cerca di risolvere un problema presente in ogni ordinamento ispirato al principio dello Stato di diritto: conciliare l’esigenza di curare i molteplici interessi della collettività (interessi pubblici) con quella di garantire al massimo grado le libertà dei singoli. Poteri amministrativi e diritti dei cittadini costituiscono due poli spesso in tensione, da far convivere trovando gli opportuni punti di mediazione e assicurando le necessarie garanzie. La dialettica autorità-libertà (M.S. GIANNINI) permea l’intera struttura del diritto amministrativo.

3. Diritto amministrativo e scienze sociali. La scienza del diritto amministrativo.

3.1. Premessa.

Oggetto del diritto amministrativo è, come si è accennato, l’organizzazione e l’attività della pubblica amministrazione e i principi che le regolano. Precondizione necessaria per ricostruire correttamente

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gli istituti del diritto amministrativo è una conoscenza adeguata, sotto il profilo fenomenico, della pubblica amministrazione.

Qualsiasi branca del diritto presuppone infatti una percezione esatta degli oggetti ai quali si riferisce, cioè dei fatti e degli interessi che stanno alla base delle regole da porre (de jure condendo) e successivamente da applicare e interpretare (de jure condito). La pubblica amministrazione, in particolare, è un concetto che “non si presta a essere definito, ma soltanto a essere descritto” (Ernst Forsthoff) e la descrizione di un fenomeno dipende dai diversi angoli di visuale dai quali si pone l’osservatore.

Da qui la necessità di tener conto dei metodi e dei contributi di una pluralità di discipline non giuridiche che prendono in considerazione anche la pubblica amministrazione e gli strumenti di intervento di cui essa dispone per la cura di interessi economici e sociali della collettività.

In questa sede è sufficiente qualche cenno ai principali settori delle scienze sociali che si occupano della pubblica amministrazione.

3.2. La sociologia.

La sociologia analizza le relazioni fattuali di potere interne ed esterne agli apparati burocratici e la varietà dei bisogni e degli interessi della collettività di cui essi si fanno carico. Il potere è un fenomeno sociale prima ancora che giuridico presente in ogni collettività un minimo organizzata.

Va ricordata, in particolare, l’analisi di Max Weber dei tipi storici di potere (costruiti come modelli o idealtipi), definito come la possibilità per specifici comandi di trovare obbedienza da parte di un determinato gruppo di uomini. Secondo il sociologo tedesco il potere si presta a essere classificato in base a tre criteri di legittimazione: il potere tradizionale fondato sul carattere sacro delle tradizioni (monarchie ereditarie); il potere carismatico fondato sulla forza eroica o sul valore esemplare di una persona (cesarismo, dispotismo); il potere razionale fondato sulla legalità di ordinamenti statuiti (Stato di diritto).

Quest’ultimo modello si connota, in particolare, per la presenza di un’amministrazione burocratica impersonale, preposta alla cura di interessi entro limiti posti da regole giuridiche certe e caratterizzata da un’organizzazione per uffici ordinati secondo i principi di competenza e di gerarchia e da un corpo di funzionari di carriera e specializzati

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(selezionati e promossi in base a criteri di competenza e di merito). Un siffatto modello è funzionale all’economia capitalistica fondata sul calcolo razionale: la stabilità delle regole (il principio della certezza del diritto) e la prevedibilità dell’azione dell’amministrazione costituiscono per le imprese un elemento essenziale per poter valutare la convenienza delle scelte di investimento. Secondo Max Weber, “ciò che occorre al capitalismo è un diritto che possa venir calcolato al pari di una macchina”.

La sociologia studia anche la struttura degli apparati burocratici e del personale che in essi opera (estrazione sociale, formazione, cultura, ecc.).

3.3. Le scienze politiche ed economiche. Fallimenti del mercato e regulation.

Le scienze politiche analizzano il ruolo degli apparati burocratici all’interno del circuito politico rappresentativo, cioè come strumenti per la realizzazione delle politiche pubbliche decise dal Parlamento, e più in generale i rapporti tra classe politica, burocrazia e potere economico.

Esse mettono anche in evidenza come la burocrazia non sia in realtà un attore neutrale nei processi decisionali, confinato a un ruolo di mera esecuzione degli indirizzi politici (come una sorta di “cinghia di trasmissione” tra la politica e i destinatari della regolazione e dei servizi), ma assume spesso un ruolo attivo di elaborazione e di condizionamento (e talora di freno) nelle politiche governative.

Le scienze politiche ed economiche (queste ultime ripartite al loro interno in varie branche ed indirizzi) analizzano le situazioni nelle quali è giustificato l’intervento dei pubblici poteri sottoforma di regolazione. Soprattutto nel mondo anglosassone ha avuto impulso, con approccio interdisciplinare, la teoria della regolazione pubblica (o regulation), espressione con pluralità di significati, riferita all’intervento dei poteri pubblici in campo sociale ed economico. Essa è stata definita, per esempio, come “controllo prolungato focalizzato esercitato da un’agenzia pubblica su attività cui una comunità attribuisce una rilevanza sociale” (P. SELZNICK); oppure come “la guida con mezzi amministrativi pubblici di un’attività privata secondo una regola statuita nell’interesse pubblico” (B.M. MITNICK).

Si distinguono generalmente due modelli di regolazione pubblica, la prima indirizzata a promuovere scopi sociali (social regulation) come, per

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esempio, la tutela sanitaria o le provvidenze e le misure di inclusione sociale a favore delle fasce più deboli della popolazione; la seconda indirizzata a massimizzare l’efficienza economica e il benessere dei consumatori (economic regulation).

La regolazione economica considera l’istituzione di apparati pubblici come rimedio per le situazioni di insuccesso o di “fallimento del mercato” (market failures) in relazione alle quali viene individuata una gamma di interventi correttivi consistenti in misure di tipo autoritativo (o di command and control).

Quanto ai fallimenti del mercato, si tratta di situazioni nelle quali il mercato deregolamentato, cioè retto esclusivamente dal diritto privato (diritto dei contratti e della responsabilità civile, tutela giurisdizionale), non è in grado di tutelare in modo adeguato gli interessi della collettività. Si pensi per esempio ai danni da inquinamento ambientale che non potrebbero essere contrastati in modo efficace facendo affidamento soltanto sulla responsabilità civile dell’inquinatore, attesa la difficoltà, in molti casi, di individuarlo con precisione, di provare il nesso di causalità, di coordinare e aggregare le azioni di numeri spesso elevati di soggetti danneggiati. Si pensi ancora allo squilibrio non superabile con i normali strumenti negoziali tra un’impresa monopolistica in un determinato mercato e i consumatori.

I principali casi di fallimenti del mercato che giustificano l’intervento dei poteri pubblici sono:

a) I monopoli naturali come le infrastrutture non facilmente duplicabili (per esempio, le reti di trasporto ferroviarie, porti e aeroporti, reti di distribuzione dell’energia elettrica e del gas) che pongono chi gestisce l’attività in una situazione di “potere di mercato” che impedisce o altera lo sviluppo di un mercato concorrenziale e che consentono extraprofitti dovuti alla rendita di posizione. I rimedi più frequenti consistono nel sottoporre l’impresa monopolista (o le imprese dotate comunque di notevole forza di mercato) a una serie di vincoli, tra i quali, per esempio, il controllo dei prezzi e tariffe applicate agli utenti, oppure l’obbligo di consentire l’accesso delle proprie strutture (essential facilities) a favore di altri operatori concorrenti in base a criteri di non discriminazione.

b) I beni pubblici, come la difesa esterna o l’ordine pubblico, dei quali beneficia l’intera collettività, inclusi coloro che non

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sarebbero disponibili a farsi carico di una quota proporzionale di costi (cosiddetti freeriders) essendo impossibile o troppo costoso escluderli dal godimento. Il mercato non è incentivato a produrli spontaneamente nella misura adeguata e dunque da sempre gli Stati se ne sono fatti carico direttamente traendo dalla tassazione le risorse necessarie.

c) Le esternalità negative dovute per esempio a produzioni industriali inquinanti i cui benefici vanno a vantaggio dell’impresa (e dei suoi azionisti), ma i cui costi gravano sull’intera collettività. Da qui l’imposizione di limiti massimi e di regimi autorizzatori per le emissioni inquinanti, la previsione di standard qualitativi minimi per gli impianti industriali; l’irrogazione di sanzioni amministrative in caso di violazione delle prescrizioni.

d) Le asimmetrie informative tra chi offre e chi acquista beni e servizi circa le caratteristiche qualitative essenziali di questi ultimi, come nei rapporti tra istituzioni finanziarie o imprese quotate in borsa e piccoli risparmiatori non in grado di valutare i rischi degli investimenti proposti. A tutela di questi ultimi vengono così istituiti sistemi di vigilanza sulle imprese con l’attribuzione ad autorità di regolazione di poteri di regolazione, autorizzatori, prescrittivi, ispettivi e sanzionatori.

e) Le esigenze di coordinamento per esempio relative al sistema dei pesi e misure o al traffico stradale che richiedono la fissazione di standard uniformi e di regole di comportamento al cui rispetto sono preposte autorità pubbliche.

Le misure autoritative necessarie per prevenire e correggere i fallimenti del mercato (command and control), delle quali si sono forniti sopra alcuni esempi, si prestano a essere classificate secondo il criterio che muove dalla maggiore alla minore intrusività rispetto alla dinamica del mercato: monopoli legali e concessione di diritti esclusivi, proprietà pubblica, pianificazioni settoriali, regimi autorizzatori, fissazione di standard qualitativi, misure di controllo dei prezzi, sovvenzioni, sanzioni pecuniarie e non pecuniarie, obblighi informativi, ecc.

Il principio che dovrebbe guidare il regolatore nella scelta degli strumenti correttivi è quello secondo il quale vanno preferiti, tra gli strumenti astrattamente idonei a tutelare l’interesse pubblico, quelli meno restrittivi della libertà di impresa (come si vedrà, in base al principio di

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proporzionalità emerso nel diritto dell’Unione europea). Per esempio, se per tutelare un certo interesse pubblico, è sufficiente obbligare chi intraprendere un’attività a comunicarlo a un’amministrazione che poi esercita un controllo ex post, va evitata l’introduzione di un regime di controllo ex ante, sotto forma di autorizzazione o licenza preventiva. In ogni caso, vanno preferiti, ove possibile, regimi di autorizzazione preventiva vincolata a quelli che lasciano all’amministrazione ampi spazi di valutazione discrezionale e che dunque attribuiscono minori certezze ai soggetti privati.

Gli strumenti di command and control sopra esemplificati danno corpo, come si vedrà, al nucleo più caratteristico dei poteri attribuiti alle pubbliche amministrazioni e assoggettati ai principi del diritto amministrativo.

3.4. Cenni agli indirizzi della public choice e al modello principal-agent.

Sempre nell’ambito delle scienze economiche, va menzionato l’indirizzo della cosiddetta “public choice” affermatosi negli Stati Uniti nella seconda metà del secolo scorso. Per spiegare il funzionamento effettivo degli apparati pubblici è errato muovere dall’ipotesi che gli apparati pubblici (e i burocrati ad essi preposti) agiscano sempre e necessariamente per il perseguimento di obiettivi di interesse pubblico (public interest theory of regulation). E’ più corretto invece considerare che anche il loro comportamento è animato, al pari degli attori privati, da “self-interest” (potere, livello retributivo, reputazione, massimizzazione delle risorse a disposizione del proprio ufficio, ecc.).

Questo indirizzo tende a porre in evidenza, accanto alle situazioni di market failures, quelle di government failures, cioè le inefficienze strutturali e gli effetti negativi dell’azione dei pubblici poteri. E’ sempre incombente, per esempio, il rischio della “cattura” del regolatore da parte dei soggetti regolati (capture theory): gli apparati amministrativi tendono a essere influenzati nel loro agire da interessi soprattutto economici forti (le varie lobby) deviando così dalla loro missione di cura dell’interesse pubblico generale. Da qui dunque la necessità di prefigurare un disegno istituzionale atto a prevenire o, quanto meno, a limitare questo rischio.

Dal punto di vista macroeconomico, lo Stato nelle sue varie articolazioni può essere considerato come un meccanismo di gestione e redistribuzione delle risorse alternativo al mercato. La regolazione

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pubblica (e i suoi strumenti amministrativi), con l’imposizione ai privati di obblighi comportamentali (e oneri economici) in funzione del raggiungimento di interessi pubblici, costituisce uno strumento alternativo alla tassazione per la realizzazione di obiettivi di politica economica.

La microeconomia elabora a sua volta una serie di strumenti concettuali utili per inquadrare il fenomeno burocratico. In particolare, la teoria del principal-agent (principale-agente o delegante-delegato) studia i meccanismi e gli incentivi per far si che l’attività dell’agente, delegato dal principale a compiere una certa attività, venga posta in essere nell’interesse di quest’ultimo e non venga piegata all’interesse egoistico dell’agente. In molti casi l’agente ha a disposizione una quantità di informazioni superiore a quella dell’agente circa le caratteristiche concrete dell’attività da svolgere (asimmetria informativa). E’ pertanto tentato di svolgere quest’ultima in modo non corrispondente agli interessi del principale, assumendo comportamenti opportunistici sui quali il principale non è in grado di esercitare un controllo efficace (il problema della cosiddetta azione nascosta o dell’“azzardo morale”). Questo tipo di analisi viene usualmente riferito alle organizzazioni private (nell’impresa i rapporti tra azionisti e manager, tra i manager e il personale) o a relazioni di tipo contrattuale.

Anche gli apparati burocratici possono essere considerati come agenti del Parlamento che nella veste di principale attribuisce ad essi, per legge, funzioni e risorse per la cura di interessi pubblici. Spesso peraltro gli apparati burocratici perseguono fini propri (maggior potere, prestigio, ecc.), che non coincidono con la massimizzazione dell’interesse pubblico affidato alle loro cure, e rappresentano un freno al processo di riforma. All’interno dei singoli apparati pubblici, i dirigenti possono essere considerati come agenti incaricati di svolgere la propria attività in funzione degli obiettivi individuati dai loro principali, cioè i vertici politici. Gli interessi e gli incentivi dei dirigenti pubblici peraltro non coincidono necessariamente con quelli dei vertici politici: da qui la perenne tensione tra politica e amministrazione. A loro volta i vertici politici (ministri, sindaci, ecc.), scelti in base al metodo elettorale, sono in qualche misura agenti dei cittadini elettori e occorre individuare strumenti adeguati di responsabilizzazione in modo da evitare l’autoreferenzialità della classe politica. Un problema di agenzia si pone anche nei rapporti tra dirigenti, ai vari livelli, degli uffici e i loro sottoposti. Quest’ultimi potrebbero essere tentati a sollecitare o accettare compensi non dovuti o altri favori dai privati con i quali intrattengono rapporti in relazione ad atti

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amministrativi e ad altri adempimenti (corruzione, concussione). La regolazione pubblica dovrebbe dunque individuare gli strumenti (regole, incentivi, sanzioni) per allineare gli interessi dell’agente a quelli del principale.

3.5. La scienza dell’amministrazione.

La scienza dell’amministrazione (Verwaltungslehre) ha una tradizione che risale al XIX secolo, in Italia (Gian Domenico Romagnosi) e in Germania (Lorenz von Stein). Essa si ricollega al filone di studi di finanza pubblica, ragionieristici e aziendalisti avviati già nel XVIII secolo, cui si è già fatto cenno, ovvero alla cameralistica e alla scienza della polizia (Polizeiwissenschaft).

La scienza dell’amministrazione, in auge soprattutto verso la metà del secolo scorso, non ha mai assunto in realtà uno statuto ben definito all’interno delle scienze non giuridiche (sociologia, scienza politica, economia aziendale, ecc.) che studiano la pubblica amministrazione. E’ stato anzi affermato che i principi riuniti sotto il titolo di questa scienza non costituiscono “un ramo autonomo di conoscenza e vane sono le ricerche intese a determinare il contenuto unitario” (G. ZANOBINI). Si tratta in ogni caso di una scienza in declino negli ultimi decenni.

3.6. La scienza del diritto amministrativo.

Se, come si è visto, le discipline non giuridiche mirano a ricostruire la sostanza dei fenomeni e degli interessi, alla scienza giuridica spettano alcuni compiti specifici.

I fenomeni infatti devono essere colti nella loro dimensione giuridica, devono cioè essere inquadrati nel contesto delle norme vigenti (diritto positivo). Spetta dunque al giurista anzitutto il compito di procedere a una ricognizione delle fonti normative che disciplinano una determinata materia. Il materiale normativo deve essere poi riordinato e organizzato in modo sistematico tramite l’elaborazione di categorie e concetti giuridici.

Storicamente l’applicazione rigorosa del metodo giuridico al diritto amministrativo risale in Italia alla fine del XIX secolo, seguendo l’esempio tedesco (Otto Mayer che nel 1886 pubblicò la prima edizione dell’opera fondamentale Deutsches Verwaltungsrecht). Vittorio Emanuele Orlando (1860-1952), uomo politico e giurista curatore del primo

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monumentale Trattato di diritto pubblico, pose le basi della scienza del diritto pubblico all’interno del quale si colloca, come si è visto, anche il diritto amministrativo. Il criterio seguito fu quello, da un lato, di espungere ogni elemento filosofico, storico e politico dall’analisi giuridica e di intraprendere un’opera non limitata alla mera esposizione ed esegesi della legislazione amministrativa (secondo la tecnica invalsa soprattutto in Francia); dall’altro, di costruire, attraverso classificazioni e successi processi di astrazione, i concetti giuridici (secondo la tecnica inaugurata nel diritto privato dalla pandettistica). L’elaborazione di Orlando e dei suoi allievi (Federico Cammeo, Oreste Ranelletti, Santi Romano, Guido Zanobini) dominò la scienza giuspubblicistica nella prima metà del secolo scorso e contribuì alla costruzione di un diritto amministrativo coerente con una concezione liberale, statalistica e con venature autoritarie dei rapporti tra Stato-cittadino.

In questa prima fase il diritto amministrativo concentrò la propria attenzione sull’attività amministrativa. Venne posto l’accento soprattutto sulle prerogative degli apparati pubblici, attraverso l’elaborazione della teoria dell’atto amministrativo come espressione del potere unilaterale attribuito dalla legge agli apparati pubblici e di un rapporto di sovra-sotto-ordinazione tra Stato e cittadino. L’atto amministrativo venne inquadrato inizialmente entro gli schemi del negozio giuridico di derivazione privatistica.

Con l’evolversi dei rapporti politici e sociali e con l’espandersi della legislazione amministrativa specie a partire dagli anni Trenta del corso del XX secolo, la scienza del diritto amministrativo estese la propria analisi a fenomeni emergenti come l’ordinamento del credito, gli enti pubblici e l’impresa pubblica, ecc. Si deve soprattutto a Massimo Severo Giannini (1915-2000) l’ampliamento della prospettiva, inclusa una rinnovata attenzione alle scienze non giuridiche.

Anche la Costituzione repubblicana del 1948, aperta a nuovi valori e che dedica alcune disposizioni fondamentali all’ordinamento amministrativo, e le leggi di riforma dei decenni successivi (come, per esempio, il decentramento amministrativo attuato in concomitanza con l’istituzione delle Regioni, l’introduzione di un Servizio Sanitario Nazionale nel 1978, la riforma delle autonomie locali del 1990, le leggi di riordino dell’organizzazione e delle funzioni e dei procedimenti amministrativi degli anni Novanta del secolo scorso, le liberalizzazioni e privatizzazioni attuate sul finire dello stesso secolo) indussero la dottrina a un ripensamento dell’impianto generale del diritto amministrativo.

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Maggiore attenzione venne dedicata, per esempio, ai profili organizzativi di un’amministrazione sempre più multilivello e alle tematiche dei diritti di cittadinanza amministrativa. Emerse anche una prospettiva (il cosiddetto “diritto amministrativo paritario” elaborato da Feliciano Benvenuti verso la metà degli anni Settanta del secolo scorso) tesa a operare un riequilibrio nel rapporto tra Stato e cittadino con due modalità principali: il potenziamento delle garanzie formali (soprattutto attraverso la nozione di procedimento amministrativo) e sostanziali a favore di quest’ultimo; l’impiego di nuovi moduli consensuali di regolamentazione dei rapporti tra privati e pubblica amministrazione.

Gli anni Novanta del secolo scorso, segnati dall’introduzione della legge 7 agosto 1990, n. 241 sul procedimento amministrativo e dall’influenza del diritto europeo specie nel settore dei servizi pubblici, costituiscono idealmente una cesura tra una concezione più autoritaria del diritto amministrativo che privilegia il punto di vista dell’amministrazione e pone l’accento sui poteri unilaterali attribuiti a quest’ultima e un nuovo paradigma interpretativo che valorizza l’emancipazione della posizione del cittadino, titolare ormai di un’ampia gamma di diritti e garanzie all’interno del rapporto procedimentale, e l’assoggettamento del potere al principio di legalità inteso in senso più rigoroso (attraverso l’applicazione del parametro della proporzionalità e l’assoggettamento a oneri di giustificazione e motivazione delle scelte amministrative).

Il diritto amministrativo resta pur sempre, nel suo nocciolo essenziale, il diritto dell’autorità del potere pubblico per la cura degli interessi della collettività, ma ha perso progressivamente, anche in seguito all’osmosi con gli ordinamenti anglosassoni (specialmente gli Stati Uniti), i connotati di un diritto autoritario. Nell’epoca presente lo Stato è ancora uno Stato a regime amministrativo, anche se esso “è sempre meno speciale e sempre più giustiziale, consensuale, cooperativo, aperto alle clausole generali del diritto comune” (B. SORDI).

4. Il diritto amministrativo e i suoi rapporti con altre branche del diritto.

4.1. Il diritto costituzionale.

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Il diritto pubblico generale include le varie discipline giuridiche che si occupano dell’ordinamento dello Stato e del complesso dei poteri pubblici.

Ai nostri fini rileva soprattutto la distinzione tra diritto costituzionale e diritto amministrativo5. Il primo riguarda i “rami alti” dell’ordinamento (corpo elettorale, Parlamento, Governo, Corte Costituzionale, magistratura, Regioni e poteri locali, ecc.), i diritti di libertà dei privati (libertà personale, libertà religiosa, di manifestazione del pensiero, proprietà, ecc.) e le fonti del diritto. Il secondo, i “rami bassi” e cioè quel complesso poliedrico di apparati pubblici che si è sviluppato soprattutto nel corso del XX secolo, ciascuno dei quali dotato di una gamma più o meno ampia di poteri.

Il primo trova fondamento e una disciplina positiva nelle Costituzioni scritte e affonda le sue radici nella teoria contrattualistica dello Stato elaborata dai filosofi politici dei secoli XVII e XVIII secolo (John Locke, Jean Jacques Rousseau) e nella progressiva considerazione delle Costituzioni non soltanto come un patto politico tra il sovrano e il popolo, ma anche come la fonte suprema dell’ordinamento giuridico6.

Il secondo è regolato in prevalenza da fonti normative sub-costituzionali (leggi, regolamenti, statuti, ecc.) e dai principi di derivazione giurisprudenziale.

Sussiste tuttavia un nesso stretto tra diritto costituzionale e diritto amministrativo.

Secondo un primo punto di vista, infatti, il diritto amministrativo, per riprendere l’espressione di Fritz Werner, presidente della Corte amministrativa federale tedesca verso la seconda metà del secolo scorso, non è altro che il diritto costituzionale reso concreto (“Verwaltungsrecht als konkretisiertes Verfassungsrecht”), cioè colto nella sua effettiva realizzazione nella legislazione e nella vita dell’ordinamento.

Così, per esempio, il grado di tutela dei diritti di libertà e dei diritti sociali iscritti nella Costituzione vigente si misura non solo e non tanto

5 Droit administratif è un’espressione emersa in Francia in epoca napoleonica e il primo trattato dedicato a questo ramo del diritto risale al 1814 ed è opera di Gian Domenico Romagnosi. 6 A partire dal celeberrimo caso Marbury vs. Madison deciso dalla Corte Suprema degli Stati Uniti nel 1801, le norme contenute nella Costituzione degli Stati Uniti del 1776 divennero parametro giuridico per operare un sindacato di legittimità delle leggi. In epoca più recente l’istituzione delle Corti Costituzionali in molti paesi europei (in Italia con la Costituzione del 1948) ha contribuito a rafforzare l’autonomia del diritto costituzionale.

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dalla Costituzione, quanto piuttosto dalle leggi amministrative che attuano il disegno costituzionale e dalla concreta applicazione che esse ricevono ad opera principalmente degli apparati amministrativi. Il diritto alla salute, definito dall’art. 32 come “fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”, trova poi svolgimento e attuazione pratica nella legislazione istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale e più in generale nella legislazione sanitaria. In modo ancor più tangibile, il livello delle prestazioni garantite dipende anche dalle risorse finanziarie messe a disposizione direttamente o indirettamente in una determinata fase storica (a questo riguardo si è parlato anche di “diritti finanziariamente condizionati”).

Del pari, il diritto a manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione sancito dall’art. 21 della Costituzione è condizionato dalla legislazione amministrativa sul sistema radio-televisivo e sulla stampa che, come più volte stigmatizzato dalla Corte Costituzionale, non ha garantito un sufficiente grado di pluralismo.

Ancora, la libertà di iniziativa economica privata (art. 41, comma 1, della Costituzione) è in molti casi subordinata al conseguimento di concessioni o di altri titoli abilitativi discrezionali rilasciati da autorità amministrative e ad altre limitazioni previste dalle leggi di settore. Solo a partire dagli anni Novanta del secolo scorso ha trovato una più completa attuazione in molti settori (telecomunicazioni, energia elettrica e gas, ecc.) per effetto del recepimento di direttive comunitarie di liberalizzazione con l’apertura dei mercati alla concorrenza.

L’effettività della tutela giurisdizionale garantita in astratto dall’art. 24 della Costituzione è condizionata da carenze organizzative degli apparati giudiziari (limitatezza delle risorse disponibili, vuoti di organico, inefficienza nell’organizzazione) che non consentono la conclusione dei processi in tempi ragionevolmente contenuti (giustizia ritardata equivale, come si dice, a giustizia negata).

In linea generale, il corpo delle leggi amministrative, che nel loro impianto essenziale risalgono in molti casi ad epoche ormai lontane, è rimasto per lungo tempo poco in linea con la Costituzione vigente. La Corte Costituzionale ha provveduto, specie nei primi anni della propria attività, a dichiarare incostituzionali disposizioni contenute nelle leggi amministrative di settore. Ciò è accaduto in particolare per le disposizioni di matrice illiberale contenute nel testo unico delle leggi di pubblica di sicurezza del 1931.

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Un secondo nesso tra diritto costituzionale e diritto amministrativo è riassunto dall’affermazione di uno dei maggiori giuristi tedeschi del primo Novecento (Otto Mayer) secondo il quale “il diritto costituzionale passa, il diritto amministrativo resta” (Verfassungsrecht vergeht, Verwaltungsrecht besteht” 7). Essa mette in luce il disallineamento sotto il profilo temporale dei mutamenti costituzionali rispetto alle riforme amministrative.

Proprio perché incidono solo sui “rami alti” dell’ordinamento, i primi possono verificarsi anche in modo repentino in seguito a moti rivoluzionari, sconfitte militari e, più in generale, rotture della Costituzione. In Francia, dalla Rivoluzione del 1789 ad oggi, si sono susseguite numerose Costituzioni talune rimaste in vigore per pochi anni. Molti testi costituzionali hanno richiesto tempi di redazione assai brevi. La legge fondamentale tedesca del 1948 (Grundgesetz) venne predisposta nel secondo dopoguerra da una commissione di esperti in poche settimane. Il processo costituente che sfociò nella Costituzione italiana del 1948 durò circa due anni.

Le riforme amministrative, al contrario, mirano a modificare l’organizzazione e il modo di operare di apparati burocratici caratterizzati da strutture, personale, prassi operative e cultura istituzionale formatesi lentamente, spesso per stratificazioni successive, e strutturalmente poco permeabili al cambiamento.

In Italia, le strutture amministrative fondamentali dello Stato sopravvissero con pochi aggiustamenti a cambiamenti di regime politico e costituzionale, come nel passaggio dallo Stato liberale al regime autoritario del ventennio fascista. Frequenti furono all’epoca le lamentele secondo le quali la burocrazia costituiva un ostacolo alla realizzazione delle politiche perseguite dal nuovo regime. Allo stesso modo, l’adeguamento dell’organizzazione amministrativa al disegno della Costituzione del 1948, improntato ai valori del decentramento e dell’autonomia richiese decenni. Anche l’istituzione delle Regioni nel 1970 e il trasferimento di funzioni amministrative, personale, strutture e risorse finanziarie (anche tramite tributi propri) fu un processo lungo e tormentato e che forse non si è ancora concluso. Il riconoscimento di una

7 L’espressione è contenuta nella premessa alla III edizione del Deutsches Verwaltungsrecht

pubblicata nel 1924 dopo il tracollo dell’ordinamento statuale emerso nel 1870 e l’approvazione della Costituzione di Weimar del 1919, la prima Costituzione contemporanea che supera il modello dello Stato liberale ottocentesco.

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maggior autonomia agli enti locali avvenne solo a partire dagli anni Novanta del secolo scorso.

La piena applicazione da parte della pubblica amministrazione di leggi di riforma fondamentali come la l. n. 241/1990 sul procedimento amministrativo, che, come si è già accennato, esprime un nuovo modello di rapporti tra cittadino e pubblica amministrazione in base a principi di efficienza, trasparenza, partecipazione, coordinamento tra uffici e ricerca del consenso con i destinatari, è ancor oggi lungi da essere completata.

4.2. Il diritto europeo.

In generale il diritto pubblico è un diritto intimamente connesso con la struttura politica propria di ciascun ordinamento e regola istituti direttamente collegati alla sovranità dello Stato. Esso costituisce cioè la branca del diritto che risente maggiormente della storia, della cultura e delle tradizioni nazionali e che è dunque più resistente a innesti e trapianti di istituti in vigore in altri ordinamenti. L’adozione di testi costituzionali che ricalcano Costituzioni in vigore in altri Stati spesso produce esiti concreti talora assai diversi rispetto a quelli attesi.

Anche il processo di integrazione degli ordinamenti nazionali all’interno dell’Unione europea sconta questa maggior resistenza del diritto pubblico a influenze esterne e a spinte armonizzatrici.

Il diritto amministrativo italiano ha acquisito peraltro, anche per scelta consapevole del legislatore nazionale, una dimensione europea sotto quattro profili principali: l’attività, la legislazione amministrativa, l’organizzazione, la tutela giurisdizionale.

In primo luogo, l’art. 1, comma 1, della l. n. 241/1990 include tra i principi generali dell’attività amministrativa (economicità, efficacia, imparzialità, pubblicità) anche “i principi generali dell’ordinamento comunitario”.

Questi ultimi sono ricavabili sia dai Trattati e dalle altre fonti del diritto europeo, sia dalla giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea (proporzionalità, tutela del legittimo affidamento, ecc.). L’art. 5 del Trattato sull’Unione europea enuncia, per esempio, come criteri per l’allocazione delle funzioni tra l’Unione e gli Stati membri (e dei livelli di governo interni agli Stati), il principio di sussidiarietà. Enuncia anche il principio di proporzionalità che costituisce

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un principio rivolto sia al legislatore nazionale sia all’amministrazione allorché esercita poteri discrezionali.

La pubblica amministrazione è menzionata anche nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, ora incorporata come protocollo allegato al Trattato di Lisbona e avente valore giuridico equiparato a quello del Trattato. L’art. 41, rubricato “Diritto ad una buona amministrazione”, garantisce infatti a ogni individuo nei rapporti con le istituzioni europee il diritto di essere trattato in modo imparziale ed equo, di essere ascoltato prima che venga adottato nei suoi confronti un provvedimento che gli rechi pregiudizio, di accedere ai documenti del fascicolo che lo riguarda, di ottenere una decisione motivata adottata entro un termine ragionevole. Stabilisce inoltre che ogni persona ha diritto al risarcimento da parte dell’Unione europea dei danni cagionati dalle sue istituzioni o dai suoi agenti nell’esercizio delle loro funzioni. L’art. 42 garantisce inoltre il diritto di accesso ai documenti delle istituzioni dell’Unione.

In secondo luogo, l’art. 117, comma 1, della Costituzione stabilisce che la potestà legislativa dello Stato e delle Regioni deve essere esercitata nel rispetto, oltre che della Costituzione, “dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario”.

Questo vincolo condiziona sempre di più la legislazione amministrativa settoriale nazionale che in molte materie è ormai niente altro che la trasposizione, con gli adattamenti e le integrazioni necessarie, delle direttive comunitarie.

Per esempio, il Codice dei contratti pubblici, approvato con decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, che disciplina le procedure per l’aggiudicazione degli appalti di lavori, forniture e servizi, recepisce due direttive comunitarie che pongono già una regolamentazione completa. In materia di tutela dell’ambiente la legislazione nazionale si è sviluppata fin dall’inizio negli anni Ottanta del secolo scorso con una forte impronta comunitaria. Allo stesso modo, la legislazione nei settori delle comunicazioni elettroniche o dell’energia elettrica e gas e in generale il diritto pubblico dell’economia sono regolati anzitutto da fonti europee.

Nella materia antitrust, la legge 10 ottobre 1990, n. 287, che ha istituito l’Autorità garante della concorrenza e del mercato e ha posto una disciplina organica a tutela della concorrenza, prevede che l’interpretazione delle norme contenute nel Titolo I della legge sia

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effettuata “in base ai principi dell’ordinamento delle Comunità europee in materia di disciplina della concorrenza” (art. 1, comma 4).

Un condizionamento nei confronti del legislatore nazionale deriva anche dalla direttiva 2006/123/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 12 dicembre 2006 in tema di libera circolazione dei servizi. La direttiva, recepita nell’ordinamento italiano ad opera del decreto legislativo 26 marzo 2010, n. 59, pone, come si vedrà, una serie di prescrizioni sui regimi autorizzatori, allo scopo di evitare che essi costituiscano ostacoli tali da limitare la libera circolazione dei servizi a livello comunitario. Così, per esempio, il rilascio delle autorizzazioni deve essere subordinato, di regola, al possesso di requisiti vincolati (non discriminatori, oggettivi, resi pubblici preventivamente, ecc.) evitando di attribuire all’autorità amministrativa spazi di valutazione discrezionale (art. 10). La durata della autorizzazioni è di norma illimitata (art. 11). Nel caso in cui il numero delle autorizzazioni rilasciabili debba essere contingentato a causa della scarsità delle risorse naturali o delle capacità tecniche utilizzabili, occorre prevedere una procedura selettiva competitiva trasparente alla quale sia data un’adeguata pubblicità e che presenti garanzie di imparzialità (art. 12). Ogni procedimento autorizzatorio deve concludersi entro un termine ragionevole prestabilito e reso pubblico preventivamente e la mancata risposta entro il termine equivale di regola a silenzio-assenso (art. 13). La stessa introduzione di un regime di autorizzazione preventiva è consentita solo là dove l’obiettivo di tutela di un interesse pubblico (“motivo di interesse generale”) non può essere conseguito attraverso un regime meno restrittivo, in particolare sotto forma di controllo ex post.

In terzo luogo il diritto europeo condiziona l’assetto organizzativo e funzionale degli apparati pubblici. Così numerose agenzie e autorità indipendenti sono state istituite in Italia specie nell’ultimo ventennio in attuazione di direttive comunitarie. Esse hanno dato origine in taluni casi a una vera e propria rete di organismi paralleli istituiti in ciascuno Stato membro che svolgono in modo coordinato la propria attività in gran parte allo scopo di curare l’attuazione del diritto europeo in particolari materie. Si pensi, per esempio, al Sistema Europeo delle Banche Centrali del quale fanno parte in modo organico le banche centrali nazionali. Ma anche in settori come quello dell’energia elettrica le autorità nazionali di regolazione (in Italia, l’Autorità per l’energia elettrica e il gas) operano in integrazione stretta tra loro e soprattutto con l’Agenzia per la

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cooperazione dei regolatori nazionali - Acer -, istituita nel 2010). Si sono già richiamate le nuove agenzie europee in materia finanziaria.

A livello nazionale è stato istituito un ministero per le Politiche Comunitarie e molte Regioni si sono dotate di propri uffici a Bruxelles. I procedimenti amministrativi vedono coinvolte sempre più spesso amministrazioni nazionali e amministrazioni comunitarie (per esempio nella gestione dei fondi strutturali, cioè di risorse comunitarie destinati ad aree e settori economici particolari).

Infine, il diritto europeo esercita un’influenza anche sul diritto processuale amministrativo. Il Codice del processo amministrativo, adottato con il decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104, stabilisce che la giurisdizione amministrativa assicura una tutela piena ed effettiva secondo i principi della Costituzione e “del diritto europeo”. Questa espressione include anche i principi formatisi dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. Inoltre, nel settore degli appalti pubblici, sono intervenute direttive europee che hanno anticipato, per esempio, sviluppi del diritto nazionale in tema di tutela risarcitoria e di possibilità di esperire particolari tipi di rimedi. La direttiva 2007/66/CE, in particolare, ha imposto al legislatore italiano di prevedere un rito speciale in materia di contratti pubblici che ha caratteri marcatamente differenziati quanto a regole procedurali e ai poteri del giudice amministrativo (ora contenute negli artt. 120-124 del Codice del processo amministrativo).

Il diritto amministrativo si è aperto non soltanto a una dimensione europea, ma sta assumendo anche una dimensione ultrastatale (o globale) collegata allo sviluppo a livello mondiale di un numero crescente di organizzazioni internazionali (Banca Mondiale, Organizzazione mondiale del commercio, Fondo monetario internazionale, ecc.) che producono regole e standard che condizionano sempre più direttamente e indirettamente i diritti nazionali. La loro attività è assoggettata a principi e istituti tipici del diritto amministrativo, come, per esempio, quelli del giusto procedimento e della motivazione degli atti.

4.3 Il diritto privato.

I nessi tra diritto amministrativo e diritto privato possono essere ricondotti a tre proposizioni principali: il diritto amministrativo è un diritto autonomo dal diritto privato; non esaurisce tutta la disciplina dell’attività e dell’organizzazione della pubblica amministrazione che

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attinge sempre più a moduli privatistici; ha una capacità espansiva in quanto si applica, a certe condizioni, anche a soggetti privati.

a) L’autonomia del diritto amministrativo.

Per tradizione, ogni branca del diritto si pone il problema della propria autonomia.

L’autonomia del diritto amministrativo dal diritto privato emerge indirettamente da un istituto disciplinato dalla l. n. 241/1990 e cioè dagli accordi stipulati tra amministrazione e soggetti privati e che disciplinano l’esercizio dei poteri discrezionali.

L’amministrazione può infatti concludere con gli interessati accordi “al fine di determinare il contenuto discrezionale del provvedimento finale, ovvero, in sostituzione di questo” (art. 11, comma 1, della l. n. 241/1990). L’amministrazione, allorché la legge le riconosca margini più o meno ampi di scelta nelle soluzioni da adottare, anziché provvedere in modo unilaterale e autoritativo, può dunque negoziare con i soggetti destinatari di un provvedimento il miglior assetto degli interessi da incorporare in un accordo.

Quel che rileva in questa sede è che a questo tipo di accordi di natura pubblicistica “si applicano, ove non diversamente previsto, i principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti in quanto compatibili” (comma 2).

Da questa disposizione si ricava dunque che il diritto amministrativo è un diritto in sé completo e autosufficiente. Esso può attingere talora al diritto privato, ma in modo indiretto e selettivo: indiretto perché il rinvio è operato non già alle disposizioni del codice civile, bensì ai principi da esse desumibili in via di interpretazione e ciò crea già un primo filtro; selettivo, perché anche l’applicazione dei principi così ricavati non è automatica, in quanto è subordinata a un giudizio di compatibilità con i principi del diritto amministrativo che dunque prevalgono su quelli del diritto civile. Inoltre, l’applicazione del diritto privato può essere esclusa da norme speciali (“ove non diversamente previsto”).

Il diritto amministrativo e il diritto privato non si pongono dunque in una relazione di regola-eccezione, nel senso che in assenza di una regola speciale di diritto amministrativo, vale automaticamente la regola generale del diritto comune. Essi si collocano invece in una relazione di autonomia reciproca. Ciascuno dei due diritti è in sé completo, poiché

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eventuali lacune possono essere colmate facendo applicazione analogica anzitutto di istituti e principi propri di ciascuna disciplina.

Negli ordinamenti anglosassoni, nei quali il diritto amministrativo ha avuto uno sviluppo più recente e meno completo, esso si pone rispetto alla common law in termini di deroga o eccezione, piuttosto che di autonomia e completezza.

Per tradizione (ma tra gli storici del diritto vi è una disputa sul punto) la nascita del diritto amministrativo come disciplina autonoma si fa risalire in Francia al celebre arrệt Blanco del 1873. Il Tribunal des Conflits, in una causa per danni extracontrattuali proposta da un privato, anziché applicare le regole civilistiche, statuì che la responsabilità dell’amministrazione “ne peut ệtre régie par le principes qui sont établis dans le Code Civil pour les rapports de particulier à particulier”. Aggiunse che essa non è né generale né assoluta, ma è assoggettata “à ses règles spéciales qui varient suivant les besoins du service et la nécessité de concilier les droit des l’Ėtat avec les droits privés”. La specialità del diritto amministrativo si giustifica dunque per la necessità di curare l’interesse generale attraverso un opportuno bilanciamento degli interessi in gioco.

In materia di responsabilità civile, anche nel nostro ordinamento l’applicazione delle regole del codice civile (art. 2043 e seg.) è stata oggetto, soprattutto in passato, di deroghe ed eccezioni poste dal legislatore giustificate dall’esigenza di salvaguardare le prerogative dell’amministrazione. Ancor oggi, per esempio, le autorità di regolazione istituite nel settore finanziario sono responsabili solo per gli atti e comportamenti posti in essere con dolo o colpa grave (art. 4, comma 3, lett. d) del d.lgs. 29 dicembre 2006, n. 303). Più in generale, come si avrà modo di vedere, i principi della responsabilità civile applicati al caso della lesione di interessi legittimi da parte di provvedimenti amministrativi illegittimi si discostano in alcuni punti da quelli del diritto comune.

L’autonomia del diritto amministrativo sostanziale trova un parallelo nell’autonomia del diritto amministrativo processuale rispetto al diritto processuale civile. Il Codice del processo amministrativo contiene numerosi rinvii espressi al codice di procedura civile, ma l’assenza di una disciplina espressa non comporta l’applicazione automatica delle corrispondenti disposizioni del codice di procedura civile. Queste ultime si applicano solo “in quanto compatibili o espressione di principi generali” (art. 39, comma 1, del Codice sul cosiddetto rinvio esterno).

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b) I moduli privatistici dell’attività e dell’organizzazione delle pubbliche amministrazioni.

L’attività delle pubbliche amministrazioni è regolata in parte da leggi amministrative e in parte dal diritto privato.

Le pubbliche amministrazioni sono dotate anzitutto di soggettività piena nell’ordinamento giuridico e godono, al pari delle persone giuridiche private, di una capacità giuridica generale, quest’ultima intesa come l’attitudine ad assumere la titolarità di diritti e obblighi in conformità alle norme del codice civile e delle leggi speciali.

Le pubbliche amministrazioni dunque possono instaurare relazioni giuridiche con altri soggetti dell’ordinamento regolate dal diritto comune. L’art. 1, comma 1-bis, della l. n. 241/1990 enuncia il principio secondo il quale la pubblica amministrazione “nell’adozione di atti di natura non autoritativa, agisce secondo le norme di diritto privato salvo che la legge non disponga diversamente”.

Il solo limite generale che sussiste per esse è costituito dal fatto che la capacità giuridica generale è attribuita alle pubbliche amministrazioni per realizzare le finalità di interesse pubblico affidate alla loro cura. Pertanto esse non possono stipulare, per esempio, contratti aleatori.

La capacità generale di diritto privato delle pubbliche amministrazioni viene integrata da una sorta di capacità speciale, attraverso l’attribuzione per legge di poteri amministrativi necessari per la cura di interessi pubblici. Già l’art. 11 del codice civile riconosce che le persone giuridiche pubbliche “godono dei diritti secondo le leggi e gli usi osservati come diritto pubblico”, chiarendo così che esse sono assoggettate anche a un regime speciale diverso da quello comune.

L’esercizio dei poteri amministrativi, come si evince in negativo dalla stessa formulazione dell’art. 1, comma 1-bis sopra citato, si sostanzia nell’adozione di atti aventi natura autoritativa assoggettati al principio di legalità e agli altri principi del diritto amministrativo.

Si discute se sussista una piena fungibilità tra il potere amministrativo e la capacità generale di diritto privato. Se la legge attribuisce alla pubblica amministrazione un potere da esercitare in presenza di situazioni in essa indicate, l’amministrazione non sembra, in realtà, poter scegliere liberamente di esercitare il potere conferitole dalla legge emanando un provvedimento autoritativo o di far uso della capacità generale di diritto

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privato attraverso un atto negoziale idoneo a realizzare il medesimo fine (per esempio, la stipula di un contratto di locazione temporanea in alternativa alla requisizione in uso di edifici per ospitare degli sfollati). L’amministrazione è cioè tenuta a curare l’interesse pubblico affidatole privilegiando l’esercizio dei poteri amministrativi ad essa conferiti.

L’utilizzo della capacità di diritto privato da parte della pubblica amministrazioni può dar luogo a intersezioni tra regimi giuridici.

Così in materia di contratti della pubblica amministrazione per la fornitura di beni e servizi e per l’esecuzioni di lavori, convivono regole pubblicistiche e regole privatistiche. Le prime sono contenute nel Codice di contratti pubblici e riguardano soprattutto la formazione della volontà contrattuale della pubblica amministrazione. In particolare la scelta del contraente avviene, come si vedrà, secondo il modulo del procedimento amministrativo, cioè attraverso le cosiddette procedure a evidenza pubblica. Quest’ultime sono finalizzate a garantire l’imparzialità e la parità di trattamento delle imprese che aspirano alla stipula del contratto che danno origine a una sequenza di atti amministrativi (dal bando di gara al provvedimento di aggiudicazione). Le regole privatistiche riguardano la fase dell’esecuzione degli obblighi contrattuali assunti.

La capacità di diritto privato ha consentito, come si vedrà, alle pubbliche amministrazioni, soprattutto negli anni recenti, di utilizzare con frequenza il modello della società di capitali in tutto o in parte a capitale pubblico per l’esercizio di servizi pubblici. Ciò in luogo di moduli organizzativi pubblicistici tradizionali come l’ente pubblico economico e l’azienda-organo (o azienda speciale), quest’ultima costituente una unità organizzativa dotata di autonomia contabile e gestionale che è inserita all’interno di un apparato pubblico (ministero o ente locale). Le azioni delle società in mano pubblica sono talora detenute in parte da soggetti privati selezionati in base a procedure a evidenza pubblica (società miste). Molte leggi settoriali hanno però introdotto deroghe e limitazioni più o meno ampie alla disciplina del codice civile, dando origine al fenomeno delle società di diritto speciale (per esempio la Rai).

Ma anche al di là del contesto dei servizi pubblici, in conseguenza della spinta alla privatizzazione che ha caratterizzato l’ultimo ventennio, molti enti pubblici sono stati trasformati in enti privati anch’essi assoggettati al diritto comune, salvo le deroghe previste dalle leggi speciali (fondazioni liriche, museali, universitarie, ecc.).

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Il diritto privato penetra anche all’interno dell’organizzazione pubblica sotto più profili.

In primo luogo, non tutta l’organizzazione delle pubbliche amministrazioni è disciplinata da fonti giuridiche pubblicistiche e assoggettata ai principi del diritto pubblico. Il decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, “Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche“ opera infatti una distinzione tra “macro-organizzazione e “micro-organizzazione”.

La “macro-organizzazione”, cioè le linee fondamentali di organizzazione degli uffici, l’individuazione degli uffici di maggiore rilevanza, i modi di conferimento della titolarità dei medesimi e le dotazioni organiche, è definita con atti organizzativi di tipo pubblicistico adottati da ciascun ente secondo il proprio ordinamento (art. 2, comma 1).

La “micro-organizzazione”, invece, riguardante l’articolazione degli uffici e le misure inerenti alla gestione dei rapporti di lavoro, è determinata dagli organi preposti alla gestione “con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro” (art. 5, comma 2), cioè con atti organizzativi di diritto privato.

L’assoggettamento a regole di diritto privato dell’organizzazione pubblica è pressoché integrale nel caso delle aziende sanitarie locali che costituiscono la struttura organizzativa di base del sistema sanitario nazionale. Le Asl sono “aziende con personalità giuridica pubblica e autonomia imprenditoriale”. La loro organizzazione e il loro funzionamento sono disciplinati “con atto aziendale di diritto privato”, approvato dal direttore generale, che individua le strutture operative dotate di autonomia gestionale o tecnico professionale (art. 3, comma 1-bis, del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 502).

In secondo luogo, negli anni Novanta del secolo scorso, il rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici, in precedenza assoggettato a un regime pubblicistico (leggi, regolamenti dei singoli enti, atti amministrativi unilaterali) è stato ricondotto in gran parte al diritto comune.

Il d.lgs. n. 165/2001 sopra citato, infatti, prevede che “i rapporti di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni sono disciplinati dalle disposizioni del capo I, titolo II, del libro V del codice civile e dalla legge sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa, fatte salve le diverse disposizioni contenute nel presente decreto che costituiscono disposizioni a carattere imperativo” (art. 2, comma 2). Di regola si applica il diritto comune, salvo le eccezioni previste dalla disciplina

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speciale contenuta nello stesso decreto legislativo o in altre leggi amministrative. A valle della normativa di rango primario, i rapporti individuali di lavoro sono regolati da contratti collettivi e contratti individuali (art. 2, comma 3).

Il regime privatistico non si applica a talune categorie di dipendenti, quali per esempio i magistrati, il personale militare, le forze di polizia.

c) La tendenza espansiva del diritto amministrativo.

In presenza di determinate condizioni, anche soggetti formalmente privati sono assoggettati, almeno in parte, a un regime di diritto amministrativo.

Ciò accade, in particolare, per i soggetti privati che in base a criteri posti dalla normativa comunitaria e nazionale in materia di contratti pubblici sono qualificati come “organismi di diritto pubblico” o “ imprese pubbliche” (art. 3, commi 26 e 28, del Codice dei contratti pubblici). Come tali sono tenuti ad avviare procedure competitive ad evidenza pubblica per la scelta dell’impresa fornitrice assoggettate al controllo giurisdizionale del giudice amministrativo.

In termini più generali, l’art. 1, comma 1-ter, della l. n. 241/1990 stabilisce che “I soggetti privati preposti all’esercizio di attività amministrative assicurano il rispetto dei criteri e dei principi di cui al comma 1” (in particolare quelli di imparzialità, pubblicità e trasparenza). Inoltre, l’art. 29, comma 1, della l. n. 241/1990 stabilisce che essa si applica anche “alle società con totale o prevalente capitale pubblico, limitatamente all’esercizio delle funzioni amministrative”.

Alcuni atti di soggetti privati hanno dunque natura di provvedimenti e sono sottoposti al controllo giurisdizionale da parte del giudice amministrativo. Il Codice del processo amministrativo, nel definire l’ambito della giurisdizione amministrativa, infatti, fa riferimento anche ai “soggetti equiparati” alle pubbliche amministrazioni o a quelli “comunque tenuti al rispetto dei principi del procedimento amministrativo” (art. 7, secondo comma).

Anche la normativa sul diritto di accesso ai documenti amministrativi ha un campo di applicazione che va al di là delle amministrazioni pubbliche in senso stretto. Infatti, l’art. 22, primo comma, lett. e) della l. n. 241/1990 include nella definizione di pubblica amministrazione “i soggetti di diritto privato limitatamente alla loro attività di pubblico

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interesse disciplinata dal diritto nazionale o comunitario” , i quali, almeno per una parte della loro attività, sono tenuti a rispettare gli obblighi in materia di trasparenza.

Infine, la costituzione di società per azioni da parte di soggetti pubblici regolate in linea di principio dal diritto privato non comporta sempre e necessariamente che esse siano qualificabili come persone giuridiche private. La giurisprudenza più recente, infatti, in presenza di deroghe al diritto comune introdotte da leggi speciali e in considerazione della rilevanza pubblicistica della loro attività, attribuisce ad alcune società in mano pubblica la natura giuridica di enti pubblici (per esempio, Poste Spa, Enel Spa). E’ stata così riscoperta la figura, per molti aspetti ibrida, della società per azioni-ente pubblico, già emersa negli anni Trenta del secolo scorso (in particolare a proposito dell’Agip Spa).

In ogni caso, la privatizzazione formale (privatizzazione “fredda”) di molti enti pubblici, cioè la loro trasformazione in società di diritto privato, se non è accompagnata da una privatizzazione sostanziale (privatizzazione “calda”), attraverso la dismissione del controllo azionario da parte dello Stato o di enti pubblici e la loro riconduzione al diritto comune, non altera la sostanza pubblicistica delle società, con la conseguente applicazione di regole pubblicistiche (per esempio, il controllo della Corte dei conti esercitato anche attraverso la presenza di un magistrato nel consiglio di amministrazione). Nel caso delle cosiddette società in house, a partecipazione totalitaria pubblica e che svolgono la parte prevalente della propria attività per conto dei propri azionisti e che dunque possono essere considerate, come si vedrà, quasi come articolazioni organizzative interne all’amministrazione, leggi recenti impongono il rispetto delle procedure a evidenza pubblica per la stipula di contratti e il regime del concorso per le assunzioni di personale.

Va segnalato per completezza che anche il diritto privato in qualche caso incorpora principi propri del diritto amministrativo. Così, per esempio, nel diritto societario, le società facenti parte di un gruppo possono assumere decisioni influenzate dall’attività di direzione e coordinamento della società capogruppo anche sacrificando l’interesse della società a favore di quello del gruppo. Tuttavia le decisioni di questo tipo, al pari degli atti amministrativi (art. 3 della l. n. 241/1990) devono “essere analiticamente motivate e recare puntuale indicazione delle ragioni e degli interessi la cui valutazione ha inciso sulla decisione” (art. 2497-quater cod. civ.). Nei rapporti tra compagnie di assicurazione private e sottoscrittori di polizze di assicurazione nel settore della

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responsabilità civile obbligatoria, questi ultimi possono esercitare il diritto di accesso ai documenti detenuti dalle prime con modalità e esiti analoghi a quelli previsti dalla l. n. 241/1990 per i rapporti tra cittadini e pubbliche amministrazioni.

In conclusione, il diritto amministrativo non costituisce oggi né l’unico diritto applicabile alle pubbliche amministrazioni, né un diritto applicabile solo ad esse. La distinzione tra attività soggetta al regime di diritto pubblico e di diritto privato non è sovrapponibile in modo perfetto alla distinzione tra soggetto pubblico e soggetto privato.

5. I caratteri generali del diritto amministrativo.

5.1. La natura giurisprudenziale del diritto amministrativo.

In sede introduttiva conviene dar conto di alcuni caratteri generali del diritto amministrativo e delle principali partizioni della materia.

Come si è già accennato, la nascita del diritto amministrativo in Francia e in Italia è legata all’istituzione di un giudice speciale per le controversie tra cittadino e pubblica amministrazione. E ciò spiega un suo primo tratto distintivo, vale a dire di essere un diritto avente natura essenzialmente giurisprudenziale. Va dunque operato qualche approfondimento anticipando alcuni temi esaminati nel Cap. VII.

In Francia la giustizia amministrativa si sviluppò, senza soluzione di continuità, dal sistema del contenzioso amministrativo all’istituzione di un giudice speciale. Come si vedrà, il contenzioso amministrativo era dato da quel complesso di ricorsi e rimedi amministrativi interni al potere esecutivo (una sorta di giustizia domestica) già presenti in epoca antecedente la Rivoluzione del 1789 e conservati anche successivamente. Il Conseil de Roi (organo di alta consulenza del Re per gli affari politici e giuridici, poi trasformato in epoca napoleonica in Conseil d’Ėtat), in particolare, aveva già acquisito un’esperienza specifica in materia di contenzioso amministrativo. Formulava infatti i pareri sui ricorsi amministrativi rivolti al sovrano, il quale emanava la propria decisione recependo, nella quasi totalità dei casi, le indicazioni dell’organo consultivo (cosiddetta giustizia ritenuta, cioè imputata formalmente in capo al sovrano). Nel 1872, al Conseil d’Ėtat venne attribuita in via permanente (cosiddetta giustizia delegata, cioè esercitata in proprio sulla base di un’attribuzione legislativa) la funzione di giudice del contenzioso

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amministrativo e con ciò il Conseil d’Etat completò la propria trasformazione in giudice in senso proprio.

Quasi in contemporanea, nel 1873, il Tribunal des Conflits, emanò la celebre pronuncia sull’arrệt Blanco, che, come si è già accennato, segna convenzionalmente la nascita del diritto amministrativo. Stabilita l’autonomia del diritto amministrativo dal diritto comune, fu lo stesso Conseil d’Ėtat a elaborare e ad adattare via via, con notevole libertà, pragmatismo e realismo (souplesse), i principi fondamentali di questo diritto che dunque ha assunto e mantenuto nel tempo il carattere generale di un diritto non codificato di natura essenzialmente giurisprudenziale.

In Italia, l’esperienza è in gran parte similare, con una sola variante. Lo sbocco naturale del sistema del contenzioso amministrativo, già presente in varie forme da lungo tempo negli Stati preunitari, nell’istituzione di un giudice speciale in senso proprio subì una cesura in occasione della riunificazione nazionale. La legge 20 marzo 1865, n. 2248 All. E abolì il contenzioso amministrativo, ritenuto non compatibile con una visione liberale dello Stato, e attribuì al giudice ordinario tutte le controversie tra privati e pubblica amministrazione involgenti questioni relativi alla tutela di diritti soggettivi (diritti civili o politici, nel linguaggio del legislatore).

Nel 1889, in seguito al sostanziale fallimento dell’esperienza del giudice unico, venne operata una correzione del sistema prevedendo un nuovo rimedio finalizzato ad annullare gli atti amministrativi illegittimi.

Venne così istituita la IV Sezione del Consiglio di Stato che fin dalle sue prime decisioni si autoattribuì la qualifica di giudice in senso proprio e intraprese l’opera di costruzione dei principi generali del diritto amministrativo.

Così per esempio, in assenza di una definizione legislativa dell’eccesso di potere, il Consiglio di Stato chiarì che esso doveva essere inteso come vizio del provvedimento relativo alla legalità intrinseca (da contrapporre alla legalità estrinseca, cioè essenzialmente legata agli aspetti formali e procedurali dell’azione amministrativa) della funzione amministrativa. Individuò poi progressivamente, accanto alla figura principale dello sviamento di potere, una categoria aperta di figure sintomatiche dell’eccesso di potere (travisamento dei fatti, disparità di trattamento, contraddittorietà o insufficienza della motivazione, ingiustizia manifesta, ecc.). Il Consiglio di Stato elaborò via via, in assenza di una disciplina legislativa compiuta, i principi generali dell’azione amministrativa (il principio del contraddittorio nei procedimenti di tipo sanzionatorio, il

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principio di ragionevolezza, ecc.), dell’atto amministrativo (obbligo di motivazione, revoca e annullamento d’ufficio, ecc.) e dell’organizzazione (prorogatio degli organi scaduti giustificata dall’esigenza di continuità dell’azione amministrativa).

La creazione da parte del Consiglio di Stato dei principi del diritto amministrativo non riguardò soltanto il diritto sostanziale, ma anche quello processuale. Il Consiglio di Stato si fece cioè carico di colmare così le lacune contenute nella disciplina positiva del processo amministrativo. Così per esempio, il Consiglio di Stato elaborò nozioni fondamentali come atto definitivo impugnabile, interesse legittimo e interesse a ricorrere, principio della domanda, ecc. Gli stessi criteri di riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo diedero origine a contrasti giurisprudenziali e vennero fissati in modo definitivo negli anni Trenta del secolo scorso, non già dal legislatore, bensì ad opera di un “ concordato giurisprudenziale” informale tra il presidente della Corte di Cassazione e del Consiglio di Stato.

In definitiva, come ha chiarito da tempo lo stesso Consiglio di Stato, il diritto amministrativo non è composto soltanto da norme, ma anche da “principi che dottrina e giurisprudenza hanno elevato a dignità di sistema” (Adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 3 del 1961).

Dal carattere giurisprudenziale del diritto amministrativo consegue un’altra caratteristica che lo avvicina in qualche modo all’esperienza della common law e cioè la sua elasticità e adattabilità al variare delle situazioni e all’emergere di nuove esigenze. Ciò costituisce per alcuni aspetti un vantaggio perché, entro certi limiti, consente al sistema di evolversi e rinnovarsi anche quando il Parlamento ritardi a fornire risposte legislative a problemi emergenti; per altri aspetti, uno svantaggio, perché i concetti specifici della materia hanno contorni più sfuggenti di quelli propri di altre discipline giuridiche e possono disorientare coloro che non ne hanno una frequentazione assidua.

Il carattere giurisprudenziale del diritto amministrativo non è contraddetto dalla presenza di un’amplissima produzione legislativa. Anzi i difetti strutturali della legislazione amministrativa (molteplicità dei centri di produzione normativa, frammentazione, stratificazione temporale, instabilità, cattiva qualità dei testi) danno origine a incertezze interpretative e favoriscono applicazioni difformi delle medesime disposizioni da parte delle pubbliche amministrazioni. La giurisprudenza amministrativa finisce così per assumere un ruolo essenziale per promuovere l’uniforme applicazione del diritto.

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Per dirimere le questioni di principio più controverse, che hanno dato origine a orientamenti giurisprudenziali difformi, interviene l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, collegio allargato composto da giudici provenienti da tutte le sezioni giudicanti (III, IV, V e VI). Essa svolge una funzione nomofilattica, cioè di promozione di un’applicazione del diritto uniforme che è stata rafforzata ancor più dal Codice del processo amministrativo. Infatti, nel caso in cui una singola sezione giudicante ritiene preferibile un’interpretazione diversa da quella dell’Adunanza plenaria, non può decidere, ma deve rimettere il caso alla decisione di quest’ultima e deve poi conformarsi al suo orientamento (art. 99).

La l. n. 241/1990, integrata dalla legge 11 febbraio 2005, n. 15 e successive modificazioni, che contiene una serie di disposizioni generali sul procedimento amministrativo e sul regime dei provvedimenti amministrativi, non smentisce il carattere giurisprudenziale del diritto amministrativo. Da un lato, infatti, essa non ha fatto altro che legificare istituti e principi già elaborati dalla giurisprudenza (per esempio, l’obbligo di motivazione o i principi in tema di annullamento d’ufficio o di revoca degli atti amministrativi); dall’altro, essa non ha posto una disciplina dell’azione amministrativa comparabile per estensione e organicità con quella posta da altri leggi generali sul procedimento amministrativo (per esempio, in Germania, il Verwaltungsverfahrensgesetz del 1976).

In ogni caso, il diritto amministrativo non ha subito un processo di codificazione analogo a quello del diritto civile. Nell’esperienza italiana recente, sono stati approvati, come si vedrà, alcuni codici settoriali (in materia di ambiente, di tutela della privacy, di contratti pubblici, ecc.), ma questi corpi normativi (al pari dei Testi unici) hanno più che altro la funzione di raccogliere e riordinare le discipline speciali.

5.2. Il diritto amministrativo generale e speciale.

Il diritto amministrativo si caratterizza per la vastità del materiale normativo e per l’ampiezza e varietà delle materie incluse nel suo campo di indagine. E’ emersa così la distinzione tra diritto amministrativo speciale e generale.

Il diritto amministrativo speciale è costituito dai filoni legislativi che disciplinano i vari campi di intervento delle pubbliche amministrazioni (urbanistica, sanità, ambiente, beni culturali, ordinamento scolastico, universitario, militare, sportivo, ordine pubblico, previdenza, ecc.). Il

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corpo della legislazione di settore di fonte statale e regionale, ma spesso anche, come si è detto, di derivazione europea, è imponente.

All’interprete è dunque richiesta una conoscenza completa e aggiornata della legislazione vigente così come applicata e interpretata dalla giurisprudenza e la capacità di inquadrarla nell’ambito del diritto amministrativo generale.

Il diritto amministrativo generale è opera soprattutto della scienza giuridica. Essa procede anzitutto alla rielaborazione del materiale giuridico grezzo, costituito dal complesso delle norme giuridiche vigenti e dalle sentenze dei giudici, attraverso un’attività di classificazione, di individuazione di strutture portanti e di costanti. Interviene poi l’attività di elaborazione dei concetti giuridici che costituiscono il nucleo essenziale della dogmatica del diritto amministrativo. Il diritto amministrativo generale è ora in buona parte codificato nella l. n. 241/1990.

Diritto amministrativo generale e diritto amministrativo speciale si condizionano reciprocamente e si evolvono di pari passo. Il mutare delle discipline amministrative di settore ad opera del legislatore richiede uno sforzo costante di adattamento delle categorie giuridiche e di ricerca di nuovi paradigmi interpretativi.

Il diritto amministrativo generale, dunque, per propria natura non può aspirare a un inquadramento completo, coerente e definitivo del proprio oggetto. Può mirare soltanto a tracciare le coordinate principali e le costanti (le cosiddette invarianti, secondo M.S. GIANNINI) volte a inquadrare nel modo più preciso i fenomeni analizzati. E questo nella consapevolezza che i sistemi giuridici, così come gli organismi viventi, presentano necessariamente contraddizioni interne, tensioni tra opposti principi, tra elementi caduchi ed elementi in pieno sviluppo, tra forze che promuovono la stabilità e spinte che provocano instabilità.

Il diritto amministrativo generale costituisce comunque il nucleo costitutivo della materia e come tale rappresenta la parte principale di ogni elaborazione manualistica.

Il diritto amministrativo speciale è invece oggetto di trattazioni organiche, per lo più a uso didattico o indirizzate agli interpreti pratici, dedicate a uno solo dei sub-settori (diritto urbanistico, diritto dell’ambiente, diritto sanitario, diritto dei contratti pubblici). Talvolta è condensato in capitoli o partizioni interne a trattati di diritto amministrativo che mirino anche alla completezza dell’esposizione.

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Un’esposizione esaustiva del diritto amministrativo speciale esula invece dagli obiettivi di una introduzione generale al diritto amministrativo.

6. Piano dell’opera.

L’esposizione del diritto amministrativo generale richiede un filo logico con il quale annodare i vari istituti tradizionalmente inclusi nelle trattazioni manualistiche.

A questo fine si può partire dall’interrogativo su come nascono e a che servono gli apparati amministrativi.

Come si è visto, gli interventi pubblici nei rapporti sociali ed economici con la previsione e la messa in opera di strumenti amministrativi si giustificano allorché si ritenga, dato il grado di maturità e consapevolezza di una collettività in un dato momento storico, che la società civile e il mercato non si facciano carico in modo soddisfacente della cura di interessi avvertiti come pubblici.

Da qui dunque la ragione fondamentale dell’esistenza di apparati amministrativi ad hoc la cui missione consiste proprio nel porre in essere le attività volte a correggere i fallimenti del mercato.

Nel momento in cui istituisce un apparato amministrativo, il legislatore ne delinea le funzioni e in relazione a quest’ultime specifica i poteri amministrativi necessari per poter conseguire il fine pubblico. L’esercizio di tali poteri avviene tipicamente attraverso il modulo del procedimento amministrativo che si sviluppa, a seconda dei casi, in una sequenza più o meno articolata di atti e adempimenti e il cui esito finale consiste nell’emanazione di un provvedimento autoritativo che incide unilateralmente nella sfera giuridica di un soggetto privato.

Una prima parte del volume, dunque, è dedicata agli strumenti a disposizione delle pubbliche amministrazioni per curare degli interessi pubblici. In termini più analitici, queste ultime esercitano tre tipi di funzioni: la funzione di regolazione, che consiste nell’attività volta a disciplinare sia i comportamenti dei privati in ambiti di attività nei quali emergono interessi pubblici da tutelare, sia, almeno in parte, la propria organizzazione e l’esercizio dei poteri di cui esse sono titolari; la funzione di amministrazione attiva, che consiste nell’esercizio dei poteri conferiti dalla legge per la cura in concreto di interessi pubblici instaurando rapporti giuridici con una o più pubbliche amministrazioni; la funzione di verifica del proprio operato attuata attraverso i poteri di

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autotutela (annullamento d’ufficio e revoca degli atti amministrativi), i poteri di controllo e i ricorsi amministrativi.

Fonti del diritto, inserite nell’ambito della funzione di regolazione, e teoria dell’atto e del procedimento amministrativo, raccordata alla teoria delle situazioni giuridiche soggettive, costituiscono il primo blocco di temi. L’attività amministrativa va inquadrata sia dal punto di vista della fisiologia sia da quello della patologia (nullità, annullabilità, responsabilità).

Completa la prima parte del volume un capitolo sui principi della giustizia amministrativa. Molti istituti e concetti del diritto amministrativo sostanziale (vizi dell’atto, discrezionalità, ecc.) possono essere compresi a fondo solo se si ha presente il rilievo che essi assumono in ambito processuale. Da qui la necessità di dar conto dei fondamenti della giustizia amministrativa, anticipando anche già in sede di trattazione degli istituti del diritto sostanziale gli aspetti processuali di volta in volta rilevanti. Resta fermo peraltro che il diritto processuale amministrativo costituisce a fini didattici una disciplina autonoma della quale si occupano manuali specialistici.

Le pubbliche amministrazioni non vengono istituite secondo un modello unitario. Al contrario ciascun apparato pubblico o tipo di apparato va ritagliato nella sua configurazione in relazione alle specifiche funzioni che ad esso vengono attribuite. Da qui la necessità di esporre in una seconda parte del volume i principi in tema di organizzazione amministrativa e i principali modelli di pubbliche amministrazioni emersi nel diritto positivo.

Ciascun apparato amministrativo, poi, così come in generale ogni persona giuridica privata, per poter svolgere in concreto le proprie funzioni necessita di supporti organizzativi adeguati: personale da adibire agli uffici; beni e servizi strumentali da acquistare sul mercato; risorse finanziarie. La seconda parte del volume include anche il regime del pubblico impiego, i beni pubblici, l’attività contrattuale della pubblica amministrazione, nozioni di finanza e contabilità pubblica.

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CAP. II

LA FUNZIONE DI REGOLAZIONE E LE FONTI DEL DIRITTO

1. Premessa; 2. La Costituzione; 3. Fonti comunitarie e pubblica amministrazione; 4. Fonti normative statali, riserve di legge, principio di legalità; 5. Le leggi provvedimento e la riserva di amministrazione; 6. I regolamenti governativi; 7. Cenni alle fonti normative regionali, degli enti locali e di altri enti pubblici; 8. Atti di regolazione aventi natura non normativa; 9. Gli atti amministrativi generali: a) i bandi di concorso e gli avvisi di gara; 10. Segue: b) gli atti di pianificazione e di programmazione; 11. Segue: c) le ordinanze contingibili e urgenti; 12. Segue: d) le direttive e gli atti di indirizzo; 13. Segue: e) le norme interne e le circolari; 14. Il riordino della legislazione: i testi unici e i codici; 15. Sviluppi recenti.

1. Premessa.

La funzione regolatrice della pubblica amministrazione ha assunto un ruolo crescente negli ultimi decenni in conseguenza della crisi della legge come fonte di disciplina dei rapporti giuridici. A causa della velocità dei cambiamenti tecnologici, economici e sociali nel mondo contemporaneo, il Parlamento è sempre meno in grado di elaborare testi legislativi completi e di operare tempestivamente gli aggiornamenti necessari. Le leggi diventano così “leggi d’indirizzo poggianti su incerta prognosi” o meri “programmi legislativi aperti” che si limitano ad assumere “decisioni di metalivello” che lasciano spazio a una “amministrazione autoprogrammantesi” (J. HABERMAS).

In molti settori di intervento dell’amministrazione, la legge si limita a delineare i principi fondamentali della disciplina di una determinata materia e delega agli apparati amministrativi il compito di porre in via sub-legislativa, con atti normativi e con altri tipi di atti (linee guida, circolari, norme tecniche, ecc.) le regole di dettaglio volte a disciplinare anche i comportamenti dei privati.

La cosiddetta funzione regolatrice della pubblica amministrazione attenua almeno in parte il principio della separazione dei poteri, in base al quale la funzione normativa dovrebbe essere riservata al Parlamento, cioè alla legge generale e astratta, la funzione esecutiva al Governo e agli

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apparati amministrativi e la funzione giurisdizionale alla magistratura. In molti ambiti, la pubblica amministrazione ha sia il potere di porre le regole, pur nei limiti stabiliti dalla legge, sia di applicarle nei singoli casi.

Questo fenomeno è particolarmente evidente nel caso delle autorità di regolazione istituite negli anni più recenti per la vigilanza su settori particolari di imprese (servizi pubblici nazionali, mercati finanziari, ecc.), alle quali si è già fatto cenno e che, in base alle leggi istitutive, sono investite di poteri normativi particolarmente ampi.

Le pubbliche amministrazioni, peraltro, prima ancora che soggetti regolatori, sono soggetti regolati. In uno Stato di diritto esse sono infatti assoggettate a un corpo più o meno ampio di norme che ne disciplinano l’assetto organizzativo e funzionale.

Emerge qui dunque, descrittivamente, una distinzione --- non usuale nelle trattazioni generali in tema di fonti del diritto, ma utile per cogliere la collocazione istituzionale e il ruolo della pubblica amministrazione --- tra “fonti sull’amministrazione” e “fonti dell’amministrazione”.

Le prime hanno come destinatarie le pubbliche amministrazioni che diventano così soggetti eteroregolati, sottoposti ai principi dello Stato di diritto. Esse disciplinano l’organizzazione, le funzioni e i poteri di queste ultime e costituiscono un parametro per sindacare la legittimità dei provvedimenti da essi emanati. Le fonti sull’amministrazione sono costituite, in base al principio della riserva di legge relativa di cui all’art. 97 della Costituzione, anzitutto da fonti normative di rango primario e in secondo luogo da fonti normative di rango secondario (per esempio i regolamenti governativi che disciplinano, in attuazione di disposizioni primarie, un apparato pubblico).

Le seconde invece sono strumenti a disposizione delle pubbliche amministrazioni sia per regolare comportamenti dei privati sia, nei limiti in cui la legge riconosca ad esse un ambito di autonomia organizzativa, per disciplinare i propri apparati e il loro funzionamento. Le fonti dell’amministrazione hanno sempre un rango sub-legislativo (regolamenti dei singoli ministeri e di enti pubblici, statuti), essendo la funzione legislativa riservata al Parlamento.

Esse includono sia fonti normative in senso proprio, sia atti di regolazione aventi natura non normativa (atti di pianificazione e programmazione, atti amministrativi generali, direttive, circolari, ecc.). Come si vedrà, se ci si pone dal punto di vista dell’effettiva prescrittività, la distinzione tradizionale tra atti normativi e atti non normativi e tra atti

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aventi efficacia esterna e interna tende a sfumare: la funzione di regolazione della pubblica amministrazione include tutti gli strumenti, anche informali, idonei a orientare e condizionare i comportamenti dei privati.

Nella trattazione che segue viene data per nota la sistematica generale delle fonti del diritto, cioè del complesso degli atti (o fatti) “abilitati dall’ordinamento a creare diritto oggettivo” (V. CRISAFULLI). Essa è oggetto di svolgimento completo da parte del diritto costituzionale specie per quel che riguarda la tipologia delle fonti di rango costituzionale e primario, nonché i criteri che regolano i rapporti tra fonti (gerarchia, competenza, criterio cronologico). Tuttavia, per tradizione il tema viene svolto anche nell’ambito del diritto amministrativo, allo scopo di approfondire soprattutto le fonti secondarie che restano spesso relegate in secondo piano nei manuali di diritto costituzionale. Nei paragrafi che seguono verranno riprese solo le nozioni fondamentali, tenendo presente che l’obiettivo principale è, per un verso, quello di mettere in luce come le singole tipologie di fonti condizionano il modo di essere e di agire delle pubbliche amministrazioni, per altro verso, quello di dar conto in modo più completo della funzione di regolazione della pubblica amministrazione, cioè delle “fonti dell’amministrazione”.

2. La Costituzione.

La Costituzione, entrata in vigore nel 1948, costituisce, in base al criterio della gerarchia, la fonte giuridica di rango più elevato. In particolare, essa è il parametro in base al quale la Corte Costituzionale esercita il proprio sindacato sulle leggi e sugli atti aventi forza di legge.

La revisione della Costituzione e delle altre leggi costituzionali richiede un procedimento di approvazione da parte del Parlamento con maggioranze qualificate (art. 138 della Costituzione). La Costituzione (a differenza dello Statuto albertino del 1848) rientra dunque nel novero delle costituzioni rigide, per le quali è cioè previsto un procedimento di modificazione aggravato rispetto a quello delle leggi ordinarie. Ciò al fine di coinvolgere in scelte che possono avere un impatto di lungo periodo per l’intera comunità una cerchia di forze parlamentari più ampia di quelle che sorreggono il governo.

Da un punto di vista contenutistico, e per i riflessi che ne derivano per la dimensione e le articolazioni della pubblica amministrazione, la Costituzione del 1948 appartiene alle cosiddette costituzioni lunghe,

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contrapposte a quelle brevi ottocentesche, introdotte a partire da quella di Weimar del 1919, che riflettono il passaggio dallo Stato liberale allo Stato interventista a vocazione sociale.

La Costituzione, infatti, non soltanto definisce i diritti di libertà dei cittadini e delinea l’assetto generale dello Stato ordinamento (Stato, Regioni, autonomie locali, Corte Costituzionale, magistratura, ecc.). Essa individua anche un’ampia serie di compiti dei quali lo Stato, e per esso la pubblica amministrazione, deve farsi carico nell’interesse della collettività (salute, istruzione scolastica e superiore, assistenza e previdenza sociale, tutela del risparmio, ecc.). Essa segna il passaggio verso lo Stato interventista e lo Stato sociale.

La Costituzione non tratta invece in modo diffuso dell’assetto della pubblica amministrazione. Anzi le basi costituzionali del diritto amministrativo si incentrano su pochi principi essenziali in tema di organizzazione (imparzialità e buon andamento enunciati nell’art. 97), di raccordi tra politica e amministrazione (art. 95 che pone il principio della strumentalità dell’amministrazione rispetto alla politica generale del governo e il principio della responsabilità politica dei ministri in relazione all’attività amministrativa), di assetto della giustizia amministrativa (artt. 103, 113, 125). Lo stesso principio di legalità è dato per presupposto, ma non è esplicitato in disposizioni specifiche.

La Costituzione contiene una serie di disposizioni in tema di fonti del diritto soprattutto di rango primario. La riforma del Titolo V della parte II della Costituzione, ad opera della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, che ha individuato un nuovo assetto dei rapporti tra Stato, Regioni, Province e Comuni in base al principio di sussidiarietà, ha ridefinito i rapporti tra le fonti statali e regionali sulla base dei seguenti principi: la equiordinazione tra competenza legislativa statale e regionale, che devono essere esercitate nel rispetto della Costituzione e, come si è già accennato, dei “vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali” (art. 117, primo comma); l’attribuzione alle Regioni di una competenza legislativa generale residuale, con indicazione tassativa delle materie attribuite alla competenza legislativa esclusiva e concorrente dello Stato (art. 117, commi 2 e 3).

Nel trattare il tema delle fonti del diritto conviene pertanto muovere dall’analisi delle fonti dell’Unione europea che condizionano l’attività normativa dello Stato e delle Regioni. Successivamente vanno prese in considerazione le fonti statali e le fonti regionali. Infine, in un ordinamento costituzionale improntato ai principi di autonomia, occorre

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esaminare le fonti degli enti locali e di altri enti pubblici autonomi.

3. Fonti dell’Unione europea e pubblica amministrazione.

Nel capitolo precedente si è già analizzata, in generale, l’influenza del diritto europeo sul diritto amministrativo. In questa sede, occorre soffermarsi in modo più specifico sui rapporti tra fonti dell’Unione europea e fonti interne.

La potestà legislativa dello Stato e delle Regioni è assoggettata, come si è visto, ai “vincoli derivanti dal diritto comunitario” (art. 117, comma 1).

Nella gerarchia delle fonti, le fonti dell’Unione europea si pongono dunque su un livello più elevato rispetto alle fonti primarie. Vige anzi il principio secondo il quale le norme nazionali contrastanti con il diritto europeo devono essere disapplicate.

Questo principio vale sia per i giudici nazionali, ai quali, nell’ambito di una controversia, spetta il compito di individuare la norma applicabile al caso concreto (anche in base al principio jura novit curia); sia per le pubbliche amministrazioni, quando esercitano un potere amministrativo ed emanano un provvedimento. Per esempio, nel contrasto tra una disposizione dettagliata di una direttiva europea e la legge nazionale di recepimento, il giudice e l’amministrazione sono tenuti a porre a base della propria determinazione la prima.

Per la pubblica amministrazione, il vincolo derivante dal diritto europeo è addirittura più stringente di quello che discende dalla Costituzione. Essa infatti non può disapplicare le leggi contrarie alla Costituzione, né ha il potere attribuito ai giudici di sollevare in via incidentale la questione alla Corte Costituzionale.

Il primato del diritto europeo si spinge invece fino al punto di vietare alle pubbliche amministrazioni di dare esecuzione a un provvedimento la cui legittimità sia stata affermata da una sentenza passata in giudicato, allorché esso sia stato ritenuto contrario al diritto europeo dalla Corte di Giustizia (sentenza della Corte di Giustizia 13 gennaio 2004, causa C-453/00, Kuhne & Heitz).

In estrema sintesi, le fonti europee sono costituite anzitutto dai Trattati istitutivi delle Comunità, più volte modificati e integrati (da ultimo con i

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Trattati di Amsterdam del 1997 e di Nizza del 2001 e di Lisbona del 20078), che in base all’art. 11 della Costituzione hanno consentito limitazioni della sovranità a favore delle istituzioni comunitarie. I principi generali in essi contenuti (non discriminazione, legalità, certezza del diritto, ecc.), insieme a quelli che la Corte di giustizia ha ricavato dai principi generali comuni agli ordinamenti giuridici degli Stati membri, sono di diretta applicabilità negli ordinamenti nazionali. Per esempio, in materia di contratti pubblici e di concessioni amministrative essi trovano applicazione diretta anche in assenza di una disciplina espressa contenuta in direttive comunitarie e in normative nazionali.

In aggiunta ai Trattati vanno considerate sia la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, sia la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo (CEDU) richiamate espressamente dall’art. 6 del Trattato UE e che hanno, alla luce della giurisprudenza più recente della Corte Costituzionale (sentenze n. 80, n. 113 e 236 del 2001), sempre più una rilevanza giuridica anche all’interno degli Stati membri.

I regolamenti, disciplinati dall’art. 288 e seguenti del TFUE, hanno portata generale e sono direttamente vincolanti per gli Stati membri e per i loro cittadini. Non richiedono alcuna forma di recepimento da parte degli Stati membri e non possono essere derogati da questi ultimi. A differenza degli atti normativi nazionali, i regolamenti europei devono essere motivati (art. 296 TFUE). Inoltre costituiscono un parametro diretto per sindacare la legittimità degli atti amministrativi. Molti regolamenti vigenti disciplinano materie che fanno parte del diritto amministrativo speciale.

Le direttive emanate dal Consiglio e dalla Commissione hanno per destinatari gli Stati e sono vincolanti “per quanto riguarda il risultato da raggiungere, salva restando la competenza degli organi nazionali in merito alla forma e ai mezzi” (art. 288, terzo comma, del TFUE). Esse dunque non sono, di regola, immediatamente applicabili e, al pari dei regolamenti, devono essere corredate da una motivazione (art. 296 del TFUE). Impongono agli Stati membri soltanto un obbligo di risultato e non incidono sull’autonomia di questi ultimi nella individuazione delle modalità concrete e del tipo di atti che devono essere adottati per raggiungere gli obiettivi. In base ai principi di sussidiarietà e di

8 Il Trattato di Lisbona entrato in vigore a fine 2009 si compone di due testi: il Trattato

sull’Unione europea (TUE) e il Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE). Il primo corrisponde all’incirca al TUE approvato nel 1992 e integrato nel 2004; il secondo corrisponde al precedente Trattato CE, anch’esso integrato nel 2004.

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proporzionalità, le direttive devono essere preferite ai regolamenti e le direttive quadro a quelle dettagliate.

Queste ultime, emanate sempre più di frequente in settori rilevanti per il diritto amministrativo, contengono anche prescrizioni puntuali (autoapplicative). Una volta scaduto il termine di recepimento da parte degli Stati membri, esplicano un’efficacia diretta negli Stati inottemperanti e possono costituire un parametro che condiziona la legittimità degli atti della pubblica amministrazione.

Tra gli atti dell’Unione europea si collocano infine le decisioni che hanno un contenuto puntuale (art. 288, quarto comma, TFUE). Esse applicano a fattispecie concrete norme generali e astratte previste da fonti comunitarie. Sono vincolanti per gli Stati membri, ma non hanno un’efficacia diretta. Possono assumere una duplice forma (art. 34, comma 2, TUE): decisioni-quadro adottate dal Consiglio per promuovere il ravvicinamento delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri (lett. b); decisioni che possono avere qualsiasi scopo coerente con gli obiettivi del Trattato, escluso quello del riavvicinamento delle disposizioni legislative e regolamentari nazionali (lett. c).

Il recepimento delle norme europee (ma anche delle sentenze della Corte di Giustizia, specie di quelle che accertano un’infrazione comunitaria da parte dello Stato italiano) è disciplinato nel nostro ordinamento dalla legge 4 febbraio 2005 n. 11. Lo strumento specifico è costituito dalla legge comunitaria annuale che modifica o abroga le disposizioni statali vigenti contrastanti con il diritto europeo; attribuisce deleghe legislative al Governo o prevede l’emanazione di regolamenti (nel caso di materie non coperte da riserva di legge assoluta); individua i principi fondamentali ai quali le Regioni si devono attenere per dare attuazione alle direttive comunitarie nelle materie attribuite alla loro competenza legislativa concorrente.

4. Fonti normative statali, riserve di legge, principio di legalità.

La Costituzione pone una disciplina completa delle fonti statali di rango primario (e subprimario) e cioè in estrema sintesi: la legge, approvata dalle due Camere e promulgata dal Presidente della Repubblica (artt. 71-74); il decreto legge, che può essere adottato dal Governo in casi straordinari di necessità ed urgenza e che deve essere convertito in legge dalle Camere entro sessanta giorni (art. 77); il decreto legislativo emanato dal Governo sulla base di una legge di delegazione che definisce l’oggetto

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e determina i principi e i criteri direttivi e il limite di tempo entro il quale la delega può essere esercitata (art. 76).

In seguito alle modifiche introdotte dalla legge costituzionale n. 3 del 2001, come si è accennato, la potestà legislativa statale non è più generale, ma può essere esercitata solo nelle materie tassativamente indicate nell’art. 117, commi 2 e 3 (potestà legislativa esclusiva e concorrente).

a) Le riserve di legge.

Meritano un approfondimento perché concorrono a definire i rapporti tra Parlamento e potere esecutivo le cosiddette riserve di legge individuate nella Costituzione e che, come si è accennato nel capitolo precedente, costituiscono uno degli elementi costitutivi dello Stato di diritto.

Numerose disposizioni costituzionali prevedono che determinate materie debbano essere disciplinate con legge (o con atti aventi forza di legge) escludendo o limitando il ricorso a fonti secondarie e in particolare a regolamenti governativi. Viene cioè istituita una riserva di competenza a favore del Parlamento.

Storicamente le riserve di legge sono state previste in funzione di garanzia dei diritti di libertà dei cittadini contro gli abusi del potere esecutivo. Poiché le leggi sono espressione della volontà popolare manifestata in Parlamento dai rappresentanti eletti dei cittadini, i vincoli e le limitazioni ai diritti individuali in esse contenute sono assentiti, in ultima analisi, dagli stessi cittadini e non sono rimessi all’arbitrio degli organi del potere esecutivo. La legge promuove inoltre l’eguaglianza dei cittadini nella titolarità di diritti e doveri attraverso due suoi caratteri tipici: la generalità, cioè la sua riferibilità a classi più o meno ampie di destinatari; l’astrattezza, cioè la suscettibilità ad un’applicazione ripetuta a casi presenti e futuri, anziché una tantum.

Si distinguono usualmente tre tipi di riserve di legge: assolute, rinforzate e relative.

Le riserve di legge assolute, come per esempio quella in materia penale (art. 25, secondo comma), richiedono che la legge ponga una disciplina completa ed esaustiva della materia ed escludono l’intervento di fonti sub legislative. Sono ammessi soltanto i regolamenti di stretta esecuzione, cioè di mero svolgimento di precetti legislativi che già hanno operato tutte

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le scelte di una qualche rilevanza sostanziale.

Le riserve di legge rinforzate aggiungono al carattere dell’assolutezza il fatto che la Costituzione stabilisce direttamente taluni principi materiali o procedurali relativi alla disciplina della materia che costituiscono un vincolo per il legislatore ordinario. Esse sono previste soprattutto in relazione ai diritti di libertà. Per esempio, l’art. 18 in tema di libertà di associazione esclude che possano essere istituiti regimi di autorizzazione amministrativa. L’art. 17 garantisce ai cittadini il diritto di riunirsi pacificamente e senz’armi e prevede che le autorità competenti possano vietare le riunioni in luogo pubblico solo “per comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica”.

Le riserve di legge relative, come per esempio quelle in materia tributaria (art. 23) o di organizzazione dei pubblici uffici (art. 97), prevedono che la legge ponga prescrizioni di principio e consentono l’emanazione di regolamenti di tipo esecutivo contenenti le norme più di dettaglio che completano la disciplina della materia. Non è chiaro peraltro quanto specifici debbano essere i principi posti direttamente dalla legge e, per converso, quanto ampi siano gli spazi che possono essere rimessi alla disciplina regolamentare.

La qualificazione di una riserva di legge come assoluta o relativa dipende nei singoli casi da un’interpretazione letterale e sistematica delle disposizioni costituzionali che la pongono. Per esempio la formula “nei soli casi e modi previsti dalla legge” utilizzata in tema di libertà personale sta a indicare una riserva assoluta; quelle più generiche “in base alla legge” in tema di prestazioni imposte o “secondo disposizioni di legge” in tema di organizzazione degli uffici pubblici connotano invece le riserve relative.

La riserva di legge va distinta, anche se ha in comune la funzione di garanzia dei soggetti privati nei confronti dell’amministrazione, dal principio di legalità.

b) Il principio di legalità.

Il principio di legalità costituisce uno dei principi fondamentali in materia di attività amministrativa. Esso è richiamato dall’art. 1 della l. n. 241/1990 secondo il quale l’attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge. Il principio di legalità si ricava indirettamente da disposizioni costituzionali. In particolare l’art. 113 della Costituzione in

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tema di giustiziabilità degli atti amministrativi presuppone che il giudice trovi nella legge un parametro oggettivo rispetto al quale sindacare gli atti impugnati. Il principio di legalità riceve un riconoscimento implicito anche nei Trattati comunitari (art. 19 del TUE e art. 262 del TFUE). E’ stato affermato dalla giurisprudenza comunitaria come principio, comune a tutti gli Stati membri, inerente al sistema comunitario quale “Comunità di diritto”.

Il principio di legalità assolve a una duplice funzione: di garanzia delle situazioni giuridiche soggettive dei privati che possono essere incise dal potere amministrativo (legalità-garanzia); di ancoraggio dell’azione amministrativa al principio democratico e agli orientamenti che emergono all’interno del circuito politico-rappresentativo, nel senso che la legge, espressione della sovranità popolare, funge da fattore di legittimazione e da guida dell’attività amministrativa (legalità-indirizzo).

Il principio di legalità può essere inteso in due accezioni.

a) In un primo senso, esso coincide con il principio della preferenza della legge: gli atti emanati dalla pubblica amministrazione non possono porsi in contrasto con la legge. La legge costituisce cioè un limite negativo all’attività dei poteri pubblici che, ove travalicato, determina l’illegittimità degli atti emanati.

Il principio della preferenza della legge risale alla prima fase dello Stato di diritto incorporato nelle costituzioni liberali ottocentesche (come lo Statuto albertino). Queste ultime erano improntate ancora ad una concezione dualistica della sovranità, condivisa tra un Parlamento elettivo, legittimato in base al principio democratico, e il Re legittimato in base al principio dinastico. In questo modello il potere del Re, cioè il potere dell’esecutivo (la cosiddetta prerogativa regia) aveva un fondamento proprio, non presupponeva cioè un’attribuzione espressa in una legge, ma non poteva porsi in contrasto con le leggi.

Il principio della preferenza della legge si desume da varie disposizioni vigenti. In particolare, l’art. 4, comma 1, delle disposizioni preliminari al codice civile prevede che “I regolamenti non possono contenere norme contrarie alle disposizioni di legge”. Inoltre, l’art. 5 della l. n. 2248/ 1865 All. E di abolizione del contenzioso amministrativo stabilisce che “le autorità giudiziarie applicheranno gli atti amministrativi e i regolamenti generali e locali in quanto siano conformi alle leggi” e dunque impone al giudice ordinario la loro disapplicazione quando si pongano in contrasto con la legge.

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b) In un secondo senso, quello oggi più rilevante, il principio di legalità richiede che il potere amministrativo trovi un riferimento esplicito in una norma di legge. Quest’ultima costituisce il fondamento esclusivo (o limite positivo) dei poteri dell’amministrazione: essa deve attribuire in modo espresso alla pubblica amministrazione la titolarità del potere, disciplinandone modalità e contenuti.

Questa concezione del principio di legalità emerse man mano che si affermò la concezione monistica della sovranità, fatta propria ora nella Costituzione già all’art. 1, secondo il quale la sovranità appartiene al popolo. La pubblica amministrazione non gode dunque di una legittimazione propria, ma i poteri da essa esercitati devono trovare un ancoraggio nel circuito politico-rappresentativo, cioè nella legge (votata da un Parlamento eletto) che diventa, appunto, il fondamento e la misura del potere.

In assenza di una norma di conferimento del potere, l’amministrazione può far uso soltanto, come si è visto, della propria capacità di diritto privato. Il potere esercitato in assenza di una norma di conferimento rende nullo l’atto emanato (come si vedrà, per difetto assoluto di attribuzione ex art. 21-septies della l. n. 241/1990).

Il principio di legalità inteso nel secondo senso ha a sua volta una duplice dimensione: la legalità formale (estrinseca o in senso debole) e la legalità sostanziale (intrinseca o in senso forte).

Per soddisfare la prima è sufficiente la semplice indicazione nella legge (da parte di una “norma in bianco”) dell’apparato pubblico competente a esercitare un potere normativo secondario o amministrativo che risulta dunque indeterminato nei suoi contenuti. La seconda esige che la legge definisca, sia pur in termini generali, una disciplina materiale del potere amministrativo, definendone i presupposti per l’esercizio, le modalità procedurali e le altre sue caratteristiche essenziali. Il tema dovrà essere ripreso allorché verrà analizzata la struttura delle cosiddette norme d’azione e posta la distinzione tra potere vincolato e potere discrezionale. Per ora basta osservare che il massimo di legalità sostanziale si raggiunge nel caso di poteri integralmente vincolati.

Tra le due concezioni la seconda appare più rispondente alla Costituzione e a una visione più evoluta dello Stato di diritto. Ciò se non altro perché l’effettività della tutela giurisdizionale contro gli atti dell’amministrazione presuppone che il giudice possa disporre di

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parametri legislativi che vadano al di là di una mera attribuzione di un potere che resta indeterminato nei suoi elementi essenziali.

La Corte costituzionale ha fatto leva sul principio di legalità inteso in senso sostanziale (oltre che sul principio della riserva di legge relativa) per dichiarare illegittima una disposizione contenuta nel Testo unico degli enti locali che attribuiva al sindaco un potere assai ampio di emanare ordinanze per prevenire ed eliminare gravi pericoli per l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana (art. 54, come sostituito dall’art. 6 del d.l. 23 maggio 2008, n. 92 convertito in legge dall’art. 1, comma 1, della legge 24 luglio 2008, n. 125) senza predeterminare i parametri di esercizio del potere (sentenza n. 115 del 2011). Secondo la Corte, infatti, “non è sufficiente che il potere sia finalizzato dalla legge alla tutela di un bene o di un valore, ma è indispensabile che il suo esercizio sia determinato nel contenuto e nelle modalità, in modo da mantenere costantemente una, pur elastica, copertura legislativa dell’azione amministrativa”.

Il principio di legalità richiede un’ultima precisazione. I parametri che lo integrano sono costituiti non soltanto dalle disposizioni di legge, ma anche dai principi generali del diritto amministrativo elaborati via via dalla giurisprudenza amministrativa e ora richiamati, come si vedrà, dall’art. 1 della l.n. 241/1990. Tali principi hanno una valenza prescrittiva e una rilevanza in sede di controllo giurisdizionale sull’attività amministrativa analoga a quella dei precetti contenute nelle fonti legislative.

Come anticipato, la riserva di legge relativa e il principio di legalità inteso in senso sostanziale hanno alcuni elementi in comune poiché assolvono all’analoga funzione garantistica di delimitare il potere esecutivo.

La riserva di legge relativa delimita il potere regolamentare del Governo ed esige che la legge disciplini almeno in parte la materia e che i regolamenti siano emanati nel rispetto della disciplina posta dalla legge. Essa concorre dunque a definire i rapporti per così dire interni al sistema delle fonti normative.

Il principio di legalità prescrive che il potere dell’amministrazione, anche allorché si esplichi nell’emanazione di norme secondarie, trovi un fondamento nella legge e qui emerge una qualche sovrapposizione con il principio della riserva di legge relativa. Il fondamento legislativo generale dei regolamenti governativi, come si vedrà, è costituito dall’art. 17 della

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legge 23 agosto 1988, n. 400 sulla “Disciplina dell’attività di Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri”, che ne individua le principali tipologie.

Tuttavia il principio di legalità si riferisce soprattutto ai provvedimenti amministrativi. Esso postula che il fondamento (e il parametro della legittimità) dei provvedimenti amministrativi sia costituito anzitutto da norme di rango primario. Ma, secondo la giurisprudenza amministrativa, le esigenze sottostanti al principio di legalità possono essere soddisfatte anche da norme di rango secondario (regolamenti). Ciò vale per esempio anche nel caso delle sanzioni amministrative, assimilabili per certi aspetti alle sanzioni penali assoggettate al principio del nullum crimen sine lege e alla garanzia della riserva di legge assoluta. Il carattere di generalità e astrattezza delle norme regolamentari garantisce comunque l’eguale trattamento dei destinatari dell’azione amministrativa. Per essere legittimo l’atto amministrativo deve essere conforme anche alle norme secondarie.

Le riserve di legge relative, come si è già accennato, pongono il problema di quanta parte della disciplina di una determinata materia debba essere contenuta direttamente nella fonte primaria e quanto spazio di intervento possa essere rimesso alla fonte regolamentare, cioè al potere esecutivo. Anche per il principio di legalità in senso sostanziale si pone la questione analoga di quanto il contenuto del potere debba essere predeterminato dalla legge (o anche, come si è detto, da una fonte regolamentare).

5. Le leggi provvedimento e la riserva di amministrazione.

In tema di rapporti tra Parlamento e potere esecutivo va esaminato ancora il fenomeno delle leggi-provvedimento. Si tratta di leggi (statali, ma anche regionali) prive dei caratteri della generalità e astrattezza, che intervengono cioè a porre la disciplina di situazioni concrete riferite talora a un’unica fattispecie. Come esempi possono essere menzionate le leggi che rilasciano, prorogano o revocano concessioni amministrative, costituiscono singole società per azioni di interesse nazionale introducendo deroghe al diritto comune (per esempio, la RAI), erogano finanziamenti a una o più imprese, approvano un atto di pianificazione, assoggettano a vincoli beni determinati, sdemanializzano porzioni di territorio.

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La Costituzione non contiene un principio di riserva d’amministrazione (o di funzione amministrativa) che metta al riparo il potere esecutivo per così dire da invasioni di campo ad opera del legislatore. Rientra dunque nella discrezionalità del Parlamento la scelta se utilizzare lo strumento della legge in luogo del provvedimento amministrativo, oppure se attribuire all’amministrazione, in termini più astratti, il potere corrispondente.

La prassi dell’amministrare per legge, alla quale il Parlamento indulge di frequente, è stata stigmatizzata come una sorta di “ legalità usurpata” (F. MERUSI) perché il Parlamento invade spazi che in base al principio della separazione dei poteri dovrebbero essere riservati al potere esecutivo. Infatti secondo il modello teorico che risale alle Costituzioni liberali la fase della posizione delle norme che definiscono in astratto i poteri attribuiti all’amministrazione (il cosiddetto “previo disporre” ) va tenuta distinta da quella dell’esercizio concreto del potere in applicazione delle norme (il “concreto provvedere”): la prima involge valutazioni di tipo politico in ordine alla necessità di dotare l’amministrazione degli strumenti necessari per il perseguimento dei fini pubblici; la seconda richiede l’accertamento della situazione di fatto e, se il potere è discrezionale, la valutazione degli interessi in gioco allo scopo di individuare la soluzione più confacente.

Oltre che incoerente con il principio della separazione dei poteri, il ricorso alla legge-provvedimento scardina le garanzie offerte al privato dal regime dell’atto amministrativo come in particolare il diritto di partecipare al procedimento, l’obbligo di motivazione e il diritto di proporre ricorso giurisdizionale innanzi al giudice amministrativo per ottenere l’annullamento dell’atto illegittimo. La legge-provvedimento infatti può essere censurata soltanto sotto il profilo della costituzionalità con le forme, i limiti e i tempi propri di questo tipo di giudizio innanzi alla Corte Costituzionale. Quest’ultima può dichiarare incostituzionali le leggi-provvedimento solo nei casi di arbitrarietà e manifesta irragionevolezza.

6. I regolamenti governativi.

La legge costituzionale n. 3 del 2001 ha introdotto il principio del parallelismo tra competenza legislativa e competenza regolamentare dello Stato. Lo Stato è cioè titolare di un potere regolamentare esclusivamente nelle materie che l’art. 117 della Costituzione attribuisce alla sua

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competenza legislativa esclusiva (art. 117, comma 6). Esso può essere delegato alle Regioni. Nelle altre materie la potestà regolamentare spetta alle Regioni. Lo Stato può anche emanare regolamenti nelle materie devolute alla potestà legislativa regionale concorrente o residuale nelle more dell’approvazione da parte delle Regioni delle norme di loro competenza e in caso di inerzia di quest’ultime. I regolamenti in questione hanno carattere cedevole, nel senso che perdono efficacia all’entrata in vigore della normativa da parte di ciascuna Regione (art. 11, comma 7, della legge n. 11/2005).

Il potere regolamentare del Governo è richiamato anche nell’art. 87 della Costituzione che, in materia di fonti, attribuisce al Presidente della Repubblica il potere di promulgare le leggi e gli atti aventi forza di legge e, appunto, di emanare i regolamenti.

A livello di fonti primarie, una disciplina generale è contenuta nell’art. 17 della l. n. 400/1988 che individua cinque tipi di regolamenti governativi: esecutivi, attuativi-integrativi, indipendenti, di organizzazione, delegati o autorizzati.

a) I regolamenti esecutivi pongono norme di dettaglio necessarie per l’applicazione concreta di una legge (ulteriore specificazione delle fattispecie disciplinate, modalità procedurali, termini, adempimenti, ecc.). Non è necessario che la legge attribuisca di volta in volta al Governo il potere di approvarli, poiché la l. n. 400/1988 costituisce un fondamento legislativo generale sufficiente a soddisfare il principio di legalità. Nelle materie coperte da riserva di legge assoluta, come si è già osservato, sono ammessi soltanto regolamenti di stretta esecuzione, che non operino alcuna integrazione o specificazione delle norme materiali poste a livello di fonte primaria.

I regolamenti di questo tipo possono essere emanati per dare esecuzione a regolamenti europei e, nei casi in cui la legge comunitaria lo autorizzi, anche a direttive.

b) I regolamenti per l’attuazione e l’integrazione possono essere emanati nelle materie non coperte da riserva di legge assoluta nei casi in cui la legge si limiti a individuare i principi generali della materia e autorizzi espressamente il Governo a porre la disciplina di dettaglio.

c) I regolamenti cosiddetti indipendenti possono essere emanati nelle materie non soggette a riserva di legge là dove manchi una disciplina di rango primario. Si è dubitato della compatibilità con la Costituzione di un potere normativo così ampio e indeterminato, anche se in pratica sono

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poche e marginali le materie nelle quali è assente una qualsivoglia disciplina legislativa.

d) I regolamenti di organizzazione costituiscono in realtà una sottospecie di regolamenti esecutivi e di attuazione poiché disciplinano l’organizzazione e il funzionamento delle pubbliche amministrazioni “secondo le disposizioni dettate dalla legge”. L’art. 97 della Costituzione pone una riserva di legge relativa in materia di organizzazione degli uffici e dunque una disciplina di fonte primaria che ne delinei in termini generali l’assetto è sempre necessaria.

Per l’organizzazione e la disciplina degli uffici dei Ministeri, in particolare, l’art. 17 della l. n. 400/1988 opera una distinzione: gli uffici di stretta collaborazione con i ministri e quelli di livello dirigenziale generale sono disciplinati con regolamenti di delegificazione (di cui appresso) nel rispetto dei principi posti dalla disciplina legislativa in materia di rapporto di lavoro con le pubbliche amministrazioni; le unità dirigenziali di livello inferiore agli uffici dirigenziali generali sono invece disciplinati con decreti ministeriali aventi natura non regolamentare (comma 4-bis).

e) I regolamenti delegati o autorizzati intervengono nelle materie non coperte da riserva assoluta di legge e attuano la cosiddetta delegificazione. Sostituiscono cioè la disciplina posta da una fonte primaria con una disciplina posta da una fonte secondaria. La loro entrata in vigore determina infatti l’abrogazione delle norme vigenti contenute in fonti anche di rango primario.

L’art. 17, comma 2, della l. n. 400/1988 pone alcune condizioni: occorre una legge che autorizzi il Governo ad emanarli; la stessa legge deve contenere le norme generali regolatrici della materia (la delegificazione della materia non è dunque totale); essa deve altresì disporre l’abrogazione delle norme vigenti rinviando il prodursi dell’effetto abrogativo al momento all’entrata in vigore del regolamento.

La delegificazione, alla quale si è fatto ricorso di frequente in anni recenti, tende a contrastare la tendenza del Parlamento a disciplinare con legge molte materie, ponendo anche regole di dettaglio che finiscono per irrigidire (“ossificare”) la disciplina, visto che possono essere modificate soltanto da una fonte primaria. Peraltro, la delegificazione non esclude che leggi successive possano rilegificare in tutto o in parte la materia. Il nostro sistema delle fonti non conosce la cosiddetta riserva di regolamento.

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I regolamenti sin qui menzionati sono attribuiti alla competenza del Consiglio dei ministri.

f) I regolamenti ministeriali e interministeriali sono previsti dall’art. 17, comma 3, nelle materie attribuite alla competenza di uno o più ministri. Questi regolamenti, possono essere emanati solo nei casi espressamente previsti dalla legge e sono gerarchicamente sottordinati ai regolamenti governativi. Essi devono essere comunicati prima della loro emanazione al Presidente del Consiglio dei ministri ai fini del coordinamento.

Sotto il profilo formale e procedurale i regolamenti recano la denominazione “regolamento” e sono adottati previo il parere del Consiglio di Stato (sezione consultiva per gli atti normativi), sono sottoposti al controllo preventivo di legittimità e alla registrazione della Corte dei conti e vengono pubblicati nella Gazzetta Ufficiale. Il procedimento per la loro adozione non prevede la partecipazione dei privati che anzi è espressamente esclusa dalla legge sul procedimento amministrativo (art. 13, ultimo comma, della l. n. 241/1990). Non è richiesta la motivazione (art. 3 della l. n. 241/1990).

L’art. 17 della l. n. 400/1988 non esaurisce la tipologia dei regolamenti governativi in quanto numerose leggi speciali prevedono fattispecie particolari che derogano alla disciplina generale. Una specie particolare di fonti secondarie emersa nella prassi legislativa consiste nei regolamenti emanati con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri. I decreti in questione sono assunti talora previa delibera del Consiglio dei ministri e senza seguire l’iter procedurale previsto per gli altri tipi di regolamenti.

Inoltre, in seguito alla legge costituzionale n. 3 del 2001 che, come si è accennato, ha limitato l’ambito dei regolamenti governativi e ministeriali alle materie che rientrano nella competenza legislativa esclusiva dello Stato, molte leggi recenti tendono ad aggirare il divieto autorizzando l’emanazione di non meglio precisati decreti ministeriali “non aventi valore regolamentare”, che però contengono prescrizioni generali analoghe a quelle proprie dei regolamenti. Questa tendenza contribuisce a rendere ancor più incerta la distinzione tra atti di regolazione normativi e non normativi alla quale si accennerà in seguito.

Il regime giuridico dei regolamenti, che sono atti formalmente amministrativi anche se sostanzialmente normativi, è in parte quello proprio dei provvedimenti amministrativi (sia pur con le deroghe prima richiamate in tema di partecipazione dei privati e di obbligo di

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motivazione), in parte quello proprio delle fonti del diritto.

Dal primo punto di vista, ove risultino viziati perché contengono disposizioni contrarie alla legge possono essere impugnati innanzi al giudice amministrativo e conseguentemente annullati. Di regola, proprio perché i regolamenti contengono norme generali e astratte, sotto il profilo processuale, l’interesse all’impugnazione sorge solo allorché l’amministrazione emana un provvedimento applicativo idoneo a incidere nella sfera giuridica di un destinatario individualizzato.

Inoltre, in base al principio della preferenza della legge, come si è accennato, i regolamenti sono suscettibili di disapplicazione da parte del giudice ordinario (art. 5 della l. n. 2248/1865, All. E). Secondo un indirizzo giurisprudenziale recente, anche il giudice amministrativo può disapplicare una norma regolamentare in almeno due ipotesi: quando il provvedimento impugnato viola un regolamento a sua volta difforme dalla legge, oppure quando il provvedimento impugnato è conforme a un regolamento che però contrasta con una legge. In entrambi i casi il giudice esercita il proprio sindacato valutando la legittimità del provvedimento direttamente rispetto alla norma primaria: nella prima ipotesi esso risulta legittimo (disapplicazione in malam partem in quanto conduce al rigetto del ricorso), nella seconda ipotesi illegittimo (disapplicazione in bonam partem in quanto conduce all’accoglimento del ricorso). In definitiva il giudice può disapplicare il regolamento e ciò anche quando quest’ultimo non sia stato espressamente impugnato (cosiddetta disapplicazione normativa).

Dal secondo punto di vista, e cioè in quanto fonti del diritto, ai regolamenti si applicano le norme generali sull’interpretazione contenute nell’art. 12 delle disposizioni preliminari al codice civile (interpretazione letterale e logica; possibilità di ricorrere all’analogia legis e all’analogia juris). Inoltre, vale per essi il principio jura novit curia, la loro violazione può costituire motivo di ricorso per cassazione (art. 360 cod. proc. civ.). A differenza delle fonti primarie, non possono essere oggetto di sindacato di costituzionalità innanzi alla Corte Costituzionale.

7. Cenni alle fonti normative regionali, degli enti locali e di altri enti pubblici.

La Costituzione indica tre fonti normative regionali: gli statuti, le leggi e i regolamenti. Modifiche rilevanti rispetto alle previsioni originarie del 1948 sono intervenute in seguito alle leggi costituzionali 22 novembre

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1999, n. 1 e 18 ottobre 2001, n. 3, già citata.

Lo statuto delle Regioni ordinarie determina la forma di governo e i principi fondamentali di organizzazione e funzionamento (art. 123). La sua approvazione avviene attraverso un procedimento aggravato che prevede una duplice approvazione a maggioranza assoluta da parte del Consiglio regionale e può essere assoggettato a referendum popolare. Lo statuto delle Regioni speciali è approvato con legge costituzionale (art. 116).

Le leggi regionali sono approvate dal Consiglio regionale e promulgate dalla Giunta (art. 121) nelle materie attribuite dall’art. 117 della Costituzione alla competenza concorrente (terzo comma) e residuale (quarto comma, che fa riferimento a “ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato”) delle Regioni.

La giurisprudenza costituzionale ha peraltro ritenuto che anche nelle materie di competenza regionale lo Stato possa, entro certi limiti, intervenire. Da un lato, infatti, alcune materie attribuite alla competenza legislativa esclusiva statale (in particolare la tutela della concorrenza) hanno natura trasversale, e consentono dunque alle leggi statali di introdurre disposizioni che non possono essere derogate dalle Regioni. Dall’altro lato, in base al principio di sussidiarietà (art. 118), che presiede all’allocazione delle funzioni amministrative dal basso verso l’alto tra i vari livelli di governo (Comuni, Province, Regioni e Stato), ove una funzione richieda di essere esercitata in modo unitario a livello statale, anche la funzione legislativa viene per così dire attratta nell’ambito della competenza statale (Corte Costituzionale, sentenza n. 303 del 2003).

I regolamenti regionali sono adottati dalla Giunta regionale (art. 121) e possono essere emanati, secondo il principio del parallelismo tra funzioni legislative e funzioni regolamentari, nelle materie attribuite alla competenza legislativa concorrente e residuale delle Regioni. Prima della legge costituzionale n. 3 del 2001 la potestà regolamentare era attribuita allo stesso Consiglio regionale competente a emanare le leggi e dunque essa si sovrapponeva allo strumento legislativo di fatto utilizzato con maggior frequenza. Per superare questo tipo di rigidità, era emersa la prassi di attribuire alla Giunta il potere di emanare atti aventi natura atipica, come linee guida, programmi, atti di indirizzo, ecc.

Una disciplina più puntuale dei rapporti tra leggi regionali e regolamenti è rimessa agli statuti.

Le fonti normative di Comuni, Province e Città metropolitane sono

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essenzialmente gli statuti e i regolamenti.

I primi sono menzionanti nell’art. 114, comma 2, della Costituzione che qualifica gli Enti locali (insieme alle Regioni) come “enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione” valorizzando così il principio autonomistico già enunciato nell’art. 5 della Costituzione secondo il quale la Repubblica riconosce e promuove le autonomie locali.

L’art. 6 del Testo Unico delle leggi sull’ordinamento egli enti locali, approvato con decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, prevede che lo statuto sia approvato dal consiglio dell’ente locale a maggioranza di due terzi, oppure, se una siffatta maggioranza non viene ottenuta, con delibera approvata due volte dalla maggioranza assoluta dei consiglieri. Esso deve contenere le norme fondamentali sull’organizzazione dell’ente (attribuzioni degli organi, rappresentanza legale, ecc.), le forme di garanzia e di partecipazione delle minoranze, le forme di partecipazione popolare, il decentramento, l’accesso dei cittadini alle informazioni e ai procedimenti amministrativi.

Sotto il profilo della gerarchia delle fonti, lo statuto ha un rango subprimario, è posto al di sotto delle leggi statali di principio. L’art. 117, comma 2, lett. p) prevede infatti una competenza legislativa esclusiva dello Stato limitata agli “organi di governo e funzioni fondamentali” degli enti locali e sembra dunque precludere l’emanazione di una normativa legislativa di dettaglio non derogabile dagli statuti.

I regolamenti degli enti locali sono menzionati dall’art. 117, comma 6, della Costituzione e disciplinati dall’art. 7 del Testo Unico degli enti locali sopra richiamato. Sono emanati nelle materie di competenza degli enti locali nel rispetto dei principi fissati dalla legge e dallo statuto. Disciplinano l’organizzazione e il funzionamento degli organi e degli uffici e l’esercizio delle funzioni.

I regolamenti comunali, approvati di regola dai consigli comunali, costituiscono una fonte di utilizzo assai frequente perché, in base alle leggi vigenti, intervengono in materie importanti come l’urbanistica, l’edilizia, il traffico, il commercio, le pubbliche affissioni, rifiuti urbani, ecc..

A partire dagli anni Novanta del secolo scorso, molti altri enti pubblici hanno acquisito una maggior autonomia organizzativa e funzionale (università, camere di commercio, ecc.) che include, di regola, anche la potestà di dotarsi di un proprio statuto, nell’ambito dei principi stabiliti

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dalla legge, e di regolamenti di organizzazione e di disciplina delle funzioni. Anche le cosiddette autorità amministrative indipendenti, istituite, come si vedrà, per la vigilanza e regolazione di settori economici particolari, in base alle leggi istitutive, sono titolari di poteri di autorganizzazione e normativi assai estesi.

8. Gli atti di regolazione aventi natura non normativa.

Si è già osservato come la funzione di regolazione delle pubbliche amministrazioni si esplichi anche attraverso atti aventi natura non normativa.

A livello di teoria generale, la distinzione tra atti normativi e atti non normativi è fondata su criteri formali (per esempio, la denominazione di “regolamento” prescritta dall’art. 17 della l. n. 400/1988 già citata) e sostanziali che in realtà non sono univoci e che rischiano di essere tautologici.

Propri degli atti normativi sarebbero i caratteri della generalità, dell’astrattezza e della novità, intesa quest’ultima come attitudine della norma a sostituire, modificare o integrare norme preesistenti. Secondo altre impostazioni sarebbero essenziali la connotazione eminentemente politica dell’atto normativo (criterio dello “spessore politico”), anziché il carattere meramente esecutivo e specificativo di scelte effettuate da altri atti normativi, oppure la finalizzazione a regolare in astratto rapporti giuridici più che a far fronte a bisogni pubblici concreti (criterio teleologico). Questi e altri criteri non appaiono risolutivi nei casi concreti. La giurisprudenza appare spesso oscillante e comunque tende a qualificare come atti normativi atipici (o extra ordinem), in base a criteri sostanzialistici, molti atti che dettano regole di comportamento a soggetti esterni all’amministrazione.

Peraltro, nell’ambito del diritto amministrativo, la distinzione tra atti normativi e non normativi, riferita soprattutto ai cosiddetti atti amministrativi generali di cui si dirà in seguito, ha scarsa rilevanza pratica poiché il loro regime giuridico è in massima parte coincidente.

In sede di teoria generale si ritiene infatti che dalla qualificazione di un atto come normativo derivino, come si è accennato, le seguenti conseguenze principali: si applica il principio del jura novit curia, e pertanto sotto il profilo probatorio la parte privata è sottratta all’onere di allegazione e di prova delle norme applicabili al caso concreto, onere che

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vale soltanto per i fatti; è consentito il ricorso per Cassazione per “violazione o falsa applicazione di norme di diritto” ai sensi dell’art. 360 n. 3 del cod. proc. civ.; valgono i criteri interpretativi posti dall’art. 12 delle preleggi.

Ebbene queste particolarità sfumano in gran parte se si considera il regime sostanziale e processuale degli atti amministrativi, specie di quelli a contenuto generale.

Infatti, quanto al principio jura novit curia, nel processo amministrativo il ricorrente deve specificare nell’atto introduttivo del giudizio i motivi di ricorso (art. 40, comma 1, lett. c) del Codice del processo amministrativo), cioè i profili specifici di vizio sottoposti all’esame del giudice, e deve dunque indicare anche “gli articoli di legge o di regolamento che si ritengono violati” (così prevedeva l’art. 6, comma 1, del regolamento di procedura approvato con r.d. 17 agosto 1907, n. 642, abrogato dal Codice). Il giudice non può dunque individuare d’ufficio il parametro normativo in base al quale operare il proprio sindacato.

Quanto alla ricorribilità in Cassazione per violazione o falsa applicazione di norme di diritto, l’art. 111, ultimo comma, della Costituzione consente il ricorso per cassazione avverso le sentenze del giudice amministrativo “per i soli motivi inerenti alla giurisdizione”. Pertanto non rileva a questi fini se il provvedimento amministrativo impugnato sia illegittimo per violazione di una norma giuridica in senso proprio o per violazione di una prescrizione contenuta in un atto amministrativo generale o in una circolare. La tutela offerta è infatti identica in entrambi i casi poiché è comunque esclusa la ricorribilità in cassazione avverso la sentenza del giudice amministrativo che offra un’interpretazione ritenuta errata della norma giuridica invocata come parametro di legittimità del provvedimento impugnato.

La “violazione di legge” è invece elencata, insieme all’eccesso di potere e all’incompetenza, tra i vizi del provvedimento amministrativo indicati dall’art. 21-octies della l. n. 241/1990. Tuttavia ciascuno dei tre vizi assume una identica rilevanza ai fini dell’annullabilità del provvedimento. Così, un provvedimento amministrativo potrà essere annullato in presenza sia di una violazione di legge (per esempio il contrasto con un regolamento o altro atto normativo), sia di una figura sintomatica dell’eccesso di potere (per esempio a causa del contrasto con una circolare o con altra norma interna).

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Quanto infine alle regole sull’interpretazione, gli atti amministrativi sono assoggettati alla disciplina prevista dal codice civile per i contratti (art. 1362 e seg.), ma non tutte le disposizioni codicistiche sono ritenute compatibili con il carattere unilaterale e autoritativo dei provvedimenti. Per esempio, non si ritengono applicabili i principi dell’interpretazione delle clausole contro il loro autore (art. 1370), dell’interpretazione del contratto in modo meno gravoso per l’obbligato (art. 1371). Il regime dell’interpretazione degli atti amministrativi finisce così per coincidere in gran parte con quello delle fonti normative di cui alle preleggi.

9. Gli atti amministrativi generali.

Di regola i provvedimenti amministrativi hanno un contenuto concreto e si rivolgono a uno o più destinatari determinati. Fissano cioè autoritativamente il modo di essere di un rapporto giuridico tra pubblica amministrazione e privato in relazione alla specifica situazione di fatto e, nel caso in cui si tratti di un potere discrezionale, all’atteggiarsi degli interessi pubblici e privati in gioco.

Tuttavia di frequente la pubblica amministrazione ha il potere di emanare atti amministrativi aventi contenuto generale che sono propedeutici a provvedimenti puntuali o che trovano svolgimento in un’attività organizzativa degli uffici pubblici. Essi si rivolgono in modo indifferenziato a categorie più o meno ampie di destinatari e talora sono suscettibili di essere applicati a una ripetuta serie di casi e dunque hanno anche il carattere della astrattezza.

La tipologia degli atti amministrativi generali è variegata e le classificazioni proposte in dottrina hanno per lo più una valenza descrittiva. Tra gli atti generali vengono fatti rientrare usualmente i piani, i programmi, le direttive, gli atti di indirizzo, le linee guida, le autorizzazioni generali, i bandi militari, i provvedimenti che fissano in modo autoritativo i prezzi e le tariffe, ecc. In alcuni casi è controverso se essi abbiano natura soltanto amministrativa o se abbiano un’efficacia propriamente normativa, ma comunque la loro portata regolatoria è indiscussa.

Alcuni di questi atti esprimono le scelte fondamentali di attuazione dell’indirizzo politico-amministrativo e per questo motivo sono emanati dagli organi amministrativi correlati in modo più diretto al circuito rappresentativo. A livello statale la competenza è attribuita al Governo al quale spetta il compito di mantenere l’unità dell’indirizzo politico ed

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amministrativo e di coordinare l’attività dei ministri (art. 95 della Costituzione) o ai ministri ai quali spetta definire i piani, i programmi e le direttive generali che trovano poi svolgimento nell’attività dei dirigenti generali (artt. 3, 14 e 16 del d.lgs. n. 165/2001). A livello locale, i consigli comunali e provinciali approvano, tra gli altri, i programmi (per esempio quello relativo ai lavori pubblici), i piani territoriali ed urbanistici, gli indirizzi alle aziende pubbliche e agli enti dipendenti, ecc. (art. 42 del d.lgs. n. 267/2000).

Gli atti amministrativi generali sono soggetti a un regime giuridico che deroga in parte a quello proprio dei provvedimenti amministrativi contenuto nella l. n. 241/1990 e che ricalca quello degli atti normativi. In particolare, non richiedono una motivazione (art. 3, comma 2, della l. n. 241); il procedimento per la loro adozione non prevede la partecipazione dei soggetti privati (art. 13 della l. n. 241/1990); l’attività dell’amministrazione diretta alla loro emanazione è esclusa dal diritto di accesso (art. 24, comma 1, lett. c) della l. n. 241/1990). Per molti atti amministrativi generali sono previsti obblighi di pubblicazione (per esempio, gli atti elencati nell’art. 26 della l. n. 241/1990) e ciò accentua la loro valenza regolatoria.

Di seguito verranno analizzate, in via esemplificativa, alcune tra le specie più note di atti amministrativi generali.

a) I bandi di concorso e gli avvisi di gara.

Tra gli atti amministrativi generali, privi del carattere di astrattezza e dei quali è dunque certa la natura non normativa, rientrano i bandi di concorso per l’assunzione di dipendenti nelle pubbliche amministrazioni oppure i bandi o avvisi di gara per la selezione del contraente privato nei contratti di fornitura, di lavori e di servizi stipulati dalle pubbliche amministrazioni.

I bandi di concorso costituiscono l’atto di avvio del procedimento per la selezione (assunzione o promozione) di personale delle pubbliche amministrazioni. Essi specificano, in applicazione delle leggi, i requisiti di partecipazione, le modalità e i termini per la presentazione delle domande di partecipazione, lo svolgimento delle prove scritte e orali, i criteri per l’attribuzione dei punteggi. Hanno contenuto concreto poiché esauriscono i loro effetti al completamento della procedura, che avviene con l’approvazione della graduatoria finale.

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Analogamente, i bandi o avvisi di gara disciplinati dal Codice dei contratti pubblici individuano l’oggetto del contratto, il tipo di procedura per la scelta del contraente privato, i criteri per l’ammissione e per la valutazione delle offerte, le modalità e i tempi per la presentazione delle offerte, ecc. Il bando (insieme agli altri documenti di gara, come in particolare la lettera d’invito, i capitolati tecnici, ecc.) costituisce la lex specialis della singola procedura di gara e vincola pertanto la stazione appaltante (che non può disapplicarlo) e condiziona la legittimità degli atti adottati.

10. Segue: b) Gli atti di pianificazione e di programmazione.

Una delle esigenze che presiedono all’esercizio dei poteri amministrativi è che esso avvenga in modo ordinato e coerente con una strategia complessiva. Pertanto in molte materie, a monte dell’attività di emanazione di provvedimenti puntuali o dell’attività di erogazione di servizi, la legge prevede un’attività di pianificazione o programmazione con la quale, in termini generali, si prefigurino obiettivi, limiti, contingenti, priorità e altri criteri che presiedono all’esercizio dei poteri amministrativi e all’attività degli uffici pubblici.

Così, per esemplificare, il rilascio dei permessi di costruzione avviene nel rispetto dei piani regolatori comunali; le autorizzazioni per l’apertura di esercizi commerciali sono rilasciate nel rispetto degli indirizzi regionali per l’insediamento delle attività commerciali e dei criteri di programmazione urbanistica riferiti al settore commerciale; l’allocazione delle frequenze radio-televisive avviene sulla base del piano nazionale delle frequenze; i permessi per l’accesso al centro storico sono rilasciati in base al piano urbano del traffico.

L’attività di pianificazione e di programmazione serve anche a creare i raccordi tra i diversi livelli di governo (Stato, Regioni, Comuni) secondo il metodo della cosiddetta pianificazione a cascata. Così, per esempio, in materia sanitaria, l’attività di programmazione si articola nel piano sanitario nazionale e, a livello regionale, nei piani sanitari regionali. In materia di trasporti pubblici locali lo Stato predispone il piano generale dei trasporti, mentre le Regioni emanano i piani regionali di trasporto ed emanano gli indirizzi per i piani di bacino provinciali, definendo in particolare il livello dei servizi minimi essenziali e le modalità per la determinazione delle tariffe.

Anche in materia ambientale numerosi sono gli atti di pianificazione e

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programmazione settoriale statale (piano generale di difesa del mare e della costa marina dall’inquinamento, piani di bacino idrografico nazionale, ecc.) e soprattutto regionale (piani di tutela delle acque, di gestione dei rifiuti, di bonifica di aree contaminate, di prevenzione e risanamento dell’aria, ecc.).

Molti atti di pianificazione e di programmazione pongono il problema se essi rilevino essenzialmente all’interno dei rapporti organizzatori tra i diversi livelli di governo (Stato, Regioni, enti locali), oppure se, ed eventualmente entro quali limiti, contengano prescrizioni direttamente vincolanti i soggetti privati. Da qui una ambiguità in qualche modo intrinseca al modello.

Inoltre, come si è già accennato, dal punto di vista della teoria della regolazione amministrativa, gli atti di pianificazione, introdotti molto frequentemente nella legislazione nella seconda metà del secolo scorso (secondo il modello dello Stato interventista programmatore), sono annoverati tra gli strumenti di intervento pubblico più intrusivi della libertà di iniziativa privata, tali da determinare, in molti casi, effetti distorsivi della concorrenza. Proprio per questo, in epoca recente, con l’affermarsi del modello dello Stato regolatore e in seguito alle politiche di liberalizzazione di attività economiche, molti atti di pianificazione sono stati soppressi (per esempio, i piani commerciali comunali che contingentavano il rilascio delle autorizzazioni per l’apertura di nuovi esercizi e costituivano così “barriere artificiali” all’accesso al mercato).

Ancora, il modello della pianificazione “a cascata” che coinvolge i diversi livelli di governo e delle pianificazioni settoriali si è rivelato nei fatti oneroso in termini di adempimenti e di difficile attuazione data anche la difficoltà operativa di raccogliere e razionalizzare tutte le informazioni rilevanti necessarie per la formulazione dei contenuti del piano. E’ accaduto così che molti atti di pianificazione e programmazione previsti per legge non siano poi stati mai emanati oppure si siano limitati a introdurre prescrizioni generiche. Pertanto, in occasione del trasferimento di numerose funzioni dallo Stato alle Regioni in attuazione del modello del cosiddetto “federalismo amministrativo” (d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112), molti strumenti di pianificazione previsti da leggi rimaste inattuate sono stati soppressi (per esempio, in materia ambientale, il programma triennale per la tutela dell’ambiente, il programma triennale per le aree naturali protette, il piano generale di risanamento delle acque, ecc.).

In ragione della sua rilevanza, merita qualche considerazione più specifica il piano regolatore generale, previsto in origine dalla legge

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urbanistica del 1942, che costituisce lo strumento principale di governo del territorio da parte dei comuni.

Il piano regolatore suddivide anzitutto il territorio comunale in zone omogenee (cosiddetta zonizzazione) con l’indicazione per ciascuna di esse delle attività insediabili, in base a criteri e parametri definiti in modo uniforme a livello nazionale (d.m. 2 aprile 1968, n. 1444): attività edificatoria a fini abitativi, industriale, agricola, ecc.

Il piano individua poi le aree destinate a edifici e a infrastrutture pubbliche o a uso pubblico (cosiddetta localizzazione). Se la localizzazione riguarda terreni di proprietà privata, essa determina un vincolo di inedificabilità di durata quinquennale (cosiddetta salvaguardia) che decade se nel frattempo non interviene l’espropriazione. Il piano regolatore è corredato dalle cosiddette norme tecniche di attuazione che specificano, in particolare, le distanze, le altezze e le destinazioni d’uso degli edifici.

Il piano regolatore generale si inserisce in un sistema articolato di strumenti di pianificazione. E’ condizionato a monte dal piano territoriale di coordinamento provinciale, dai piani paesistici e dai piani urbanistico-territoriali previsti dalla normativa in materia di valori paesistici e ambientali (bellezze naturali).

Costituiscono invece strumenti attuativi del piano regolatore: il piano particolareggiato (di iniziativa pubblica per la realizzazione di interventi di riqualificazione territoriale), i piani di zona per l’edilizia residenziale pubblica, i piani per gli insediamenti produttivi e i piani di lottizzazione (di iniziativa privata e disciplinati da una convenzione con il Comune).

Il piano regolatore generale è approvato all’esito di un procedimento aperto alla partecipazione dei privati. Infatti, il piano viene adottato dal Comune (con delibera del consiglio comunale) e pubblicato per trenta giorni al fine di consentire agli interessati di prenderne visione e di presentare osservazioni. Viene poi sottoposto a una nuova delibera del consiglio comunale che deve pronunciarsi sulle osservazioni presentate.

Il piano adottato è sottoposto all’approvazione della Regione. Questa esercita un controllo che non è limitato alla mera legittimità, poiché può proporre modifiche al fine di una miglior tutela degli interessi ambientali e paesaggistici e di garantire la conformità al piano territoriale di coordinamento provinciale. Le proposte di modifica sono comunicate al Comune il quale con delibera del consiglio comunale può approvare controdeduzioni delle quali la Regione tiene conto in sede di

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approvazione definitiva. La notizia dell’approvazione del piano regolatore viene data nel Bollettino ufficiale della Regione. Il piano regolatore si qualifica, in definitiva, come atto complesso che prevede il coinvolgimento del Comune e della Regione con poteri propri.

Data la peculiarità della procedura di approvazione che richiede usualmente tempi non brevi, il piano regolatore, fin dalla sua adozione formale, produce l’effetto di precludere il rilascio di permessi a costruire non compatibili con le nuove prescrizioni (cosiddette misure di salvaguardia).

E’ controversa la natura giuridica del piano regolatore. Si discute cioè se abbia natura essenzialmente normativa (regolamentare), tale da condizionare soltanto l’adozione dei piani attuativi, oppure di atto amministrativo generale tale da produrre effetti giuridici immediati in capo a destinatari ben individuati (i proprietari dei terreni soggetti ai vincoli).

Prevale in giurisprudenza la tesi intermedia della natura mista dei piani regolatori che “da un lato, dispongono in via generale ed astratta in ordine al governo ed all’utilizzazione dell’intero territorio comunale, e, dall’altro, contengono istruzioni, norme e prescrizioni di concreta definizione, destinazione e sistemazione di singole parti del comprensorio urbano” (Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, 22 dicembre 1999, n. 24). Ne consegue che occorre valutare caso per caso i singoli contenuti del piano, allo scopo di appurare se esso leda in via immediata posizioni giuridiche di singoli proprietari e pertanto sia necessario impugnarlo tempestivamente nel termine di 60 giorni, oppure se abbia una valenza soltanto programmatoria e che pertanto solo l’emanazione dei provvedimenti attuativi determini una lesione delle situazioni giuridiche soggettive tale da rendere necessaria la proposizione di un ricorso giurisdizionale.

11. Segue: c) le ordinanze contingibili e urgenti

Gli ordinamenti statuali si dotano usualmente di strumenti per far fronte a situazioni di emergenza imprevedibili che possono mettere a rischio interessi fondamentali della comunità (incolumità pubblica, sanità, ecc.), ma che non si prestano a essere tipizzate e disciplinate ex ante in modo puntuale a livello di fonti primarie. Impostazioni teoriche risalenti consideravano la necessità addirittura come fonte del diritto, tale da giustificare e legittimare l’alterazione delle competenze e l’adozione di

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misure extra ordinem.

Vigente lo Statuto Albertino, si ritenne per prassi che rientrasse nel potere regio anche quello di emanare, nei casi di urgenza (ad esempio nei periodi di chiusura delle camere), ordinanze anche in deroga alle norme vigenti.

Con l’avvento della Costituzione questo tipo di potere, che soprattutto nel ventennio fascista venne esercitato con molta frequenza, è stato assorbito in gran parte dal potere attribuito al Governo, nei casi straordinari di necessità e d’urgenza, di emanare decreti legge (art. 77 della Costituzione) contenenti disposizioni di rango primario.

A livello sub-costituzionale, numerose disposizioni di legge attribuiscono ad autorità amministrative il potere di emanare ordinanze contingibili e urgenti (nei settori dell’ordine pubblico, della sanità, dell’ambiente, della protezione civile, ecc.) delle quali è discussa la natura amministrativa o normativa.

Tra gli esempi più risalenti nel tempo vi è anzitutto il potere del prefetto “nel caso di urgenza o per grave necessità pubblica (…) di adottare i provvedimenti indispensabili per la tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza pubblica” (art. 2 del Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, approvato con r.d. 18 giugno 1931, n. 773).

Il sindaco, nella sua veste di ufficiale del Governo, può adottare “provvedimenti contingibili e urgenti al fine di prevenire ed eliminare gravi pericoli che minacciano l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana” (art. 54, comma 4 del Testo unico degli enti locali). Può adottare questo tipo di provvedimenti anche in caso di emergenze sanitarie o di igiene pubblica in ambito locale (art. 50, comma 5), mentre poteri analoghi sono attribuiti alle Regioni e allo Stato (in particolare i poteri di ordinanza di competenza del ministro della Sanità (oggi Salute) ai sensi dell’art. 32 della legge 23 dicembre 1978, n. 833 istitutiva del Servizio sanitario nazionale) nel caso di situazioni che interessino territori e comunità più ampie.

Poteri di ordinanza assai ampi al fine di “evitare situazioni di pericolo o maggiori danni a persone o a cose”, con possibilità di derogare alle norme vigenti (in particolare, nella prassi applicativa, alle norme relative alle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici e a quelle urbanistiche ed edilizie), sono previsti anche dalla normativa in tema di Protezione civile (art. 5 della legge 24 febbraio 1992, n. 225). Il loro ambito di applicazione è stato esteso (art. 5-bis del decreto legge 7

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settembre 2001, n. 343) anche al di là delle emergenze naturali (terremoti, alluvioni, ecc.) fino a includere, probabilmente in modo non giustificato trattandosi di evenienze prevedibili, anche l’organizzazione dei cosiddetti grandi eventi (per esempio, nel 2009, l’organizzazione del G8 alla Maddalena).

Le leggi attributive di questo tipo di poteri si limitano di solito a individuare l’autorità amministrativa competente a emanarli, a descrivere in termini generali il presupposto che ne legittima l’emanazione e a specificare il fine pubblico da perseguire. Pur rispettose del principio della legalità formale, esse lasciano indeterminato il contenuto del potere e i destinatari del provvedimento.

L’autorità competente è dunque titolare di un’ampia discrezionalità sia nel momento in cui apprezza in concreto se la situazione di fatto giustifichi l’esercizio del potere di ordinanza, sia nel momento in cui essa individua le misure specifiche da adottare. E’ richiesta comunque una motivazione adeguata.

Le ordinanze in questione operano in definitiva una deroga al principio della tipicità degli atti amministrativi, in base al quale la norma attributiva del potere deve definirne in modo sufficientemente preciso presupposti e contenuti, e sollevano dunque un problema di compatibilità con il principio di legalità inteso in senso sostanziale.

Esse pongono inoltre vari problemi di applicazione e di qualificazione.

E’ controverso in primo luogo se ed entro quali limiti i poteri di ordinanza devono rispettare le leggi vigenti. La giurisprudenza anche costituzionale ha da tempo chiarito (sentenza n. 8/1956) che, quanto meno, esse non possono essere emanate in contrasto con i principi generali dell’ordinamento giuridico e con i principi fondamentali della Costituzione, che non possono essere derogati. Inoltre devono avere un’efficacia limitata nel tempo in relazione, devono essere motivate e devono essere adequatamente pubblicizzate.

Inoltre, un limite interno è costituito dal principio di proporzionalità, nel senso che il contenuto delle ordinanze deve essere rigidamente calibrato in funzione dell’emergenza specifica che deve essere in concreto fronteggiata. Da qui anche il carattere tendenzialmente temporaneo e provvisorio delle misure introdotte.

Trattandosi di uno strumento in qualche modo extra ordinem, il potere di ordinanza ha un carattere residuale, nel senso che non può essere

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esercitato in luogo di poteri tipici previsti dalle norme vigenti idonei a far fronte a quel tipo di situazione. Per esempio, per far smantellare un’antenna per la telefonia mobile installata in modo non conforme alle prescrizioni urbanistiche e sanitarie e che genera proteste nella popolazione residente timorosa del rischio di inquinamento elettromagnetico, il sindaco ha già a disposizione i poteri di tipo urbanistico, e dunque non può esercitare il potere di ordinanza.

Quanto alla qualificazione giuridica, le ordinanze in questione hanno di regola natura non normativa anche quando si rivolgono a categorie più o meno ampie di destinatari. Esse si riferiscono infatti ad accadimenti specifici (come ad esempio un’inondazione o un terremoto o un’epidemia), dunque hanno tendenzialmente un carattere concreto e una efficacia temporalmente circoscritta.

Tuttavia ove la situazione di emergenza tenda a protrarsi, le ordinanze acquistano necessariamente anche un carattere di astrattezza e perdono il carattere della temporaneità. Specie nel caso delle ordinanze emanate dai sindaci in materia di sicurezza urbana (contenenti misure contro il commercio ambulante abusivo, la prostituzione, comportamenti contrari al decoro, ecc.) esse finiscono così per assumere caratteristiche simili ai regolamenti comunali, intesi come atti normativi in senso proprio di rango sublegislativo.

Le ordinanze contingibili e urgenti vanno distinte da altri atti amministrativi che hanno come presupposto l’urgenza, ma il cui contenuto e i cui effetti sono predefiniti in tutto e per tutto dalla norma attributiva del potere (i c.d. atti necessitati). Così, per esempio, nel caso in cui i lavori relativi alla costruzione di un’opera pubblica siano dichiarati indifferibili e urgenti, l’autorità amministrativa competente può disporre l’occupazione d’urgenza dei terreni interessati prima ancora che si sia concluso il procedimento di espropriazione. In materia di contratti pubblici, l’urgenza può giustificare una deroga al ricorso a procedure a evidenza pubblica, giustificando la trattativa diretta con un solo fornitore. In altri casi, l’urgenza può giustificare l’emanazione di un atto da parte di un organo diverso da quello competente in via ordinaria che si riunisce con minor frequenza e che poi provvede alla ratifica. Per esempio, come si dirà anche nel Cap. IV, la giunta comunale può esercitare in via d’urgenza alcuni atti di competenza del consiglio comunale.

12. Segue: d) Le direttive e gli atti di indirizzo.

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Affini agli atti di pianificazione, in quanto espressione della funzione di indirizzo politico amministrativo, sono le direttive amministrative. Caratteristico di questo tipo di atti è il loro contenuto. Esso non è costituito, come accade tipicamente nel caso delle fonti primarie e secondarie, da prescrizioni puntuali e vincolanti in modo assoluto, ma è limitato all’indicazione di fini e obiettivi da raggiungere, criteri di massima, mezzi per raggiungere i fini. Esse hanno dunque un certo grado di elasticità e consentono ai loro destinatari spazi di valutazione e di decisione più o meno estesi in modo tale da poter tener conto in sede applicativa di tutte le circostanze del caso concreto. Ove giustificato, i destinatari possono anche disattendere in tutto o in parte le indicazioni contenute nella direttiva per ragioni che devono essere espresse nella motivazione.

Si distinguono generalmente le direttive che si inseriscono in rapporti interorganici e le direttive che attengono a rapporti intersoggettivi. Solo in questo secondo ambito esse possono assumere una rilevanza regolatoria ove siano indirizzate a una pluralità di destinatari.

Nell’ambito dei rapporti interorganici le direttive sono uno strumento attraverso il quale l’organo sovraordinato condiziona e orienta l’attività dell’organo o degli organi sottordinati. Là dove il rapporto interorganico ha un carattere propriamente gerarchico, ove cioè la competenza dell’organo sovraordinato include e si sovrappone integralmente a quella dell’organo sottordinato, la direttiva può essere utilizzata talvolta in luogo dell’atto che è più caratteristico di questo tipo di relazione e cioè l’ordine gerarchico che ha un contenuto puntuale ed è riferito a una situazione concreta.

Là dove invece l’organo sottordinato è investito di una competenza autonoma, cioè non inclusa del tutto in quella dell’organo sovraordinato e dunque il rapporto non può essere qualificato come propriamente gerarchico, la direttiva acquista contorni più tipici e connota appunto un rapporto organico, usualmente definito come rapporto di direzione.

Un esempio tra i più rilevanti è il rapporto di direzione che intercorre tra ministro e dirigenti generali in base al principio della distinzione tra indirizzo politico-amministrativo e attività di gestione introdotto con la riforma del pubblico impiego varata negli anni Novanta del secolo scorso (oggi d.lgs. n. 165/2001). Al ministro è preclusa ogni competenza gestionale e amministrativa diretta e può soltanto formulare “direttive generali per l’attività amministrativa e per la gestione” (art. 4, comma 1, lett. b) e art. 14, comma 1, lett. a) ed esercitare un controllo ex post. I

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dirigenti generali sono titolari dei poteri di gestione e di emanazione degli atti e provvedimenti, curano l’attuazione delle direttive generali impartite dal ministro e a loro volta definiscono gli obiettivi che i dirigenti a loro sottoposti devono perseguire (art. 16, comma 1, lett. b). L’inosservanza delle direttive da parte di dirigenti generali, ove non giustificata da ragioni oggettive, può costituire un elemento di valutazione ex post dell’attività del dirigente e costituire anche motivo di responsabilità dirigenziale (art. 21). In ogni caso, a differenza di quanto è previsto nel caso di rapporto gerarchico, il ministro non può avocare a sé o sostituirsi nella competenza del dirigente generale.

Le direttive che si inseriscono in rapporti intersoggettivi costituiscono uno strumento attraverso il quale il ministro competente o la regione esercitano il potere di indirizzo nei confronti di enti pubblici strumentali, la cui attività deve essere resa coerente con i fini istituzionali propri del ministero di settore o della regione.

Storicamente, soprattutto nella seconda metà del secolo scorso, esse sono state previste di frequente dal legislatore nel campo del diritto pubblico dell’economia. Secondo la visione programmatoria e di intervento diretto o indiretto dello Stato nelle attività economiche, interi settori di imprese (per esempio le aziende di credito) o particolari categorie di enti pubblici economici (gli enti di gestione delle partecipazioni statali quali l’IRI, l’ENI e l’EFIM, la Cassa per il Mezzogiorno, l’ENEL, ecc.) furono assoggettati a poteri di indirizzo (oltre che di vigilanza) assai penetranti. La direttiva, con i suoi caratteri di elasticità, tentava di conciliare l’esigenza di mantenere un legame istituzionale stretto con il versante della politica governativa con quella di assicurare una certa libertà di azione di soggetti in massima parte pubblici ma operanti in regime in gran parte privatistico.

In anni più recenti, con la riduzione della presenza pubblica diretta o indiretta nell’economia alla quale si è fatto cenno nel capitolo precedente, lo strumento della direttiva è stato utilizzato con minor frequenza. All’inizio degli anni ’90 del secolo scorso è stata anzi smantellata l’intera struttura di governo delle partecipazioni statali (comitati ministeriali, enti di gestione). I nuovi apparati di regolazione istituiti verso la fine del secolo scorso, cioè le cosiddette autorità amministrative indipendenti, si caratterizzano proprio per il fatto di non essere assoggettati a un potere di direzione da parte del Governo.

Sono emersi però nella legislazione altri tipi di direttive a valenza spiccatamente regolatoria. Per esempio, le autorità indipendenti preposte

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ai servizi di pubblica utilità possono essere emanare direttive nei confronti delle imprese erogatrici dei servizi per definire i livelli generali di qualità di questi ultimi o la contabilizzazione separata dei costi delle singole prestazioni (art. 2, comma, 12, lett. f) e h) della l. n. 481/1995). La violazione di queste direttive da parte delle imprese destinatarie comporta l’applicazione di sanzioni amministrative.

In occasione della riforma del Governo e degli apparati ministeriali operata con il decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300, la direttiva è stata prevista per creare un raccordo tra il ministro di settore e le agenzie istituite per lo svolgimento di particolari attività a carattere tecnico-operativo (per esempio le agenzie fiscali) e dotate di ambiti di autonomia funzionale e finanziaria (art. 8, commi 2 e 4 lett. d) oppure tra ministro vigilante ed enti pubblici strumentali.

Una questione discussa attiene all’effettività della direttiva, cioè alle conseguenze che possono derivare nel caso in cui il destinatario non si attenga alle indicazioni in essa contenute. Esse infatti tendono a condizionare l’esercizio della discrezionalità dei destinatari i quali mantengono dunque un ambito di valutazione autonoma. I poteri di reazione in capo all’organo o al soggetto sovraordinato sono pertanto per lo più di tipo indiretto e si possono manifestare in interventi sull’organo (scioglimento, mancato reincarico dei suoi titolari, ecc). Di rado, essi includono poteri che incidono sulla validità degli atti adottati (revoca, annullamento d’ufficio).

13. Segue: e) le norme interne e le circolari.

La funzione di regolazione delle pubbliche amministrazioni si esplica in modo diverso a seconda che le norme emanate rilevino essenzialmente all’interno di un determinato apparato amministrativo e servano a guidare l’attività degli uffici, oppure siano dirette a orientare i comportamenti di soggetti esterni. Già trattando delle direttive è emersa la distinzione tra quelle che intervengono nei rapporti interorganici e quelle che rilevano nei rapporti intersoggettivi.

In termini generali, si può osservare che le organizzazioni complesse, anche quelle private, si dotano di regole interne volte a disciplinare il funzionamento e i raccordi tra le varie unità operative. Così, per esempio, le grandi imprese approvano regolamenti aziendali, manuali di procedure e altri atti organizzativi.

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Nel diritto pubblico, il tema delle norme interne si ricollega storicamente alla ricostruzione dell’ordinamento della pubblica amministrazione come ordinamento giuridico particolare (sezionale o derivato) in qualche misura separato (e autonomo) dall’ordinamento generale statuale. In linea di principio ciò che avviene all’interno di un siffatto ordinamento non ha una rilevanza nell’ordinamento generale. Sono ammesse anche norme derogatorie rispetto a quelle applicabili alla generalità dei consociati.

Così, per esempio, gli impiegati pubblici assunti stabilmente nell’amministrazione di appartenenza acquisivano uno status particolare. In passato essi erano assoggettati anche a norme speciali che comportavano la limitazione di diritti fondamentali (ad esempio, l’iscrizione a partiti politici) e l’imposizione di obblighi (fedeltà, decoro, ecc.) che si estendevano anche a comportamenti assunti al di fuori delle attività di servizio in senso proprio e dunque condizionavano tutta la vita privata. Analogamente, i militari o i condannati a una pena detentiva entravano a far parte di ordinamenti speciali (militare o carcerario) con l’imposizione di obblighi speciali e assoggettati a poteri coercitivi comportanti limitazioni di diritti (non a caso era invalsa l’espressione di “ rapporti di supremazia speciale”). Anche l’ordinamento scolastico, il sistema del credito e del risparmio, gli ordini professionali, l’ordinamento sportivo tradizionalmente sono stati ricostruiti secondo questo modello.

Gli ordinamenti sezionali si fondano su alcuni elementi costitutivi: la plurisoggettività, con la predeterminazione dei soggetti inseriti nell’ordinamento settoriale sulla base di atti di ammissione, di iscrizione o di attribuzione di status; un’organizzazione interna stabile con attribuzione di ruoli e di competenze; la presenza di norme interne emanate dagli organi preposti all’ordinamento speciale e rese effettive da un sistema di sanzioni anch’esse interne; l’istituzione di organi giustiziali speciali (commissioni di disciplina, corti arbitrali sportive, ecc.).

Le norme interne possono assumere variamente la forma di regolamenti interni, di istruzioni o ordini di servizio, direttive generali, ecc. Come si accennerà più avanti, la forma usuale di comunicazione delle norme interne è costituita dalla circolare.

Il modello degli ordinamenti giuridici sezionali è stato superato in seguito all’entrata in vigore della Costituzione che non sembra ammettere, se non entro limiti assai ristretti, la rinuncia o la compressione dei diritti fondamentali di coloro che a vario titolo entrano in contatto con la pubblica amministrazione.

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Le norme interne e i comportamenti assunti sulla base di esse finiscono per assumere una rilevanza almeno indiretta nell’ordinamento generale. Così, per esempio, l’illecito sportivo può comportare l’applicazione non soltanto delle sanzioni speciali previste dalle norme interne all’ordinamento (per esempio, nel gioco calcio, l’ammonizione o l’espulsione dalla partita in seguito a un intervento falloso), ma anche di quelle previste dall’ordinamento generale (per esempio, sanzioni penali relative alle lesioni personali provocate a un giocatore).

Inoltre, l’organizzazione interna dell’amministrazione, considerata in origine irrilevante sotto il profilo giuridico e comunque oggetto di scarsa attenzione negli studi di diritto amministrativo, è stata fatta oggetto sempre più spesso di interventi normativi (anzitutto legislativi, in attuazione del principio della riserva di legge relativa di cui all’art. 97 della Costituzione, già ricordato) che hanno via via superato la separatezza e l’impermeabilità dell’ordinamento amministrativo rispetto a quello generale.

Anche la giurisprudenza amministrativa ha avuto un ruolo in questo processo evolutivo. In una visione sostanzialistica, come si è già accennato, essa tende a valutare le norme interne sotto il profilo della loro attitudine a incidere effettivamente su situazioni giuridiche individuali, ritenendo così direttamente o indirettamente impugnabili una serie di atti organizzativi in precedenza sottratti al sindacato giurisdizionale.

La distinzione tra norme interne e norme esterne si è venuta così attenuando. A ciò ha contribuito anche la l. n. 241/1990, che ha introdotto un obbligo generalizzato di pubblicare, secondo le modalità previste per le singole amministrazioni, “le direttive, i programmi, le istruzioni, le circolari e ogni atto che dispone in generale sulla organizzazione, sulle funzioni sugli obiettivi, sui procedimenti di una pubblica amministrazione ovvero nel quale si determina l’interpretazione di norme giuridiche o si dettano disposizioni per l’applicazione di esse” (art. 26). Analogamente, in materia di sovvenzioni, contributi e altri sussidi finanziari, le amministrazioni competenti sono obbligate a predeterminare e a rendere pubblici i criteri e le modalità alle quali esse si devono attenere nell’individuare i singoli beneficiari (art. 12).

In molti casi le norme interne sono pubblicate anche nella Gazzetta Ufficiale. Il Testo unico delle disposizioni sulla promulgazione delle leggi, sulla emanazione dei decreti del Presidente della Repubblica e sulle pubblicazioni ufficiali della Repubblica italiana (d.p.r. 28 dicembre 1985, n. 1092) prevede infatti che i ministri competenti possono richiedere la

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pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale delle circolari esplicative dei provvedimenti legislativi (art. 18, comma 4).

In definitiva, gli obblighi di pubblicazione delle norme interne, poiché le rendono conoscibili al di là della cerchia talora ristretta dei loro destinatari diretti (in particolare, i titolari e gli addetti agli uffici interni ad un apparato amministrativo), contribuiscono a far assumere a queste ultime una rilevanza esterna. Quanto meno, fanno sorgere nella generalità degli amministrati l’aspettativa che esse costituiranno una guida dell’azione amministrativa che si concretizza nell’adozione di atti che producono effetti diretti nei loro confronti.

Una rilevanza giuridica esterna indiretta delle norme interne è comunque da tempo acquisita. Infatti, se l’amministrazione emana un provvedimento amministrativo violando una norma interna, il giudice amministrativo può censurarlo, come si vedrà, sotto il profilo dell’eccesso di potere. Infatti, lo svolgimento ordinato dell’attività amministrativa postula che gli uffici si attengano in modo scrupoloso alle norme interne. Se ciò non avviene nel caso concreto e il provvedimento amministrativo non dà conto nella motivazione delle ragioni particolari che giustificano la mancata applicazione di tali norme, ciò costituisce indizio di un cattivo esercizio del potere amministrativo. La giurisprudenza ha cioè ricostruito la violazione delle norme interne appunto come figura sintomatica dell’eccesso di potere (come si dirà nel Cap. IV).

Una specie sui generis di norme interne è costituita dalla prassi amministrativa, cioè dalla condotta uniforme assunta nel tempo dagli uffici in relazione alle valutazioni compiute e alle decisioni assunte in casi analoghi. Il principio di coerenza che presiede all’esercizio dell’attività degli uffici fa sì che i precedenti, una volta consolidatisi, acquistino in un certo senso una forza normativa. Infatti, essi devono essere tenuti in considerazione in occasione di successivi casi di svolgimento dell’attività e diventano vincolanti ove non sussistano ragioni particolari che giustificano una diversa determinazione.

La prassi amministrativa si può formare nel tempo in modo spontaneo in conseguenza del continuo ripetersi di un determinato comportamento unito al convincimento diffuso che esso sia conforme a una regola operativa tacita. Essa non va comunque confusa con la consuetudine, che è vera e propria fonte del diritto dell’ordinamento giuridico generale. Tutt’al più, seguendo la teoria dell’ordinamento giuridico sezionale, essa può acquisire una normatività interna. Una volta formatasi, la prassi viene talora recepita a titolo ricognitivo, ed è così in qualche modo avallata e

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rafforzata dalla stessa amministrazione, per mezzo di una circolare.

Secondo alcune ricostruzioni la prassi potrebbe anche essere indotta, in relazione per esempio all’applicazione di normative nuove, da una determinazione espressa dell’amministrazione che preannunci quale sarà il comportamento assunto dagli uffici creando così un legittimo affidamento nei confronti dei soggetti esterni all’amministrazione (nell’ordinamento tedesco si parla in proposito di “antizipierte Verwaltungspraxis)” .

Il mezzo principale di comunicazione delle norme interne è costituito, come si è accennato, dalle circolari. Nella vita quotidiana degli uffici esse sono uno strumento di orientamento e di guida dell’attività amministrativa, fino al punto da imporsi, sul piano dell’effettività, come un vero e proprio diaframma tra le norme giuridiche anche di rango primario e le pubbliche amministrazioni alle quali queste ultime sono rivolte (ciò vale specie per le circolari interpretative, di cui si dirà qui di seguito).

In origine, come ricorda ancora l’etimo del vocabolo, le circolari (o lettere circolari) trovarono impiego nell’ambito dell’organizzazione militare nella quale i porta-ordini diffondevano i dispacci dei comandi alle varie unità impiegate nelle operazioni militari. La nozione di circolare trovò poi applicazione più generale nell’ambito dell’organizzazione amministrativa, anch’essa per lungo tempo ordinata secondo un criterio rigidamente gerarchico.

Secondo una definizione ormai classica (F. CAMMEO), le circolari sono “atti di un’autorità superiore che stabiliscono in via generale ed astratta regole di condotta di autorità inferiori nel disbrigo degli affari d’ufficio”. Le circolari, dunque, secondo le elaborazioni teoriche più risalenti costituiscono degli atti tipici aventi efficacia esclusivamente interna.

Le ricostruzioni più recenti offrono una visione più articolata del fenomeno delle circolari, prendendo anche atto dell’evoluzione dei modelli organizzativi della pubblica amministrazione che ha superato in gran parte il principio gerarchico e ha portato alla moltiplicazione dei livelli di governo e alla proliferazione di apparati amministrativi che rompono la monoliticità e compattezza della struttura amministrativa.

Anzitutto, si constata che il contenuto delle circolari può essere il più vario. Esse possono contenere infatti ordini, direttive, interpretazioni di leggi ed altri atti normativi, informazioni di ogni genere e tipo. Le

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circolari perdono così il carattere di atto amministrativo tipico e finiscono per conservare soltanto il significato di strumento di comunicazione di atti ciascuno dei quali aventi una propria configurazione tipica (M. S. GIANNINI).

Inoltre, le circolari acquistano in taluni casi una dimensione intersoggettiva là dove vengono indirizzate a enti e soggetti non inclusi nell’organizzazione dell’apparato che li emette.

La fenomenologia delle circolari richiede dunque di operare una serie classificazioni.

Una prima categoria di circolari è costituita dalle circolari interpretative. Esse costituiscono uno strumento volto a rendere omogenea l’applicazione di nuove normative da parte delle pubbliche amministrazioni. Queste circolari hanno un maggior grado di vincolatività allorché vengono emanate nell’ambito di apparati strutturati in modo gerarchico: l’inferiore gerarchico si deve attenere all’interpretazione indicata dal superiore gerarchico negli stessi limiti entro i quali deve ottemperare alle istruzioni e agli ordini emanati da quest’ultimo. Al di fuori di questo ambito, si ritiene generalmente che la circolare interpretativa valga soltanto come un’opinione più o meno autorevole (in ragione della collocazione dell’organo che la emana e dei rapporti di dipendenza più o meno stretta di chi la riceve) che però non è giuridicamente vincolante. Così, per esempio, una circolare interpretativa del ministero dell’Interno che ha per oggetto norme applicate da enti autonomi quali gli enti locali, non impedisce a questi ultimi, anche se ciò accade di rado, di far propria una diversa interpretazione.

E’ certo comunque che le circolari di questo tipo non vincolano l’interpretazione dei giudici.

Una seconda specie di circolari cosiddette normative ha la funzione di orientare l’esercizio del potere discrezionale degli organi titolari di poteri amministrativi. Esse dunque non hanno per oggetto l’interpretazione delle norme da applicare, bensì gli spazi di valutazione discrezionale rimessi dalla legge all’autorità amministrativa. Attraverso queste circolari, che in molti casi non sono altro che manifestazione del potere di direttiva, l’organo sovraordinato indirizza l’attività concreta degli organi subordinati, specificando le finalità, indicando priorità, fornendo criteri, ecc. Il destinatario deve tenerne conto in modo adeguato, ma può anche disattenderle purché fornisca una motivazione congrua.

Un’altra specie di circolari cosiddette informative costituisce uno

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strumento con il quale vengono diffuse all’interno dell’organizzazione notizie, informazioni e messaggi di varia natura e in questo senso possono essere assimilate a bollettini e newsletter specializzate e a diffusione limitata previste in molti contesti anche privati.

Si è anche individuato talora il modello delle circolari-regolamento, atti atipici volti a porre regole generali e astratte aventi per destinatari soggetti esterni all’amministrazione. Si tratta peraltro di una specie di circolare controversa quanto ad ammissibilità e legittimità.

In conclusione, le circolari non danno origine a un fenomeno unitario. I contenuti, il grado di cogenza e l’attitudine a produrre effetti giuridici nei rapporti interni ed esterni all’amministrazione va verificata caso per caso in relazione al contesto organizzativo in cui ciascuna di esse si inserisce.

14. Il riordino della legislazione: i testi unici e i codici.

Negli ultimi decenni la legislazione amministrativa si è estesa e ramificata in relazione ai nuovi compiti via via assunti dai pubblici poteri in campo sociale ed economico.

L’“inflazione legislativa” e il disordine normativo hanno nel nostro ordinamento una dimensione patologica. Ciò è dovuto anzitutto al cattivo funzionamento del Parlamento riconducibile a numerosi fattori collegati alla forma di governo, quali l’instabilità politica, la scarsa omogeneità e coesione delle maggioranze di governo, l’influenza degli interessi particolari, la farraginosità del procedimento legislativo.

Le leggi amministrative organiche frutto di un disegno coerente sono poco frequenti. Prevalgono invece gli interventi normativi estemporanei, limitati a modifiche puntuali, spesso mal coordinate, di testi legislativi previgenti inseriti in leggi omnibus (specie in occasione della manovra finanziaria annuale o delle leggi cosiddette “mille proroghe”) o in sede di conversione di decreti legge.

Complessivamente lo stock di leggi amministrative vigenti, delle quali è controverso anche il numero (stimato di svariate migliaia), si presenta come un insieme frastagliato, stratificato nel tempo (di rado le leggi successive abrogano in modo espresso le leggi precedenti, utilizzando tutt’al più la formula generica e ambigua dell’abrogazione delle norme incompatibili con le nuove disposizioni), e poco stabile.

A partire dagli anni Novanta del secolo scorso è cresciuta la consapevolezza della necessità di promuovere un riordino della

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legislazione almeno nelle materie più rilevanti. Si è anzi cercato di istituzionalizzare questo tipo di attività con l’introduzione di un disegno di legge per la semplificazione e il riassetto normativo da presentare al Parlamento entro il 31 maggio di ogni anno (art. 20 della legge 15 marzo 1997, n. 59 come riformulato dall’art. 1 della legge 29 luglio 2003, n. 229).

Lo strumento di riordino più tradizionale è costituito dai testi unici che accorpano e razionalizzano in un unico testo normativo le disposizioni legislative vigenti che disciplinano una determinata materia. Si distinguono usualmente i testi unici innovativi e quelli di mera compilazione.

I primi sono emanati sulla base di un’autorizzazione legislativa che stabilisce i criteri del riordino (cosiddetti testi unici autorizzati o delegati). Essi sono fonti del diritto in senso proprio (di rango primario o secondario, a seconda del tipo di autorizzazione legislativa) nel senso che sono atti a innovare il diritto oggettivo e determinano l’abrogazione delle fonti legislative precedenti.

I secondi, meno frequenti nella prassi, sono emanati su iniziativa autonoma del governo (testi unici “spontanei”) e hanno soltanto la funzione pratica di unificare in un unico testo le varie disposizioni vigenti, rendendo così più semplice il reperimento.

I testi unici più recenti hanno interessato principalmente le seguenti materie: enti locali (d.lgs. n. 267/2000); edilizia (d.p.r. 6 giugno 2001, n. 380, il quale è in realtà un testo unico misto, che include cioè nel testo anche le disposizioni di rango regolamentare con l’indicazione per ciascun articolo o comma del tipo di fonte cui si riferisce); espropriazione per pubblica utilità (d.p.r. 8 giugno 2001, n. 327, anch’esso avente natura mista); rapporto di lavoro nelle pubbliche amministrazioni (d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165); documentazione amministrativa (d.p.r. 28 dicembre 2000, n. 445).

Negli ultimi anni si è fatto ricorso soprattutto allo strumento del codice (previsto ora come modalità ordinaria di riassetto dall’art. 1 della legge 29 luglio 2003, n. 229, come modificato dalla l. n. 246 del 2005). Al di là della diversità lessicale, il codice si differenzia dal testo unico per essere concepito, oltre che per coordinare i testi normativi, anche per innovare in modo più esteso la disciplina e per essere incorporato in una fonte di rango primario (cioè in un decreto legislativo emanato sulla base di una legge di delega).

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Come esempi di codici (detti anche codici di settore) si possono ricordare quelli in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture (d.lgs. n. 163/2006, più volte modificato negli anni successivi); di protezione dei dati personali (d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196); di beni culturali (d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42) che ha sostituito il precedente testo unico approvato con d.lgs. 29 ottobre 1999, n. 490); di ambiente (d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152); di comunicazioni elettroniche (d.lgs. 1 agosto 2003, n. 259).

Sempre negli ultimi anni, il Parlamento ha approvato una serie di disposizioni volte ad abrogare le leggi più risalenti (in particolare anteriori al 1970 secondo la previsione contenuta nell’art. 14, commi 14 e 15, della legge 28 novembre 2005, n. 246) e in particolare una disposizione rubricata come “Taglia leggi” (art. 24 del d.l. 25 giugno 2008, n. 112, convertito in legge 6 agosto 2008, n. 133) che ha portato all’abrogazione di circa 29.000 leggi approvate in epoche lontane e che avevano esaurito i loro effetti.

In realtà, le operazioni di riordino della legislazione, che pur hanno una loro utilità, non garantiscono la stabilità e l’organicità della disciplina, sempre esposte, come accade di frequente, al rischio di interventi normativi successivi che introducono integrazioni, deroghe o altre modifiche in modo poco coordinato.

15. Sviluppi recenti.

La funzione di regolazione si sta evolvendo lungo una serie di direttrici che mettono in crisi le classificazioni tradizionali in tema di fonti normative e di atti amministrativi.

Si è già visto come la distinzione tra fonti normative sublegislative a efficacia esterna e interna è divenuta meno netta. Anche la distinzione tra fonti normative, vuoi esterne vuoi interne, e provvedimenti amministrativi appare sempre più dubbia.

a) Lo stesso principio di tipicità delle fonti e degli atti amministrativi con valenza regolatoria diretta o indiretta, che costituisce una esplicazione del principio di legalità, è messo in discussione dalla diffusione, sulla scia dei modelli anglosassoni e degli esempi nell’ordinamento comunitario, della nozione di “soft law”. Quest’ultima consiste nell’insieme di strumenti, spesso informali, (inviti, segnalazioni, comunicazioni, note informative, auspici, messaggi, ecc.) volti a influenzare i comportamenti

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delle autorità amministrative e degli amministrati.

Così, per esempio, alcune autorità di regolazione (Consob, Banca d’Italia) pubblicano nei loro bollettini o nei loro siti atti denominati variamente come “avvisi” o “messaggi”, “comunicazioni” o “note amministrative” con i quali vengono specificate modalità operative e applicative di norme, impartiti indirizzi operativi, pubblicate risposte a quesiti proposti dalle imprese, segnalate sentenze rilevanti della magistratura ordinaria o amministrativa, ecc. A livello europeo, sta emergendo la tendenza a rendere obbligatoria un’attività di guida all’interpretazione delle normative di settore con atti definiti come “orientamenti interpretativi” (per esempio, il 12° Considerando della cosiddetta Direttiva Mifid 2004/39/CE in materia finanziaria prevede che “L e autorità di regolazione sono tenute a emanare orientamenti interpretativi sulle disposizioni della presente direttiva”).

La componente autoritativa-prescrittiva di questo tipo di fonti appare via via recessiva rispetto a quella per così dire persuasiva-sollecitatoria. Il grado di effettività della soft law dipende essenzialmente dall’autorevolezza dell’organo da cui promana. Per esempio, con riferimento ai poteri attribuiti alla Banca d’Italia nel settore del credito e del risparmio, è invalsa da tempo l’espressione “moral suasion”, riferita all’attività di indirizzo esercitata nei confronti degli istituti bancari in via informale (ad esempio nel corso di riunioni periodiche con i vertici delle maggiori banche), ma con un grado di effettività assai elevato.

b) Una seconda linea direttrice dell’evoluzione consiste nell’emergere di ipotesi nelle quali la funzione di regolazione è cogestita dal regolatore pubblico e da soggetti privati. Esse superano almeno in parte la contrapposizione tra eteroregolazione pubblica e autoregolazione privata: la prima include le fonti normative e gli altri atti di regolazione attribuiti alla competenza di soggetti pubblici e che pongono una disciplina autoritativa e unilaterale dei comportamenti privati; la seconda si riferisce alle manifestazioni dell’autonomia negoziale volte a porre una regolazione su basi consensuali di attività private (si pensi alle regole che disciplinano i rapporti interni a un’associazione sportiva). La prassi legislativa ha fatto emergere una serie di fattispecie nelle quali gli elementi di unilateralità (autoritarietà) sono temperati da elementi di consensualità (o di coregolazione).

Come forma minimale di temperamento dell’unilateralità del potere di regolazione, leggi recenti, spesso di derivazione comunitaria, hanno assoggettato i poteri normativi sublegislativi attribuiti alle cosiddette

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autorità amministrative indipendenti a forme di partecipazione al procedimento dei soggetti interessati. A questi ultimi è attribuito il diritto di presentare osservazioni sugli schemi di atti normativi predisposti e successivamente approvati dall’autorità. Il modello di riferimento è quello dell’Administrative Procedure Act del 1946, già richiamata, che prevede per gli atti normativi sublegislativi un procedimento di “notice and comment”, articolato in una fase di pubblicazione di uno schema di atto normativo e in una seconda fase di raccolta di osservazioni e proposte di modifiche da parte dei soggetti interessati.

Un altro modello emerso anche in Italia è quello della cosiddetta autoregolazione monitorata (audited self-regulation). Essa è prevista per esempio nel Testo unico della finanza, approvato con decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (artt. 61 e seg.) che definisce l’attività di organizzazione e gestione dei mercati regolamentati di strumenti finanziari come attività di impresa che può essere svolta da società di gestione del mercato, cioè da soggetti privati. Questi hanno, tra gli altri, il compito di predisporre un regolamento di disciplina del mercato. Il regolamento approvato dalla società di gestione è poi assoggettato a un controllo pubblicistico da parte della Consob che deve accertare, in sede di autorizzazione all’esercizio del mercato, la conformità del regolamento alla disciplina comunitaria, ai criteri di trasparenza del mercato, dell’ordinato svolgimento delle negoziazioni e della tutela degli investitori. La Consob può richiedere alla società di gestione di introdurre le modifiche necessarie. Le norme contenute nel regolamento hanno natura privatistica e hanno come destinatari non soltanto gli operatori professionali, ma anche la generalità degli utenti.

Momenti di autoregolazione e di eteroregolazione sono presenti anche nei codici di deontologia e buona condotta in materia di tutela dei dati personali (privacy). In particolare, il Codice in materia di dati personali (art. 139) prevede che il Consiglio nazionale dell’ordine dei giornalisti predisponga un codice deontologico relativo a dati personali sensibili, come lo stato di salute e la vita sessuale, in modo da evitare il rischio di diffusione di notizie che ledano il diritto alla riservatezza. Il codice è promosso dal Garante per la protezione dei dati personali il quale interviene sia in fase di formazione del codice sia successivamente, in cooperazione con il Consiglio nazionale dell’ordine dei giornalisti. Il Garante può prescrivere misure e accorgimenti che il Consiglio è tenuto a recepire. Il codice deontologico viene poi pubblicato nella Gazzetta Ufficiale. La violazione del codice legittima il Garante ad adottare

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provvedimenti amministrativi che vietano il trattamento dei dati personali.

Un altro esempio di coregolazione è rappresentato dai cosiddetti codici di rete per la definizione delle condizioni tecniche di accesso alle reti elettriche e del gas: l’Autorità per l’energia elettrica e il gas definisce in modo più o meno dettagliato il modello, che spetta poi ai titolari di rete ulteriormente specificare, sottoponendo la relativa proposta di codice all’esame dell’Autorità.

Negli Stati Uniti dal 1996 è previsto un modello avanzato di “ regulatory negotiation”. L’agenzia di regolazione competente, nei casi in cui ritenga percorribile utilmente questa via, può istituire un comitato consultivo, composto da un numero limitato di esponenti di interessi rilevanti e coordinato da un “facilitator”, che ha il compito di predisporre un testo normativo condiviso.

c) Una terza linea direttrice dell’evoluzione recente consiste nell’attenuarsi della distinzione (o nell’emergere di una qualche fungibilità) tra procedimenti normativi in senso lato e procedimenti amministrativi che sfociano in provvedimenti di tipo individuale.

Così, per esempio, l’autorizzazione, definita, come si vedrà, come atto amministrativo che consente l’esercizio di un’attività rimuovendo un limite all’esercizio di un diritto e che è emanata su istanza della parte interessata, acquista una dimensione regolatoria nei casi in cui la legge consenta all’autorità amministrativa il ricorso alle cosiddette autorizzazioni generali.

Così, in materia tutela della riservatezza, il Garante per la protezione dei dati personali può emanare autorizzazioni generali, che si considerano rilasciate anche senza un’istanza di parte a categorie di destinatari predeterminate, contenenti norme sulle modalità di conservazione, trattamento, comunicazione e diffusione dei dati personali. Queste autorizzazioni generali sono in realtà dei veri e propri regolamenti.

Nel settore delle comunicazioni elettroniche, la normativa comunitaria (recepita nel Codice delle comunicazioni elettroniche) impone solo in pochi casi a chi voglia offrire sul mercato i servizi in questione di richiedere un’autorizzazione individuale preventiva. Di regola è sufficiente l’autorizzazione generale definita come “quadro normativo” che garantisce i diritti di fornitura di reti o di servizi e stabilisce gli obblighi ad essi applicabili e che viene rilasciata ai privati sulla base di una semplice dichiarazione presentata al ministero competente, senza necessità di un provvedimento formale da parte di quest’ultimo.

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Nel settore del credito, per regolare alcuni aspetti specifici dell’attività delle banche (adeguatezza patrimoniale, contenimento dei rischi), la Banca d’Italia può, indifferentemente, emanare provvedimenti individuali nei confronti delle singole banche oppure disposizioni di carattere generale (art. 53 del d.lgs. 1 settembre 1995, n. 385, Testo unico bancario).

Anche i procedimenti di tipo sanzionatorio, quelli cioè volti ad accertare la sussistenza di un illecito amministrativo e ad applicare una sanzione nei confronti di un determinato soggetto, si aprono in alcuni casi a una dimensione regolatoria. Così, l’Autorità garante della concorrenza e del mercato e altre autorità di regolazione (come, per esempio, l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni) allorché avviano procedimenti sanzionatori nei confronti di un’impresa possono concluderli senza accertare l’illecito e irrogare la sanzione, accettando impegni proposti dall’impresa stessa volti a rimuovere anche per il futuro le ragioni sottostanti all’apertura del procedimento sanzionatorio. Questi obblighi comportamentali in alcuni casi sono assunti a favore di soggetti terzi (per esempio, le imprese concorrenti, alle quali è assicurato anche il diritto a partecipare al procedimento in questione) e pertanto questo tipo di impegni, avallati dall’Autorità, assumono una dimensione regolatoria.

d) Un’ultima tendenza consiste nell’introduzione di strumenti volti a promuovere la qualità della regolazione (better regulation) per perseguire una pluralità di obiettivi: contenere l’iperregolazione (regulatory inflation) dovuta alla vigenza di norme inutili o troppo dettagliate; ridurre gli oneri (finanziari, organizzativi) che gravano sulle stesse pubbliche amministrazioni e sui privati per adeguarsi alle nuove normative (compliance costs); evitare che un'eccessiva quantità di regolazione determini una riduzione della competitività del sistema economico, ingessato tra vincoli spesso con effetti anticompetitivi che scoraggiano gli investimenti, e incrementi indirettamente i costi sociali (regulatory costs).

Uno degli strumenti, sperimentato da tempo nei paesi anglosassoni e a livello comunitario, è la cosiddetta analisi di impatto della regolazione (regulatory impact analysis) introdotta nel nostro ordinamento alla fine degli anni Novanta oggetto di numerose disposizioni legislative e applicative (art. 5 della legge 8 marzo 1999, n. 50; direttiva del Presidente del Consiglio dei ministri del 27 marzo 2000; art. 2 della legge 29 luglio 2003, n. 229; art. 14 della legge 28 novembre 2005, n. 246; d.p.c.m. 11 settembre 2008, n. 170).

L’analisi di impatto della regolazione (AIR) obbliga le pubbliche

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amministrazioni, prima di approvare un atto di regolazione, a operare una valutazione di tutte le soluzioni astrattamente possibili (inclusa la cosiddetta “opzione zero”, cioè non approvare alcuna nuova norma) valutando i costi e i benefici (cost-benefit analysis) di ciascuna di esse e di esplicitarle in un documento che correda la proposta di atto normativo.

Una volta approvate, le norme devono essere assoggettate anche a una verifica ex post che valuti in particolare i loro costi, le eventuali difficoltà applicative e i risultati effettivamente conseguiti rispetto alle attese. A questo fine interviene la cosiddetta verifica dell’impatto della regolamentazione (VIR), cioè un processo valutativo, operato dopo il primo biennio di applicazione delle norme e periodicamente a scadenze biennali (art. 14, comma 4, della legge 28 novembre 2005, n. 246), che può sfociare nella proposta di perfezionare, modificare o abrogare le norme emanate. A livello governativo, nell’ambito del Dipartimento per gli affari giuridici e legislativi della Presidenza del Consiglio dei ministri (DAGL) è stato istituito un ufficio di livello dirigenziale generale denominato “Analisi e verifica dell’impatto della regolamentazione”. Entro il 30 aprile di ogni anno il Presidente del Consiglio dei ministri presenta al Parlamento una relazione sullo stato di applicazione dell’AIR. Si tratta per ora di strumenti ancora in fase di sperimentazione e che quasi soltanto nel caso delle autorità di regolazione (per esempio, nel caso dell’Autorità per l’energia elettrica e il gas) hanno trovato un’applicazione più puntuale.

In alcuni ordinamenti, per rendere più cogente l’attività di valutazione delle norme vigenti, sono stati sperimentati modelli di “sunset legislation” (leggi “tramonto”), cioè di leggi o di altri atti normativi per così dire a tempo, cioè che perdono efficacia se non vengono confermati da un nuovo atto normativo da emanarsi entro un termine prefissato.

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CAP. III

LA FUNZIONE DI AMMINISTRAZIONE ATTIVA

1. Le funzioni e l’attività amministrativa; 2. Segue: il potere, il provvedimento, il procedimento; 3. Il rapporto giuridico amministrativo. I diritti potestativi e il potere amministrativo; 4. Il potere amministrativo e la norma d’azione; 5. Il potere discrezionale; 6. L’interesse legittimo; 7. Segue: l’interesse legittimo oppositivo e pretensivo; 8. Diritti soggettivi e interessi legittimi: criteri di distinzione; 9. Interessi di fatto, diffusi e collettivi; 10. I principi generali.

1. Le funzioni e l’attività amministrativa.

Illustrata, nel capitolo precedente la funzione di regolazione --- che, nella classificazione proposta, è costituita dall’insieme delle fonti normative e non normative a disposizione dell’amministrazione per regolare i rapporti con i privati e la propria organizzazione (“fonti dell’amministrazione”) ---, è ora possibile intraprendere l’analisi della funzione di amministrazione attiva. Come già accennato, essa consiste nell’esercizio, attraverso moduli procedimentali, dei poteri amministrativi attribuiti dalla legge ad apparati pubblici al fine di curare, nella concretezza dei rapporti giuridici con soggetti privati, l’interesse pubblico.

Per avvicinarci al tema, occorre introdurre e raccordare tra di loro alcune nozioni generali, approfondite nei paragrafi che seguono, che costituiscono la trama all’interno della quale possono essere inseriti i singoli elementi che connotano il regime della funzione di amministrazione attiva.

a) Le funzioni.

Conviene muovere dall’osservazione secondo la quale la legge, allorché istituisce un apparato amministrativo, ne delinea anzitutto le funzioni correlate alle finalità di interesse pubblico.

Queste ultime concorrono a definire, con espressione atecnica, la “missione” (mission) affidata a un soggetto pubblico che consiste appunto nella cura in concreto di un determinato interesse pubblico individuato dalla legge. L’esigenza di tutelare un interesse pubblico si afferma via via

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nella coscienza sociale e ciò si traduce di solito, come si è accennato, nella istituzione di un apparato pubblico che ha come scopo fondamentale lo svolgimento delle attività necessarie per curare tale interesse. Quanto più le finalità sono definite dalla legge in modo preciso e focalizzato (per esempio, il fine della tutela della concorrenza affidato all’Autorità garante della concorrenza e del mercato), tanto più efficace può risultare l’azione posta in essere dall’apparato e tanto più agevole è valutare ex post l’operato dell’ente.

Quanto alle funzioni amministrative, va anzitutto precisato che il termine funzione ha una molteplicità di significati (anche atecnici). Si è già fatto cenno nel secondo capitolo, per esempio, come criterio generale per classificare l’attività degli apparati pubblici, alla distinzione tra funzione di amministrazione attiva, di regolazione e di verifica del proprio operato.

Nel contesto che qui rileva, per funzioni amministrative si intendono i compiti che la legge individua come propri di un determinato apparato amministrativo, in coerenza con la finalità ad esso affidata. In relazione ad esse la legge conferisce agli apparati amministrativi i poteri necessari (attribuzioni) e distribuisce la titolarità di questi ultimi tra gli organi che compongono l’apparato (competenze).

Di regola le funzioni amministrative vengono elencate in modo più o meno particolareggiato dalla legge o al momento dell’istituzione di un apparato amministrativo o in sede di modifica della legislazione di settore o di riassetto complessivo degli apparati amministrativi.

Come esempio può essere richiamata la legge istitutiva delle autorità di regolazione dei servizi di pubblica utilità (legge 14 novembre 1995, n. 481). Dopo aver individuato le finalità generali della normativa (concorrenza ed efficienza, livelli adeguati di qualità nei servizi, fruibilità e diffusione omogenea sul territorio nazionale, tutela degli interessi degli utenti e consumatori, ecc.) (art. 1), la legge elenca le funzioni attribuite alle autorità di regolazione (artt. 2 e 3): il controllo delle condizioni e delle modalità di accesso all’attività per i gestori dei servizi, la definizione e l’aggiornamento della tariffa base per i servizi erogati dai gestori, la definizione dei livelli generali di qualità e di altre regole di tipo contabile e amministrativo, il controllo sullo svolgimento dei servizi, la formulazione di osservazioni e proposte al Governo e al Parlamento, ecc.

Come esempio di legge di riordino complessivo può essere preso il decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112 che ha ridefinito i rapporti tra

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centro (Stato) e periferia (Regioni ed enti locali). Il provvedimento mira a realizzare una sorta di federalismo amministrativo (cioè il massimo del decentramento possibile consentito dalla Costituzione vigente prima della riforma del Titolo V, Parte II) riferito a una serie ampia di materie (artigianato, industria, territorio, ambiente, protezione civile, servizi alla persona, ecc.). Per ciascuna di esse viene individuato un elenco tassativo di funzioni che continuano ad essere attribuite allo Stato (in generale, quelle di indirizzo e programmazione, di definizione di standard omogenei, di monitoraggio, di coordinamento, di raccolta ed elaborazione di dati, ecc.). Tutte le funzioni residue, anch’esse talora specificate in elenchi non tassativi, vengono trasferite alle Regioni e agli enti locali, secondo il principio della sussidiarietà verticale, che postula che le funzioni siano allocate, per quanto possibile, al livello amministrativo più vicino al cittadino e all’utente. Il decreto legislativo contiene anche elenchi di funzioni soppresse, cioè ritenute non più utili (ad esempio, alcuni atti di pianificazione settoriale o di tipo autorizzativo), e ciò in coerenza con l’obiettivo di promuovere lo “Stato leggero”, ovvero lo Stato che assume su di sé solo i compiti strettamente necessari per la tutela degli interessi pubblici.

b) L’attività amministrativa.

L’esercizio delle funzioni amministrative comporta lo svolgimento da parte dell’apparato pubblico di una varietà di attività materiali e giuridiche. Emerge qui la nozione di attività amministrativa, la quale consiste appunto nell’insieme delle operazioni, comportamenti e decisioni (inclusi i singoli atti o provvedimenti amministrativi) poste in essere o assunte da una pubblica amministrazione nell’esercizio di funzioni affidate ad essa da una legge. L’attività amministrativa è rivolta a uno scopo o fine pubblico, cioè alla cura di un interesse pubblico e, per questo, è dotata del carattere della doverosità. Il mancato esercizio dell’attività può essere fonte di responsabilità. E ciò a differenza di quanto accade nell’ambito dei rapporti di diritto comune, nei quali l’esercizio della capacità giuridica da parte dei soggetti privati è di regola libero.

All’attività amministrativa fa riferimento l’art. 1 della l. n. 241/1990 secondo il quale “l’attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge ed è retta da criteri di economicità, di efficacia, di imparzialità, di pubblicità e di trasparenza”.

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Sotto il profilo giuridico, l’attività amministrativa assume una rilevanza autonoma rispetto a quella dell’atto o provvedimento amministrativo. Essa si presta a qualificazioni che consentono di valutare in modo globale e unitario (soprattutto da parte degli organi di controllo come, per esempio, la Corte dei Conti) l’operato delle singole amministrazioni in termini sia di legalità, sia di efficienza, efficacia ed economicità. L’atto amministrativo, che costituisce un singolo episodio o un frammento dell’attività posta in essere da un apparato, si presta invece a essere valutato soprattutto sotto il profilo della conformità o meno all’ordinamento (legittimità) e dell’attitudine a soddisfare nel caso concreto l’interesse pubblico (opportunità o merito amministrativo).

A proposito dell’attività, in definitiva, più che l’“ amministrazione per atti”, rileva la cosiddetta “amministrazione di risultato”, nozione, come si vedrà, di recente e ancora incerta elaborazione dottrinale che tende a cogliere la “performance” complessiva di un apparato.

Una questione interpretativa è stabilire dove vada posta la linea di confine tra attività amministrativa e attività di diritto privato in senso proprio della pubblica amministrazione (cui si riferisce, come si è visto, l’art. 1, comma 1-bis, della l. n. 241/1990). Infatti la giurisprudenza tende a ritenere che l’amministrazione svolge attività amministrativa, “non solo quando esercita pubbliche funzioni e poteri autoritativi, ma anche quando, nei limiti consentiti dall’ordinamento, persegue le proprie finalità istituzionali mediante un’attività disciplinata in tutto od in parte dal diritto privato” (Corte di Cassazione, SS.UU., 22 dicembre 2003, n. 19667 a proposito della responsabilità amministrativa di amministratori e dipendenti pubblici di enti pubblici economici). E’ emersa così la distinzione tra “attività amministrativa in forma privatistica” e “attività d’impresa di enti pubblici” (Corte Costituzionale, 1 agosto 2008, n. 326). La tendenza ad attribuire una connotazione pubblicistica ad attività svolte con moduli privatistici mira in realtà a colpire il fenomeno, in crescita in anni recenti, che vede le amministrazioni far ricorso a forme organizzative e operative privatistiche (in particolare, società di capitali da esse controllate) al solo fine di sottrarsi al regime del diritto amministrativo (assunzioni di personale senza concorsi, stipulazione di contratti senza il ricorso a procedure ad evidenza pubblica, ecc). Anche se può apparire condivisibile l’intento antielusivo, questa ricostruzione introduce un elemento di ibridazione tra categorie pubblicistiche e privatistiche che accresce l’incertezza.

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2. Segue: il potere, il provvedimento, il procedimento.

Come si è accennato, l’attività amministrativa può manifestarsi nell’adozione di atti o provvedimenti amministrativi che sono la manifestazione e la concretizzazione dei poteri amministrativi previsti dalla legge.

Più in particolare, in relazione a ciascuna funzione e come specificazione della medesima, la legge individua in modo puntuale i poteri (ordinatori, autorizzativi, ablatori, sanzionatori, ecc.) conferiti al singolo apparato.

a) Il potere.

I poteri amministrativi conferiscono agli apparati che ne assumono la titolarità una capacità giuridica speciale di diritto pubblico. Essa si aggiunge, integrandola, alla capacità giuridica generale di diritto comune, intesa come attitudine ad assumere la titolarità delle situazioni giuridiche soggettive attive e passive previste dall’ordinamento, di cui essi, al pari delle persone giuridiche private, sono dotati. In questo senso il linguaggio ottocentesco utilizzava l’espressione poteri “esorbitanti” (rispetto al diritto comune).

Va posta anzitutto la distinzione tra potere in astratto e potere in concreto.

La legge (o, come meglio si vedrà, la cosiddetta norma d’azione) definisce gli elementi costitutivi di ciascun potere (potere in astratto). Ove manchi la norma attributiva del potere in astratto, si configura un difetto assoluto di attribuzione che, come si vedrà, determina la nullità del provvedimento.

Ogni qual volta poi si verifica una situazione di fatto conforme alla fattispecie tipizzata nella norma di conferimento del potere, l’amministrazione è legittimata a esercitare il potere (potere in concreto o atto di esercizio del potere) e a provvedere così alla cura dell’interesse pubblico. In virtù del principio di doverosità che connota, come si è accennato, l’intera attività amministrativa, essa è tenuta ad avviare un procedimento che si conclude con l’emanazione di un atto o provvedimento autoritativo idoneo a incidere unilateralmente nella sfera giuridica del soggetto destinatario e a porre una disciplina del rapporto che sorge tra il privato e l’amministrazione.

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Emerge così un elemento dinamico del potere, che dalla dimensione statica della norma si traduce in un atto concreto produttivo di effetti giuridici. In questo senso, volendo ricorrere a un’immagine, il potere può essere visto come un’energia giuridica che si sprigiona dalla norma, che viene incanalata nel procedimento e che è diretta a modificare la sfera giuridica dei soggetti destinatari del provvedimento.

b) L’atto e il provvedimento.

Nell’ordinamento italiano, a differenza di quanto accade in altri ordinamenti9, manca una definizione legislativa di atto o provvedimento amministrativo. Esso costituisce invece una nozione, elaborata essenzialmente dalla dottrina e dalla giurisprudenza, che presenta contorni in qualche misura imprecisi.

Alcune indicazioni si possono peraltro ricavare sia dalla Costituzione sia da alcune leggi generali.

In particolare, l’art. 113 della Costituzione stabilisce che: “Contro gli atti della pubblica amministrazione è sempre ammessa la tutela giurisdizionale” (primo comma); la legge determina quali organi giurisdizionali abbiano il potere di “annullare gli atti della pubblica amministrazione nei casi e con gli effetti previsti dalla legge”. Queste disposizioni richiamano due aspetti del regime giuridico degli atti amministrativi: la loro sottoposizione necessaria, costituzionalmente garantita, a un controllo giurisdizionale, operato dal giudice amministrativo e dal giudice ordinario; la loro annullabilità nei casi di accertata difformità dei medesimi rispetto alle norme giuridiche.

Sul piano storico, la stessa nozione di atto amministrativo assunse una rilevanza autonoma soprattutto allorché alla fine del XIX secolo, come si è già accennato, venne istituito in Italia un giudice amministrativo, distinto da quello ordinario, allo scopo di sindacare l’operato delle pubbliche amministrazioni che tendevano ad abusare dei propri poteri e a commettere arbitri.

Il giudice amministrativo, il cui nucleo costitutivo era rappresentato

9 Per esempio, il par. 35 della legge tedesca sul procedimento amministrativo del 1976

(Verwaltungsverfahrensgesetz) definisce l’atto amministrativo come “ogni provvedimento, decisione o altra misura autoritativa che è emanata da un’autorità amministrativa per regolare un caso singolo nel campo del diritto pubblico e che è volta a produrre un effetto giuridico diretto verso l’esterno”.

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dalla IV Sezione del Consiglio di Stato istituita nel 1889, si pose subito il problema di quali caratteristiche dovessero avere gli atti delle amministrazioni per poter essere assoggettati al controllo giurisdizionale e contribuì così, insieme con la dottrina, a elaborare la teoria dell’atto amministrativo.

A questo riguardo, l’art. 26 del T.U. delle leggi sul Consiglio di Stato, approvato con r.d. 26 giugno 1924, n. 1954, abrogato dal Codice del processo amministrativo (d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104) e sostituito con disposizioni sostanzialmente analoghe, stabiliva che il giudice amministrativo può decidere “sui ricorsi per incompetenza, per eccesso di potere o per violazione di legge, contro atti e provvedimenti di un’autorità amministrativa (…) che abbiano per oggetto un interesse d’individui o di enti morali giuridici”. Questa disposizione processuale definiva così le condizioni minime per poter accedere alla tutela giurisdizionale amministrativa (impugnabilità o giustiziabilità dell’atto amministrativo). Doveva trattarsi cioè di un atto emanato da un’autorità amministrativa, ritenuto illegittimo dal ricorrente (per incompetenza, eccesso di potere o violazione di legge), che fosse lesivo di una situazione giuridica soggettiva del privato (il cosiddetto interesse legittimo). Anche il Codice del processo amministrativo menziona “l’atto o il provvedimento eventualmente impugnato” tra gli elementi che devono essere contenuti nel ricorso (art. 40, comma 1, lett. b)).

Altre disposizioni legislative rilevanti si ritrovano nella l. n. 241/1990, come integrata dalla legge 11 febbraio 2005, n. 15, che pone una disciplina generale del procedimento amministrativo e dell’atto amministrativo.

Anzitutto, l’art. 1, comma 1-bis, della l. n. 241/1990, introdotto dalla l. n. 15/2005, stabilisce, come si è visto, che la pubblica amministrazione agisce di regola secondo le norme del diritto privato “nell’adozione di atti di natura non autoritativa”. Questi ultimi vanno dunque distinti dagli atti aventi natura autoritativa, i quali, invece, sono assoggettati al regime pubblicistico proprio degli atti amministrativi.

Inoltre, l’art. 3 della l. n. 241/1990 stabilisce che ogni provvedimento amministrativo deve essere motivato, indicando anche qui un elemento formale tipico degli atti amministrativi che li differenzia dagli atti privati. In relazione a questi ultimi, di regola, i motivi, cioè lo scopo individuale che induce il soggetto a porre in essere il negozio giuridico, sono irrilevanti e non devono essere esplicitati nell’atto.

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Ancora, l’art. 7 prevede che l’avvio del procedimento deve essere comunicato “ai soggetti nei confronti dei quali il provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti” e l’art. 21-bis specifica che “il provvedimento limitativo della sfera giuridica dei privati acquista efficacia nei confronti di ciascun destinatario con la comunicazione allo stesso effettuata”. Queste disposizioni richiamano implicitamente un’altra caratteristica dei provvedimenti e cioè la autoritarietà (o imperatività) intesa come attitudine a determinare in modo unilaterale la produzione degli effetti giuridici nei confronti dei terzi. Viene posta, inoltre, la distinzione tra provvedimenti ampliativi e provvedimenti limitativi o restrittivi della sfera giuridica dei destinatari privati, sulla quale ci si soffermerà tra breve.

Infine, l’art. 2, comma 1, della l. n. 241/1990 pone in capo all’amministrazione il dovere di concludere il procedimento avviato in seguito a una istanza o domanda presentata alla pubblica amministrazione da un privato oppure d’ufficio, cioè per iniziativa di quest’ultima “mediante l’adozione di un provvedimento espresso”.

Come emerge dalle disposizioni costituzionali e legislative ora richiamate, i termini atto e provvedimento amministrativo vengono utilizzati come sinonimi. In sede dottrinale, tuttavia, si è cercato di porre una distinzione tra atto amministrativo e provvedimento amministrativo.

Il primo, per riprendere una definizione classica (G. ZANOBINI), include ogni “dichiarazione di volontà, di desiderio, di conoscenza, di giudizio, compiuta da un soggetto dell’amministrazione pubblica nell’esercizio di una potestà amministrativa”. Pertanto costituiscono atti amministrativi, per esempio, quelli endoprocedimentali come i pareri, le valutazioni tecniche, le proposte, le intimazioni, oppure le certificazioni che spesso hanno una funzione strumentale o accessoria rispetto al provvedimento amministrativo.

Quest’ultimo, che costituisce la subcategoria più importante degli atti amministrativi, può essere definito come una manifestazione di volontà, espressa dall’amministrazione titolare del potere all’esito di un procedimento amministrativo, volta alla cura in concreto di un interesse pubblico e tesa a produrre in modo unilaterale effetti giuridici nei rapporti esterni con i soggetti destinatari del provvedimento medesimo (per esempio, un decreto di espropriazione, un’autorizzazione, una sanzione amministrativa, ecc.).

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c) Il procedimento.

La l. n. 241/1990 richiama già nel titolo e poi in numerose disposizioni la nozione di procedimento amministrativo. Essa è stata elaborata dalla dottrina amministrativistica (A. SANDULLI) verso la metà del secolo scorso e si affianca a quella di procedimento legislativo e di procedimento giurisdizionale o processo.

Come si è più volte sottolineato, le leggi amministrative attribuiscono alle pubbliche amministrazioni poteri finalizzati alla cura degli interessi pubblici. L’esercizio del potere avviene secondo il modulo del procedimento amministrativo, cioè attraverso una sequenza, individuata anch’essa dalla legge, di operazioni e di atti (a partire dalla comunicazione di avvio del procedimento ai soggetti interessati) strumentali all’emanazione di un provvedimento amministrativo produttivo degli effetti giuridici tipici nei rapporti esterni.

Il procedimento assolve ad una pluralità di funzioni: assicurare il coordinamento tra le pubbliche amministrazioni (alcune delle quali deputate, per esempio, a esprimere nell’ambito del procedimento un parere o una valutazione tecnica che l’amministrazione competente ad emanare il provvedimento deve tenere in considerazione); garantire la partecipazione dei privati all’esercizio del potere attraverso la presentazione di memorie, di documenti e in taluni casi anche attraverso l’audizione personale, e ciò a tutela dei propri interessi che sono suscettibili di essere pregiudicati dall’emanando provvedimento amministrativo; consentire all’amministrazione di acquisire informazioni utili ai fini dell’emanazione del provvedimento (o anche, nel caso delle autorità indipendenti preposte a particolari settori di imprese, degli atti di regolazione, colmando così almeno in parte le asimmetrie informative tra soggetto regolatore e imprese regolate).

La procedimentalizzazione costituisce, in realtà, la modalità ordinaria di esercizio di tutte le funzioni pubbliche corrispondenti ai tre poteri dello Stato, in considerazione delle esigenze di accentuare la trasparenza (in funzione di accountability, cioè di controllo e di responsabilità) e di garantire meglio la tutela dei soggetti interessati di fronte ad atti che sono espressione diretta dell’autorità dello Stato. La funzione legislativa assume le forme del procedimento legislativo, disciplinato in gran parte dai regolamenti parlamentari e finalizzato alla emanazione di atti con “ forza o valore di legge”; la funzione giurisdizionale assume la forma del processo, la cui disciplina si ritrova nei vari codici processuali e si conclude con una sentenza dotata dell’“autorità del giudicato”; la

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funzione amministrativa si esplica nel procedimento amministrativo, che si conclude un provvedimento dotato di “autoritarietà” o “ imperatività”. Nel diritto privato, invece, l’attività che precede l’adozione di atti negoziali è tendenzialmente irrilevante per il diritto (anche se talora può dar origine a responsabilità precontrattuale ai sensi dell’art. 1337 cod. civ.) e resta relegata alla sfera interna del soggetto, sia esso persona fisica o persona giuridica.

3. Il rapporto giuridico amministrativo. I diritti potestativi e il potere amministrativo.

La funzione di amministrazione attiva pone la pubblica amministrazione titolare di un potere in una situazione di tipo relazionale con i soggetti privati nella cui sfera giuridica ricadono gli effetti del provvedimento emanato. Peraltro, solo in epoca relativamente recente ha trovato un riconoscimento, anche in giurisprudenza, la nozione di rapporto giuridico amministrativo che intercorre tra la pubblica amministrazione che esercita un potere e il soggetto privato titolare di un interesse legittimo. Nella visione tradizionale, infatti, lo Stato era concepito come un’entità collocata in una posizione di sovraordinazione istituzionale rispetto ai soggetti privati relegati nella posizione di amministrati o di sottoposti (Untertan), tale da escludere la configurabilità di vincoli giuridici bilaterali.

In una concezione meno autoritaria e più conforme all’ideale dello Stato di diritto, potere amministrativo e interesse legittimo possono essere ricostruiti come i termini dialettici (ciascuno, allo stesso tempo, come si vedrà, attivo e passivo) di una relazione giuridica bilaterale.

Occorre però definire con più precisione i caratteri di una siffatta relazione che, come ogni relazione di vita riconosciuta dall’ordinamento giuridico, costituisce, in un’accezione ancora generica, un rapporto giuridico (A. TRABUCCHI).

Conviene muovere da alcuni concetti di base, usualmente esposti nei manuali di diritto privato allo scopo di inquadrare la varietà dei rapporti giuridici di diritto comune.

I rapporti giuridici interprivati vengono ricostruiti, com’è noto, partendo dalla coppia diritto soggettivo-obbligo, i cui termini si imputano rispettivamente al soggetto attivo e passivo del rapporto. Secondo le definizioni tradizionali, il diritto soggettivo consiste in un potere di agire

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(agěre licěre), riconosciuto e garantito dall’ordinamento giuridico, per soddisfare un proprio interesse. Il diritto soggettivo include in sé una serie di facoltà che ne costituiscono l’estrinsecazione (godimento della cosa, jus escludendi alios, ecc.).

Alla titolarità del diritto soggettivo corrisponde, in capo al soggetto passivo del rapporto giuridico, a seconda dei casi: un dovere generico e negativo di astensione, cioè di non interferire o turbare l’esercizio del diritto (diritti assoluti, come i diritti reali e della personalità); oppure un vero e proprio obbligo giuridico, cioè il dovere specifico e positivo di porre in essere un determinato comportamento o attività (prestazione) a favore del titolare del diritto (diritti relativi, come i diritti di credito), cui corrisponde dal lato del soggetto attivo una pretesa, cioè il potere di esigere la prestazione.

Accanto alla coppia fondamentale diritto soggettivo-obbligo, che è tipica dei rapporti di tipo paritario tra soggetti che agiscono nell’esercizio della loro capacità negoziale, il diritto privato conosce altri tipi di situazioni giuridiche e di relazioni che ci avvicinano alla dinamica del rapporto amministrativo, caratterizzato invece dalla sussistenza di una relazione non paritaria (sovra-sottordinazione) tra la pubblica amministrazione che esercita il potere e il titolare dell’interesse legittimo.

Per un verso, infatti, viene individuata una situazione giuridica soggettiva attiva, la potestà, che, a differenza di quanto accade per il diritto soggettivo, è attribuita al singolo soggetto per il soddisfacimento, anziché di un interesse proprio, di un interesse altrui. Si tratta cioè di un potere-dovere, nel senso che il soggetto è tenuto a esercitare la situazione giuridica attiva secondo criteri non già di “pieno”, bensì di “prudente arbitrio” e, nel farlo, deve perseguire la finalità della cura dell’interesse altrui (nel diritto di famiglia, tipicamente, la potestà genitoriale). Come si è già accennato, anche il potere amministrativo è finalizzato al perseguimento di un fine pubblico etero-imposto dalla legge, che è diverso e distinto da quello proprio del soggetto agente. Da qui i caratteri della doverosità e della non arbitrarietà dell’esercizio del potere.

Per altro verso, una particolare categoria di diritti soggettivi è costituita dal diritto potestativo, che consiste nel potere di produrre un effetto giuridico con una propria manifestazione unilaterale di volontà. Ciò sul presupposto di una prevalenza attribuita dalla norma all’interesse del titolare del potere rispetto a quello del soggetto che subisce una modificazione nella propria sfera giuridica. Quest’ultimo si trova in uno stato definito tecnicamente di soggezione, ovvero nella posizione di chi

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subisce passivamente, cioè indipendentemente dalla propria volontà e senza che gli sia richiesta alcuna attività, le conseguenze della dichiarazione di volontà altrui.

Tra i casi più tipici di diritto potestativo nei rapporti interprivati possono essere ricordati il diritto di prelazione (art. 732 cod. civ. nei rapporti tra coeredi), il diritto di recesso (art. 1373), il diritto di riscatto nella compravendita (art. 1500 cod. civ.), la revoca del mandato (art. 1723 cod. civ.), il diritto di chiedere la comunione forzosa di un muro di confine (art. 874 cod. civ.). L’unilateralità nella produzione degli effetti costitutivi, modificativi o estintivi di una situazione giuridica altrui costituisce una caratteristica anche dei poteri amministrativi.

Il diritto potestativo rappresenta una particolare tecnica o modalità di produzione degli effetti giuridici nei rapporti intersoggettivi che vale, più in generale, anche per il potere amministrativo. Conviene pertanto approfondire il tema tenendo conto anche delle elaborazioni di teoria generale, soprattutto ad opera della dottrina processualcivilistica (A. PROTO PISANI, S. MENCHINI, C. CONSOLO).

La produzione degli effetti giuridici segue usualmente lo schema norma-fatto-effetto giuridico. Il modo di operare di un siffatto schema, che è tipico delle relazioni ricostruibili in termini di diritto soggettivo-obbligo, può essere così delineato. La norma (definita usualmente norma di relazione) individua in termini astratti gli elementi della fattispecie e l’effetto giuridico che ad essa si ricollega, ponendo direttamente essa stessa la disciplina degli interessi in conflitto in relazione a un determinato bene. Tutte le volte che nella vita economica e sociale si verifica un fatto concreto che è sussumibile nella fattispecie normativa si produce, in modo automatico, un effetto giuridico.

Così, per esempio, l’art. 2043 cod. civ. individua gli elementi costitutivi del fatto illecito dal quale consegue, come effetto giuridico, il sorgere dell’obbligo di risarcire il danno. Se nei rapporti di vicinato, il proprietario di un appartamento causa un danno all’appartamento sottostante in seguito alla rottura di un tubo dell’acqua questo accadimento, che integra tutti gli elementi della fattispecie dell’illecito extracontrattuale, fa sorgere in capo all’investitore l’obbligo di risarcire il danno. Parimenti, l’art. 922 cod. civ. contempla, tra i modi tipici di acquisto della proprietà, l’occupazione, definita a livello di fattispecie dall’art. 923 cod. civ.: se una persona si imbatte in una cosa mobile abbandonata, il fatto in sé del rinvenimento e dell’apprensione determina come effetto giuridico l’acquisto di un diritto di proprietà.

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Il diritto conosce anche un’altra tecnica di produzione degli effetti che segue lo schema norma-fatto-potere-effetto giuridico. Questa sequenza si differenzia da quella sopra esaminata poiché viene meno l’automatismo nella produzione dell’effetto giuridico. Infatti, il verificarsi di un fatto concreto conforme alla norma (cosiddetta norma di azione) determina in capo a un soggetto (il titolare del potere) la possibilità di produrre l’effetto giuridico individuato a livello di fattispecie normativa attraverso una propria dichiarazione unilaterale di volontà. Tra il fatto e l’effetto giuridico si interpone cioè un elemento aggiuntivo, il potere, e il titolare di quest’ultimo è pienamente libero di decidere se provocare con una propria manifestazione di volontà l’effetto giuridico tipizzato dalla norma (potere sull’an). E’ questo lo schema proprio del diritto potestativo che vale per gli esempi già indicati.

La dottrina processualcivilistica ha elaborato questa controversa figura di situazione giuridica soggettiva per inquadrare la tutela di tipo costitutivo che si aggiunge a quella di accertamento e di condanna. Si distinguono due tipologie di diritti potestativi: i diritti potestativi stragiudiziali (Gestaltungsrechte, detti anche poteri formativi stragiudiziali) e i diritti potestativi a necessario esercizio giudiziale (Gestaltungsklagerechte, detti anche diritti potestativi ad attuazione giudiziaria).

Nel primo caso la produzione dell’effetto giuridico tipico discende in modo diretto dalla manifestazione di volontà del titolare del potere. Si tratta dunque di un potere unilaterale e autosufficiente. Nel secondo caso il prodursi dell’effetto giuridico tipico presuppone un previo accertamento giudiziale, in aggiunta alla dichiarazione di volontà del titolare del potere, che verifichi la sussistenza nella fattispecie concreta degli elementi previsti in astratto a livello di fattispecie normativa.

Un esempio del primo tipo è il potere del datore di lavoro di licenziare un dipendente per giusta causa o per giustificato motivo (ai sensi della legge 15 luglio 1966, n. 604); come esempio del secondo tipo, possono essere richiamati la separazione giudiziale tra coniugi (art. 151 cod. civ.), il disconoscimento della paternità (art. 244 cod. civ.), l’annullamento del contratto (art. 1441 cod. civ.).

A queste situazioni si riferisce l’art. 2908 cod. civ. dedicato alla tutela costitutiva, secondo il quale, nei casi tassativi previsti dalla legge, l’autorità giudiziaria può emanare una sentenza volta a costituire, modificare o estinguere rapporti giuridici con effetto tra le parti.

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Anche per i diritti potestativi del primo tipo è prevista una fase di verifica giurisdizionale che, tuttavia, presenta due caratteristiche: è posticipata rispetto alla produzione dell’effetto giuridico; l’iniziativa processuale grava su colui nella cui sfera giuridica si è prodotto l’effetto giuridico. Questa seconda peculiarità determina una inversione tra posizione sostanziale e posizione processuale delle parti: il soggetto passivo nel rapporto sostanziale (che si trova in uno stato di soggezione) diventa parte attiva (nella veste di attore) nel rapporto processuale ed è dunque gravato dell’onere di contestare il prodursi dell’effetto giuridico che altrimenti si consolida; viceversa, il soggetto attivo nel rapporto sostanziale (titolare del potere) diventa parte passiva (nella veste di convenuto) nel rapporto processuale.

Così, nell’esempio del licenziamento, il dipendente può impugnare il licenziamento entro sessanta giorni dalla ricezione della comunicazione allo scopo di far accertare l’assenza della giusta causa o del giustificato motivo e ottenere dal giudice una pronuncia di condanna del datore di lavoro alla sua riassunzione o al risarcimento del danno (artt. 6 e 8 della l. n. 604/1966).

La seconda tipologia di diritti potestativi, grazie al preventivo accertamento giurisdizionale in contraddittorio tra le parti, tutela meglio gli interessi di colui che subisce in modo passivo il prodursi nella propria sfera giuridica dell’effetto tipico. Ha però come controindicazione la perdita di immediatezza nella produzione dell’effetto giuridico dovuta al tempo necessario per lo svolgimento del processo, determinando dunque un maggior intralcio nei traffici giuridici. Spetta al legislatore calibrare attentamente caso per caso quando prevalga l’uno o l’altro interesse.

Il potere amministrativo può essere ricondotto allo schema del diritto potestativo del primo tipo. Infatti, la produzione dell’effetto giuridico discende in modo immediato dalla dichiarazione di volontà dell’amministrazione che emana il provvedimento. Inoltre, l’accertamento giurisdizionale può avvenire solo in via posticipata, cioè in seguito alla proposizione di un ricorso giurisdizionale innanzi al giudice amministrativo su iniziativa del soggetto privato nella cui sfera giuridica l’atto impugnato ha prodotto l’effetto.

Nel caso del potere amministrativo questo schema trova giustificazione nell’esigenza, ritenuta prevalente, di garantire l’immediata realizzazione dell’interesse pubblico la cui cura è affidata all’amministrazione. Inoltre, poiché essa, in base alla l. n. 241/1990, è tenuta ad ispirare la propria attività a criteri di correttezza, imparzialità e trasparenza e al principio di

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partecipazione, la posizione dei soggetti destinatari del provvedimento trova già una qualche tutela nella fase procedimentale, cioè prima che l’effetto giuridico si sia prodotto.

Sussistono tuttavia alcune specificità del potere amministrativo rispetto allo schema del diritto potestativo e in particolare di quello stragiudiziale.

Anzitutto, nei rapporti interprivati, il diritto postestativo stragiudiziale trova usualmente un fondamento consensuale di tipo pattizio. Così, per esempio, nella compravendita di regola il diritto di riscatto può essere esercitato solo se viene pattiziamente convenuto (art. 1500 cod. civ.). Anche il potere di licenziamento trova un fondamento consensuale nel contratto di lavoro che, almeno da un punto di vista strettamente giuridico, entrambe le parti erano libere di stipulare. In definitiva, l’unilateralità e l’immediatezza nella produzione dell’effetto giuridico trovano un temperamento nel fondamento in ultima analisi consensuale del potere.

Inoltre, nei rapporti privati la fattispecie normativa che disciplina il diritto potestativo determina in modo rigido l’effetto giuridico che può essere prodotto attraverso la dichiarazione di volontà del titolare del diritto. Il potere e l’effetto giuridico sono cioè interamente vincolati. Il solo ambito di scelta riconosciuto al titolare del diritto attiene al se esercitarlo (potere sull’an). E’ la norma stessa, pertanto, a porre in essere, in termini astratti, la disciplina degli interessi e ad operare la composizione tra i medesimi. Ne consegue, anticipando questioni che saranno approfondite nella parte dedicata alla tutela giurisdizionale, che, in presenza di una contestazione, il giudice potrà operare una propria valutazione autonoma sul se nella fattispecie concreta si erano verificati tutti i fatti e le altre condizioni che la norma prevede come necessari perché il potere sorga e possa essere legittimamente esercitato.

Il potere amministrativo, invece, per un verso, trova fondamento diretto nella legge, cioè nella norma di conferimento del potere, piuttosto che nel consenso di colui nella cui sfera giuridica si produce l’effetto, e senza che sussista, di regola, un rapporto giuridico preesistente tra il soggetto privato e la pubblica amministrazione. Ciò risulta chiaro se si pensa, per esempio, al potere di espropriazione o a quello di rilasciare una concessione o altro titolo abilitativo, vicende nelle quali un primo contatto con l’amministrazione si instaura, come si vedrà, rispettivamente con la comunicazione di avvio del procedimento o con la proposizione dell’istanza. In ogni caso, solo in senso figurato si può ritenere che la legge abbia un fondamento in ultima analisi consensuale, per il fatto cioè

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che, nei regimi parlamentari democratici, essa è approvata dai rappresentanti degli elettori (ovvero, per quel che qui rileva, anche di coloro sui quali possono ricadere gli effetti dei provvedimenti amministrativi).

Per altro verso, il potere conferito dalla legge alla pubblica amministrazione non è sempre integralmente vincolato. Anzi, di regola, all’amministrazione sono attribuiti margini più o meno ampi di apprezzamento e valutazione discrezionale che, come si vedrà, possono determinare una modulazione degli effetti del provvedimento emanato. La disciplina degli interessi in conflitto in ordine ai beni non è posta, dunque, integralmente e direttamente dalla norma, ma quest’ultima rimette almeno una parte della determinazione dell’assetto finale degli interessi al soggetto titolare del potere. Ne consegue, anticipando anche qui temi di tipo processuale, che in presenza di una contestazione relativa all’atto di esercizio del potere, il giudice potrà operare un sindacato pieno soltanto per gli aspetti vincolati del potere e non potrà sostituirsi al titolare del potere nell’operare la valutazione discrezionale. Accertato che il potere è stato esercitato in modo non corretto, dovrà limitarsi ad annullare il provvedimento emanato rimettendo all’amministrazione il compito di emanare un nuovo atto, esente dai vizi riscontrati, che operi una corretta composizione degli interessi.

4. Il potere amministrativo e la norma d’azione.

Conviene a questo punto prendere in considerazione in modo più specifico il potere amministrativo esaminando anzitutto la struttura della norma attributiva del potere (norma d’azione).

La distinzione tra norma di azione e norma di relazione ha una lunga tradizione nel diritto amministrativo (E. GUICCIARDI). Essa costituisce, come si vedrà, uno dei criteri tradizionali per distinguere l’interesse legittimo, tutelato dal primo tipo di norma, dal diritto soggettivo, che trova riconoscimento nel secondo tipo di norma.

In attuazione del principio di legalità che, come si è già sottolineato, costituisce il principio cardine nella teoria dell’atto e del procedimento amministrativo, la norma di azione individua, in termini astratti, gli elementi caratterizzanti il particolare potere (potere in astratto) attribuito ad un apparato pubblico: il soggetto competente; il fine pubblico; i presupposti e i requisiti; le modalità di esercizio del potere e i requisiti di forma; gli effetti giuridici.

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a) Quanto al soggetto compente, in un sistema amministrativo multilivello e articolato in una molteplicità e varietà di apparati, ogni potere amministrativo deve essere attribuito in modo specifico alla titolarità di uno e un solo soggetto e, ove l’organizzazione di questo si articoli in una pluralità di organi, a uno e un solo organo. La norma d’azione deve dunque individuarlo con precisione. L’atto emanato da un soggetto o organo diverso da quello previsto è affetto da vizio di incompetenza.

b) Il fine pubblico, correlato a quello che viene definito come l’interesse pubblico primario affidato alla cura dell’apparato amministrativo titolare del potere, costituisce un elemento che è specificato dalla norma di azione o che può essere ricavato implicitamente dalla legge che disciplina la particolare materia. L’amministrazione non è libera di esercitare il potere per il perseguimento di qualsivoglia finalità autodeterminata: il fine pubblico è eteroimposto dalla norma, nel senso che essa costituisce un vincolo che orienta le scelte effettuate in concreto dall’amministrazione e che condiziona, in ultima analisi, la legittimità del provvedimento emanato. Come si vedrà, la violazione del vincolo del fine, cioè il perseguimento da parte del provvedimento emanato di un fine (pubblico o privato) diverso da quello previsto dalla norma di azione, configura un vizio di eccesso di potere per sviamento.

c) Un terzo elemento posto dalla norma d’azione consiste nella individuazione dei presupposti e dei requisiti sostanziali in presenza dei quali il potere sorge e può essere esercitato (fatti costitutivi del potere). La loro sussistenza in concreto è una delle condizioni per l’esercizio legittimo del potere.

L’espressione “presupposti e requisiti di legge” è utilizzata in termini generali dall’art. 19 della l. n. 241/1990 ed è riferita alle autorizzazioni cosiddette vincolate che, come si vedrà, sono sostituite dalla cosiddetta segnalazione certificata d’inizio di attività (Scia), che consiste in una semplice comunicazione effettuata dal privato all’amministrazione contestuale all’avvio dell’attività.

Così, per fare un esempio più specifico, il Testo unico in materia edilizia (d.p.r. 6 giugno 2001, n. 380), a proposito del permesso di costruire, indica come presupposti la conformità del progetto alle previsioni degli strumenti urbanistici (in particolare il piano regolatore), dei regolamenti edilizi e in generale della disciplina urbanistico-edilizia vigente, nonché l’esistenza delle opere di urbanizzazione primaria o

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l’impegno a realizzarle (art. 12). Inoltre, prevede come requisito soggettivo che il permesso possa essere rilasciato a chi dimostri di essere proprietario dell’immobile o di avere altro titolo per richiederlo (ad esempio, la titolarità di un diritto di superficie) (art. 11).

Analogamente il Codice dei beni culturali e del paesaggio (d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42), a proposito della dichiarazione dell’interesse culturale di cose mobili o immobili appartenenti a privati dalla quale consegue un particolare regime vincolistico (art. 13), elenca in modo specifico i tipi di beni (raccolte librarie, archivi, collezioni, ecc.) e per ciascuno di essi individua le caratteristiche necessarie (in particolare cose mobili e immobili che presentino un “interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico particolarmente importante” oppure “un interesse particolarmente importante a causa del loro riferimento con la storia politica, militare, della letteratura, dell’arte e della cultura in genere, ovvero quali testimonianze dell’identità e della storia delle istituzioni pubbliche, collettive o religiose” (art. 10, comma 3).

A proposito dei presupposti e dei requisiti sostanziali, la questione più delicata è costituita dal grado di analiticità, pur nella necessaria astrattezza della fattispecie normativa, richiesto nella individuazione del loro contenuto. Infatti, a seconda delle espressioni linguistiche utilizzate, il potere attribuito può risultare più o meno ampiamente vincolato o, per converso, più o meno ampiamente discrezionale. Ciò lungo uno spettro che si sviluppa lungo una direttrice delimitata da due estremi.

Al primo estremo si collocano i poteri integralmente vincolati. In relazione ad essi l’amministrazione non ha altro compito che quello di verificare, in modo quasi meccanico, se nella fattispecie concreta siano rinvenibili tutti gli elementi indicati dalla norma di azione e, nel caso positivo, di emanare il provvedimento che produce gli effetti anch’essi rigidamente predeterminati dalla norma (per esempio, l’iscrizione a un albo professionale oppure il rilascio di un permesso a costruire in conformità alle prescrizioni del piano regolatore e del regolamento edilizio). Come si vedrà, si è dubitato in dottrina (E. CAPACCIOLI, A. ORSI BATTAGLINI)) che gli atti emanati nell’esercizio di poteri integralmente vincolati conservino la natura di atti autoritativi in senso proprio. Essi potrebbero essere considerati come una mera applicazione di una disciplina esterna, e dunque sarebbero inidonei ad imporre alcuna prescrizione che non sia già ricavabile dalla norma.

Al secondo estremo si pongono i poteri sostanzialmente “in bianco” (per esempio, le cosiddette ordinanze di necessità e di urgenza già

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esaminate) che rimettono al soggetto titolare del potere spazi pressoché illimitati di apprezzamento e di valutazione delle fattispecie concrete e di determinazione delle misure necessarie per tutelare un determinato interesse pubblico (ordine pubblico, sanitario, ecc.). Essi sembrano derogare, come si è già accennato, al principio di tipicità dei poteri amministrativi.

La discrezionalità emerge allorché la norma di azione autorizza ma non obbliga l’amministrazione a emanare un certo provvedimento. Ciò accade anzitutto quando il legislatore utilizza formule linguistiche come “può” oppure “ha la facoltà” (contenuta, per esempio, nel r.d. 18 giugno 1931, n. 773 recante il Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza) con riferimento ai poteri ordinatori e di rilascio di licenze, come il porto d’armi) oppure aggettivazioni come “opportuno”, “indispensabile”, “conveniente” e simili che rinviano a valutazioni necessariamente soggettive dell’interesse pubblico.

In generale, gli spazi di valutazione dei fatti costitutivi del potere sono tanto più ampi quanto più la norma d’azione fa ricorso ai cosiddetti “concetti giuridici indeterminati” (unbestimmte Rechtsbegriffe), espressione che di recente ha trovato ingresso nella giurisprudenza italiana. La norma definisce cioè i presupposti e i requisiti con formule linguistiche tali da non consentire di accertare in modo univoco il loro verificarsi in concreto. Come esempi possono valere le espressioni utilizzate dal legislatore quali: un interesse storico-artistico “particolarmente importante” che legittima l’imposizione del regime vincolistico (nell’esempio tratto dal Codice dei beni culturali sopra citato); oppure un’intesa tra imprese che falsi il gioco della concorrenza “ in maniera consistente” e che comporti l’applicazione di una sanzione (art. 2 della legge antitrust n. 287/1990); il carattere “anomalo” di un’offerta presentata nell’ambito di una procedura di gara per l’aggiudicazione di un contratto che conduce alla esclusione della medesima.

I concetti giuridici indeterminati possono essere suddivisi in due categorie: i concetti empirici o descrittivi (empirische Begriffe) che si riferiscono al modo di essere di una situazione di fatto (come, per esempio, l’“intralcio alla circolazione”, la “pericolosità” di un edificio lesionato, il carattere “epidemico” di una malattia, ecc.) e i concetti normativi o di valore (normative Begriffe o Wertbegriffe) che contengono un ineliminabile elemento di soggettività (come, per esempio, un film o uno spettacolo “adatto” al pubblico dei minori, oppure una persona “in

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stato di bisogno”, una condotta contraria alla “moralità pubblica”). I primi involgono giudizi a carattere tecnico-scientifico e coprono, come si vedrà, l’area delle valutazioni tecniche; i secondi involgono giudizi di valore e coprono, come si vedrà, l’area della discrezionalità amministrativa. Con riguardo ai primi l’indeterminatezza rende problematica la sussunzione della fattispecie concreta nel parametro normativo; con riguardo ai secondi è, a monte, la stessa interpretazione in astratto del parametro normativo a presentare margini di opinabilità elevati.

In generale, si ritiene che i concetti giuridici indeterminati presentino un “nocciolo” di certezza, perché in una determinata situazione concreta non vi è dubbio se essa possa essere sussunta o meno nel parametro normativo, e un “alone” di incertezza, trattandosi di situazioni limite nelle quali una siffatta opera di sussunzione è assai incerta e opinabile.

Un esempio sul quale si appuntò l’attenzione di Walter Jellinek, uno dei maggiori giuristi giuspubblicisti tedeschi della fine del XIX secolo, ancora attuale per la sua nitidezza, è quello di un regolamento di polizia del Baden che vietava agli zingari di viaggiare “in orde”, senza che la norma ponesse alcuna indicazione numerica. L’applicazione di una siffatta norma si scontra dunque con la difficoltà di individuare in concreto i casi che possono essere in essa sussunti. Se è certo che una famiglia di tre o quattro persone non integra mai la fattispecie (certezza negativa), è altrettanto certo che un gruppo di cinquanta o più persone la integrano sempre (certezza positiva). Il concetto giuridico indeterminato presenta, quindi, un doppio limite negativo e positivo. La difficoltà sta però nell’individuare con precisione dove tali limiti vadano tracciati e, dunque, dove si trapassa dal giudizio certo (di tipo assertorio) a quello problematico.

Sorge così il problema delicato di chi abbia il “diritto di ultima decisione” (Letztentscheidungsrecht), e cioè se ed entro quali limiti le valutazioni compiute dall’amministrazione in sede di interpretazione e di applicazione dei concetti giuridici indeterminati possano essere sindacate dal giudice. Non è infatti scontato, come si vedrà, quanto “deferente” deve essere l’atteggiamento di quest’ultimo rispetto alla prima ove si rientri nell’“alone” di incertezza o del “dubbio possibile”.

La tecnica normativa dei concetti giuridici indeterminati, nei limiti in cui concedono all’amministrazione spazi di valutazione e di decisione non sindacabili, comporta inevitabilmente una caduta del valore della legalità sostanziale. Invero, in un mondo ideale che realizzi al massimo grado lo

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Stato di diritto, i poteri amministrativi dovrebbero essere integralmente vincolati.

Tuttavia un siffatto ideale è irraggiungibile perché presuppone l’onniscienza del legislatore e la sua capacità di intervenire in modo tempestivo ad aggiornare le norme vigenti. In realtà, di fronte alla complessità crescente dei fenomeni economici e sociali e alla rapidità dei cambiamenti, il Parlamento è sempre meno in grado, come si è accennato, di porre un sistema completo e preciso di regole che definiscano per ogni possibile evento futuro l’assetto degli interessi. E’ dunque in qualche misura costretto a delegare ad apparati pubblici, appunto secondo la tecnica della norma d’azione attributiva di poteri, ambiti più o meno ampi di valutazione di fatti e di interessi e di composizione dei conflitti tra questi ultimi.

Anche in ambito civilistico, del resto, i codici hanno abbandonato da tempo il metodo casistico, caratterizzato dalla definizione minuziosa delle fattispecie10 e rivelatosi comunque incapace di disciplinare la varietà pressoché infinita delle fattispecie che si presentano nella vita economica e sociale, per adottare quello più elastico delle clausole generali.

d) La norma di azione prescrive anche i requisiti formali degli atti (di regola la forma scritta) e le modalità di esercizio del potere, individuando la sequenza degli atti e degli adempimenti necessari per l’emanazione del provvedimento finale che danno origine al procedimento amministrativo. Quest’ultimo è stato definito (F. BENVENUTI) come forma o manifestazione sensibile della funzione, cioè della trasformazione del potere in astratto in un atto produttivo di effetti nella sfera giuridica di un determinato soggetto (potere in concreto). La struttura del procedimento è individuata, attraverso sequenze più o meno complesse e articolate in atti e in adempimenti, nelle singole leggi amministrative di settore e nelle normative attuative, integrate con i principi generali posti dalla l. n. 241/1990.

Va anticipato altresì che, ai sensi dell’art. 21-octies della l. n. 241/1990, l’inosservanza delle norme sul procedimento o sulla forma degli atti non determina in modo automatico l’annullabilità del provvedimento per violazione di legge, essendo richiesto di valutare se essa abbia influito o meno sul contenuto dispositivo del provvedimento adottato in concreto. Se quest’ultimo, in assenza della violazione, non

10 Si pensi, ad esempio, ai 61 articoli sul regime delle pertinenze oppure ai 250 articoli in

tema di possesso contenuti nel codice prussiano del 1794.

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avrebbe potuto essere comunque diverso, il provvedimento adottato non è annullabile.

e) La norma d’azione può disciplinare anche l’elemento temporale dell’esercizio del potere e ciò sotto due profili. Può in primo luogo individuare un termine per l’avvio dei procedimenti d’ufficio. Così, per esempio, nei procedimenti sanzionatori, una volta accertata una violazione, l’amministrazione ha un termine di 90 giorni per notificare l’atto di contestazione e il mancato rispetto del termine determina l’estinzione dell’obbligazione di pagare la somma dovuta (art. 14 della legge 24 novembre 1981, n. 689). In secondo luogo individua il termine massimo entro il quale, una volta avviato il procedimento, l’amministrazione deve emanare il provvedimento conclusivo. Come si vedrà, l’art. 2 della l. n. 241/1990 pone un sistema di regole articolato volta a individuare per tutti i tipi di procedimenti il termine in questione, attuando così il principio di certezza del tempo dell’agire della pubblica amministrazione. La norma d’azione (cioè le singole leggi amministrative) scandiscono talora anche i tempi per l’adozione degli atti endoprocedimentali. Così, per esempio, la l.n. 241/1990 prevede che gli organi consultivi dell’amministrazione debbano rendere i pareri richiesti entro un termine generale di venti giorni (art. 16) e che gli organi tecnici debbano esprimere le valutazioni richieste entro novanta giorni (art. 17).

f) Infine la norma d’azione individua in termini astratti gli effetti giuridici che l’atto amministrativo può produrre una volta emanato all’esito del procedimento.

I provvedimenti amministrativi, proprio perché correlati a poteri che possono essere inclusi, come si è visto, nella categoria generale dei diritti potestativi stragiudiziali, hanno l’attitudine a produrre effetti costitutivi, cioè possono costituire, modificare o estinguere situazioni giuridiche di cui sono titolari i destinatari dei provvedimenti. Si tratta cioè degli stessi tipi di effetti indicati dall’art. 2908 cod. civ. che disciplina le sentenze costitutive correlate ai diritti potestativi a necessario esercizio giudiziale. Si tratta anche degli stessi tipi di effetti che i soggetti privati possono produrre attraverso un contratto, che è appunto uno strumento negoziale volto a “costituire, regolare o estinguere (…) un rapporto giuridico patrimoniale” (art. 1321 cod. civ.).

Come esempi di provvedimenti con effetti costitutivi in senso stretto possono essere richiamate le concessioni amministrative per l’uso esclusivo di un bene demaniale (per esempio per l’installazione e la gestione di uno stabilimento balneare) che attribuiscono in capo a un

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soggetto privato un diritto soggettivo a svolgere una certa attività.

Come esempi di provvedimenti con effetti modificativi possono valere l’irrogazione di una sanzione disciplinare di sospensione dall’iscrizione ad un albo professionale che impedisce per un tempo determinato lo svolgimento dell’attività; oppure il provvedimento con il quale la Banca d’Italia, nelle sue vesti di organo di vigilanza sugli istituti di credito, dispone la messa in liquidazione di una banca in relazione alla quale sia accertato uno stato di insolvenza.

Come esempio di provvedimento con effetti estintivi può essere considerato il provvedimento di espropriazione che fa venir meno in capo al proprietario del bene immobile il diritto di proprietà la cui titolarità viene trasferita alla pubblica amministrazione o ad altro soggetto in favore del quale il procedimento di espropriazione è stato attivato.

5. Il potere discrezionale.

Nel paragrafo che precede, analizzando la struttura della norma d’azione si è introdotta la distinzione tra potere vincolato e potere discrezionale. La discrezionalità, che può essere riferita, oltre che al potere, anche all’attività e al provvedimento amministrativo e che costituisce la nozione forse più caratteristica del diritto amministrativo, si rinviene in realtà anche in altri ambiti del diritto pubblico. Si parla infatti comunemente di discrezionalità del legislatore (rilevante nell’ambito del giudizio di costituzionalità delle leggi in base al parametro della ragionevolezza delle scelte legislative in relazione al principio di eguaglianza) e di discrezionalità del giudice (con riguardo soprattutto ai cosiddetti poteri di giurisdizione volontaria e alla determinazione della pena da parte del giudice penale).

a) La discrezionalità.

Nel diritto amministrativo la discrezionalità connota l’essenza stessa dell’amministrare, cioè della cura in concreto degli interessi pubblici. Tale attività presuppone che l’apparato titolare del potere abbia la possibilità di scegliere la soluzione migliore nel caso concreto. Anche a livello intuitivo, un amministratore che, nella pubblica amministrazione così come anche nelle organizzazioni private (si pensi soprattutto ad un’impresa), sia privo margini di manovra e di ambiti di decisione sotto la propria responsabilità, è quasi una contraddizione in termini. Com’è stato

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detto in modo efficace, “gouverner est choisir”.

Emerge qui una tensione quasi insanabile con il principio di legalità inteso in senso sostanziale che nella sua accezione più estrema porterebbe ad attribuire all’amministrazione soltanto poteri vincolati.

Ma ciò, oltre ad essere impossibile per le ragioni illustrate nel paragrafo che precede, finirebbe per negare in radice la stessa ragion d’essere della pubblica amministrazione in quanto appunto “esperta” nella cura e nella gestione dell’interesse pubblico.

Infatti, allorché il potere è integralmente vincolato, a rigore, i soggetti privati sono in grado di valutare da soli se una certa attività o un certo comportamento sono ad essi consentiti. Si spiega così perché, come si vedrà, l’art. 19 della l. n. 241/1990 abbia introdotto per molte autorizzazioni vincolate (“il cui rilascio dipenda esclusivamente dall’accertamento dei requisiti e presupposti di legge”) un regime di liberalizzazione. La disposizione infatti sostituisce il regime del controllo preventivo operato dall’amministrazione nell’ambito del procedimento autorizzatorio avviato su istanza di parte con il regime della segnalazione certificata d’inizio di attività (Scia): il privato autovaluta se ha titolo per svolgere una certa attività, la intraprende sulla base di una semplice comunicazione all’amministrazione (corredata di un’autocertificazione), mentre il controllo da parte di quest’ultima sulla conformità dell’attività alla legge può avvenire soltanto a posteriori.

Inoltre, se il potere è vincolato, la stessa funzione dell’atto amministrativo cambia. Infatti si potrebbe sostenere che, allorché nella vita economica e sociale si verifica un accadimento (o episodio della vita) che integra gli estremi della norma di conferimento del potere, l’effetto giuridico sorge automaticamente, cioè senza l’intermediazione necessaria di un atto amministrativo che accerti la sussumibilità della fattispecie concreta nella fattispecie normativa astratta e determini il prodursi dell’effetto giuridico. L’atto amministrativo avrebbe dunque natura meramente dichiarativa e non costitutiva. Questa ricostruzione è accolta nel settore del diritto tributario nel quale si ritiene che l’obbligazione tributaria, ricollegata a presupposti vincolati, sorga a prescindere dall’emanazione di un atto di accertamento del tributo da parte dell’amministrazione finanziaria. Anche con riferimento alle sanzioni amministrative pecuniarie la giurisprudenza della Corte di Cassazione afferma, da tempo, che l’obbligazione al pagamento della somma di danaro non sorge per effetto dell’emanazione del provvedimento che irroga la sanzione (ordinanza-ingiunzione) e che il giudizio di

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opposizione ha per oggetto non già la legittimità del provvedimento e del procedimento sanzionatorio, bensì direttamente il rapporto sanzionatorio e la pretesa creditoria dell’amministrazione11.

Se dunque, per le ragioni sin qui esposte, i veri poteri sono quelli discrezionali, sorge il problema teorico e pratico di come conciliare l’esigenza di attribuire all’amministrazione quel tanto di discrezionalità che consente la flessibilità necessaria per gestire i problemi della collettività con quella di evitare che la discrezionalità si traduca in arbitrio.

E su questo punto emerge una differenza rispetto al diritto privato nel quale l’autonomia negoziale (art. 1322 cod. civ.) è espressione della libertà dei privati di provvedere alla cura dei propri interessi. Ove si mantengano nei limiti del lecito, le scelte dei privati non sono assoggettate a regole e principi particolari volti a guidare la formazione della volontà e sono insindacabili. Basta cioè che il soggetto privato sia pienamente capace (art. 1425 cod. civ.) e che la sua volontà non sia affetta da vizi (art. 1427 cod. civ.). Il fine concretamente perseguito dal soggetto privato è relegato alla sfera interna di quest’ultima ed è insindacabile. Se la scelta operata è irragionevole, arbitraria, o anche contraria ai suoi veri interessi, ciò non inficia di per sé il negozio posto in essere.

L’amministrazione titolare di un potere invece ha un ambito di libertà più ristretto, in quanto la scelta tra una pluralità di soluzioni può avvenire, non solo nel rispetto dei limiti per così dire esterni posti dalla norma d’azione e dei principi generali dell’azione amministrativa, ma anche nel rispetto di un vincolo per così dire interno consistente nel dovere di perseguire il fine pubblico. Queste regole sono ora enunciate nell’art. 1 della l. n. 241/1990 secondo il quale, come si è visto, l’attività amministrativa “persegue i fini determinati dalla legge” ed è retta, in particolare, dai criteri “di imparzialità, di pubblicità e di trasparenza”.

E’ dunque superata, ormai da lungo tempo, la teoria ottocentesca di origine francese che sottraeva integralmente l’ambito della discrezionalità (acte discretionnaire ou de pure administration) al sindacato da parte del giudice. Quest’ultimo ha anzi sviluppato tecniche sempre più sofisticate di sindacato (in particolare, come si vedrà, attraverso le figure sintomatiche dell’eccesso di potere) in applicazione di principi quali la

11 Cfr. Cass. SS.UU. 28 gennaio 2010, n. 1786.

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ragionevolezza, la proporzionalità, la par condicio, la tutela del legittimo affidamento.

La discrezionalità amministrativa non trova una definizione legislativa, anche se è richiamata direttamente o indirettamente in alcune disposizioni generali. Così, l’art. 11 della l. n. 241/1990, nel porre la disciplina degli accordi tra l’amministrazione procedente e i privati, specifica che essi hanno per oggetto “il contenuto discrezionale del provvedimento”. L’art. 21-octies della medesima legge pone un limite all’annullabilità del provvedimento affetto da vizi del procedimento o della forma allorché esso abbia “natura vincolata” (secondo comma).

Anche il Codice del processo amministrativo, a proposito del giudizio avverso il silenzio della pubblica amministrazione (ovvero, come si vedrà, dell’atteggiamento inerte dell’amministrazione nei confronti di una istanza o domanda del privato volta al rilascio di un atto amministrativo), chiarisce che il giudice può conoscere la fondatezza della pretesa del ricorrente a ottenere un provvedimento favorevole richiesto “solo quando si tratta di attività vincolata o quando risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità” (art. 31, comma 3). Quest’ultima disposizione è espressione della regola processuale, coerente con il principio della separazione dei poteri, secondo la quale nell’ambito del giudizio di legittimità il giudice non può mai sostituire le proprie valutazioni di merito a quelle dell’amministrazione.

Volendo porre una definizione di discrezionalità amministrativa, essa consiste, secondo una delle ricostruzioni più note (M. S. GIANNINI), nel margine di scelta che la norma rimette all’amministrazione affinché essa possa individuare, tra quelle consentite, la soluzione migliore per curare nel caso concreto l’interesse pubblico.

La scelta avviene attraverso una valutazione comparativa (ponderazione) degli interessi pubblici e privati rilevanti nella fattispecie, acquisiti nel corso dell’istruttoria procedimentale. Tra di essi vi è anzitutto il cosiddetto interesse pubblico primario (corrispondente al fine pubblico) individuato dalla norma d’azione e affidato alla cura dell’amministrazione titolare del potere. Compito di quest’ultima è massimizzare la realizzazione dell’interesse primario.

Tuttavia, poiché gli interessi non vivono isolati nell’ordinamento, l’interesse primario deve essere messo a confronto e valutato alla luce dei cosiddetti interessi secondari rilevanti.

In alcuni casi essi sono individuati direttamente dalle norme che

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disciplinano il particolare tipo di procedimento, come, per esempio, quando la legge prescrive che debba essere acquisito il parere di un’amministrazione diversa da quella procedente. Altri emergono nel corso dell’istruttoria.

Tra gli interessi secondari si annoverano non soltanto gli altri interessi pubblici incisi dal provvedimento, ma anche gli interessi dei privati i quali possono partecipare al procedimento proprio allo scopo di poter rappresentare il proprio punto di vista con la presentazione di memorie e di documenti che l’amministrazione ha l’obbligo di valutare (art. 10 della l. n. 241/1990).

Così, per esempio, per decidere e approvare il progetto di una tratta ferroviaria ad alta velocità, l’amministrazione deve tener conto, oltre che dell’interesse primario alla viabilità, anche di quello relativo alla tutela dell’ambiente (garantita attraverso la cosiddetta valutazione d’impatto ambientale), agli oneri a carico della finanza pubblica, alla salvaguardia di attività industriali già insediate, agli interessi delle comunità locali che dalla realizzazione dell’opera pubblica ritraggono soltanto svantaggi (da attenuare con misure compensative), ecc. Nel rilasciare una concessione per l’uso di un bene demaniale per l’installazione di uno stabilimento balneare, di un campeggio o di un porto nautico, l’amministrazione dovrà tener conto dell’interesse allo sviluppo del turismo, ma anche di quello connesso ad altre attività come, ad esempio, la pesca o le attività ricreative. Nel disporre la chiusura o limitazioni al traffico in un centro storico, il Comune deve contemperare l’interesse alla viabilità con quelli dei residenti, dei titolari di attività commerciali ivi presenti, della tutela dell’inquinamento, ecc. Nell’autorizzare un corteo o altra manifestazione il prefetto deve tener conto, oltre che dei diritti di chi promuove l’iniziativa, dell’interesse alla tutela dell’ordine pubblico, alla libertà circolazione di chi non partecipa (i residenti o i lavoratori), alla tutela di beni culturali o di privati contro il rischio di atti vandalici, ecc.

In definitiva, la scelta operata dall’amministrazione deve contemperare l’esigenza di massimizzare l’interesse pubblico primario con quella di causare il minor sacrificio possibile degli interessi secondari incisi dal provvedimento. L’amministrazione deve dar conto dell’attività di ponderazione degli interessi nella motivazione del provvedimento, e ciò al fine di garantire la trasparenza nel processo decisionale.

La discrezionalità amministrativa incide su quattro elementi logicamente distinti: a) sull’an, cioè sul se esercitare il potere in una determinata situazione concreta ed emanare il provvedimento (per

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esempio se ordinare lo scioglimento di un assembramento di persone che mette a rischio l’ordine pubblico, oppure se annullare d’ufficio un provvedimento illegittimo ai sensi dell’art. 21-nonies della l. n. 241/1990); b) sul quid, cioè sul contenuto del provvedimento che, all’esito della valutazione degli interessi, pone la regola per il caso singolo (per esempio apponendo condizioni a un’autorizzazione ambientale volte a mitigare gli effetti negativi delle emissioni, imponendo prescrizioni quanto ai materiali e ai colori utilizzati per la ristrutturazione di un bene di interesse storico-artistico, o, nel caso di un’ordinanza contingibile e urgente, individuando la misura concreta più adatta per fronteggiare la situazione; c) sul quomodo, cioè sulle modalità da seguire per l’adozione del provvedimento, per esempio acquisendo un parere facoltativo, pur sempre nel rispetto del principio del divieto di aggravare il procedimento (art. 1, comma 2, della l. n. 241/1990); d) sul quando, cioè sul momento più opportuno per esercitare un potere d’ufficio avviando il procedimento e, una volta aperto quest’ultimo, per emanare il provvedimento, pur tenendo conto dei termini massimi per la conclusione del procedimento (stabiliti in base all’art. 2 della l. n. 241/1990). In base alla norma d’azione, un potere può essere discrezionale o vincolato in relazione a uno o più di questi elementi.

Occorre ancora dar conto della distinzione tra discrezionalità in astratto e discrezionalità in concreto. All’esito dell’attività istruttoria operata dall’amministrazione per accertare i fatti e acquisire gli interessi e gli altri elementi di giudizio rilevanti e all’esito della ponderazione di interessi può darsi che residui, secondo criteri di ragionevolezza e proporzionalità, un’unica scelta legittima tra quelle consentite in astratto dalla legge. Nel corso del procedimento la discrezionalità può cioè ridursi via via fino ad annullarsi del tutto (secondo la dottrina tedesca, “Ermessensreduzierung auf Null”) 12. In questo caso si parla di vincolatezza in concreto, da contrapporre alla vincolatezza in astratto che si verifica, come si è visto, allorché la norma di azione predefinisce in modo puntuale tutti gli elementi che caratterizzano il potere. Questa distinzione è posta con chiarezza nel Codice del processo amministrativo nell’art. 30, comma 3, sopra citato, riferito al giudizio sul silenzio della pubblica amministrazione. La disposizione precisa infatti che il giudice può accertare la fondatezza della pretesa dedotta in giudizio (cioè la spettanza

12 Questa espressione è stata usata di recente anche dalla giurisprudenza amministrativa: cfr.

Tribunale regionale di giustizia amministrativa del Trentino-Alto Adige, Sez. Trento, 16 dicembre 2009, n. 305.

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o meno di un atto amministrativo richiesto dal privato) “solo quando si tratti di attività vincolata” (vincolatezza in astratto) oppure “quando risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità” (vincolatezza in concreto, conseguente agli accertamenti compiuti nell’ambito dell’istruttoria procedimentale e nel corso del giudizio).

Una riduzione dell’ambito della discrezionalità può avvenire anche per un’altra via, ovvero attraverso il cosiddetto autovincolo alla discrezionalità. Di frequente tra la norma di conferimento del potere che concede all’amministrazione spazi di discrezionalità più o meno ampi e il provvedimento concreto assunto all’esito della valutazione si interpone la predeterminazione da parte della stessa amministrazione di criteri e parametri che vincolano l’esercizio della discrezionalità. Ciò accade di regola, per esempio, con riguardo ai giudizi valutativi espressi da commissioni di concorso che specificano autonomamente i parametri di giudizio già previsti nella normativa di riferimento e nel bando. L’art. 12 della l. n. 241/1990 prevede in termini generali che la concessione di ogni forma di contributo o ausilio finanziario è subordinata “alla predeterminazione ed alla pubblicazione da parte delle amministrazioni procedenti (…) dei criteri e delle modalità cui le amministrazioni stesse devono attenersi”.

Ciò accresce l’oggettività, la trasparenza e la sindacabilità delle decisioni, perché i criteri così predeterminati vincolano l’attività dell’amministrazione e la violazione dei medesimi è sindacabile da parte del giudice amministrativo in modo non dissimile dalla violazione di norme giuridiche in senso proprio. L’autovincolo alla discrezionalità costituisce in definitiva un tentativo di salvaguardare e di recuperare in parte, sia pur in via sublegislativa, le esigenze sottese alla legalità sostanziale necessariamente sacrificate attraverso la tecnica del conferimento di poteri discrezionali.

In dottrina si è discusso se la discrezionalità amministrativa consista in un’attività meramente intellettiva e di giudizio (riconducibile sostanzialmente ad un’attività di interpretazione, cioè di concretizzazione della norma d’azione contenente concetti giuridici indeterminati), oppure, al contrario, in un’attività volitiva e creativa dell’amministrazione. In realtà, rispetto all’attività di pura interpretazione, nella discrezionalità sembra riscontrabile un elemento aggiuntivo costituito dall’individuazione e imposizione della regola per il caso singolo che rappresenta un quid novi atto a integrare in qualche modo, sia pur con

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effetti limitati al singolo rapporto giuridico amministrativo, la norma attributiva del potere.

b) Il merito amministrativo.

Individuata la nozione di discrezionalità amministrativa, occorre mettere a fuoco quella per certi aspetti speculare di merito amministrativo. Il merito ha una dimensione essenzialmente negativa e residuale: esso si riferisce all’eventuale ambito di scelta spettante all’amministrazione che si pone al di là dei limiti coperti dall’area della legalità (cioè dei vincoli giuridici posti dalle norme e dai principi dell’azione amministrativa). Se il potere è integralmente vincolato (in astratto o, come si è chiarito, in concreto), lo spazio del merito risulta nullo.

Il merito connota, in definitiva, l’attività dell’amministrazione da considerare essenzialmente libera. La scelta tra una pluralità di soluzioni tutte legittime (ragionevoli, proporzionate, coerenti con il fine pubblico) può essere apprezzata cioè solo in termini di opportunità o inopportunità (o di altri parametri e giudizi di valore, comunque non giuridici) ed è insindacabile da parte del giudice amministrativo nell’ambito del giudizio di legittimità.

Quella tra legittimità e merito costituisce una distinzione che rileva anzitutto in sede di teoria dei controlli amministrativi. Questi ultimi si articolano, come si vedrà, in controlli di legittimità e in controlli di merito, i primi finalizzati ad annullare gli atti amministrativi, i secondi a modificare o sostituire l’atto oggetto del controllo e di tutela giurisdizionale.

La distinzione rileva anche in sede processuale. Così, il Codice del processo amministrativo contrappone la giurisdizione di legittimità, che è quella di cui è investito in via ordinaria il giudice amministrativo, dalla giurisdizione “con cognizione estesa al merito”, nell’esercizio della quale “ il giudice amministrativo può sostituirsi all’amministrazione” (art. 7, comma 6). Il giudice amministrativo può cioè rivalutare le scelte discrezionali dell’amministrazione e sostituire la propria valutazione. Può, per esempio, modificare l’ammontare di una sanzione pecuniaria irrogata. Proprio perché la giurisdizione di merito rompe il diaframma tra giurisdizione e amministrazione (il giudice si fa, per così dire, amministratore), in deroga al principio della separazione dei poteri, essa è limitata a pochi casi tassativi (indicati nell’art. 134 del codice del

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processo amministrativo) ed è tendenzialmente recessiva.

Il problema di tracciare i confini tra legittimità e merito emerge anche in materia di responsabilità amministrativa cui sono soggetti i funzionari pubblici in relazione al cosiddetto danno erariale, cioè al danno provocato all’amministrazione stessa e che rientra nella giurisdizione della Corte dei conti. La legge 14 gennaio 1994, n. 20, che disciplina l’azione di responsabilità da parte della procura della Corte dei conti in relazione a fatti e omissioni del funzionario commessi con dolo o colpa grave che arrecano un danno all’amministrazione, pone il limite dell’“ insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali ” (art. 1, comma 1).

c) Le valutazioni tecniche.

La discrezionalità amministrativa va tenuta nettamente distinta dalle valutazioni tecniche. Quest’ultime si riferiscono ai casi in cui la norma d’azione, nel ricorrere alla tecnica dei concetti giuridici indeterminati di tipo empirico, rinvia a nozioni di tipo tecnico-scientifico che in sede di applicazione alla fattispecie concreta presentano margini di opinabilità (o che consentono giudizi espressi solo in termini ipotetici o probabilistici). Spesso le valutazioni tecniche sono espresse da organi appositi chiamati a rendere il loro giudizio nell’ambito del procedimento. L’art. 17 della l. n. 241/1990 regola le modalità attraverso le quali il responsabile del procedimento procede ad acquisirle e i rimedi in caso di ritardi.

Tra le valutazioni tecniche rientrano, per citare qualche esempio in aggiunta a quelli fatti a proposito dei concetti giuridici indeterminati, i giudizi medici aventi per oggetto l’idoneità ad essere arruolati nelle forze militari o di polizia o la riconducibilità di una determinata malattia alla causa di servizio; quelli formulati dalle commissioni di concorso o istituite per valutare le offerte presentate nell’ambito delle procedure per l’aggiudicazione di contratti pubblici; le valutazioni ingegneristiche volte ad appurare il grado di pericolosità di edifici lesionati in occasione di un terremoto, oppure quelle veterinarie in ordine al carattere epidemico di una malattia che ha colpito dei capi di bestiame, ecc. Nel mondo attuale (nella cosiddetta società del rischio) questo genere di giudizi è sempre più frequente. Si pensi soltanto ai dibattiti scientifici sui rischi derivanti dalla diffusione di organismi geneticamente modificati (Ogm) o dall’esposizione a onde elettromagnetiche (cosiddetto inquinamento elettromagnetico).

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Mentre la discrezionalità amministrativa attiene al piano della valutazione e comparazione degli interessi, le valutazioni tecniche attengono al piano dell’accertamento e della qualificazione di fatti alla luce di criteri tecnico-scientifici.

Ricorrere a proposito delle valutazioni tecniche all’espressione, ancor oggi molto frequente, di discrezionalità tecnica non è corretto proprio perché in esse manca l’elemento volitivo che caratterizza invece, come si è visto, la discrezionalità in senso proprio, cioè quella amministrativa13. L’utilizzo del medesimo sostantivo (discrezionalità) si giustifica probabilmente per il fatto che, soprattutto in passato, il problema dei limiti del sindacato del giudice amministrativo sulle valutazioni tecniche era posto in termini analoghi al problema dei limiti del sindacato sulla discrezionalità amministrativa.

Infatti, in entrambi i casi si riteneva precluso, a differenza di quanto accade per i fatti semplici, un sindacato pieno che comporti una valutazione autonoma del giudice che si sovrappone (e sostituisce) a quella dell’amministrazione. L’opinione del giudice è necessariamente altrettanto opinabile rispetto a quella dell’amministrazione e dunque non ci sarebbe ragione per preferirla. Più correttamente, il giudice può soltanto ripercorrere dall’esterno l’attività valutativa (sindacato estrinseco o debole) per verificare se la valutazione è affetta da vizi logici, incongruenze o da altre carenze utilizzando le tecniche di rilevamento dell’eccesso di potere.

Solo in epoca più recente il giudice amministrativo (a partire dalla sentenza del Consiglio di Stato, IV Sez., 9 aprile 1999, n. 601) ha intrapreso, pur sempre con una certa prudenza, un’opera volta a differenziare e rendere più intenso il proprio sindacato sulle valutazioni tecniche. Esso infatti non è più soltanto estrinseco e si spinge a verificare l’attendibilità e la correttezza del criterio tecnico utilizzato. Va rilevato che l’”attendibilità” non coincide necessariamente con la “condivisibilità”, nel senso che il giudice potrebbe ben ritenere una valutazione tecnica come oggettivamente attendibile, cioè formulata sulla base di argomentazioni logiche e tecniche ben strutturate, pur non condividendola pienamente.

Nel sindacare le valutazioni tecniche il giudice amministrativo è

13 Il Codice del processo amministrativo ha aggiornato il linguaggio là dove richiama la

nozione di “valutazioni che richiedono particolari competenze tecniche” (art. 63, comma 4, in tema di istruzione probatoria).

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agevolato dal fatto di poter ricorrere allo strumento della consulenza tecnica d’ufficio (art. 67 del Codice del processo amministrativo). L’evoluzione giurisprudenziale è ancora agli inizi.

Nell’ordinamento tedesco il giudice amministrativo ritiene ormai da tempo pienamente sindacabile l’applicazione nei casi concreti dei concetti giuridici indeterminati di tipo empirico, anche se con alcune eccezioni assai rilevanti come i giudizi su prove d’esame, le valutazioni demandate dalla legge a collegi di esperti indipendenti o a portatori di interessi, correlate ad attività di pianificazione o con impatto politico rilevante, ecc. Così, per prendere uno degli esempi giurisprudenziali più significativi, nel caso di giudizio espresso da una commissione di esperti, all’esito di un esame organolettico, circa la presenza o meno di difetti relativi all’odore, sapore, colore e ad altri elementi qualitativi di un vino ai fini dell’attribuzione dell’etichetta di vino di qualità, il giudice amministrativo ha ritenuto di non poter operare un sindacato pieno (sentenza del Bundesverwaltungsgericht del 16 maggio 2007 - 3C 8.06). Ciò perché la legge sembra attribuire alla commissione di tecnici indipendente dall’amministrazione, il cui carattere collegiale garantisce una minor soggettività del giudizio e la cui composizione assicura la necessaria professionalità ed esperienza, uno spazio di valutazione che l’amministrazione e in seconda battuta il giudice devono rispettare. La valutazione tecnica può essere sindacata solo se non è stata effettuata in base a presupposti, metodi e procedimenti obiettivi, se non abbia accertato in modo pertinente e completo tutti i fatti rilevanti, o se siano stati commessi altri errori (per esempio la scelta di un campione con un difetto atipico, come il retrogusto di tappo).

Negli Stati Uniti la giurisprudenza mantiene un atteggiamento di maggior deferenza (deference doctrine) nei confronti delle valutazioni tecniche (al pari delle valutazioni discrezionali) dell’amministrazione limitandosi ad un sindacato di ragionevolezza. Questo principio è stato posto dalla Corte Suprema in un caso del 1984 (caso Chevron) nel quale la Environmental Protection Agency era chiamata a interpretare il concetto di “fonte fissa” di inquinamento, definita in modo ambiguo dalla normativa federale sui limiti di emissioni nell’atmosfera (Clean Air Act). La legge non chiariva infatti se il concetto in questione dovesse essere riferito a uno stabilimento industriale nel suo complesso, come ritenuto dall’agenzia, oppure a ciascuno dei dispositivi di emissione in atmosfera in esso presenti, come preferito da un’organizzazione ambientalista perché ciò avrebbe comportato una riduzione dei livelli di inquinamento.

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La scelta tra le due interpretazioni, entrambe compatibili con la norma e ragionevoli, operata dall’agenzia federale è stata ritenuta non sindacabile, in base al principio che le pubbliche amministrazioni, rispetto ai giudici, hanno una maggior esperienza tecnica e hanno un collegamento più stretto con il circuito politico-amministrativo.

Valutazioni tecniche ed esercizio della discrezionalità amministrativa, proprio perché riguardano momenti logici diversi (la prima attiene al momento dell’accertamento del fatto, la seconda alla valutazione degli interessi), possono coesistere in una stessa fattispecie (al riguardo si usa talora l’espressione discrezionalità mista, che in realtà sarebbe preferibile evitare). Tra gli esempi fatti più di frequente si può ricordare l’accertamento del carattere epidemico di una malattia e la successiva scelta dei rimedi alternativi per contenere i rischi di propagazione; oppure la fattibilità tecnica di un progetto di opera pubblica proposto di propria iniziativa da un soggetto privato (il cosiddetto promotore) da realizzare attraverso la tecnica della finanza di progetto e la valutazione di conformità dell’opera all’interesse pubblico. Le valutazioni tecniche possono intervenire non solo nella fase di accertamento dei fatti complessi, ma anche in quella di determinazione del contenuto (quid) del provvedimento.

Le valutazioni tecniche vanno tenute distinte, oltre che dalla discrezionalità amministrativa, anche dai meri accertamenti tecnici. Questi ultimi si riferiscono a fatti la cui esistenza o inesistenza è verificabile in modo univoco, sia pure con l’impiego di strumenti tecnici. Non rileva a questo riguardo che si tratti di strumenti semplici (per esempio, un termometro o il misuratore del grado alcolico di una bevanda) o più sofisticati (per esempio gli strumenti per la rilevazione della presenza e della quantità di sostanze inquinanti in un terreno o per accertare l’estensione e l’intensità di un campo elettromagnetico). A differenza delle valutazioni tecniche, i meri accertamenti tecnici possono essere sindacati in modo pieno dal giudice amministrativo nell’ambito del giudizio di legittimità.

6. L’interesse legittimo.

Esaurita l’analisi del potere amministrativo, è possibile passare a considerare il termine passivo del rapporto giuridico amministrativo, cioè l’interesse legittimo.

Si tratta di una situazione giuridica soggettiva che costituisce una delle

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principali specificità del nostro sistema giuridico, posto che essa non è emersa in nessun altro ordinamento. L’interesse legittimo è stato sempre fonte di controversie in sede dottrinale e di incertezze in sede applicativa tanto che si è auspicato, specie negli ultimi tempi, la sua riconduzione al genus del diritto soggettivo.

In realtà, al pari di quest’ultimo, l’interesse legittimo trova un riconoscimento costituzionale nelle disposizioni dedicate alla tutela giurisdizionale (artt. 24, 103, 113) e costituisce dunque una situazione giuridica soggettiva dalla quale non si può prescindere.

La rilevanza della distinzione tra le due categorie di situazioni giuridiche è stata tradizionalmente duplice: è assurta a criterio di riparto della giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo, il primo investito della giurisdizione sui diritti soggettivi, il secondo della giurisdizione sugli interessi legittimi; è servita a delimitare l’ambito della responsabilità civile della pubblica amministrazione che non includeva il danno derivante da una lesione di interessi legittimi.

Questo secondo aspetto è stato superato nel 1999 ad opera della sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 500/1999 che ha aperto la strada alla risarcibilità del danno da lesione di interesse legittimo superando il precedente orientamento fatto proprio da una “giurisprudenza pietrificata”.

Il primo aspetto mantiene ancora la sua attualità. La Corte Costituzionale, infatti, in una sentenza che può essere considerata come la pronuncia più importante in materia di assetto della giustizia amministrativa (sentenza n. 204 del 6 luglio 2004), ha sconfessato il tentativo del legislatore della fine degli anni Novanta del secolo scorso (d.lgs. n. 80/1998) di superare la distinzione tra diritti soggettivi e interessi legittimi come criterio di riparto della giurisdizione del giudice ordinario e del giudice amministrativo, introducendo il criterio dei blocchi di materie omogenee (servizi pubblici, urbanistica ed edilizia). La Corte ha affermato che la giurisdizione amministrativa ha al suo centro il potere amministrativo correlato a situazioni giuridiche di interesse legittimo e che ad essa può essere devoluta la cognizione di diritti soggettivi solo quando quest’ultimi sono in qualche modo connessi e intrecciati a un rapporto nel quale l’amministrazione si presenta essenzialmente in veste di autorità.

Il modo migliore per inquadrare l’interesse legittimo è quello di porsi in una prospettiva storica.

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Per dar conto della nascita dell’interesse legittimo occorre partire dalla l. n. 2248/1865 All. E di abolizione del contenzioso amministrativo, richiamata nel primo capitolo, che impresse una svolta al nostro sistema di giustizia amministrativa adottando, sulla scorta del modello inglese e belga, il modello del giudice unico. Venne cioè attribuita al giudice civile la giurisdizione in tutte le controversie tra il privato e la pubblica amministrazione nelle quali si facesse questione di un “diritto civile o politico” (art. 2), ossia di un diritto soggettivo, ancorché la controversia fosse correlata all’emanazione di un provvedimento amministrativo. Posta questa regola di base, per tutte le altre situazioni nelle quali la posizione giuridica del privato nei confronti dell’amministrazione non fosse ricostruibile in termini di diritto soggettivo, la legge del 1865 prefigurava soltanto una tutela di tipo procedimentale e amministrativo (partecipazione al procedimento, ricorsi gerarchici ai quali fa cenno l’art. 3).

Nella prassi interpretativa il giudice civile, come si è accennato, dimostrò una notevole timidezza nel sindacare l’operato dell’amministrazione nell’esercizio dei propri poteri discrezionali. L’area delle situazioni non inquadrabili in termini di diritto soggettivo divenne così sempre più ampia, creando in tal modo un vero e proprio vuoto di tutela di fronte a numerosi casi di illegittimità e abusi da parte dell’amministrazione, rispetto ai quali il cittadino non trovava alcuna protezione efficace.

Da qui l’origine della legge del 1889 istitutiva della IV Sezione del Consiglio di Stato, che mirava a integrare la legge del 1865 introducendo un nuovo rimedio volto a tutelare tutte le situazioni non qualificabili come diritto soggettivo ai sensi dell’art. 2 della legge abolitrice del contenzioso. Fatto salvo l’ambito della giurisdizione del giudice ordinario, la IV Sezione venne dunque investita del potere di decidere sui ricorsi per incompetenza, eccesso di potere o violazione di legge contro gli atti o provvedimenti amministrativi aventi per oggetto “un interesse d’individui o di enti morali giuridici” (art. 26 del T.U. delle leggi del Consiglio di Stato del 1924). In caso di accertamento di un vizio, la IV Sezione poteva annullare il provvedimento impugnato.

La giurisprudenza e la dottrina si dovettero confrontare subito con il problema di riempire di contenuto la formula generica di “interesse”, posta dal legislatore come requisito per poter proporre il ricorso alla IV Sezione. In buona sostanza, con una singolare inversione logica, la previsione di una nuova forma di tutela processuale precedette

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storicamente l’individuazione di una situazione giuridica soggettiva in relazione alla quale la tutela poteva essere accordata. Da ciò le incertezze e le ambiguità dell’interesse legittimo.

a) il diritto fatto valere come interesse.

Inizialmente vi fu chi ritenne che la situazione giuridica soggettiva assoggettati alla cognizione della IV Sezione fosse un normale diritto “ fatto valere come interesse” (V. SCIALOIA). Si ritenne cioè che il criterio per incardinare la competenza della IV Sezione fosse quello del petitum, ovvero della richiesta formulata dal ricorrente di annullamento del provvedimento emanato piuttosto che la richiesta del mero risarcimento del danno, riservata al giudice ordinario. Era così rimessa alla libera scelta del privato, in funzione del tipo di tutela che intendeva ottenere, la via giurisdizionale da perseguire, senza necessità di costruire una nuova situazione giuridica soggettiva distinta dal diritto soggettivo.

Ma questa ricostruzione fu subito disattesa dalla giurisprudenza, che invece ancorò il riparto di giurisdizione al criterio più oggettivo della causa petendi, cioè della situazione giuridica soggettiva fatta valere in giudizio.

b) L’interesse legittimo come interesse di mero fatto.

Per lungo tempo, tuttavia, un filone dottrinale negò all’interesse legittimo la consistenza di vera e propria situazione giuridica soggettiva avente natura sostanziale, attribuendo ad essa soltanto un significato processuale (E. GUICCIARDI). L’interesse legittimo fu cioè considerato come un interesse di mero fatto, tale però da far sorgere in capo al privato un interesse processuale ad attivare la tutela innanzi alla IV Sezione (l’interesse a ricorrere).

c) Il diritto alla legittimità degli atti.

Secondo un’altra risalente ricostruzione, l’interesse legittimo doveva essere qualificato come un “diritto alla legittimità degli atti della funzione governativa” (L. MORTARA), cioè un diritto soggettivo avente per oggetto esclusivamente la pretesa formale a che l’azione amministrativa sia conforme alle norme che regolano il potere esercitato.

d) Il diritto affievolito.

Un’altra interpretazione, che trova ancor oggi riscontro talora nella giurisprudenza, consiste nella cosiddetta teoria della “degradazione” o dell’“affievolimento” (O. RANELLETTI). Essa considera l’interesse legittimo come un “diritto affievolito”, cioè come la risultante dell’atto di

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esercizio del potere amministrativo. Il provvedimento autoritativo (o imperativo), ancorché illegittimo, è idoneo a travolgere (appunto a “degradare”) il diritto soggettivo trasformandolo in semplice interesse legittimo. Tipico esempio di diritto affievolito è il diritto di proprietà che può essere inciso dal potere espropriativo.

La categoria dei diritti soggettivi affievoliti fa coppia con quella simmetrica dei cosiddetti diritti soggettivi “in attesa di espansione”. Si tratta di diritti, già attribuiti in astratto alla titolarità di un soggetto privato, il cui esercizio è però condizionato all’esercizio di un potere dell’amministrazione, nei confronti del quale il titolare del diritto può vantare un semplice interesse legittimo. Tipico esempio è quello dell’autorizzazione ad aprire un esercizio commerciale.

Gli effetti pratici di questo tipo di ricostruzione furono quelli di restringere l’area del diritto soggettivo, ritenuto sempre cedevole di fronte al potere amministrativo, nei rapporti tra i soggetti privati e la pubblica amministrazione titolare di un potere amministrativo, attribuendo così un ruolo marginale al giudice ordinario. Quest’ultimo divenne quasi esclusivamente il giudice dei meri comportamenti della pubblica amministrazione non collegati all’esercizio del potere amministrativo (inadempimenti contrattuali, illeciti extracontrattuali).

e) L’interesse occasionalmente protetto.

Per lungo tempo le ricostruzioni tradizionali dell’interesse legittimo posero l’accento sul fatto che l’interesse privato è posto in un secondo piano e in una funzione subalterna e ancillare rispetto all’interesse pubblico. Solo ove si sia in presenza di un diritto soggettivo infatti l’interesse del privato correlato a un bene della vita è oggetto di una tutela diretta e immediata da parte dell’ordinamento (cioè, come si vedrà, da parte di una norma di relazione).

Questa impostazione emerge in un’altra fortunata definizione dell’interesse legittimo come interesse occasionalmente (indirettamente) protetto da una norma (la norma d’azione) volta a tutelare in modo diretto e immediato l’interesse pubblico (A. SANDULLI). Secondo questa visione le norme che disciplinano il potere hanno come scopo primario la tutela di quest’ultimo e il soggetto privato può trovare in esse una qualche protezione solo in via riflessa e indiretta.

L’interesse legittimo si distingue dunque dal diritto soggettivo proprio per il fatto che l’acquisizione o la conservazione di un determinato bene della vita non è assicurata in modo immediato dalla norma, che tutela in

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modo diretto l’interesse pubblico, bensì passa attraverso l’esercizio del potere amministrativo, senza che peraltro sussista alcuna garanzia in ordine alla sua acquisizione o conservazione. La presenza di un ambito di discrezionalità esclude infatti che ex ante il soggetto titolare sia in grado di prefigurare l’assetto finale degli interessi posto dal provvedimento emanato. Quest’ultimo potrebbe, del tutto legittimamente, negare o sacrificare l’utilità (bene della vita) collegata all’interesse legittimo.

Così, per esempio, chi partecipa a un concorso pubblico che si svolge in modo regolare e tuttavia non si colloca nella graduatoria dei vincitori all’esito delle prove vede comunque soddisfatto pienamente il suo interesse legittimo.

L’interesse legittimo fonda, dunque, in capo al suo titolare soltanto la pretesa a che l’amministrazione eserciti il potere in modo legittimo, cioè in conformità con la norma d’azione. Il titolare dell’interesse legittimo può condizionare l’esercizio del potere cercando di orientarlo in senso a sé più favorevole attraverso la partecipazione al procedimento, fornendo cioè all’amministrazione titolare del potere elementi che possono orientare in tal senso la valutazione discrezionale.

La norma d’azione offre in definitiva al titolare dell’interesse legittimo una tutela strumentale, mediata attraverso l’esercizio del potere, anziché finale, come accade invece per il diritto soggettivo, nel quale la norma di relazione attribuisce al suo titolare in modo diretto un certo bene della vita o utilità.

Ove il potere sia stato esercitato in modo non conforme alla norma d’azione, il titolare dell’interesse può proporre ricorso al giudice amministrativo al fine di ottenere l’annullamento del provvedimento lesivo, cioè la rimozione con efficacia ex tunc degli effetti da esso prodotti.

f) Le critiche della dottrina.

L’impianto teorico tradizionale dell’interesse legittimo ha retto fino a tempi recenti, nonostante le critiche della dottrina. Quest’ultima ne ha messo in luce la sua connotazione ideologica, collegata a una visione autoritaria dei rapporti tra Stato e cittadino nella quale il primo, preposto alla cura dell’interesse pubblico, si colloca in una posizione di sovraordinazione (con l’espressione efficace di A. ORSI BATTAGLINI, “ il postulato di generale sovraordinazione della pubblica amministrazione”) rispetto al secondo tale da escludere, come si è accennato, che tra essi possa intercorrere un rapporto giuridico in senso

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tecnico. Si è anche criticata la tesi secondo la quale la norma d’azione tutela il privato solo in via indiretta e occasionale e si è iniziato ad attribuire all’interesse legittimo una connotazione sostanziale, sottolineando che l’interesse protetto è comunque un interesse materiale.

L’impianto delineato è entrato in crisi in seguito all’emergere di una nuova sensibilità, più in linea con i valori espressi dalla Costituzione e dall’ordinamento comunitario, che muove dall’angolo di visuale dei diritti di libertà del cittadino e dall’esigenza di offrire una protezione più completa delle situazioni giuridiche soggettive, più che dalla prospettiva dei poteri attribuiti allo Stato e agli apparati pubblici.

Nella nuova visione si è sottolineato per esempio che la Costituzione attribuisce ai diritti soggettivi e agli interessi legittimi una pari dignità e che pertanto ad entrambi l’ordinamento deve assicurare una tutela piena ed effettiva (art. 24 della Costituzione).

Sul piano del diritto sostanziale il primo vuoto di tutela da colmare era collegato al principio dell’irrisarcibilità del danno da lesione di interesse legittimo.

La svolta giurisprudenziale è avvenuta, come si è visto, con la sentenza della Corte di Cassazione SS.UU. n. 500/1999 che ha superato la rilevanza della distinzione tra diritti soggettivi e interessi legittimi ai fini della risarcibilità. La Corte ha posto una linea di confine della risarcibilità tutta all’interno dell’interesse legittimo in ragione della rilevabilità, nella situazione concreta, di una lesione a un bene della vita già ascrivibile in qualche modo alla sfera giuridica del soggetto privato.

Nella ricostruzione dell’interesse legittimo il baricentro si sposta così dal collegamento con l’interesse pubblico a quello con l’utilità finale o bene della vita che il soggetto titolare dell’interesse legittimo mira a conservare o ad acquisire. L’interesse legittimo acquista così una connotazione sostanziale.

L’affrancamento dell’interesse legittimo dal ruolo subalterno e servente rispetto all’interesse pubblico è derivato anche dall’evoluzione legislativa e giurisprudenziale relativa alla tutela processuale dell’interesse legittimo. Una volta che il legislatore ha attribuito al giudice amministrativo il potere di conoscere, “nell’ambito della sua giurisdizione” (art. 7 della legge 21 luglio 2000, n. 205, oggi ripreso dall’art. 7 del Codice del processo amministrativo), le azioni risarcitorie, si è posto infatti il problema di come ricostruire una siffatta azione di condanna. E ciò sotto due profili.

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Il primo profilo è se il risarcimento del danno costituisca un diritto soggettivo distinto dall’interesse legittimo, ancorché a questo collegato, nel senso che la lesione di quest’ultimo ad opera del provvedimento illegittimo fa sorgere in capo al suo titolare un diritto al risarcimento del danno. Il secondo è se l’azione risarcitoria sia esperibile anche in via autonoma oppure se la sua proponibilità sia condizionata dalla proposizione in parallelo (o anche in un momento precedente) dell’azione di annullamento (cosiddetta pregiudizialità amministrativa).

Quanto al primo profilo, nella citata sentenza n. 204/2004 la Corte Costituzionale ha ricostruito l’azione risarcitoria non già come volta a tutelare un diritto soggettivo autonomo, bensì in funzione “rimediale” (dall’espressione remedy), cioè come tecnica di tutela dell’interesse legittimo che si affianca e integra la tecnica di tutela più tradizionale costituita dall’annullamento. Se l’interesse legittimo incorpora anche una pretesa risarcitoria, è evidente che esso ha per oggetto un bene della vita, che il titolare dell’interesse medesimo mira ad acquisire o a conservare, sia pure tramite l’intermediazione del potere amministrativo, e che è suscettibile di subire una lesione ad opera di un provvedimento illegittimo.

Quanto al secondo profilo, dopo una fase di contrapposizione tra giudice amministrativo, che difendeva il principio tradizionale della cosiddetta pregiudizialità amministrativa, e giudice ordinario, che invece negava detto principio, il legislatore ha previsto che il giudice amministrativo possa conoscere anche delle azioni risarcitorie cosiddette pure (art. 30 del Codice del processo amministrativo). Come si vedrà, il Codice prevede per questa azione un termine di decadenza assai breve (centoventi giorni) e pone altre limitazioni che tendono di fatto a scoraggiarla.

Il titolare dell’interesse legittimo dovrebbe essere libero scegliere il tipo di tutela da richiedere al giudice amministrativo (di solo annullamento, di solo risarcimento o entrambe le forme). Non si può cioè gravarlo, come era implicito invece nella tesi a favore della pregiudizialità amministrativa, dell’onere di proporre sempre e comunque anche l’azione di annullamento, intesa quasi come una forma di collaborazione alla tutela dell’interesse pubblico alla rimozione degli atti illegittimi imposta al titolare dell’interesse legittimo. Per esempio, l’impresa che abbia partecipato a una procedura ad evidenza pubblica per l’aggiudicazione di un appalto e che sia stata esclusa illegittimamente ben potrebbe aver perso medio tempore l’interesse a conseguire il “bene della

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vita”, cioè la stipula del contratto, e dunque potrebbe preferire la tutela meramente risarcitoria rispetto a quella specifica, sotto forma di annullamento degli atti della procedura finalizzato al conseguimento dell’aggiudicazione. Ciò quasi sulla falsariga di quanto avviene nel diritto privato nel quale, di fronte a un inadempimento contrattuale, la parte è libera di scegliere se richiedere l’adempimento o la risoluzione del contratto (art. 1453 cod. civ.). L’azione risarcitoria pura segna dunque sul piano concettuale l’affrancamento dell’interesse legittimo dalla posizione di subalternità rispetto all’interesse pubblico. Va però segnalato che la giurisprudenza amministrativa, anche successiva all’emanazione del Codice del processo amministrativo, come si vedrà, propende ancora per attribuire all’azione risarcitoria un ruolo ancillare rispetto all’azione di annullamento (Cons. di Stato, Ad. Plen., n. 3 del 2011).

g) le ricostruzioni più recenti dell’interesse legittimo.

All’esito dell’evoluzione ora tratteggiata, --- ed è questa la ricostruzione che si ritiene preferibile --- si può dunque affermare che la norma di conferimento del potere (norma d’azione) abbia la doppia ed equiordinata funzione di tutelare l’interesse pubblico (così da consentirne la cura in concreto da parte dell’amministrazione, anche a costo del sacrificio di interessi privati) e di tutelare l’interesse del privato (che mira ad acquisire o a conservare una utilità finale o bene della vita). L’interesse pubblico non assorbe quello privato, né quest’ultimo il primo. Nell’ambito di un rapporto di sovra-sottordinazione secondo lo schema del diritto potestativo --- figura generale che, come si è visto, consente di inquadrare il rapporto che intercorre tra l’amministrazione titolare del potere e il privato titolare di un interesse legittimo --- i vincoli posti dalla norma d’azione hanno una doppia funzione: per un verso, fungono da guida e vincolo per l’amministrazione nella realizzazione dell’interesse pubblico, ponendo per esempio regole procedimentali che consentano un miglior coordinamento tra amministrazioni che curano gli interessi rilevanti (parere, intesa, ecc.); per altro verso, hanno una funzione di garanzia della situazione giuridica soggettiva del privato.

Nella dinamica del rapporto giuridico amministrativo, da un lato, l’amministrazione titolare del potere cura in via primaria l’interesse pubblico (pur dovendo tener conto anche degli altri interessi pubblici e privati rilevanti nella fattispecie); dall’altro, il titolare dell’interesse legittimo mira esclusivamente al proprio interesse individuale, con libertà di scegliere le forme di tutela da attivare nel processo e prima ancora nell’ambito del procedimento amministrativo.

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In definitiva, volendo proporre una definizione sintetica, l’interesse legittimo è la situazione giuridica soggettiva, correlata al potere della pubblica amministrazione e tutelata in modo diretto dalla norma d’azione, che attribuisce al suo titolare una serie di poteri e facoltà volti a influire sull’esercizio del potere medesimo allo scopo di conservare o acquisire un bene della vita.

I poteri e le facoltà in questione si esplicano principalmente, come si è accennato, all’interno del procedimento attraverso l’istituto della partecipazione (art. 7 e seg. della l. n. 241/1990) che consente al privato di rappresentare il proprio punto di vista (attraverso la presentazione di memorie e di documenti e, prima ancora, mediante l’accesso agli atti del procedimento) in modo tale da orientare le valutazioni discrezionali dell’amministrazione in senso a sé favorevole, oppure attraverso la possibilità di stipulare con l’amministrazione un accordo avente per oggetto il contenuto discrezionale del provvedimento (art. 11 della l. n. 241/1990).

Siffatti poteri e facoltà tendono a riequilibrare in parte la posizione di soggezione nei confronti del titolare del potere. L’interesse legittimo --- che pur costituisce il termine passivo del rapporto giuridico che intercorre con l’amministrazione se ci si pone dall’angolo di visuale della produzione degli effetti giuridici --- acquista così una dimensione attiva.

Ad essa corrispondono in capo all’amministrazione una serie di doveri comportamentali nella fase procedimentale e nella fase decisionale (buona fede, imparzialità, ragionevolezza, proporzionalità, esatta rappresentazione dei fatti, acquisizione completa degli interessi rilevanti, ecc.) che sono finalizzati anche alla tutela dell’interesse del soggetto privato.

In ogni caso il titolare dell’interesse legittimo fa valere una pretesa nei confronti dell’amministrazione a che il potere sia esercitato in modo legittimo e, per quanto possibile, in senso conforme all’interesse sostanziale del privato all’acquisizione o alla conservazione di un bene della vita. La “prestazione” che viene così richiesta all’amministrazione ha natura infungibile, in quanto il titolare dell’interesse legittimo potrà acquisire o conservare una certa utilità esclusivamente tramite l’esercizio o il mancato esercizio del potere da parte dell’unica autorità competente in base alla norma d’azione.

Sulla base di tali considerazioni, è emersa nella dottrina più recente una ricostruzione che dissolve l’interesse legittimo nella figura più generale

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del diritto soggettivo (L. FERRARA). Infatti, a ben riflettere, il diritto soggettivo, lungi dall’essere una categoria unitaria, include anche figure particolari di diritti (diritto a un comportamento secondo buona fede, diritto di credito cui corrisponde un’obbligazione di mezzi, anziché un’obbligazione di risultato) ai quali non è correlato un obbligo di prestazione in senso proprio (prestazione-risultato). Il titolare di questo genere di diritti fa valere nei confronti dell’obbligato una pretesa a un comportamento conforme a certi standard (che si sostanziano anche in quelli che la dottrina civilistica definisce “doveri di protezione”), senza che vi sia alcuna garanzia di un risultato predeterminato (prestazione-comportamento). Questa categoria di diritti è strutturalmente analoga all’interesse legittimo, il quale, dunque, potrebbe essere ricondotto a una figura particolare di diritto (di credito) avente per oggetto una prestazione di natura complessa da parte dell’amministrazione a favore del soggetto privato.

In conclusione, l’interesse legittimo ingloba in sé sia una dimensione passiva (situazione di soggezione, rispetto alla produzione degli effetti), sia una dimensione attiva (pretesa a un esercizio corretto del potere alla quale corrispondono una serie di poteri e facoltà nei confronti dell’amministrazione da far valere nel procedimento o anche in sede giurisdizionale). Questa duplice dimensione --- alla quale corrisponde un’analoga duplice dimensione del potere: attiva, se riferita alla produzione unilaterale dell’effetto giuridico; passiva, se correlata ai doveri di comportamento che gravano sull’amministrazione --- costituisce forse la cifra più caratteristica dell’interesse legittimo che condiziona la dinamica del rapporto amministrativo.

7. Segue: l’interesse legittimo oppositivo e pretensivo.

Sotto il profilo funzionale gli interessi legittimi possono essere suddivisi in due categorie: gli interessi legittimi oppositivi e gli interessi legittimi pretensivi.

I primi sono correlati a poteri amministrativi il cui esercizio può determinare la produzione di un effetto giuridico che incide negativamente e che restringe la sfera giuridica del destinatario, sacrificando un interesse di quest’ultimo. Si pensi, per esempio, al potere espropriativo, all’irrogazione di una sanzione amministrativa, all’imposizione di un vincolo di inedificabilità.

I secondi, al contrario, sono correlati a poteri amministrativi il cui

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esercizio può determinare la produzione di un effetto giuridico che incide positivamente e che amplia la sfera giuridica del destinatario, dando soddisfazione all’interesse di quest’ultimo. Si pensi, per esempio, al potere di rilasciare una concessione per l’uso di un bene demaniale o un’autorizzazione per l’avvio di un’attività economica, oppure all’iscrizione a un albo professionale

Per riprendere una fortunata distinzione (E. FORSTHOFF), gli interessi legittimi oppositivi sono correlati, di regola, alla cosiddetta Eingriffsverwaltung, cioè all’amministrazione che sottrae o sacrifica altrimenti i beni o altre utilità private. Gli interessi legittimi pretensivi sono correlati, invece, alla cosiddetta Leistungsverwaltung, cioè all’amministrazione per prestazioni che attribuisce beni o altre utilità ai soggetti privati e che è emersa soprattutto in seguito all’affermarsi nel corso del secolo XX dello Stato interventista.

Negli interessi legittimi oppositivi il rapporto procedimentale assume una dinamica di contrapposizione, nel senso che il titolare dell’interesse legittimo oppositivo cercherà di intraprendere tutte le iniziative volte a contrastare l’esercizio del potere che sacrifica un suo bene della vita. Il suo interesse a evitare che si determini una compressione della propria sfera giuridica è soddisfatto nel caso in cui l’amministrazione, all’esito del procedimento, si astenga dall’emanare il provvedimento che produce l’effetto negativo (pretesa a un non facere da parte dell’amministrazione). Non rileva, peraltro, dal punto di vista del soggetto privato (ma non dell’interesse pubblico), se l’omessa emanazione del provvedimento sia legittima o illegittima. Al titolare dell’interesse legittimo oppositivo infatti interessa soltanto non veder sacrificata o compressa la propria sfera giuridica, cioè a conservare il bene della vita.

Negli interessi legittimi pretensivi il rapporto procedimentale assume una dinamica più collaborativa, nel senso che il titolare dell’interesse legittimo pretensivo cercherà di porre in essere tutte le attività volte a stimolare l’esercizio del potere e ad orientare la scelta dell’amministrazione in modo tale da poter conseguire un bene della vita. Il suo interesse a far sì che si determini un ampliamento della propria sfera giuridica è soddisfatto nel caso in cui l’amministrazione, all’esito del procedimento, emani il provvedimento che produce l’effetto positivo (pretesa a un facěre specifico da parte dell’amministrazione). Anche in questo caso, non rileva, dal punto di vista del privato (ma non dell’interesse pubblico), se l’emanazione del provvedimento sia legittima o illegittima. Al titolare dell’interesse legittimo pretensivo infatti interessa

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soltanto poter veder ampliata la propria sfera giuridica, cioè acquisire un bene della vita.

I due tipi di dinamica si riflettono sia sulla struttura del procedimento, sia su quella del processo amministrativo.

Nel caso degli interessi legittimi oppositivi il procedimento si apre usualmente d’ufficio e la comunicazione di avvio del procedimento instaura il rapporto giuridico amministrativo. Nel caso degli interessi legittimi pretensivi il procedimento si apre in seguito alla presentazione di un’istanza o domanda di parte che fa sorgere l’obbligo di procedere e di provvedere in capo all’amministrazione titolare del potere (art. 2 della l. n. 241/1990) e instaura il rapporto giuridico amministrativo.

Anche il processo amministrativo e la tipologia di azioni in esso esperibili presentano caratteri propri in funzione del diverso bisogno di tutela.

Nel caso degli interessi legittimi oppositivi il bisogno di tutela è correlato all’interesse alla conservazione del bene della vita suscettibile di essere sacrificato o compresso in seguito all’emanazione del provvedimento restrittivo della sfera giuridica del privato. L’annullamento dell’atto impugnato con efficacia ex tunc soddisfa in modo specifico tale bisogno (fatti salvi gli obblighi restitutori e gli eventuali profili risarcitori), poiché il ricorrente viene reintegrato nella situazione in cui esso si trovava prima dell’emanazione del provvedimento. Se dalla sentenza di annullamento deriva poi un effetto preclusivo pieno, tale cioè da impedire l’emanazione, rebus sic stantibus, di un nuovo provvedimento sostitutivo di quello annullato produttivo dei medesimi effetti, l’interesse legittimo oppositivo esce dalla vicenda procedimentale e processuale addirittura rafforzato.

Nel caso degli interessi legittimi pretensivi il bisogno di tutela è correlato invece all’interesse all’acquisizione del bene della vita per mezzo dell’emanazione del provvedimento ampliativo della sfera giuridica del privato. Rispetto a tale bisogno l’annullamento del provvedimento di diniego o, nel caso di silenzio-inadempimento, l’accertamento dell’inadempimento dell’obbligo di concludere il procedimento nel termine stabilito ex art. 2 l. n. 241/1990 con un provvedimento espresso si rivelano insufficienti in quanto non determinano in via immediata l’acquisizione del bene della vita in capo al titolare dell’interesse legittimo che passa attraverso l’adozione da parte dell’amministrazione del provvedimento richiesto. Soltanto una sentenza

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che accerti la spettanza del bene della vita e condanni l’amministrazione ad emanare il provvedimento richiesto risulta pienamente satisfattiva. L’azione specifica che consente un siffatto risultato è la cosiddetta azione di adempimento (Verpflichtungsklage) ammessa dall’ordinamento processuale tedesco nel caso di poteri amministrativi vincolati.

Tradizionalmente, nel nostro ordinamento, il processo amministrativo, incentrato sull’azione di annullamento, è in grado di fornire una tutela satisfattiva soltanto agli interessi legittimi oppositivi. Nell’ambito del rito speciale sul silenzio è stato ammesso che il giudice possa, oltre che dichiarare l’illegittimità del comportamento, inerte, anche “conoscere la fondatezza dell’istanza” (art. 2, comma 8, della l. n. 241/1990, come modificato dalla l. n. 15/2005, e art. 31, comma 3, del Codice del processo amministrativo). La bozza di Codice del processo amministrativo, predisposta da una commissione tecnica istituita presso il Consiglio di Stato sulla base di una delega legislativa per la riforma del processo amministrativo (l. n. 69/2009), conteneva un articolo volto a introdurre l’azione di adempimento secondo il modello tedesco. La proposta non è stata recepita nel testo finale approvato, anche se, in via interpretativa, sembra possibile ritenere, come ha già chiarito la giurisprudenza amministrativa (Adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 3/2011), che essa risulti comunque incorporata, come si vedrà, nella sistematica delle azioni e delle pronunce contenuta nel Codice.

La condanna all’emanazione del provvedimento richiesto presuppone peraltro che nell’ambito del processo sia possibile accertare in modo pieno e completo la fondatezza della pretesa sostanziale e non residuino in capo all’amministrazione spazi di discrezionalità. In quest’ultimo caso, la sentenza del giudice amministrativo non può andare al di là dell’accertamento dei profili vincolati del potere e della condanna a provvedere sull’istanza, perché altrimenti il giudice amministrativo sconfinerebbe dall’ambito della giurisdizione di legittimità sovrapponendo il proprio ruolo a quello dell’amministrazione titolare del potere alla quale sono riservate le valutazioni propriamente discrezionali. Comunque sia, dato il carattere infungibile del potere, l’emanazione del provvedimento in conformità alla sentenza del giudice spetta sempre all’amministrazione competente. Solo ove quest’ultima non ottemperi alla sentenza il giudice, in sede di giudizio di esecuzione, potrà sostituirsi all’amministrazione (di regola tramite un commissario ad acta all’uopo nominato).

Passando a considerare la tutela risarcitoria, con riferimento agli

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interessi legittimi oppositivi essa è correlata ai danni derivanti dalla privazione o limitazione nel godimento del bene della vita nel caso in cui il provvedimento abbia trovato esecuzione. Per esempio, se dopo l’emanazione decreto di esproprio si avuta l’esecuzione con l’apprensione materiale del terreno, una volta annullato il provvedimento, il proprietario deve essere risarcito del danno correlato al mancato godimento del bene nel periodo intercorrente tra l’esecuzione del provvedimento espropriativo e la restituzione del bene medesimo. In ogni caso la lesione del bene della vita emerge in re ipsa per effetto dell’accertamento dell’illegittimità e dell’annullamento del provvedimento.

Con riferimento agli interessi legittimi pretensivi la tutela risarcitoria è correlata ai danni conseguenti alla mancata o ritardata acquisizione del bene della vita nel caso in cui sia stato emanato un provvedimento di diniego o l’amministrazione sia rimasta inerte (per esempio, il mancato o ritardato avvio di un’attività commerciale assoggettata a un regime di autorizzazione). La lesione del bene della vita non consegue automaticamente dall’annullamento del provvedimento di diniego o dall’accertamento dell’illegittimità del silenzio. Infatti, secondo i criteri stabiliti dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 500/1999, già ricordata, il giudice deve formulare un “giudizio prognostico” attraverso una valutazione che tenga conto della normativa applicabile (maggiore o minore discrezionalità attribuita all’amministrazione) e di tutte le circostanze di fatto (acquisite al procedimento). Solo se all’esito di un siffatto giudizio sia possibile concludere nel senso della riconducibilità del bene della vita al patrimonio giuridico del titolare dell’interesse legittimo (cosiddetto giudizio di “spettanza”), allora emerge la lesione di tale interesse suscettibile di risarcimento del danno. Quest’ultimo può essere pieno o soltanto commisurato alla cosiddetta perdita di chance nei casi in cui non sia possibile accertare in termini di certezza assoluta, ma soltanto di probabilità l’acquisizione o la conservazione del bene della vita in capo al titolare dell’interesse legittimo nel caso in cui il potere fosse stato esercitato in modo legittimo. Così, per esempio, in materia di procedure di gara per l’aggiudicazione di un contratto, l’impresa seconda classificata che impugna e ottiene l’annullamento dell’ammissione alla procedura dell’impresa prima classificata, ottiene una sentenza che accerta in modo univoco la pretesa a conseguire il “bene della vita” (il contratto oggetto della procedura) in seguito all’esclusione dalla graduatoria dell’impresa prima classificata; se, invece, la medesima impresa contesta l’erronea valutazione tecnico-discrezionale della commissione giudicatrice nell’attribuzione dei punteggi riferiti ad

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elementi qualitativi dell’offerta e ottiene una sentenza che annulla la graduatoria finale, la pretesa a conseguire il bene della vita può essere apprezzata solo in termini di chance, visto che non è possibile prefigurare in modo univoco l’esito di una nuova valutazione delle offerte da parte della commissione giudicatrice.

La bipartizione tra i due tipi di interessi legittimi consente di inquadrare un particolare tipo di provvedimenti “a doppio effetto” (Doppelwirkung), i quali producono ad un tempo un effetto ampliativo e un effetto restrittivo nella sfera giuridica di due soggetti distinti. Si pensi per esempio al rilascio di un permesso a costruire per realizzare un edificio che impedirà una vista panoramica al proprietario del terreno confinante, oppure al rilascio di un’autorizzazione ad avviare un’attività commerciale in diretta concorrenza con un esercizio posto nelle immediate vicinanze che subirà una contrazione del proprio giro d’affari. Si pensi ancora al provvedimento di aggiudicazione di un contratto di appalto che soddisfa l’interesse pretensivo dell’impresa risultata prima in graduatoria e che, ad un tempo, lascia insoddisfatto quello delle altre imprese partecipanti.

In questi casi, la dinamica dei rapporti tra l’amministrazione e i soggetti privati titolari di un interesse legittimo pretensivo e oppositivo diventa più articolata, sia nell’ambito del procedimento, sia nell’ambito del processo, proprio perché si instaura anche una dialettica che vede contrapposti due interessi privati.

Nella fase procedimentale le parti private tenderanno infatti a sottoporre all’amministrazione gli elementi istruttori e valutativi che inducano quest’ultima a provvedere in senso conforme al proprio interesse e contrario all’interesse dell’altra parte privata.

Nella fase processuale successiva all’emanazione del provvedimento che determina contestualmente un effetto ampliativo nei confronti di un soggetto, restrittivo nei confronti di un altro, invece, accanto alla parte ricorrente che impugna il provvedimento chiedendone l’annullamento e all’amministrazione resistente, interviene come parte processuale necessaria il controinteressato, cioè la parte che ha tratto una utilità dall’emanazione del provvedimento e che affianca l’amministrazione nella difesa della legittimità del provvedimento emanato (negli esempi fatti, l’impresa aggiudicataria, il titolare del permesso a costruire o dell’autorizzazione commerciale).

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8. Diritti soggettivi e interessi legittimi: criteri di distinzione.

La distinzione tra diritti soggettivi e interessi legittimi ha affaticato da sempre la dottrina e la giurisprudenza. In astratto, infatti, le due situazioni giuridiche soggettive presentano caratteri distintivi precisi. Nella concretezza delle relazioni che si instaurano tra l’amministrazione i soggetti privati e che sono disciplinate nelle leggi amministrative, invece, è spesso difficile orientarsi.

La dottrina e la giurisprudenza, specie quella delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, investite di questioni attinenti al riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo, hanno però individuato alcuni criteri che possono essere di aiuto.

Un primo criterio si incentra sulla struttura della norma che regola il rapporto tra il privato e l’amministrazione. Rileva in proposito la distinzione già vista tra norma di relazione, alla quale è correlato il diritto soggettivo, e norma d’azione, alla quale è correlato l’interesse legittimo.

Nella prima la produzione dell’effetto giuridico avviene, come si è visto, in modo automatico sulla base dello schema norma-fatto-effetto. L’eventuale atto dell’amministrazione che accerta il prodursi dell’effetto giuridico e dei diritti e degli obblighi posti in capo alle parti ha un carattere meramente ricognitivo.

Si pensi, per esempio, nell’ambito dei rapporti di impiego alle dipendenze della pubblica amministrazione esclusi dal regime della privatizzazione, alla categoria dei cosiddetti “atti paritetici” costruita dalla giurisprudenza già negli anni Trenta del secolo scorso. Si tratta, come si vedrà, di atti attraverso i quali l’amministrazione riconosce (o disconosce) al dipendente un’indennità di carica o un altro beneficio attribuito direttamente da una norma di rango legislativo o sub legislativo, atti che pertanto che hanno un’efficacia meramente ricognitiva, anziché costitutiva, dei diritti e degli obblighi del dipendente pubblico. Si pensi ancora agli atti che accertano il carattere demaniale di un bene in base ai criteri posti dal codice civile (art. 822 cod. civ.).

Il comportamento assunto in violazione della norma di relazione va qualificato come illecito e lesivo del diritto soggettivo. L’accertamento della illiceità (e l’eventuale condanna) spetta, di regola, al giudice ordinario.

Nella norma di azione la produzione dell’effetto giuridico avviene, come si è visto, secondo lo schema norma-fatto-potere-effetto. Il

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provvedimento emanato dall’amministrazione nell’esercizio del potere disciplinato dalla norma d’azione ha un carattere costitutivo dell’effetto giuridico nella sfera giuridica del destinatario. Il provvedimento assunto in violazione della norma di azione va qualificato, come si vedrà trattando dei vizi dell’atto amministrativo, come illegittimo e lesivo di un interesse legittimo. L’annullamento del provvedimento illegittimo spetta di regola al giudice amministrativo.

Un secondo criterio consiste nella distinzione tra potere vincolato e potere discrezionale. In presenza di un potere discrezionale la situazione giuridica di cui è titolare il soggetto privato è sempre ed esclusivamente l’interesse legittimo. Ciò perché la conservazione o l’acquisizione del bene della vita in capo al soggetto privato, lungi da essere garantita in modo diretto dalla norma, è rimessa alla valutazione dell’amministrazione titolare del potere. Di fronte al potere discrezionale il soggetto privato non è in grado di prevedere con certezza se la sua pretesa verrà soddisfatta dall’amministrazione all’esito del procedimento. Manca, dunque, la possibilità di ascrivere in modo immediato e diretto un vantaggio o bene della vita alla sfera giuridica del soggetto privato, ciò che caratterizza invece la struttura del diritto soggettivo.

Diversa è la situazione, invece, nel caso in cui il potere sia vincolato in tutti i suoi elementi dalla norma giuridica. In questo caso, il soggetto privato, valutando autonomamente la situazione concreta in cui egli si trova, è in grado di prevedere con certezza ex ante se l’amministrazione, ove agisca in modo conforme alle norme applicabili, riconoscerà o meno il vantaggio o il bene della vita. Il cosiddetto “giudizio di spettanza” ha cioè un carattere univoco, ove la situazione di fatto e di diritto venga ricostruita in modo corretto dall’amministrazione. La situazione in cui versa il privato è in questo senso assimilabile a quella in cui si trova il titolare di un diritto soggettivo.

In realtà, mentre una parte della dottrina (A. ORSI BATTAGLINI, C. MARZUOLI) instaura una correlazione biunivoca perfetta tra potere vincolato e titolarità di un diritto soggettivo, la giurisprudenza amministrativa, con il conforto di parte della dottrina, spezza una siffatta correlazione introducendo un’ulteriore variabile. Ammette cioè l’esistenza di un diritto soggettivo soltanto nel caso in cui i vincoli ricavabili dalla norma che disciplina il potere abbiano una funzione di garanzia e di tutela diretta del soggetto privato. Ove invece essi siano finalizzati principalmente alla tutela dell’interesse pubblico, deve essere riconosciuta, anche a fronte di un potere vincolato, l’esistenza di un

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interesse legittimo. Secondo questa visione le norme d’azione pongono una serie di vincoli ai poteri dell’amministrazione anzitutto allo scopo di consentire uno svolgimento ordinato e misurabile in modo oggettivo, cioè sulla base di parametri certi, dell’attività amministrativa. Tali vincoli sono funzionali a un interesse proprio di un’organizzazione complessa qual è la pubblica amministrazione, che, in aggiunta alle esigenze di razionalizzazione tipiche anche dei grandi apparati privati, è assoggettata comunque al vincolo della legalità. In altri termini, il dovere di agire nel rispetto delle norme che grava sull’amministrazione non svolge sempre e necessariamente in modo diretto una funzione di garanzia della posizione soggettiva dei privati.

Peraltro, la necessità di stabilire se i vincoli posti all’esercizio del potere siano finalizzati alla tutela dell’interesse del soggetto privato o alla tutela dell’interesse pubblico introduce un elemento di incertezza tale da compromettere, almeno in parte, l’utilità del criterio distintivo.

In definitiva, il criterio offre una soluzione certa solo quando il potere ha natura discrezionale, ciò che esclude in radice la possibilità di ricostruire la situazione giuridica correlata in termini di diritto soggettivo.

Un terzo criterio tradizionale per distinguere il diritto soggettivo dall’interesse legittimo, introdotto dalla Corte di Cassazione nella seconda metà del secolo scorso14, si fonda sulla diversa natura del vizio dedotto dal soggetto privato nei confronti dell’atto emanato.

Ove venga contestata la cosiddetta carenza di potere, cioè l’assenza di un fondamento legislativo del potere (cosiddetta carenza di potere in astratto) o una deviazione abnorme dallo schema normativo (cosiddetto straripamento di potere), l’atto emanato dall’amministrazione è in realtà una parvenza di provvedimento, privo della idoneità a produrre l’effetto tipico nella sfera giuridica del destinatario (provvedimento nullo o addirittura inesistente). La situazione giuridica soggettiva di cui quest’ultimo è titolare, e in particolare il diritto soggettivo, resiste, per così dire, di fronte al potere e non subisce alcun “affievolimento” (o “degradazione”) tramutandosi in un interesse legittimo.

La giurisprudenza della Corte di Cassazione ha anche individuato alcuni diritti soggettivi, che ricevono una tutela rafforzata nella Costituzione (in particolare il diritto alla salute o all’integrità

14 La sentenza capostipite è quella delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, 4 luglio

1949, n. 1657, in Foro.it. 1949, I, 926.

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dell’ambiente), che di regola non possono essere incisi dal potere amministrativo (i cosiddetti diritti non comprimibili o non degradabili) e la cui tutela è rimessa di conseguenza in via esclusiva al giudice ordinario.

Ove invece il soggetto privato lamenti il cattivo esercizio del potere, senza però contestarne in radice l’esistenza, deducendo uno dei vizi tipici del provvedimento (incompetenza, eccesso di potere, violazione di legge) che possono comportare l’annullabilità, la situazione giuridica fatta valere nei confronti dell’amministrazione ha la consistenza di un interesse legittimo.

La giurisprudenza della Corte di Cassazione ha incluso nella carenza di potere anche la cosiddetta carenza di potere in concreto, ipotesi che si verifica nei casi in cui la norma in astratto attribuisce il potere all’amministrazione, ma manca nella fattispecie concreta un presupposto essenziale per poterlo esercitare (per esempio nel caso in cui l’espropriazione non sia stata preceduta dalla dichiarazione di pubblica utilità oppure sia scaduto un termine perentorio previsto a pena di decadenza). La carenza di potere in concreto è stata oggetto di contrasti tra il giudice ordinario e il giudice amministrativo anche in ragione delle conseguenze che ne derivano in termini di ampliamento o restrizione dei rispettivi ambiti di giurisdizione.

In questi anni è in corso un ripensamento alla luce dell’art. 21-septies della l. n. 241/1990, disposizione introdotta nel 2005 che ha disciplinato in termini generali la categoria della nullità. Tale nuova norma elenca le ipotesi tassative di nullità, tra le quali figura anche il difetto assoluto di attribuzione che può essere fatto coincidere con la carenza di potere in astratto. Di conseguenza, per implicazione negativa, la carenza di potere in concreto sarebbe inquadrabile nella categoria generale della violazione di legge e determinerebbe ormai, com’è già affermato da un indirizzo giurisprudenziale e dottrinale, soltanto l’annullabilità del provvedimento emanato.

Comunque sia, la nullità di un provvedimento sembra atteggiarsi in modo diverso a seconda che il potere di cui esso è espressione tenda ad ampliare o restringere la sfera giuridica del destinatario. Nel secondo caso, la nullità priva il provvedimento della sua forza imperativa e pertanto della sua idoneità ad incidere sulle situazioni di diritto soggettivo di cui è titolare il privato, le quali, dunque, non subiscono alcun affievolimento. Nel secondo caso, l’emanazione di un provvedimento di diniego, affetto vuoi da un vizio che comporti la nullità, vuoi da un vizio

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che comporti l’annullabilità, lascia comunque insoddisfatta la pretesa del soggetto privato e non sembra influire sulla configurazione della situazione giuridica soggettiva di base di cui quest’ultimo è titolare.

9. Interessi di fatto, diffusi e collettivi.

Le norme che disciplinano l’organizzazione e l’attività della pubblica amministrazione possono imporre all’amministrazione doveri di comportamento, finalizzati alla tutela di interessi pubblici, in modo per così dire irrelato, cioè senza che ad essi corrisponda alcuna situazione giuridica o altro tipo di pretesa giuridicamente tutelata in capo a soggetti esterni all’amministrazione.

Ciò si verifica non soltanto nel caso delle norme interne, sulle quali ci si è già soffermati nel capitolo precedente, ma anche nel caso di norme poste da fonti normative primarie o secondarie. Si pensi, per esempio, alle norme che impongono alle amministrazioni di adottare atti di pianificazione (urbanistici, del traffico, in materia ambientale, paesaggistica, ecc.), di realizzare determinate opere infrastrutturali, di contenere i livelli di spesa, di raggiungere determinati standard qualitativi nell’erogazione dei servizi o di dotarsi di modelli organizzativi e funzionali particolari.

La violazione di siffatti doveri rileva, di regola, soltanto all’interno dell’organizzazione degli apparati pubblici e può dar origine, a seconda dei casi, a interventi di tipo propulsivo (diffide) o sostitutivo da parte di organi dotati di poteri di vigilanza, a sanzioni che colpiscono i dirigenti e i funzionari responsabili della violazione o ad altre forme di penalizzazione (finanziaria, divieto di assunzione di personale, ecc.).

I soggetti privati che possono trarre un beneficio o un pregiudizio indiretto da siffatte attività poste in essere dall’amministrazione per la cura di interessi pubblici possono vantare, di regola, un interesse di mero fatto (o interesse semplice) in relazione al quale le norme in questione offrono soltanto una tutela di tipo oggettivo.

I portatori di un interesse di mero fatto possono promuovere l’osservanza da parte delle amministrazioni dei doveri, per esempio, sollecitandole ad attivarsi (con segnalazioni, sollecitazioni) o attraverso campagne di sensibilizzazione dell’opinione pubblica o intraprendendo azioni di tipo politico. Gli interessi di fatto non consentono però l’esperimento di rimedi giuridici e in particolare di azioni da proporre in

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sede giurisdizionale, che sono previste soltanto per le situazioni giuridiche soggettive in senso proprio.

Emerge così la necessità di distinguere gli interessi di fatto dagli interessi legittimi. I criteri sono essenzialmente due, anche se la loro applicazione in concreto è talora problematica: il criterio della differenziazione e il criterio della qualificazione. I

Quanto al primo criterio, perché possa configurarsi l’esistenza di un interesse giuridicamente protetto, occorre anzitutto che la posizione in cui si trova il soggetto privato rispetto all’amministrazione gravata da un dovere di agire sia in qualche modo differenziata rispetto a quella della generalità dei soggetti dell’ordinamento.

Può essere rilevante a questo riguardo l’elemento fisico-spaziale della vicinanza (o vicinitas), che rende più concreto il pregiudizio in capi a taluni soggetti.

Così, per esempio, il proprietario di un terreno che confina con il terreno in relazione al quale è stata rilasciata una concessione edilizia per la costruzione di un edificio che impedirebbe una vista panoramica o determinerebbe un altro tipo di pregiudizio si trova in una posizione differenziata rispetto al proprietario di aree non contigue, poste magari a grande distanza. Allo stesso modo, se un Comune si dota di un piano del traffico che pone limiti irragionevolmente restrittivi all’accesso al centro storico a veicoli privati, i residenti o i titolari di esercizi commerciali delle zone interessate si trovano in una situazione differenziata, per esempio, rispetto ai residenti dei comuni limitrofi.

Una volta appurato il carattere differenziato di un interesse rispetto a quello della generalità dei soggetti, occorre valutare se tale interesse rientri in qualche modo nel perimetro della tutela diretta offerta dalle norme e, in particolare, da quelle che attribuiscono il potere (criterio della qualificazione giuridica dell’interesse) e se, pertanto, il suo titolare possa vantare una posizione qualificabile come interesse legittimo.

Nella casistica giurisprudenziale i due criteri appaiono strettamente correlati nel senso che quanto più differenziato in base a criteri oggettivi risulta un interesse, tanto è più probabile che esso venga ritenuto anche oggetto di una tutela giuridica da parte dell’ordinamento, e ciò anche senza che sia richiesta l’individuazione di una specifica disposizione normativa espressamente finalizzata a proteggere l’interesse del soggetto privato.

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Gli interessi di mero fatto possono avere una dimensione individuale o superindividuale. E’ così emersa in dottrina e in giurisprudenza soprattutto a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, con il maturare di una nuova consapevolezza sociale e con il moltiplicarsi dei bisogni e delle aspettative dei cittadini anche nei confronti di beni immateriali, la nozione di interesse diffuso.

Gli interessi diffusi possono essere definiti variamente come interessi non personalizzati (o adespoti), senza struttura, riferibili in modo indistinto alla generalità della collettività o a categorie più o meno ampie di soggetti (consumatori, utenti, risparmiatori, fruitori dell’ambiente, ecc.).

Il carattere diffuso dell’interesse deriva dalla caratteristica del bene materiale o immateriale ad esso correlato che non è suscettibile di appropriazione e di godimento esclusivi (ambiente, paesaggio, patrimonio storico-artistico, sicurezza stradale, concorrenza, ecc.). Con il linguaggio degli economisti, si tratta in genere di beni pubblici “non rivali” e “non escludibili”: “non rivali” perché il loro consumo o utilizzo da parte di uno non ne impedisce la fruizione da parte di un altro; “non escludibili”, perché, una volta fornito il bene, nessuno può esserne escluso dalla fruizione.

Gli interessi diffusi costituiscono una categoria dai confini incerti. Essi, infatti, superano la dimensione individuale (in quanto sono riferibili agli individui non in sé, ma in relazione al loro status di consumatore, utente, ecc.) e finiscono per sovrapporsi almeno in parte alla nozione di interesse pubblico. Essi, inoltre, oscillano, nelle varie ricostruzioni dottrinali proposte, tra l’irrilevanza giuridica (e sono dunque qualificati come interessi di mero fatto) e la riconducibilità a una situazione giuridica soggettiva tipizzata (una sorta di tertium genus rispetto al diritto soggettivo e all’interesse legittimo).

L’ordinamento giuridico, tuttavia, ha iniziato a prendere in considerazione gli interessi diffusi attribuendo ad essi una certa rilevanza sia in sede procedimentale, sia in sede processuale.

Sotto il primo profilo l’art. 9 della l. n. 241/1990 attribuisce la facoltà di intervenire nel procedimento a qualsiasi soggetto portatore di interessi pubblici o privati nonché ai “portatori di interessi diffusi costituti in associazioni o comitati” ai quali possa derivare un pregiudizio dal provvedimento. Il diritto di partecipazione consente dunque di immettere nel procedimento interessi riferibili alla collettività (ad esempio la tutela

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dell’ambiente) che non coincidono necessariamente con quello curato in via istituzionale e dall’amministrazione titolare del potere (per esempio l’amministrazione presposta alla realizzazione di un’opera pubblica), la quale dovrà, quindi, tenerne conto in sede di valutazione e ponderazione di tutti gli interessi rilevanti e di decisione finale.

Più complessa è la questione della tutela giurisdizionale degli interessi diffusi che ha avuto oscillazioni notevoli in dottrina e in giurisprudenza.

Una via proposta in dottrina, che però non ha trovato un riscontro positivo nella giurisprudenza, è stata quella di individuare nella partecipazione al procedimento amministrativo ai sensi della l. n. 241/1990 un elemento di differenziazione e qualificazione tale da consentire l’impugnazione innanzi al giudice amministrativo del provvedimento conclusivo del procedimento. Tuttavia, a ben considerare, diritto di partecipazione al procedimento e legittimazione processuale hanno funzioni diverse. La partecipazione al procedimento assolve non soltanto alla funzione di tutela preventiva degli interessi dei soggetti suscettibili di essere incisi dal provvedimento, ma anche a quella di fornire all’amministrazione una gamma più ampia di informazioni utili per esercitare meglio il potere. Essa ha dunque un ambito più ampio della legittimazione processuale che può essere riconosciuta soltanto al titolare di una situazione giuridica soggettiva in senso proprio che ha subito una lesione alla quale occorre porre rimedio.

Un’altra via è stata, in talune ipotesi, quella di ampliare le maglie dell’interesse legittimo fino a includervi, anche a costo di qualche forzatura, situazioni nelle quali il ricorrente agisce in giudizio per tutelare in realtà un interesse superindividuale.

E’ stata posta in proposito la distinzione tra interessi propriamente diffusi e interessi collettivi, cioè interessi riferibili a specifiche categorie o gruppi organizzati (associazioni sindacali dei lavoratori o imprenditoriali, partiti politici, ordini e collegi professionali, ecc.). A questi organismi è stata riconosciuta in giurisprudenza una legittimazione processuale autonoma, correlata a una situazione di interesse legittimo, allo scopo di tutelare gli interessi non già dei singoli appartenenti alla categoria (legittimati ad agire in giudizio nel caso in cui subiscano una lesione diretta nella loro sfera giuridica individuale), bensì della categoria in quanto tale. Così un ordine professionale può impugnare provvedimenti amministrativi che legittimano soggetti diversi dai propri iscritti a svolgere un’attività ritenuta rientrante nelle prerogative della categoria. Nel 2010, gli organismi rappresentativi degli avvocati hanno impugnato il

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regolamento governativo in tema di mediazione delle controversie civili perché consentiva l’esperimento della mediazione senza l’assistenza degli iscritti all’albo degli avvocati.

In materia di interessi diffusi è intervenuto in settori particolari il legislatore. Così, per esempio, in materia ambientale l’art. 18 della legge 8 luglio 1986, n. 349 attribuisce ad associazioni che abbiano ottenuto un riconoscimento dal ministero dell’Ambiente in base a certe caratteristiche minime (dimensione nazionale o ultraregionale, finalità statutarie, ordinamento interno democratico, continuità di azione) la legittimazione a ricorrere al giudice amministrativo a tutela degli interessi ambientali. In ambito civilistico, il Codice del consumo (d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206) conferisce alle associazioni di consumatori rappresentative a livello nazionale e iscritte in un elenco presso il Ministero dello Sviluppo Economico la legittimazione a proporre azioni in sede giudiziaria civile “a tutela degli interessi collettivi dei consumatori e degli utenti”.

Queste e altre analoghe previsioni legislative, lungi dal trasformare gli interessi diffusi in situazioni giuridiche soggettive di interesse legittimo o di diritto soggettivo in senso proprio, hanno una rilevanza prettamente processuale finalizzata a individuare casi di legittimazione ad agire straordinaria, cioè non collegata alla titolarità di una situazione giuridica soggettiva.

Dagli interessi diffusi e collettivi, che hanno una dimensione superindividuale in senso proprio, vanno distinti gli interessi individuali che hanno una dimensione collettiva solo per il fatto di essere comuni a una pluralità o molteplicità di soggetti, ciascuno dei quali titolare di una situazione giuridica soggettiva di tipo individuale (cosiddetti interessi individuali “omogenei” o “isomorfi”). Si pensi, per esempio, al caso degli utenti del servizio elettrico di una città nella quale si verifica una situazione di interruzione della fornitura di energia elettrica protratta nel tempo.

In questi casi l’interesse leso resta un interesse individuale e l’elemento di omogeneità e comunanza consiste nel fatto che la lesione deriva da un’attività illecita o illegittima plurioffensiva.

La tutela di questo tipo di interessi individuali non è diversa, in linea di principio, da quella prevista per ciascun diritto soggettivo o interesse legittimo di cui sono titolari i soggetti coinvolti, i quali possono agire in giudizio autonomamente. Peraltro, in molti casi, come, per esempio, nel settore dei rapporti di utenza nei servizi pubblici, si tratta di situazioni in

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cui il danno provocato è di entità limitata, tale da scoraggiare, in base a un’analisi costi-benefici, l’esperimento di un’azione in sede giurisdizionale (cosiddetti small claims).

Per questi interessi l’ordinamento prevede forme di tutela non giurisdizionale semplificate, meno formalizzate e costose, innanzi a organismi di mediazione o conciliazione, oppure innanzi alle stesse autorità amministrative di regolazione (cosiddette ADR, alternative dispute resolution, che includono vari tipi di reclami, ricorsi, ormai disciplinate da numerose disposizioni legislative settoriali).

Di recente, il legislatore ha introdotto rimedi processuali particolari ribattezzati, forse impropriamente, come “azioni di classe” (class actions) nelle quali, nell’esperienza statunitense, i diritti lesi dal comportamento illecito sono dedotti in giudizio da un rappresentante dell’intera classe (salva la facoltà dei singoli di dichiarare la loro non adesione: la cosiddetta clausola di opt out).

In particolare, il Codice del consumo prevede un’azione collettiva risarcitoria da proporsi innanzi al giudice ordinario (art. 140-bis) in relazione a comportamenti che ledono “i diritti di una pluralità di consumatori o utenti” . Inoltre, nell’ambito delle riforme amministrative più recenti è stato anche introdotto un ricorso per l’efficienza delle amministrazioni e dei concessionari di servizi pubblici da esperire innanzi al giudice amministrativo (d.lgs. 20 dicembre 2009, n. 198).

Quest’ultimo rimedio consente ai “titolari di interessi giuridicamente rilevanti ed omogenei per una pluralità di utenti e consumatori” di adire il giudice amministrativo in caso di accertata violazione di livelli e standard di qualità predefiniti, per esempio, nelle carte dei servizi o di ritardo nell’adozione di atti amministrativi generali. Il ricorso non consente una tutela risarcitoria, ma mira soltanto a ottenere una pronuncia del giudice che ripristini il corretto svolgimento della funzione o la corretta erogazione di un servizio pubblico e può essere proposto, oltre che dai singoli interessati, anche da associazioni o comitati costituiti a tutela degli interessi degli interessati. Un esempio tratto dalla prima giurisprudenza è l’azione proposta da un’associazione dei consumatori per far valere la pretesa di far rispettare all’organizzazione scolastica lo standard rappresentato dal numero massimo di alunni che possono comporre una classe.

Entrambi i testi normativi da ultimo citati, in realtà, apprestano uno strumento processuale volto a favorire l’aggregazione di azioni seriali che

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i singoli titolari delle situazioni giuridiche omogenee sarebbero comunque legittimati a proporre autonomamente.

10. I principi generali.

Completata l’analisi del rapporto giuridico amministrativo conviene ora rivolgere l’attenzione ai principi giuridici che presiedono alla funziona di amministrazione attiva.

Va premesso che nei manuali di diritto amministrativo il tema dei principi trova una pluralità di collocazioni: come testa di capitolo dell’intera disciplina e allora si fa riferimento ai principi generali del diritto amministrativo tout court; nell’ambito dell’esposizione della teoria dello Stato di diritto (principio della separazione dei poteri, riserva di legge, principio di legalità, azionabilità in giudizio delle situazioni giuridiche soggettive); a proposito dell’assetto costituzionale della pubblica amministrazione, sia sotto il profilo organizzativo (principi di organizzazione) sia sotto il profilo funzionale (principi relativi all’attività).

La scelta qui operata è nel senso di trattare in questa parte soltanto i principi relativi alla funzione amministrativa rinviando, per l’analisi dei principi relativi all’organizzazione, alla parte relativa all’assetto della pubblica amministrazione. Si è altresì ritenuto preferibile svolgere in modo unitario il tema a prescindere dal fatto che il singolo principio sia ricavabile dalla Costituzione, che all’art. 97 enuncia in particolare il principio di imparzialità e di buon andamento della pubblica amministrazione; dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che all’art. 41 disciplina il diritto ad una buona amministrazione, o dai Trattati europei, dai quali si ricavano, per esempio, i principi sussidiarietà, proporzionalità, precauzione; dalla l. n. 241/1990, che pone i principi generali dell’azione amministrativa e del procedimento.

Il plesso dei principi costituzionali, europei e legislativi che riguardano le funzioni amministrative è infatti ormai strettamente interconnesso ai vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario sia attraverso il richiamo contenuto nell’art. 117, comma 1, della Costituzione, in tema di potestà legislativa statale e regionale, sia tramite il rinvio ai principi dell’ordinamento comunitario operato dall’art. 1, comma 1, della l. n. 241/1990, in tema di attività amministrativa,.

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Sotto il profilo sistematico, conviene distinguere anzitutto, da un lato, i principi che presiedono all’attribuzione e alla disciplina delle funzioni che sono rivolti essenzialmente al legislatore (statale e regionale); dall’altro, i principi che hanno come destinatarie dirette le amministrazioni e che possono essere riferiti, con una scomposizione analitica che riprende i concetti introdotti nel primo paragrafo del capitolo, all’attività amministrativa, al procedimento, al provvedimento, all’esercizio del potere discrezionale. Caratteristica di alcuni di questi ultimi principi è la loro interdipendenza e circolarità, nel senso che, come si vedrà, pur essendo dotati di un’autonomia concettuale e giuridica, sul piano funzionale operano in modo interconnesso con un effetto di rafforzamento reciproco. Alcuni principi hanno una valenza trasversale.

a) I principi sulle funzioni.

I principi che presiedono all’allocazione delle funzioni sono rivolti al legislatore statale e regionale allorché pongono una disciplina dei diversi livelli di governo e sono enunciati anzitutto nella Costituzione. L’art. 118, infatti, richiama i principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza che vanno a integrare e a rafforzare il principio del decentramento posto dall’art. 5.

L’art. 118 prevede che la generalità delle funzioni sia attribuita al livello di governo più vicino al cittadino e cioè al Comune. Solo le funzioni delle quali è necessario assicurare un esercizio unitario che supera la dimensione territoriale dei Comuni possono essere attribuite ai livelli di governo via via più elevati e cioè alle Province, alle Città metropolitane, alle Regioni e allo Stato. Le funzioni amministrative vanno dunque allocate tra gli enti territoriali secondo il criterio della dimensione degli interessi (locale, regionale o nazionale).

Il principio di sussidiarietà è richiamato, come si è accennato, anche dall’art. 4, comma 4, del Trattato sull’Unione europea per quanto attiene ai rapporti tra Stati membri e istituzioni dell’Unione.

I principi posti dall’art. 118 della Costituzione trovano svolgimento nelle singole materie di legislazione amministrativa nel d.lgs. n. 112/1998, già richiamato all’inizio di questo capitolo, che costituisce il tentativo di riordino delle funzioni più organico operato in epoca recente. Il decreto legislativo è stato emanato sulla base della legge di delega n. 59/1997 che merita di essere analizzata in questa sede perché specifica e sviluppa i principi enunciati nella disposizione costituzionale. La legge di

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delega per il conferimento delle funzioni ai vari livelli di governo definisce meglio il principio di adeguatezza, che si riferisce “all’idoneità organizzativa dell’amministrazione ricevente (le funzioni, nda)”, e il principio di differenziazione, che mira a tener conto “delle diverse caratteristiche, anche associative, demografiche, territoriali e strutturali degli enti riceventi” (art. 4, comma 3, lett. g) e h)). Questi due principi consentono di tener conto delle specificità di oltre 8.000 Comuni e di oltre 100 Province e sono volti anche a sollecitare l’attivazione di forme di collaborazione tra enti territoriali per l’esercizio in forma associata di talune funzioni.

La legge delega menziona altresì, in particolare, i principi di efficienza e di economicità, di responsabilità ed unicità dell’amministrazione (con l’attribuzione a un unico soggetto delle funzioni e dei compiti connessi, strumentali e complementari), di omogeneità, di copertura finanziaria e patrimoniale dei costi per l’esercizio delle funzioni, di autonomia organizzativa e regolamentare (art. 4, comma 3).

Si è fatto sin qui riferimento al principio della sussidiarietà cosiddetta verticale, che riguarda appunto la distribuzione delle funzioni all’interno di un’amministrazione pubblica multilivello. La Costituzione richiama anche la sussidiarietà cosiddetta orizzontale che attiene invece ai rapporti tra poteri pubblici e società civile. L’art. 118, comma 4, stabilisce, infatti, che lo Stato e gli enti territoriali “favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”. Questa disposizione ha il valore simbolico, da un lato, di escludere che i poteri pubblici detengano il monopolio nella cura degli interessi della collettività, e, dall’altro, di assegnare quasi un ruolo di primazia a forme di auto-organizzazione della società civile.

I principi in questione, essendo rivolti al legislatore, sono soprattutto principi e criteri di “policy” da fare valere nelle sedi politiche, più che principi giuridici che fondano pretese azionabili in sede giurisdizionale.

b) I principi sull’attività.

Passando a considerare i principi che presiedono all’attività amministrativa, si è già richiamato l’art. 1 della l. n. 241/1990 secondo il quale “l’attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge ed è retta da criteri di economicità, di efficacia, di imparzialità, di pubblicità e di trasparenza (…) nonché dai principi dell’ordinamento comunitario”.

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Tali criteri, sebbene riferiti testualmente all’attività, possono valere anche per il procedimento e l’atto amministrativo.

Poiché, come si è accennato, l’attività amministrativa si riferisce in modo unitario al complesso delle operazioni, comportamenti e atti posti in essere da un apparato amministrativo, anche l’applicazione dei criteri enunciati nell’art. 1 avviene attraverso un giudizio globale, da un lato, di coerenza rispetto alla “missione” affidata dal legislatore e di conformità complessiva, al di là della legittimità dei singoli atti, alle norme giuridiche e ai principi cui è assoggettato l’apparato amministrativo, e, dall’altro lato, sotto un aspetto essenzialmente qualitativo, di buon andamento, cioè di risultati positivi effettivamente conseguiti mediante l’uso efficiente delle risorse disponibili.

A tal proposito, è stata di recente elaborata, come si è accennato, la nozione di “amministrazione di risultato” che si correla a quella più tradizionale di buon andamento cui fa riferimento l’art. 97 della Costituzione. Si tratta di una nozione dai contorni sfumati che, però, tende a mettere in luce come nell’attuale fase evolutiva dell’ordinamento sia cresciuta l’attenzione nei confronti dell’efficienza, efficacia ed economicità dell’azione amministrativa. E’ così in via di superamento l’impostazione più tradizionale che considerava l’azione amministrativa principalmente nel prisma della legalità formale ed era incline a ritenere che il rispetto della legalità fosse di per sé garanzia del buon andamento della pubblica amministrazione.

L’amministrazione di risultato rende maggiormente autonomo questo concetto, introducendo criteri di valutazione delle “performance” degli apparati amministrativi di tipo aziendalistico. Di recente, il legislatore, nel contesto di una riforma volta a promuovere l’efficienza della pubblica amministrazione, ha disciplinato il cosiddetto “ciclo delle performance” che si applica anzitutto agli apparati amministrativi nel loro complesso (d.lgs. 27 ottobre 2009, n. 150). Le fasi del ciclo delle performance sono principalmente la definizione di obiettivi, l’allocazione delle risorse, il monitoraggio in corso di esercizio, la misurazione e valutazione della performance organizzativa e dei singoli dipendenti, l’utilizzo di sistemi premianti. La performance organizzativa è collegata, in particolare, al grado di soddisfazione dei cittadini e degli utenti, all’efficienza nell’impiego delle risorse, nella quantità e qualità dei servizi erogati (art. 8).

Più precisamente, in base alle scienze aziendali alle quali fanno rinvio le norme giuridiche, il principio di efficienza, richiamato dall’art. 1 della

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l. n. 241/1990 attraverso il riferimento all’economicità, pone in rapporto la quantità di risorse impiegate con il risultato dell’azione amministrativa e pone l’accento sull’uso ottimale dei fattori produttivi. E’ efficiente l’attività amministrativa che raggiunge un certo livello di “performance” utilizzando in maniera economica le risorse disponibili e scegliendo tra le alternative possibili quella che produce il massimo dei risultati con il minor impiego di mezzi. Si distingue tra efficienza tecnica o produttiva (che attiene al modo in cui i fattori sono utilizzati nel processo produttivo) ed efficienza allocativa o gestionale.

Il principio di efficacia mette invece in rapporto i risultati effettivamente ottenuti con gli obiettivi prefissati (livelli qualitativi di un servizio, soddisfazione dell’utenza, ecc.) in un piano o un programma.

I due principi operano in modo indipendente, perché può anche darsi il caso di un livello elevato di efficacia, raggiunto però con un impiego inefficiente delle risorse. Inversamente può anche darsi il caso di un’azione efficiente, perché non dà luogo a sprechi, ma inefficace perché non raggiunge con successo gli obiettivi prefissati.

L’economicità si riferisce alla capacità di lungo periodo di un’organizzazione di utilizzare in modo efficiente le proprie risorse raggiungendo in modo efficace i propri obiettivi e, in qualche modo, condensa gli altri due principi.

c) I principi sul procedimento.

Il terzo piano di analisi dei principi attiene alle modalità di esercizio del potere amministrativo, cioè al procedimento amministrativo, rispetto al quale rilevano soprattutto due principi: il principio del contraddittorio e il principio di pubblicità e di trasparenza.

Il principio del contraddittorio non trova un fondamento diretto nella Costituzione, ma è richiamato nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea secondo la quale ogni individuo ha diritto “di essere ascoltato prima che nei suoi confronti venga adottato un provvedimento individuale che gli rechi pregiudizio” (art. 41, comma 2) ed è poi sviluppato, come si vedrà, nella l. n. 241/1990, che disciplina la partecipazione al procedimento amministrativo (artt. 7 e seg.).

La stessa Corte di giustizia, da lungo tempo, qualifica tale principio come “principio di diritto amministrativo ammesso in tutti gli Stati membri della Comunità e che risponde alle esigenze della giustizia e

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della sana amministrazione” (Corte. Giust. 4 luglio 1963 in causa C-323/63). Del resto anche il Consiglio di Stato, nel silenzio della legge, fin dalle sue prime decisioni lo fece proprio in quanto “principio di eterna giustizia” che trova un fondamento ultimo nella legge di natura (Cons. St., IV Sez., 29 novembre 1895, n. 423).

Anche il principio di pubblicità e di trasparenza è enunciato nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, secondo la quale ogni individuo ha diritto “di accedere al fascicolo che lo riguarda, nel rispetto dei legittimi interessi della riservatezza e del segreto professionale” (art. 41, comma 2). Nelle disposizioni generali del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea è precisato che “Al fine di promuovere il buon governo e garantire la partecipazione della società civile, le istituzioni, gli organi e gli organismi dell’Unione operano nel modo più trasparente possibile” (art. 15). Viene altresì stabilito che le istituzioni, gli organi e organismi dell’Unione si basano su “un’amministrazione europea aperta” (oltre che “efficace ed indipendente”: art. 298), ispirandosi così al principio dell’open government in base al quale le determinazioni assunte devono essere rese accessibili a chi vi ha interesse.

Il principio in questione rileva in due ambiti. Il primo, più ampio, si riferisce alla messa a disposizione della generalità degli interessati, con modalità di pubblicazione predeterminate da parte dell’amministrazione (albi, bollettini, siti, ecc.), di una serie di informazioni riguardanti l’organizzazione e l’attività dell’amministrazione stessa. L’art. 26 della l. n. 241/1990 impone all’amministrazione l’obbligo di pubblicare un’ampia gamma di atti organizzativi e di regolazione. L’art. 12 della medesima legge, già richiamato a proposito della discrezionalità, prevede la pubblicazione dei criteri generali per la concessione di sovvenzioni, contributi e altre erogazioni finanziarie.

Il secondo ambito, più specifico, si riferisce al diritto di accesso ai documenti amministrativi che la l. n. 241/1990 definisce come “principio generale dell’attività amministrativa al fine di favorire partecipazione e di assicurarne l’imparzialità e la trasparenza” (art. 22, comma 2) e regola sotto due profili.

In primo luogo, lo include tra i diritti attribuiti ai soggetti che possono partecipare al procedimento (art. 10), instaurando così un legame funzionale tra principio di trasparenza (sotto forma di accesso al fascicolo procedimentale) e diritto di partecipazione, che ne esce così rafforzato (partecipazione informata). In secondo luogo, nel Capo V intitolato “Accesso ai documenti amministrativi”, lo disciplina come diritto

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autonomo che può essere esercitato dai soggetti interessati anche al di fuori del procedimento.

La pubblicità e la trasparenza così intese si ricollegano alla concezione dell’amministrazione come “casa di vetro” (F. TURATI), divenendo così un fattore volto a promuovere la verificabilità ex post e dunque, in definitiva, l’imparzialità delle decisioni. Inoltre, poiché consentono un controllo diffuso per così dire da basso, esse fungono anche da fattore di legittimazione degli apparati amministrativi.

Un altro principio è costituito dal principio di certezza e celerità. La Carta europea dei diritti fondamentali attribuisce a ogni individuo anche il diritto a “che le questioni che lo riguardano siano trattate (…) entro un termine ragionevole” (art. 41, comma 1), diritto che la l. n. 241/1990 specifica nella disciplina volta a individuare per ciascun tipo di procedimento un termine massimo entro il quale l’amministrazione deve emanare il provvedimento finale che conclude il procedimento amministrativo (art. 2). La durata ragionevole del procedimento e il rispetto dei termini massimi perseguono due obiettivi. In primo luogo, tutelano gli interessi dei soggetti coinvolti, per i quali, in particolare, la certezza del tempo dell’agire dell’amministrazione costituisce un fattore essenziale per poter programmare le proprie attività. In secondo luogo, tendono a promuovere l’efficienza e l’efficacia dell’azione amministrativa: l’ottimizzazione dei tempi dei procedimenti amministrativi costituisce uno degli indicatori della performance organizzativa (art. 8, lett. f) del d.lgs. n. 150/2009) e il rispetto del termine un elemento di valutazione dell’operato dei responsabili degli uffici.

Infine, la l. n. 241/1990 richiama il principio di efficienza, prevedendo, in particolare, che l’amministrazione “non può aggravare il procedimento se non per straordinarie e motivate esigenze imposte dallo svolgimento dell’istruttoria” (art. 1, comma 2).

d) I principi sul provvedimento.

Il quarto piano di analisi attiene ai principi che si riferiscono specificamente al provvedimento amministrativo. Quello più generale che merita di essere richiamato in questa disamina introduttiva è il principio della motivazione. Anch’esso è desumibile dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea laddove sancisce “l’obbligo per l’amministrazione di motivare le proprie decisioni” (art. 41, comma 2) e, come si vedrà, dalla l. n. 241/1990 (art. 3). Poiché attraverso la

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motivazione il destinatario del provvedimento e il giudice amministrativo sono messi in grado di ricostruire le ragioni poste a fondamento della decisione il principio della motivazione può essere messo in relazione con il principio di trasparenza e, in ultima analisi, con quello dell’imparzialità della decisione.

Un altro principio è quello di sindacabilità degli atti amministrativi (o anche di azionabilità delle situazioni giuridiche soggettive nei confronti della pubblica amministrazione) sancito dagli artt. 24 e 113 della Costituzione: gli atti amministrativi che ledono i diritti soggettivi e gli interessi legittimi sono sempre assoggettati al controllo giurisdizionale del giudice ordinario o del giudice amministrativo.

e) I principi sull’esercizio della discrezionalità.

L’ultimo piano di analisi dei principi si riferisce all’esercizio del potere discrezionale. Tali principi fungono da guida per l’amministrazione nei casi in cui la norma di azione le conferisce ambiti di scelta tra una pluralità di soluzioni tutte quante in astratto compatibili con la norma.

Va considerato, in primo luogo, il principio di imparzialità richiamato dall’art. 97 della Costituzione e dall’art. 41 della Carta dei diritti fondamentali Ue. Riferito all’esercizio della discrezionalità, esso consiste essenzialmente nel “divieto di favoritismi” (M.S. GIANNINI) o, con il linguaggio frequente nella normativa europea, nel divieto di discriminazione: l’amministrazione, nel momento in cui opera la ponderazione degli interessi in gioco, non può essere indebitamente influenzata nelle sue decisioni da interessi politici di parte, di gruppi di pressione privati (lobby) o di singoli individui o imprese, magari per ragioni di amicizia o di legami di famiglia. Il principio di imparzialità (o il principio europeo di non discriminazione), così inteso, è posto a garanzia della parità di trattamento (par condicio) e, in definitiva, dell’eguaglianza dei cittadini di fronte all’amministrazione.

Il principio di imparzialità introduce per le amministrazioni un vincolo giuridico che è assente nel caso dell’agire dei soggetti privati, i quali ben possono orientare le proprie scelte avvantaggiando gli uni e svantaggiando gli altri a proprio piacimento, purché non vengano superati i limiti generali o speciali dell’autonomia negoziale (per esempio, in materia successoria, con riguardo alla capacità testamentaria). Il principio di imparzialità è quello che permea maggiormente l’attività e, come si vedrà, anche l’organizzazione della pubblica amministrazione. Ad essa

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sono funzionali altri principi (in particolare, come si visto, la pubblicità e trasparenza, la motivazione e il principio di concorsualità nei contratti pubblici o nell’accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni).

Il principio di imparzialità può entrare in tensione con il principio della responsabilità politica delle amministrazioni volto a inserirle nel circuito politico amministrativo (art. 95 della Costituzione). I vertici delle pubbliche amministrazioni (ministri, presidenti di regioni, sindaci), che costituiscono il punto di raccordo tra politica e amministrazione, sono portati a perseguire obiettivi coerenti con le priorità della propria base elettorale. E siccome gli apparati amministrativi sono i principali erogatori di risorse e di altri benefici diretti o indiretti (assunzioni di dipendenti, contratti, atti autorizzativi, ecc.) utili al fine dell’accrescimento del consenso elettorale, i vertici politici tendono a debordare dalla funzione di indirizzo politico-amministrativo che è ad essi propria, ingerendosi nella gestione e, dunque, cercando di condizionare le scelte amministrative.

Un secondo principio che presiede all’esercizio della discrezionalità è il principio di proporzionalità che trae origine dalla giurisprudenza costituzionale e amministrativa tedesca (Verhältnismässigkeit) e che è stato poi fatto proprio dalla Corte di giustizia soprattutto in materia di sanzioni, di aiuti di Stato, di introduzione di deroghe alle regole della concorrenza, assurgendo così a principio generale dell’ordinamento comunitario. Esso è enunciato anche nel Trattato sull’Unione europea, secondo il quale “il contenuto e la forma dell’azione dell’Unione si limitano a quanto necessario per il conseguimento degli obiettivi dei trattati” (art. 5, comma 4).

Il principio di proporzionalità, che assume particolare rilievo nel caso di poteri che incidono negativamente nella sfera giuridica del destinatario (sanzioni, imposizione di obblighi, ecc.), richiede all’amministrazione che opera la valutazione discrezionale un giudizio guidato, in sequenza, da tre criteri: idoneità, necessarietà e adeguatezza della misura prescelta.

L’idoneità (Geeignetheit) mette in relazione il mezzo adoperato con l’obiettivo da perseguire. In base a tale criterio vanno scartate tutte le misure che non sono in grado di raggiungere il fine. La necessarietà (Erforderlichkeit), detta anche la “regola del mezzo più mite” (Gebot des mildesten Mittels), mette a confronto le misure ritenute idonee e orienta la scelta su quella che comporta il minor sacrificio possibile degli interessi incisi dal provvedimento. L’adeguatezza (Angemessenheit) consiste nella valutazione (Abwägung) della scelta finale in termini di tollerabilità della

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restrizione o incisione nella sfera giuridica del destinatario del provvedimento: gli inconvenienti causati non devono essere sproporzionati rispetto agli scopi perseguiti e se essi superano un determinato livello va rimessa in discussione la scelta medesima.

In definitiva, per riprendere una nota immagine (W. JELLINEK), la proporzionalità consiste “nell’accertare se per sparare ai passeri si è impiegato un cannone”.

Il principio di proporzionalità costituisce una specificazione di un principio ancor più generale, di natura in realtà pregiuridica, costituito dal principio di ragionevolezza. In base alla teoria delle scelte razionali, infatti, anche la pubblica amministrazione, al pari degli operatori economici (il cosiddetto homo economicus), è da considerare come un agente in grado di perseguire determinati obiettivi ponendo in essere azioni logiche, coerenti e ad essi funzionali. Si può ritenere infatti illogico, prima ancora che sproporzionato, l’impiego di un mezzo che eccede per dimensione o intensità quello strettamente necessario per raggiungere l’obiettivo. Il principio di ragionevolezza ha una dimensione più ampia rispetto a quello di proporzionalità e assume rilievo generale nell’ambito del sindacato di legittimità dei provvedimenti amministrativi come figura sintomatica dell’eccesso di potere.

Il principio di proporzionalità, oltre ad essere criterio di esercizio della discrezionalità, è, anzitutto in base al diritto europeo, un parametro che deve guidare il legislatore nel momento in cui disciplina i poteri delle amministrazioni. Esso è, per esempio, richiamato, come si vedrà, nel decreto legislativo 26 marzo 2010, n. 59 di recepimento della direttiva 2006/123/CE relativa al mercato interno dei servizi. Infatti, la scelta se istituire o mantenere un regime di autorizzazione preventiva piuttosto che di semplice comunicazione all’amministrazione dell’avvio di un’attività deve avvenire nel rispetto dei principio di proporzionalità (oltre che di non discriminazione) (art. 14), valutando, come chiarisce la direttiva, se “ l’obiettivo perseguito non può essere conseguito tramite una misura meno restrittiva” (art. 9, comma 1, lett. c)). Anche le condizioni che possono essere previste per le autorizzazioni devono essere giustificate da un motivo imperativo di interesse generale e commisurate all’obiettivo di interesse generale (art. 10).

Un altro principio che presiede all’esercizio della discrezionalità, anch’esso di derivazione europea ed elaborato prima ancora nella giurisprudenza tedesca (Vertrauensschutz) è il principio del legittimo affidamento. Esso mira a tutelare le aspettative ingenerate dalla pubblica

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amministrazione con un proprio atto o comportamento. Nel diritto europeo il principio ha trovato applicazione, per esempio, nella materia degli aiuti di Stato, con riferimento alla quale la giurisprudenza ha chiarito che l’azione di recupero di aiuti concessi illegittimamente a imprese è esperibile dalla Commissione Ue senza alcun termine di prescrizione incontra un limite nel legittimo affidamento solo quando l’aiuto sia stato erogato nel rispetto delle norme comunitarie.

Nel diritto interno, in particolare, il principio del legittimo affidamento interviene a proposito del potere di annullamento d’ufficio del provvedimento illegittimo, per l’esercizio del quale è richiesta all’amministrazione una valutazione degli interessi dei destinatari del provvedimento e una considerazione del tempo ormai trascorso (art. 21-nonies della l. n. 241/1990).

Il principio della tutela del legittimo affidamento si ricollega a un principio più generale di diritto europeo che è quello della certezza del diritto, enunciato anch’esso dalla Corte di giustizia, che mira a garantire un quadro giuridico stabile e chiaro, essenziale in un’economia di mercato fondata, come si è accennato nel Cap. 1, già secondo Max Weber sul calcolo razionale. Tale principio ha come destinatario anzitutto il legislatore, ma implica che anche l’agire dell’amministrazione deve essere prevedibile e coerente nel suo svolgimento.

Va menzionato, da ultimo, il principio di precauzione, espressamente riconosciuto in materia ambientale nel Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (art. 191) ed elevato dalla giurisprudenza comunitaria a principio di carattere generale applicabile nei campi di azione che involgono interessi pubblici come la salute e la sicurezza dei consumatori. Il principio di precauzione comporta che, quando sussistono incertezze giuridiche in ordine alla esistenza o al livello di rischi per la salute delle persone, le autorità competenti possono adottare misure protettive senza dover attendere che sia dimostrata in modo compiuto la realtà e la gravità di tali rischi. La giurisprudenza italiana ha iniziato a utilizzarlo, per esempio, in materia di autorizzazione alla messa in coltura di sementi geneticamente modificate (Ogm) o in materia di inquinamento da elettromagnetismo.

Sul principio di precauzione è intervenuta una Comunicazione della Commissione (2 febbraio 2000 COM) che illustra i fattori che giustificano il ricorso al principio (identificazione degli effetti potenzialmente negativi, valutazione scientifica, incertezza scientifica) e le misure da adottare (decisione di agire o di non agire, adozione di

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misure proporzionate, non discriminatorie, coerenti, che esaminano in modo comparato vantaggi e oneri, ecc.).

Il principio di precauzione costituisce anzitutto un principio guida per il legislatore, ma può trovare applicazione, entro certi limiti, anche come regola di esercizio della discrezionalità.

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CAP. IV

IL PROVVEDIMENTO AMMINISTRATIVO

1. Premessa; 2. Il regime del provvedimento amministrativo: a) la tipicità; 3. Segue: b) la cosiddetta imperatività; 4. Segue: c) L’esecutorietà e l’efficacia; d) l’inoppugnabilità; 5. Gli elementi strutturali dell’atto amministrativo. L’obbligo di motivazione; 6. I provvedimenti ablatori reali, i provvedimenti ordinatori, le sanzioni amministrative; 7. Le attività libere assoggettate a regime di comunicazione preventiva. La segnalazione certificata di avvio dell’attività. 8. Le autorizzazioni e le concessioni; 9. Gli atti dichiarativi; 10) Altre classificazioni: atti collettivi, atti plurimi, atti di alta amministrazione, atti collegiali; 11. L’invalidità dell’atto amministrativo; 12. L’annullabilità: a) l’incompetenza; b) la violazione di legge; 13. Segue: c) l’eccesso di potere; 14. La nullità; 15 L’annullamento d’ufficio, la convalida, la ratifica, la sanatoria, la conferma, la conversione, la revoca, il recesso.

1. Premessa.

Nel capitolo che precede è già stata introdotta la nozione di provvedimento che può essere definito come la manifestazione del potere amministrativo volta a disciplinare un rapporto giuridico intercorrente tra la pubblica amministrazione e un soggetto privato e avente per oggetto un bene della vita.

Si è anche osservato che manca nel nostro ordinamento sia una definizione legislativa di atto o provvedimento, sia una disciplina organica delle sue caratteristiche strutturali e funzionali. Il suo regime giuridico si ricava in parte dalle disposizioni contenute nella l. n. 241/1990, in parte dall’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale. Il Capo IV-bis della l. n. 241/1990, aggiunto dalla l. n. 15/2005, disciplina alcuni aspetti del regime del provvedimento, come l’efficacia, l’invalidità, la revoca e l’annullamento d’ufficio. Ma si è già accennato a come il giudice amministrativo, partendo dalle scarne disposizioni della legge del 1889 istitutiva della IV Sezione del Consiglio di Stato, si fece carico di costruire, tra le nozioni fondamentali del diritto amministrativo, quella di atto impugnabile.

Nel Cap I, nell’esaminare i casi principali di “fallimenti del mercato”,

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si è fatto cenno a varie misure di command and control (autorizzazioni, imposizione di obblighi e prescrizioni, sanzioni, ecc.) attribuite alla competenza dei pubblici poteri. Tali misure vanno ad integrare il diritto comune che manca di strumenti idonei per curare in modo adeguato gli interessi pubblici di volta in volta coinvolti.

Così, per esempio, ove venga assunta la decisione di realizzare un’infrastruttura pubblica, come una nuova tratta ferroviaria o autostradale, l’acquisizione dei terreni potrebbe certamente avvenire tramite contratti di compravendita, là dove i proprietari fossero tutti disponibili a cedere la proprietà. Ma in mancanza del consenso di questi ultimi lo Stato ha a disposizione uno strumento coattivo qual è l’espropriazione per pubblica utilità.

Allo stesso modo, lo Stato ben potrebbe avviare una campagna di sensibilizzazione a favore dell’ambiente o erogare contributi economici (o concedere agevolazioni fiscali) alle imprese che utilizzano impianti meno inquinanti. Ma in molti casi si rivela più efficace il ricorso a misure prescrittive (per esempio, l’imposizione di limiti massimi alle emissioni inquinanti), a strumenti di controllo preventivo (autorizzazione all’installazione di fonti inquinanti) e a strumenti repressivi (sanzioni pecuniarie per colpire comportamenti non conformi alle normative di settore).

Ancora, i proprietari dei terreni di un Comune, almeno in teoria, potrebbero raggiungere un accordo sullo sviluppo razionale e ordinato dell’edificazione del territorio. Ma poiché all’atto pratico ciò è impossibile, a questo fine provvedono i piani regolatori comunali (e gli altri strumenti urbanistici) e i permessi a costruire rilasciati ai singoli proprietari.

Il decreto di espropriazione, la sanzione amministrativa, l’autorizzazione, il piano regolatore, il permesso a costruire costituiscono esempi tipici di atti amministrativi per mezzo dei quali l’autorità amministrativa competente provvede alla cura in concreto dell’interesse pubblico di cui essa è tenuta a farsi carico in base alla legge.

Il provvedimento amministrativo costituisce dunque una manifestazione dell’autorità dello Stato. In un sistema costituzionale improntato al principio della tendenziale separazione dei poteri l’atto amministrativo, espressione del potere esecutivo, si colloca a fianco di due atti tipici riconducibili agli altri due poteri dello Stato: la legge, che è espressione del potere legislativo attribuito a un organo elettivo (il

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Parlamento) e che innova l’ordinamento giuridico, definendo in via generale e astratta i diritti e gli obblighi dei cittadini (la cosiddetta forza di legge); la sentenza, che è espressione del potere giurisdizionale attribuito a magistrature indipendenti e che risolve la controversia sottoposta all’esame del giudice imponendo alle parti coinvolte nella lite, in modo definitivo e non più discutibile (la cosiddetta autorità del giudicato), la regola concreta del rapporto giuridico intercorrente tra esse.

Come si è già accennato, il provvedimento, così come la legge e la sentenza, è assunto all’esito di un procedimento atto a garantire trasparenza e tutela degli interessi coinvolti.

2. Il regime del provvedimento amministrativo: a) la tipicità

Passando a considerare il regime e i caratteri dell’atto amministrativo, va richiamata anzitutto la tipicità. Essa si contrappone all’atipicità dei negozi giuridici privati enunciata dall’art. 1322, secondo comma, cod. civ., in base al quale l’autonomia negoziale consente alle parti di concludere contratti non appartenenti ai tipi disciplinati dallo stesso codice civile, purché siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico.

Il principio di tipicità è uno dei corollari del principio di legalità (sul quale ci si è già soffermati nel Cap. II) secondo il quale le pubbliche amministrazioni possono esercitare soltanto i poteri che vengono ad esse conferiti espressamente dalla legge. In mancanza, esse possono operare avvalendosi esclusivamente della capacità di diritto privato.

I provvedimenti devono trovare dunque un fondamento espresso nella legge (in questo senso si parla anche di nominatività dei provvedimenti amministrativi) e corrispondono soltanto ai tipi previsti dalla legge. Come si è visto trattando della norma d’azione, quest’ultima deve predefinire in modo più o meno rigoroso, anche nel caso di attribuzione all’amministrazione di ambiti di valutazione discrezionale, i presupposti per l’esercizio del potere, il contenuto e gli effetti giuridici che si producono nella sfera giuridica del destinatario.

Costituiscono un’eccezione o quanto meno un’attenuazione del principio di tipicità le cosiddette ordinanze contingibili e urgenti che, come si è visto nel Cap. II, possono essere emanate solo nei casi previsti dalla legge e sono dunque nominate, ma non sono tipizzate, poiché la legge lascia all’organo competente uno spazio assai ampio nella

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determinazione del contenuto e degli effetti.

Il principio di tipicità esclude che si possano riconoscere in capo all’amministrazione poteri impliciti, anche se, secondo la giurisprudenza, è sufficiente in molti casi che le disposizioni legislative contengano un fondamento generico del potere.

3. Segue: b) la cosiddetta imperatività.

Intuitivamente, dagli esempi fatti nel primo paragrafo si può già ricavare che l’atto amministrativo si differenzia dai negozi di diritto privato poiché è dotato di una particolare forza giuridica atta a far prevalere, ove occorra, l’interesse pubblico sugli interessi dei soggetti privati. Le relazioni giuridiche tra l’autorità titolare del potere e competente a emanare l’atto amministrativo e il soggetto privato che ne è destinatario hanno un carattere per così dire verticale e autoritario (o di sovraordinazione).

Le relazioni giuridiche tra soggetti privati hanno invece, di regola, un carattere per così dire orizzontale e paritario (o di equiordinazione). I negozi giuridici, in particolare, si fondano di regola sul consenso delle parti, come nel caso di due soggetti che decidano di stipulare un contratto per la regolamentazione dei propri interessi.

Emerge qui un secondo carattere del provvedimento amministrativo e cioè l’imperatività (o autoritarietà, secondo l’espressione deducibile, come si è visto, dall’art. 1, comma 1-bis, della l. n. 241/1990).

L’imperatività consiste nel fatto che la pubblica amministrazione titolare di un potere attribuito dalla legge può, mediante l’emanazione del provvedimento, imporre al soggetto privato destinatario di quest’ultimo le proprie determinazioni. Essa può essere definita, più tecnicamente, come l’attitudine del provvedimento a modificare in modo unilaterale la sfera giuridica del soggetto privato destinatario senza che sia necessario acquisire il suo consenso.

Nell’esempio già fatto dell’espropriazione, l’atto conclusivo del procedimento produce in via autoritativa lo stesso effetto traslativo del diritto di proprietà che potrebbe essere realizzato attraverso il contratto di compravendita.

Quanto ai tipi di effetti che possono essere prodotti dal provvedimento, trattando della struttura della norma di azione si è già operata la distinzione tra effetti costitutivi in senso stretto, effetti modificativi ed

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effetti estintivi di situazioni giuridiche dei soggetti privati.

La nozione di imperatività emerse in giurisprudenza nella seconda parte del secolo XIX, per individuare l’ambito della giurisdizione del giudice ordinario nei confronti della pubblica amministrazione, limitato ai cosiddetti “atti di gestione” (espressione della capacità di diritto privato), da tener distinti appunto dagli “atti di imperio”.

Essa servì per lungo tempo a giustificare la “degradazione” (o affievolimento) del diritto soggettivo in interesse legittimo ad opera del provvedimento radicando così la giurisdizione del giudice amministrativo. A ben considerare, in una visione più moderna, l’imperatività non è altro che l’unilateralità nella produzione di un effetto giuridico che accomuna ogni atto di esercizio di un potere in senso proprio (B. MATTARELLA). L’espressione è tuttavia ancora ben radicata nell’uso.

L’imperatività del provvedimento non presuppone la validità del medesimo, cioè la sua piena conformità alla norma attributiva del potere. Anche l’atto illegittimo ha l’attitudine a produrre gli effetti tipici che potranno essere rimossi, insieme al provvedimento emanato, soltanto ove quest’ultimo venga caducato o in seguito a una sentenza di annullamento all’esito di un ricorso innanzi al giudice amministrativo (o in seguito all’annullamento pronunciato dalla stessa amministrazione in sede di controllo o nell’esercizio dei poteri di autotutela). Vale cioè quello che è stato definito il principio dell’equiparazione dell’atto invalido all’atto valido (M.S. GIANNINI). Solo il provvedimento affetto da nullità ai sensi dell’art. 21-septies della l. n. 241/1990 non ha carattere imperativo e dunque le situazioni giuridiche soggettive di cui è titolare il soggetto privato destinatario non sono incise e “resistono” di fronte alla pretesa dell’amministrazione.

L’imperatività emerge con più evidenza negli atti amministrativi che determinano effetti ablatori o comunque restrittivi della sfera giuridica del destinatario (ai quali corrispondono gli interessi legittimi oppositivi). La volontà eventualmente contraria del soggetto privato non preclude il prodursi dell’effetto giuridico. Il destinatario del provvedimento si trova dunque in una posizione di passività (più tecnicamente di soggezione).

Ma, a ben vedere, la relazione giuridica con l’amministrazione non è paritaria neppure nel caso degli atti amministrativi emanati su domanda o istanza dell’interessato e che determinano un effetto ampliativo della sfera giuridica di quest’ultimo attribuendogli un diritto, una facoltà o altra utilità (ai quali corrispondono gli interessi legittimi pretensivi).

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Infatti, la domanda o istanza del privato fa sorgere in capo all’amministrazione (ex art. 2 della l. n. 241/1990) un dovere di avviare il procedimento (dovere di procedere) e di emanare all’esito di quest’ultimo, ove il soggetto privato risulti in possesso dei presupposti e dei requisiti di legge, il provvedimento richiesto (dovere di provvedere). La volontà del soggetto privato espressa nell’istanza costituisce il fatto presupposto che legittima l’esercizio del potere. Essa però non si fonde con quella dell’amministrazione che emana il provvedimento, a differenza di quanto accade invece nel caso dei negozi giuridici privati. L’effetto giuridico ampliativo viene comunque prodotto in via unilaterale dal provvedimento emanato.

Oltretutto, in molte fattispecie di provvedimenti ampliativi (per esempio le autorizzazioni in materia ambientale), l’amministrazione può imporre discrezionalmente nell’atto rilasciato prescrizioni e condizioni, in relazione alle quali il soggetto privato non ha prestato alcun consenso, volte a rendere più compatibile l’attività svolta dal privato con l’interesse pubblico da tutelare. Questo tipo di condizioni, che vanno qualificate, sulla falsariga del negozio giuridico, come elementi accidentali del provvedimento, fanno acquisire alle autorizzazioni discrezionali anche una valenza prescrittiva autoritativa.

4. Segue: c) l’esecutorietà e l’efficacia; d) l’inoppugnabilità.

c) Una seconda caratteristica di molti provvedimenti amministrativi è la cosiddetta esecutorietà oggi disciplinata dall’art 21-ter della l. n. 241/1990. Essa può essere definita come il potere dell’amministrazione di procedere all’esecuzione coattiva del provvedimento in caso di mancata cooperazione da parte del privato obbligato, senza dover rivolgersi preventivamente a un giudice allo scopo di ottenere l’esecuzione forzata.

Se l’imperatività (intesa come unilateralità) introduce una deroga al principio generale che ricollega, nei rapporti paritari, il prodursi dell’effetto giuridico negoziale al perfezionamento dell’accordo tra le parti, cioè al consenso da esse raggiunto, l’esecutorietà deroga al principio civilistico del divieto di autotutela, cioè di farsi giustizia da sé.

Nei rapporti interprivati, l’autotutela è ammessa infatti solo in casi eccezionali (diritto di ritenzione, eccezione di inadempimento, ecc.). La regola generale è invece che chi vuol far valere le proprie ragioni deve rivolgersi a un giudice che nell’ambito di un giudizio di cognizione

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accerti l’inadempimento degli obblighi nascenti dal negozio e che successivamente, nell’ambito di un giudizio di esecuzione, disponga le misure coattive necessarie per l’esecuzione che vengono poste in essere da un ufficiale giudiziario. Così, per esempio, se il venditore non consegna il bene immobile oggetto della compravendita, l’acquirente non potrà impossessarsene, ma dovrà far valere la sua pretesa esecutiva in sede giurisdizionale. La pubblica amministrazione ha invece la possibilità di portare a esecuzione i provvedimenti con propri uomini e mezzi. Così, se il proprietario di un bene non coopera all’esecuzione del provvedimento con la consegna materiale del bene espropriato, l’amministrazione potrà procedere direttamente ad apprendere il bene, se necessario, anche con l’uso della forza.

Come ulteriore esempio di esecutorietà (o, secondo altra espressione, di autotutela esecutiva) può essere preso l’ordine di abbattimento di un edificio abusivo. Se il proprietario dell’immobile non provvede spontaneamente alla riduzione in pristino, potranno essere gli stessi dipendenti del Comune o, come avviene più frequentemente, un’impresa privata all’uopo incaricata, a porre in essere le attività necessarie. Il privato destinatario potrà non collaborare, ma non potrà opporsi attivamente alle attività esecutive, comportamento che potrebbe rilevare addirittura in sede penale.

Anche l’ordine di polizia volto a sciogliere una manifestazione non autorizzata in un luogo pubblico potrà sfociare, in caso di inottemperanza, nello sgombero coatto delle persone coinvolte. Infatti, per previsione espressa del Testo unico della leggi di pubblica sicurezza, tutti i provvedimenti dell’autorità di pubblica sicurezza “sono eseguiti in via amministrativa” e ove gli interessati non ottemperino, “sono adottati, previa diffida (…) i provvedimenti necessari per la esecuzione d’ufficio” incluso “l’impiego della forza pubblica” (art. 5, r.d. 18 giugno 1931, n. 773).

In definitiva, mentre l’imperatività opera sul piano della produzione degli effetti giuridici, l’esecutorietà opera su quello, da tenere ben distinto, delle attività materiali necessarie per conformare la realtà di fatto alla situazione di diritto così come modificata dal provvedimento amministrativo. Entrambe, come si è visto, connotano il regime del provvedimento amministrativo in modo antitetico rispetto a quello dei negozi privati.

A lungo, prima dell’introduzione dell’art. 21-ter della l. n. 241/1990, si è discusso in dottrina il fondamento dell’esecutorietà del provvedimento

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amministrativo che è stato rinvenuto in passato nella cosiddetta presunzione di legittimità del provvedimento.

La giustificazione teorica di quest’ultima venne variamente individuata nella provenienza dell’atto amministrativo da organi espressione della sovranità, nell’esigenza di assicurare un andamento regolare e sollecito dell’attività dell’amministrazione, nelle garanzie già offerte dai metodi concorsuali di selezione dei funzionari pubblici (i quali non perseguono interessi personali) e dal sistema dei controlli amministrativi. Questi e altri elementi portano a ritenere che, di norma, gli atti amministrativi siano emanati in modo legittimo e dunque possono essere portati a esecuzione dall’amministrazione immediatamente. In realtà, la presunzione di legittimità aveva una forte connotazione ideologica che si ricollegava a una visione autoritaria dei rapporti tra Stato e cittadino. La dottrina (M.S. GIANNINI) ha dimostrato l’inconsistenza teorica di questo principio che però continua talora a essere richiamato dalla giurisprudenza.

L’art. 21-ter della l. n. 241/1990 pone una disciplina embrionale del potere dell’amministrazione di provvedere all’esecuzione coattiva dei propri provvedimenti. Essa ha soprattutto il valore simbolico di confermare le conclusioni raggiunte dalla dottrina prevalente secondo le quali l’esecutorietà non è una caratteristica propria di tutti i provvedimenti amministrativi, ma deve essere di volta in volta prevista dalla legge.

Il primo comma della disposizione precisa infatti che il potere di imporre coattivamente l’adempimento degli obblighi è attribuito alla amministrazione solo “nei casi e con le modalità stabiliti dalla legge” (espressione che viene ripresa, forse in modo ridondante, anche nel secondo periodo del medesimo comma).

Così, oltre all’esempio già citato del Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, l’art. 823 del codice civile attribuisce all’amministrazione la facoltà di procedere in via amministrativa alla tutela dei beni demaniali. Questa disposizione peraltro ha dato origine alla disputa se essa fondi in via generale un siffatto potere, oppure se essa si limiti a operare un rinvio alle norme che prevedono in modo più specifico l’esecuzione forzata amministrativa.

L’esecutorietà è riferibile non soltanto agli obblighi nascenti dal provvedimento, ma anche agli obblighi aventi fonte negoziale. Infatti, il primo comma dell’art. 21-ter richiama in termini generali l’adempimento

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coattivo degli “obblighi nei loro confronti” (nei confronti cioè delle pubbliche amministrazioni), includendo così anche gli obblighi che sorgono nell’ambito dei rapporti paritari. In proposito già il r.d. 14 aprile 1910 n. 639 sulla riscossione delle entrate patrimoniali dello Stato attribuiva all’amministrazione il potere di procedere all’esecuzione forzata anche per i crediti di fonte non tributaria.

In relazione agli obblighi che sorgono per effetto di un provvedimento amministrativo, quest’ultimo deve indicare il termine e le modalità dell’esecuzione da parte del soggetto obbligato. Inoltre, l’esecuzione coattiva può avvenire solo previa adozione di un atto di diffida con il quale l’amministrazione intima al privato di porre in essere le attività esecutive già indicate nel provvedimento, concedendo così al privato un’ultima chance.

In definitiva, in base al primo comma dell’art. 21-ter l’esecutorità del provvedimento si concretizza nell’avvio di un procedimento d’ufficio in contraddittorio con il soggetto privato.

Il secondo comma, infine, menziona in modo specifico l’esecuzione delle obbligazioni aventi ad oggetto somme di danaro, precisando che ad esse si applicano le disposizioni per l’esecuzione coattiva dei crediti dello Stato. Anche questa disposizione opera più che altro un rinvio alla normativa vigente, cioè principalmente alla disciplina della riscossione esattoriale di cui al d.lgs. 26 febbraio 1999, n. 46 che, peraltro, precisa già che la riscossione mediante ruolo riguarda non solo le entrate dello Stato ma anche quelle di enti pubblici diversi dallo Stato (art. 17).

L’esecutorietà del provvedimento presuppone che il provvedimento emanato sia efficace ed esecutivo. La l. n. 241/1990 contiene due articoli dedicati all’efficacia e all’esecutività (o forse, più correttamente, eseguibilità) del provvedimento.

Secondo l’art. 21-bis il provvedimento limitativo della sfera giuridica dei privati acquista efficacia con la comunicazione al destinatario. Emerge così la distinzione già operata nel capitolo precedente, tra provvedimenti limitativi della sfera giuridica dei privati e provvedimenti ampliativi della sfera giuridica dei privati. I primi hanno la natura di atti recettizi, la cui efficacia è cioè subordinata alla comunicazione all’interessato. In passato si riteneva invece che anche i provvedimenti di questo tipo (per esempio la revoca di una concessione) fossero in grado di produrre immediatamente gli effetti.

Sono peraltro esclusi dall’obbligo di comunicazione i provvedimenti

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aventi carattere “cautelare ed urgente” che sono sempre immediatamente efficaci. Inoltre, l’art. 21-bis stabilisce che i provvedimenti limitativi non aventi carattere sanzionatorio possono contenere una clausola motivata di immediata efficacia.

L’art. 21-bis detta alcune disposizioni più minute sulla modalità da seguire per la comunicazione del provvedimento.

L’esecutività del provvedimento è disciplinata dall’art. 21-quater, secondo il quale i provvedimenti amministrativi efficaci sono eseguiti immediatamente, salvo che sia diversamente stabilito dalla legge o dal provvedimento amministrativo.

All’efficacia del provvedimento consegue dunque la necessità che esso, in linea di principio, venga portato subito ad esecuzione, a seconda dei casi, dalla stessa amministrazione che ha emanato l’atto, oppure dal destinatario del medesimo là dove il provvedimento faccia sorgere in capo a quest’ultimo un obbligo di dare o di fare.

In realtà non tutti i provvedimenti amministrativi pongono un problema di esecutività (o eseguibilità). Spesso infatti la produzione dell’effetto giuridico realizza appieno l’interesse pubblico alla cui cura è finalizzato il provvedimento emanato senza bisogno di ulteriori attività di tipo esecutivo (provvedimenti autorizzatori o di attribuzione di uno status, ecc.). In altri casi, invece, come per esempio l’ordine di abbattimento di una costruzione abusiva, l’irrogazione di una sanzione amministrativa pecuniaria, l’espulsione di uno straniero clandestino oppure la concessione di un contributo finanziario, a valle dell’emanazione del provvedimento è richiesta un’attività di tipo esecutivo da parte del destinatario del provvedimento o dell’amministrazione.

In base all’art. 21-quater l’esecuzione del provvedimento può essere differita o sospesa discrezionalmente dall’amministrazione.

Nel complesso, le disposizioni in tema di esecutorietà e di efficacia del provvedimento amministrativo contenute nella l. n. 241/1990 segnano un nuovo passo verso il raggiungimento dell’ideale dello Stato di diritto, che ha come pietra angolare il principio di legalità definito in modo sempre più rigoroso e garantista.

d) Un’ultima caratteristica generale del provvedimento amministrativo consiste tradizionalmente nella cosiddetta inoppugnabilità (o, come sarebbe meglio dire oggi, incontestabilità), che si ha allorché decorrono i

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termini per contestarne la legittimità in sede giurisdizionale. In particolare, l’azione di annullamento innanzi al giudice amministrativo va proposta nel termine di decadenza di 60 giorni (art. 29 del Codice del processo amministrativo). L’azione di nullità del provvedimento è assoggettata a un termine di 180 giorni e l’azione risarcitoria correlata alla lesione di un interesse legittimo può essere proposta in via autonoma (cioè senza la parallela azione di annullamento) nel termine di 120 giorni (rispettivamente art. 31, quarto comma, e art. 30, terzo comma del Codice).

Esigenze di certezza e di stabilità dell’assetto dei rapporti giuridici conseguenti all’emanazione di un provvedimento giustificano in definitiva la previsione di termini decadenziali brevi per l’esperimento dei mezzi di tutela giurisdizionale.

Nei rapporti di diritto privato invece la tutela giurisdizionale può essere attivata, di regola (ma vi sono molte eccezioni), entro termini di prescrizione molto più lunghi (per esempio, cinque anni per l’azione di annullamento di un contratto ex. art. 1442 cod. civ.; dieci anni per i casi di prescrizione ordinaria ex art. 2946 cod. civ.).

L’inoppugnabilità non esclude peraltro che l’amministrazione possa rimettere in discussione il rapporto giuridico esercitando il potere di autotutela (annullamento d’ufficio che può essere disposto ai sensi dell’art. 21-nonies della l. n. 241/1990 “entro un termine ragionevole” o revoca ai sensi dell’art. 21-quinquies della l. n. 241/1990). Emerge qui un ulteriore elemento di asimmetria tra le parti del rapporto giuridico amministrativo: l’inoppugnabilità garantisce la stabilità del rapporto giuridico amministrativo solo sul versante delle possibili contestazioni da parte del soggetto privato.

L’atto amministrativo può diventare inoppugnabile anche in relazione a un altro fenomeno, cioè per l’acquiescenza da parte del suo destinatario. Essa consiste in una dichiarazione espressa o tacita (per facta concludentia) di assenso all’effetto prodotto dal provvedimento. Si discute se l’acquiescenza abbia una rilevanza sostanziale, nel senso che provochi un’estinzione della situazione giuridica di cui è titolare il destinatario del provvedimento o se essa rilevi soltanto sotto il profilo processuale, nel senso di precludere o di rendere comunque inammissibile il ricorso giurisdizionale proposto. Nella pratica, una misura cautelativa adottata dal destinatario del provvedimento che dia ad esso esecuzione volontaria o che assuma un comportamento che potrebbe essere considerato come incompatibile con la volontà di contestare l’illegittimità

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del provvedimento consiste nel dichiarare che l’atto o il comportamento non può essere interpretato come acquiescenza al provvedimento.

5. Gli elementi strutturali dell’atto amministrativo. L’obbligo di motivazione.

Come per tutti gli atti giuridici, anche per l’atto amministrativo possono essere individuati alcuni elementi strutturali che consentono, di volta in volta, di identificarlo e di qualificarlo in termini di conformità o non conformità alle norme che lo disciplinano. Essi si ricavano sulla base delle nozioni generali elaborate in sede di teoria generale degli atti giuridici e sono essenzialmente il soggetto, la volontà, l’oggetto,il contenuto, i motivi, la motivazione, la forma.

Così, assume rilievo anzitutto il soggetto, cioè l’organo che, in base alle norme sulla competenza e sull’investitura, è deputato ad emanare l’atto. Di regola, si tratta di pubbliche amministrazioni, ma in casi particolari, come si è accennato, anche soggetti privati sono titolari di poteri amministrativi e i loro atti sono qualificabili come amministrativi. Si pensi, per esempio, al caso di un’impresa privata concessionaria di un pubblico servizio che, in base al Codice dei contratti pubblici, sia tenuta a esperire procedure a evidenza pubblica per l’acquisto di beni e servizi (art. 1, comma 1-ter, della l. n. 241/1990).

Un secondo elemento è costituito dalla volontà. Il provvedimento amministrativo è manifestazione della volontà dell’amministrazione, anche se quest’ultima va intesa non già in senso psicologico (stato psichico del dirigente o del titolare dell’organo che emana l’atto), bensì in senso oggettivato (volontà procedimentale). I vizi della volontà non determinano, come accade invece per il negozio privato (art. 1427 cod. civ.), in via diretta l’annullabilità del provvedimento, bensì rilevano tutt’al più in via indiretta (indiziaria) come figura sintomatica dell’eccesso di potere.

Un terzo elemento può essere individuato nell’oggetto del provvedimento, cioè nella cosa, attività o situazione soggettiva cui il provvedimento si riferisce (come per esempio il bene demaniale dato in concessione o il terreno espropriato). L’oggetto deve essere determinato o quanto meno determinabile.

Un ulteriore elemento è il contenuto del provvedimento che si ritrova nella parte dispositiva dell’atto e che, per riprendere una definizione

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classica, consiste in “ciò che con esso l’autorità intende disporre, ordinare, permettere, attestare, certificare” (G. ZANOBINI). In proposito, rileva soprattutto la distinzione tra contenuto vincolato e discrezionale del provvedimento che va determinato sulla base della norma di conferimento del potere.

Il contenuto necessario dell’atto discrezionale può essere integrato con clausole accessorie che fissano condizioni e altre prescrizioni particolari (cosiddetti elementi accidentali) che però non possono snaturare il contenuto tipico del provvedimento e devono essere coerenti con il fine pubblico previsto dalla legge attributiva del potere. Si è già fatto al riguardo l’esempio delle autorizzazioni in materia ambientale che contengono prescrizioni volte a mitigare, per quanto possibile, l’impatto delle attività che il privato intende svolgere. In alcuni casi, come in quello dei titoli autorizzatori in materia di comunicazioni elettroniche, la legge stessa individua in modo tassativo le condizioni che possono essere apposte, sempre che esse siano obiettivamente giustificate, proporzionate e non discriminatorie (art. 28, comma 1, del Codice delle comunicazioni elettroniche) e ciò al fine di ridurre la discrezionalità dell’amministrazione.

Tra gli elementi dell’atto amministrativo, a differenza di quanto accade per in negozi giuridici privati, non assume rilievo autonomo la causa, intesa come funzione economico-sociale del negozio qualificabile in termini di liceità (art. 1343 cod. civ.). Ciò essenzialmente perché i poteri amministrativi sono tutti riconducibili a schemi tipici individuati per legge. Con riferimento all’atto amministrativo ricorre invece più frequentemente la nozione di motivi dell’atto, cioè le ragioni di interesse pubblico poste alla base del provvedimento15.

I motivi (le ragioni sostanziali) si desumono dalla motivazione dell’atto amministrativo, cioè dalla parte del provvedimento che secondo la definizione contenuta nell’art. 3 della l. n. 241/1990 enuncia i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione in relazione alle risultanze dell’istruttoria.

L’obbligo di motivazione, la cui violazione può costituire una causa di annullabilità, costituisce uno dei principi generali del regime degli atti amministrativi che lo differenzia da quello sia degli atti legislativi sia

15 La giurisprudenza in proposito ha posto il principio per cui in caso di pluralità di motivi

del provvedimento è sufficiente che uno solo di essi sia conforme alla legge per salvaguardarne la legittimità: cfr., per esempio, Cons. St., V, 20 dicembre 1993, n. 1338.

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degli atti negoziali. Esso è, come si è visto, una delle componenti del diritto ad una buona amministrazione enunciato nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (art. 41).

Per un verso, infatti, fin dall’epoca della rivoluzione francese per gli atti legislativi non è richiesta una motivazione: la compenetrazione tra legge, volontà generale e sovranità esclude una necessità di giustificazione delle scelte. Per altro verso, per gli atti dei privati, i motivi del negozio sono irrilevanti e attengono alla sfera interna del soggetto e, come si è accennato nel primo capitolo, solo in casi del tutto eccezionali è richiesta una motivazione.

Per un altro verso, l’obbligo di motivazione avvicina il regime del provvedimento a quello degli atti giudiziari per i quali vi è addirittura una garanzia costituzionale (art. 111, sesto comma, della Costituzione, ripreso anche dall’art. 3, comma 1, del Codice del processo amministrativo). Le pubbliche amministrazioni soffrono, anche se in misura minore rispetto ai giudici, di un deficit di legittimazione democratica che richiede di essere compensato attraverso un onere di giustificazione.

La motivazione adempie infatti a tre funzioni: promuove la trasparenza dell’azione amministrativa; rende più agevole l’interpretazione del provvedimento amministrativo; costituisce una garanzia per il soggetto privato che subisca dal provvedimento un pregiudizio perché rende possibile un controllo giurisdizionale più incisivo sull’operato dell’amministrazione.

Nella motivazione l’amministrazione deve dar conto di tutti gli elementi rilevanti, acquisiti nel corso dell’istruttoria procedimentale, che hanno indotto l’amministrazione a operare una determinata scelta. In particolare nella motivazione devono emergere le valutazioni operate dall’amministrazione sugli apporti partecipativi dei privati (art. 10, lett. b), l. n. 241/1990). In ogni caso, dalla motivazione deve essere possibile ricostruire in modo puntuale l’iter logico seguito dall’amministrazione per addivenire a una certa determinazione. La motivazione può essere anche per relationem, cioè con un rinvio ad altro atto acquisito al procedimento del quale si fanno proprie le ragioni (art. 3, comma 3, della l. n. 241/1990).

La motivazione assume particolare importanza nel caso di provvedimenti discrezionali, mentre in quelli vincolati essa può essere limitata all’enunciazione dei presupposti di fatto e di diritto che giustificano l’esercizio del potere. Essa è infatti lo strumento principale

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per sindacare la legittimità, in particolare in termini di ragionevolezza e di proporzionalità, delle scelte operate dall’amministrazione. A questo fine la giurisprudenza da tempo ha elaborato, nell’ambito del vizio dell’eccesso di potere, una serie di figure sintomatiche specifiche (insufficienza, contraddittorietà, perplessità, non congruità delle motivazione) che possono portare all’annullamento del provvedimento. In generale, tanto più ampio è l’ambito della discrezionalità tanto più stringente è da ritenere l’obbligo di motivazione.

L’art. 3, comma 2, della l. n. 241/1990 esclude dall’obbligo di motivazione gli atti normativi e quelli a contenuto generale. Tuttavia, la legislazione recente, in particolare con riferimento alle autorità amministrative indipendenti preposte alla vigilanza sui mercati finanziari, ha introdotto un obbligo di motivazione “con riferimento alle scelte di regolazione e di vigilanza” (art. 23 della legge sul risparmio 28 dicembre 2005, n. 262).

Sulla motivazione del provvedimento si è riacceso di recente il dibattito in seguito ad alcune novità introdotte dalle l. n. 15/2005 di riforma della l. n. 241/1990 che sembrano indicare direttrici contrastanti.

Per un verso, il nuovo art. 10-bis sulla comunicazione dei motivi ostativi dell’accoglimento dell’istanza va nella direzione di valorizzare l’istituto della motivazione. Infatti, prima di poter rigettare formalmente l’istanza di un privato volta ad ottenere un provvedimento favorevole, l’amministrazione deve comunicare all’interessato i motivi per i quali la domanda non può essere accolta. In questo modo chi ha presentato l’istanza può formulare le proprie osservazioni delle quali l’amministrazione deve dar conto nella motivazione del provvedimento finale nei casi in cui esse non vengano accolte. Nella stessa direzione, l’art. 6, comma 1, lett. e), della l. n. 241/1990 prevede ora che l’organo competente ad adottare un provvedimento amministrativo, ove ritenga di discostarsi dalle risultanze dell’istruttoria condotta dal responsabile del procedimento, deve indicare nella motivazione le ragioni.

Per altro verso, il nuovo art. 21-octies, comma 2, della l. n. 241/1990 esclude che il provvedimento possa essere annullato per vizi formali o procedurali ove il contenuto dispositivo del medesimo in ogni caso non avrebbe potuto essere diverso. Si discute dunque se la motivazione abbia perso almeno in parte la sua rilevanza e possa essere per così dire “dequotata” a vizio meramente formale. Ciò che importa, in una visione più sostanzialista, è che la decisione sia sorretta da ragioni valide, che possono emergere magari anche nel corso del giudizio amministrativo

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instaurato per sindacare la legittimità dell’atto, più che il fatto che esse siano esternate nella motivazione. Si pone così la questione di se ed entro quali limiti sia superato il divieto tradizionale della integrazione della motivazione nel corso del giudizio, enunciato dalla giurisprudenza amministrativa, e dunque della ammissibilità della cosiddetta motivazione successiva (o postuma). Il tema è complesso e involge quello della ricostruzione del processo amministrativo come un giudizio che si incentra sul sindacato della legittimità di un atto amministrativo oppure sull’accertamento del modo di essere dell’intero rapporto giuridico amministrativo, anche al di là dell’atto impugnato.

Va richiamata infine la forma dell’atto amministrativo. E’ richiesta di regola la forma scritta (per gli atti degli organi collegiali è prevista la verbalizzazione). In taluni casi l’atto può essere esternato oralmente (ordine di polizia o impartito dal superiore gerarchico, la proclamazione del risultato di una votazione). In seguito al processo di informatizzazione in corso negli ultimi anni, l’atto può essere sottoscritto con la firma digitale e comunicato utilizzando le tecnologie informatiche.

L’atto amministrativo può assumere, a determinate condizioni, la veste formale di un accordo tra l’amministrazione titolare del potere e il privato destinatario degli effetti volto a determinare il contenuto discrezionale del provvedimento. L’art. 11 prevede al riguardo i cosiddetti accordi integrativi o sostitutivi del provvedimento per i quali è comunque prescritta, a pena di nullità, la forma scritta. In giurisprudenza emerge talora anche la nozione di provvedimento implicito, che si ricava cioè da un altro provvedimento espresso del quale costituisca un presupposto necessario.

Completata l’analisi degli elementi strutturali dell’atto amministrativo, va sottolineato che l’art. 21-septies della l. n. 241/1990 contiene un richiamo agli “elementi essenziali” del provvedimento la mancanza dei quali costituisce una delle cause di nullità, analogamente a quanto prevede per il contratto l’art. 1418, comma 2, del cod. civ. Gli elementi essenziali dell’atto amministrativo non sono elencati in modo puntuale dalla legge (come fa invece l’art. 1325 cod. civ. per i requisiti del contratto) e dunque essi vanno individuati in via di interpretazione.

Per identificare l’atto amministrativo e il suo contenuto dispositivo soccorrono le regole dell’interpretazione che sono quelle previste in via generale dal codice civile per l’interpretazione dei contratti (art. 1362 e seg. cod. civ.). La giurisprudenza ritiene peraltro che alcune di esse non possano essere applicate ai provvedimenti. E’ questo il caso dell’art.

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1370 sull’interpretazione contro l’autore della clausola, che finirebbe per penalizzare sempre l’amministrazione che emana in modo unilaterale l’atto. Non può trovare applicazione neppure l’art. 1371, secondo il quale nel caso di oscurità l’atto deve essere inteso nel senso meno gravoso per l’obbligato, poiché prevale l’esigenza obiettiva di garantire il perseguimento dell’interesse pubblico.

Su un piano più descrittivo, l’atto amministrativo indica nell’intestazione l’autorità emanante, contiene nel preambolo i riferimenti alle norme legislative e regolamentari che fondano il potere esercitato (“Visto l’art. x della legge n. ..”), richiama gli atti endoprocedimentali e altri atti ritenuti rilevanti (“Visto il parere …”) e la motivazione (“Considerato che …” oppure “Rilevato che …”), enuncia nel dispositivo la determinazione o statuizione finale. Reca anche la data e la sottoscrizione e menziona i destinatari e l’organo giurisdizionale cui è possibile ricorrere contro l’atto e il termine entro il quale il ricorso va proposto.

6. I provvedimenti ablatori reali; i provvedimenti ordinatori; le sanzioni amministrative.

Conviene ora dar conto della tipologia dei provvedimenti amministrativi con l’avvertenza che le classificazioni e subclassificazioni hanno più che altro un valore descrittivo di una realtà che nella legislazione amministrativa si presenta estremamente variegata, senza cioè che ad esse si ricolleghi una diversità di regime giuridico. Inoltre, i provvedimenti amministrativi si prestano a essere ordinati secondo una pluralità di criteri che possono essere usati anche in modo concorrente (contenuto, oggetto, funzione, destinatari, ecc.). In ogni caso, le categorie di provvedimenti si prestano a essere riferite, con poche varianti, anche ai poteri (ove si focalizzi l’attenzione sulla norma d’azione) e ai procedimenti (ove si focalizzi l’attenzione sulle sequenze degli atti e adempimenti relative all’esercizio dei poteri). Così, per esempio, è frequente parlare, in modo pressoché fungibile, di poteri, procedimenti e provvedimenti ablatori, concessori o autorizzatori.

Nel capitolo che precede si è già sottolineato come la dinamica del rapporto giuridico amministrativo si atteggi in modo diverso a seconda di come il potere incide sulla situazione giuridica ad essa correlata. Si è posta così la distinzione, da un lato, tra poteri il cui esercizio determina effetti limitativi della sfera giuridica del destinatario ai quali sono

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correlati gli interessi legittimi oppositivi e, dall’altro lato, poteri il cui esercizio determina effetti ampliativi della sfera giuridica del destinatario ai quali sono correlati gli interessi legittimi pretensivi. Emerge così una duplice macrocategoria di poteri e provvedimenti che trova ora un riferimento nella l. n. 241/1990. L’art. 21-bis, infatti, stabilisce che i provvedimenti limitativi della sfera giuridica dei acquistano efficacia nei confronti dei destinatari con la comunicazione formale a questi ultimi, qualificandoli così come atti recettizi. La stessa disposizione individua come subcategoria i provvedimenti sanzionatori che non possono contenere mai una clausola di immediata efficacia.

Le principali subcategorie dei provvedimenti limitativi della sfera giuridica dei destinatari sono i provvedimenti ablatori, gli ordini e le diffide, i provvedimenti sanzionatori.

a) I provvedimenti ablatori reali.

Tra i provvedimenti ablatori (reali, personali, obbligatori) rientra in realtà un’amplissima gamma di atti autoritativi che restringono la sfera patrimoniale e personale del destinatario, estinguendo o modificando una situazione giuridica soggettiva attraverso l’imposizione di prestazioni (per esempio, le imposte e i tributi) o obblighi di fare o di non fare.

Tra i provvedimenti ablatori reali va ricordata soprattutto l’espropriazione per pubblica utilità, nella quale si manifesta al massimo grado un conflitto tra l’interesse pubblico e gli interessi privati. Tale conflitto trova un punto di composizione, da un lato, nel consentire alla pubblica amministrazione, all’esito di un procedimento articolato, di trasferire coattivamente il diritto di proprietà dal privato all’amministrazione o al soggetto beneficiario dell’espropriazione; dall’altro, attribuendo al privato il diritto costituzionalmente garantito a un indennizzo (art. 42, terzo comma, della Costituzione).

La disciplina sostanziale (tipologia di beni, indennizzo) e procedimentale in materia è contenuta nel Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità (emanato con d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327) che unisce tutte le disposizioni legislative (in primo luogo la legge 25 giugno 1865, n. 2359 e regolamentari previgenti).

L’indennizzo non deve coincidere necessariamente con il valore di mercato, ma non deve essere comunque irrisorio. Su questo aspetto è

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intervenuta più volte la Corte Costituzionale che ha posto il principio del “serio ristoro”, in base al quale occorre far riferimento “al valore del bene in relazione alle sue caratteristiche essenziali, fatte palesi dalla potenziale utilizzazione economica di esso, secondo legge” (Corte Cost., 30 gennaio 1980, n. 5). Più di recente anche la Corte europea di diritti dell’uomo ha censurato alcuni parametri legislativi che riducevano l’indennità a un ammontare eccessivamente basso rispetto al valore di mercato (Cedu, Grande Camera, 29 marzo 2006, nel caso Scordino c. Italia).

Tra i provvedimenti ablatori reali può essere annoverata anche l’occupazione temporanea di un bene immobile. Le fattispecie più ricorrenti sono l’occupazione temporanea preordinata all’espropriazione di opere dichiarate indifferibili e urgenti che consente così la presa in possesso e l’avvio immediato dei lavori nelle more della conclusione del procedimento espropriativo; la requisizione in uso di beni mobili e immobili per periodi di tempo delimitati, che può essere disposta per gravi e urgenti necessità pubbliche militari o civili (per esempio, in occasione di un’inondazione o un terremoto la requisizione di strutture alberghiere per ospitare temporaneamente gli sfollati) (art. 7 della l. n. 2248/1865, All. E ed art. 835 cod. civ.); l’imposizione di servitù pubbliche (militari, di elettrodotto, di acquedotto, di attraversamento di fiumi, ecc.) disciplinate da leggi speciali e dal codice civile, che annovera tra i modi di costituzione delle servitù coattive, oltre che la sentenza pronunciata a favore del privato titolare del diritto, un “atto dell’autorità amministrativa nei casi specialmente determinati dalla legge” (art. 1032, primo comma, cod. civ.).

b) I provvedimenti ordinatori.

Tra i provvedimenti ablatori personali vanno collocati gli ordini amministrativi e i provvedimenti che impongono ai destinatari obblighi di fare o di non fare (divieti) puntuali.

Nelle organizzazioni improntate al principio gerarchico (per esempio, l’esercito e le forze di polizia e, entro certi limiti, i ministeri), l’ordine, che indica un comportamento specifico da adottare in una situazione concreta, è lo strumento in base al quale il titolare dell’organo o dell’ufficio sovraordinato impone la propria volontà e guida all’attività dell’organo o dell’ufficio sottordinato. Esso può intervenire sul presupposto che l’ambito della competenza attribuito a quest’ultimo sia

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inclusa nell’ambito della competenza del primo.

Come precisa in termini generali il Testo unico degli impiegati civili dello Stato (d.p.r. 10 gennaio 1957, n. 3), l’impiegato deve eseguire gli ordini impartiti dal superiore gerarchico (art. 16). Se l’ordine appare palesemente illegittimo, l’impiegato è tenuto a farne rimostranza motivata al superiore, il quale ha sempre il potere di rinnovarlo per iscritto. In questo caso, l’impiegato è tenuto a darvi esecuzione, a meno che non si tratti di un atto vietato dalla legge penale (art. 17). La mancata osservanza dell’ordine impartito può comportare l’adozione di sanzioni disciplinari in capo al titolare dell’organo o dell’ufficio sottordinato e può indurre il superiore gerarchico ad avocare a sé la competenza.

Gli ordini amministrativi possono essere emanati anche al di fuori dei rapporti interorganici e dunque riguardare rapporti intersoggettivi tra l’amministrazione titolare del potere e i soggetti privati destinatari.

Al riguardo vengono tradizionalmente in considerazione i cosiddetti ordini di polizia emanati dalle autorità di pubblica sicurezza in base al Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza approvato con r.d. 18 giugno 1931, n. 773. Tra di essi vi è l’invito a comparire dinanzi all’autorità di pubblica sicurezza entro un termine assegnato, la cui inosservanza è sanzionata anche penalmente (art. 15), oppure l’ordine di sciogliere una riunione o un assembramento che metta in pericolo l’ordine pubblico preceduto da un invito e da tre intimazioni formali (artt. 20-24). Esempi di ordini aventi contenuto negativo (divieti) sono il divieto di svolgimento di riunioni per ragioni di ordine pubblico, di moralità o di sanità pubblica (art. 18) o di detenzione di armi, munizioni ed esplosivi impartito a persone ritenute capaci di abusarne (art. 39). Gli ordini di polizia, al pari degli altri provvedimenti dell’autorità di pubblica sicurezza, sono dotati di esecutorietà, cioè possono essere eseguiti in via amministrativa (art. 5).

L’effettività di questo genere di ordini è garantita, sotto il profilo penale, da una figura di reato che punisce chiunque non osservi un provvedimento legalmente dato da un’autorità amministrativa, emanato per ragioni di sicurezza pubblica o di ordine pubblico (ma anche, con riferimento ad altre ipotesi di provvedimenti ordinatori, per ragioni di igiene e di giustizia) (art. 650 cod. pen.).

L’imposizione di obblighi comportamentali, con atti che, al di là della denominazione, hanno contenuto prescrittivo ordinatorio, è prevista da numerose leggi, specie nell’ambito di rapporti con autorità preposte alla vigilanza di categorie di imprese o a controlli su attività private,

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assumendo in questo caso una valenza latu sensu regolatoria. Così, per esempio, in materia bancaria e creditizia, la Banca d’Italia può emanare nei confronti delle banche vigilate provvedimenti specifici riguardanti l’adeguatezza patrimoniale, il contenimento dei rischi, l’organizzazione aziendale inclusi il divieto di effettuare determinate operazioni o di distribuire utili (art. 53, comma 3, lett. d) del d.lgs. 1 settembre 1993, n. 385). Essa può anche emanare misure inibitorie nei confronti dei soggetti vigilati nel caso in cui nell’esercizio dei controlli emergano irregolarità (art. 128-ter). Nel settore delle comunicazioni elettroniche, le imprese che all’esito di un particolare procedimento di analisi del mercato sono designate come detentrici di un significativo potere di mercato (del quale possono abusare nei confronti delle imprese minori) possono essere destinatarie di un provvedimento dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni volto a imporre obblighi specifici necessari per garantire un equilibrio concorrenziale (art. 45 del Codice delle comunicazioni elettroniche approvato con d.lgs. 1 agosto 2003, n. 259). Per esempio, l’autorità può prescrivere di applicare tariffe agevolate per i consumatori a basso reddito (art. 59, comma 2), oppure di concedere alle imprese minori l’accesso su basi non discriminatorie alla rete o di garantire l’interconnessione delle reti (art. 47) e di praticare nei loro confronti prezzi orientati ai costi (art. 50).

In base al Codice del consumo (d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206) l’Autorità garante della concorrenza e del mercato può vietare d’ufficio o su istanza di chi abbia interesse la continuazione di pratiche commerciali scorrette eliminandone gli effetti (art. 27, comma 2). Le autorità di regolazione dei servizi di pubblica utilità possono ordinare alle imprese esercenti il servizio la cessazione di comportamenti lesivi dei diritti degli utenti (art. 2, comma 20, lett. d) della l. n. 481/1995).

Questi ultimi esempi già introducono un’altra tipologia di provvedimenti ordinatori costituita dalla diffida, che consiste nell’ordine di cessare da un determinato comportamento posto in essere in violazione di norme amministrative, anche con la fissazione di un termine per eliminare gli effetti dell’infrazione. La diffida può essere accompagnata da sanzioni di tipo amministrativo.

Un esempio di diffida può essere preso dalla disciplina ambientale. L’autorità competente al controllo degli scarichi di acque inquinanti può diffidare il titolare dell’autorizzazione che non rispetta le condizioni in essa contenute dal cessare dal comportamento entro un termine determinato e, nel caso in cui si manifesti una situazione di pericolo per la

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salute pubblica e per l’ambiente, può contestualmente sospendere l’autorizzazione (art. 130 del Codice dell’ambiente approvato con d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152). In materia antitrust l’Autorità garante della concorrenza e del mercato, ove accerti una fattispecie di intesa restrittiva della concorrenza o di abuso di posizione dominante, “fissa alle imprese e agli enti interessati il termine per l’eliminazione delle infrazioni” e nei casi più gravi irroga una sanzione pecuniaria (art. 15 della l. 10 ottobre 1990, n. 287). In materia di comunicazioni elettroniche, in caso di inosservanza delle condizioni apposte all’autorizzazione o ad altri obblighi imposti a un’impresa l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni può intimare di porre fine all’infrazione, ripristinando la situazione precedente, entro un mese invitando l’impresa a presentare memorie difensive; ove l’impresa non ottemperi, l’Autorità può adottare misure adeguate e proporzionate per assicurare l’osservanza degli obblighi violati che, nel caso di violazioni gravi o reiterate possono consistere anche nel divieto di fornire uno o più (art. 32 del d.lgs. n. 259/2003). In materia di abusi di informazioni privilegiate e di manipolazione del mercato, la Consob può ordinare in via cautelare di porre termine a condotte che facciano presumere l’esistenza di violazioni della normativa (art. 187-octies, comma 6, del Testo unico dell’intermediazione finanziaria).

In materia edilizia, nel caso di interventi di ristrutturazione e costruttivi non assoggettati al regime del permesso a costruire ma soltanto a denuncia d’inizio di attività (dal 2010 segnalazione certificata d’inizio di attività), il responsabile dell’ufficio comunale competente, ove sia riscontrata la mancanza delle condizioni previste, impartisce all’interessato un ordine di non effettuare il previsto intervento (art. 23, comma 6, del d.P.R. n. 380/2001). Questo tipo di provvedimento di diffida è, in un certo senso, simmetrico al diniego di autorizzazione previsto nel caso di interventi edilizi assoggettati al regime del permesso a costruire.

Più in generale, nei casi di provvedimenti autorizzatori sostituiti dalla segnalazione certificata d’inizio di attività, l’autorità competente, ove accerti che l’attività avviata non è conforme ai requisiti di legge, adotta provvedimenti di divieto di prosecuzione dell’attività e di rimozione degli effetti (art. 19 della l. n. 241/1990).

c) Le sanzioni amministrative.

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Le sanzioni amministrative costituiscono un’altra tipologia di provvedimenti restrittivi della sfera giuridica del destinatario. Esse sono volte a reprimere illeciti di tipo amministrativo e hanno dunque una funzione punitiva afflittiva e una valenza dissuasiva. Esse sono previste dalle leggi amministrative per garantire effettività ai precetti in esse contenuti o ai provvedimenti emanati dalle autorità amministrative.

In base alla teoria degli ordinamenti giuridici sezionali, le sanzioni amministrative fungono anzi, insieme agli strumenti di giustizia “domestica” (reclami e ricorsi amministrativi), da elemento di chiusura dell’ordinamento sezionale (costituito, come si è accennato, da norme interne, apparati titolari di poteri nei confronti soggetti privati inclusi nell’ordinamento) che ne connota in un certo senso la propria autosufficienza e indipendenza dall’ordinamento generale.

Come esempio di sanzioni amministrative previste da disposizioni di legge per sanzionare comportamenti illeciti, può essere preso il Codice della strada che contiene una serie minuta di regole comportamentali assoggettate a un’ampia gamma di sanzioni pecuniarie e non pecuniarie oppure il Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia (d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380). Come esempio di sanzioni amministrative correlate alla violazione di provvedimenti amministrativi, può essere preso il Testo unico degli enti locali (art. 7-bis, d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267) che le prevede nel caso di violazione di regolamenti degli enti locali o delle ordinanze contingibili e urgenti emanate dal Sindaco o dal Presidente della Provincia; oppure il potere attribuito alle autorità di regolazione dei servizi di pubblica utilità di irrogare sanzioni pecuniarie di importo assai elevato (fino a 300 miliardi delle vecchie lire) nel caso di inottemperanza ai provvedimenti regolatori e di tipo individuale da esse emanati (art. 2, comma 18, lett. c) della legge 14 novembre 1995, n. 481).

In molti casi, la deterrenza delle sanzioni amministrative è accresciuta dalla previsione in parallelo, per gli stessi comportamenti, di sanzioni di tipo penale. Così, per esempio, nel settore del mercato mobiliare, l’abuso di informazioni privilegiate costituisce a seconda della gravità dei comportamenti tipizzati, un illecito penale o un illecito amministrativo (artt. 184 e 187-bis del Testo unico della finanza approvato con d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58).

In realtà, sussiste un certo grado di fungibilità tra sanzioni penali e sanzioni amministrative, tanto da giustificare interventi periodici del legislatore vuoi nella direzione di depenalizzare gli illeciti minori, vuoi anche, con minor frequenza, nella direzione opposta. Entrambi i tipi di

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sanzione hanno l’analoga finalità di prevenzione generale e speciale di illeciti e ciò spiega una certa affinità di regime.

Non a caso, dunque, la legge 24 novembre 1981, n. 689, che detta una disciplina generale delle sanzioni amministrative, richiama una serie di principi tipicamente penalistici. Tra di essi vi è anzitutto il principio di legalità, in base al quale nessuno può essere assoggettato a sanzioni amministrative se non in forza di una legge entrata in vigore prima della commissione della violazione e secondo il quale leggi che prevedono sanzioni amministrative si applicano soltanto nei casi e per i tempi in esse considerati (art. 1). Un altro principio di tipo penalistico è quello della personalità, che si manifesta nelle disposizioni in base alle quali le sanzioni possono essere irrogate soltanto nei confronti di chi abbia la capacità di intendere e di volere (art. 2), nelle regole relative al concorso di persone (art. 5), alla non trasmissibilità agli eredi (art. 7), alla quantificazione in base a criteri che fanno riferimento anche alla personalità del trasgressore (art. 11).

Le sanzioni amministrative sono riconducibili a più tipi: le sanzioni pecuniarie, che fanno sorgere l’obbligo di pagare una somma di danaro determinata entro un minimo e un massimo stabilito dalla norma; le sanzioni interdittive che incidono sull’attività posta in essere dal soggetto destinatario del provvedimento (ritiro della patente, sospensione da un albo professionale); le sanzioni disciplinari. Talora l’irrogazione di una sanzione può comportare anche l’applicazione di sanzioni cosiddette accessorie, come, per esempio, la confisca amministrativa di cose la cui fabbricazione, uso, detenzione o alienazione costituisce un illecito amministrativo (art. 20).

Le sanzioni amministrative pecuniarie presentano alcune peculiarità. Così, l’obbligazione pecuniaria grava a titolo di solidarietà in capo a soggetti diversi da colui che pone in essere il comportamento illecito (per esempio l’ente del quale è dipendente o rappresentante l’autore dell’illecito: art. 6). Inoltre è data la facoltà di estinguere l’obbligazione tramite il pagamento di una somma in misura ridotta (oblazione) entro sessanta giorni dalla contestazione della violazione, cioè prima cha abbia corso il procedimento in contraddittorio per l’accertamento dell’illecito (art. 16).

Le sanzioni disciplinari si applicano a soggetti che intrattengono una relazione particolare con le pubbliche amministrazioni (dipendenti pubblici, professionisti iscritti ad albi, ecc.) e sono volte a colpire comportamenti posti in violazione di obblighi speciali collegati allo status

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particolare (doveri di servizio, codici deontologici, ecc.). Esse consistono, a seconda della gravità dell’illecito, nell’ammonizione (o censura), nella sospensione dal servizio o dall’albto per un periodo di tempo determinato, nella radiazione da un albo o nella destituzione) Le sanzioni disciplinari sono regolate sia per quanto riguarda la disciplina sostanziale sia per quella procedimentale da leggi speciali e sono dunque escluse dal campo di applicazione della disciplina generale delle sanzioni amministrative posta dalla l. n. 689/1981 (art. 12).

Sotto il profilo funzionale va posta anche la distinzione tra sanzioni in senso proprio, che hanno una valenza essenzialmente repressiva e punitiva del colpevole, e sanzioni cosiddette ripristinatorie, che hanno come scopo principale quello di reintegrare l’interesse pubblico leso da un comportamento illecito.

Queste ultime, secondo molte ricostruzioni, non vanno considerate come sanzioni amministrative in senso stretto. Per esempio, in materia edilizia, nel caso di esecuzione di interventi in assenza o in totale difformità dal permesso a costruire, l’amministrazione comunale ingiunge al proprietario e al responsabile dell’abuso la rimozione o la demolizione assegnando un termine decorso inutilmente il quale l’area è acquisita di diritto al Comune (art. 31 del d.P.R. n. 380/2001).

Le sanzioni amministrative sono applicate di regola soltanto nei confronti della persona fisica del trasgressore e ciò in coerenza con il carattere personale delle responsabilità (art. 3). La persona giuridica può essere chiamata a rispondere solo a titolo di responsabilità solidale e, in ogni caso, l’ente che paghi la sanzione può esercitare l’azione di regresso nei confronti dell’autore dell’illecito (art. 6, terzo comma).

Di recente, è stata introdotta una particolare forma di responsabilità amministrativa per fatto proprio delle imprese e degli enti “per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato” (art. 1, comma 1, del d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231). Questa responsabilità sorge direttamente in capo all’ente “per reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio” (art. 5) dagli amministratori e dipendenti. Tra questi reati figurano, per esempio, la truffa in danno dello Stato, la concussione o il riciclaggio di danaro sporco (art. 24 e seg.).

La responsabilità amministrativa degli enti comporta l’applicazione di sanzioni pecuniarie e interdittive come, per esempio, la sospensione e la revoca di autorizzazioni e licenze, l’esclusione da agevolazioni e finanziamenti pubblici, il divieto di contrattare con la pubblica

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amministrazione (art. 9). All’applicazione di questo particolare tipo di sanzione amministrativa provvede il giudice penale competente a conoscere dei reati corrispondenti. L’ente può sottrarsi a questo tipo di responsabilità amministrativa solo se dimostra di aver adottando modelli di organizzazione, gestione e controllo idonei a prevenire la commissione da parte degli amministratori e dipendenti dei reati, introducendo regole e procedure interne (obblighi informativi, protocolli per l’adozione e attuazione delle decisioni e per la gestione delle risorse finanziare, sanzioni interne, istituzione di organi ai quali sia affidata la funzione di vigilare sull’osservanza di tali modelli) (artt. 6 e 7). In questo modo i vertici degli enti sono sollecitati a dotarsi di un’organizzazione atta a minimizzare il rischio della commissione di reati.

La responsabilità amministrativa degli enti è un fenomeno che si iscrive nella tendenza del diritto, in espansione nella fase storica attuale, a penetrare più in profondità nell’organizzazione interna degli enti privati.

7. Le attività libere assoggettate a regime di comunicazione preventiva. La segnalazione certificata di avvio dell’attività.

L’altra macrocategoria di provvedimenti amministrativi, correlata a poteri il cui esercizio determina effetti ampliativi nella sfera giuridica del destinatario, include anzitutto i provvedimenti di tipo autorizzativo.

Per avvicinarci a questa categoria di provvedimenti, occorre precisare che l’attività dei privati, come regola generale, è libera, nel senso che essa è assoggettata esclusivamente al diritto comune. Tuttavia, nei casi in cui essa possa incidere su un qualche interesse della collettività (per esempio, nelle ipotesi già esaminate nel primo capitolo di “fallimenti del mercato”), le leggi amministrative assoggettano le attività private a limiti e vincoli più o meno stringenti in modo tale da conformare l’attività all’interesse pubblico.

Il rispetto delle norme poste dalle leggi amministrative è assicurato in un primo gruppo di casi esclusivamente attraverso un’attività di vigilanza che può portare all’esercizio di poteri repressivi e sanzionatori. Si pensi, per esempio, al pedone o al ciclista che non rispetti le regole poste dal codice della strada, oppure a un residente che deposita i rifiuti domestici in luoghi non consentiti, ai quali può essere irrogata una sanzione pecuniaria. In questi casi l’attività non richiede alcun contatto preventivo con una pubblica amministrazione e può essere considerata ancora come libera, anche se entro i margini più ristretti segnati dalle regole di tipo

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amministrativo.

Per agevolare i controlli effettuati dall’amministrazione, in un secondo gruppo di casi di attività libere nel senso ora precisato, la legge assoggetta i privati a un obbligo di comunicare preventivamente a una pubblica amministrazione l’intenzione di intraprendere un’attività. Talvolta, la comunicazione è contestuale all’avvio dell’attività; altre volte tra la comunicazione e l’avvio dell’attività è previsto un termine minimo. Così, per esempio, l’agricoltore che voglia vendere direttamente al dettaglio i propri prodotti deve darne comunicazione al Comune (art. 4 del d.lgs. 18 maggio 2001, n. 228). Anche chi vuol intraprendere un’attività di affitta camere in base alle normative regionali deve comunicarlo al Comune. I promotori di una riunione in luogo pubblico o aperto al pubblico devono darne avviso al questore almeno tre giorni prima (art. 18 del Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza). In materia di privacy, chi vuol raccogliere, elaborare e conservare particolari categorie di dati personali (genetici o attinenti alla sfera della salute, alla situazione patrimoniale e alla solvibilità economica, ecc.) deve notificare il trattamento al Garante per la protezione dei dati personali (art. 37 del d.lgs. n. 196/2003) fornendo una serie di informazioni previste in un modello standard. Il Garante inserisce poi le notificazioni ricevute in un registro accessibile a chiunque sia interessato a verificare che i dati raccolti siano conformi alla disciplina della privacy, che attribuisce al Garante poteri ordinatori e sanzionatori assai incisivi in caso di violazioni riscontrate.

La fattispecie delle attività libere regolate da leggi di tipo amministrativo e assoggettate a un regime di comunicazione preventiva è ora disciplinata in termini generali dall’art. 19 della l. n. 241/1990. Questo articolo, modificato più volte negli anni, prevede, come si è già accennato, l’istituto della segnalazione certificata d’inizio di attività (cosiddetta, Scia, introdotta nel 2010 in sostituzione dello strumento omologo della cosiddetta Dia, dichiarazione d’inizio di attività).

La Scia riconduce una serie di attività, per le quali in precedenza era previsto un regime di controllo preventivo sotto forma di “autorizzazione, licenza, concessione non costitutiva, permesso o nulla osta comunque denominato” (comma 1), a un regime di controllo successivo, effettuato cioè dall’amministrazione una volta ricevuta la comunicazione di avvio dell’attività. L’avvio dell’attività può essere contestuale alla presentazione della dichiarazione. Il privato deve corredare la segnalazione con una autocertificazione del possesso dei presupposti e requisiti previsti dalla legge per lo svolgimento dell’attività

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(anche con il ricorso ad asseverazioni e attestazioni di tecnici abilitati). In caso di dichiarazioni mendaci scattano sanzioni amministrative e penali (art. 19, commi 3 e 6). L’attività viene cioè intrapresa sulla base di un’autovalutazione della conformità dell’attività alla legge. In definitiva, da un modello di controllo ex ante si passa a un modello di controllo ex post meno intrusivo delle libertà dei privati.

La Scia, a differenza di quanto accade per i regimi di tipo autorizzatorio in senso proprio (anche di quelli assoggettati, come si vedrà, al silenzio-assenso ex art. 20 della l. n. 241/1990), non ha natura di una istanza ex art. 2 della l. n. 241/1990 che dà avvio a un procedimento amministrativo volto al rilascio di un titolo abilitativo. Essa ha soltanto la funzione di sollecitare l’amministrazione a verificare se l’attività in questione è conforme alla norme amministrative, richiedendo se del caso informazioni e chiarimenti.

In caso di “accertata carenza dei requisiti e dei presupposti” previsti dalla legge per lo svolgimento dell’attività l’amministrazione, entro un termine di sessanta giorni, può richiedere al privato di conformare l’attività alla normativa vigente entro un termine fissato e, ove ciò non avvenga, emanare un provvedimento motivato di divieto di prosecuzione dell’attività e di rimozione dei suoi effetti. L’amministrazione esercita cioè un potere d’ufficio che può portare a un provvedimento di tipo ordinatorio che si inserisce in un rapporto giuridico amministrativo strutturato secondo lo schema del potere e dell’interesse legittimo oppositivo. Ciò a differenza del regime autorizzatorio tradizionale nel quale, come si è visto, il rapporto giuridico amministrativo segue lo schema del potere e dell’interesse legittimo pretensivo.

Le attività assoggettate al regime della Scia restano dunque libere. Non a caso il decreto legislativo di recepimento della direttiva servizi (2006/123/CE), nel porre una definizione di autorizzazione, specifica che la Scia (ex d.i.a.) “non costituisce regime autorizzatorio” (art. 8, comma 1, lett. f) del d.lgs. n. 59/2010).

Vero è peraltro che anche dopo la scadenza del termine di sessanta giorni per l’attività di controllo, l’amministrazione può esercitare i poteri di vigilanza, prevenzione e controllo previsti da leggi vigenti (art. 21, comma 2-bis) e persino, sia pur con alcune limitazioni, attivare il potere di autotutela (annullamento d’ufficio e revoca) (art. 19, commi 3 e 4). Ciò inserisce un elemento di ambiguità perché, come si vedrà, i poteri di autotutela hanno per oggetto provvedimenti amministrativi in senso proprio mentre nel modello della Scia non vi è alcun atto di assenso

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esplicito da parte dell’amministrazione.

Il campo di applicazione della Scia non è definito con precisione dalla legge e ciò costituisce una delle principali pecche dell’istituto. L’art. 19, che è inserito nel Capo IV della l. n. 241/1990 dedicato alla “Semplificazione dell’azione amministrativa” si limita infatti a enunciare il criterio generale in base al quale la Scia sostituisce di diritto ogni atto di tipo autorizzativo “il cui rilascio dipenda esclusivamente dall’accertamento di requisiti e presupposti richiesti dalla legge”, cioè, come si è accennato, ogni atto di tipo vincolato. In presenza di una discrezionalità, infatti, non è concepibile che il soggetto privato possa farsi carico di una valutazione e ponderazione degli interessi in gioco. In secondo luogo deve trattarsi di atti autorizzativi per i quali non sia previsto alcun limite o contingente complessivo o altri strumenti di programmazione di settore, perché in questi casi occorre individuare qualche criterio per selezionare gli aspiranti a svolgere l’attività e attivare di conseguenza un procedimento comparativo incompatibile con l’avvio dell’attività sulla base di una semplice comunicazione.

Accanto a questi due criteri, l’art. 19 prevede alcuni casi di esclusione allorché entrino in gioco interessi pubblici particolarmente rilevanti (ambiente, difesa nazionale, pubblica sicurezza, giustizia, finanze, ecc) oppure si tratti di atti autorizzativi imposti dalla normativa comunitaria.

Nella formulazione vigente l’art. 19 non rinvia però ad elenchi tassativi completi di autorizzazioni incluse o escluse dallo strumento di semplificazione redatti sulla base di un censimento completo delle leggi amministrative statali e regionali che istituiscono regimi autorizzatori. In questo modo, al di là dei casi menzionati da leggi settoriali che espressamente richiamano l’art. 19 della l. n. 241/1990 (per esempio, il Testo unico dell’edilizia), molti sono i casi dubbi.

La Scia (ex Dia) ha dato origine a un dibattito dottrinale che si incentra soprattutto sulla questione se essa attui una liberalizzazione delle attività in precedenza soggette a un regime autorizzatorio tradizionale, oppure se essa rientri ancora in qualche modo all’interno di tale schema sia pur rivisitato.

In particolare, secondo alcune ricostruzioni, la Scia sarebbe una forma di “autoamministrazione” dei privati, resa possibile proprio dal fatto che lo svolgimento dell’attività è subordinato dalle leggi amministrative alla presenza di presupposti e requisiti vincolati, la sussistenza dei quali, in una fattispecie concreta, può essere accertata in modo agevole dal

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soggetto interessato a intraprendere l’attività che agisce dunque “in luogo” dell’amministrazione. Così ricostruita la dichiarazione presentata dal privato avrebbe natura provvedimentale. Come tale potrebbe essere impugnata innanzi al giudice amministrativo da un soggetto terzo che abbia interesse a contrastare l’avvio dell’attività (per esempio, il titolare di un esercizio commerciale contrario all’apertura nelle vicinanze di un altro esercizio in concorrenza).

Le ricostruzioni più recenti, che hanno avuto anche l’avallo della giurisprudenza amministrativa (Consiglio di Stato, Ad. Plen, n. 15/2011) riconducono la Scia all’ambito delle attività libere, anche se conformate dalle leggi amministrative, assoggettate a vigilanza da parte delle autorità pubbliche.

Resta peraltro incerta la questione della tutela del terzo che affermi di subire una lesione nella propria sfera giuridica per effetto dell’avvio dell’attività. Infatti, mentre nel caso di autorizzazione espressa, quest’ultima costituisce certamente un atto impugnabile da parte del terzo che vuole opporsi all’avvio dell’attività, nel caso della Scia manca un provvedimento che consenta il ricorso al giudice amministrativo da parte del terzo.

Secondo alcune ricostruzioni la questione può essere risolta nel senso di attribuire al terzo il potere di proporre innanzi al giudice amministrativo un’azione di accertamento atipica volta a far dichiarare che l’attività avviata non è conforme alle norme amministrative e a indurre, di conseguenza, l’amministrazione ad esercitare i poteri repressivi e interdettivi. In alternativa, la giurisprudenza più recente (Consiglio di Stato, Ad. plen. n. 15/2011) ha qualificato come atto impugnabile la mancata emanazione del provvedimento di divieto di prosecuzione dell’attività (una sorta di atto tacito di diniego). Da ultimo, peraltro, il comma 6-ter dell’art. 19 della l. n. 241/1990, aggiunto dall’art. 6 del d.l. 13 agosto 2011, n. 138, come modificato dalla legge di conversione 14 settembre 2011, n. 148, ha precisato che la Scia, la denuncia e la dichiarazione di inizio di attività “non costituiscono provvedimenti taciti direttamente impugnabili”. Ha chiarito poi che “Gli interessati possono sollecitare l’esercizio delle verifiche spettanti all’amministrazione e, in caso di inerzia, esperire esclusivamente l’azione di cui all’art. 31, commi 1, 2 e 3 del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104” (cioè, come si vedrà nel Cap. VII l’azione contro il silenzio). In pratica, il terzo che desideri contrastare l’avvio dell’attività deve invitare l’amministrazione a emanare un provvedimento che ne vieti

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l’avvio o la prosecuzione e se l’amministrazione non provvede può rivolgersi al giudice per far accertare l’obbligo di provvedere.

8. Le autorizzazioni e le concessioni.

Come si è visto, i regimi di comunicazione preventiva dell’avvio di determinate attività restano ancora all’interno del modello dell’amministrazione titolare di poteri il cui esercizio determina effetti limitativi della sfera giuridica del destinatario. Infatti la nascita di un rapporto giuridico amministrativo con la pubblica amministrazione titolare del potere di controllo è solo eventuale e segue all’avvio del procedimento d’ufficio volto a contestare la violazione delle norme amministrative che conformano l’attività ed eventualmente a inibire l’avvio o la prosecuzione dell’attività.

Con i regimi che subordinano l’avvio dell’attività a un provvedimento di assenso si passa invece al modello dell’amministrazione titolare di poteri il cui esercizio determina effetti ampliativi della sfera giuridica del privato. Nell’ambito della teoria della regolazione amministrativa esso è considerato come maggiormente intrusivo nelle libertà dei privati (A. OGUS, a proposito del modello del prior approval).

La scelta da parte del legislatore tra i due modelli richiede dunque un’attenta valutazione caso per caso. Secondo il d.lgs. n. 59/2010 di recepimento della direttiva servizi 2006/123/CE, come già accennato, “i regime autorizzatori possono essere istituiti o mantenuti solo se giustificati da motivi imperativi di interesse generale” (art. 14) indicati in un elenco tassativo piuttosto esteso (art. 8, comma 1, lett. h). Come precisa ancor meglio il testo della direttiva, l’autorizzazione preventiva è giustificata quando l’obbiettivo della tutela dell’interesse pubblico “non può essere conseguito tramite una misura meno restrittiva, in particolare in quanto un controllo a posteriori interverrebbe troppo tardi per avere reale efficacia” (art. 9, comma 1, lett. c).

Del resto, la stessa Costituzione, per evitare limitazioni arbitrarie nell’esercizio di alcuni diritti fondamentali, come accadde nel ventennio autoritario, pone il divieto di introdurre regimi autorizzatori che condizionano il diritto di associazione e di stampa (art. 18, primo comma, e art. 21, secondo comma) o prevede, nel caso delle riunioni in luogo pubblico, che possa essere imposto solo un obbligo di preavviso (art. 17,

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terzo comma).

Nell’ambito del modello del controllo preventivo sulle attività dei privati (prior approval) vanno considerate principalmente le autorizzazioni e le concessioni.

Di esse conviene anzitutto proporre l’inquadramento della dogmatica tradizionale, per poi introdurre qualche elemento di critica e alcuni spunti ricostruttivi.

a) Secondo una definizione classica (O. RANELLETTI), l’autorizzazione è l’atto con il quale l’amministrazione rimuove un limite all’esercizio di un diritto soggettivo del quale è già titolare il soggetto che presenta la domanda. Il suo rilascio presuppone una verifica della conformità dell’attività ai parametri normativi posti a tutela dell’interesse pubblico (funzione di controllo). Le autorizzazioni danno dunque origine, come si è accennato, al fenomeno dei diritti soggettivi in attesa di espansione, diritti soggettivi il cui esercizio è subordinato a una verifica preventiva del rispetto dei presupposti e dei requisiti stabiliti dalla legge in relazione all’esigenza di tutela di un interesse pubblico. Rispetto a un siffatto potere “conformativo” dell’amministrazione, il soggetto privato vanta una posizione di interesse legittimo (pretensivo) che fa coppia con il diritto soggettivo preesistente.

La concessione è invece l’atto con il quale l’amministrazione attribuisce ex novo o trasferisce la titolarità di un diritto soggettivo in capo a un soggetto privato. Nel rapporto giuridico amministrativo che con essa si instaura tra il soggetto privato che presenta l’istanza e l’amministrazione, il primo si presenta titolare di un interesse legittimo (pretensivo) per così dire allo stato puro. Solo in seguito all’emanazione del provvedimento concessorio sorge in capo al privato un diritto soggettivo pieno (utilizzo di un bene demaniale, esercizio in regime di monopolio di un’impresa, ecc.) che può essere fatto valere anche nei confronti dei terzi.

Sotto il profilo funzionale l’autorizzazione è uno strumento di controllo da parte dell’amministrazione sullo svolgimento dell’attività allo scopo di verificare preventivamente che essa non si ponga in contrasto con un interesse pubblico. L’autorizzazione spesso si esaurisce uno actu, senza cioè che si instauri una relazione stabile con l’amministrazione che vada al di là di una generica attività di vigilanza da parte di quest’ultima sulla permanenza in capo al soggetto privato delle condizioni previste dalla

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legge. La concessione instaura in molti casi un rapporto di lunga durata con il concessionario caratterizzato da diritti e obblighi reciproci e da poteri di vigilanza più continuativa e talora anche di indirizzo delle attività poste in essere in base alla concessione (come nel caso dei servizi pubblici o della costruzione e gestione di opere pubbliche). La concessione costituisce spesso uno strumento attraverso il quale l’amministrazione, anziché provvedere con le proprie strutture alla gestione di beni, attività o prerogative proprie, l’affida a soggetti privati. La concessione può avere dunque una valenza di tipo organizzativo.

Le concessioni si suddividono in due subcategorie, a valenza essenzialmente descrittiva: le concessioni traslative e le concessioni costitutive. Le prime trasferiscono in capo a un soggetto privato un diritto o un potere del quale è titolare l’amministrazione. Un esempio è la concessione di un bene demaniale per l’installazione di uno stabilimento balneare o di un pontile per l’attracco di imbarcazioni da diporto, oppure la concessione per l’esercizio dell’attività di distribuzione dell’energia elettrica o del gas a livello comunale. Le seconde attribuiscono al soggetto privato un nuovo diritto (per esempio un’onorificenza).

Quanto all’oggetto, invece, le concessioni sono riconducibili a varie specie.

Vi sono in primo luogo le concessioni di beni pubblici, come in particolare i beni demaniali sui quali possono essere attribuiti diritti d’uso esclusivi. Tra gli esempi si può menzionare l’installazione di un chiosco di giornali sulla pubblica via, di uno stabilimento balneare, l’estrazione di cave, l’assegnazione di radiofrequenze, la derivazione di acque pubbliche per alimentare una centrale elettrica, ecc.

Una seconda specie è data dalle concessioni di servizi pubblici o di attività ancor oggi assoggettate, ai sensi dell’art. 43 della Costituzione, a un regime di monopolio legale o di riserva di attività a favore dello Stato o di enti pubblici, come per esempio, la trasmissione e distribuzione dell’energia elettrica e del gas, i giochi e le scommesse, ecc.

Una terza specie è data dalle concessioni di lavori (per realizzare per esempio una tratta autostradale o un inceneritore) o di servizi nelle quali, ai sensi del Codice dei contratti pubblici (d.lgs. n. 163/2006), predomina l’aspetto contrattuale. Infatti, la sola differenza rispetto ai normali contratti di appalto di lavori e di servizi, aggiudicati all’esito di una procedura ad evidenza pubblica, consiste nel fatto che nelle concessioni di questo tipo il corrispettivo non è a carico dell’amministrazione

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appaltante. Esso è invece costituito esclusivamente nel diritto a gestire l’opera o il servizio applicando un prezzo o una tariffa agli utenti (pedaggi autostradali, tariffe orarie o giornaliere per l’uso di un parcheggio comunale, ecc.) (art. 3, nn. 11 e 12 del d.lgs. n. 163/2006) che deve consentire il recupero dei costi per la realizzazione dell’infrastruttura e la gestione. Esse perseguono l’obiettivo di evitare esborsi diretti in capo all’amministrazione committente.

Rientrano infine nel fenomeno concessorio alcuni tipi di sovvenzioni, sussidi e contributi di danaro pubblico erogati, spesso con criteri discrezionali, per il perseguimento di interessi pubblici (sociali, economici, culturali) alle quali fa riferimento, come si è accennato trattando del cosiddetto autovincolo alla discrezionalità, l’art. 12 della l. n. 241/1990.

b) Esaminata la ricostruzione dogmatica tradizionale delle autorizzazioni e delle concessioni, è possibile ora svolgere alcune osservazioni critiche, lungo due direttrici.

In primo luogo, come emerge dalle definizioni e classificazioni sopra riportate, la visione tradizionale è stata condizionata in modo preponderante da un elemento di contesto e cioè dal dibattito in tema di situazioni giuridiche soggettive.

In realtà la bipartizione delle autorizzazioni e delle concessioni apparve fin dall’inizio troppo rigida e inadatta a inquadrare una realtà molto più variegata e complessa.

Venne così individuata, all’interno di ciascuna categoria, una serie di subcategorie intermedie, di incerta consistenza.

In particolare, fu posta (M.S. GIANNINI) la distinzione tra autorizzazioni costitutive, talune connotate da un’ampia discrezionalità e in relazione alle quali è dubbia la preesistenza di un diritto soggettivo in capo al privato (per esempio, le autorizzazioni previste per le banche, le assicurazioni, le attività commerciali, o in materia di diritti reali, come, all’epoca, l’attività edilizia); autorizzazioni permissive, più vicine al modello classico, che operano come condiciones juris, cioè come fatti permissivi o ostativi all’esercizio di una determinata attività con funzione talora di mero controllo di quest’ultima, talaltra anche di programmazione e direzione (panifici, vendita di alcolici e superalcolici); autorizzazioni ricognitive volte in prevalenza a valutare l’idoneità tecnica di persone o di

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cose (le cosiddette abilitazioni, previste per esempio per i professionisti, gli insegnati, i comandanti di nave, ecc.).

Tra le categorie ibride vanno menzionate le licenze (apertura di negozi, caccia, pesca, ecc.) aventi due caratteristiche: riguardano attività che non ineriscono a preesistenti diritti soggettivi dei soggetti privati, come nel caso delle autorizzazioni classiche, né a settori “in dominio” dell’amministrazione, come nel caso delle concessioni; il loro rilascio è subordinato a valutazioni di tipo tecnico o discrezionale o di coerenza con un quadro programmatorio che ne comporti il contingentamento, previste per esempio nei piani commerciali (A. SANDULLI).

In definitiva, tutte le incertezze che hanno da sempre pesato sul dibattito in tema di situazioni giuridiche soggettive si sono ribaltate anche sulla ricostruzione del fenomeno degli atti autorizzativi.

In secondo luogo, storicamente, le autorizzazioni e le concessioni trovarono collocazione, anche a costo di qualche forzatura, all’interno della teoria del provvedimento amministrativo, inteso come atto d’imperio, unilaterale espressione della sovranità dello Stato. Ciò in concomitanza con l’affermarsi della visione panpubblicistica dei rapporti tra Stato e cittadino che negava la possibilità di ricostruire le relazioni giuridiche nel diritto pubblico in base a schemi privatistici.

Inizialmente, infatti, nella seconda metà del XIX secolo, le concessioni amministrative, un fenomeno all’epoca in piena espansione (si pensi alle concessioni ferroviarie, di sfruttamento delle miniere, di illuminazione pubblica, ecc.), erano qualificate come normali contratti a prestazioni corrispettive assoggettati alle norme civilistiche. Qualche decennio dopo, per effetto della svolta della dogmatica italiana nella direzione panpubblicistica, le concessioni vennero considerate come atti amministrativi eminentemente discrezionali, modificabili e revocabili ad nutum senza alcun obbligo di indennizzo. Venne così enfatizzato in qualche modo il significato originario settecentesco della concessione, come atto di benevolenza del sovrano che accorda un privilegio o una prerogativa (un’onorificenza, il monopolio di una determinata attività, o anche l’incorporazione di una società commerciale con il beneficio della responsabilità limitata).

Inoltre, alle autorizzazioni e alle concessioni venne riconosciuto il carattere unilaterale e autoritativo: unilaterale, pur in presenza di una volontà del privato espressa attraverso la presentazione della istanza; autoritativo anche nei casi di autorizzazioni integralmente vincolate, nelle

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quali l’atto sembra avere, come si è visto, una valenza meramente ricognitiva di un effetto che scaturisce direttamente dalla legge.

Il tentativo di depurare le concessioni da ogni elemento privatistico e paritario apparve ben presto una forzatura.

La dottrina e la giurisprudenza elaborarono infatti la nozione di concessione-contratto (o di contratto accessivo al provvedimento) volta ad attenuare il carattere unilateral-pubblicistico dell’atto concessorio. Ci si rese conto cioè, soprattutto nei casi di affidamento della gestione di servizi pubblici per periodi di tempo prolungati e richiedenti la realizzazione infrastrutture molto onerose, che l’unilateralità della concessione era poco più che una finzione. Nella realtà i privati concessionari pretendevano garanzie per investimenti di lunga durata e altre certezze incompatibili con la concezione autoritaria tipica del provvedimento amministrativo discrezionale.

Con la concessione-contratto il fenomeno concessorio si sdoppia così in due componenti: un provvedimento (inteso come “atto di sovranità”) volto ad attribuire al concessionario il diritto a svolgere una certa attività; un contratto o convenzione volti a regolare su base paritaria i diritti e gli obblighi delle parti nell’ambito di un rapporto di durata. Tra questi vi è tipicamente l’obbligo di corresponsione di un canone concessorio (con i criteri per il suo aggiornamento), l’obbligo di effettuare investimenti, di assicurare agli utenti determinati livelli di prestazione, di informazione, i poteri di verifica sull’andamento della gestione, i poteri di approvazione di tariffe praticate agli utenti. Il contratto regola anche il diritto di recesso e di riscatto subordinandoli a una serie di garanzie, incluso il pagamento di un indennizzo secondo criteri predefiniti, e superando in questo modo il principio della revocabilità ad nutum. Nelle fattispecie più complesse il momento contrattuale finisce per essere di gran lunga prevalente rispetto al momento autoritativo, ridotto in taluni casi a un mero atto di approvazione del contratto.

Di fatto, poi, nonostante la posizione formale di sovraordinazione dell’amministrazione che rilascia la concessione, la parte contrattualmente più forte finisce spesso per essere l’impresa privata che gestisce il servizio.

c) La distinzione tra autorizzazioni e concessioni ha richiesto un ripensamento complessivo alla luce del diritto europeo, che non attribuisce alcuna rilevanza alla distinzione tra diritti soggettivi e interessi

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legittimi, e dell’evoluzione interna del diritto amministrativo. Quel che conta sia per le autorizzazioni sia per le concessioni, è, alla fin fine, che in mancanza di un atto di assenso preventivo dell’amministrazione l’attività non può essere intrapresa.

Non a caso la direttiva servizi 2006/123/CE già citata dà una definizione omnicomprensiva di “regime autorizzatorio” che include “qualsiasi procedura che obbliga un prestatore o un destinatario a rivolgersi ad un’autorità competente allo scopo di ottenere una decisione formale o una decisione implicita relativa all’accesso ad un’attività di servizio o al suo esercizio” (art. 4, n. 6). Come precisa ancor meglio il considerando n. 39, il regime di autorizzazione comprende tutte le procedure per il rilascio di “autorizzazioni, licenze, approvazioni o concessioni”, oltre che l’obbligo “di essere iscritto in un albo professionale, in un registro ruolo o in una banca dati, di essere convenzionato con un organismo o di ottenere una tessera professionale” .

Come impostazione generale, specie quando si tratti di attività economiche collegate al diritto d’impresa, il diritto europe è sempre stato, per così dire, nemico della discrezionalità. Infatti, subordinare l’esercizio di un’attività a una valutazione discrezionale dell’amministrazione significa negare la possibilità di ricostruire la posizione giuridica soggettiva del privato o dell’impresa in termini di diritto in senso proprio.

Proprio per questa ragione numerose direttive europee emanate nell’ultima parte del secolo scorso hanno trasformato i regimi di concessione discrezionale in regimi di autorizzazione vincolata (o anche, con espressione ricorrente, di autorizzazione conforme al diritto comunitario).

Uno dei primi casi riguardò il sistema creditizio. La legge bancaria del 1936 subordinava l’apertura di un istituto di credito al rilascio di una concessione discrezionale della Banca d’Italia. La stessa attività bancaria era definita come attività di interesse pubblico e assoggettata a un sistema di regole speciali, molte delle quali emanate e applicate dagli organi di vertice del sistema (Comitato interministeriale per il credito e il risparmio, Banca d’Italia, Ministero del Tesoro), finalizzate non soltanto a garantire la stabilità del sistema bancario contro il rischio di fallimenti a catena, ma anche a dirigere l’attività degli istituti orientando le scelte di investimento in funzione di obiettivi di politica economica e industriale. In questo contesto il rilascio della concessione valeva come atto di ammissione dell’istituto richiedente in un vero e proprio ordinamento giuridico

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settoriale (M.S. GIANNINI).

Negli anni Ottanta del secolo scorso il diritto europeo allo scopo di aprire il mercato dei servizi bancari a un maggior grado di concorrenza, pose il divieto di subordinare l’avvio dell’attività bancaria a valutazioni discrezionali e in particolare al criterio del cosiddetto “bisogno di mercato” che consente all’amministrazione pubblica di valutare in termini di sufficienza o insufficienza la presenza di un numero adeguato di istituti di credito secondo un criterio di equilibrio tra domanda e offerta di servizi bancari e una logica programmatoria e pianificatoria. Il regime concessorio venne così trasformato in regime di autorizzatorio espungendo ogni elemento di discrezionalità propriamente amministrativa.

Oggi il Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia (d.lgs. n. 385/1993), per un verso, precisa che l’attività bancaria “ha carattere d’impresa” (art. 10); per altro verso, subordina il rilascio dell’autorizzazione a una serie di condizioni oggettive (forma societaria, capitale sociale minimo, requisiti di professionalità, onorabilità e indipendenza degli amministratori, ecc.) che attribuiscono alla Banca d’Italia solo spazi di valutazione tecnica (in particolare in ordine al programma di attività che deve essere elaborato da chi presenta la domanda) (art. 14) in modo tale da garantire “la sana e prudente gestione” degli istituti vigilati che costituisce la finalità primaria dell’intera disciplina in materia bancaria (art. 5).

Le direttive di liberalizzazione emanate verso la fine del secolo scorso, volte a eliminare i regimi di monopolio legale (o di riserva di attività) segnando, come si è visto, il passaggio allo Stato regolatore, hanno interessato i grandi servizi pubblici (energia elettrica e gas, comunicazioni elettroniche, poste, trasporti ferroviari). Da qui la sostituzione dei regimi concessori con regimi di autorizzazioni vincolate.

Così, per esempio, il Codice delle comunicazioni elettroniche stabilisce che l’attività di fornitura di reti o servizi “è di preminente interesse generale” ed è “libera” (art. 3, secondo comma, e art. 25), mentre in precedenza era assoggettata, in base al codice postale, a un regime concessorio. L’avvio è oggi subordinato, come si è accennato, a un regime di autorizzazione generale che prevede una semplice comunicazione preventiva al Ministero delle comunicazioni (art. 14). All’autorizzazione generale possono essere apposte condizioni “proporzionate, trasparenti e non discriminatorie” individuate in un elenco tassativo che non lascia spazio ad alcuna discrezionalità (art. 28).

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Solo per l’utilizzo delle frequenze radio, che costituiscono una risorsa scarsa, il Codice prevede un piano nazionale di ripartizione, in modo ridurre il rischio di interferenze, e la concessione dei diritti d’uso alle imprese richiedenti, ma nel contesto di “procedure pubbliche, trasparenti e non discriminatorie” (art. 27).

In termini più generali, il decreto legislativo di recepimento della Direttiva servizi già citato, che si applica a un ambito assai esteso di attività economiche, nel porre alcune disposizioni guida in materia di regimi autorizzatori rivolte soprattutto al legislatore, pone il principio che l’accesso e l’esercizio delle attività di servizi “costituiscono espressione della libertà di iniziativa economica e non possono essere sottoposti a limitazioni non giustificate o discriminatorie” (art. 10, comma 1). La libertà in questione costituisce dunque un prius, che è assunto quasi come un dato naturale rispetto ai poteri pubblici conformativi, che richiedono invece una giustificazione specifica caso per caso in base al principio di proporzionalità.

Il decreto legislativo individua una serie di requisiti di accesso all’attività considerati vietati in modo assoluto perché non giustificati o discriminatori (art. 11). Sono discriminatori, per esempio, i requisiti che richiedono al prestatore di servizi la cittadinanza o la residenza italiana. Non giustificata è invece “l’applicazione caso per caso di una verifica di natura economica che subordina il rilascio del titolo autorizzatorio alla prova dell’esistenza di un bisogno economico o di una domanda di mercato, o alla valutazione degli effetti economici potenziali o effettivi dell’attività o alla valutazione dell’adeguatezza dell’attività rispetto agli obiettivi di programmazione economica stabiliti” (art. 1, primo comma, lett. e). L’economia di mercato aperta e in libera concorrenza che ispira i trattati comunitari è incompatibile, come si è detto, con ogni logica dirigistica e pianificatoria.

Accanto ai requisiti vietati, il decreto legislativo enumera una serie di requisiti che sono ammessi solo in presenza di un motivo imperativo di interesse generale così come definito dallo stesso decreto in un elenco tassativo (ordine e sicurezza pubblica, sanità, tutela dei lavoratori, ambiente, ecc.) e previa notifica alla Commissione europea (artt. 12 e 13). Tra questi rientrano, per esempio, la previsione di tariffe obbligatorie minime o massime, di restrizioni quantitative o territoriali, o di un numero minimo di dipendenti.

Nei casi in cui il numero delle autorizzazioni deve essere limitato “per ragioni correlate alla scarsità delle risorse naturali o delle capacità

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tecniche disponibili” o per altri motivi imperativi di interesse generale, il loro rilascio deve avvenire attraverso una procedura di selezione pubblica sulla base di criteri resi pubblici, atti ad assicurare l’imparzialità (art. 16).

In definitiva, le condizioni alle quali i regimi autorizzatori subordinano l’accesso e l’esercizio di un’attività di servizi devono essere, oltre che non discriminatorie e giustificate da un motivo di interesse generale, “chiare e inequivocabili”, “oggettive”, “rese pubbliche preventivamente” (art. 15).

Questa regola incorpora un principio generale in tema di autorizzazioni conformi al diritto comunitario, che vale anche al di là dall’ambito dei servizi oggetto della direttiva 2006/123/CE, e che privilegia, come si è sottolineato più volte, il modello delle autorizzazioni vincolate.

Un ripensamento nella ricostruzione dogmatica delle autorizzazioni e delle concessioni è imposto, come si è anticipato, anche dall’evoluzione interna del diritto amministrativo che ha portato alla perdita della rilevanza pratica della distinzione tra diritti soggettivi e interessi legittimi.

Si è già visto in particolare che, in seguito alla sentenza delle S.U. della Corte di Cassazione n. 500/1990, essa non segna più la linea di confine della risarcibilità del danno conseguente a un’attività amministrativa illegittima. Perde così di significato, a fini risarcitori, in particolare nel caso di diniego illegittimo del rilascio del provvedimento richiesto, la distinzione tra concessioni e autorizzazioni fondata sulla preesistenza o meno della titolarità in capo al soggetto privato di una situazione giuridica di diritto soggettivo. Ai fini della risarcibilità entra in gioco, secondo la sentenza n. 500/1999, soltanto il cosiddetto giudizio prognostico, cioè una valutazione oggettiva, sulla base della normativa applicabile e delle caratteristiche della situazione concreta, della possibilità di conseguire il bene della vita correlata al provvedimento illegittimamente negato. Anche ai fini di questo giudizio diventa essenziale determinare l’ambito di discrezionalità che è attribuita o che residua (discrezionalità in astratto o in concreto) in capo all’amministrazione.

In conclusione, alla luce dell’evoluzione del diritto europeo e del diritto interno, la distinzione più rilevante in materia di autorizzazioni e concessioni, al di là della terminologia di volta in volta utilizzata dal legislatore e delle subclassificazioni dottrinali, è tra atti vincolati e atti discrezionali, o com’è stato detto (A. ORSI BATTAGLINI), tra “autorizzazioni discrezionali costitutive” e “autorizzazioni vincolate ricognitive”. Secondo questa dottrina, ancora oggi peraltro minoritaria, nelle prime l’atto amministrativo è la fonte diretta dell’effetto giuridico

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prodotto, secondo lo schema già visto della norma d’azione, che ricollega al verificarsi in concreto di un fatto sussumibile nella norma il potere dell’amministrazione di produrre con una propria manifestazione di volontà un effetto giuridico in capo a un soggetto terzo (secondo lo schema norma-fatto-potere-effetto); nelle seconde l’effetto giuridico, a ben considerare, come si è accennato, si ricollega direttamente alla legge, cioè al verificarsi in concreto di un fatto sussumibile nella norma, mentre all’autorità che emana l’atto è riservato in via esclusiva il compito di accertare la produzione dell’effetto giuridico (cosiddetta competenza esclusiva, nell’impostazione, già esaminata, di E. CAPACCIOLI). L’avvio dell’attività nel secondo tipo di autorizzazioni è dunque precluso in assenza dell’atto amministrativo, non tanto perché il soggetto privato non abbia già acquisito nella sua sfera giuridica il diritto a esercitarla, quanto perché, per ragioni di certezza delle relazioni giuridiche l’ordinamento riserva, almeno in prima battuta, all’amministrazione il compito di verificare se sussistono in concreto i presupposti e i requisiti richiesti dalla norma per svolgerla.

In ogni caso, anche se non si accoglie la distinzione ora posta, la presenza o meno della discrezionalità assume un rilievo determinante ai fini della tutela giurisdizionale. Infatti, come si è già accennato e come si vedrà meglio nei Cap. VI e VII, sia la possibilità di esperire con successo l’azione risarcitoria, sia la possibilità di conseguire una tutela specifica, sotto forma di condanna dell’amministrazione al rilascio del provvedimento richiesto illegittimamente negato (la cosiddetta azione di adempimento) sono condizionate dalla natura vincolata o discrezionale del potere.

9. Gli atti dichiarativi.

Esaurita la trattazione delle principali tipologie di provvedimenti amministrativi restrittivi e ampliativi della sfera giuridica del destinatario, occorre dar conto di altri tipi di classificazioni elaborate dalla dottrina e dalla giurisprudenza per cercare di razionalizzare una realtà multiforme che emerge nella legislazione e nella prassi amministrativa. Ciò con una duplice avvertenza e cioè, da un lato, che l’obiettivo non quello della completezza della ricognizione, dall’altro, che si tratta in molti casi di classificazioni non unanimemente accettate e talora riferite a fenomeni eterogenei.

Una prima categoria include atti amministrativi dichiarativi, nei quali

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cioè il momento volitivo tipico dei provvedimenti è generalmente assente e ai quali va invece riconosciuta una funzione meramente ricognitiva e dichiarativa finalizzata alla produzione di certezze giuridiche. In un certo senso, già le autorizzazioni vincolate ricognitive da ultimo esaminate potrebbero essere incluse in questa categoria, ove si acceda alla tesi che, trattandosi di atti vincolati, l’effetto giuridico non sorge in seguito all’emanazione dell’atto, ma discende direttamente dalla legge.

Più tipicamente, nella categoria degli atti dichiarativi rientrano le certificazioni, d’uso molto frequente nella vita pratica, che sono dichiarazioni di scienza relative ad “atti, fatti, qualità, e stati soggettivi” (art. 18 della l. n. 241/1990). L’amministrazione pubblica organizza, elabora, verifica la correttezza e detiene stabilmente una gran massa di dati e informazioni in registri, elenchi, albi, ecc. Si pensi per esempio ai registri dello stato civile dei Comuni contenenti i dati anagrafici (data di nascita, cittadinanza, stato civile), alle liste elettorali, ai registri immobiliari, agli elenchi di acque pubbliche, al pubblico registro automobilistico, ai registri giudiziari, ecc.

Le certificazioni si ricollegano concettualmente a una funzione che i pubblici poteri da sempre hanno assunto come propria, quella cioè di certezza pubblica. Si pensi, per esempio alla disciplina dei pesi e delle misure, della moneta, del computo del tempo, indispensabili per l’ordinato svolgimento delle relazioni giuridiche.

Individuare luoghi e modalità istituzionalizzate per aggregare e verificare la correttezza di dati è una componente essenziale del ruolo dei pubblici poteri in un sistema sociale ed economico che si regge sempre più sull’acquisizione, sulla diffusione, sulla verificabilità dei dati.

La funzione di certezza pubblica si realizza attraverso due modalità: la tenuta e l’aggiornamento di registri, albi, elenchi pubblici; la messa a disposizione ai soggetti interessati dei dati in essi contenuti per mezzo di attestazioni e certificazioni. Per l’iscrizione a certi tipi di albi e registri (in particolare gli albi professionali) è richiesto un accertamento, anche attraverso prove selettive, del possesso dei requisiti prescritti.

Le certificazioni costituiscono la modalità tradizionale per dimostrare il possesso di presupposti e requisiti richiesti ai privati per potere svolgere molte attività. Esse vengono presentate, insieme alle altre documentazioni necessarie, nell’ambito dei procedimenti autorizzatori.

La l. n. 241/1990 (art. 18) e il Testo Unico sulla documentazione amministrativa (d.P.R. n. 445/2000) prevedono però due modalità

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alternative, da preferire. Da un lato, le pubbliche amministrazioni dovrebbero scambiare tra di loro d’ufficio le informazioni rilevanti senza gravare i soggetti privati dell’onere di ottenere il rilascio dei certificati rilevanti (art. 18, commi 2 e 3; art. 43 del d.P.R. n. 445/2000). Di recente, proprio per obbligare le amministrazioni a fornirsi reciprocamente i dati di cui sono in possesso, è stato anzi introdotto il principio secondo il quale i certificati non hanno alcun valore giuridico nei rapporti con le pubbliche amministrazioni. Dall’altro, in molti casi le certificazioni possono essere sostituite con l’autocertificazione, individuando i fatti, stati e qualità il cui possesso può essere attestato tramite una dichiarazione formale assunta sotto propria responsabilità dal soggetto interessato.

Le cosiddette dichiarazioni sostitutive di certificazione possono avere per oggetto per esempio la data, il luogo di nascita, la residenza, la cittadinanza, l’iscrizione in albi, la qualità di studente o di pensionato, ecc. (art. 46 del d.P.R. n. 445/2000). Così, per esempio, la domanda di partecipazione a un concorso pubblico o l’istanza per poter ottenere un sussidio prevedono usualmente l’autocertificazione del possesso dei requisiti richiesti dal bando e dalle norme vigenti. Le dichiarazioni sostitutive di atti di notorietà sono relative invece a stati, qualità personali e fatti dei quali l’interessato sia a conoscenza e che si riferiscono anche ad altri soggetti (art. 47 del d.P.R. n. 445/2000).

L’amministrazione che utilizza il dato autocertificato nell’ambito di un procedimento può verificarne, almeno a campione, la correttezza e deve farlo nei casi in cui sorgono dubbi sulla veridicità delle dichiarazioni (art. 71, comma 1). Se l’autocertificazione è falsa possono essere irrogate sanzioni anche di tipo penale che, con riferimento particolare alla segnalazione certificata d’inizio di attività, sono state di recente inasprite (art. 19, comma 6, della l. n. 241/1990 e, in generale, art. 76, d.P.R. n. 445/2000).

Inoltre in caso di dichiarazioni mendaci e di false attestazioni, sempre con funzione sanzionatoria, all’interessato è negata la possibilità di conformare l’attività alla legge sanando la propria posizione (art. 21 della l. n. 241/1990) e viene disposta nei suoi confronti la decadenza dai benefici eventualmente conseguiti dal provvedimento emanato in base alla dichiarazione non veritiera (art. 75).

Il modello dell’autocertificazione, introdotto già da molto tempo (legge 4 gennaio 1968, n. 15, cui fa rinvio l’art. 18, comma 1, della l. n. 241/1990), stenta a farsi strada nella pratica, perché la circolazione delle

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informazioni tra pubbliche amministrazioni, a causa di carenze organizzative croniche e nonostante gli sforzi recenti di introdurre la cosiddetta amministrazione digitale, è ancora difficoltosa.

Tra gli atti dichiarativi vanno inclusi i cosiddetti atti paritetici, ai quali si è già fatto cenno. Si tratta di una categoria di atti elaborata dalla giurisprudenza amministrativa allorché negli anni Trenta del secolo scorso il legislatore attribuì al giudice amministrativo in particolari materie (anzitutto il pubblico impiego) la cognizione di diritti soggettivi in aggiunta ai tradizionali interessi legittimi (cosiddetta giurisdizione esclusiva). La figura dell’atto paritetico, cioè di un atto meramente ricognitivo di un assetto già definito in tutti i suoi elementi dalla norma attributiva di un diritto soggettivo, serviva in quel contesto a superare la regola della necessità di impugnare l’atto nel termine di 60 giorni, consentendo che la pretesa del privato potesse essere fatta valere in sede giudiziale nel normale termine di prescrizione. Così, per esempio, se l’amministrazione nega un compenso o un’indennità spettante a un dipendente pubblico non privatizzato o erra nella quantificazione del contributo correlato al rilascio di un permesso a costruire, la comunicazione formale dell’amministrazione non vale come provvedimento amministrativo in senso proprio.

Un’altra specie di atti dichiarativi è costituita dalle verbalizzazioni, che consistono nella “narrazione storico giuridica” (M.S. GIANNINI) da parte di un ufficio pubblico di atti, fatti e operazioni avvenute in sua presenza. Così, per esempio, la polizia municipale, nell’ambito dell’attività di vigilanza in materia edilizia, può recarsi in cantiere e constatare in un processo verbale la difformità delle opere già realizzate rispetto al permesso a costruire, oppure, nell’ambito dell’attività di vigilanza sulle attività commerciali, constatare il mancato rispetto degli orari di apertura di un esercizio commerciale. Analogamente, i funzionari della Banca d’Italia o dell’Isvap, in occasione delle ispezioni periodiche condotte presso le banche e le assicurazioni vigilate, fanno constatare in un verbale le operazioni compiute, i fatti accertati e le eventuali dichiarazioni delle parti interessate.

Il processo verbale così redatto può essere poi incluso tra gli atti di un procedimento in senso proprio volto per esempio a diffidare o sanzionare il comportamento illecito sul piano amministrativo.

La verbalizzazione assume un rilievo particolare in relazione alle attività deliberative degli organi collegiali (consiglio o giunta comunale, consiglio di amministrazione di un ente pubblico, la commissione di un

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concorso, ecc.). Di regola essa è affidata a un segretario non componente del collegio che dà atto della presenza dei membri del collegio al fine della verifica del quorum costitutivo, dell’andamento della discussione sui punti all’ordine del giorno, riporta le eventuali dichiarazioni di voto e l’esito delle votazioni.

Ove redatto da un pubblico ufficiale il verbale fa fede delle operazioni compiute e delle dichiarazioni ricevute (art. 155 cod. proc. civ.) e i suoi contenuti possono essere contestati solo attraverso l’esperimento di procedimenti particolari (la querela di falso).

Tra gli atti amministrativi non provvedimentali vanno menzionati i pareri e le valutazioni tecniche, che sono manifestazioni di giudizio da parte di organi o enti pubblici contenenti valutazioni e apprezzamenti in ordine a interessi pubblici secondari o a elementi di carattere tecnico (valutazioni tecniche) che l’amministrazione titolare del potere amministrativo e competente a emanare un provvedimento amministrativo deve tenere in considerazione (art. 16 e art. 17 della l. n. 241/1990). La sede più appropriata per darne conto è quella relativa al procedimento amministrativo.

10. Altre classificazioni: atti collettivi, atti plurimi, atti di alta amministrazione, atti collegiali.

I provvedimenti amministrativi possono essere classificati anche in base ad altri criteri.

a) Il criterio dei destinatari del provvedimento consente di operare una serie di distinzioni e di individuare anzitutto la categoria degli atti amministrativi generali già esaminata nel capitolo precedente. Questi atti si rivolgono, anziché a singoli destinatari, a classi omogenee più o meno ampie di soggetti (determinabili in concreto solo in un momento successivo all’emanazione dell’atto) e proprio per questo sono assoggettati a un regime simile per molti aspetti a quello dei regolamenti amministrativi in senso proprio.

Dagli atti generali vanno tenuti distinti gli atti collettivi e gli atti plurimi. Anche i primi si indirizzano a categorie, generalmente ristrette, di soggetti considerati in modo unitario, i quali, però, a differenza degli atti generali, sono già individuati con precisione individualmente. Si pensi, per esempio, allo scioglimento di un consiglio comunale che produce effetti nei confronti dei singoli componenti dell’organo collegiale.

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Gli atti plurimi (o a contenuto plurimo), invece, sono atti rivolti anch’essi a una pluralità di soggetti, ma i loro effetti, a differenza di quanto accade per gli atti collettivi, sono scindibili in relazione a ciascun destinatario. Si pensi per esempio al decreto che approva una graduatoria di vincitori di concorso oppure un decreto che dispone nei confronti di una pluralità di proprietari l’espropriazione di una serie di terreni. La distinzione rileva soprattutto in sede di tutela giurisdizionale poiché, a differenza di quanto accade per gli atti collettivi, l’impugnazione proposta da uno dei destinatari dell’atto plurimo, proprio in virtù della scindibilità degli effetti, non può andare a beneficio né intaccare la situazione giuridica soggettiva degli altri destinatari.

b) In base al criterio della natura della funzione esercitata e dell’ampiezza della discrezionalità è stata elaborata la tipologia degli atti di alta amministrazione. Questa fattispecie è emersa allorché si è posta la questione di segnare i confini tra gli atti amministrativi e gli atti politici, questi ultimi non assoggettati a regime del provvedimento amministrativo. In particolare, il Codice del processo amministrativo, in linea con le norme precedenti (art. 31 del Testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato), esclude l’impugnabilità degli “atti o provvedimenti emanati dal Governo nell’esercizio del potere politico” (art. 7, comma 1).

La linea di confine tra atti politici e atti amministrativi è sempre stata incerta. Il giudice amministrativo ha via via ristretto la nozione di atto politico, in particolare abbandonando la teoria del movente o dei motivi soggettivi dell’atto di origine francese che allargava troppo l’area della insindacabilità. Ha accolto invece una nozione oggettiva di atto politico. In essa rientrano gli atti, che, a differenza di quelli amministrativi, sono liberi nel fine e che sono emanati da un organo costituzionale (in particolare il Governo) nell’esercizio di una funzione di governo. E’ questo il caso, per esempio, delle deliberazioni del Consiglio dei ministri che approvano un decreto legge o un decreto legislativo, degli atti che dispongono l’invio di un contingente militare all’estero nell’ambito di una missione della N.A.T.O. o che pongono la questione di fiducia al parlamento, o che provvedono alla nomina di un sottosegretario di Stato.

Altri atti del Governo, definiti atti di alta amministrazione, hanno invece una natura amministrativa, anche se sono caratterizzati da un’amplissima discrezionalità. Tra di essi rientrano i provvedimenti di nomina e revoca dei vertici militari o dei ministeri (prefetti, capi di dipartimento) o dei direttori generali delle aziende sanitarie locali, i

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decreti che autorizzano l’estradizione, oppure il decreto di scioglimento e commissariamento di un Comune o di un altro ente pubblico. Questi atti operano un raccordo tra la funzione di indirizzo politico e la funzione amministrativa. In quanto atti amministrativi essi devono essere motivati e sono impugnabili innanzi al giudice amministrativo il quale però esercita su di essi un sindacato meno intenso, limitandosi a rilevare le violazioni più macroscopiche dei principi che presiedono all’esercizio del potere discrezionale.

c) Un altro criterio di distinzione riguarda la provenienza soggettiva del provvedimento. Accanto ai casi nei quali il provvedimento è emanato da un organo competente di tipo monocratico (un decreto del ministro o un’ordinanza del sindaco di un Comune), si pongono i casi nei quali il provvedimento è espressione della volontà di più organi o soggetti e che danno origine alla categoria degli atti complessi. Un esempio può essere il decreto interministeriale, espressione della volontà paritaria e convergente (con funzione di coordinamento) di più ministri, oppure un decreto del Presidente della Repubblica che controfirma l’atto del ministro proponente.

Vanno menzionati anche gli atti collegiali nei quali il provvedimento è emanato da un organo composto da una pluralità di componenti designati con vari criteri (elezione, nomina da parte di organi politici o in rappresentanza di enti pubblici o privati o di organizzazioni di categoria). Le delibere assunte dagli organi collegiali avvengono con modalità particolari definite negli statuti o nei regolamenti dei singoli enti e amministrazioni. Anzitutto, la riunione del collegio viene convocata usualmente dal presidente e a ciascuno dei componenti è comunicato in anticipo l’ordine del giorno. Prima di procedere alla discussione e all’assunzione della delibera va verificata la presenza alla riunione del numero legale (quorum costitutivo). La delibera è validamente assunta ove sia approvata dalla maggioranza (a seconda dei casi semplice o qualificata) dei presenti (quorum deliberativo). La delibera è riferibile unitariamente all’organo collegiale, ma le eventuali responsabilità che possano sorgere non ricadono sui componenti dell’organo assenti o dissenzienti. Di tutte le operazioni, inclusa la votazione, dà conto il verbale della seduta, predisposto da un segretario verbalizzante e approvato dall’organo collegiale nella seduta successiva.

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11. L’invalidità dell’atto amministrativo.

Nei paragrafi che precedono è stata analizzata la fisiologia del provvedimento amministrativo, esaminandone gli elementi strutturali e il regime giuridico. Aspetti della patologia del provvedimento sono già emersi là dove, per esempio, si è posto in evidenza che l’efficacia del provvedimento non è condizionata dalla validità del medesimo. Si è richiamata anche la disposizione della l. n. 241/1990 che qualifica come nullo l’atto che manca dei suoi elementi essenziali (art. 21-septies).

E’ giunto ora il momento di trattare in modo più sistematico l’invalidità del provvedimento amministrativo. Essa trova una disciplina compiuta nella l. n. 241/1990 in seguito alle modifiche introdotte dalla l. n. 15/2005 e, per i risvolti processuali, nel Codice del processo amministrativo. Conviene muovere da alcune nozioni generali.

In sede di teoria generale viene operata una distinzione contenutistica tra norme che regolano una condotta, imponendo obblighi o attribuendo diritti, e norme che conferiscono poteri, come per esempio quello di fare testamento, di contrarre un matrimonio o di porre in essere un contratto, che regolano invece le procedure, i presupposti e i limiti all’esercizio di poteri (privati o anche amministrativi) volti alla produzione di effetti giuridici (norme primarie e norme secondarie, secondo H.L. HART; norme di condotta e norme sulla produzione giuridica, secondo N. BOBBIO; norme di relazione e norme di azione, secondo la distinzione già esaminata).

I comportamenti che violano il primo tipo di norme sono qualificabili come illeciti e contro di essi l’ordinamento reagisce attraverso l’imposizione di sanzioni di varia natura (sanzioni penali, obbligo di risarcimento, ecc.). Gli atti posti in essere in violazione delle norme del secondo tipo sono qualificabili come invalidi e contro di essi l’ordinamento reagisce disconoscendone gli effetti.

L’invalidità può essere definita più precisamente come la difformità di un negozio o di un atto dal suo modello legale. Essa può essere sanzionata, in funzione della gravità della violazione, secondo due modalità: l’inidoneità dell’atto a produrre gli effetti giuridici tipici, cioè a creare diritti e obblighi o altre modificazioni nella sfera giuridica dei soggetti dell’ordinamento (nullità); l’idoneità a produrli in via precaria, cioè fin tanto che non intervenga un giudice (o un altro organo) che, accertata l’invalidità, rimuova con efficacia retroattiva gli effetti prodotti medio tempore (annullamento).

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Il regime dell’invalidità del provvedimento amministrativo si ispira a (ma non coincide con) il modello dell’invalidità accolto dal codice civile, che, nell’ambito della disciplina del contratto, distingue la nullità e l’annullabilità (art. 1418 e seg. e 1425 e seg. cod. civ.).

Nel diritto civile la nullità ha carattere atipico. Infatti, il codice civile del 1942 ha abbandonato la logica della tipicità delle ipotesi nelle quali essa è comminata (cosiddetta nullità “testuale” cioè limitata ai casi in cui essa è espressamente comminata da una norma), ma delinea uno schema atipico sanzionando con la nullità tutti i casi di contrarietà del contratto a norme imperative (art. 1418, comma 1). Questa disposizione rimette infatti all’interprete la valutazione caso per caso in ordine al carattere imperativo o meno della norma violata (cosiddetta nullità “virtuale”).

La nullità del provvedimento amministrativo è invece prevista, come si vedrà, solo in relazione a poche ipotesi tassative, mentre la violazione delle norme attributive del potere viene attratta nel regime ordinario della annullabilità (sotto il profilo della violazione di legge).

Questa differenza si spiega per il fatto che le norme in materia di contratti hanno di regola carattere dispositivo, possono cioè essere derogate dalle parti. Le norme imperative, un fenomeno quantitativamente limitato, segnano invece in negativo i limiti all’autonomia negoziale a tutela di interessi generali, limiti che l’autonomia privata non può giammai superare.

Nel diritto amministrativo, invece, in coerenza con la logica della legalità e della tipicità, le norme attributive del potere, in quanto finalizzate a garantire i soggetti destinatari del provvedimento e a tutelare un interesse pubblico, hanno di regola carattere cogente (imperativo). Esse non possono essere cioè derogate o disapplicate dall’amministrazione. Sanzionare con la nullità ogni difformità tra provvedimento e norma attributiva del potere costituirebbe una reazione sproporzionata da parte dell’ordinamento. Nel corso dell’iter parlamentare che portò alle modifiche alla l. n. 241/1990 operate dalla l. n. 15/2005 vi fu il tentativo di sostituire la formulazione classica del vizio di violazione di legge con la contrarietà a norme imperative, ma esso venne accantonato proprio per la difficoltà di applicare questa distinzione in un contesto pubblicistico.

Ciò spiega perché storicamente, come si è accennato, si affermò il principio che equipara il provvedimento amministrativo invalido a quello valido ai fini della produzione dell’effetto giuridico tipico (salva sua

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successiva rimozione in seguito all’annullamento). Questo principio appare infatti più rispettoso delle prerogative dell’amministrazione e dell’esigenza di consentire la realizzazione immediata della cura in concreto dell’interesse pubblico. Non venne accolto invece il principio, seguito nell’ordinamento inglese, della inidoneità dell’atto non conforme al modello legale a produrre l’effetto (dottrina dell’ ultra vires). Un siffatto principio è improntato a una visione più rigorosa del principio di legalità e all’esigenza di garantire al massimo grado la protezione dei soggetti nella cui sfera giuridica ricadono gli effetti del provvedimento.

Inoltre, mentre nel diritto privato l’annullabilità è riferita a ipotesi tassative (incapacità della parte e vizi del consenso), nel diritto amministrativo le cosiddette figure sintomatiche dell’eccesso di potere, frutto dell’elaborazione giurisprudenziale, sono, come si vedrà, una sorta di catalogo aperto.

In definitiva, il regime dell’annullabilità costituisce il regime ordinario del provvedimento amministrativo invalido, mentre la nullità costituisce un fenomeno marginale anche dopo l’inserimento nella l. n. 241/1990 di una disciplina organica.

Sempre in sede di teoria generale, viene operata la distinzione tra invalidità totale e parziale: la prima investe l’intero atto, la seconda una parte di questo, lasciando inalterata la validità e l’efficacia della parte non affetta dal vizio. Anche il provvedimento amministrativo può essere colpito da invalidità totale o parziale. Quest’ultima evenienza si ha nel caso di provvedimenti con effetti scindibili, come nel caso, già esaminato, degli atti plurimi. Può essere preso come esempio l’atto di nomina di una pluralità di vincitori di un concorso o di un giudizio di idoneità. Ha effetti scindibili anche il piano regolatore con riferimento alle destinazioni edificatorie delle singole aree: l’illegittimità delle prescrizioni che si riferiscono a una determinata area non invalida le prescrizioni riferite ad altre aree.

In genere si ritiene applicabile al provvedimento il principio di cui all’art. 159 cod. proc. civ. secondo il quale l’invalidità di una parte dell’atto si estende alle altre parti solo ove esse siano strettamente dipendenti da quella viziata. Può assumere rilievo anche il principio civilistico relativo alla nullità di una parte o di una clausola del contratto che comporta la nullità del contratto solo quando risulta che i contraenti non lo avrebbero concluso senza quella parte (art. 1419 cod. civ.). Nel caso degli atti amministrativi il problema si può porre, per esempio, per le clausole accessorie apposte a un’autorizzazione o a una concessione.

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L’invalidità di un provvedimento può essere propria o derivata. Nel primo caso assumono rilievo diretto i vizi dei quali è affetto l’atto. Nel secondo caso l’invalidità dell’atto discende per così dire per propagazione dall’invalidità di un atto presupposto. E’ questo, per esempio, il caso dell’illegittimità di un bando di gara o di concorso che si riflette sulla validità dell’atto di aggiudicazione o di approvazione della graduatoria dei vincitori. Anche l’atto applicativo di un regolamento illegittimo è affetto da invalidità derivata.

L’invalidità derivata può essere di due tipi: ad effetto caducante, nel senso che travolge in modo automatico l’atto assunto sulla base dell’atto invalido; a effetto invalidante, nel senso che l’atto affetto da invalidità derivata, per quanto a sua volta invalido, conserva i suoi effetti fin tanto che non venga annullato. L’effetto caducante si verifica in presenza di un rapporto di stretta causalità (o consequenzialità diretta e necessaria) tra i due atti: il secondo costituisce una mera esecuzione del primo. Allorché invece l’atto successivo non costituisce una conseguenza inevitabile del primo, ma presuppone nuovi e ulteriori apprezzamenti, l’invalidità derivata ha soltanto un effetto viziante, con la conseguenza che essa deve essere fatta valere attraverso l’impugnazione autonoma di quest’ultimo. Così, per esempio, l’invalidità degli atti di ammissione dei singoli candidati a una prova concorsuale si propaga agli atti successivi della procedura e fino all’approvazione della graduatoria, ma quest’ultima è affetta da un’invalidità derivata viziante e non caducante.

Si distingue ancora tra invalidità originaria e invalidità sopravvenuta. In linea di principio trova applicazione anche nel diritto amministrativo il principio del “tempus regit actum”, secondo il quale la validità di un provvedimento si determina con riguardo alle norme in vigore al momento della sua adozione.

Peraltro, poiché l’esercizio del potere avviene nella forma del procedimento, cioè di una pluralità di atti funzionalmente collegati e strumentali all’adozione del provvedimento finale, si pone talora la questione delle conseguenze del mutamento delle norme vigenti sui procedimenti avviati, ma non ancora conclusi. Così, per esempio, se successivamente alla presentazione di una domanda di concessione e all’avvio dell’istruttoria interviene una normativa più restrittiva, la concessione non può essere più rilasciata. In altri casi il mutamento normativo non incide sulle procedure già avviate. Un esempio è un concorso pubblico in relazione al quale sia già stato emanato il bando (che costituisce la lex specialis del procedimento e che non può essere

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disapplicata dall’amministrazione).

Si parla di invalidità sopravvenuta dei provvedimenti amministrativi (ma questa nozione è dibattuta in dottrina) nel caso di legge retroattiva, di legge di interpretazione autentica e di dichiarazione di illegittimità costituzionale. Nelle prime due ipotesi, la retroattività della nuova legge rende, ora per allora, viziato il provvedimento emanato in base alla norma abrogata. Nella terza ipotesi, poiché le sentenze di accoglimento della Corte costituzionale hanno efficacia retroattiva, esse rendono invalidi i provvedimenti assunti sulla base delle norme dichiarate illegittime e ai rapporti giuridici sorti anteriormente, a meno che non si tratti di rapporti esauriti.

Infine anche nel diritto amministrativo è emersa, soprattutto in giurisprudenza, la distinzione tra invalidità del provvedimento e mera irregolarità, che, come si vedrà, è riferita a imperfezioni minori tali da non incidere in modo rilevante sugli interessi tutelati dalla norma.

Conviene svolgere ancora due considerazioni generali sull’invalidità del provvedimento.

La prima è che la l. n. 241/1990 non ha fatto altro che razionalizzare le acquisizioni giurisprudenziali e dottrinali. Come si è già accennato, infatti, la teoria dei vizi dell’atto amministrativo è il frutto in gran parte dell’elaborazione giurisprudenziale a partire dalla legge del 1889 istitutiva della IV Sezione del Consiglio di Stato. Il giudice amministrativo dovette cioè riempire di contenuto le scarne disposizioni che attribuivano alla sua competenza i ricorsi “per incompetenza, per eccesso di potere o per violazione di legge” e stabilivano che in caso di accoglimento del ricorso l’atto impugnato dovesse essere annullato (artt. 26 e 45 del Testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato).

Così, in primo luogo, la giurisprudenza interpretò subito la formula “eccesso di potere”, che riprendeva quella francese di excès de pouvoir, non già come “straripamento di potere” (débordement de pouvoir, riferito in origine agli sconfinamenti dell’autorità giudiziaria nella sfera riservata di altra autorità giudiziaria), bensì come “sviamento di potere” (détournement de pouvoir). Il primo si riferisce ai casi di macroscopico sconfinamento dall’ambito di competenza da parte di un’autorità amministrativa (quella che poi venne denominata variamente carenza di potere o incompetenza assoluta e ora, nell’art. 21-septies, come “difetto assoluto di attribuzione”); il secondo ai casi nei quali il potere viene esercitato per un fine diverso da quello posto dalla norma attributiva del

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potere (deviazione dell’atto dalla sua déstination légale) .

La IV Sezione del Consiglio di Stato fece cioè ricorso all’eccesso di potere per sindacare la legalità intrinseca dei provvedimenti discrezionali e non soltanto la loro conformità formale a disposizioni di legge (legalità estrinseca). Così in una controversia relativa a un decreto governativo discrezionale di scioglimento di un’opera pia, il Consiglio di Stato si spinse sino a verificare che l’atto impugnato non contenesse “nulla di illogico e d’irrazionale o di contrario allo spirito della legge” (decisione del 7 gennaio 1892, n. 3) aprendo così la strada a un controllo sulle scelte discrezionali dell’amministrazione. In seguito, il giudice amministrativo, allo scopo di accertare l’eccesso di potere inteso in questa accezione più ampia, elaborò le cosiddette figure sintomatiche dell’eccesso di potere rendendo così sempre più penetrante il sindacato sulla discrezionalità amministrativa.

In secondo luogo, nel silenzio della legge, la giurisprudenza individuò ipotesi nelle quali il provvedimento è affetto da deviazioni così abnormi dalla norma attributiva del potere o è addirittura emanato in assenza di una base legislativa tanto da non poter essere inquadrato all’interno del regime dell’illegittimità, che, come si è sottolineato, non fa venir meno la forza imperativa del provvedimento. Emerse così una tipologia di vizi più gravi sussunti nella categoria della carenza di potere (in astratto e in concreto) o anche della nullità (o talora inesistenza), in presenza dei quali, come si è già accennato nel capitolo precedente a proposito della distinzione tra diritti soggettivi e interessi legittimi, il provvedimento perde il carattere imperativo e dunque non è in grado di travolgere (degradare o affievolire) i diritti soggettivi. Gli atti assunti in carenza di potere vennero così attribuiti alla cognizione del giudice ordinario, mentre gli atti con riferimento ai quali veniva contestato soltanto il cattivo esercizio del potere restarono affidati alla cognizione del giudice amministrativo.

Una seconda osservazione generale, già introdotta da quest’ultima considerazione, è che la teoria dei vizi del provvedimento nel nostro ordinamento è stata condizionata dalla questione del riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo fondato sulla distinzione tra le figure del diritto soggettivo e dell’interesse legittimo, considerati nella loro interazione con il potere amministrativo.

La prospettiva in cui si sono poste la giurisprudenza e la dottrina è stata dunque quella dell’incidenza del provvedimento invalido sulle situazioni giuridiche soggettive.

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In questo contesto è stata elaborata anche la distinzione tra due tipi di comportamenti patologici dell’amministrazione.

Da un lato vi sono i “meri comportamenti” (o “comportamenti senza potere”) assunti in violazione di una norma di relazione cioè lesivi di un diritto soggettivo e ascrivibili nella categoria della illiceità e dunque qualificabili alla stregua di un qualsivoglia comportamento posto in essere da un soggetto privato non conforme alle norme civilistiche (in particolare ex art. 2043 cod. civ.). Si pensi per esempio a un incidente stradale provocato da un mezzo dell’amministrazione oppure al danno subito da un autoveicolo privato a causa della cattiva manutenzione di una strada (la cosiddetta insidia o trabocchetto). Dall’altro vi sono i comportamenti nei quali il collegamento funzionale tra provvedimento invalido e l’attività materiale esecutiva posta in essere dall’amministrazione integra una violazione di una norma di azione e dunque la lesione di un interesse legittimo, facendo confluire, in definitiva, l’intera fattispecie nell’ambito della giurisdizione del giudice amministrativo.

Il settore nel quale è sorta ed è stata più dibattuta la questione è quello dell’espropriazione nel quale si contrappone la cosiddetta “occupazione usurpativa” alla “occupazione appropriativa”. La prima si ha allorché il terreno viene occupato in carenza di qualsivoglia titolo (in “via di fatto” o in carenza di potere); la seconda allorché l’occupazione avviene nell’ambito di una procedura di espropriazione (a seguito della dichiarazione di pubblica utilità) ancorché illegittima. In questo secondo caso, come secondo la Corte Costituzionale (sentenza n. 191 del 2006), i comportamenti costituiscono “esercizio, ancorché viziato da illegittimità, della funzione pubblica della pubblica amministrazione” e pertanto sono inclusi nella giurisdizione del giudice amministrativo. Al contrario i comportamenti che danno origine a un’occupazione usurpativa vanno qualificati come illeciti e sono attribuiti alla giurisdizione del giudice ordinario. La Corte ha pertanto dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 53, comma 1, del Testo unico sulle espropriazioni approvato con d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, che attribuisce alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie in materia espropriativa, nella parte in cui vi includeva anche le controversie relative a “comportamenti non riconducibili, nemmeno mediatamente, all’esercizio del potere”. In aderenza a questa concezione, l’art. 7 del Codice del processo amministrativo include nel perimetro della giurisdizione amministrativa (i cosiddetti limiti esterni), accanto ai provvedimenti, i “ comportamenti

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riconducibili anche mediatamente all’esercizio del potere”.

In definitiva, la questione del riparto di giurisdizione ha reso necessario, anche a costo di qualche forzatura, sfumare la distinzione tra comportamento e atto di esercizio del potere amministrativo, attraendo la fattispecie dei comportamenti riconducibili all’esercizio del potere nella categoria della illegittimità piuttosto che in quella della illiceità.

Un nesso tra illiceità del comportamento dell’amministrazione e illegittimità del provvedimento è emerso in seguito alla svolta operata dalla Corte di Cassazione con la sentenza delle Sezioni Unite n. 500 del 1999 che ha affermato il principio della risarcibilità del danno da lesione di interesse legittimo ad opera di un provvedimento amministrativo illegittimo. Il provvedimento illegittimo, infatti, va qualificato come uno degli elementi costitutivi (insieme al danno, al nesso di causalità e all’elemento soggettivo) dell’illecito extracontrattuale ai sensi dell’art. 2043 cod. civ. cioè alla stregua di un qualsivoglia comportamento dell’amministrazione assunto in violazione del principio del neminem laedere. Come ha chiarito anche la giurisprudenza amministrativa, il danno non è cagionato “dal provvedimento in sé stesso, ma da un fatto, ossia da un comportamento” e assume dunque rilievo non già “una mera illegittimità del provvedimento in sé ma un’illiceità della condotta complessiva” (Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, 23 marzo 2011, n. 3).

Esaurite le osservazioni preliminari, conviene individuare anzitutto le disposizioni rilevanti in tema di invalidità del provvedimento contenute nella l. n. 241/1990 e nel Codice del processo amministrativo. I due testi normativi instaurano una corrispondenza tra disciplina sostanziale e disciplina processuale dell’invalidità. Ciò costituisce una novità sotto il profilo sistematico rispetto alla situazione precedente nella quale, in assenza di un corpo di disposizioni generali sul provvedimento, il regime dei vizi veniva estrapolato da norme squisitamente processuali (anzitutto il Testo Unico delle leggi sul Consiglio di Stato del 1924) o dalle elaborazioni giurisprudenziali.

L’annullabilità è disciplinata dall’art 21-octies della l. n. 241/1990 e dall’art 29 del Codice. Entrambe le disposizioni riprendono la tripartizione dei vizi di legittimità, e cioè l’incompetenza, l’eccesso di potere e la violazione di legge posta, come si è detto, già dalla legge del 1889 istitutiva della IV Sezione del Consiglio di Stato. Rispetto al regime precedente, il primo, come si vedrà, riduce l’area dell’annullabilità operando la cosiddetta dequotazione dei vizi formali. Il secondo conferma

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l’impianto tradizionale dell’azione di annullamento.

La nullità è disciplinata invece dall’art. 21-septies della l. n. 241/1990, che individua quattro ipotesi tassative, e dall’art. 31, comma 4, del Codice che disciplina l’azione di nullità.

A livello europeo, l’art. 263 del TFUE, nel disciplinare il ricorso alla Corte di giustizia dell’Unione europea, prevede che ove esso sia fondato il giudice “dichiara nullo e non avvenuto l’atto impugnato”. Questa disposizione viene interpretata nel senso che l’atto è annullabile e l’azione promossa ha natura costitutiva e non meramente dichiarativa. Del resto la giurisprudenza europea si ispira al principio che gli atti del’Unione europea si presumono validi finché non vengono annullati o revocati dall’istituzione che li emana o dal giudice. Quanto alla tipologia dei vizi l’art. 263, comma 2, prevede quattro fattispecie: l’incompetenza, la violazione delle forme sostanziali, la violazione dei trattati e di qualsiasi regola di diritto relativa alla loro applicazione, lo sviamento di potere. In definitiva, anche nel diritto europeo il regime ordinario dell’invalidità è quello dell’annullabilità.

12. L’annullabilità: a) l’incompetenza; b) la violazione di legge.

Per tradizione, l’atto amministrativo affetto da incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge viene qualificato come illegittimo (e pertanto suscettibile di annullamento). La l. n. 241/1990 ricalca invece la distinzione civilistica tra nullità e annullabilità. L’art. 21-octies sia nella rubrica sia nel primo comma infatti fa riferimento soltanto a quest’ultima. L’art. 21-nonies usa invece ancora la terminologia “provvedimento amministrativo illegittimo” prevedendo che essa possa essere annullato d’ufficio. E’ di uso corrente anche l’espressione “vizi di legittimità”, da contrapporre ai “vizi di merito” che vengono riferiti alla contrarietà dell’atto a norme o parametri non giuridici (di dubbia oggettività) o a canoni più generici di opportunità o di convenienza.

In realtà annullabilità e illegittimità sono vocaboli usati in modo intercambiabile. Tuttavia, come si vedrà, poiché il secondo comma dell’art. 21-octies opera, come si è anticipato, una dequotazione dei vizi formali, non si può più ritenere che tutti gli atti illegittimi siano annullabili. L’atto non annullabile resta pur sempre illegittimo, cioè connotato da un disvalore maggiore rispetto alla semplice irregolarità.

La stessa tripartizione tradizionale dei vizi che possono essere causa di

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annullabilità ha una rilevanza ridotta dopo che la Costituzione ha sancito che la tutela giurisdizionale non può essere esclusa o limitata a particolari mezzi di impugnazione o per determinate categorie di atti (art. 113, secondo comma). Sono divenute così incostituzionali le leggi amministrative, emanate soprattutto nel ventennio autoritario, che sottraevano al sindacato del giudice amministrativo alcune tipologie di vizi o addirittura alcuni tipi provvedimenti. Come esempi di limitazione alla deduzione di singoli vizi possono essere ricordati i ricorsi in materia di dispensa di insegnanti per ragioni di servizio, oppure in materia doganale e di leva militare.

Inoltre, le conseguenze dell’annullamento, cioè il venir meno degli effetti del provvedimento con efficacia retroattiva (ex tunc), non cambiano in relazione al tipo di vizio accertato (secondo G. GUARINO, la cosiddetta teoria della eguale rilevanza dei vizi). L’annullamento elimina comunque l’atto e i suoi effetti in modo retroattivo e all’amministrazione l’obbligo di porre in essere tutte le attività necessarie per ripristinare, per quanto possibile, la situazione di fatto e di diritto in cui si sarebbe trovato il destinatario dell’atto ove quest’ultimo non fosse stato emanato (cosiddetto effetto ripristinatorio).

Ciò che varia in funzione del tipo di vizio è invece, come si vedrà meglio nella parte dedicata alla giustizia amministrativa, il cosiddetto effetto conformativo dell’annullamento, cioè il vincolo che sorge in capo all’amministrazione nel momento in cui essa emana un nuovo provvedimento sostitutivo di quello annullato. Da questo punto di vista la distinzione più rilevante è tra vizi formali (non dequotabili) e vizi sostanziali.

Infatti, se il vizio accertato ha natura formale o procedurale (error in procedendo), come la mancata acquisizione di un parere obbligatorio o la rilevazione del vizio di incompetenza, non è da escludere che l’amministrazione possa emanare un nuovo atto dal contenuto identico rispetto a quello dell’atto annullato. Se al contrario, il vizio ha natura sostanziale (error in judicando), come per esempio la mancanza di un presupposto o di un requisito posto dalla norma d’azione o un eccesso di potere per travisamento dei fatti, l’amministrazione non potrà reiterare, rebus sic stantibus, l’atto annullato.

Peraltro, la retroattività dell’annullamento, che costituiva fino a poco tempo fa un principio consolidato, è oggetto di un ripensamento nella giurisprudenza amministrativa più recente. In una controversia relativa alla legittimità di un piano faunistico venatorio, il Consiglio di Stato,

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nell’accogliere il ricorso proposto da un’associazione ambientalista, ha ritenuto di stabilire che l’atto viziato continui a produrre i propri effetti fin tanto che l’amministrazione non provveda a modificarlo o a sostituirlo entro un termine assegnato (Cons. St., Sez. VI, 10 maggio 2011, n. 2755). E ciò per evitare la conseguenza paradossale che, eliminati gli effetti del piano, ritenuto dalla sentenza illegittimo a causa di un vizio procedurale, riprendesse vigore il regime precedente ancor meno protettivo. Del resto, l’ordinamento europeo già prevede che la Corte di Giustizia “ove reputi necessario, precisa gli effetti dell’atto annullato che devono essere considerati definitivi” (art. 264, secondo comma, TFUE).

Sul versante processuale, l’art. 29 del Codice del processo amministrativo conferma il regime tradizionale secondo cui contro il provvedimento affetto da violazione di legge, incompetenza ed eccesso di potere può essere proposta l’azione di annullamento innanzi al giudice amministrativo nel termine di decadenza di 60 giorni. L’annullabilità non può essere rilevata d’ufficio dal giudice, ma, in base al principio dispositivo, può essere pronunciata solo in seguito alla domanda proposta nel ricorso il quale deve indicare anche in modo specifico i profili di vizio denunciati (motivi di ricorso).

L’art. 30 del Codice stabilisce inoltre che insieme all’azione di annullamento può essere proposta anche l’azione risarcitoria. Superato, come si è visto, il principio della pregiudizialità tra annullamento e risarcimento, quest’ultima, come si vedrà, è peraltro esperibile anche in via autonoma, cioè anche senza essere proposta in connessione con l’azione di annullamento, nel termine di decadenza di 120 giorni.

a) L’incompetenza.

L’incompetenza è un vizio del provvedimento adottato da un organo o da un soggetto diverso da quello indicato dalla norma attributiva del potere. Si tratta dunque di un vizio che attiene all’elemento soggettivo dell’atto. A ben considerare, anche l’incompetenza è una sottospecie della violazione di legge, poiché anche la distribuzione delle competenze tra i soggetti pubblici e tra gli organi interni è operata da leggi, regolamenti e altre fonti normative pubblicistiche (statuti). Il rispetto di queste norme è funzionale all’ordinato svolgimento delle funzioni amministrative e costituisce una garanzia per i destinatari dei provvedimenti, specie nei casi in qui questi ultimi producono effetti limitativi o restrittivi della sfera giuridica. Si spiega così perché

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l’incompetenza si connota tradizionalmente per un maggior disvalore rispetto ad altri vizi formali o procedurali.

Si distingue generalmente tra incompetenza relativa e incompetenza assoluta. La prima si ha quando l’atto viene emanato da un organo che appartiene alla stessa branca, settore o plesso organizzativo dell’organo titolare del potere; la seconda, che determina nullità o carenza di potere (difetto di attribuzione), si ha invece allorché sussiste una assoluta estraneità sotto il profilo soggettivo e funzionale tra l’organo che ha emanato l’atto e quello competente. Secondo la giurisprudenza, l’incompetenza relativa riguarda “solo la ripartizione dei compiti e di funzioni nell’ambito di un unitario plesso amministrativo (sia pure spesso inteso, in senso ampio, come organizzazione anche di più soggetti o enti diversi, preposti ad una unitaria funzione)” (Cons. St, Sez. V, 11 dicembre 2007, n. 6408). Al di là dei casi di scuola, la linea di confine tra le due figure è però spesso incerta. Il problema si è posto per esempio nel caso del decreto di espropriazione emanato dal presidente della Regione anziché dal prefetto. In ogni caso, dalla casistica emerge che il vizio viene qualificato usualmente come incompetenza relativa, mentre l’incompetenza assoluta è un fenomeno piuttosto raro.

Sul piano meramente descrittivo il vizio di incompetenza si articola in tre fattispecie principali: l’incompetenza per materia, per grado, per territorio.

L’incompetenza per materia attiene alla titolarità della funzione (per esempio, le materie urbanistica e commerciale hanno ambiti di disciplina contigui); quella per grado si riferisce all’articolazione interna degli organi negli apparati organizzati secondo il criterio gerarchico (organizzazioni militari o di polizia); quella per territorio attiene agli ambiti nei quali gli enti territoriali o le articolazioni periferiche degli apparati statali possono operare (per esempio le prefetture di due province contigue).

Si fa riferimento talora anche alla competenza per valore, che assume rilievo per lo più all’interno di enti pubblici con riguardo alla ripartizione tra i vari organi del potere di emanare provvedimenti che comportino esborsi di spesa.

La specificità del regime giuridico dell’incompetenza rispetto a quello della violazione di legge è ormai limitata a pochi profili ed è comunque oggetto di un ripensamento nella giurisprudenza più recente. In primo luogo, al vizio di incompetenza non si ritiene applicabile l’art. 21-octies,

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secondo comma, cioè il principio della dequotazione dei vizi formali volto a limitare l’annullabilità degli atti vincolati e ciò in relazione al maggior disvalore collegato alla violazione delle norme sulla competenza. Inoltre, almeno sotto il profilo logico, il vizio di incompetenza assume una priorità rispetto ad altri vizi formulati nel ricorso, nel senso che il giudice dovrebbe prenderlo in esame per primo e, nel caso in cui accerti il vizio, dovrebbe annullare il provvedimento, senza esaminare, di regola, ulteriori motivi di ricorso, rimettendo l’affare all’autorità competente (così prevedeva l’art. 45 del Testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato non riprodotto nel Codice). Infine, a differenza di quanto accade per i vizi formali, si riteneva ammessa la convalida dell’atto da parte dell’organo competente anche in corso di giudizio. Tuttavia, l’art. 21-novies, comma 2, della l. n. 241/1990 prevede in via generale la possibilità della convalida del provvedimento annullabile ed è dunque dubbio se sopravviva ancora questa specificità del regime dell’incompetenza.

b) La violazione di legge.

La seconda tipologia di vizi che possono dare origine ad annullabilità è costituita dalla violazione di legge. Essa è considerata una categoria generale residuale, nel senso che vi confluiscono tutti i vizi che non sono rubricati come incompetenza o eccesso di potere.

Essa raggruppa tutte le ipotesi di contrasto tra il provvedimento e le disposizioni normative contenute in fonti di rango primario o secondario (leggi, regolamenti, statuti, ecc.) che definiscono i profili vincolati, formali e sostanziali, del potere.

Si discute se la nozione di violazione di legge includa anche la violazione dei principi generali dell’azione amministrativa ai quali fa esplicitamente o implicitamente rinvio l’art. 1 della l. n. 241/1990 (imparzialità, proporzionalità, irretroattività del provvedimento) in passato sussunti nella categoria dell’eccesso di potere. Per esempio, la disparità di trattamento può essere concepita come una violazione degli artt. 3 e 97 della Costituzione, oppure come una figura sintomatica dei eccesso di potere. Allo stesso modo, il difetto di motivazione può essere considerato come una violazione dell’art. 3 della l. n. 241/1990. In ogni caso, il sindacato sulla discrezionalità amministrativa in applicazione di un principio generale (per esempio, la proporzionalità, il legittimo affidamento) comporta un’operazione ermeneutica più complessa rispetto all’accertamento di una difformità tra l’atto e una prescrizione normativa

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che pone un vincolo puntuale.

La principale distinzione interna alla violazione di legge è quella, già vista, tra vizi formali (errores in procedendo) e vizi sostanziali (errores in judicando). L’art. 21-octies, secondo comma, della l. n. 241/1990 enuclea tra le ipotesi di violazione di legge la “violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti”, cioè una subcategoria di vizi formali (errores in procedendo) che, a certe condizioni, come si è accennato, sono dequotati a vizi che non determinano l’annullabilità del provvedimento.

La disposizione pone più specificamente le seguenti condizioni: che il provvedimento abbia “natura vincolata”; che pertanto “sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”.

La prima condizione richiede all’interprete di valutare se il potere esercitato sia un potere integralmente vincolato. Qui il richiamo è alla nozione, già esaminata, di discrezionalità o vincolatezza in astratto, che risulta da un’analisi della norma di conferimento del potere e in particolare degli elementi che, in applicazione del principio di legalità inteso in senso sostanziale, definiscono i presupposti e i requisiti vincolati del potere.

Se si accerta che il potere è integralmente vincolato, ne discende, come conseguenza automatica, anche l’altra condizione e cioè che risulti “palese“ (cioè evidente) che, anche in assenza del vizio formale o procedurale rilevato (per esempio, l’omessa acquisizione di un parere obbligatorio o un vizio nella convocazione di un organo collegiale), il contenuto del provvedimento sarebbe rimasto invariato. In questo caso il provvedimento non può essere annullato né dal giudice amministrativo nell’ambito di un giudizio di impugnazione, né dalla stessa amministrazione in sede di esercizio del potere di autotutela di cui all’art. 21-nonies della l. n. 241/1990.

Il secondo periodo dell’art. 21-octies, comma 2, della l. n. 241/1990 individua una ipotesi particolare costituita dall’omessa comunicazione dell’avvio del procedimento disciplinata dall’art. 7 e seg. della stessa legge che è assoggettata a un regime in parte uguale in parte diverso. Eguale è l’operazione richiesta all’interprete e cioè una ricostruzione di quello che sarebbe stato l’esito del procedimento ove tutte le norme sul procedimento e sulla forma fossero state rispettate. Se la conclusione di questa sorta di simulazione mentale è che il contenuto del provvedimento

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non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato, l’atto non può essere annullato. La disposizione presenta però due specificità: manca il riferimento alla natura vincolata del potere; si richiede all’amministrazione che ha emanato l’atto di dimostrare “in giudizio” che il vizio procedurale o formale accertato non ha avuto alcuna influenza sul contenuto del provvedimento.

Quanto al primo aspetto, la disposizione include nel suo campo di applicazione anche i poteri discrezionali (in astratto). Solo qualora risulti ex post, tenuto conto di tutte le circostanze specifiche, che l’amministrazione non aveva altra scelta legittima se non quella di emanare un atto con quel contento (vincolatezza in concreto), può operare il principio della non annullabilità per violazione delle norme formali e procedurali.

Quanto al secondo aspetto, l’onere della prova su questo punto grava sull’amministrazione nei confronti della quale sia stato proposto un ricorso per l’annullamento del provvedimento viziato. Ciò comporta una deroga alle regole processuali ordinarie che vietano all’amministrazione di integrare la motivazione nel corso del giudizio. Infatti, in questa particolare fattispecie è non solo ammesso, ma anche prescritto un ampliamento dell’oggetto del giudizio agli elementi forniti dall’amministrazione per dimostrare che il vizio formale non ha inciso sul contenuto del provvedimento impugnato. Poiché, tuttavia, la prova richiesta dalla disposizione è una prova negativa (cioè una probatio diabolica), la giurisprudenza addossa sul ricorrente l’onere di allegare in giudizio gli elementi che sarebbero stati prodotti nell’ambito del procedimento ove fosse stata effettuata nelle forme prescritte la comunicazione di avvio del medesimo procedimento.

L’art. 21-octies, secondo comma, si inserisce nella tendenza del nostro ordinamento a valorizzare il principio di efficienza ed efficacia dell’azione amministrativa (amministrazione di risultato) a scapito, entro una certa misura, di quello del rispetto della forma e dunque della funzione di garanzia assolta dalle norme relative al procedimento e alla forma. Il regime della legittimità degli atti amministrativi si avvicina così a quello degli atti processuali per i quali vale il principio che “la nullità non può mai essere pronunciata, se l’atto ha raggiunto lo scopo a cui è destinato” (art. 156, terzo comma, cod. proc. civ.).

L’art. 21-octies, secondo comma, si colloca peraltro nella scia di altri ordinamenti che da tempo hanno introdotto disposizioni analoghe. Così nell’ordinamento tedesco la legge sul procedimento amministrativo non

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consente l’annullamento di un atto assunto in violazione delle disposizioni sul procedimento, sulla forma e sulla competenza territoriale “ove risulti in maniera palese che la violazione non abbia influito sul contenuto della decisione” (art. 46 del Verwaltungsverfarhensgesetz alla quale ha tratto ispirazione, come risulta dai lavori preparatori, la l. n. 15/2005).

Anche nell’ordinamento francese il Conseil d’État ha operato una distinzione tra formalitès substantielles e formalitès non substantielles, emersa anche nel diritto europeo. Infatti, l’art. 263, comma 3, del TFUE assegna alla Corte di giustizia il potere di pronunciarsi sui ricorsi per “violazione delle forme sostanziali” (oltre che per incompetenza, sviamento di potere e per violazioni del trattato o di altra regola di diritto). Tra le forme sostanziali, la giurisprudenza comunitaria ha incluso per esempio le procedure di autenticazione di atti, l’assunzione di pareri obbligatori, la partecipazione al procedimento degli interessati.

L’art. 21-octies, secondo comma ha dato origine a dispute in dottrina e a una cospicua giurisprudenza che però non è ancora consolidata. Per esempio, la giurisprudenza ha chiarito che la mancanza della motivazione in un provvedimento integralmente vincolato non può giustificare l’annullamento di quest’ultimo, ma applica talora la stessa regola anche a provvedimenti che presentano qualche margine di discrezionalità allorché dagli atti del procedimento risultino in qualche modo le ragioni sottostanti.

La disposizione pone numerose questioni interpretative.

E’ anzitutto dubbio se essa abbia valenza sostanziale, attenga cioè al regime giuridico del provvedimento, o soltanto processuale.

In questa seconda visione, l’art. 21-octies, secondo comma rileva soltanto ai fini dell’accertamento della sussistenza di uno dei presupposti processuali costituito dall’interesse a ricorrere. Quest’ultimo manca appunto nei casi in cui il ricorrente in seguito all’annullamento e alla rinnovazione del procedimento non possa attendersi una decisione diversa da quella già emanata. L’atto non può essere dunque annullato dal giudice, ma, sotto il profilo sostanziale, continua a essere affetto da illegittimità che potrebbe portare l’amministrazione a esercitare il potere di annullamento d’ufficio.

Secondo un’altra interpretazione, la disposizione avrebbe tipizzato in via legislativa una fattispecie di irregolarità non invalidante del provvedimento.

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L’irregolarità del provvedimento, ammessa da sempre dalla giurisprudenza, può essere definita come un’imperfezione minore del provvedimento che non determina la lesione di interessi tutelati dalla norma d’azione. Danno origine a irregolarità, per esempio, l’erronea indicazione di un testo di legge o di una data, oppure un errore nell’intestazione del provvedimento, oppure ancora l’omessa indicazione nell’atto dell’autorità alla quale può essere proposto il ricorso e del relativo termine, la sottoscrizione illeggibile o anche la mancanza di una firma, un errore riconoscibile nella individuazione dell’oggetto del provvedimento, ecc. L’irregolarità non rende invalido il provvedimento ed è suscettibile di regolarizzazione, attraverso la rettifica del provvedimento.

In realtà, il disvalore della violazione delle norme sulla forma dell’atto e sul procedimento previste dall’art. 21-octies, secondo comma, sembra essere maggiore, rispetto a quello di una mera irregolarità non lesiva di alcun interesse pubblico apprezzabile, proprio per la funzione di garanzia che può essere riconosciuta agli aspetti formali. Sembra dunque preferibile una terza interpretazione che mantiene la qualificazione di illegittimo anche ai provvedimenti non annullabili ai sensi della disposizione (al riguardo si è parlato di “atto meramente illegittimo” per differenziarlo da quello anche annullabile). Del resto, potrebbe sembrare contraddittorio che la dequotazione dei vizi formali sia stata prevista da una legge (l. n. 15/2005), che per altri aspetti introduce nuove garanzie procedurali (come, in particolare, il cosiddetto preavviso di rigetto di un’istanza disciplinato dall’art. 10-bis).

L’art. 21-octies, secondo comma, in definitiva, seguendo quest’ultima interpretazione, ha stabilito soltanto che per taluni atti illegittimi l’annullamento, vuoi da parte del giudice vuoi d’ufficio, costituisce una reazione dell’ordinamento da ritenersi non proporzionata, visto che il provvedimento risulta sostanzialmente legittimo.

Resta peraltro da appurare quali altri tipi di conseguenze possano essere ricollegate ai vizi formali e procedurali. La tutela risarcitoria non sembra percorribile poiché è difficile configurare un danno in capo al privato da un atto il cui contenuto non sarebbe stato comunque diverso. Ipotizzabile è invece, a certe condizioni, una responsabilità di tipo disciplinare nei confronti del funzionario al quale sia imputabile la violazione formale o procedurale riscontrata.

De jure condendo, potrebbe essere valutata l’opportunità di introdurre una sanzione di tipo pecuniario a carico dell’amministrazione,

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analogamente a quanto già dispone il Codice del processo amministrativo in materia di contratti pubblici. In quest’ultimo ambito, il giudice amministrativo che accerta una violazione procedurale definita grave dal diritto europeo (per esempio, la mancata pubblicazione del bando di gara), non può disporre sempre e automaticamente anche l’inefficacia del contratto. Quest’ultima evenienza gli è preclusa quando sussistono esigenze imperative connesse a un interesse generale che rendono preferibile mantenere il vita il contratto aggiudicato illegittimamente. Il giudice deve però irrogare alla stazione appaltante una sanzione pecuniaria (art. 123). Anche nel caso dei vizi formali non invalidanti, il giudice amministrativo potrebbe applicare una analoga sanzione, in luogo dell’annullamento del provvedimento.

13. Segue: c) l’eccesso di potere.

L’eccesso di potere è il vizio di legittimità tipico dei provvedimenti discrezionali. Esso consente un sindacato che va oltre la verifica del rispetto dei vincoli puntuali posti in modo esplicito dalla norma attributiva del potere (aspetti vincolati del potere) e che può spingersi invece fino alle soglie del cosiddetto merito amministrativo.

Secondo la ricostruzione più diffusa, l’eccesso di potere ha riguardo all’aspetto funzionale del potere, cioè alla realizzazione in concreto dell’interesse pubblico affidato alla cura dell’amministrazione. Si spiega così perché si tratta di un vizio sostanzialmente sconosciuto nell’ambito del diritto privato. Salvi i casi marginali di abuso del diritto, i negozi privati, proprio perché i motivi ad essi sottostanti non hanno un rilievo esterno al soggetto agente, sono assoggettati a un regime di invalidità che consente solo un controllo di tipo estrinseco sulla capacità del soggetto agente, sugli aspetti formali e procedurali, sul rispetto delle norme imperative.

Dell’eccesso di potere sono state offerte in dottrina molte ricostruzioni che lo ricollegano variamente a un vizio della causa, della volontà, dei motivi, del contenuto del provvedimento. L’elaborazione oggi prevalente (F. BENVENUTI) definisce l’eccesso di potere come vizio della funzione, intesa come dimensione dinamica del potere che attualizza e concretizza la norma astratta attributiva del potere in un provvedimento produttivo di effetti. In tale passaggio, all’interno cioè delle fasi del procedimento (istruttoria, fase decisionale), possono emergere anomalie, incongruenze e disfunzioni che danno origine appunto all’eccesso di

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potere.

Si è già ricordato come la figura primigenia dell’eccesso di potere è costituita dallo sviamento di potere che consiste nella violazione del vincolo del fine pubblico posto dalla norma d’azione. Una siffatta violazione si ha allorché il provvedimento emanato persegue un fine diverso (non importa se pubblico o privato) da quello in relazione al quale il potere è conferito dalla legge all’amministrazione. Talvolta il fine pubblico non è posto in modo espresso dalla legge, ma va ricavato in via interpretativa.

Tra i casi classici di sviamento di potere, si possono ricordare il trasferimento d’ufficio di un dipendente pubblico motivato da esigenze di servizio (riordino degli uffici), che in realtà ha una finalità sanzionatoria; un’ordinanza del sindaco che impone un divieto di fermata degli autoveicoli in alcune strade motivato in relazione all’esigenza di evitare intralci alla circolazione, che persegue in realtà il fine di disincentivare la prostituzione su strada; lo scioglimento governativo di un consiglio comunale per ripetute violazioni di legge che sottende però una finalità politica; il provvedimento comunale che nega l’installazione di un’antenna di telefonia mobile per ragioni di tipo urbanistico-edilizio, ma che in realtà persegue il fine sanitario di minimizzare l’esposizione dei residenti all’inquinamento elettromagnetico.

Nella pratica lo sviamento di potere è difficile da provare, in quanto il provvedimento, all’apparenza, si presenta come perfettamente conforme alle disposizioni normative che regolano quel particolare potere. Ciò ha indotto la giurisprudenza, come si è accennato, a rilevare il vizio in via indiretta, attraverso elementi indiziari del cattivo esercizio del potere discrezionale costituiti dalle cosiddette figure sintomatiche dell’eccesso di potere. Con una metafora, se l’eccesso di potere può essere visto come una “malattia” del provvedimento discrezionale, la diagnosi va operata essenzialmente attraverso i “sintomi”, cioè le manifestazioni caratteristiche dell’affezione rilevabili dall’osservatore.

Le figure sintomatiche costituiscono una categoria aperta, non tipizzata dal legislatore. Alcune sono ormai consolidate nelle ricostruzioni teoriche e nella prassi applicativa e si prestano a essere classificate secondo vari criteri. Uno di essi può essere di riferirle, in ordine logico e cronologico, alle fasi del procedimento, distinguendo quelle che riguardano la fase istruttoria e quelle che riguardano la fase decisionale. Un altro criterio è quello di distinguere tra figure sintomatiche intrinseche che emergono direttamente dall’analisi del provvedimento e degli atti

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procedimentali (per esempio la contraddittorietà della motivazione) e figure sintomatiche estrinseche che invece emergono dal confronto tra il provvedimento ed elementi di contesto esterno (altri atti emanati in situazioni analoghe, direttive, circolari, criteri fissati in sede di auto vincolo della discrezionalità). Prima di addentrarci nella ricostruzione teorica delle figure sintomatiche conviene analizzarne più da vicino le principali fattispecie.

c1) Errore o travisamento dei fatti.

Se il provvedimento viene emanato sul presupposto, esplicitato nell’atto medesimo, dell’esistenza di un fatto o di una circostanza che risulta invece inesistente o, viceversa, della non esistenza di un fatto o di una circostanza che invece risulta esistente emerge la figura dell’eccesso di potere per errore di fatto (o anche travisamento dei fatti o falso supposto in fatto).

Si possono richiamare come esempi l’imposizione di un obbligo di bonifica ambientale di un terreno nel quale invece, già in base alle risultanze dell’istruttoria e alla documentazione acquisita al procedimento, non risultino presenti sostanze inquinanti, o comunque esse non superino i valori massimi consentiti dalle norme vigenti; il diniego di un permesso di costruire a causa di un vincolo paesaggistico riferito alla natura boschiva del terreno che invece, ormai da molti anni, è tale solo in minima parte; un piano regolatore che non indichi nelle planimetrie un edificio del quale è certa la preesistenza.

L’errore nella ricostruzione dei fatti, che spesso consegue a un'altra figura sintomatica costituita dal difetto di istruttoria, può emergere in sede processuale sia in seguito alla produzione di prove da parte del ricorrente, sia in seguito all’esercizio dei poteri istruttori da parte del giudice amministrativo che non incontra più, come si riteneva in passato, alcun limite giuridico ad un accertamento pieno dei fatti autonomo rispetto a quello operato nel provvedimento impugnato. Non rileva se l’errore è inconsapevole o consapevole. L’errore di fatto riguarda esclusivamente la percezione oggettiva della realtà materiale e non anche il momento logico successivo della valutazione dei fatti da parte dell’amministrazione che è invece rimessa al suo apprezzamento.

c2) Difetto di istruttoria.

Nella fase istruttoria del procedimento l’amministrazione è tenuta ad

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accertare in modo completo i fatti, ad acquisire gli interessi rilevanti e ogni altro elemento utile per operare una scelta consapevole e ponderata.

Ove questa attività, posta in essere a cura del responsabile del procedimento nominato ai sensi della l. n. 241/1990 (art. 4 e seg.), manchi del tutto o sia effettuata in modo frettoloso, incompleto o poco approfondito il provvedimento è viziato sotto il profilo dell’eccesso di potere per difetto di istruttoria. L’amministrazione, per esempio, non può prendere per buona la ricostruzione di fatti operata dalla parte privata intervenuta nel procedimento, ma deve condurre le opportune verifiche; deve acquisire d’ufficio tutti gli elementi rilevanti per far emergere eventuali soluzioni alternative. Così non può essere pronunciata la decadenza da una concessione di uso di un bene demaniale ove non risulti appurato in modo univoco che l’attività del concessionario sia posta in essere in violazione delle condizioni e limiti apposti nel provvedimento. Un piano urbano del traffico comunale non può porre limiti di accesso al centro storico ove i flussi di traffico non dimostrino una situazione di congestione. Non può essere imposto un vincolo storico-artistico su un’area nella quale non sono state condotte indagini sufficienti che dimostrino l’esistenza di reperti archeologici significativi.

A differenza dell’errore di fatto, nel caso del difetto di istruttoria non può essere escluso che il quadro fattuale posto alla base del provvedimento risulti in effetti esistente e che dunque la scelta operata sia quella corretta, ma l’analisi del provvedimento e degli atti procedimentali lascia dubbi in proposito. Annullato l’atto e posta in essere una nuova istruttoria, questa volta in modo corretto, l’amministrazione ben potrebbe adottare un atto con il medesimo contenuto.

c3) Difetto di motivazione

Nella motivazione del provvedimento l’amministrazione, come si è già detto, deve dar conto all’esito della fase istruttoria, delle ragioni che sono alla base della scelta operata. Per quanto sintetica, essa deve consentire una verifica del corretto esercizio del potere, cioè dell’iter logico seguito per pervenire alla determinazione contenuta nel provvedimento traendo le fila degli elementi istruttori rilevanti e operando la ponderazione degli interessi.

Il difetto di motivazione ha varie sfaccettature. La motivazione può essere in primo luogo insufficiente, incompleta o generica, nel senso che da essa non traspare compiutamente in modo percepibile l’iter logico

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seguito dall’amministrazione e dunque le ragioni sottostanti la scelta operata. Così, per esempio, per poter imporre un vincolo paesaggistico su un bene l’amministrazione deve illustrare perché esso abbia le caratteristiche che consentano l’applicazione del regime protettivo e non può limitarsi ad affermazioni apodittiche. L’insufficienza della motivazione non si riferisce soltanto a un dato quantitativo, ma involge anche un dato qualitativo, come per esempio, l’omessa considerazione specifica di un interesse acquisito al procedimento.

A questo riguardo la l. n. 241/1990 contiene alcune disposizioni che specificano il contenuto minimo della motivazione. Così, l’amministrazione è tenuta a valutare (e dunque a motivare) gli apporti partecipativi di chi interviene nel procedimento (art. 10) e a dar conto delle ragioni per le quali non accoglie le osservazioni presentate dall’interessato al quale sia comunicato il preavviso di rigetto di un’istanza (art. 10-bis). Inoltre, l’organo competente ad adottare il provvedimento finale, ove ritenga di discostarsi dalle risultanze dell’istruttoria condotta dal responsabile del procedimento, deve darne conto nella motivazione (art. 6, primo comma, lett. e)).

In realtà, non esiste un criterio univoco per determinare se una motivazione supera il criterio della sufficienza. Si può peraltro ritenere che quanto più ampia è la discrezionalità concessa all’amministrazione e quanto più gravosi sono gli effetti del provvedimento nella sfera soggettiva dei destinatari, tanto più elevato è lo standard quantitativo e qualitativo imposto alla motivazione. Per prassi, per esempio, i provvedimenti delle autorità indipendenti (come l’Autorità garante della concorrenza e del mercato o l’Autorità per l’energia elettrica e il gas), che spesso hanno un impatto sui mercati regolati assai rilevante, sono emanati con una motivazione particolarmente ampia, talora con rinvio a documenti illustrativi degli aspetti tecnici e di mercato.

La motivazione può essere inoltre illogica, contraddittoria o incongrua, allorché essa contenga proposizioni o riferimenti a elementi incompatibili tra loro. Può essere infine perplessa o dubbiosa là dove non consenta di individuare con precisione il potere che l’amministrazione ha inteso esercitare, come allorché essa enunci motivi disparati, riconducibili a norme attributive di poteri diversi da esercitare ciascuno per un proprio fine. Può essere questo il caso di un provvedimento che ordina di abbattere una costruzione ove non risulti chiaro se esso è emanato nell’esercizio del potere di sanzionare un abuso edilizio o del potere di prevenire pericoli all’incolumità pubblica.

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Anche nel caso del difetto di motivazione, non è da escludere che, una volta annullato il provvedimento, l’amministrazione possa emanarne uno di contenuto identico, emendato dal vizio rilevato. Peraltro, come già accennato, non è consentito all’amministrazione di integrare o emendare la motivazione del provvedimento in sede di giudizio.

Nel caso in cui la motivazione manchi del tutto, il vizio può essere qualificato come violazione di legge, in quanto l’obbligo di motivazione è ora previsto in modo dall’art. 3 della l. n. 241/1990.

Una questione dibattuta è se nel caso dei concorsi o delle procedure di aggiudicazione di contratti pubblici l’attribuzione dei punteggi riferiti alle varie prove o ad altri parametri fissati dall’amministrazione (per esempio, i punteggi per la valutazione delle pubblicazioni o dei titoli di carriera nei concorsi o per i singoli elementi qualitativi dell’offerta presentata dalle imprese che partecipano alla gara) assolva di per sé all’obbligo di motivazione o debba essere ulteriormente specificata in forma discorsiva. La giurisprudenza tende peraltro ritenere legittima la motivazione in forma numerica qualora siano stati definiti a monte parametri molto analitici, suddivisi magari anche in sub parametri, per l’attribuzione dei punteggi con l’indicazione per ciascun parametro e subparamettro di un numero massimo di punti attribuibili contenuto.

c4) Illogicità, irragionevolezza, contraddittorietà.

Si è già osservato trattando dei principi che presiedono all’esercizio della discrezionalità, che il diritto amministrativo assume, come principio logico prima ancora che giuridico, che la pubblica amministrazione agisca come un agente razionale. Pertanto, emerge un vizio di eccesso di potere tutte le volte che il contenuto del provvedimento e le statuizioni del medesimo (enunciate nel dispositivo) fanno emergere profili di illogicità o irragionevolezza, apprezzate in modo oggettivo in base a canoni di esperienza.

Per esempio, un provvedimento di diffida a cessare e a porre rimedio a una violazione di una norma amministrativa non può assegnare al diffidato un termine troppo breve. Un bando di concorso per l’assunzione di dipendenti pubblici non può richiedere il possesso di titoli che non siano correlati alle mansioni che i vincitori saranno poi tenuti a svolgere.

Può essere considerata come sottospecie dell’illogicità e irragionevolezza la contraddittorietà interna (intrinseca) al

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provvedimento. Questa emerge, in particolare, se non vi è consequenzialità tra le premesse del provvedimento e le conclusioni tratte nel dispositivo. Si pensi, per esempio, a un piano regolatore che prevede la destinazione a servizi pubblici di un’area in cui insistono attività industriali, contraddicendo la relazione illustrativa che enuncia invece l’obiettivo di difendere e incrementare le attività produttive. Più in generale tutti i passaggi dell’iter argomentativo seguito dall’amministrazione (ed esplicitato nella motivazione) devono essere legati da un rapporto di consequenzialità logica.

La contraddittorietà può essere anche esterna (estrinseca) al provvedimento, cioè essere rilevata dal raffronto tra provvedimento impugnato e altri provvedimenti precedenti dell’amministrazione che riguardano lo stesso soggetto (se il soggetto è diverso, si ha la figura sintomatica della disparità di trattamento esaminata qui di seguito). Così è affetto da questo tipo di contraddittorietà il provvedimento che esprime una valutazione non positiva ai fini dell’avanzamento di carriera di un militare di alto grado che ha ottenuto una serie continua di giudizi encomiastici in relazione ai servizi prestati nella sua carriera.

La contraddittorietà intrinseca o estrinseca costituisce una violazione del principio di coerenza che deve presiedere all’agire della pubblica amministrazione.

c5) Disparità di trattamento.

Il principio di coerenza e il principio di eguaglianza richiedono anche all’amministrazione di trattare in modo eguale casi eguali.

Il vizio può emergere sia nel caso in cui casi eguali siano trattati in modo diseguale, sia nel caso in cui casi diseguali siano trattati in modo eguale. Per stabilire in concreto se le situazioni da confrontare siano identiche o differenziate va utilizzato il criterio della ragionevolezza. Il vizio in questione emerge di frequente nella prassi nei giudizi comparativi, nelle progressioni di carriera o nel riconoscimento di altri benefici ai dipendenti pubblici, oppure nelle classificazioni dei terreni contenute nei piani regolatori ai fini di individuarne le destinazioni d’uso.

Perché possa essere censurata la disparità di trattamento è necessario che il provvedimento sia discrezionale (il vizio non è deducibile nel caso di atti vincolati) e che la comparazione si riferisca a provvedimenti emanati in modo legittimo. L’emanazione di un atto illegittimo a favore

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di uno o più soggetti non può cioè fondare la pretesa di un altro soggetto a vedersi riconoscere, sempre illegittimamente, la stessa utilità. Per esempio, il fatto che una sanzione amministrativa non venga irrogata, per negligenza, lassismo o per altre ragioni, nei confronti di alcuni soggetti in relazione a un divieto di sosta, a un abuso edilizio o all’occupazione non autorizzata del suolo pubblico non può essere invocato a giustificazione da altri soggetti ai quali sia contestata un’analoga violazione e dunque rendere viziato per disparità di trattamenti il provvedimento sanzionatorio emanato.

c6) Violazione delle circolari e delle norme interne, della prassi amministrativa.

Come si è visto, l’attività della pubblica amministrazione deve essere posta in essere non solo in conformità con le disposizioni contenute in leggi, regolamenti e in altre fonti normative (rispetto alle quale può insorgere, come si è visto, il vizio di violazione di legge), ma anche in conformità con le norme interne contenute in circolari, direttive, atti di pianificazione o di altri atti contenenti criteri e parametri di vario tipo (anche posti in sede di auto vincolo alla discrezionalità) che hanno come scopo quello di orientare l’esercizio della discrezionalità da parte dell’organo competente a emanare il provvedimento.

I principi di coerenza e di rispetto dell’assetto organizzativo dell’amministrazione (articolazione in organi e uffici sovraordinati e sottordinati) richiedono che l’organo titolare del potere, nel momento in cui lo esercita emanando un provvedimento ed esercitando la discrezionalità, tenga conto delle norme interne. Se ciò non accade emerge un sintomo dell’eccesso di potere. Per evitare di cadere in questo vizio il titolare del potere deve esplicitare nella motivazione le ragioni per le quali ha ritenuto di disattendere nel caso concreto le prescrizioni poste dalle norme interne.

Una particolare specie di norma interna è costituita dalla prassi amministrativa che, come si è accennato, si forma all’interno alle amministrazioni attraverso una serie coerente di comportamenti e decisioni in situazioni determinate. Anch’essa crea un vincolo di coerenza e di parità di trattamento e pertanto se l’amministrazione disattende in un caso particolare la prassi seguita in precedenza senza motivare le ragioni che giustificano una siffatta deviazione l’atto è affetto da eccesso di potere.

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c7) Ingiustizia grave e manifesta.

In qualche rara occasione la giurisprudenza, per ragioni essenzialmente equitative, si spinge fino al punto di censurare provvedimenti discrezionali il cui contenuto appaia in modo palese e manifesto ingiusto.

Il caso dal quale trasse origine questa figura sintomatica risale agli anni Venti del secolo scorso e riguardava l’esonero dal servizio per scarso rendimento di un dipendente delle ferrovie. Quest’ultimo in precedenza aveva subito un grave incidente sul lavoro con effetti disabilitanti permanenti e ciò aveva indotto in un primo momento l’amministrazione ad adibirlo a mansioni meno impegnative, piuttosto che collocarlo subito a riposo per inabilità dovuta a causa di servizio (Cons. St., Sez. IV, 5 giugno 1925, n. 565). A breve distanza di tempo il dipendente veniva appunto esonerato per scarso rendimento. Il vizio è stato rilevato anche in casi di richiesta di restituzione di emolumenti erogati a un dipendente pubblico dall’amministrazione sulla base di un’interpretazione erronea delle norme vigenti senza tener conto della sua situazione patrimoniale di impossibilità di soddisfare i bisogni essenziali della vita.

L’ingiustizia manifesta è una figura sintomatica che si colloca al confine tra il sindacato di legittimità e il sindacato di merito. Perché non si debordi nel merito il carattere ingiusto del provvedimento deve essere “manifesto”, cioè di immediata evidenza per qualsiasi persona di sensibilità media. Del resto, com’è stato osservato (E. CAPACCIOLI), anche nel diritto privato il giudice può dichiarare nulla la determinazione dell’oggetto del contratto rimessa dalle parti a un terzo arbitratore ove essa sia “manifestamente iniqua o erronea” (art. 1349 cod. civ.).

Accanto alle figure sintomatiche di eccesso di potere sin qui esaminate, ve ne sono altre che hanno una configurazione più dubbia. Talora in esse vengono infatti inclusi anche i vizi della volontà, la violazione dei principi di proporzionalità e del legittimo affidamento. In particolare, il principio di proporzionalità può essere ricondotto, come si è accennato, al principio più generale di ragionevolezza, visto che l’utilizzo dei mezzi eccendenti il fine non appare conforme a quest’ultimo canone, secondo il normale apprezzamento. Pertanto la violazione del principio di proporzionalità si presta a essere sussunto nella categoria dell’eccesso di potere. Anche il disconoscimento del legittimo affidamento ingenerato dall’amministrazione può essere visto come una violazione del principio di coerenza dell’azione amministrativa, a sua volta riconducibile al

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canone della logicità. Questi principi generali peraltro, come si è visto, hanno ormai un fondamento legislativo tramite il rinvio all’ordinamento comunitario contenuto nell’art. 1 della l. n. 241/1990 e pertanto la loro vincolatività e rilevanza sono ormai dirette e non necessitano più di essere qualificate come figure sintomatiche autonome.

In passato, veniva annoverata tra le figure sintomatiche dell’eccesso di potere anche la violazione o elusione del giudicato, ora attratta nella categoria della nullità. In prospettiva, potrebbero emergere anche nuove figure, come per esempio, sulla scia dell’ordinamento francese, l’eccesso di potere in relazione all’errata analisi costi-benefici della scelta operata nel provvedimento, cioè a una scelta discrezionale onerosa per l’amministrazione e i destinatari del provvedimento senza che essa sia suscettibile di portare a risultati significativi in termini di conseguimento dell’interesse pubblico.

La giustificazione teorica delle figure sintomatiche dell’eccesso di potere è controversa.

Secondo alcune teorie, esse rilevano essenzialmente come prove indirette dello sviamento di potere e hanno una valenza essenzialmente processuale. Possono cioè essere ricondotte allo schema civilistico delle presunzioni. Queste, secondo la definizione del codice civile (art. 2727) sono le conseguenze (nel caso di specie, l’illegittimità dell’atto) che il giudice ritrae da un fatto noto (nel caso di specie, la figura sintomatica, il cui accertamento risulta più semplice) per risalire a un fatto ignoto (nel caso di specie l’eccesso di potere). Le singole figure sintomatiche sono costituite cioè da situazioni che, sulla base dell’esperienza, consentono “di dubitare che si sia attuata la divergenza dell’atto dalla sua finalità” (A. SANDULLI). Si discute se, una volta appurata l’esistenza di una figura sintomatica, sia ammessa in giudizio la prova contraria, se cioè l’amministrazione possa dimostrare che, nonostante il sintomo, non sussiste uno sviamento. In realtà, una siffatta prova contraria non è compatibile con la struttura attuale del processo amministrativo che è ancora ispirato al principio del divieto di integrazione della motivazione del provvedimento in corso di giudizio.

Secondo altre teorie, le figure sintomatiche hanno ormai raggiunto una completa autonomia dallo sviamento di potere e hanno una valenza sostanziale, prima ancora che processuale. Esse cioè sono riconducibili a ipotesi di violazione dei principi generali dell’azione amministrativa e più precisamente dei principi logici e giuridici che presiedono all’esercizio della discrezionalità. Rilevano in particolare i principi, variamente

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indicati nelle diverse ricostruzioni teoriche, di logicità, ragionevolezza (proporzionalità, coerenza, congruità), di completezza dell’istruttoria, di parità di trattamento e imparzialità, di giustizia sostanziale, di accettabilità, ecc.

In applicazione di tali canoni, il giudice ripercorre tutte le fasi dell’esercizio del potere discrezionale ripercorrendo l’iter procedimentale e cioè verificando la ricostruzione della situazione di fatto e l’acquisizione di tutti gli elementi rilevanti per la decisione (nella fase istruttoria), la valutazione e ponderazione degli interessi acquisiti (come espressa nella motivazione del provvedimento), la coerenza tra le premesse e il dispositivo del provvedimento, gli altri elementi di contesto (norme interne e prassi amministrativa, provvedimenti su casi analoghi, ecc.).

In una siffatta verifica il giudice non entra nel merito delle scelte discrezionali sostituendo la propria valutazione a quella effettuata dall’amministrazione, ma “riesamina l’iter logico di formazione del provvedimento amministrativo” (F. MERUSI) cogliendone le contraddizioni e le incongruenze e operando così un sindacato sul provvedimento dell’amministrazione che può essere anche molto penetrante, ma che resta pur sempre esterno e indiretto e che pertanto non deborda dal perimetro del sindacato di legittimità.

In definitiva, le figure sintomatiche dell’eccesso di potere, per quanto consolidate nella prassi, hanno ancora uno statuto teorico incerto. Di recente, nell’ambito di una rivisitazione critica più generale dell’eccesso di potere (C. CUDIA), esse sono state qualificate come clausole generali (buona fede, imparzialità) che, analogamente a quanto accade nelle relazioni giuridiche privatistiche, fanno sorgere obblighi comportamentali nell’ambito del rapporto giuridico amministrativo intercorrente tra la pubblica amministrazione e il cittadino.

La loro ricostruzione teorica oscilla dunque tra il tentativo di individuare una matrice unificante (il principio di logicità e ragionevolezza) e la loro riconduzione a singoli principi giuridici dell’azione amministrativa. Alla fin fine, esse potrebbero essere considerate, più semplicemente, figure retoriche ormai convenzionalmente accettate nella pratica argomentativa giudiziaria.

14. La nullità.

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Si è già osservato che la nullità, categoria introdotta in via giurisprudenziale per inquadrare le patologie più gravi del provvedimento, ha ormai un fondamento nel diritto positivo e una rilevanza teorica equiparata all’annullabilità, anche se nella pratica costituisce un fenomeno quantitativamente marginale. La nullità del provvedimento viene tenuta talora contrapposta all’inesistenza (nei casi nei quali manchino gli elementi minimi per identificare l’atto come atto amministrativo), ma si tratta di una distinzione controversa in sede di teoria generale e priva di effetti pratici significativi.

L’art. 21-septies della l. n. 241/1990 individua anzitutto quattro ipotesi tassative di nullità: la mancanza degli elementi essenziali; il difetto assoluto di attribuzione; la violazione o elusione del giudicato; gli altri casi espressamente previsti dalla legge.

La mancanza degli elementi essenziali accomuna la nullità del provvedimento a quella del contratto (art. 1418, secondo comma del cod. civ.), anche se, come si è accennato, la l. n. 241 del 1990 non li elenca in modo preciso, rimettendo così all’interprete il compito di individuare le singole fattispecie. Gli esempi che vengono talora fatti, come l’espropriazione di un edificio distrutto o di un bene demaniale, costituiscono per lo più casi di scuola.

Il difetto assoluto di attribuzione è già stato esaminato trattando della carenza di potere (in astratto e in concreto) e dell’incompetenza assoluta e non richiede ulteriori svolgimenti. Esso corrisponde alla figura dello straripamento di potere che, come si è accennato, avrebbe potuto costituire l’archetipo dell’eccesso di potere.

La violazione o elusione del giudicato è un’ipotesi particolare che riprende e legifica gli orientamenti giurisprudenziali. Si ha elusione del giudicato allorché l’amministrazione in sede di nuovo esercizio del potere in seguito all’annullamento pronunciato dal giudice con sentenza passata in giudicato emana un nuovo atto che si pone in contrasto con quest’ultima allorché essa ponga un vincolo puntuale e non lasci all’amministrazione alcuno spazio di valutazione. Il nuovo atto, cioè, “ ignora e palesemente trascura il sostanziale contenuto del giudicato (…) e manifesta il reale intendimento dell’amministrazione di sottrarsi al giudicato” (Cons. St., Sez. IV, 10 gennaio 1961, n. 4).

Uno dei casi emblematici di questo filone giurisprudenziale riguardava un concorso pubblico: il giudice amministrativo aveva riconosciuto a un partecipante il diritto a ottenere un certo punteggio e aveva annullato

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pertanto il provvedimento dell’amministrazione, la quale successivamente aveva confermato in un nuovo provvedimento il punteggio inferiore (Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria19 marzo 1984, n. 6).

In un primo periodo la giurisprudenza riteneva che l’elusione del giudicato fosse causa di nullità e potesse essere dedotta nell’ambito del giudizio di ottemperanza (cioè in sede di giudizio di esecuzione). Al contrario, la semplice violazione del giudicato, che si ha quando il nuovo atto è affetto da vizi non riconducibili in modo immediato al giudicato e non appalesa un intento elusivo, rendeva l’atto annullabile e il vizio andava fatto valere in un normale giudizio di impugnazione.

Questa distinzione, incerta nelle singole fattispecie, venne superata negli anni Novanta del secolo scorso dalla giurisprudenza, che ha ritenuto esperibile il giudizio di ottemperanza tutte le volte che il ricorrente faccia valere una difformità dell’atto sostitutivo emanato e accertamento contenuto nella sentenza da eseguire. E’ questa la soluzione accolta dall’art. 21-septies.

La quarta ipotesi di nullità consiste in un rinvio alle disposizioni di legge che qualificano come nullo un atto amministrativo (nullità testuale).

Di frequente, per esempio, in occasione delle leggi finanziarie annuali viene disposta la nullità di atti di assunzione di dipendenti pubblici in violazione di divieti o contingenti in esse previsti. In termini più generali, il Testo unico degli impiegati civili dello Stato (d.P.R. n. 3/1957) comminava la nullità delle assunzioni senza concorso. La nullità è talora disposta per legge con riguardo a termini di conclusione di procedimenti amministrativi posti dalla legge a pena di decadenza (termini perentori).

Un’ipotesi di nullità è prevista per legge riguarda gli atti adottati da organi collegiali scaduti, decorso il periodo di prorogatio di 45 giorni nel quale possono comunque essere posti in essere solo gli atti di ordinari amministrazione (legge 15 luglio 1999, n. 444). Un regime così rigoroso è stato introdotto allo scopo di contrastare il fenomeno ricorrente dell’inerzia da parte degli organi titolari del potere di nomina che ritardavano il rinnovo delle cariche per periodi patologici eludendo così le disposizioni sulla durata in carica degli organi.

Si è discusso se un’ipotesi di nullità sia costituta dagli atti adottati dall’amministrazione in applicazione di norme nazionali contrastanti con il diritto comunitario (invalidità comunitaria). In un primo periodo la giurisprudenza amministrativa sembrava orientata, per un verso, a ritenere disapplicabile la norma nazionale, per altro verso, a qualificare come

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nullo o inesistente il provvedimento contrastante con il diritto comunitario. Successivamente è prevalso l’orientamento, fatto proprio anche dalla dottrina prevalente, che lo qualifica invece soltanto come annullabile, e ciò in ragione dell’esigenza di certezza dei rapporti giuridici di diritto pubblico. Del resto, a livello comunitario, gli atti emanati da organi comunitari in violazione del Trattato o di altre norme comunitarie sono assoggettati, di regola, al regime dell’annullabilità.

Sul versante processuale, l’art. 31, comma 4, del Codice del processo amministrativo introduce un’azione per la declaratoria della nullità (azione di accertamento) che può essere proposta innanzi al giudice amministrativo entro un termine di decadenza assai breve (180 giorni) e ciò in relazione, come si è visto, all’esigenza di garantire stabilità all’assetto dei rapporti di diritto pubblico. A differenza di quanto accade per l’annullabilità, la nullità può essere sempre rilevata d’ufficio dal giudice o opposta dalla parte resistente (pubblica amministrazione).

Inoltre, sempre sul versante processuale, l’art. 133, comma 1, lett. a), n. 5 attribuisce alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (nell’ambito della quale il giudice conosce anche delle situazioni di diritto soggettivo) le controversie relative alla nullità dell’atto adottato in violazione o elusione del giudicato. Il vizio va fatto valere, come si è detto, nella sede del giudizio dell’ottemperanza, cioè del rito speciale previsto nel caso di mancata esecuzione da parte della pubblica amministrazione delle sentenze del giudice amministrativo e del giudice ordinario. Il ricorso può essere proposto nel termine di dieci anni dal passaggio in giudicato della sentenza e il giudice ove accolga il ricorso emana una sentenza che dichiara la nullità del provvedimento (art. 114, commi 1 e 4 lett. c)).

15. L’annullamento d’ufficio, la convalida, la ratifica, la sanatoria, la conferma, la conversione, la revoca, il recesso.

Esaurita la trattazione dei profili strutturali dell’invalidità, occorre ora esaminare in modo più sistematico le possibili reazioni dell’ordinamento di fronte alla patologia del provvedimento. Vengono così in considerazione principalmente i cosiddetti procedimenti o provvedimenti di secondo grado che hanno per oggetto atti già emanati che l’amministrazione riprende in esame al fine di valutare se e quali misure correttive adottare nei loro confronti.

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a) L’annullamento d’ufficio.

Come si è più volte sottolineato, la misura specifica per reagire all’illegittimità del provvedimento è costituita dall’annullamento con efficacia ex tunc dell’atto emanato.

L’annullamento del provvedimento illegittimo può essere pronunciato oltre che dal giudice amministrativo in caso di accoglimento del ricorso proposto dal titolare dell’interesse legittimo, anche in altri contesti e da altri soggetti: dalla stessa amministrazione in sede di esame dei ricorsi amministrativi (in particolare i ricorsi gerarchici); dagli organi amministrativi preposti al controllo di legittimità di alcune categorie di provvedimenti; dal ministro con riferimento agli atti emanati dai dirigenti ad esso sottoposti (art. 14, comma 3, d.lgs. n. 165/2001); dal Consiglio dei ministri, a garanzia dell’unità dell’ordinamento amministrativo, nei confronti di tutti gli atti degli apparati statali e locali (art. 2, comma 4, lett. p) della l. n. 400/1988 e, per gli atti degli enti locali, all’art. 138 del Testo unico degli enti locali). Il cosiddetto annullamento straordinario da parte del Governo previsto dalle disposizioni da ultimo citate, di fatto raramente disposto, rientra tra gli atti di alta amministrazione ampiamente discrezionali. Un siffatto potere non può essere esercitato nei confronti degli atti delle Regioni, data la particolare posizione costituzionale di cui godono.

Le ultime due specie di annullamento rientrano nel potere di annullamento d’ufficio, ora disciplinato in termini generali dall’art. 21-nonies della l. n. 241/1990 sul quale occorre soffermare ora l’attenzione.

Esso era già stato previsto da disposizioni legislative particolari (come, in aggiunta a quelle citate, l’art. 20 della l. n. 241/1990 sull’annullamento d’ufficio del silenzio-assenso) ed è disciplinato anche in molti altri ordinamenti (come quello tedesco e francese). Nel nostro ordinamento l’annullamento d’ufficio è un potere che la giurisprudenza ha riconosciuto da sempre, anche in assenza di un fondamento legislativo espresso. L’art. 21-nonies rappresenta anzi uno dei casi emblematici di recepimento e razionalizzazione di indirizzi giurisprudenziali consolidati ad opera della l. n. 241/1990.

Anzitutto, dal punto di vista soggettivo, il potere di annullamento d’ufficio può essere esercitato dallo stesso organo che ha emanato l’atto (cosiddetto autoannullamento) o da altro organo al quale sia attribuito per legge (per esempio l’annullamento gerarchico).

In secondo luogo, mentre l’annullamento in sede di ricorsi

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giurisdizionali e amministrativi e in sede di controllo consegue automaticamente all’accertamento del vizio e ha dunque natura vincolata, l’annullamento d’ufficio operato dall’amministrazione ha un carattere discrezionale e costituisce una delle manifestazioni del potere di autotutela della pubblica amministrazione.

Più precisamente, affinché l’amministrazione possa esercitare in modo legittimo il potere di annullamento d’ufficio devono sussistere quattro presupposti esplicitati dall’art. 21-nonies della l. n. 241/1990.

Il primo è che il provvedimento sia “illegittimo ai sensi dell’articolo 21-octies”, e dunque, come si è visto, sia affetto da un vizio di violazione di legge, di incompetenza o di eccesso di potere, ma non si deve ricadere in una delle ipotesi del secondo comma dell’articolo in questione.

Devono inoltre emergere ragioni di interesse pubblico (“sussistendone le ragioni di interesse pubblico”), rimesse alla valutazione dell’amministrazione, che rendano preferibile la rimozione dell’atto e dei suoi effetti piuttosto che la loro conservazione, pur in presenza di un’illegittimità accertata. L’interesse astratto al ripristino della legalità violata non è sufficiente, ma l’amministrazione deve porre a fondamento un altro interesse pubblico che deve essere presente al momento in cui è disposto l’annullamento d’ufficio. Tale è per esempio l’interesse alla concorrenza nel caso di affidamento di un contratto pubblico senza esperire la procedura di gara (cioè fuori dai casi tassativi nei quali ciò è consentito), oppure l’interesse a evitare l’irrogazione di sanzioni per violazioni del diritto comunitario.

L’annullamento d’ufficio richiede in terzo luogo, come chiarisce anche l’art. 21-nonies, una ponderazione di tutti gli interessi in gioco che deve essere esplicitata nella motivazione. Devono essere valutati, specificamente, oltre all’interesse pubblico all’annullamento, da un lato, quello del destinatario del provvedimento, che per esempio ha ottenuto un provvedimento favorevole (come un’autorizzazione o una concessione) che ha ingenerato una situazione di affidamento; dall’altro quello degli eventuali contro interessati, come, per esempio, i proprietari di terreni confinanti con quello in relazione al quale è stato rilasciato un permesso a costruire illegittimo.

Infine, la valutazione discrezionale deve tener conto del fattore temporale. L’annullamento può essere disposto“entro un termine ragionevole”, principio espresso anche dalla giurisprudenza comunitaria e previsto anche in altri ordinamenti (in quello tedesco, par. 48

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Verwaltungsverfarhensgesetz). Se infatti è trascorso un lungo lasso di tempo dall’emanazione del provvedimento illegittimo prevale tendenzialmente l’interesse a mantenere inalterato lo status quo ante e a tutelare l’affidamento creato. Se invece l’amministrazione rileva immediatamente l’illegittimità del provvedimento emanato, magari prima ancora che esso sia portato ad esecuzione, l’amministrazione può procedere all’annullamento d’ufficio senza dover valutare in modo approfondito interessi diversi dal mero ripristino della legalità. Nel caso di provvedimenti che comportano esborsi di danaro da parte dell’amministrazione, si ritiene generalmente che l’interesse pubblico all’annullamento d’ufficio sussista in re ipsa, nel senso che non richiede una particolare motivazione, data l’evidenza e la preminenza dell’interesse erariale.

Il potere di annullamento d’ufficio deve essere esercitato nel rispetto delle regole generali della l. n. 241/1990 in tema di comunicazione di avvio del procedimento e di partecipazione dei soggetti interessati.

Attesa la natura discrezionale dell’annullamento d’ufficio, l’amministrazione non è tenuta a prendere in esame e a dar seguito a segnalazioni ed esposti da parte di soggetti privati. Peraltro, in materia di contratti della pubblica amministrazione, in seguito al recepimento della normativa comunitaria, il legislatore nazionale ha previsto che l’impresa non aggiudicataria di un contratto che intenda proporre un ricorso giurisdizionale comunichi all’amministrazione interessata la propria intenzione di farlo indicando i vizi della procedura rilevati. L’amministrazione a quel punto è tenuta a valutare se procedere all’annullamento d’ufficio e a comunicare all’impresa entro 15 giorni la propria determinazione (art. 243-bis del Codice dei contratti pubblici). In questo specifico ambito il legislatore ha dunque introdotto una sorta di favor nei confronti dell’annullamento d’ufficio, in modo tale da deflazionare il contenzioso giurisdizionale in questa materia e rimuovere gli ostacoli alla stipula e all’esecuzione dei contratti pubblici.

Il mancato esercizio del potere di autotutela in seguito a una segnalazione da parte del privato potrebbe rilevare più in generale anche in sede di giudizio di responsabilità per danni conseguenti all’adozione di un provvedimento illegittimo ai sensi dell’art. 30, comma 3, del Codice del processo amministrativo. Il giudice potrebbe ritenere contrario a ordinaria diligenza un siffatto comportamento omissivo proprio perché l’annullamento d’ufficio, rimuovendo l’atto illegittimo elimina anche il danno. Il giudice potrebbe dunque tenerne conto in sede di

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quantificazione del danno.

b) La convalida.

In alternativa all’annullamento d’ufficio, l’art. 21-nonies, secondo comma, prevede che l’amministrazione possa procedere alla convalida del provvedimento illegittimo, sempre in presenza di ragioni di interesse pubblico ed entro un termine ragionevole. Il potere in questione è espressione del principio generale della conservazione dei valori giuridici, che permea anche il diritto privato e che consiste nella eliminazione del vizio del quale è affetto il provvedimento amministrativo. A differenza di quanto avviene nei rapporti interprivati, nei quali la convalida del negozio costituisce una facoltà del soggetto al quale spetta l’azione di annullamento (art. 1444 cod. civ.), la convalida del provvedimento amministrativo è operata dalla stessa amministrazione cui è imputabile il vizio rilevato. Si tratta comunuque di un istituto di applicazione poco frequente e che ha comunque un ambito limitato, anche in conseguenza del principio della dequotazione dei vizi formali di cui all’art. 21-octies della l. n. 241/1990.

c) La ratifica.

Se la convalida riguarda il vizio di incompetenza è frequente nell’uso l’espressione ratifica. Quest’ultima più propriamente riguarda le ipotesi nelle quali all’interno di un’amministrazione pubblica un organo può esercitare in caso d’urgenza una competenza attribuita in via ordinaria a un altro organo, che poi è chiamato a far proprio l’atto emanato. Negli enti locali, per esempio, in caso d’urgenza molti atti attribuiti alla competenza del consiglio comunale possono essere emanati dalla giunta, salvo ratifica (art. 42, comma 4, del d.lgs. n. 267/2000 Testo unico degli enti locali) .

d) La sanatoria.

Si parla talora anche di sanatoria (ma si tratta di un istituto controverso) nei casi in cui l’atto è emanato in carenza di un presupposto e quest’ultimo si materializza in un momento successivo, oppure nei casi in cui un atto della sequenza procedimentale viene posto in essere dopo il provvedimento conclusivo (ad esempio una proposta o un accertamento tecnico intervenuti successivamente all’emanazione dell’atto).

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e) La conferma e l’atto confermativo.

Ove all’esito di un procedimento di riesame aperto su sollecitazione di un privato o anche d’ufficio, l’amministrazione perviene alla conclusione che il provvedimento, nonostante i dubbi iniziali, non è affetto da alcun vizio, procede alla cosiddetta conferma. In sede giurisprudenziale, si distingue tra conferma, che costituisce un provvedimento amministrativo autonomo dal contenuto identico di quello oggetto del riesame, e atto meramente confermativo. Con quest’ultimo l’amministrazione si limita a comunicare al privato che sollecita il riesame (magari perché è scaduto il termine per proporre ricorso giurisdizionale contro l’atto emanato) che non vi sono motivi per riaprire il procedimento e procedere a una nuova valutazione. L’atto meramente confermativo non può essere considerato dunque come un nuovo provvedimento suscettibile di essere impugnato.

f) La conversione.

Con riferimento ai provvedimenti affetti da nullità e da annullabilità, si ritiene generalmente applicabile, anche in assenza di una disposizione legislativa espressa, la conversione (ma anche in questo caso si tratta di un istituto controverso), sulla falsariga del modello civilistico (art. 1424 cod. civ.).

g) La revoca.

Gli atti ai quali si è fatto sin qui cenno sono assunti all’esito di procedimenti di secondo grado aventi per oggetto provvedimenti affetti da invalidità. Ma anche i provvedimenti perfettamente validi ed efficaci possono essere assoggettati a un riesame che ha per oggetto il merito (opportunità), cioè la conformità all’interesse pubblico dell’assetto degli interessi risultante dall’atto emanato. Interviene qui uno degli istituti più caratteristici del diritto amministrativo, cioè la revoca del provvedimento.

Il diritto privato infatti non ammette, di regola, uno jus poenitendi riferito ad atti che abbiano già prodotto effetti nella sfera giuridica di terzi e ciò in relazione al principio della stabilità e della certezza dei rapporti giuridici. Un caso eccezionale è quello della revoca della donazione per ingratitudine o per sopravvenienza di figli (art. 800 cod. civ.) che è ricostruito, per riprendere la terminologia già esaminata, come diritto potestativo a necessario esercizio giudiziale. Diversa è invece la

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fattispecie della revoca del testamento, che si riferisce a un atto che non ha ancora prodotto effetti nella sfera degli eredi e degli altri beneficati (art. 679 e seg. cod. civ.), oppure quella della revoca della proposta contrattuale che è ammessa fin tanto che il contratto non è concluso (art. 1328, secondo comma, cod. civ.).

Nel diritto amministrativo, invece, il potere di revoca è tradizionalmente considerato come una manifestazione del potere di autotutela della pubblica amministrazione ammesso da sempre dalla giurisprudenza. Tra i casi più risalenti di revoca può essere ricordato quello delle concessioni di illuminazione a gas rilasciate a livello comunale revocate in connessione al processo di elettrificazione del Paese, oppure quello delle concessioni per il trasporto pubblico locale con carrozze a cavallo revocate in seguito alla diffusione dei mezzi meccanici.

Il potere di revoca è giustificato dall’esigenza di garantire nel tempo la conformità dell’assetto giuridico derivante da un provvedimento amministrativo all’interesse pubblico, esigenza che è ritenuta prevalente rispetto a quella di tutela degli affidamenti creati. Esso dà una connotazione di precarietà e instabilità al rapporto giuridico amministrativo.

L’art. 21-quinquies della l. n. 241/1990 pone una disciplina generale della revoca precisandone meglio i presupposti e gli effetti. L’articolo è stato introdotto dalla l. n. 15/2005 e ed è stato poi integrato dai commi 1-bis e 1-ter sulla quantificazione dell’indennizzo (commi di analogo contenuto aggiunti dal d.l. 31 gennaio 2007, n. 7 convertito in legge 2 aprile 2007, n. 40 e dall’art. 12, comma 1-bis del d.l. 25 giugno 2008, n. 112 convertito in legge 6 agosto 2008, n. 133).

L’art. 21-quinques, primo comma, distingue, come già veniva fatto in precedenza, due fattispecie: la revoca per sopravvenienza e la revoca espressione dello jus poenitendi.

Sono riconducibili alla prima fattispecie due ipotesi tipizzate dalla disposizione e cioè anzitutto la revoca per “sopravvenuti motivi di pubblico interesse”, che interviene allorché l’amministrazione opera una rivalutazione dell’assetto degli interessi alla luce di nuovi fattori ed esigenze non presenti al momento in cui l’atto era stato emanato. Un esempio può essere la destinazione e l’utilizzo di un tratto di spiaggia o di uno spazio acqueo non più ai fini della balneazione o della coltivazione di mitili sulla base di una concessione demaniale, ma a riserva naturale.

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Una fattispecie di revoca per sopravvenuti motivi di interesse pubblico è espressamente prevista dall’art. 11, comma 4, della l. n. 241/1990 che disciplina il recesso dagli accordi integrativi o sostitutivi del provvedimento.

Alla revoca per sopravvenienza è riconducibile anche quella per “mutamento della situazione di fatto”, ipotesi peraltro sovrapponibile all’altra. Infatti, l’esigenza di rivalutare l’interesse pubblico dipende spesso da mutamenti della situazione di fatto, quali per esempio, l’emersione di nuove tecnologie (come nel caso già ricordato della revoca della concessione di illuminazione a gas), un incremento demografico, una modifica della situazione di mercato, ecc.

La revoca jus poenitendi riguarda l’ipotesi di “nuova valutazione dell’interesse pubblico originario”, che si ha nei casi in cui l’amministrazione matura successivamente la consapevolezza di aver compiuto una ponderazione errata degli interessi nel momento in cui ha emanato il provvedimento. Si tratta di un’ipotesi controversa che legifica quasi un “diritto all’arbitrio o al capriccio” in contrasto con il principio del legittimo affidamento (G. CORSO) e di dubbia compatibilità con il diritto comunitario.

Come nel caso dell’annullamento d’ufficio, sotto il profilo soggettivo, la revoca può essere disposta “dallo stesso organo che ha emanato l’atto ovvero da altro organo previsto dalla legge”. Nell’equilibrio dei poteri spettanti al ministro e ai dirigenti, il d.lgs. n. 165/2001 esclude espressamente che il primo possa revocare gli atti emanati dai secondi e prevede invece che possa annullarli d’ufficio (art. 14, comma 3).

A differenza dell’annullamento d’ufficio, che ha efficacia retroattiva (opera cioè ex tunc), la revoca “determina l’inidoneità del provvedimento revocato a produrre ulteriori effetti” (opera cioè ex nunc).

La revoca ha tipicamente per oggetto provvedimenti “a efficacia durevole”, come per esempio le concessioni di servizi pubblici. Ma il comma 1-bis, nel disciplinare l’indennizzo, fa riferimento anche ad atti aventi “efficacia (…) istantanea” nei casi in cui incidano su rapporti negoziali. Peraltro si ritiene generalmente che non sono suscettibili di revoca i provvedimenti che hanno già prodotto gli effetti o siano stati interamente eseguiti. Per esempio, per ragioni logiche prima ancora che giuridiche non può essere revocato un ordine già interamente eseguito. Del pari, non sono suscettibili di revoca gli atti vincolati (per i quali non si può porre, per definizione, un problema di valutazione dell’interesse

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pubblico) e più in generale le certificazioni e le valutazioni tecniche.

Una novità introdotta dall’art. 21-quinquies in materia di revoca è la generalizzazione dell’obbligo di indennizzo se essa “comporta pregiudizi in danno dei soggetti direttamente interessati”. Una siffatta previsione introduce una remora all’esercizio indiscriminato di questo istituto e a non far gravare interamente sui soggetti privati le conseguenze economiche di un provvedimento emanato pur sempre in modo legittimo e che ha creato un affidamento.

In precedenza, l’indennizzo era previsto per singole fattispecie legislativamente previste. Per esempio, il r.d. 15 ottobre 1925, n. 2578 in materia di servizi pubblici locali già imponeva l’obbligo di corrispondere un equo indennizzo e dettava alcuni criteri per la quantificazione (art. 24). Anche in materia di accordi integrativi e sostitutivi del provvedimento, come si è già accennato, l’art. 11 della l. n. 241/1990 prevede l’obbligo di indennizzo in caso di recesso.

I commi 1-bis e 1-ter dell’art. 21-quinquies pongono alcuni criteri per l’indennizzo in caso di revoca di atti che incidono su rapporti negoziali con nell’obiettivo di limitarne l’importo. L’indennizzo è limitato al danno emergente ed è suscettibile di un’ulteriore riduzione anzitutto in relazione alla “conoscenza o conoscibilità da parte dei contraenti della contrarietà del’atto oggetto di revoca all’interesse pubblico”. Si tratta di una disposizione di dubbia opportunità perché presuppone che sia onere anche del soggetto privato operare una valutazione dell’interesse pubblico che invece, nella dinamica del rapporto giuridico amministrativo, spetta esclusivamente alla pubblica amministrazione. Una riduzione è prevista inoltre nel caso di “concorso dei contraenti o di altri soggetti all’erronea valutazione della compatibilità di tale atto con l’interesse pubblico” Anche questa disposizione è criticabile anche perché non si vede per quale ragione il comportamento di soggetti terzi possa incidere sulle vicende di un rapporto giuridico amministrativo del quale non sono parte.

Le controversie relative alla quantificazione della revoca sono attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (art. 133, comma 1, lett. a) n. 4) del Codice del processo amministrativo).

Sotto il profilo procedimentale, anche la revoca richiede l’espletamento di un procedimento che si apre con la comunicazione di avvio e che è aperto alla partecipazione dei soggetti interessati. Al pari dell’annullamento d’ufficio, la revoca è un provvedimento discrezionale che richiede una motivazione adeguata.

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La revoca disciplinata dall’art. 21-quinquies va tenuta distinta dalla cosiddetta revoca sanzionatoria (o anche decadenza) e dal mero ritiro. La prima può essere disposta dall’amministrazione nel caso in cui il privato al quale è stato un provvedimento amministrativo favorevole (autorizzazione, concessione, ecc.) non rispetti le condizioni e i limiti in esso previsti (come per esempio il ritiro di un porto d’armi in caso di abuso), oppure non intraprenda l’attività oggetto del provvedimento entro il termine previsto (come nel caso dell’autorizzazione commerciale o del permesso a costruire). Usualmente nelle concessioni-contratto la convenzione definisce le tipologie di violazioni che possono dar origine alla revoca sanzionatoria che in taluni casi costituisce addirittura un atto vincolato.

Il mero ritiro ha per oggetto atti amministrativi che non sono ancora efficaci. Può avvenire per ragioni di legittimità o anche di merito e non necessita di una valutazione specifica dell’interesse pubblico e degli interessi dei destinatari dei provvedimento, e ciò proprio perché non ha ancora inciso in modo diretto su situazioni giuridiche soggettive di soggetti terzi. In questo senso il mero ritiro è assimilabile alla revoca del testamento o della proposta contrattuale al quale si è fatto cenno.

h) Il recesso dai contratti.

L’art. 21-sexies della l. n. 241/1990 disciplina anche il recesso unilaterale dai contratti della pubblica amministrazione prevedendo che esso sia ammesso solo “nei casi previsti dalla legge o dal contratto”. Secondo alcuni si tratta di una disposizione che riguarda l’attività negoziale di diritto privato della pubblica amministrazione e che ribadisce, forse in modo forse ovvio, che in questo ambito essa non gode di alcun privilegio.

Tra le disposizioni legislative che prevedono in modo specifico il recesso dai contratti vi è quella in tema di comunicazioni e certificazioni antimafia che lo prevedono nei casi in cui per esempio emergano, anche seguito all’assunzione di informazioni da parte della pubblica amministrazione, tentativi di infiltrazione mafiosa (art. 4 del d.lgs. 8 agosto 1994, n. 490). Nel settore delle opere pubbliche la stazione appaltante ha il diritto di recedere in qualunque tempo dal contratto previo il pagamento dei lavori eseguiti, del valore dei materiali utili esistenti in cantiere e di un utile di impresa determinato in modo forfettario nel 10% delle opere non più eseguite (art. 134, comma 1, del Codice dei contratti

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pubblici che riprende l’antica disposizione contenuta nell’art. 345 della legge n. 2248/1865 All. F sui lavori pubblici). Questa disposizione viene richiamata spesso nella giurisprudenza anche ai fini della quantificazione forfettaria del danno subito dalle imprese nell’ambito delle procedure a evidenza pubblica per l’aggiudicazione dei contratti.

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CAP. V

IL PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO

1. Nozione e funzioni del procedimento amministrativo; - 2. Le leggi generali sul procedimento e la l. n. 241/1990; - 3. Le fasi del procedimento: a) l’iniziativa; - 4. Segue: b) l’istruttoria; - 5. Segue: c) la fase decisionale; - 6. Procedimenti semplici, complessi, collegati. Il sub procedimento; - 7. La conferenza di servizi e altre forme di coordinamento; - 8. Tipi di procedimento. a) L’espropriazione per pubblica utilità; 9. Segue: b) le sanzioni pecuniarie e disciplinari; 10. Segue: c) le autorizzazioni. Il permesso a costruire; 11. Segue: d) I procedimenti concorsuali. L’accesso agli impieghi pubblici; 12. Segue: e) i contratti pubblici per l’affidamento di lavori, servizi e forniture; 13. Segue: f) l’accesso ai documenti amministrativi.

1. Nozione e funzioni del procedimento amministrativo.

Nel Cap. III è già stata introdotta la nozione di procedimento amministrativo. Quest’ultimo può essere definito come la “sequenza di atti ed operazioni (…) tra loro collegati funzionalmente in vista e al servizio dell’atto principale” (A. SANDULLI). Sono state individuate alcune funzioni alle quali esso assolve (coordinamento, partecipazione dei privati, acquisizione di informazioni utili all’amministrazione) e menzionati alcuni principi che ne caratterizzano il regime (contraddittorio, pubblicità, trasparenza, certezza e celerità). E’ ora giunto il momento di sviluppare il tema in modo più sistematico.

Il procedimento amministrativo è anzitutto una nozione di teoria generale del diritto collegata alle modalità di produzione di un effetto giuridico. Nello schema già esaminato norma-fatto-effetto, l’effetto giuridico sorge in connessione, alcune volte con il verificarsi di un singolo accadimento (fatto giuridico semplice o elementare); altre volte, con il verificarsi di una pluralità di accadimenti (fatti complessi). Così la conclusione di un contratto richiede una duplice manifestazione di volontà convergente (proposta e accettazione, secondo l’art. 1326 cod. civ). Il compimento di un atto negoziale da parte di chi è sottoposto a regime di tutela richiede, oltre alla dichiarazione di volontà del tutore, il

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parere del giudice tutelare e l’autorizzazione del tribunale (art. 375 cod. civ.).

Nel caso di fatti complessi l’effetto giuridico deriva dunque da una combinazione di fatti (eventi, comportamenti o atti) che devono verificarsi o essere posti in essere o contemporaneamente o secondo un ordine previsto dalla stessa norma (fattispecie a formazione successiva).

Nella fattispecie a formazione successiva l’effetto giuridico si produce solo allorché la sequenza si è integralmente realizzata secondo l’ordine normativamente dato. Prima di tale momento possono sorgere tutt’al più effetti preliminari o prodromici. Così, per esempio, nel contratto sottoposto a condizione (sospensiva o risolutiva), in pendenza di quest’ultima, cioè già prima che si produca l’effetto giuridico in relazione al verificarsi di un determinato avvenimento (futuro e incerto), sorge in capo alle parti il dovere di comportarsi secondo buona fede in modo tale da conservare integre le ragioni dell’altra parte (art. 1358 cod. civ.). Nella vendita di cosa futura, l’effetto giuridico traslativo si realizza allorché la cosa viene ad esistenza (art. 1472 cod. civ.), ma in capo al venditore sorge immediatamente l’obbligo di non impedire che la cosa venga in essere.

Restano invece esterni alla fattispecie i cosiddetti presupposti, cioè fatti che non concorrono direttamente alla produzione dell’effetto giuridico, ma che si collocano per così dire a monte della fattispecie e ne condizionano l’operatività. Così, per esempio, lo stato di abbandono di una cosa mobile è il presupposto per l’acquisto della proprietà tramite occupazione (art. 923 cod. civ.); la morte di una persona è il presupposto perché possa aprirsi la successione (art. 456 e seg. cod. civ.).

La nozione di fattispecie complessa a formazione successiva, secondo alcuni, costituisce la matrice unificante del negozio giuridico privato e dell’atto amministrativo. In realtà, nel diritto privato il procedimento ha avuto uno sviluppo limitato. Nel diritto pubblico, al contrario, come si è visto, il procedimento è la modalità ordinaria di esercizio dei poteri dello Stato (legislativo, esecutivo, giurisdizionale) proprio in relazione alle esigenze di trasparenza e di garanzia dei soggetti interessati.

Nel diritto amministrativo, dopo una prima fase nella quale la nozione di procedimento è stata ignorata, a partire dalla seconda metà del secolo scorso essa ha assunto un rilievo crescente in dottrina e giurisprudenza. Con la legge l. n. 241/1990 il procedimento è assurto al rango di istituto centrale della disciplina.

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In origine, dopo la legge del 1889 istitutiva della IV sezione del Consiglio di Stato, l’attenzione della giurisprudenza e della dottrina si concentrò esclusivamente sull’atto amministrativo. Il problema più immediato, correlato alla necessità di definire le caratteristiche del nuovo rimedio processuale, fu infatti quello di distinguere tra atti impugnabili e atti non impugnabili (come per esempio un semplice parere o una proposta).

Inoltre, i tempi non erano maturi per far emergere la rilevanza giuridica degli atti e delle operazioni prodromiche all’emanazione del provvedimento. In primo luogo, infatti, la procedimentalizzazione dell’attività ai fini di coordinamento tra apparati e organi non era un’esigenza molto avvertita in un’epoca in cui la struttura dell’amministrazione era compatta e ruotava intorno al modello ministeriale: il criterio organizzativo gerarchico garantiva di per sé il coordinamento e l’unitarietà dell’azione amministrativa. In secondo luogo, l’organizzazione delle amministrazioni era ritenuta irrilevante per il diritto, e pertanto tutto ciò che accadeva a monte del provvedimento (gli atti prodromici di competenza dei vari uffici) era relegato alla sfera interna dell’amministrazione: il solo punto di contatto tra gli apparati pubblici e la sfera giuridica dei soggetti privati era rappresentato dall’atto produttivo di effetti autoritativi. Infine, la concezione autoritaria dei rapporti tra Stato e cittadino poneva in secondo piano la necessità garanzie a favore di quest’ultimo, sotto forma di partecipazione alla formazione dell’atto imperativo.

Il procedimento trovò ingresso nel diritto amministrativo negli anni Trenta del secolo scorso come sviluppo delle acquisizioni della teoria generale in tema di fattispecie. Venne così elaborata anzitutto la nozione di atto complesso, cioè del provvedimento che è il frutto della confluenza di manifestazioni di volontà provenienti da più soggetti, tutte necessarie ai fini della produzione dell’effetto giuridico. Era questo per esempio il caso di un decreto reale assunto su proposta di un ministro, oppure quello dell’atto emanato da un organo collegiale. Emersero via via distinzioni più sofisticate (atto composto, continuato, ecc.), anche in relazione all’omogeneità o disomogeneità e al carattere servente o primario delle manifestazioni di volontà (O. RANELLETTI). Fu avanzato anche il concetto per molti aspetti ambiguo di atto-procedimento.

La prima elaborazione organica del procedimento amministrativo, che risale al 1940 (A. SANDULLI), operò un’analisi formale e strutturale degli atti e delle operazioni della sequenza procedimentale, la loro

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scansione in fasi distinte (preparatoria, costitutiva, integrativa dell’efficacia).

Un’altra ricostruzione di qualche anno successiva collocò invece il procedimento all’interno della dinamica del potere considerato come funzione, cioè come “momento della concretizzazione del potere in un atto” (F. BENVENUTI). Se, per usare un’immagine, il potere (in astratto) è una fonte che sprigiona energia giuridica, quest’ultima viene incanalata e guidata in sequenze procedimentali tipiche. Da questo punto di vista, il procedimento, che può essere descritto come “la storia causale dell’atto”, non è niente altro che la “manifestazione sensibile della funzione”, cioè la forma esterna del potere colto nel suo momento dinamico.

In questa visione emerge una prima funzione del procedimento, concepito come uno strumento che consente un controllo sull’esercizio del potere (soprattutto da parte del giudice), attraverso una verifica del rispetto puntuale della sequenza degli atti e operazioni normativamente predefinite. La legalità assume così una dimensione procedurale, oltre che sostanziale.

Come sviluppo e integrazione dell’approccio formale e strutturale emerse in dottrina (M.S. GIANNINI), una terza ricostruzione volta a mettere in luce soprattutto la connessione con il fenomeno della discrezionalità amministrativa. Per poter operare una scelta corretta, tutti i fatti e gli interessi rilevanti devono essere, prima ancora che valutati e ponderati, acquisiti dall’organo decidente all’interno del procedimento. La sequenza delle operazioni e degli atti (pareri, valutazioni tecniche, intese, partecipazione, ecc.) previsti dalle singole leggi che disciplinano i poteri pubblici, serve dunque a immettere in modo stabile nel processo decisionale gli interessi più rilevanti (come si è visto, i cosiddetti interessi secondari). Ma anche al di là delle sequenze normativamente prescritte, il responsabile del procedimento può valutare caso per caso nel corso dell’istruttoria, se sia necessario acquisire qualche altro interesse potenzialmente inciso dall’atto da emanare (per esempio, attraverso l’acquisizione di un parere facoltativo). Si manifesta così una seconda funzione del procedimento, quella cioè di strumento per far emergere e dar voce a tutti gli interessi incisi dal provvedimento.

Questa funzione assume una connotazione particolare nei procedimenti di regolazione. Va ricordato che ad essi non si applicano di regola, come si è accennato, le disposizioni sulla partecipazione previste dalla l.n. 241/1990 (art. 13, comma 1), ma sempre più spesso la partecipazione è imposta dal diritto europeo soprattutto con riguardo agli

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atti di regolazione delle autorità indipendenti. Per i procedimenti di regolazione di competenza delle autorità preposte ai mercati finanziari, la legge sul risparmio prevede che esse devono consultare preventivamente gli organismi rappresentativi de soggetti vigilati, dei prestatori di servizi finanziari e dei consumatori (art. 13 della l. n. 262 del 2005). Acquisendo il punto di vista di tutti gli interessati (imprese, associazioni di consumatori, ecc.), da un lato, l’amministrazione può colmare le asimmetrie informative che spesso sussistono soprattutto nei rapporti con i soggetti regolati; dall’altro questi ultimi hanno la possibilità di esprimere il proprio punto di vista. Peraltro l’amministrazione deve vagliare attentamente gli apporti dei privati e appurare che tutti gli interessi coinvolti siano adeguatamente rappresentati. Può accadere infatti che gli interessi più organizzati (le cosiddette lobby) riescano a sovrastare gli altri, con il rischio di piegare a proprio favore le valutazioni dell’amministrazione (la cosiddetta “cattura” dei regolatori).

Nei procedimenti di tipo individuale nei quali la pubblica amministrazione esercita un potere che determina effetti restrittivi o limitativi della sfera giuridica del soggetto privato, e il rapporto giuridico si connota dunque in termini di contrapposizione, emerge una terza funzione del procedimento, quella cioè di garanzia del contraddittorio (scritto e talora anche orale) a favore dei soggetti incisi negativamente dal provvedimento. Il contraddittorio connota in senso giustiziale il procedimento (secondo il principio del due process of law). Fu la IV Sezione del Consiglio di Stato che, nel silenzio della legge, fece quasi subito applicazione ai poteri di tipo sanzionatorio della regola di diritto naturale dell’audi et alteram partem.

Nei procedimenti di tipo individuale nei quali il rapporto giuridico tra pubblica amministrazione e privato non si atteggia in termini di contrapposizione, cioè nei casi in cui il provvedimento determina effetti ampliativi nella sfera giuridica del destinatario, la partecipazione del privato al procedimento ha una quarta funzione prevalentemente collaborativa, cioè di ausilio all’amministrazione in relazione alle esigenze di completezza dell’istruttoria e di assunzione di una decisione ben informata possibilmente tale da attribuire al privato il bene della vita al quale ispira.

Il contraddittorio procedimentale può assumere una dimensione verticale, orizzontale.

La prima emerge nei casi in cui il rapporto giuridico ha carattere essenzialmente bilaterale e coinvolge l’amministrazione titolare del potere

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e il destinatario diretto dell’effetto giuridico vuoi restrittivo (provvedimenti sanzionatori, di imposizione di vincoli, ecc.) vuoi ampliativo (provvedimenti autorizzatori). Nel contraddittorio verticale l’amministrazione, parte del rapporto giuridico bilaterale, deve essere imparziale. Deve cioè garantire ad un tempo la cura dell’interesse pubblico di cui essa è portatrice e la posizione della contrapposta parte privata. Emerge qui una tensione nei casi in cui un’amministrazione troppo zelante tenda a considerare il contraddittorio come un impaccio alla propria azione che rende meno rapida ed efficiente l’azione amministrativa.

La dimensione orizzontale del contraddittorio emerge nei procedimenti nei quali i privati sono portatori di interessi contrapposti e pertanto l’organo decidente è chiamato a garantire “la parità delle armi”. In alcuni casi il contraddittorio è perfettamente paritario, come per esempio nei procedimenti di tipo concorsuale (concorsi pubblici, procedure di aggiudicazione di contratti pubblici o di concessioni) nei quali gli aspiranti a una medesima utilità o bene hanno una eguale pretesa a conseguirli; oppure nei procedimenti di tipo contenzioso attribuiti alla competenza delle autorità di regolazione chiamate a pronunciarsi su controversie tra consumatori e imprese che erogano il serivizo.

In altri casi il contraddittorio orizzontale non è del tutto paritario, come per esempio nei procedimenti sanzionatori antitrust nei quali all’impresa sospettata di aver compiuto un abuso di posizione dominante si contrappone l’impresa che ha denunciato all’Autorità garante della concorrenza e del mercato o, come si vedrà più avanti, nei procedimenti di rilevanza europea, alla Commissione Ue il comportamento illecito della concorrente. All’impresa denunciante sono riconosciuti alcuni poteri, ma prevale l’esigenza di assicurare all’impresa oggetto del procedimento sanzionatorio una possibilità di tutelare pienamente la propria posizione anzitutto nei confronti dell’autorità procedente (rispetto alla quale il contraddittorio mantiene la sua dimensione verticale).

Nel contraddittorio di tipo orizzontale di tipo paritario risulta più naturale per l’amministrazione operare in modo imparziale mantenendo una posizione di terzietà.

Oltre a quelle già esaminate, il procedimento assolve anche a una quinta funzione di promuovere la democraticità dell’ordinamento amministrativo costituendo un fattore di legittimazione del potere dell’amministrazione. Al riguardo, si è già osservato come la caduta della legalità sostanziale, dovuta all’impossibilità del legislatore di prefigurare

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in modo preciso tutte le situazioni che richiedono l’esercizio del potere, si presta a essere compensata, almeno in parte (e in modo certamente imperfetto), dalla legalità procedurale. Il procedimento, aperto alla partecipazione di tutti i soggetti interessati, diviene la sede nella quale si procede a individuare e a precisare la regola per il caso concreto (che la legge lascia in qualche misura indeterminata) da porre come contenuto del provvedimento. Com’è stato detto (B. SORDI), la democrazia procedimentale completa, anche se non soppianta, la democrazia rappresentativa (“il vincolo procedimentale integra il comando della norma legislativa”).

Una sesta funzione del procedimento è quella di attuare il coordinamento tra più amministrazioni, ciascuna chiamata a curare un interesse pubblico, nei casi in cui un provvedimento amministrativo vada incidere su una pluralità di interessi pubblici. In un modello di organizzazione amministrativa improntato a un ampio pluralismo (amministrazioni statali, regionali, locali, agenzie, autorità indipendenti, enti pubblici istituzionali, ecc.) questa funzione ha assunto un peso crescente.

Accanto a modelli di coordinamento debole (tipicamente, il parere obbligatorio, ma non vincolante), la legislazione amministrativa prevede modelli di coordinamento più forte (il parere vincolante, l’intesa, il concerto, il decreto interministeriale, ecc.). Allorché il coordinamento tra interessi non sia possibile all’interno del singolo procedimento e, come accade di frequente, l’avvio di un’attività da parte di un privato sia subordinata al rilascio di una pluralità di atti autorizzativi all’esito di una pluralità di procedimenti autonomi paralleli, il coordinamento può avvenire, come si vedrà, con altre modalità (la conferenza dei servizi, l’autorizzazione unica).

In definitiva, il procedimento assolve a una molteplicità di funzioni che sono spesso tra loro compresenti. In realtà, di volta in volta, a seconda del tipo di procedimento può prevalere l’una o l’altra funzione. Così, nei procedimenti di tipo regolatorio, nelle ipotesi in cui è ammessa, la partecipazione al procedimento (la l. n. 241/1990 però, va ribadito, la esclude ancora in generale per i regolamenti e gli atti amministrativi generali), ha un ruolo primario la funzione di rappresentanza degli interessi e quella conoscitiva. Nei procedimenti di tipo individuale rileva soprattutto la funzione di garanzia del soggetto nella cui sfera giuridica ricadono gli effetti del provvedimento. Nei procedimenti di tipo contenzioso (per esempio, la risoluzione stragiudiziale di controversie tra

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operatori economici o tra questi e gli utenti o clienti innanzi alle autorità di regolazione) prevale la funzione di garanzia del contraddittorio paritario. Nei procedimenti di tipo pianificatorio e progammatorio che coinvolgono una pluralità di livelli di governo (statale, regionale, locale) e di interessi pubblici, prevale la funzione di coordinamento.

2. Le leggi generali sul procedimento e la l. n. 241/1990.

Il procedimento amministrativo è al centro del sistema del diritto amministrativo in molti ordinamenti e ha trovato una disciplina organica in leggi generali, nel contesto delle quali va collocata la legge 7 agosto 1990, n. 241 già più volte richiamata nei capitoli che precedono.

In una prospettiva di comparazione, conviene accennare soprattutto a due esperienze straniere, quella austriaca e statunitense, che hanno avuto influenza su molti altri Paesi.

L’esperienza austriaca fu per molti aspetti pionieristica. Già nel 1875, la legge istitutiva del Tribunale amministrativo supremo attribuì a quest’ultimo il potere di annullare gli atti dell’amministrazione adottati all’esito di una procedura difettosa (Mangelhaften Verfahrens), disposizione che indusse la giurisprudenza, in mancanza di ulteriori specificazioni legislative, a riempire di contenuto il concetto di “difettosità”. Può essere considerato difettoso un procedimento quando per esempio l’amministrazione pone in essere gli atti della sequenza senza rispettare l’ordine cronologico (come nel caso un parere postumo, acquisito cioè dopo aver assunto la decisione). Nel 1925 venne emanata una legge generale sul procedimento, prima del genere nel panorama degli ordinamenti occidentali, che sviluppava il cosiddetto modello processuale del procedimento.

Quest’ultimo venne infatti concepito come uno strumento per tutelare la posizione del privato, in un’ottica giustiziale (o paragiurisdizionale), cioè per garantire gli interessi del cittadino nei confronti di una pubblica amministrazione che incorporava in sé, oltre che il valore della legalità, anche quello della giustizia, in conformità al principio della “sicurezza del diritto” (Rechtssicherheit). L’articolazione del procedimento in atti formali volti a garantire la partecipazione (Mitwirkung) e il contraddittorio mimava le forme processuali e anzi aveva come funzione quello di anticipare la tutela offerta da quest’ultimo.

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Non a caso, ancor oggi, nell’ordinamento austriaco l’elevato livello delle garanzie procedimentali consente di semplificare i rimedi propriamente giurisdizionali. In generale, si può affermare che quanto più completa ed efficace è la tutela degli interessi dei privati nell’ambito del procedimento, tanto minore è l’esigenza di un sistema articolato di garanzie giurisdizionali. In Italia una discussione di questo tipo è sorta a proposito delle autorità indipendenti che esercitano i propri poteri con modalità paragiurisdizionali particolarmente garantiste e per le quali si potrebbe ritenere non necessaria la previsione di un doppio grado di giudizio (primo grado e appello) innanzi al giudice amministrativo.

La seconda esperienza è quella degli Stati Uniti. In un sistema costituzionale improntato a una separazione più rigida dei poteri, l’attribuzione massiccia di poteri regolatori e amministrativi alle agenzie federali negli anni Trenta (all’epoca del New Deal) determinò, come si è accennato nel Cap. I, un conflitto istituzionale tra Presidente e Corte Suprema che dichiarò incostituzionali una serie di leggi interventiste volte a favorire il superamento della crisi economica. Il conflitto si ricompose anche in seguito all’emanazione nel 1946 dell’Administrative Procedure Act che legittimò il ruolo delle agenzie federali, ma le assoggettò a regole e a controlli stringenti.

La legge configura anzitutto un procedimento amministrativo aperto a un’ampia partecipazione dei soggetti interessati secondo il modello del “public interest representation” (R. STEWART). Nei procedimenti di regolazione (rulemaking) la rappresentanza degli interessi viene assicurata attraverso il modello già illustrato del “notice and comment”.

Nei procedimenti di tipo individuale, per garantire il principio del giusto procedimento (due process of law) vengono introdotte garanzie del contraddittorio di tipo paraprocessuale (trial-type adjudication). Sul piano organizzativo la legge prescrive una distinzione netta all’interno delle agenzie tra i funzionari che curano l’istruttoria e l’organo collegiale che assume la decisione. Così anche nei procedimenti in cui il contraddittorio ha una dimensione essenzialmente verticale si creano le premesse per una decisione assunta da un organo, composto da membri definiti forse impropriamente come administrative law judges, in qualche misura terzo tra gli uffici istruttori e le parti private. Come si vedrà, di recente questa soluzione organizzativa è stata introdotta nel nostro ordinamento, anche se in modo meno perfetto, per le autorità di regolazione nel settore finanziario.

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In definitiva, l’Administrative Procedure Act assoggetta le agenzie federali a regole procedurali stringenti. Il rispetto di queste regole, oltre che dei limiti sostanziali del potere attribuito alle agenzie, è assicurato dal controllo giurisdizionale delle corti ordinarie (judicial review of administrative action) teso verificare la correttezza dell’operato dell’amministrazione (accertando se esso sia stato “arbitrary, capricious, an abuse of discretion”).

Altri ordinamenti europei come quello tedesco (nel 1976) e quello spagnolo (nel 1958 e poi nel 1992) si sono dotati di leggi generali sul procedimento amministrativo molto analitiche. La legge tedesca, che include anche una disciplina generale dell’atto amministrativo e del contratto di diritto pubblico, contiene una definizione di procedimento che per il suo carattere generale può servire a inquadrare il concetto in termini di teoria generale. Il procedimento è definito come “attività di un’autorità amministrativa avente rilevanza esterna che è rivolta all’accertamento delle condizioni, alla preparazione e all’emanazione di un atto amministrativo o alla conclusione di un contratto di diritto pubblico” (“die nach außen wirkende Tätigkeit der Behörden, die auf die Prüfung der Voraussetzungen, die Vorbereitung und den Erlaß eines őffentlich-rechtlichen Vertrages gerichtet ist”, secondo il par. 9 Verwaltungsverfahensgesetz). Negli ordinamenti francese e inglese le regole sullo svolgimento del procedimento continuano a essere di derivazione prevalentemente giurisprudenziale.

Nell’ordinamento italiano, il primo tentativo di introdurre una legge generale sul procedimento amministrativo risale al secondo dopoguerra e in particolare a un progetto di legge elaborato tra il 1944 e il 1947 da una Commissione presieduta da Ugo Forti, studioso di diritto amministrativo tra i più eminenti. Il progetto fu più volte proposto e rielaborato in varie legislature senza però essere approvato. All’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso fu intrapreso un nuovo tentativo ad opera di una commissione presieduta da un altro eminente studioso di diritto amministrativo, Mario Nigro. La Commissione elaborò un testo che, arricchito anche di una parte sulla disciplina del diritto di accesso ai documenti amministrativi, ispirò un decennio dopo la legge 7 agosto 1990, n. 241, recante “Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi”. Il testo è stato più volte modificato e integrato sino ai giorni nostri, soprattutto ad opera della l. n. 15/2005 che ha inserito nel suo corpo,

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come si è visto, una disciplina del provvedimento amministrativo (Capo IV-bis).

Rispetto a leggi omologhe, la l. n. 241/1990 si caratterizza per il fatto di essere una legge soprattutto di principi, molti dei quali già affermati dalla giurisprudenza amministrativa, senza la pretesa di porre una disciplina esaustiva di tutti gli istituti del procedimento. All’interno della Commissione Nigro era prevalsa infatti l’idea di non ingessare in schemi generali troppo rigidi il procedimento che si presenta poi concretamente nelle discipline di settore in una molteplicità di tipologie e modelli.

La l. n. 241/1990 non contiene né una definizione generale di procedimento, né una disciplina organica delle singole fasi in cui esso si articola. Disciplina solo alcuni istituti fondamentali come il termine del procedimento, la figura del responsabile del procedimento, la partecipazione, alcuni istituti di semplificazione, il diritto di accesso. La l. n. 241/1990 fornisce però una cornice generale che si sovrappone e integra tutte le leggi amministrative che disciplinano, in modo più o meno articolato, anche con norme derogatorie o speciali, i singoli procedimenti.

Il campo di applicazione della l. n. 241/1990 è individuato sulla base di un criterio soggettivo e oggettivo.

Sotto il profilo soggettivo le disposizioni in essa contenute si applicano alle amministrazioni statali, agli enti pubblici nazionali e anche alle società con totale o prevalente capitale pubblico, limitatamente alle attività che si sostanziano nell’esercizio delle funzioni amministrative (art. 29). Le disposizioni sul diritto di accesso hanno in campo di applicazione ancor più esteso e inlcude anche i gestori di pubblici servizi (art. 23).

Inoltre, le Regioni e gli enti locali possono dotarsi di una propria disciplina sulla base dei principi stabiliti dalla l. n. 241/1990. Peraltro, le disposizioni che regolano i principali istituti (partecipazione, responsabile del procedimento, durata, accesso, ecc.) sono qualificati come attinenti ai livelli essenziali delle prestazioni di cui all’art. 117, secondo comma lett. m) della Costituzione rientranti nella competenza legislativa esclusiva dello Stato (art. 29, comma 2-bis). Pertanto gli spazi per una disciplina regionale o locale difforme sono piuttosto limitati e in ogni caso questa deve essere tale da prevedere garanzie non inferiori a quelle assicurate ai privati dalle disposizioni statali, con espressa previsione della possibilità “di prevedere livelli ulteriori di tutela”

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(comma 2-quater). Ben potrebbe, per esempio, una Regione introdurre il principio del contraddittorio orale non previsto, come si vedrà, dalla l. n. 241/1990.

Sotto il profilo oggettivo, la l. n. 241/1990 si applica nella sua integralità ai procedimenti di tipo individuale. Invece, come si è detto più volte, le disposizioni sull’obbligo di motivazione (art. 3, comma 2), sulla partecipazione al procedimento (art. 13, comma 1) e sul diritto di accesso (art. 24, comma 1, lett. c)) non si applicano agli atti normativi e agli atti amministrativi generali. Alcune categorie di procedimenti come quelli tributari non sono assoggettati alla l. n. 241/1990 bensì alle regole contenute nelle discipline speciali (art. 13, comma 2).

Prima di intraprendere un’esposizione sistematica del procedimento amministrativo alla luce della l. n. 241 del 1990, è opportuno, anticipandone alcuni contenuti, porre in risalto il nuovo modello di rapporto tra pubblica amministrazione e cittadini ad essa sotteso e che è più in linea con la sensibilità contemporanea.

La l. n. 241/1990 ha segnato infatti idealmente il punto di svolta superando la visione autoritaria dei rapporti tra Stato e cittadino a favore di una concezione che pone l’accento sulle garanzie e sui diritti del cittadino che entra in contatto con l’amministrazione.

In questo senso, secondo alcuni, essa ha operato una sorta di “rivoluzione copernicana” o di cambio di paradigma interpretativo. Essa si presta infatti a essere considerata, atecnicamente, come una legge attributiva di “nuovi diritti” di cittadinanza amministrativa (G. ARENA), come quello a un termine certo per il rilascio di un atto amministrativo, di interazione con il responsabile del procedimento, di partecipazione, di accesso ai documenti amministrativi, di autocertificare il possesso di determinati stati e qualità, di motivazione delle decisioni, ecc. Il diritto amministrativo si presta così a essere ricostruito attraverso il prisma dei nuovi diritti, piuttosto che in quello tradizionale del potere.

In primo luogo, la l. n. 241/1990 colma la distanza e la separatezza tradizionale tra amministrazione e soggetti privati che vedeva come unico punto di contatto tra essi il provvedimento autoritativo emanato in modo unilaterale.

Per un verso, infatti, i soggetti privati fanno ingresso per così dire nel procedimento attraverso gli strumenti di partecipazione consentendo così ad essi di esprimere un punto di vista che è utile alla stessa pubblica amministrazione in una visione, come si è già visto, di tipo collaborativo

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oltre che di garanzia del contraddittorio. Per altro verso, la l. n. 241/1990 favorisce, per quanto possibile, il ricorso a strumenti consensuali in luogo dell’esercizio unilaterale per così dire dall’alto di poteri autoritativi. Prevede infatti in termini generali che l’amministrazione possa stipulare accordi con gli interessati, anche su proposta di quest’ultimi, per la determinazione del contenuto discrezionale del provvedimento (art. 10). L’interazione più stretta tra pubblica amministrazione e cittadino e la ricerca di soluzioni consensuali dà sostanza alla concezione del diritto amministrativo “paritario” teorizzata in dottrina già negli anni Settanta del secolo scorso (F. BENVENUTI). Il soggetto privato si fa in qualche modo “coamministratore”.

In secondo luogo, la separatezza tra le stesse pubbliche amministrazioni, ciascuna titolare di poteri autonomi, con scarsi canali di comunicazione reciproca, viene vista con sfavore. Sono invece privilegiati strumenti consensuali di collaborazione paritaria per lo svolgimento di attività di interesse comune (accordi ex art. 11) e di coordinamento tra procedimenti paralleli (conferenza dei servizi ex art. 14 e seg.).

In terzo luogo, la l. n. 241/1990 fa cadere il velo dell’anonimato che si frapponeva tra il cittadino e gli apparati amministrativi visti dall’esterno come un tutto indistinto spersonalizzato. La figura del responsabile del procedimento (artt. 5 e seg.) personalizza e “umanizza” infatti il rapporto con i soggetti privati e consente di attribuire in modo più certo le responsabilità interne a ciascun apparato.

In quarto luogo, la l. n. 241/1990 supera in gran parte il principio del segreto d’ufficio sulle attività interne all’amministrazione che rendeva imperscrutabile l’operato dell’amministrazione. La l. n. 241/1990 enuncia infatti il principio di pubblicità e trasparenza (art. 1) e pone una disciplina del diritto di accesso ai documenti amministrativi (Capo VI) che, come si vedrà, tutela la riservatezza di soggetti terzi, ma non riconosce una riservatezza dell’amministrazione. L’obbligo in capo ai dipendenti pubblici di mantenere il segreto d’ufficio, cioè di non divulgare informazioni riguardanti l’attività amministrativa di cui l’impiegato è in possesso, opera in via residuale, cioè “al di là fuori delle ipotesi e delle modalità previste dalle norme sul diritto di accesso” (art. 28), le quali hanno dunque una priorità. Prevede inoltre l’obbligo di rendere pubblici tutti gli atti organizzativi interni (art. 26).

In quinto luogo viene attenuata la concezione individualistica e atomistica dei rapporti tra Stato e cittadino propria della concezione

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liberale ottocentesca. Infatti, il “dialogo” procedimentale è aperto, non solo ai singoli individui incisi dal provvedimento amministrativo, ma anche a portatori di interessi diffusi costituiti in associazioni o comitati (art. 11 l. n. 241/1990). L’amministrazione si apre cioè alle espressioni della società civile. Soprattutto nei procedimenti di tipo pianificatorio e di programmazione ed esecuzione di grandi opere pubbliche che hanno un grande impatto sulle comunità locali e su interessi come quello ambientale un ampio confronto promosso dall’amministrazione diventa un fattore di legittimazione e di accettazione sociale delle scelte amministrative.

In definitiva, la l. n. 241/1990 può essere annoverata tra quelle più avanzate quanto a concezione generale. Si potrebbe anzi dire che, al tempo in cui fu approvata, essa fosse addirittura in anticipo sui tempi e in contrasto con le prassi e la cultura di una pubblica amministrazione in realtà ancora ispirata al vecchio modello. Ciò spiega le resistenze in sede attuativa o lo scarso impiego degli strumenti più innovativi (come per esempio gli accordi) che si registrano ancora dopo oltre due decenni. Un ruolo importante è stato svolto in questi anni dal giudice amministrativo che ha reso effettivo, per esempio, il diritto di accesso ai documenti amministrativi.

3. Le fasi del procedimento: a) l’iniziativa.

La sequenza degli atti e degli adempimenti nei quali si articola il procedimento si presta a essere suddivisa in fasi distinte. La l. n. 241/1990 le richiama in varie disposizioni, ma non in modo organico, là dove, per esempio, pone il principio del divieto di aggravamento del procedimento se non per esigenze imposte dallo svolgimento dell’istruttoria (art. 1, secondo comma) o affida la responsabilità di questa fase al responsabile del procedimento (art. 6, comma 1, lett. b)).

Il procedimento amministrativo viene usualmente suddiviso in tre fasi: l’iniziativa, l’istruttoria, la fase decisionale.

a) l’iniziativa

La prima fase è quella dell’iniziativa, cioè dell’avvio formale del procedimento destinato a sfociare nel provvedimento finale produttivo degli effetti giuridici nella sfera giuridica del destinatario.

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Interviene qui una prima distinzione tra obbligo di procedere e obbligo di provvedere, entrambi espressione del principio generale della doverosità dell’esercizio del potere amministrativo. Il primo involge la questione di stabilire in presenza di quali condizioni l’amministrazione competente è tenuta ad aprire il procedimento e a porre in essere le attività previste nella sequenza procedimentale propedeutiche alla determinazione finale. Il secondo pone in capo all’amministrazione, una volta aperto il procedimento, di portarlo a conclusione attraverso l’emanazione di un provvedimento espresso.

I due obblighi si deducono dall’art. 2 della l. n. 241/1990. Infatti, da un lato, il primo comma fa riferimento all’ipotesi in cui il procedimento “consegua obbligatoriamente a un’istanza” e a quella in cui esso “debba essere iniziato d’ufficio”, ponendo così anche la distinzione tra procedimenti su istanza di parte e procedimenti d’ufficio. Dall’altro il medesimo comma pone il dovere di concludere il procedimento mediante l’adozione di un provvedimento espresso.

L’obbligo di procedere dunque sorge o in seguito a un atto di impulso di un soggetto esterno all’amministrazione titolare del potere o per iniziativa di quest’ultima.

Nei procedimenti su istanza di parte, l’atto di iniziativa consiste in una domanda o istanza formale presentata all’amministrazione da un soggetto privato interessato al rilascio di un provvedimento favorevole (in relazione al quale vanta, come si è visto, un interesse legittimo pretensivo).

Tuttavia non ogni istanza del privato fa sorgere l’obbligo di procedere. Infatti, quest’ultimo sorge solo in relazione a sequenze procedimentali tipiche, cioè in relazione ai procedimenti amministrativi disciplinati nelle leggi amministrative che disciplinano le varie materie. Si pensi, per esempio, ai procedimenti autorizzativi previsti dalle leggi che regolano le attività economiche. Al di fuori di essi, le lettere, richieste, istanze variamente formulate dai privati possono restare senza alcun seguito o tutt’al più possono essere riscontrate con le cosiddette lettere di cortesia, prive di efficacia provvedimentale.

In taluni casi il procedimento è aperto su impulso di pubbliche amministrazioni che formulano all’amministrazione competente proposte. Così, per esempio, l’amministrazione straordinaria o la liquidazione coatta amministrativa di un istituto di credito viene disposta dal Ministero dell’economia e delle finanze su proposta della Banca d’Italia (artt. 70 e

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80 del Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia). Questo modello di avvio del procedimento involge peraltro più che altro il tema del coordinamento delle competenze tra pubbliche amministrazioni.

Nei procedimenti d’ufficio, l’apertura del procedimento avviene per impulso della stessa amministrazione competente a emanare il provvedimento finale. I procedimenti d’ufficio riguardano per lo più poteri amministrativi il cui esercizio determina un effetto limitativo o restrittivo nella sfera giuridica del soggetto privato destinatario (titolare di un interesse legittimo oppositivo). Si pensi per esempio al procedimento espropriativo o a quello di irrogazione di una sanzione.

Nei procedimenti d’ufficio si pone il problema di individuare con più precisione il momento in cui sorge l’obbligo di procedere.

Infatti, in molte situazioni l’apertura formale del procedimento avviene all’esito di una serie di attività cosiddette preistruttorie, condotte sempre d’ufficio, dai cui esiti possono emergere situazioni di fatto che rendono necessario l’esercizio di un potere (in relazione al principio di doverosità, già più volte ricordato).

Tra le attività preistruttorie previste dalle leggi amministrative va annoverato il potere di ispezione attribuito dalla legge ad autorità di vigilanza (come le soprintendenze dei beni culturali, la Banca d’Italia, la Consob o l’Isvap) nei confronti di soggetti allo scopo di verificare il rispetto delle normative di settore. L’ispezione (che però può essere disposta anche nella fase propriamente istruttoria del procedimento) consiste in una serie di operazioni di verifica effettuate presso un soggetto privato, in contraddittorio con quest’ultimo, delle quali si dà atto in un verbale. L’ispezione può concludersi con la constatazione che l’attività è conforme alle norme, oppure può far emergere fatti suscettibili di integrare una qualche violazione. Solo in quest’ultimo caso, sorge in capo all’amministrazione l’obbligo di aprire un procedimento d’ufficio volto a contestare la violazione e che può concludersi con l’adozione di provvedimenti ordinatori o sanzionatori.

Altre attività preistruttorie includono, variamente in base alle singole leggi amministrative, accessi a luoghi, richieste di documenti, assunzione di informazioni, rilievi segnaletici e fotografici, analisi di campioni e altre verifiche tecniche. Così per esempio, la legge 24 novembre 1981, n. 689 in materia di sanzioni amministrative pecuniarie attribuisce in termini generali agli organi addetti al controllo sull’osservanza delle discipline amministrative di settore il potere di

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compiere una serie di atti di accertamento (art. 13) propedeutici all’apertura del procedimento sanzionatorio con la contestazione e la notificazione dell’addebito al soggetto che ha commesso l’infrazione.

L’avvio dei procedimenti d’ufficio di tipo repressivo, inibitorio e sanzionatorio (e lo svolgimento di attività preistruttorie) può avvenire anche in seguito a denunce, istanze o esposti di soggetti privati. Tali esposti tuttavia non fanno sorgere in modo automatico il dovere dell’amministrazione di aprire il procedimento nei confronti del soggetto denunciato. Rientra invece nella discrezionalità dell’amministrazione valutarne la serietà e la fondatezza, al fine di darvi eventualmente seguito. Solo in rari casi la giurisprudenza, in relazione a esigenze di giustizia sostanziale e facendo leva sul dovere di correttezza e di buona amministrazione, riconosce in capo al soggetto privato che richiede all’amministrazione di esercitare un potere d’ufficio nei confronti di un terzo una pretesa giuridicamente qualificata.

A quest’ultimo riguardo, si è già ricordato che la disciplina dei contratti pubblici prevede che l’amministrazione sia tenuta a dare un riscontro alle istanze di autotutela volte a segnalare vizi della procedura che si è conclusa con l’aggiudicazione a un terzo soggetto e a indurre l’amministrazione ad aprire un procedimento di annullamento d’ufficio nei confronti di quest’ultimo. Anche nel diritto europeo della concorrenza, come si è anticipato trattando del contraddittorio paritario, la posizione dell’impresa che denuncia un illecito affinché la Commissione apra d’ufficio un procedimento sanzionatorio nei confronti dell’impresa o delle imprese concorrenti trova protezione sia nella fase di avvio del procedimento, perché la Commissione deve motivare nel caso in cui ritenga di non dar seguito all’esposto, sia all’interno del procedimento avviato, poiché il denunciante ha diritto a parteciparvi. Il tema della doverosità dell’esercizio dei poteri d’ufficio su sollecitazione di un soggetto privato è dunque un ambito nel quale il diritto amministrativo attraversa una fase evolutiva nella direzione di ridurre l’applicazione del principio tradizionale della piena discrezionalità dell’amministrazione.

L’amministrazione deve dare comunicazione formale dell’avvio del procedimento anzitutto (e soprattutto) al soggetto o ai soggetti destinatari diretti del provvedimento, cioè a coloro “nei confronti dei quali il provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti” (art. 7 l. n. 241/1990). La comunicazione viene inviata anche a eventuali altri soggetti che per legge devono intervenire nel procedimento e, più in generale, a soggetti individuati o facilmente individuabili che possono

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derivare un pregiudizio (da intendersi in senso generico come pregiudizio anche di fatto) dal provvedimento, sempre che non sussistano ragioni particolari di impedimento. Per quest’ultimo gruppo di soggetti, la l. n. 241/1990 individua criteri piuttosto elastici.

La comunicazione deve contenere l’indicazione dell’amministrazione competente, dell’oggetto del procedimento, del nome del responsabile del procedimento, del termine di conclusione del procedimenti, dell’ufficio in cui si può prendere visione degli atti (art. 8).

Nei procedimenti d’ufficio che si concludono con provvedimenti limitativi della sfera giuridica del destinatario la comunicazione di avvio del procedimento è strumentale alla garanzia del contraddittorio. Il soggetto privato infatti, ricevuta la comunicazione, può intervenire nel procedimento per tutelare il proprio interesse. Nei procedimenti su iniziativa di parte la comunicazione di avvio del procedimento interessa principalmente i controinteressati, come per esempio il proprietario del fondo confinante con quello in relazione al quale è presentata domanda per il rilascio di un permesso a costruire. L’omessa comunicazione di avvio del procedimento rende annullabile il provvedimento finale, ma, come si è già sottolineato, l’art. 21-octies, comma 2, l. n. 241/1990 ha ristretto notevolmente i casi in cui ciò può avvenire.

4. b) l’istruttoria

La fase istruttoria del procedimento include le attività poste in essere dall’amministrazione per accertare i fatti e per acquisire gli interessi rilevanti ai fini della determinazione finale.

I fatti da accertare si riferiscono, per riprendere le classificazioni già illustrate, ai presupposti e ai requisiti posti dalla norma di azione per l’emanazione del provvedimento. Rientra cioè tra i compiti del responsabile del procedimento valutare “le condizioni di ammissibilità, i requisiti di legittimazione ed i presupposti che siano rilevanti per l’emanazione del provvedimento” (art. 6, comma 1, lett. a) della l. n. 241/1990).

Gli interessi da acquisire entrano in gioco esclusivamente nei procedimenti correlati a poteri propriamente discrezionali, nei quali, come si è visto, l’interesse pubblico cosiddetto primario, desumibile dalla norma di azione, deve essere valutato e ponderato unitamente agli interessi secondari, pubblici e privati.

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La fase istruttoria è retta dal principio inquisitorio. Infatti, secondo l’art. 7, comma 1, lett. b) l. n. 241/1990 l’amministrazione procedente (e per essa il responsabile del procedimento) “accerta di ufficio i fatti, disponendo il compimento degli atti all’uopo necessari”. Essa compie dunque di propria iniziativa tutte le indagini necessarie per ricostruire in modo esatto e completo la situazione di fatto, senza essere vincolata alle allegazioni operate dai soggetti privati, ciò tenuto conto che l’esercizio dei poteri avviene per curare interessi pubblici.

Al contrario di quanto accade nell’istruttoria processuale, caratterizzata da una tipizzazione per legge dei mezzi istruttori, nel procedimento amministrativo l’amministrazione può compiere tutti gli accertamenti necessari con le modalità ritenute più idonee. L’art. 6, comma 1, lett. b) menziona tra gli atti istruttori a disposizione del responsabile del procedimento il rilascio di dichiarazioni, l’esperimento di accertamenti tecnici, le ispezioni e l’ordine di esibizioni documentali. Il responsabile del procedimento può anche compiere le verifiche necessarie in relazione alla documentazione prodotta dalle parti e, in particolare, alla veridicità dei dati autocertificati dall’interessato.

Nella scelta dei mezzi istruttori da utilizzare l’amministrazione deve attenersi a un principio di efficienza e di economicità, evitando, come si è accennato, di aggravare il procedimento al di là di quanto necessario (art. 1, comma 2, l. n. 241/1990).

Alcuni atti istruttori sono previsti talvolta dalle leggi che disciplinano i singoli procedimenti amministrativi. ’ questo il caso dei pareri obbligatori (art. 16 l. n. 241/1990) e delle valutazioni tecniche (art. 17) di competenza amministrazioni diverse da quella procedente (organi consultivi, apparati tecnici).

I pareri, espressione della funzione consultiva, possono essere obbligatori o facoltativi. I primi sono previsti per legge in relazione a singoli procedimenti e l’omessa richiesta determina un vizio procedimentale che rende illegittimo il provvedimento finale. L’amministrazione cui vengono richiesti deve rilasciarli entro un termine di venti giorni. In caso di ritardo, l’amministrazione titolare della competenza decisionale può procedere indipendentemente dall’espressione del parere (art. 18, comma 2, ma il comma 3 prevede una serie di eccezioni). I pareri facoltativi, invece, sono richiesti ove l’amministrazione procedente ritenga possano essere utili ai fini della decisione.

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I pareri possono essere in casi non frequenti, oltre che obbligatori, anche vincolanti: l’amministrazione che li riceve non può assumere una decisione difforme dal contenuto del parere, neppure motivando le ragioni in relazione alle quali essa ritiene di discostarsi (come può avvenire invece nel caso di pareri soltanto obbligatori). Il solo potere che residua talora in capo all’amministrazione procedente è quella di rinunciare a emanare l’atto finale.

Come già osservato, la previsione nella sequenza procedimentale di pareri obbligatori costituisce una modalità di coordinamento strutturale tra amministrazioni che curano interessi pubblici distinti, ma con ambiti di interferenza.

Le valutazioni tecniche richieste ad organismi dotati di particolari competenze non giuridiche sono assoggettate a un regime che ricalca in parte quello dei pareri (art. 17).

La tendenza più recente dell’ordinamento in tema di adempimenti istruttori è di sgravare il più possibile i soggetti privati da oneri di documentazione e di certificazione, imponendo all’amministrazione di acquisire d’ufficio i documenti attestanti atti, fatti qualità e stati soggettivi necessari per l’istruttoria (art. 18, comma 2, l. n. 241/1990). Ai privati può essere richiesta soltanto l’autocertificazione, che, come si è accennato, consiste nella possibilità per i soggetti privati di dichiarare sotto propria responsabilità il possesso di determinati stati e qualità. Si è addirittura stabilito per legge da ultimo che i certificati rilasciati da un’amministrazione non hanno valore se prodotti presso altre amministrazioni e cioè al fine di costringerle allo scambio reciproco delle informazioni necessarie nell’ambito dei procedimenti.

L’attività istruttoria può essere effettuata anche con modalità informali. L’art. 11 della l. n. 241/1990 prevede, per esempio, che per favorire la conclusione di accordi integrativi o sostitutivi del provvedimento può essere predisposto un calendario di incontri ai quali sono invitati, separatamente, o contestualmente, il destinatario del provvedimento ed eventuali controinteressati (comma 1-bis). Inoltre, qualora sia opportuno un esame contestuale dei vari interessi pubblici coinvolti in un procedimento, l’amministrazione procedente può indire una conferenza di servizi istruttoria (art. 14, comma 1) nella quale ciascuna amministrazione interessata può esprimere le proprie valutazioni. Emerge da queste disposizioni una nuova visione di un’amministrazione “dialogica”, aperta a un confronto informale anche orale con i privati e con altre amministrazioni.

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Delle attività istruttorie compiute e delle risultanze delle medesime viene dato conto usualmente attraverso la redazione di verbali acquisiti al procedimento. In quanto provenienti da un’autorità amministrativa i verbali fanno piena prova fino a querela di falso dei fatti che in essi risultino menzionati.

La fase istruttoria è aperta ad apporti dei soggetti che abbiano diritto di intervenire e partecipare al procedimento (art. 10 della l. n. 241/1990). Questi ultimi sono i soggetti ai quali l’amministrazione è tenuta a comunicare l’avvio del procedimento. Hanno facoltà di intervenire anche soggetti portatori di interessi pubblici o privati, nonché i portatori di interessi diffusi costituiti in associazioni o comitati, ai quali possa derivare un pregiudizio dal provvedimento (art. 9). Queste disposizioni, come si è visto, aprono il procedimento ai contributi esterni all’amministrazione in funzione sia di garanzia del contraddittorio sia, più genericamente, di collaborazione con l’amministrazione procedente che può così acquisire informazioni e valutazioni utili per deliberare.

La partecipazione e l’intervento si sostanziano concretamente in due diritti. Il primo è quello di prendere visione degli atti del procedimento (cosiddetto accesso procedimentale) non esclusi dal diritto di accesso ai sensi delle norme generali che saranno esaminate più avanti (art. 10, comma 1, lett. a)). Il secondo consiste nella possibilità di presentare memorie scritte (cioè documenti che illustrano il punto di vista del soggetto interessato) e documenti (lett. b)). Nel loro insieme essi concorrono a fondare il diritto alla partecipazione informata, poiché l’esame della documentazione acquisita al fascicolo rende più efficace il contributo partecipativo del soggetto interessato.

L’amministrazione ha l’obbligo di valutare i documenti e le memorie presentate, ove pertinenti all’oggetto del procedimento (lett. b) e deve pertanto darne conto nella motivazione del provvedimento. Emerge così un collegamento tra contributi partecipativi e motivazione del provvedimento, che, come già visto, deve dar conto in modo adeguato delle “risultanze dell’istruttoria” (art. 3 della l. n. 241/1990).

Sotto il profilo organizzativo l’istruttoria è affidata a un responsabile del procedimento, assegnato di volta in volta dal dirigente responsabile della struttura subito dopo l’apertura del procedimento. Il suo nominativo viene comunicato o reso disponibile su richiesta a tutti i soggetti interessati (art. 5 l. n. 241/1990).

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Come già anticipato, la figura del responsabile del procedimento costituisce una delle principali novità del nuovo modello di rapporti tra pubblica amministrazione e cittadino sotteso alla l. n. 241/1990, perché consente a quest’ultimo di avere un interlocutore certo con il quale confrontarsi e rende meno spersonalizzato il rapporto con gli uffici.

I compiti del responsabile del procedimento sono indicati nell’art. 6 della l. n. 241/1990 e includono tutte le attività propedeutiche all’adozione del provvedimento finale e l’adozione “di ogni misura per l’adeguato e sollecito svolgimento dell’istruttoria” (lett. b)).

In aggiunta a quelle già menzionate relative all’accertamento dei fatti, va ricordato il potere di chiedere la rettifica di dichiarazioni o istanze erronee o incomplete (lett. b)). Traspare qui una funzione di ausilio e supporto del responsabile del procedimento nei confronti del soggetto privato che è spesso sfornito delle conoscenze e dell’esperienza necessaria.

Nei procedimenti a istanza di parte il responsabile del procedimento (o l’autorità competente a emanare il provvedimento) è tenuto ad attivare una fase supplementare di contraddittorio nei casi in cui l’istruttoria effettuata dà esito negativo e porterebbe all’adozione di un provvedimento di rigetto dell’istanza (art. 10-bis della l. n. 241/1990 aggiunto dalla l. n. 15/2005). Al soggetto che l’ha proposta, e che dunque ha dato avvio al procedimento, deve essere data comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento della domanda. Entro dieci giorni, l’interessato può presentare osservazioni scritte, eventualmente corredate da altri documenti, nel tentativo di superare le obiezioni formulate dall’amministrazione. L’eventuale provvedimento finale negativo che rigetta l’istanza deve dar conto delle ragioni del mancato accoglimento delle osservazioni eventualmente presentate.

Questo meccanismo si iscrive nella tendenza recente del legislatore ad agevolare l’avvio di attività da parte dei privati e a superare, per quanto possibile, gli ostacoli anche di tipo amministrativo: il diniego di un atto autorizzativo è concepito per così dire come l’extrema ratio. L’art. 10-bis segna dunque un ulteriore passo avanti nella visione collaborativa dei rapporti tra amministrazione e soggetti privati.

Di regola il responsabile del procedimento non adotta il provvedimento finale, ma trasmette tutti gli atti, corredati usualmente da una relazione istruttoria, all’organo competente a emanare il provvedimento finale. Quest’ultimo si deve attenere di regola alle

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risultanze dell’istruttoria. Può discostarsene, ma deve indicare le ragioni nel provvedimento finale (art. 6, comma 1, lett. e)). Queste regole tendono a valorizzare la figura del responsabile del procedimento che non può essere sconfessato senza che la dialettica interna all’amministrazione emerga in modo formale nella motivazione dell’atto. Quest’ultima è suscettibile di un sindacato esterno, secondo le regole generali, da parte del giudice amministrativo.

5. c) la fase decisionale.

Conclusa la fase istruttoria, l’organo competente a emanare il provvedimento finale assume la decisione all’esito di una valutazione complessiva del materiale acquisito al procedimento, come si è visto, o per iniziativa del responsabile del procedimento o sotto forma di apporti partecipativi. Se il potere esercitato ha natura discrezionale, la fase decisoria include la comparazione e ponderazione degli interessi che guida la scelta finale tra più soluzioni alternative.

L’art. 2 della l. n. 241/1990, come si è detto, pone in capo all’amministrazione l’obbligo di concludere il procedimento mediante l’adozione di un provvedimento espresso produttivo degli effetti nella sfera giuridica dei destinatari. Volendo ricorrere a un’immagine, se il procedimento è una sorta di catena di montaggio, il provvedimento è il prodotto finito. Né il procedimento può essere indebitamente sospeso, rallentato o deviato dalla sua meta naturale, cioè il provvedimento amministrativo. Il cosiddetto arresto procedimentale è legittimo solo in casi eccezionali.

Il provvedimento finale può essere emanato, a seconda dei casi dal titolare di un organo individuale (come il sindaco o il prefetto) oppure da un organo collegiale (giunta comunale o provinciale, consiglio di amministrazione di un ente pubblico, ecc.).

In quest’ultimo caso la determinazione viene assunta applicando le regole sulla convocazione dell’organo (modalità di comunicazione, termini minimi, ecc.), sulla fissazione di un ordine del giorno, sul quorum costitutivo (necessario perché l’organo possa deliberare validamente) e sul quorum deliberativo (necessario per stabilire se una certa proposta è approvata).

Accanto ad atti semplici (o monostrutturati) è frequente nelle leggi amministrative il ricorso ad atti complessi (o pluristrutturati). Tale è per

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esempio, specie nei rapporti tra ministeri, il decreto interministeriale nel quale convergono la volontà paritaria di una pluralità di amministrazioni. Frequente è anche il concerto nel quale il ministero competente ad emanare il provvedimento (autorità concertata) deve prima inviare al ministero concertante lo schema di provvedimento per ottenerne l’assenso o indicazioni di modifica. L’atto finale è sottoscritto da entrambe le autorità.

Un'altra decisione pluristrutturata è l’intesa che interviene soprattutto nei rapporti tra Stato e Regioni. Essa può essere di tipo debole, nel senso che il dissenso regionale può essere superato dallo Stato all’esito del confronto e ciò al fine di evitare effetti paralizzanti, oppure in senso forte, nei casi in cui sia indispensabile il doppio consenso.

La determinazione finale, così come ogni atto della sequenza procedimentale, è assunta sulla base delle regole vigenti al momento in cui essa è adottata. Al procedimento si applica infatti il principio del tempus regit actum, in base al quale le modifiche legislative intervenute a procedimento avviato trovano immediata applicazione, a meno che non si sia in presenza di situazioni giuridiche ormai consolidate o di fasi procedimentali già del tutto esaurite. Per esempio, se in pendenza di una domanda di autorizzazione interviene una legge che renda più rigorosi i presupposti per intraprenderla e il privato non ne sia in possesso, l’autorizzazione viene negata.

1. Il termine del procedimento

Il provvedimento deve essere emanato nel rispetto del termine stabilito per lo specifico procedimento. L’art. 2 pone una disciplina dei termini di conclusione dei procedimenti che è generale e completa: generale, perché essa si applica là dove manchino disposizioni legislative speciali in tema di termini di conclusione del procedimento; completa, perché l’applicazione della medesima include direttamente o indirettamente tutte le fattispecie di procedimenti.

Essa rimette anzitutto alle pubbliche amministrazioni, nei casi in cui il termine non sia già stabilito per legge, l’obbligo di fissare con propri atti di regolazione e di rendere pubblici per ciascun tipo di procedimento la durata massima. Di regola questa non deve superare i novanta giorni, in ragione della sostenibilità sotto il profilo organizzativo, della natura degli interessi pubblici coinvolti e della complessità del procedimento (commi 3 e 4). Le amministrazioni conservano dunque una certa

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discrezionalità nell’individuare la durata massima dei procedimenti di loro competenza.

Se le amministrazioni non provvedono a porre una propria disciplina dei termini, è previsto un termine generale residuale di trenta giorni (comma 2). La sua brevità funge da stimolo per le amministrazioni a emanare una propria disciplina di termini di durata più congrua.

Il termine può essere sospeso per un periodo non superiore a trenta giorni in relazione alla necessità di acquisire informazioni o certificazioni (comma 7).

Accanto ai termine relativi alla conclusione del procedimento individuati in base ai criteri posti dall’art. 2 della l. n. 241/1990 (termini finali), le leggi e i regolamenti che disciplinano i singoli precedimenti prevedono talora termini endoprocedimentali relativi ad adempimenti posti a carico dei soggetti privato o relativi ad atti attribuiti alla competenza di altre amministrazioni (termini endoprocedimentali). Per esempio i termini per l’acquisizione di pareri e valutazioni tecniche sono fissati in termini generali rispettivamente in venti e novanta giorni dalla stessa l. n. 241/1990 (art. 16 e art. 17).

I termini finali ed endoprocedimentali hanno di regola natura ordinatoria, nel senso che la loro scadenza non fa venir meno il potere di provvedere, né rende illegittimo (o nullo) il provvedimento finale emanato in ritardo. Solo nei casi in cui la legge qualifichi in modo espresso il termine come perentorio e a pena di decadenza il provvedimento tardivo è considerato viziato. Così, per esempio, l’Autorità garante della concorrenza e del mercato può vietare un’operazione di concentrazione tra imprese entro un termine di 45 giorni dalla comunicazione, definito espressamente come perentorio (art. 16, comma 4, della legge 10 ottobre 1990, n. 287). In materia di espropriazione, la dichiarazione di pubblica utilità, che costituisce il presupposto del decreto di espropriazione, indica un termine entro il quale quest’ultimo deve essere emanato (in mancanza di indicazione il termine è di cinque anni): il suo decorso determina l’inefficacia della dichiarazione con effetti caducanti su eventuali atti del procedimento emanati successivamente (art. 13, comma 6, del dpr 8 giugno 2001, n. 327).

Peraltro in alcune fattispecie di poteri che incidono negativamente su diritti di soggetti privati, la natura perentoria del termine si ricava in via interpretativa. E’ questo per esempio il caso, in materia di beni

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culturali, del potere dello Stato di esercitare la prelazione allorché un privato intenda vendere un bene culturale a un altro privato. Questo potere deve essere esercitato nel termine di sessanta giorni dalla denuncia dell’atto di trasferimento del bene tra privati (art. 61 d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42).

I termini previsti per gli adempimenti a carico dei soggetti privati nell’ambito del procedimento (come per esempio quello di dieci giorni previsto dall’art. 10-bis per controdedurre ai motivi ostativi) hanno invece di regola natura più cogente e il loro decorso fa decadere il soggetto privato dalla facoltà di porlo in essere o in caso di adempimento tardivo consentono all’amministrazione di non tenerne conto.

Il mancato rispetto del termine di conclusione del procedimento può provocare conseguenze di vario tipo. Può far sorgere una responsabilità di tipo disciplinare nei confronti del funzionario o una responsabilità di tipo dirigenziale nei confronti del vertice della struttura (art. 2, comma 9, della l. n. 241/1990). Può costituire un elemento di valutazione al fine di attribuire la retribuzione di risultato. Può costituire motivo per l’esercizio del potere sostitutivo da parte del dirigente sovraordinato (art. 16, comma 1, lett. e) e art. 17, comma 1, lett. d) del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, un potere che è disciplinato ora anche nell’art. 2 della l. n. 241/1990). Nei casi più gravi il ritardo può essere fonte di responsabilità penale (art. 328 cod. pen. che disciplina il reato di rifiuto o omissione di atti d’ufficio).

L’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento può anche far sorgere l’obbligo di risarcire il danno a favore del privato (cosiddetto danno da ritardo ex art. 2-bis della l. n. 241/1990). Questo tipo di responsabilità sorge per effetto della mancata emanazione del provvedimento nel termine finale e prescinde del tutto dalla legittimità o illegittimità di quest’ultimo. Ciò significa che il tempo dell’agire amministrativo costituisce un “bene della vita” autonomo da quello correlato all’esercizio del potere. Per esempio, anche un’autorizzazione legittima ma rilasciata in ritardo può provocare all’impresa un danno correlato al mancato utilizzo delle proprie attrezzature e maestranze per il periodo di tempo dalla data di scadenza del termine per l’emanazione dell’atto e quella della sua effettiva emanazione.

Più in generale, decorso il termine, nei casi in cui non si applica il regime del silenzio-assenso o del silenzio-diniego del quale si dirà tra breve, il privato interessato può proporre un’azione avverso il silenzio-inadempimento dell’amministrazione innanzi al giudice amministrativo

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allo scopo di accertare l’obbligo di quest’ultima di provvedere ed eventualmente la fondatezza della pretesa (art. 31 del Codice del processo amministrativo).

Proprio per il suo carattere di completezza, la disciplina del termine del procedimento amministrativo posta dall’art. 2 della l. n. 241/1990 dà corpo al principio della certezza del tempo dell’agire amministrativo. Questo principio risponde sia all’esigenza dell’amministrazione alla cura sollecita dell’interesse pubblico di cui è portatrice, sia a quella dei soggetti privati che devono poter programmare le proprie attività facendo affidamento sulla tempestività nell’adozione degli atti amministrativi necessari per intraprenderla.

2. Gli accordi integrativi e sostitutivi.

Il provvedimento espresso emanato in modo unilaterale dall’organo competente costituisce l’esito normale e più frequente del procedimento amministrativo. Esiste tuttavia una modalità alternativa di conclusione del procedimento che la l. n. 241/1990 tende a favorire e cioè l’accordo integrativo o sostitutivo del provvedimento al quale si è già fatto cenno nel primo capitolo (art. 11).

Si tratta di un istituto che privilegia per quanto possibile soluzioni concordate atte ridurre il rischio di possibili contenziosi e che pone l’amministrazione su un piano più paritario nei confronti del soggetto privato. Là dove occorra valutare e ponderare più interessi di regola “è preferibile la composizione negoziata a quella imposta” (M.S. GIANNINI).

Prima di essere disciplinato in termini generali dalla l. n. 241/1990 esso è emerso nella prassi e successivamente nella legislazione speciale in contesti particolari. Si pensi per esempio alle convenzioni urbanistiche nelle quali l’interesse perseguito dall’amministrazione all’ordinato assetto del territorio e quello dei privati che realizzano progetti di ampia portata (le cosiddette lottizzazioni per l’edificazione di parti significative del territorio) hanno molti punti di convergenza e sussistono ampi spazi per ricercare soluzioni concordate. In materia espropriativa la normativa prevede, come si vedrà, in alternativa all’emanazione del provvedimento unilaterale, l’accordo di cessione volontaria del bene che garantisce al proprietario un corrispettivo di importo superiore all’indennità di esproprio (art. 45 dpr 8 giugno 2001, n. 327). In ogni caso, non è

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inusuale che il provvedimento unilaterale sia il frutto di un qualche contatto o negoziazione informale preventiva.

In base alla l. n. 241/1990, l’accordo ha per oggetto il contenuto discrezionale del provvedimento ed è finalizzato a ricercare una miglior composizione e mediazione tra l’interesse pubblico perseguito dall’amministrazione procedente e l’interesse del privato spesso contrapposto al primo. I poteri vincolati, invece, non si prestano a essere oggetto di accordi in quanto in essi manca il presupposto per una negoziazione e cioè un ventaglio più o meno ampio di scelte. L’accordo fa comunque salvi i diritti dei terzi che ben potrebbero contestarne i contenuti proponendo un’azione di annullamento innanzi al giudice amministrativo secondo le regole ordinarie (art. 11, comma 1).

L’accordo può essere promosso dal soggetto privato che può presentare a questo fine osservazioni e proposte in sede di partecipazione al procedimento. Come si è accennato, il responsabile del procedimento, per favorire l’accordo, può organizzare anche incontri informali con i soggetti privati interessati (comma 1-bis) instaurando veri e propri tavoli di trattativa.

Sotto il profilo formale, gli accordi devono essere stipulati per atto scritto, a pena di nullità, salvo che la legge disponga altrimenti (comma 2). Ad essi si applicano, come si è già sottolineato nel primo capitolo, i principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti in quanto compatibili. Data la matrice pubblicistica degli accordi, le controversie relative alla loro conclusione ed esecuzione rientrano nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (art. 133, comma 1, lett. a), n. 2) del Codice del processo amministrativo).

Gli accordi sono di due tipi e cioè integrativi o sostitutivi del provvedimento. I primi servono solo a concordare il contenuto del provvedimento finale che viene emanato successivamente alla stipula dell’accordo e in attuazione di quest’ultimo. Sul piano formale il provvedimento mantiene la sua configurazione di atto unilaterale produttivo di effetti. Gli accordi integrativi possono porre la questione circa la rilevanza del mancato o parziale recepimento dei suoi contenuti nel provvedimento finale.

Negli accordi sostitutivi gli effetti giuridici si producono in via diretta con la conclusione dell’accordo, senza alcuna necessità di un atto formale unilaterale di recepimento. Tuttavia, a garanzia dell’imparzialità e del buon andamento dell’azione amministrativa, gli accordi devono

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essere preceduti da una determinazione dell’organo che sarebbe competente per l’adozione del provvedimento che autorizza e stabilisce i limiti della negoziazione. In questo modo, si recupera indirettamente, a monte dell’accordo, un momento di unilateralità.

Un altro momento di unilateralità può emergere anche dopo la conclusione dell’accordo. Infatti, l’amministrazione, per sopravvenuti motivi di interesse pubblico, può recedere dall’accordo (comma 4), e ciò anche se il recesso non sia espressamente previsto in quest’ultimo. Il potere di recesso ha cioè fonte legale ed è dunque espressione di un potere in senso proprio e non può essere confuso con il recesso dai contratti disciplinato, come si è visto, dall’art. 21-sexies della l. n. 241/1990.

La necessità di consentire all’amministrazione di curare l’interesse pubblico nel tempo rende infatti necessario uno strumento per consentire a quest’ultima di sciogliersi, senza limiti di tempo, dai vincoli sorgenti dall’accordo. Il potere di recesso è dunque riconducibile alla revoca per sopravvenuti motivi di pubblico interesse ex art. 21-quinquies l. n. 241/1990. Ad esso si accompagna l’obbligo di provvedere alla liquidazione di un indennizzo in relazione a eventuali danni subiti dal privato (comma 4).

Si discute in dottrina se gli accordi disciplinati dalla l. n. 241/1990 possano essere qualificati, sulla scia dell’ordinamento tedesco, come contratti di diritto pubblico, accentuando così la peculiarità del loro regime rispetto a quello dei contratti di diritto comune, oppure come contratti aventi a oggetto pubblico, nei quali cioè la specialità discende soprattutto dal fatto che si riferiscono al potere discrezionale, cioè a un bene di per sé indisponibile.

L’amministrazione non è tuttavia obbligata a concludere accordi integrativi o sostitutivi con i privati e può sempre prediligere (ed è questa ancor oggi la prassi di gran lunga prevalente) la via del provvedimento unilaterale non negoziato. La possibilità di stipulare accordi attenua ma non elide del tutto il carattere asimmetrico del rapporto tra pubblica amministrazione e soggetti privati.

Pur con queste qualificazioni, la disciplina degli accordi ex art. 11 della l. n. 241/1990 ha, come si è già osservato, un valore simbolico di proporre l’immagine di un’amministrazione più aperta al confronto, al dialogo, ai contributi propositivi dei soggetti privati. In estrema sintesi, si

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potrebbe dire: il consenso sin dove possibile, il potere unilaterale dove necessario.

Questa tendenza emerge in molti ambiti particolari del diritto amministrativo. Si pensi per esempio ai procedimenti sanzionatori di competenza dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato e di altre autorità di regolazione, che possono concludersi, anziché con l’accertamento dell’illecito e l’irrogazione della sanzione, con l’approvazione di impegni proposti dall’impresa alla quale è stato contestato l’illecito volti a porre rimedio alle distorsioni concorrenziali (art. 14-ter della legge 10 ottobre 1990, n. 287). Come esempio di valorizzazione di un ruolo attivo dei privati, si pensi al Codice dei contratti pubblici che consente a un soggetto privato (il cosiddetto promotore) la presentazione di proposte di realizzazione di lavori pubblici anche non previsti dagli atti di programmazione. Le proposte, ove valutate positivamente dall’amministrazione sotto il profilo della coerenza con l’interesse pubblico, possono essere oggetto di una procedura competitiva a evidenza pubblica per la scelta dell’impresa che li realizza (art. 153 del Codice dei contratti pubblici).

3. Il silenzio della pubblica amministrazione.

La conclusione del procedimento con l’emanazione di un provvedimento espresso (o con la conclusione di un accordo) è l’evenienza prevista come fisiologica dalla l. n. 241/1990. Tuttavia può accadere che l’amministrazione non concluda il procedimento entro il termine fissato per legge o stabilito dall’amministrazione con le modalità già esaminate. Si pone così la questione dell’inerzia o del silenzio della pubblica amministrazione.

Fino ad anni recenti il regime normale del silenzio della pubblica amministrazione di fronte a istanze o domande presentate da soggetti privati volti ad ottenere dall’amministrazione un provvedimento favorevole è stato quello del cosiddetto silenzio-inadempimento (o con terminologia più risalente ed equivoca silenzio-rifiuto). In questi casi l’inerzia protratta oltre il termine assume il significato giuridico di inadempimento dell’obbligo formale di provvedere posto dall’art. 2 della l. n. 241/1990, cioè di concludere il procedimento vuoi con un provvedimento di accoglimento dell’istanza, vuoi con un provvedimento di rigetto della medesima.

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L’inadempimento di tale obbligo non fa venir meno il potere-dovere di provvedere, considerata, come si è visto, la natura di regola ordinatoria dei termini. Ciò significa che l’amministrazione può emanare il provvedimento di accoglimento o di rigetto dell’istanza anche in ritardo, ferma restando l’eventuale responsabilità (disciplinata, come si è visto, dall’art. 2-bis della l. n. 241/1990) per il danno cagionato al privato che aveva confidato nel rispetto del termine.

Per indurre l’amministrazione a provvedere il privato ha a disposizione, come si è già accennato, una specifica azione contro il silenzio esperibile innanzi al giudice amministrativo (art. 31 del Codice del processo amministrativo). Questa azione, in ultima analisi, può portare all’emanazione del provvedimento, in via sostitutiva, ad opera del giudice amministrativo (usualmente per mezzo di un commissario ad acta nominato dal giudice). Tuttavia la tutela giurisdizionale contro il silenzio si rivela in molti casi macchinosa, anche per i tempi e costi che il privato deve sopportare.

Per tentare di ovviare a questa situazione e per venire incontro in qualche modo al bisogno di certezza, nella legislazione amministrativa sono stati introdotti per singole tipologie di procedimenti due regimi di silenzio cosiddetto significativo, ora codificati dalla l. n. 241/1990: il silenzio-assenso (o accoglimento) e il silenzio-diniego (o rigetto).

In entrambi i casi il decorso del termine di conclusione del procedimento produce un effetto giuridico ex lege, nel primo caso di accoglimento dell’istanza, nel secondo caso di diniego della medesima. In entrambi i casi il procedimento si conclude cioè con un provvedimento tacito.

Le fattispecie (non frequenti) di silenzio avente valore di diniego sono tassativamente stabilite dalla legge. Per esempio la l. n. 241/1990 la prevede a proposito del diritto di accesso ai documenti amministrativi. L’art. 25, comma 4, stabilisce infatti che “decorsi inutilmente trenta giorni dalla richiesta, questa si intende respinta”. Un’altra fattispecie legislativa è prevista in materia edilizia a proposito della domanda di permesso a costruire in relazione alla quale, decorso il termine “si forma il silenzio-rifiuto” (ove rifiuto va inteso in realtà come rigetto o diniego) (art. 20, comma 9, del dpr 6 giugno 2001. n. 380). Contro questo tipo di atto tacito di diniego può essere proposto ricorso in sede giurisdizionale secondo le normali regole vigenti per il processo amministrativo.

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Le ipotesi legislative di silenzio-assenso si sono moltiplicate nel corso degli anni, in linea con la tendenza a rimuovere gli ostacoli alle attività dei privati. Una disciplina generale è posta dall’art. 20 della l. n. 241.

Prima delle modifiche introdotte nel 2005, l’articolo in questione, in ossequio al principio di tassatività, rimetteva a un regolamento governativo di delegificazione l’individuazione dei casi di provvedimenti amministrativi assoggettati a questo regime. Il testo vigente, invece, abbandona il criterio della tassatività e fa assurgere il silenzio-assenso, in luogo del silenzio-inadempimento, a principio generale in tema di silenzio.

Il campo di applicazione del silenzio-assenso definito dall’art. 20, commi 1 e 3, è definito in base ad alcuni criteri di tipo negativo. Il regime non vale anzitutto nei casi di provvedimenti autorizzatori (di tipo vincolato) sostituiti dalla segnalazione certificata d’inizio di attività di cui all’art. 19, assoggettati, come si è visto, a un regime di liberalizzazione. Non vale inoltre per i procedimenti che riguardano un elenco piuttosto lungo di interessi pubblici (comma 4): patrimonio culturale e paesaggistico, ambiente, difesa nazionale, pubblica sicurezza, ecc. Non vale in terzo luogo neppure nei casi in cui la normativa comunitaria impone l’adozione di un provvedimento formale. Il diritto comunitario, infatti, come ha avuto occasione di chiarire anche la Corte di giustizia, è contrario a un’applicazione troppo estesa del meccanismo del silenzio-assenso, soprattutto là dove entrano in gioco interessi pubblici ritenuti prioritari (come per esempio l’ambiente) che potrebbero subire pregiudizi a causa dell’effetto automatico abilitante derivante dal mero decorso del termine. Non vale in quarto luogo nei casi tassativamente previsti per legge di silenzio-rigetto. Non vale infine per i procedimenti individuati con decreto del presidente del Consiglio dei Ministri.

I casi di esclusione del regime del silenzio-assenso sono in definitiva piuttosto ampi e, di fatto, molti procedimenti continuano a ricadere nel regime del silenzio-inadempimento.

L’amministrazione può evitare che si formi il silenzio-assenso non soltanto provvedendo nel termine previsto, ma anche indicendo entro trenta giorni dalla presentazione dell’istanza una conferenza dei servizi (comma 2). Può essere questa una via agevole per l’amministrazione per guadagnare tempo.

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Il silenzio-assenso ha, come si è chiarito, valore provvedimentale. Ciò determina due conseguenze: può essere oggetto di provvedimenti di autotutela sotto forma di revoca e di annullamento d’ufficio (art. 20, comma 3, che richiama gli artt. 21-quinquies e 21-nonies); può essere oggetto di impugnazione innanzi al giudice amministrativo, per esempio da un soggetto terzo che vuol contrastare l’avvio dell’attività da parte del soggetto che ha presentato l’istanza all’amministrazione.

Sotto il profilo procedurale, il soggetto che presenta la domanda deve dichiarare sotto propria responsabilità la sussistenza dei presupposti e dei requisiti di legge (art. 21, che si applica anche alla segnalazione certificata d’inizio di attività). In caso di dichiarazioni mendaci possono scattare una serie di sanzioni anche penali e comunque rimangono fermi i poteri di vigilanza e di controllo anche dopo l’avvio dell’attività.

In definitiva, il regime del silenzio-assenso non fa venir meno l’obbligo di provvedere in capo all’amministrazione (di cui all’art. 2 della l. n. 241/1990), non altera la struttura del procedimento, ma incide solo sulla fase decisionale, introducendo un incentivo al rispetto del termine. A differenza di quanto accade con la segnalazione certificata d’inizio di attività, resta fermo il modello del controllo ex ante sulle attività private.

Il regime del silenzio-assenso presenta alcuni difetti strutturali.

In primo luogo, poiché esso può applicarsi anche a provvedimenti discrezionali (quelli vincolati sono sostituiti di regola dalla segnalazione certificata d’inizio di attività), la valutazione di interessi pubblici, di fatto, nei casi di inerzia assoluta dell’amministrazione, non viene operata. Né essa può essere ovviamente demandata al soggetto privato che presenta l’istanza al quale, come si è visto, viene richiesto di autocertificare i presupposti e i requisiti vincolati. L’amministrazione abdica così al proprio ruolo di cura dell’interesse pubblico.

In secondo luogo, dal punto di vista del soggetto privato che ha presentato l’istanza il silenzio-assenso non soddisfa l’esigenza di certezza in relazione allo svolgimento di attività assoggettate a controllo pubblico. Infatti, il privato, formatosi il silenzio-assenso, non è in grado di sapere se dietro l’atteggiamento silenzioso dell’amministrazione si celi un’inerzia assoluta degli uffici (magari, ipotizzando un caso limite, perché il fascicolo si è perso), oppure se una qualche istruttoria con esito tendenzialmente positivo sia stata in realtà compiuta, anche se l’amministrazione non è stata in grado di provvedere nel termine. Pertanto il rischio che l’amministrazione intervenga in autotutela è molto maggiore

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nel caso del silenzio-assenso di quanto non sia il rischio che l’amministrazione annulli un provvedimento espresso positivo.

In definitiva, il silenzio-assenso è una scorciatoia che non giova né all’interesse pubblico né a quello privato e dunque non risolve il problema dei ritardi nella conclusione dei procedimenti amministrativi. Del resto, non a caso, anche la Corte Costituzionale ha individuato, in particolare in materia urbanistica, limiti di ammissibilità del silenzio-assenso allo scopo di contenerne l’ambito di applicazione (Corte Cost. n. 404 del 1997).

6. Procedimenti semplici, complessi, collegati. Il subprocedimento.

In base alle leggi amministrative di settore che li disciplinano, i procedimenti possono avere una struttura semplice o complessa a seconda delle caratteristiche proprie del loro oggetto, del numero e della natura degli interessi pubblici e privati incisi e dunque della necessità di coinvolgere una pluralità di amministrazioni.

Si spazia così da procedimenti autorizzatori nei quali la sequenza procedimentale consiste soltanto in una domanda o istanza presentata dall’interessato, un’istruttoria limitata a poche verifiche documentali e una decisione affidata a un’unica autorità, a procedimenti che richiedono accertamenti fattuali, momenti partecipativi, acquisizione di pareri o di valutazioni tecniche con il coinvolgimento di una molteplicità di amministrazioni statali, regionali e locali (come per esempio la localizzazione e l’approvazione di un progetto di un’opera pubblica come una nuova tratta ferroviaria o autostradale).

I procedimenti a struttura complessa sono spesso articolati all’interno in subprocedimenti sequenziali l’uno rispetto ciascuno avente una unità funzionale in qualche misura autonoma. Talvolta i subprocedimenti si concludono con atti suscettibili di incidere in via immediata su situazioni giuridiche soggettive, in quanto produttivi di effetti esterni che sono diversi e indipendenti rispetto all’effetto giuridico primario riferibile al provvedimento assunto a conclusione dell’intero procedimento.

Così, per esempio, come si vedrà più avanti, il procedimento per la conclusione di un contratto pubblico prevede nelle procedure cosiddette ristrette, cioè su invito della stazione appaltante, una fase o subprocedimento di prequalifica. Esso è volto a individuare, in

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applicazione di requisiti minimi di capacità tecnica e finanziaria definiti dal bando di gara, le imprese poi ammesse alla fase successiva di presentazione e valutazione comparata delle offerte che si conclude con l’aggiudicazione. Inoltre, dopo la conclusione della fase di valutazione delle offerta vi è una fase di verifica delle eventuali offerte anomale (per esempio perché troppo basse) che dà origine a un subprocedimento in contraddittorio che può concludersi anche in questo caso con l’esclusione dall’impresa. La non ammissione alla presentazione di un’offerta al termine della fase di prequalifica e l’esclusione dell’impresa che ha presentato un’offerta anomala a conclusione del subprocedimento di verifica vanno considerati ad un tempo, a secondo dal punto di vista da cui ci si pone, atti endoprocedimentali o provvedimenti autonomi: endoprocedimentali, perché fanno parte della sequenza procedimentale unitaria che dal bando di gara si sviluppa fino al provvedimento finale di aggiudicazione e che ha per oggetto come esito finale complessivo la conclusione di un contratto; provvedimenti autonomi, in quanto producono effetti giuridici negativi immediati nella sfera giuridica del loro destinatario e sono dunque suscettibili di impugnazione autonoma.

Nei procedimenti sanzionatori di competenza dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato (art. 14-ter della legge 10 ottobre 1990, n. 287) l’impresa inquisita ha, come si è già accennato, la possibilità di proporre all’Autorità che ha avviato il procedimento impegni formali atti a rimuovere l’illecito concorrenziale. Se l’Autorità approva gli impegni, attraverso un subprocedimento in contraddittorio aperto anche ad altre imprese concorrenti e più in generale a tutti i terzi interessati, il procedimento si conclude senza ulteriori accertamenti istruttori e senza l’assunzione di un provvedimento sanzionatorio. Se l’Autorità conclude il subprocedimento rigettando gli impegni il procedimento prosegue fino all’emanazione di un provvedimento conclusivo che accerta o meno l’esistenza dell’illecito e irroga, se del caso, la sanzione. Il provvedimento di rigetto degli impegni ha una rilevanza meramente interna e non è suscettibile di impugnazione autonoma da parte dell’impresa che li ha presentati, la quale potrà se mai censurare innanzi al giudice amministrativo tale provvedimento unitamente al provvedimento sanzionatorio eventualmente irrogato. Il provvedimento di accoglimento degli impegni è invece impugnabile da parte di imprese concorrenti che ritengano, per esempio, che le misure non siano in realtà in grado di rimuovere la situazione anticoncorrenziale che le danneggia.

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In realtà, la distinzione tra procedimento e subprocedimento ha carattere relativo e non va enfatizzata. Un punto fermo è che l’unitarietà del procedimento si ha solo là dove nessuno degli atti endoprocedimentali è suscettibile di produrre effetti giuridici autonomi esterni. Per il resto l’autonomia del subprocedimento che si conclude con l’emanazione di un atto idoneo a produrre effetti esterni (diversi da quello principale prodotto dal provvedimento conclusivo) può essere così marcata da poter essere preferibile ricorrere alla nozione di procedimenti autonomi ancorché collegati.

In termini generali, si parla di procedimenti collegati (o connessi) in tutti i casi in cui una pluralità di procedimenti, da avviare in parallelo o in sequenza, sono funzionali a un risultato unitario.

Come esempio di processi collegati avviati in parallelo può essere presa la realizzazione e la messa in opera di un impianto industriale (come un impianto chimico o una centrale elettrica) che presuppone l’ottenimento di una molteplicità di atti autorizzativi previsti per garantire la conformità alle norme urbanistiche, di sicurezza, sanitarie, ambientali, paesaggistiche, ecc. Il collegamento tra questo tipo di procedimenti è di tipo funzionale, nel senso che la conclusione positiva di ciascuno di essi è necessaria per l’avvio di una determinata attività o l’ottenimento di un certo risultato.

Un esempio di procedimenti collegati in sequenza è l’espropriazione per pubblica utilità che si articola in una pluralità procedimenti connessi sotto il profilo teleologico: la conclusione di quello antecedente con un provvedimento autonomo è condizione per l’avvio di quello successivo in vista del risultato finale consistente nel trasferimento coattivo del diritto di proprietà da un soggetto privato all’amministrazione o a un altro soggetto privato. Il Testo unico in materia di espropriazioni (d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327) individua, come si vedrà, le seguenti fasi: l’apposizione del vincolo finalizzato all’esproprio che consegue all’approvazione del piano urbanistico generale o a una variante; la dichiarazione di pubblica utilità; la determinazione dell’indennità di esproprio; l’emanazione del decreto di esproprio.

In aggiunta alle distinzioni sin qui fatte che si riferiscono ai profili strutturali, così come per i provvedimenti amministrativi, anche per i procedimenti sono state proposte in dottrina varie classificazioni, aventi per lo più valore descrittivo.

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Così, per esempio, si possono distinguere i procedimenti di primo grado e i procedimenti di secondo grado. I primi sono finalizzati all’emanazione di provvedimenti amministrativi con effetti esterni e alla cura di un interesse pubblico (come una licenza, un’autorizzazione, una diffida). I secondi hanno invece per oggetto provvedimenti amministrativi già emanati e hanno per scopo la verifica della loro legittimità e compatibilità con l’interesse pubblico.

Rientrano tra questi ultimi i procedimenti di autotutela, come l’annullamento d’ufficio o la revoca, e i ricorsi amministrativi (per esempio, il ricorso gerarchico).

Possono essere inclusi tra i procedimenti di secondo grado anche i controlli sugli atti amministrativi (di legittimità e di merito) affidati a organi esterni all’amministrazione (in particolare la Corte dei conti). In taluni casi i controlli hanno carattere preventivo, nel senso che il loro esito positivo è condizione di efficacia del provvedimento oggetto del controllo. In passato, questi controlli erano molto diffusi, sia per le amministrazioni statali sia, soprattutto, per gli enti locali e sono stati via via soppressi o limitati a pochi atti fondamentali man mano che il principio di autonomia si è fatto strada nel nostro ordinamento amministrativo. Con riferimento a questo tipo di controlli preventivi, in dottrina era frequente enucleare nella sequenza del procedimento una fase eventuale, successiva a quella decisoria, definita come fase di integrazione dell’efficacia del provvedimento adottato.

Un’altra distinzione è tra procedimenti finali e procedimenti strumentali. Mentre i primi sono funzionali alla cura immediata di interessi pubblici nei rapporti esterni con i soggetti privati, i secondi hanno una funzione prevalentemente organizzatoria e riguardano principalmente la gestione del personale e delle risorse finanziarie.

Un’ulteriore distinzione è tra procedimento in senso proprio e procedura interna all’amministrazione. Il primo si riferisce essenzialmente agli atti della sequenza procedimentale che trovano disciplina nella legge o in una fonte normativa in senso proprio (regolamenti). La procedura interna riguarda invece i passaggi procedurali interni all’amministrazione che sono disciplinati da regole di tipo organizzativo o per prassi informali. Così, per esempio, le istanze e domande presentate dai privati vanno registrate in un protocollo interno che dà certezza sulla data di ricezione. La pratica viene poi inoltrata all’ufficio competente che cura gli adempimenti istruttori. I vari uffici interessati, in base alle specifiche mansioni e al livello gerarchico, danno il proprio apporto sotto forma di

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visto, benestare, o annotazione interna. Laddove il provvedimento da adottare comporta oneri finanziari è previsto in genere un visto da parte dell’ufficio di ragioneria o di bilancio.

7. La conferenza di servizi e altre forme di coordinamento.

I procedimenti complessi e i procedimenti collegati esaminati nel paragrafo che precede pongono il problema del coordinamento degli adempimenti e delle tempistiche relative all’adozione dei vari atti riferibili a una pluralità di uffici o di amministrazioni ciascuna titolare di una propria competenza.

La legge n. 241/1990 individua come strumento principale di coordinamento la conferenza di servizi disciplinata nel Capo IV rubricato “Semplificazione amministrativa” con una serie di disposizioni più volte modificate e rese più analitiche negli anni (articoli da 14 a 14-quinquies) nel tentativo di promuovere la funzionalità dell’istituto. Alcune fattispecie di conferenza di servizi, fenomeno emerso nella legislazione amministrativa già prima della l. n. 241/1990, sono disciplinate anche da leggi speciali (specie in materia di opere pubbliche).

Da un punto di vista descrittivo, la conferenza di servizi consiste in una o più riunioni dei rappresentati degli uffici o delle amministrazioni di volta in volta interessate che sono chiamate a confrontarsi e a esprimere il proprio punto di vista e, nel caso di conferenza decisoria, anche a deliberare.

Con la conferenza di servizi viene meno la sequenza lineare degli atti endoprocedimentali attribuiti alla competenza di ciascuna amministrazione. Per ricorrere a un’immagine, la catena procedimentale composta da una pluralità di anelli intrecciati viene fusa in un unico anello che sostituisce i singoli anelli. In sede di conferenza di servizi i rappresentanti delle amministrazioni sono chiamati a un confronto e a operare una valutazione dell’interesse pubblico affidato alla cura di ciascuna di esse, non più in modo isolato, ma in connessione con gli altri interessi pubblici curati dalle altre amministrazioni. Si tratta di una modalità operativa volta, oltre che a promuovere il coordinamento tra le amministrazioni, anche a semplificare lo svolgimento del procedimento e a ridurre i tempi dell’emanazione dei provvedimenti.

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La l. n. 241/1990 distingue tre tipi di conferenza di servizi: istruttoria, decisoria, preliminare.

La conferenza di servizi istruttoria è sempre facoltativa e ha la funzione di promuovere un esame contestuale dei vari interessi pubblici coinvolti in un procedimento singolo (art. 14, comma 1) o in più procedimenti amministrativi connessi riguardanti medesimi attività o risultati (conferenza di servizi interprocedimentale) (art. 14, comma 3).

Nel caso di procedimento singolo, la conferenza di servizi istruttoria, che si conclude con la verbalizzazione delle varie posizioni espresse, serve a raccogliere in un unico contesto e con il confronto di tutti gli uffici interessati gli elementi istruttori utili che saranno posti poi alla base della decisione finale adottata dall’organo competente a emanare il provvedimento finale.

Nel caso di conferenza di servizi interprocedimentale la convocazione è operata di regola dall’amministrazione che cura l’interesse pubblico prevalente. Anche questa conferenza funge da sede per un confronto tra le amministrazioni preliminare all’assunzione da parte di quest’ultime delle proprie determinazioni. E’ da ritenere peraltro che le posizioni espresse in sede di conferenza non possano essere poi disattese, almeno di regola, in base a un principio di coerenza, in sede di emanazione dei singoli atti.

La conferenza di servizi decisoria è un modulo precedimentale volto a sostituire i singoli atti volitivi e valutativi delle amministrazioni competenti a emanare “intese, concerti, nulla osta o assensi comunque denominati”, che devono essere acquisiti per legge da parte dell’amministrazione procedente (art. 14, comma 2). Essa è convocata obbligatoriamente se quest’ultima non riceve i singoli atti entro trenta giorni dalla richiesta oppure quando una delle amministrazioni esprime il proprio dissenso. La conferenza è convocata dall’amministrazione competente ad adottare il provvedimento finale, anche su richiesta del soggetto privato interessato nei casi in cui la conferenza abbia per oggetto atti di tipo autorizzativo che condizionano l’avvio di un’attività (comma 4).

La conferenza di servizi si conclude con un verbale nel quale sono riportate le posizioni espresse da ciascuna amministrazione partecipante. Sulla base del verbale, che, come ha chiarito la giurisprudenza più recente, è ancora un atto a rilevanza interna non impugnabile, l’amministrazione procedente assume una determinazione motivata di

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conclusione del procedimento che “sostituisce a tutti gli effetti ogni autorizzazione, concessione, nullaosta o atto di assenso comunque denominato di competenza delle amministrazioni partecipanti” (art. 14-ter, comma 6-bis).

Sotto il profilo giuridico la conferenza di servizi non dà origine a un organo collegiale in senso proprio a composizione fissa deputato a emanare una determinazione unitaria, ma ogni atto di assenso mantiene la propria autonomia quanto a imputazione all’amministrazione di riferimento. Essa non è inquadrabile neppure nella figura dell’accordo tra pubbliche amministrazioni ex art. 15 della l. n. 241/1990 di cui si dirà tra breve.

I lavori della conferenza di servizi decisoria sono disciplinati da una serie minuta di regole (non tutte ben coordinate), modificate ripetutamente nel tempo sulle modalità di convocazione e di svolgimento, sulla tempistica e sull’assunzione della decisione (artt. 14-ter e 14-quater).

Gli aspetti più rilevanti della disciplina sono due.

Il primo riguarda la partecipazione obbligatoria di tutte le amministrazioni invitate i cui rappresentanti devono essere muniti dei poteri necessari per assumere determinazioni vincolanti. L’assenza alla conferenza dei servizi regolarmente convocata determina un effetto di silenzio-assenso (art. 14-ter, comma 6-bis) in relazione all’atto attribuito alla competenza dell’amministrazione non partecipante. Può far sorgere però responsabilità di vario tipo e altre conseguenze negative a carico dei responsabili.

Il secondo attiene al dissenso manifestato da una o più amministrazioni partecipanti alla conferenza di servizi. A partire dalle modifiche introdotte dalla legge n. 15/2005 è venuto meno il principio dell’unanimità dei consensi previsto nella formulazione originaria della l. n. 241/1990, dati i suoi effetti paralizzanti. Infatti, in questo come in altri contesti, questo principio attribuisce a qualsiasi decisore un potere di veto insuperabile.

Si è optato così per la regola attuale in base alla quale la determinazione finale motivata all’esito della conferenza di servizi adottata dall’amministrazione procedente deve tener conto delle “posizioni prevalenti espresse in quella sede” (art. 14-ter, comma 6-bis). Quest’ultima espressione va intesa in senso qualitativo e non invece in

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quello quantitativo di voto a maggioranza dei partecipanti e consente dunque di superare il dissenso espresso da singole amministrazioni.

Solo quando il dissenso è espresso dai rappresentanti di amministrazioni che curano interessi pubblici ritenuti di rango prioritario (ambientale, paesaggistico, storico-artistico, salute, incolumità) non vale questa regola. Infatti, per superare il dissenso la decisione finale viene rimessa, in ultima analisi, alla sede decisionale di livello più elevato nel nostro ordinamento, vale a dire al Consiglio dei ministri, che in taluni casi, però deve cercare di acquisire l’intesa con le Regioni e gli enti locali interessati (art. 14-quater, comma 2).

La conferenza dei servizi è soprattutto uno strumento di coordinamento tra pubbliche amministrazioni, ma in alcuni casi anche i soggetti privati possono partecipare, senza peraltro diritto di voto (art. 14-ter, comma 2-ter e art. 14-quinquies). Si tratta di un’altra tendenza che si iscrive nella visione collaborativa dei rapporti tra privati e pubblica amministrazione.

La disciplina della conferenza dei servizi decisoria incrina il principio dell’esclusività delle competenze attribuite alle singole amministrazioni, nessuna delle quali è dunque in grado di opporre veti assoluti. Si pone così la questione se le amministrazioni dissenzienti siano legittimate a tutelare le proprie prerogative impugnando innanzi al giudice amministrativo il provvedimento che non tiene conto del loro dissenso. In ogni caso gran parte delle difficoltà che ha incontrato in questi anni la conferenza di servizi decisoria dipendono dalla riluttanza di tante amministrazioni a condividere con altre amministrazioni le proprie competenze.

Il terzo tipo di conferenza di servizi è quella preliminare (art. 14-bis) che può essere convocata su richiesta motivata di soggetti privati interessati a realizzare progetti di particolare complessità o di insediamenti produttivi. Il privato sottopone uno studio di fattibilità alle amministrazioni competenti a rilasciare gli atti autorizzativi, i pareri e le intese ancor prima di presentare formalmente le istanze necessarie.

Il testo unico sull’ordinamento degli enti locali disciplina uno strumento generale di coordinamento analogo alla conferenza di servizi decisoria costituito dall’accordo di programma (art. 34 d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267) promosso, a seconda dei casi, dal presidente della Regione, della provincia o del sindaco. L’accordo in questione, finalizzato alla definizione e attuazione di opere, di interventi o di programmi di

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intervento che coinvolgono una pluralità di amministrazioni, è però retto ancora dal principio del consenso unanime dei partecipanti (comma 4).

In termini ancor più generali la l. n. 241/1990 prevede come strumenti “per disciplinare lo svolgimento in collaborazione attività di interesse comune” gli accordi tra pubbliche amministrazioni (art. 15). A questi accordi si applicano alcune delle regole previste per gli accordi tra privati e pubblica amministrazione di cui all’art. 11 della l. n. 241/1990 (forma scritta, rinvio al codice civile, ecc.). L’oggetto di questo tipo di accordi è definito in modo volutamente generico (“attività di interesse comune”) e consente dunque di essere riferito, su base volontaria, a un’amplissima gamma di situazioni nelle quali le amministrazioni si trovino a interagire.

Molti tipi di accordi (o protocolli d’intesa) più specifici sono previsti nella legislazione amministrativa come strumento di coordinamento bilaterale o plurilaterale paritario. Così, per esempio, le autorità di regolazione nel settore finanziario (Banca d’Italia, Consob, Isvap, ecc.) individuano forme di coordinamento sia attraverso protocolli d’intesa sia attraverso l’istituzione di comitati di coordinamento stabili, sia attraverso una riunione annuale di tutte le autorità (art. 20 della legge 28 dicembre 2005, n. 262).

Nella legislazione recente sta emergendo un altro strumento per attuare un coordinamento tra una pluralità di amministrazioni competenti a emanare atti di assenso necessari per lo svolgimento di particolari attività. Si tratta del modello della cosiddetta autorizzazione unica, nella quale confluiscono i singoli atti di assenso.

Un esempio di autorizzazione unica è quello relativo alla costruzione e all’esercizio di impianti di produzione di energia elettrica alimentati da fonti rinnovabili (art. 12 del d.lgs. 29 dicembre 2003, n. 387). L’autorizzazione unica è attribuita alla competenza della Regione (o della provincia su delega) la quale convoca una conferenza di servizi entro trenta giorni dal ricevimento della domanda di autorizzazione. L’autorizzazione deve essere rilasciata nel rispetto delle normative vigenti in materia di tutela dell’ambiente, del paesaggio, del patrimonio storico-artistico e può costituire anche variante allo strumento urbanistico. Essa è rilasciata “a seguito di un procedimento unico al quale partecipano tutte le amministrazioni interessate” (comma 4).

Più in generale, nel corso dei vari tentativi di semplificazione e di snellimento delle procedure attuati negli ultimi anni attribuendo al

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Governo deleghe legislative assai ampie, si è individuato come criterio per l’adozione dei regolamenti la “riduzione del numero di procedimenti amministrativi e accorpamento dei procedimenti che si riferiscono alla medesima attività” (art. 20, comma 4, lett. d) della legge 15 marzo 1997, n. 59).

Uno strumento organizzativo introdotto per rendere più agevole il coordinamento e semplificare i rapporti tra amministrazioni e soggetti privati è il cosiddetto sportello unico, cioè in un ufficio istituito con la funzione specifica di far da tramite tra questi ultimi e i vari uffici e amministrazioni competenti a emanare gli atti di assenso, i pareri e le valutazioni di volta in volta necessarie.

Così, per esempio, lo sportello unico per l’edilizia si rapporta con tutti gli uffici comunali e con le altre amministrazioni competenti in relazione all’intervento edilizio in relazione al quale il privato ha proposto la richiesta di permesso a costruire o presentato una segnalazione certificata d’inizio di attività (art. 5 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380). L’ufficio in questione istituito a livello comunale provvede alla ricezione della domanda del privato, a fornire tutte le informazioni necessarie in ordine agli adempimenti richiesti, a esaminare le eventuali istanze di accesso ai documenti amministrativi, a curare i rapporti con altre amministrazioni, al rilascio del certificato di agibilità, previa acquisizione del parere dell’azienda sanitaria locale e dei vigili del fuoco, a convocare la conferenza di servizi. Un altro esempio è lo sportello unico per le attività produttive che ha la funzione di agevolare l’impresa nell’ottenimento di tutte le autorizzazioni necessarie (art. 25del d.lgs 31 marzo 1998, n. 112 e d.P.R. 20 ottobre 1998, n. 447).

A livello comunitario, lo sportello unico è previsto dalla direttiva 2006/123/CE relativa ai servizi nel mercato interno come punto di contatto mediante il quale i prestatori di servizi possono presentare tutte le domande di autorizzazione e svolgere le altre formalità necessarie (inserimento in registri, ruoli banche dati, ecc.) per poter intraprendere un’attività (art. 6).

Per poter operare in modo efficace, il modello dello sportello unico presuppone una riorganizzazione complessiva degli uffici e delle amministrazioni che ponga al centro le esigenze del privato che si rivolge per avviare uno o più procedimenti collegati.

8. Tipi di procedimenti: a) l’espropriazione per pubblica utilità.

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Nel Cap. IV dedicato al provvedimento amministrativo è stata posta una distinzione tra due macrocategorie di provvedimenti amministrativi e cioè quelli produttivi di effetti limitativi della sfera giuridica del destinatario e quelli produttivi di effetti ampliativi della sfera giuridica del destinatario. Sono stati fatti alcuni esempi di provvedimenti rientranti nelle due macrocategorie ponendo in evidenza il regime sostanziale.

Si è anche osservato che nei procedimenti che si concludono con provvedimenti del primo tipo il privato è titolare di un interesse legittimo oppositivo e la dinamica del rapporto giuridico amministrativo è di contrapposizione e assume rilievo preminente la garanzia del contraddittorio; nei procedimenti che si concludono con provvedimenti del secondo tipo il privato è titolare di un interesse legittimo pretensivo e la dinamica del rapporto giuridico amministrativo ha un carattere collaborativo.

Il diverso tipo di dinamica si riflette sulla struttura del procedimento perché il soggetto privato, in relazione ai provvedimenti del primo tipo, tende a utilizzare la partecipazione al procedimento allo scopo di contrastare l’azione intrapresa dall’amministrazione; in relazione ai provvedimenti del secondo tipo, in sede di presentazione della domanda o successivamente in sede di integrazione documentale, introduce nel procedimento tutti gli elementi volti a indurre l’amministrazione a concludere il procedimento con l’emanazione di un provvedimento favorevole.

Può essere a questo punto opportuno analizzare, all’interno della casistica amplissima posta dalle leggi amministrative di settore, alcuni esempi di procedimenti funzionali all’emanazione di provvedimenti rientranti nelle due macrocategorie, iniziando dalla prima.

Il procedimento espropriativo è uno dei primi procedimenti che storicamente è stato assoggettato a una disciplina legislativa articolata. Ciò attesa la sua incidenza su uno dei diritti considerati più rilevanti, come quello di proprietà e la conseguente necessità di circondare l’esercizio del potere di una serie di garanzie a favore del soggetto privato. Inizialmente la disciplina generale venne posta nella legge 25 giugno 1865, n. 2359 “Espropriazioni forzate per causa di utilità pubblica” emanata all’indomani dell’unificazione nazionale. Essa è richiamata costituzionale nell’art. 42, terzo comma, della Costituzione che pone l’obbligo dell’indennizzo. In epoca più recente intervenne la legge

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22 ottobre 1971, n. 865 che configurava, a seconda della competenza statale o regionale e della tipologia dell’opera, quattro diverse procedure espropriative.

Oggi la materia è stata riordinata nel Testo unico in materia di espropriazioni (d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327) che ha operato una unificazione dei procedimenti, prevedendo, come si è fatto cenno, quattro fasi necessarie: l’apposizione del vincolo finalizzato all’esproprio che consegue all’approvazione del piano urbanistico generale o a una variante; la dichiarazione di pubblica utilità; la determinazione dell’indennità di esproprio; l’emanazione del decreto di esproprio. Il Testo unico disciplina anche gli istituti della cessione volontaria del bene, dell’occupazione preordinata all’esproprio e la retrocessione.

Il Testo unico enuncia anzitutto il principio di legalità precisando che l’espropriazione “può essere disposta nei soli casi previsti dalle leggi o dai regolamenti (art. 2, primo comma).

Il potere espropriativo è attribuito a tutte le amministrazioni (Stato, regioni, comuni) competenti a realizzare un’opera pubblica (art. 6). Il potere in questione è dunque un potere per così dire “diffuso” (mentre in passato esso era attribuito in termini generali al Prefetto e al Presidente della Giunta Regionale) e accessorio (cioè funzionale alla realizzazione dell’opera pubblica). In alcuni casi l’iniziativa può partire anche da un soggetto privato a favore del quale viene emesso il decreto di esproprio e che, proprio per questo, è tenuto al pagamento dell’indennità.

L’apposizione del vincolo preordinato all’esproprio instaura un collegamento tra l’attività di pianificazione del territorio e il procedimento espropriativo. Il vincolo può sorgere all’esito delle procedure di pianificazione urbanistica ordinarie o speciali (per esempio una variante al piano urbanistico) o in seguito all’atto di approvazione di un progetto preliminare o definitivo di un’opera pubblica.

L’apposizione del vincolo è circondata da alcune garanzie. E’ infatti prevista la partecipazione dei proprietari ai quali deve essere inviato con un congruo anticipo un avviso di avvio del procedimento affinché essi possano formulare nei trenta giorni successivi le proprie osservazioni (art. 11). L’avviso deve essere comunicato personalmente agli interessati o, allorché il numero dei destinatari sia superiore a 50, la comunicazione deve essere fatta mediante pubblico avviso da affiggere all’albo pretorio dei Comuni e pubblicato su uno o più quotidiani a

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diffusione nazionale e locale e su siti informatici della Regione allo scopo di garantire il massimo di pubblicità.

Il vincolo preordinato all’esproprio ha la durata di cinque anni ed entro questo termine deve intervenire la dichiarazione di pubblica utilità (art. 9, comma 2). Esso costituisce già un atto impugnabile innanzi al giudice amministrativo in quanto già produttivo di effetti giuridici nei confronti dei proprietari.

La dichiarazione di pubblica utilità costituiva in passato una fase fondamentale nel procedimento di esproprio essendo volta ad accertare la conformità di una certa opera da realizzare all’interesse pubblico, così da legittimare il trasferimento coattivo del diritto di proprietà dei terreni sui quali è prevista la costruzione dell’opera. Molte leggi speciali hanno tuttavia dequotato questa fase ritenendola per così assorbita e inclusa in altri atti. In molti casi infatti la dichiarazione di pubblica utilità è implicita, nel senso che costituisce uno degli effetti prodotti da alcuni atti come l’approvazione del progetto definitivo di un’opera pubblica oppure l’approvazione di un piano particolareggiato o di lottizzazione (art. 12). Si ritiene infatti che con questi atti risulti in re ipsa accertato l’interesse pubblico alla realizzazione dell’opera. La dichiarazione di pubblica utilità ha a sua volta un’efficacia temporalmente limitata (cinque anni, suscettibili di proroga, oppure il diverso termine apposto nella dichiarazione) (art. 13) e prima della scadenza del termine deve intervenire il decreto di esproprio. La scadenza del termine comporta l’inefficacia della dichiarazione di pubblica utilità.

Il decreto di esproprio, che conclude il procedimento espropriativo, determina il trasferimento del diritto di proprietà dal soggetto espropriato al soggetto nel cui interesse il procedimento è stato avviato. A questo effetto si aggiunge anche l’estinzione automatica di tutti i diritti reali o personali gravanti sul bene espropriato, salvo quelli compatibili con i fini cui l’espropriazione è preordinata (art. 24). In base al Testo unico, che sul punto innova rispetto al regime precedente, l’efficacia del provvedimento è subordinata a due condizioni sospensive. Infatti, l’effetto traslativo si produce in seguito alla notifica e alla esecuzione del decreto che deve avvenire nel termine perentorio di due anni mediate l’immissione in possesso del beneficiario dell’esproprio (art. 23 lett. f) e art. 24).

Il decreto di esproprio deve indicare l’importo dell’indennità determinato in via provvisoria. Quest’ultimo è quantificato all’esito di una fase in contraddittorio con gli interessati. Infatti, non appena sia divenuta efficace la dichiarazione di pubblica utilità, il promotore della

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procedura espropriativa formula ai proprietari un’offerta (art. 20). Questi ultimi, assistiti eventualmente anche da propri tecnici di fiducia, possono indicare quale sia il valore da attribuire al bene ai fini della determinazione dell’indennità. L’autorità procedente, valutate le osservazioni degli interessati, determina in via provvisoria la misura dell’indennità. I privati nei trenta giorni successivi possono comunicare all’autorità espropriante una dichiarazione irrevocabile di assenso rispetto alla proposta. In questa ipotesi il beneficiario dell’espropriazione e il proprietario possono stipulare la cessione volontaria del bene, con il pagamento immediato dell’indennità concordata. Se il privato non accetta la proposta o comunque decorsi inutilmente trenta giorni dalla notifica dell’atto che determina l’indennità provvisoria, l’autorità espropriante emana il decreto di esproprio e deposita l’indennità provvisoria rifiutata presso la Cassa deposti e prestiti.

Da questo momento in poi il procedimento per la determinazione in via definitiva dell’indennità ha uno svolgimento autonomo, con un’ulteriore fase di contraddittorio con il privato, anche con l’ausilio di un tecnico di fiducia. Il procedimento prevede, in ultima battuta, l’intervento di una Commissione provinciale istituita presso l’ufficio tecnico erariale che procede alla determinazione definitiva dell’indennità (art. 21). A questo punto il proprietario che intenda contestare quest’ultima può avviare un procedimento innanzi alla Corte d’Appello per ottenere una determinazione in via giudiziale dell’indennità, procedimento che deve essere instaurato entro trenta giorni dalla notifica del decreto di esproprio o della stima peritale (art. 54).

Il procedimento di esproprio è espressione di un potere tipicamente unilaterale. Tuttavia da sempre l’ordinamento tende a favorire soluzioni consensuali attraverso l’istituto della cessione volontaria del bene. Quest’ultima è configurata come un diritto soggettivo dell’espropriando nei confronti del beneficiario dell’espropriazione che può essere esercitato fino alla data in cui è eseguito il decreto di esproprio (art. 45). I vantaggi per l’espropriando sono essenzialmente di tipo pecuniario, visto che il prezzo di cessione è commisurato all’indennità di esproprio con alcune maggiorazioni. L’accordo di cessione produce gli effetti del decreto di esproprio.

In definitiva, il procedimento di espropriazione si caratterizza per la presenza in tutte le fasi in cui esso articolato di garanzie del contraddittorio con gli interessati.

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La vicenda espropriativa può dar luogo al fenomeno, cui si è fatto cenno in precedenza, dei procedimenti collegati in parallelo. Infatti, una volta avviato il procedimento di espropriazione e, più precisamente, subito dopo che sia intervenuta la dichiarazione di pubblica utilità e prima della emanazione del decreto di esproprio, l’amministrazione può acquisire immediatamente la disponibilità materiale del bene, allo scopo di procedere subito ai lavori per la realizzazione dell’opera pubblica. L’amministrazione può cioè avviare un procedimento autonomo e, appunto, parallelo, di occupazione d’urgenza (art. 22-bis).

Ciò può avvenire in tre ipotesi: allorché l’amministrazione ritenga che l’avvio dei lavori rivesta caratteri di urgenza tale da non consentire il perfezionamento del procedimento ordinario; in relazione ai progetti delle grandi opere pubbliche previste dalla cosiddetta legge obiettivo (legge 21 dicembre 2001, n. 443) per le quali l’urgenza è già accertata per legge; allorché la procedura espropriativa riguardi più di 50 proprietari. Anche il procedimento di occupazione d’urgenza si svolge in contraddittorio con i proprietari interessati nella fase di immissione nel possesso dei beni.

Un ultimo accenno va fatto alla retrocessione dei beni espropriati prevista sin dall’origine dalla legge del 1865 e confermata dal Testo unico in vigore come un’ulteriore garanzia del diritto di proprietà nei confronti di un uso inappropriato del potere espropriativo. Il fondamento dell’istituto è che il diritto di proprietà può essere sacrificato solo nella misura strettamente necessaria per conseguire le finalità di pubblico interesse.

La retrocessione consiste infatti nel diritto del soggetto espropriato di riacquistare la proprietà del bene nei casi in cui l’opera pubblica non viene realizzata o non tutto il bene espropriato viene utilizzato. La retrocessione totale può avvenire nei casi in cui l’opera pubblica non sia stata realizzata o cominciata nel termine di dieci anni dall’esecuzione del decreto di espropriazione o anche prima allorché risulti l’impossibilità della sua esecuzione (art. 46). L’espropriato può richiedere la restituzione integrale del bene e il pagamento di una somma a titolo di indennità. La retrocessione parziale può essere richiesta per le parti del bene espropriato che non siano state utilizzate una volta realizzata l’opera pubblica (art. 47). Il Comune ha tuttavia un diritto di prelazione sull’area inutilizzata che, ove esercitata, viene acquisita al patrimonio indisponibile dell’ente territoriale (art. 48, terzo comma).

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Il corrispettivo a carico del soggetto che richiede la retrocessione è determinato tra le parti e in caso di mancato accordo può essere instaurata la stessa procedura prevista per la determinazione dell’indennità di esproprio innanzi alla Commissione provinciale.

9. Segue: b) le sanzioni pecuniarie e disciplinari.

Nel Cap. III tra i provvedimenti restrittivi della sfera giuridica dei destinatari sono già stati individuati (e classificati) i provvedimenti sanzionatori. Il procedimento per l’irrogazione delle sanzioni, al pari di quello espropriativo, è caratterizzato dall’attenzione particolare alle garanzie del contraddittorio.

Il procedimento per l’irrogazione delle sanzioni di tipo pecuniario è disciplinato in termini generali dalla legge 24 novembre 1981, n. 689 che distingue alcune fasi essenziali.

A monte dell’apertura del procedimento, vi è anzitutto la fase dell’accertamento che consiste in un’attività di raccolta e di prima valutazione di elementi di fatto suscettibili di integrare una fattispecie di illecito amministrativo. Questa attività preprocedimentale, che può consistere in assunzione di informazioni, rilievi segnaletici, descrittivi e fotografici, ispezioni di cose e luoghi (diversi dalla dimora privata) e altre operazioni tecniche, è effettuata a cura di agenti accertatori individuati nelle normative di settore, come gli agenti e ufficiali di polizia giudiziaria e gli organi amministrativi addetti al controllo sull’osservanza delle disposizioni per la cui violazione è prevista una sanzione pecuniaria (art. 13).

In alcuni casi le attività di accertamento avvengono in contraddittorio. Così, in particolare, nel caso di analisi tecniche di campioni l’interessato può chiedere la revisione dell’analisi effettuata dal dirigente del laboratorio indicando anche un proprio consulente tecnico (art. 15).

Le attività poste in essere e le risultanze delle medesime confluiscono in un processo verbale redatto dall’agente accertatore e che fa piena prova fino a querela di falso in relazione agli elementi fattuali oggettivi (non invece in relazione alle valutazioni preliminari operate dall’agente).

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Sulla base dell’accertamento, l’amministrazione procede alla contestazione dell’illecito al trasgressore. Ove possibile la contestazione deve essere immediata e in ogni caso essa deve essere notificata nel termine di novanta giorni dall’accertamento (art. 14), un termine avente natura perentoria poiché il suo decorso determina l’estinzione dell’obbligazione del pagamento della somma dovuta. L’immediatezza o il termine breve per la contestazione costituiscono una prima garanzia per l’interessato, perché il decorso di un lungo lasso di tempo può rendergli più difficoltosa la ricostruzione esatta dei fatti e l’individuazione di elementi a difesa.

La contestazione deve indicare con sufficiente precisione gli elementi di fatto suscettibili di essere sussunti in una fattispecie sanzionatoria, in modo tale che il contraddittorio instaurato risulti ben focalizzato.

Entro trenta giorni dalla data della contestazione o notificazione della violazione, gli interessati possono presentare scritti difensivi e documenti. Possono anche chiedere di essere sentiti personalmente dall’autorità amministrativa (art. 18, primo comma). La garanzia del contraddittorio orale non è invece prevista in termini generali, come si è visto, dalla legge n. 241/1990.

L’autorità procedente, ove ritenga accertata la violazione all’esito della valutazione di tutti gli elementi istruttori e dell’eventuale audizione orale, emana un’ordinanza-ingiunzione, cioè un provvedimento motivato che determina l’ammontare della sanzione pecuniaria e ingiunge al trasgressore il pagamento della medesima, insieme con le spese, entro un termine di trenta giorni. In caso contrario l’autorità dispone l’archiviazione con ordinanza motivata comunicata all’organo che ha redatto il rapporto (art. 18). L’ordinanza-ingiunzione può irrogare, a seconda dei casi, anche sanzioni accessorie come, per esempio, la confisca di cose il cui uso, porto, detenzione o alienazione costituisce violazione amministrativa (art. 20) oppure la sospensione di una licenza (art. 21, ultimo comma).

Il pagamento deve essere effettuato nel termine di trenta giorni dalla notificazione del provvedimento. L’ordinanza-ingiunzione costituisce titolo esecutivo.

Contro l’ordinanza-ingiunzione può essere proposta opposizione innanzi al giudice ordinario (giudice di pace o tribunale) entro un termine di trenta giorni dalla notificazione del provvedimento. La giurisdizione

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del giudice ordinario si giustifica ove si ritenga che la situazione giuridica soggettiva del soggetto nei cui confronti viene irrogata la sanzione abbia la consistenza di un diritto soggettivo e che la vicenda sanzionatoria, attesa la natura vincolata del potere, possa essere sussunta nella categoria delle obbligazioni pubbliche ex lege, cioè, per riprendere distinzioni operate nel terzo capitolo, secondo lo schema norma-fatto-effetto giuridico. Di conseguenza l’oggetto del giudizio innanzi al giudice ordinario non consiste tanto nell’accertamento della legittimità dell’ordinanza-ingiunzione, quanto nell’accertamento dei presupposti di fatto e di diritto della violazione e, di conseguenza della sussistenza della pretesa creditoria dell’amministrazione e del correlato obbligo al pagamento della somma di danaro in capo al trasgressore.

La legge n. 689/1981 sin qui considerata costituisce una legge generale. Essa però subisce di frequente deroghe nelle discipline di settore. Per esempio, molte di esse modificano la durata dei termini, oppure non prevedono la garanzia del contraddittorio orale, escludono l’applicazione dell’istituto dell’oblazione, affidano le controversie alla giurisdizione del giudice amministrativo (in particolare per le sanzioni irrogate dalle autorità amministrative indipendenti).

La legge n. 689/1981 si pone in una relazione di specialità rispetto alla l. n. 241/1990. Essa contiene cioè un sistema organico e compiuto di norme che è autosufficiente, nel senso che non richiede integrazioni esterne da parte della l. n. 241/1990.

Tra le norme speciali contenute nelle discipline di settore, merita di essere richiamata la regola, caratteristica, come si è accennato, dell’Administrative Procedure Act statunitense, che impone una distinzione di tipo organizzativo tra funzioni istruttorie e funzioni decisionali. Esse devono essere affidate a uffici o organi distinti in modo tale che l’organo compente ad assumere la determinazione finale si ponga in qualche misura in posizione di terzietà tra l’ufficio che istruisce il procedimento sanzionatorio e il soggetto al quale si imputa l’illecito. Tutto ciò come ulteriore garanzia del contraddittorio. Questa regola è stata introdotta per le Autorità amministrative indipendenti operanti in particolare nel settore finanziario (Banca d’Italia, Consob, Isvap) ed è stata attuata in una disciplina di dettaglio nei regolamenti approvati da ciascuna di esse (art. 24 della legge sul risparmio 28 dicembre 2005, n. 262).

Una specie di sanzioni amministrative è costituita, come si è accennato nel terzo capitolo, dalle sanzioni disciplinari previste anzitutto

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per i dipendenti delle pubbliche amministrazioni, ma anche per altri soggetti sottoposti a regimi speciali e poteri di vigilanza attribuiti ad apparati pubblici (per esempio, il promotori finanziari vigilati dalla Consob, oppure i professionisti iscritti ad albi o registri pubblici). Anche i procedimenti per l’irrogazione delle sanzioni disciplinari, ora in gran parte assoggettati a una disciplina privatistica in tutti i casi in cui il dipendente non rientri nelle categorie sottratte alla privatizzazione, prevedono ampie garanzie del contraddittorio.

Così, in particolare, il d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 recante “Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni” prevede che il dirigente dell’ufficio o, per le sanzioni più gravi l’ufficio competente per i procedimenti disciplinari che vengano a conoscenza di comportamenti illeciti di un dipendente pubblico devono contestare per iscritto l’addebito “senza indugio e comunque non oltre venti giorni” (art. 55-bis, comma 2). Il dipendente è convocato con un preavviso di dieci giorni per esercitare il proprio diritto di difesa con l’eventuale assistenza di un procuratore o di un rappresentante di un’associazione sindacale (art. 55-bis, comma 2). Il dipendente può decidere di non presentarsi e può inviare una memoria scritta. L’amministrazione procede, ove necessario, a un’ulteriore attività istruttoria, per esempio assumendo informazioni anche presso altre pubbliche amministrazioni o acquisendo documenti. Il procedimento si conclude con l’archiviazione o con l’irrogazione della sanzione (rimprovero scritto, sospensione temporanea dal servizio, licenziamento), entro 60 giorni dalla contestazione dell’addebito. I termini sopra indicati hanno carattere perentorio, nel senso che il loro superamento determina la decadenza dall’azione disciplinare e per il dipendente dall’esercizio del diritto di difesa.

Le sanzioni disciplinari possono essere impugnate dal dipendente davanti al giudice ordinario previo esperimento di un tentativo obbligatorio di conciliazione presso un collegio di conciliazione istituito presso la Direzione provinciale del lavoro o attraverso altre procedure eventualmente previste nei contratti collettivi nazionali (art. 63 e seg.). Nel caso di sanzioni irrogate a dipendenti esclusi dal regime di privatizzazione, la giurisdizione è del giudice amministrativo.

10. Segue: c) le autorizzazioni. Il permesso a costruire.

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I provvedimenti autorizzatori sono disciplinati sotto il profilo procedurale dalle singole leggi di settore.

Una disciplina avente un carattere più generale è prevista per le autorizzazioni che ricadono nel campo di applicazione della direttiva 2006/123/CE relativa ai servizi nel mercato interno alla quale si è già fatto riferimento e che enuncia principi analoghi quelli posti dalla l. n. 241/1990.

La direttiva pone anzitutto il principio secondo il quale le procedure e le formalità per l’accesso a un attività di servizi devono essere “sufficientemente semplici” (art. 5). La Commissione europea può anche stabilire formulari armonizzati a livello comunitario. Gli Stati membri devono istituire, come si è accennato, sportelli unici presso i quali gli interessati possono espletare tutte le procedure (art. 6) e acquisire tutte le informazioni (art. 7). Deve essere garantita la possibilità di espletare gli adempimenti a distanza e per via elettronica (art. 8).

Le procedure e le formalità “devono essere chiare, rese pubbliche preventivamente e tali da garantire ai richiedenti che la loro domanda sarà trattata con obiettività e imparzialità” (art. 13). Non devono essere dissuasive e tali da complicare o ritardare indebitamente la prestazione del servizio. Gli oneri che possono derivare per i richiedenti devono essere ragionevoli e commisurati ai costi delle procedure di autorizzazione.

La domanda di autorizzazione deve essere trattata con la massima sollecitudine e comunque entro “un termine di risposta ragionevole prestabilito e reso pubblico preventivamente” (art. 13, comma 3). La mancata risposta entro il termine stabilito fa scattare il silenzio assenso (art. 13, comma 4). Solo in presenza di un motivo imperativo di interesse generale le leggi di settore possono escluderlo introducendo un regime del silenzio-inadempimento.

Ogni domanda di autorizzazione deve essere oggetto di una ricevuta inviata al richiedente e contenente una serie di informazioni relative al termine di conclusione del procedimento, ai mezzi di ricorso esperibili, all’eventuale applicazione della regola del silenzio-assenso. Se una domanda è incompleta, i richiedenti sono informati quanto prima della necessità di presentare ulteriori documenti.

Un esempio di procedimento autorizzatorio che merita di essere preso in esame in modo più particolareggiato è quello relativo al rilascio

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permesso a costruire disciplinato dal Testo unico in materia edilizia approvato con d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (art. 20).

Il procedimento si apre con la presentazione allo sportello unico per l’edilizia del Comune di una domanda sottoscritta, di regola, dal proprietario. La domanda deve essere corredata da un’attestazione concernente il titolo di legittimazione, dagli elaborati progettuali, da altra documentazione tecnica (per esempio, la relazione relative alle strutture in cemento armato). Nel caso in cui si tratti di un intervento di edilizia residenziale è richiesta anche un’autocertificazione circa la conformità del progetto alle norme igienico-sanitarie.

Entro dieci giorni lo sportello unico comunica al richiedente il nominativo del responsabile del procedimento. Quest’ultimo cura l’istruttoria acquisendo i pareri degli uffici comunali, nonché altri pareri come quello dell’Azienda sanitaria locale e dei vigili del fuoco. Se sono richiesti altri atti di assenso a cura di amministrazioni diverse il responsabile del procedimento convoca una conferenza dei servizi. Tali atti di assenso, includono variamente, a seconda dei casi, l’autorizzazione e certificazione regionale per le costruzioni in zone sismiche, l’assenso dell’amministrazione militare per le costruzioni contigue a zone di salvaguardia contigue a opere di difesa dello Stato, l’autorizzazione del Ministero dei Beni culturali per gli interventi su immobili vincolati (per esso la Soprintendenza territorialmente competente), il parere dell’autorità competente in materia di vincolo idrogeologico, ecc. (art. 5, comma 4).

All’esito dell’istruttoria, entro sessanta giorni dalla presentazione della domanda, il responsabile del procedimento, valutata la conformità del progetto a tutta la normativa applicabile al caso concreto (anzitutto agli strumenti di pianificazione urbanistica e il regolamento edilizio), formula una proposta al dirigente del servizio il quale nei successivi quindici giorni rilascia il permesso a costruire. Della determinazione è dato avviso pubblico mediante affissione all’albo pretorio.

Decorsi i termini sopramenzionati “si intende formato il silenzio-rifiuto” (art. 20, comma 9). L’interessato può a questo punto proporre un ricorso in sede giurisdizionale. In alternativa può richiedere, con un’istanza formale avente valore di diffida, che il dirigente si pronunci entro quindici giorni. Decorso inutilmente anche questo termine, l’interessato può richiedere alla Regione l’esercizio del potere sostitutivo con la nomina di un commissario ad acta che provvede nel termine di sessanta giorni.

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In materia edilizia, molti interventi di minor impatto sono assoggettati a regimi semplificati di segnalazione certificata d’inizio di attività (art. 22 e seg.).

11. Segue: d) I procedimenti concorsuali. L’accesso agli impieghi pubblici.

Le pubbliche amministrazioni sono sempre più spesso enti erogatori di danaro e di altre utilità che vengono messe a disposizione dei soggetti privati. Peraltro in molti casi le risorse e i beni attribuibili sono limitati. Hanno cioè, riprendendo il lessico degli economisti, il carattere della scarsità: coloro che ambiscono ad acquisirli sono in numero superiore rispetto alle quantità disponibili. Si pensi, per esempio, all’assegnazione di alloggi di edilizia economica popolare, alla concessione di uso esclusivo di un bene demaniale (la spiaggia su cui insiste uno stabilimento balneare, un’area pubblica su cui insediare un chiosco, ecc.), all’attribuzione di bande di radiofrequenze, all’accesso agli impieghi pubblici, alle commesse pubbliche sotto forma di contratti di acquisto di beni o servizi o per l’esecuzione di lavori pubblici stipulati dall’amministrazione. In tutti questi casi la platea delle persone o imprese potenzialmente interessate eccede di regola la disponibilità dei beni.

Si pone allora per l’amministrazione il problema di come scegliere tra più aspiranti allo stesso bene o utilità. Alcune indicazioni provengono già dalla Costituzione e dal diritto comunitario.

Per l’accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e più in generale agli uffici pubblici, gli art. 51, comma 1, e art. 97, comma 3, pongono rispettivamente il principio di eguaglianza e il principio del concorso pubblico. Del resto, già all’epoca della rivoluzione francese, l’art. 6 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino approvata dall’Assemblea costituente nel 1789 enunciava il principio di eguaglianza e del merito per l’accesso agli impieghi pubblici.

La direttiva 2006/123/CE relativa ai servizi nel mercato interno più volte citata dispone che quando il numero di autorizzazioni disponibili per una determinata attività sia limitato a causa della scarsità delle risorse naturali o delle capacità tecniche utilizzabili, gli Stati membri “applicano una procedura di selezione tra i candidati potenziali, che presenti garanzie di imparzialità e di trasparenza e preveda, in particolare,

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un’adeguata pubblicità dell’avvio della procedura e del suo svolgimento e completamento” (art. 12). L’autorizzazione così rilasciata deve avere una durata limitata e deve escludere il rinnovo automatico, ciò affinché possa essere avviata una nuova procedura selettiva.

Sulla scorta delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE relative ai contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, il Codice dei contratti pubblici approvato con D.lgs. 12 aprile 2006, n. 163 include tra i principi generali quello secondo il quale le procedure per l’affidamento dei contratti devono rispettare “i principi di libera concorrenza, parità di trattamento, non discriminazione, trasparenza, proporzionalità, nonché quello di pubblicità” (art. 2).

Sempre in termini generali, la l. n. 241/1990, come si è visto, prevede che la concessione di sovvenzioni, contributi, sussidi ed ausili finanziari e l’attribuzione di vantaggi economici di qualsiasi genere sono subordinate alla predeterminazione e alla pubblicazione da parte delle amministrazioni procedenti dei criteri e delle modalità cui esse devono attenersi (art. 12).

In definitiva, i procedimenti di tipo competitivo o concorsuale hanno la funzione specifica di selezionare gli aspiranti a una risorsa scarsa in base ad alcuni principi generali: il principio di pubblicità, che consente a tutti i potenziali interessati di aver notizia della procedura che sta per essere avviata; il principio di parità di trattamento (di non discriminazione o della par condicio) che mira a porre sullo stesso piano tutti gli aspiranti; il principio di trasparenza della procedura, che consente un controllo sulla corretta applicazione dei criteri di selezione; il principio di oggettività dei criteri, che fa prediligere, là dove possibile, parametri di riferimento che non lasciano spazi di discrezionalità, o che comunque tende a promuovere la non arbitrarietà dei giudizi valutativi e della formulazione delle graduatorie.

Un primo esempio di questa tipologia di procedimenti è anzitutto il concorso per l’accesso agli impieghi pubblici che costituisce la modalità principale per il reclutamento del personale alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni. La disciplina generale è contenuta nell’art. 35 del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 e per quanto riguarda i concorsi statali nel regolamento approvato con d.P.R.9 maggio 1994, n. 487.

Le fasi del procedimento sono essenzialmente quattro: l’avvio della procedura; l’ammissione delle domande di partecipazione; la fase istruttoria-valutativa; la fase decisionale.

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L’avvio della procedura avviene a cura di ciascuna amministrazione nell’ambito della programmazione triennale del fabbisogno di personale, attraverso un provvedimento di indizione del concorso e la pubblicazione di un bando.

Il bando di concorso contiene una serie di informazioni aventi per oggetto i requisiti per la partecipazione, il termine e le modalità di presentazione delle domande, la tipologia delle prove scritte, orali ed eventualmente pratiche, il calendario delle prove, il punteggio minimo per l’ammissione alle prove orali, i titoli di studio e professionali che danno diritto a un punteggio o alla precedenza o preferenza in caso di parità di punteggio ove si tratti di un concorso per titoli ed esami (art 3 del cit. d.P.R. n. 487/1994). Il bando è pubblicato di regola nella Gazzetta Ufficiale e con altre modalità atte a garantire la massima diffusione della notizia. Esso costituisce la lex specialis della procedura, che vincola l’amministrazione nelle fasi di svolgimento delle prove e della valutazione e la cui violazione rende illegittimi gli atti adottati.

Le domande di partecipazione, redatte in carta semplice di frequente sulla base di moduli allegati al bando, devono essere inviate o presentate entro trenta giorni dalla pubblicazione del bando (art. 4). Le domande vengono esaminate dall’amministrazione che ha indetto il concorso allo scopo di valutarne l’ammissibilità in relazione ai requisiti generali e speciali richiesti dalla normativa e dal bando (per esempio, i titoli di studio, i requisiti di età, ecc.). La mancata ammissione alla procedura concorsuale costituisce provvedimento impugnabile dal singolo candidato innanzi al giudice amministrativo. Ove venga richiesta e accolta la domanda cautelare, il candidato escluso viene ammesso alla procedura con riserva.

Allo scopo di garantire imparzialità e competenza, l’amministrazione affida la fase istruttoria-valutativa a una commissione esaminatrice composta “da tecnici esperti nelle materie oggetto del concorso, scelti fra funzionari delle amministrazioni, docenti ed estranei alle medesime”. Non possono comunque farne parte gli organi di direzione politica dell’amministrazione o chi ricopra cariche politiche o sindacali (art. 9), ciò a garanzia dell’imparzialità e oggettività dei giudizi. La commissione può essere suddivisa in più sottocommissioni nel caso di concorsi con numero elevato di candidati (oltre i mille).

La commissione è preposta allo svolgimento delle prove scritte e orali e alla valutazione dei titoli (se si tratta di concorso per titoli ed esami). Prima delle prove, essa deve stabilire i criteri e le modalità di

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valutazione al fine di assegnare i punteggi (art. 12), ciò allo scopo di autovincolare e rendere più oggettivo possibile il giudizio valutativo. Le prove si svolgono con modalità atte a garantirne la regolarità: segretezza delle tracce stabilite dalla commissione per la prova scritta, sorteggio tra le buste chiuse contenenti le tre tracce, divieto di comunicazione tra i candidati, inserimento degli elaborati in buste chiuse anonime, ecc. (artt. 11-14). Talvolta, in presenza di un numero di candidati molto elevato, la procedura prevede una preselezione sulla base di prove a risposte multiple a correzione automatica finalizzata.

Di tutte le operazioni compiute la commissione dà conto in un processo verbale che riporta in particolare i giudizi valutativi (espressi in numeri o in forma discorsiva). La commissione a conclusione delle proprie attività valutative procede a formulare una graduatoria di merito in base ai punti della valutazione complessiva riportata da ciascun candidato (art. 15).

La fase decisionale a cura dell’amministrazione che ha indetto il concorso consiste in un esame della regolarità della procedura e nell’approvazione della graduatoria di merito formulata dalla commissione con la indicazione dei candidati vincitori o comunque idonei. La graduatoria dei vincitori, che deve considerare eventuali riserve di posti a favore di particolari categorie di soggetti partecipanti e dei criteri di priorità in caso di parità, è pubblicata nel bollettino dell’amministrazione interessata e di essa viene data notizia nella Gazzetta Ufficiale (art. 15). Il provvedimento che approva la graduatoria conclude il procedimento concorsuale ed è suscettibile di impugnazione innanzi al giudice amministrativo.

Concluso il procedimento i vincitori vengono assunti in servizio con un contratto di lavoro individuale o, nel caso dei dipendenti pubblici non assoggettati al regime privatistico, con un provvedimento di nomina.

12. Segue: e) i contratti pubblici per l’affidamento di lavori, servizi e forniture.

Come si è già accennato, le amministrazioni pubbliche godono di una capacità generale di diritto privato. In particolare esse possono stipulare con fornitori privati contratti per l’acquisto di beni e servizi e per l’esecuzione di lavori di cui esse hanno necessità per il perseguimento

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delle finalità di interesse pubblico. I contratti di questo tipo rappresentano una delle voci principali della spesa pubblica e costituiscono per le imprese una fonte rilevante di fatturato e sono dunque molto appetiti.

A differenza dei privati che sono pienamente liberi di scegliere le proprie controparti contrattuali, le amministrazioni pubbliche sono assoggettate a regole speciali di natura pubblicistica volte a tutelare gli interessi delle stesse amministrazioni e di garantire la “par condicio” tra i potenziali contraenti.

La formazione della volontà negoziale dell’amministrazione e la scelta del contraente avvengono cioè attraverso un procedimento amministrativo a evidenza pubblica di tipo competitivo. Tale procedimento si innesta e va a integrare le regole del diritto privato relative allo schema proposta-accettazione di cui all’art. 1326 del codice civile.

In termini generali, il coordinamento tra regole di diritto pubblico e di diritto privato avviene in base al seguente criterio: mentre la fase di formazione del vincolo contrattuale è retta essenzialmente dalle prime, la fase di esecuzione del contratto è retta essenzialmente dalle seconde.

I contratti a evidenza pubblica sono disciplinati nel Codice dei contratti pubblici approvato con d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163 che riordina la materia unificando in un solo corpo normativo la disciplina delle forniture, dei servizi e dei lavori pubblici, recependo due direttive comunitarie (2004/17/CE e 2004/18/CE).

In origine, la disciplina era contenuta principalmente nella normativa sulla contabilità dello Stato (r.d. 18 novembre 1023, n. 2440 e regolamento approvato con r.d. 23 maggio 1924, n. 824). Essa assoggettò a procedure a evidenza pubblica (pubblici incanti) sia i contratti attivi dello Stato, dai quali cioè deriva un’entrata (per esempio la vendita di un immobile non più utilizzato per finalità pubbliche), sia i contratti passivi, che comportano cioè un’uscita (per esempio l’acquisto di arredi e computer per un ufficio). La collocazione della disciplina del procedimento a evidenza pubblica all’interno delle norme sulla contabilità si giustificava per il fatto che essa mirava principalmente ad assicurare il conseguimento delle condizioni economiche più favorevoli all’amministrazione e perseguiva soltanto come scopo riflesso quello di garantire la par condicio dei partecipanti. Le due principali modalità di selezione del contraente erano l’asta pubblica aperta a tutti i potenziali

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offerenti, oppure la licitazione privata, con la partecipazione delle imprese invitate dalla stazione appaltante.

A partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, soprattutto in seguito al recepimento di una serie di direttive comunitarie (da ultimo con il Codice), l’impostazione della disciplina è mutata nel senso di porre l’accento soprattutto sull’esigenza di aprire il mercato degli appalti pubblici alla concorrenza a livello nazionale ed europeo e pertanto di introdurre regole volte a promuovere la pubblicità, la trasparenza e la par condicio.

Il Codice dei contratti pubblici e il regolamento attuativo formano un corpus normativo molto ampio e complesso. Esso definisce anzitutto il campo di applicazione della normativa sotto il profilo oggettivo (tipologia di contratti nei cosiddetti settori ordinari e speciali, contratti integralmente assoggettati al diritto comunitario e cosiddetti contratti “sotto-soglia” che fuoriescono dall’ambito di applicazione delle direttive comunitarie, ecc.) e sotto il profilo soggettivo (amministrazioni aggiudicatrici, organismi di diritto pubblico, imprese pubbliche, ecc.). Regola poi le procedure di scelta del contraente e la fase esecutiva soprattutto dei contratti per la realizzazione di lavori pubblici. Pone anche una disciplina delle procedure speciali come il project financing e il cosiddetto contraente generale. Il Codice prevede anche l’istituzione dell’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici con il compite di promuovere l’applicazione delle norme e di favorire l’apertura del mercato alla concorrenza.

In questa sede, dedicata alla esemplificazione dei procedimenti amministrativi e in particolare di quelli concorsuali, interessa analizzare, per linee generalissime, soltanto il procedimento per l’affidamento dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture. Esso si articola in una pluralità di fasi (art. 11).

Anzitutto, le procedure di affidamento vengono avviate sulla base di atti di programmazione volti a individuare le priorità anche in relazione alle risorse finanziarie disponibili (per esempio, secondo l’art. 128, il programma triennale aggiornato annualmente per i lavori pubblici).

La prima fase è quella di avvio del procedimento da parte delle amministrazioni aggiudicatrici attraverso la cosiddetta delibera a contrarre. Essa consiste in un atto unilaterale che individua gli elementi essenziali del contratto e i sistemi di selezione dei contraenti. Segue di regola la predisposizione e pubblicazione di un bando di gara (art. 64),

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redatto secondo i modelli uniformati a livello europeo, che contiene tutte le informazioni necessarie relative allo svolgimento della procedura (documentazione da produrre, termini, criteri di selezione, punteggi, ecc.) e all’oggetto del contratto. Ad esso è usualmente allegato uno schema di contratto, un capitolato tecnico e, nel caso di lavori pubblici, il progetto (a seconda del tipo di procedura, il progetto preliminare, definitivo o esecutivo). Le modalità di pubblicazione del bando sono oggetto di una disciplina particolareggiata volta a favorire la massima diffusione delle informazioni e assicurare termini minimi per la presentazione della domanda a favore delle imprese che intendano partecipare alla procedura (art. 66).

Nella redazione del bando, che insieme agli altri documenti predisposti dalla stazione appaltante costituisce la lex specialis della gara, l’amministrazione gode di ampia discrezionalità, che deve essere esercitata secondo criteri di ragionevolezza, per esempio evitando di prevedere requisiti di partecipazione sproporzionati e discriminatori. Per esempio devono essere evitate prescrizioni tecniche riferite al bene oggetto di una fornitura tali da restringere in modo irragionevole la partecipazione a un numero ristretto di produttori di quel tipo di bene, escludendo i produttori di beni sostanzialmente analoghi.

Il bando di gara non costituisce un atto immediatamente lesivo e usualmente può essere impugnato insieme all’atto conclusivo del procedimento cioè all’aggiudicazione definitiva. Ciò a meno che esso abbia un carattere immediatamente escludente, nel senso che dalla lettura delle sue clausole emerga una discriminazione evidente a danno di potenziali partecipanti tale da precludere la partecipazione. In questo caso il bando deve essere impugnato subito.

La seconda fase del procedimento è quella di selezione dei partecipanti attraverso uno dei sistemi indicati nel bando tra quelli previsti dal Codice (art. 54 e seg.). Quest’ultimo individua tre tipi principali di procedura: procedure aperte, ristrette e negoziate.

Le procedure aperte (corrispondenti al sistema tradizionale dell’asta pubblica) sono quelle nelle quali ciascun operatore economico interessato può presentare un’offerta; le procedure ristrette (corrispondenti al sistema tradizionale della licitazione privata e dell’appalto concorso) sono quelle alle quali ogni operatore economico può chiedere di partecipare ma nelle quali possono presentare un’offerta soltanto coloro che vengono invitati dalle stazioni appaltanti; le procedure negoziate (corrispondenti al metodo tradizionale della trattativa privata), ammesse in via eccezionale

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in una serie di casi tassativamente indicati dal Codice, sono quelle nelle quali l’amministrazione consulta, con modalità meno formalizzate, gli operatori economici da loro scelti e negoziano con uno o più di essi le condizioni del contratto.

Le procedure negoziate sono a loro volta di due tipi a seconda che sia richiesta o meno la pubblicazione di un bando (art. 56 e art. 57). Per esempio, non è richiesta la pubblicazione del bando quando per ragioni di natura tecnica o artistica vi sia un solo fornitore sul mercato, oppure in casi di estrema urgenza, dovuta a eventi imprevedibili per le stazioni appaltanti. Il carattere eccezionale delle procedure negoziate si spiega per il fatto che esse si svolgono in modo meno formalizzato e attribuiscono all’amministrazione una discrezionalità più ampia, con il rischio di rendere meno concorrenziale il mercato dei contratti pubblici.

Nelle procedure ristrette e in quelle negoziate previa pubblicazione del bando la fase della valutazione delle offerte è preceduta da una fase cosiddetta di prequalifica nella quale le stazioni appaltanti selezionano le imprese da invitare a presentare l’offerta che siano in possesso di requisiti minimi predeterminati tali da garantire la serietà del potenziale contraente chiamato a partecipare alla gara. I criteri di questa selezione preliminare sono indicati nel bando e devono essere oggettivi (per esempio, aver svolto negli anni precedenti attività analoghe per un ammontare di fatturato non inferiore a una certa somma), non discriminatori e proporzionati. In ogni caso il Codice prevede un numero minimo di candidati da invitare in modo da assicurare una concorrenza effettiva (art. 62). Le imprese non ammesse a presentare le offerte possono impugnare innanzi al giudice amministrativo il provvedimento e, se richiedono e ottengono una misura cautelare, sono ammesse con riserva alla fase successiva della procedura.

La terza fase è quella della valutazione delle offerte che serve a individuare, tra i partecipanti alla procedura, l’impresa con la quale l’amministrazione stipulerà il contratto. A questo fine il Codice individua due criteri di selezione: il prezzo più basso e l’offerta economicamente più vantaggiosa (art. 81).

La scelta tra i due criteri, operata nel bando, avviene “in relazione alle caratteristiche dell’oggetto del contratto”. Se quest’ultimo si riferisce a beni, servizi o lavori standardizzati può essere scelto il criterio del prezzo più basso rispetto alla base d’asta che assicura la massima oggettività nella valutazione, poiché l’offerta si sostanzia solo nella indicazione numerica di un prezzo, escludendo così ogni discrezionalità.

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Si pensi, per esempio, all’acquisto di carburanti o di materiale di cancelleria.

Il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa va scelto allorché l’oggetto del contratto richiede un apprezzamento anche di elementi qualitativi come il pregio tecnico, le caratteristiche estetiche e funzionali, le caratteristiche ambientali, il contenimento dei consumi energetici e delle risorse ambientali, l’assistenza tecnica, ecc. (art. 83) che richiedono una valutazione tecnico-discrezionale. Il bando di gara deve indicare gli elementi qualitativi e per ciascuno di essi deve precisarne la ponderazione relativa espressa in un numero di punti da attribuire. Ove necessario i criteri relativi agli elementi qualitativi possono essere disarticolati in subcriteri con l’indicazione di subpunteggi. Quanto più analitica è la suddivisione in criteri e subcriteri e l’indicazione dei punteggi tanto più oggettiva diventa la valutazione tecnico-discrezionale.

Quest’ultima è affidata a una commissione giudicatrice, composta da funzionari della stazione appaltanti o da esperti esterni, nominata dalla stazione appaltante con criteri che ne assicurano la competenza tecnica e l’indipendenza dagli organi politici, in modo tale da garantire l’indipendenza del giudizio (art. 84). La commissione procede all’esame di ciascuna offerta e all’attribuzione dei punteggi valutando dapprima gli elementi qualitativi dell’offerta (contenuti in una busta separata) e aprendo da ultimo, in seduta pubblica, la busta contenente l’offerta economica (cioè il prezzo), in modo tale da evitare che la commissione possa essere influenzata nel suo giudizio sugli elementi qualitativi dall’esito della comparazione relativa alla componente del prezzo.

A conclusione dei propri lavori, commissione giudicatrice formula una graduatoria finale e viene dichiarata l’aggiudicazione provvisoria a favore dal miglior offerente (art. 11, comma 4). Prima dell’aggiudicazione definitiva viene espletata una fase di controllo sulla regolarità delle operazioni di gara, risultanti dai verbali redatti dalla stazione appaltante e dalla commissione. Essa si conclude con un atto di approvazione della stazione appaltante che deve intervenire, di regola, entro trenta giorni (art. 12) superati i quali si forma il silenzio-assenso.

L’aggiudicazione definitiva non equivale ancora ad accettazione dell’offerta risultata prima nella graduatoria (art. 11, comma 7). Dal punto di vista civilistico l’offerta ha il valore di proposta contrattuale irrevocabile per un termine predeterminato (mentre il bando di gara ha il valore di un mero invito a offrire). L’efficacia dell’aggiudicazione

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definitiva (cioè, in termini civilistici, dell’accettazione dell’offerta) è subordinata a un ulteriore controllo, riferito non più alla correttezza della procedura, bensì al possesso effettivo da parte dell’impresa selezionata dei requisiti di partecipazione autodichiarati in sede di presentazione della domanda (in particolare i cosiddetti requisiti di ordine generale elencati nell’art 38, come per esempio di non trovarsi in stato di fallimento o di non aver riportato determinate condanne penali).

Divenuta efficace l’aggiudicazione definitiva, l’amministrazione procede alla stipula del contratto entro un termine (di regola sessanta giorni) decorso il quale l’aggiudicatario può sciogliersi dal vincolo contrattuale (art. 11, comma 9).

Il procedimento di aggiudicazione richiede talvolta l’attivazione di un ulteriore subprocedimento di verifica allorché la stazione appaltante, nell’esaminare comparativamente le offerte pervenute, individui, applicando alcuni criteri matematici indicati dal Codice, una o più offerte anormalmente basse. La stazione appaltante ha infatti interesse a selezionare offerte che abbiano il carattere della serietà, nel senso che abbiano un senso economico minimo per l’impresa contraente (anche in termini di un minimo di utile atteso).

Il subprocedimento di verifica avviene in contraddittorio con l’impresa sospettata di aver presentato un’offerta fuori mercato. L’impresa è infatti inviata a presentare giustificazioni scritte relative alle voci di prezzo o altri elementi incongrui presenti nell’offerta (artt. 86-89). Le giustificazioni devono cercare di dimostrare che nonostante l’apparente anomalia l’offerta presentata ha una congruità complessiva, per esempio perché l’impresa è in grado di utilizzare soluzioni tecniche o procedimenti di fabbricazione del prodotto o di prestazione del servizio particolarmente efficienti. La valutazione delle giustificazione può essere deferita a una commissione appositamente istituita. Ove esse non risultano convincenti la stazione appaltante, prima di escludere l’offerta, convoca l’offerente in un’audizione invitandolo a indicare ogni elemento utile. Il provvedimento di esclusione deve essere congruamente motivato e costituisce un atto che può essere impugnato immediatamente dall’offerente esclusa.

In definitiva, il procedimento per l’affidamento dei contratti pubblici costituisce un esempio di procedimento complesso strutturato in modo tale da assicurare al massimo grado la par condicio e la trasparenza (e verificabilità) delle operazioni. Ad integrazione della minuta serie di regole poste dal Codice, la giurisprudenza amministrativa (il contenzioso

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in questa materia è assai consistente) ha sviluppato una serie ulteriore di principi volti a rendere ancor più effettivi questi valori.

13. Segue: f) l’accesso ai documenti amministrativi.

Nel Cap. III, nel paragrafo dedicato ai principi del procedimento amministrativo, si è già accennato al diritto di accesso ai documenti amministrativi. L’accesso ai documenti amministrativi è definito dalla l. n. 241/1990 come “principio generale dell’attività amministrativa al fine di favorire la partecipazione e di assicurare l’imparzialità e la trasparenza” (art. 22, comma 2).

In conformità a questa duplice finalità, il diritto in questione rileva in due ambiti.

In primo luogo, rientra, come si è visto, tra i diritti attribuiti ai soggetti che possono partecipare a un determinato procedimento amministrativo in modo da consentire ad essi di tutelare meglio le loro ragioni avendo cognizione di tutti gli atti e documenti acquisiti al procedimento che lo riguarda (accesso procedimentale, ex art. 10 l. n. 241/1990). In secondo luogo, costituisce un diritto autonomo che può essere esercitato anche al di fuori dal procedimento da chi ha interesse a esaminare documenti detenuti stabilmente da una pubblica amministrazione (accesso non procedimentale ex artt. 22 e seg. della l. n. 241/1990). Un controllo capillare dell’attività amministrativa per così dire dal basso rende appunto trasparente l’amministrazione e promuove l’imparzialità.

In questa sede interessa soffermarci su quest’ultimo tipo di accesso che dà origine a un tipo particolare di procedimento ad iniziativa di parte disciplinato oltre che dalla l. n. 241/1990, anche dal regolamento attuativo approvato con Dpr 12 aprile 2006, n. 184.

Preliminarmente va precisato che il diritto di accesso consiste nel “diritto degli interessati di prendere visione e di estrarre copia di documenti amministrativi” (art. 22, comma 1, lett. a) della l. n. 241/1990). Secondo l’interpretazione giurisprudenziale ormai prevalente, non si tratta di un diritto soggettivo in senso proprio, ma esso va inquadrato, al di là del nomen utilizzato dalla legge, nella categoria dell’interesse legittimo anche perché esso, come si vedrà, involge in taluni casi valutazioni di tipo discrezionale. Pertanto l’eventuale diniego costituisce un provvedimento

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in senso proprio impugnabile nel termine di decadenza ordinario, piuttosto che nel termine di prescrizione ordinario previsto per i diritti soggettivi.

Sono titolari del diritto di accesso tutti i soggetti privati, compresi i portatori di interessi pubblici o diffusi, che abbiano “un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso” (art. 22, comma 1, lett. c) l. n. 241/1990).

L’accesso non è dunque un’azione popolare attribuita a chiunque: non basta, come ha precisato la giurisprudenza, la semplice curiosità. E’ necessario invece che la richiesta di accesso sia correlata a un interesse in qualche modo differenziato e alla titolarità di una posizione giuridicamente rilevante (non necessariamente un diritto soggettivo o un interesse legittimo in senso proprio, ma anche una situazione giuridica soggettiva ancora allo stato potenziale). Si tratta peraltro di un criterio che presenta margini di ambiguità.

La richiesta di accesso deve essere motivata, comprovando l’interesse specifico del richiedente. Un’eccezione prevista per legge si ha in materia di ambientale nella quale l’accesso alle informazioni è consentito a chiunque ne faccia richiesta senza necessità di dichiarare un proprio interesse (art. 3 del d.lgs.19 agosto 2005, n. 195 di attuazione della direttiva 2003/4/CE). A livello di amministrazioni locali, i consiglieri comunali e provinciali hanno diritto a ottenere dagli uffici tutte le informazioni utili all’espletamento del mandato e sono tenuti al segreto (art. 43, comma 2, del d.lgs. 16 agosto 2000, n. 267).

La richiesta di accesso può riferirsi soltanto a documenti ben individuati e già formati: ben individuati, perché il diritto di accesso non è uno strumento di “controllo generalizzato dell’operato delle pubbliche amministrazioni” (art. 24, comma 4, della l. n. 241/1990); già formati, perché l’amministrazione “non è tenuta ad elaborare dati in suo possesso al fine di soddisfare le richieste” (art. 3, comma 2, Dpr n. 184/2006).

Sotto il profilo soggettivo, la richiesta può essere rivolta alla pubblica amministrazione, nozione che include tutti i soggetti di diritto pubblico e i soggetti di diritto privato limitatamente all’attività di pubblico interesse disciplinata dal diritto nazionale e comunitario (in particolare i gestori anche privati di pubblici servizi (art. 22, comma 1, lett. e) e art. 23 della l. n. 241/1990).

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Sotto il profilo oggettivo, l’accesso è escluso in una serie tassativa di casi e cioè in relazione ai documenti coperti dal segreto di Stato, a quelli relativi a procedimenti tributari o a procedimenti per l’adozione di atti amministrativi generali, ai documenti contenenti informazioni di carattere psicoattitudinale di terzi (art. 24, comma 1, della l. n. 241/1990. Altri casi di esclusione possono essere individuati tramite regolamento di delegificazione là dove sussista il rischio di una lesione di interessi pubblici quali, per esempio, la sicurezza e difesa nazionale, la politica monetaria e valutaria, la riservatezza di persone fisiche, gruppi, imprese e associazioni, ecc. (l’elenco completo è previsto dall’art. 24, comma 6, della l. n. 241/1990).

Deve essere comunque garantito ai richiedenti l’accesso ai documenti “la cui conoscenza sia necessaria per curare e difendere i propri interessi giuridici” (art. 24, comma 7, della l. n. 241/1990). L’amministrazione deve dunque operare una comparazione tra l’interesse all’accesso e il contrapposto interesse (in particolare la riservatezza di terzi) e valutare se l’accesso ha il carattere della “necessarietà” (da distinguersi dalla semplice utilità) e ciò fa emergere un ambito di valutazione discrezionale in capo all’amministrazione. Per esempio, chi partecipa a un concorso pubblico può accedere agli elaborati concorsuali e ai giudizi formulati nei confronti di altri candidati, al fine di accertare eventuali irregolarità.

L’accesso non può essere negato quando possa essere sufficiente far ricorso al potere di differimento nei casi in cui vi è il rischio di lesione di un interesse pubblico o comunque quando l’accesso possa compromettere, specie nella fase preparatoria dei provvedimenti, il buon andamento dell’azione amministrativa (art. 24, comma 4, della l. n. 241/1990 e art. 9, comma 2, del d.P.R. 12 aprile 2006, n. 184). Anche qui vi è spazio per una qualche valutazione discrezionale. Un caso importante di differimento previsto espressamente per legge riguarda l’accesso ai documenti nei procedimenti per l’affidamento di contratti pubblici, in relazione all’esigenza di non compromettere la regolarità della procedura (art. 13 del. Codice dei contratti pubblici, che per esempio vieta l’acceso all’elenco dei soggetti che hanno presentato l’offerta fino alla scadenza del termine per la presentazione delle offerte).

Sotto il profilo procedurale il d.P.R. n. 184/2006 cit. distingue due modalità di accesso, formale e informale. L’accesso informale si può avere quando non vi siano soggetti controinteressati per i quali si ponga un problema di riservatezza e in questo caso la richiesta può essere anche

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verbale. (art. 5). Essa è esaminata immediatamente e senza formalità ed è accolta senza l’adozione di un particolare atto, ma, più semplicemente, mediante l’esibizione del documento o l’estrazione di copia.

L’accesso formale è necessario nei casi in cui l’amministrazione riscontri l’esistenza di potenziali controinteressati, ovvero quando sorgano dubbi sulla legittimazione del richiedente sotto il profilo dell’interesse o sulla accessibilità di un documento in relazione alle norme sull’esclusione e in altre ipotesi che richiedono una valutazione più approfondita (art. 6, comma 1). La richiesta deve essere presentata per iscritto e deve indicare gli estremi del documento o gli elementi che consentano di individuarlo e deve essere motivata sotto il profilo dell’interesse connesso all’oggetto della richiesta. Il procedimento prevede anche una fase di contraddittorio nei casi in cui l’amministrazione individua soggetti controinteressati. Infatti essa è tenuta a dar comunicazione a quest’ultimi della richiesta presentata con l’assegnazione di un termine di dieci giorni per l’eventuale presentazione di una opposizione motivata (art. 3).

Il procedimento di accesso deve concludersi entro trenta giorni dalla richiesta. Decorso il termine si forma un silenzio-diniego, nel senso che la richiesta “si intende respinta” (art. 25, comma 4, della l. n. 241/1990).

Il provvedimento che rifiuta, limita o differisce l’accesso deve essere motivato (art. 25, comma 3, della l. n. 241/1990). L’atto di accoglimento della richiesta indica l’ufficio e il periodo di tempo (almeno quindici giorni) concesso per prendere visione o per ottenere copia dei documenti (art. 7 del d.P.R. n. 184/2006).

L’accesso è gratuito e consiste nell’esame dei documenti presso l’ufficio con la presenza, ove ritenuta necessaria, di personale addetto. L’accesso è effettuato dal richiedente o da persona da lui incaricata. E’ consentito prendere appunti oppure trascrivere in tutto o in parte i documenti presi in visione. La copia dei documenti è rilasciata dietro il pagamento, di regola, del solo rimborso del costo di riproduzione (art. 25, comma 1, della l. n. 241/1990 e art. 7 del d.P.R. n. 184/2006).

Contro il diniego espresso o tacito dell’accesso può essere proposto un ricorso giurisdizionale entro trenta giorni innanzi al giudice amministrativo (investito di giurisdizione esclusiva). Il processo segue un rito speciale accelerato che si può concludere con una sentenza di condanna che ordina l’esibizione dei documenti richiesti (art. 25, comma

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4, della l. n. 241/1990, art. 116 e artt. 133, comma 1, lett. a) n. 6 del Codice del processo amministrativo).

In alternativa al ricorso giurisdizionale, la l. n. 241/1990 prevede, in prima battuta, un ricorso di tipo amministrativo esperibile, a seconda dei casi, innanzi al difensore civico o alla Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi istituita presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri (art. 25, comma 4 e art. 27) che si devono pronunciare entro trenta giorni. Decorso inutilmente questo termine, il ricorso si intende respinto e può essere proposto ricorso in sede giurisdizionale. Se ritengono illegittimi il diniego o il differimento dell’accesso, il difensore civico o la Commissione lo comunicano all’autorità amministrativa. Se quest’ultima non emana un provvedimento confermativo motivato entro trenta giorni, “l’accesso è consentito”, cioè si forma un silenzio-assenso.

Il d.P.R. n. 184/2006 contiene una disciplina più particolareggiata del ricorso innanzi alla Commissione (contenuto, modalità, termini, ecc.), prevedendo in particolare che esso debba essere notificato anche agli eventuali controinteressati.

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CAP. VI

I CONTROLLI E LA RESPONSABILITA’

A) I CONTROLLI. 1. Premessa; 2. I controlli sugli atti e sull’attività; 3. I controlli gestionali.

B) LA RESPONSABILITA’. 4. Premessa; 5. L’art. 28 della Costituzione e la responsabilità civile da comportamento illecito. 6. La risarcibilità del danno da lesione di interessi legittimi; 7. La responsabilità nel diritto europeo; 8. La responsabilità amministrativa.

A) I CONTROLLI

1. Premessa.

In qualsiasi organizzazione o organismo complesso emerge, superato un certo stadio di sviluppo, la funzione di controllo volta a monitorare l’attività primaria posta in essere dalle strutture operative. Si tratta di una funzione accessiva e strumentale, che si pone cioè al servizio di una funzione principale.

In termini generalissimi i sistemi di controllo, naturali o artificiali, volti a garantire che una certa quantità variabile si conformi a uno standard prescritto, sono diffusi nel mondo fisico. Si pensi ai congegni per verificare che un processo di produzione rispetti certi criteri qualitativi, o, negli organismi viventi, ai sistemi di stabilizzazione (temperatura, pressione sanguigna, ecc.). La vita quotidiana è caratterizzata dalla presenza di meccanismi di controllo di ogni genere e tipo.

Il diritto, che è di per sé uno strumento di controllo della vita consociata, conosce numerosi modelli e strumenti di controllo.

Così, secondo il codice civile, la società per azioni annovera tra gli organi essenziali, accanto all’assemblea e al consiglio di amministrazione, un organo di controllo interno e cioè il collegio sindacale che vigila sull’osservanza della legge e dello statuto e sul rispetto dei principi di corretta amministrazione (art. 2403 cod. civ.). Inoltre il controllo contabile sulla società è affidato a un revisore contabile o a una società di

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revisione esterna iscritta nel registro presso il Ministero della giustizia con il compito di verificare la regolare tenuta della contabilità sociale e la corrispondenza tra bilancio di esercizio e tenuta della contabilità sociale e di esprimere in una relazione un giudizio sul bilancio (art. 2409-bis cod. civ.). Per alcuni tipi di società, in particolare quelle che svolgono attività bancaria, il collegio sindacale e il soggetto incaricato della revisione comunicano eventuali irregolarità ad apparati di controllo esterni come la Banca d’Italia, che esercitano in via continuativa un’attività di vigilanza con poteri molto incisivi su questa tipologia di imprese (art. 52 del Testo unico delle leggi bancarie e creditizie). Varie leggi settoriali impongono poi l’istituzione di organi preposti a controlli specifici come, per esempio, l’organismo preposto alla prevenzione di reati compiuti da amministratori e dipendenti che possono far sorgere una responsabilità amministrativa dell’ente (art. 6 della d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231); il responsabile del trattamento dei dati personali preposto a vigilare sul rispetto della normativa sulla privacy (art. 29 del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196); il responsabile per la sicurezza sui luoghi di lavoro (d.lgs. n. 626 del 1994).

Nel settore del non profit, l’amministrazione delle fondazioni è assoggettata al controllo e alla vigilanza dell’autorità governativa, dotata del potere di annullare le delibere contrarie a norme imperative, all’atto di fondazione all’ordine pubblico o al buon costume e di nominare un commissario straordinario (art. 25 cod. civ.).

Non deve pertanto stupire il fatto che anche le pubbliche amministrazioni siano assoggettate a un sistema articolato di controlli che involge tutta la loro attività. La funzionalizzazione dell’attività al perseguimento di interessi pubblici e la stessa sottoposizione degli apparati pubblici al principio di legalità richiedono infatti la previsione di sistemi di verifica particolarmente penetranti. Le stesse pubbliche amministrazioni svolgono spesso, in base alle normative di settore, funzioni di controllo nei confronti di soggetti privati al fine di proteggere interessi pubblici messi a rischio dalle attività di questi ultimi.

Procedendo in modo più sistematico, anzitutto, il vocabolo controllo, nel linguaggio comune ha molti significati talvolta generici. In ambito giuridico il controllo può essere definito come “verificazione di regolarità di una funzione propria o aliena” o come “un giudizio di conformità a regole, che comporta in caso di difformità una misura repressiva o preventiva o rettificativa” (M.S. GIANNINI).

Questa accezione così ampia abbraccia un’ampia fenomenologia di controlli costituzionali (per esempio nei rapporti tra Stato e regioni aventi

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per oggetto anzitutto l’attività legislativa), controlli parlamentari, controlli giurisdizionali, controlli attribuiti ad autorità di vigilanza e regolazione (autorità indipendenti), controlli amministrativi.

I principali elementi costitutivi del controllo sono: il soggetto titolare del potere di controllo; il destinatario del controllo; l’oggetto del controllo; il parametro o standard di valutazione; le misure che possono venire adottate all’esito del controllo. Al variare di qualcuno di essi varia la tipologia del controllo.

Quanto al soggetto titolare del potere di controllo è principio generale che esso deve porsi in una posizione di indipendenza e terzietà rispetto al destinatario del controllo. Spesso è richiesta anche una particolare qualificazione tecnica correlata allo standard del controllo. A livello statale, in particolare, l’organismo di controllo di rango istituzionalmente elevato è la Corte dei conti, cioè un organo giurisdizionale che “esercita il controllo preventivo di legittimità sugli atti del Governo e anche quello successivo sulla gestione del bilancio dello Stato” e partecipa al controllo sulla gestione finanziaria degli enti a cui lo Stato contribuisce in via ordinaria” (art. 100, comma 2). Quest’organo, inserito dalla Costituzione tra gli organi ausiliari del Governo (Parte II, Tit. III, Sez. III) e composto da magistrati assunti in massima parte per concorso, riferisce direttamente alla Camere sul risultato del riscontro eseguito.

Talvolta il soggetto titolare del potere di controllo è posto in una posizione di sovraordinazione rispetto al destinatario del controllo. La funzione di controllo è inclusa, per esempio, tra quelle proprie del superiore gerarchico. Di regola però l’organo titolare della funzione di controllo si colloca al di fuori della catena di comando in senso proprio ed è considerato, per alcuni tipi di controllo interno, titolare di una funzione di supporto ausiliaria all’organo decisionale.

Quanto ai destinatari del controllo, questi ultimi possono far parte della medesima organizzazione nella quale è incardinato l’organo di controllo e in questo caso si parla di controllo interno (per esempio, il collegio dei revisori di un ente pubblico), oppure può appartenere a un soggetto diverso e in questo caso si parla di controllo esterno (la Corte dei conti nei confronti delle amministrazioni statali, la Consob nei confronti delle società quotate in borsa).

Destinatari dei controlli esterni di tipo amministrativo possono essere sia soggetti pubblici sia soggetti privati che svolgono determinate attività. Si parla spesso in proposito in senso più generico di funzione di vigilanza

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che è attribuita in via continuativa da organi e apparati appositamente istituiti (Aziende sanitarie locali, vigili del fuoco, agenzia regionale per la protezione dell’ambiente, ispettorato del lavoro, autorità indipendenti, ecc.). La funzione di vigilanza include una serie più o meno ampia di poteri istruttori (accessi, ispezioni, richiesta di documenti e informazioni) e decisori (ordini, sanzioni, commissariamento degli organi, scioglimento e messa in liquidazione dell’ente). In qualche caso alla funzione di controllo può cumularsi anche una funzione di indirizzo e di direzione.

Quanto all’oggetto del controllo, la distinzione principale risiede nel fatto che l’oggetto può essere costituito da singoli atti emanati dall’amministrazione (controllo sugli atti), oppure dal complesso dell’attività posta in essere da un apparato e dai risultati conseguiti (controllo sull’attività).

Quanto al parametro o standard di valutazione, quest’ultimo può avere natura tecnica (controlli tecnici) o natura giuridica. Come esempio del primo tipo può essere preso il controllo sulle scritture contabili di un ente che deve essere effettuato in conformità con regole, spesso elaborate a livello internazionale, elaborate dalle scienze ragioneristiche e aziendali, oppure i controlli sulla sicurezza di impianti produttivi. Nel diritto amministrativo la distinzione forse più rilevante è quella già incontrata tra controllo di legittimità e controllo di merito: il primo ha come riferimento norme e principi giuridici che presiedono all’attività delle amministrazioni pubbliche; il secondo involge un apprezzamento diretto del grado di soddisfazione dell’interesse pubblico.

Quanto alle misure che possono essere emanate all’esito del controllo esse possono essere le più varie e includono ordini di adeguamento o di ripristino dello standard violato, annullamento o riforma di atti, interventi di tipo repressivo e sanzionatorio, interventi di tipo sostitutivo, scioglimento dell’organo, ecc.

Come esempio di potere sostituivo nel caso di violazione di obblighi derivanti dall’appartenenza all’Unione europea o di grave pregiudizio agli interessi nazionali può essere ricordato il potere attribuito al Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro competente, di assegnare alla regione o all’ente locale un termine per provvedere e la successiva nomina di un commissario che pone in essere l’atto in luogo dell’ente inadempiente (art. 4 del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112). Come esempio di scioglimento e sospensione di organi può essere ricordato il potere attribuito al Ministro dell’Interno di rimuovere e sospendere il sindaco, il presidente della provincia e altri amministratori locali, nel caso

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in cui compiano atti contrari alla Costituzione o gravi e persistenti violazioni di legge o per gravi motivi di ordine pubblico (art. 142 del Testo Unico degli enti locali approvato con d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267).

I controlli nei quali è presente una funzione collaborativa possono concludersi con suggerimenti e indicazioni per migliorare l’attività.

I controlli amministrativi danno origine a un sistema complesso e variegato la cui ricostruzione completa richiederebbe un’analisi molto dettagliata. Ci si limiterà ad approfondire solo alcuni aspetti più tipici.

2. I controlli sugli atti e sull’attività.

Nel paragrafo precedente si è già fatto cenno alla distinzione tra controllo sugli atti e sull’attività.

Il controllo sugli atti consente una forma di monitoraggio capillare molto condizionante l’operatività di un ente.

Esso può essere preventivo o successivo a seconda che venga esercitato prima o dopo che l’atto abbia prodotto i suoi effetti. Può essere di legittimità o di merito, a seconda che l’organo di controllo faccia riferimento a parametri normativi e a principi giuridici (la legittimità dell’atto va peraltro apprezzata in relazione a tutta la tipologia dei vizi incluso l’eccesso di potere nelle varie figure sintomatiche).

In passato il controllo di merito era previsto in modo molto esteso a livello locale. Si pensi per esempio, al controllo del prefetto, in quanto massimo esponente del Governo in sede locale, nei confronti delle cosiddette Opere pie o Ipab, Istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza istituite a fine Ottocento in epoca crispina pubblicizzando un ampio numero di organismi privati operanti nel settore non profit. Si parlava a questo riguardo di “tutela”, proprio per alludere al ruolo subalterno dell’ente controllato, da contrapporre a “vigilanza”, il cui parametro di riferimento è la legittimità degli atti sia pur intesa in un’accezione estesa.

In caso di esito negativo il controllo di legittimità preclude all’atto di produrre i suoi effetti, se si tratta di controllo preventivo; comporta l’annullamento dell’atto con la rimozione degli effetti ex tunc, se si tratta di controllo successivo. Se il controllo è esteso al merito l’autorità che esercita il controllo può riformare direttamente l’atto oppure indirizzare all’autorità emanante una richiesta di riesame.

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Il controllo preventivo di legittimità sugli atti delle amministrazioni statali e locali è stato è stato molto in voga fino ad anni relativamente.

La stessa Costituzione prevedeva, accanto ai controlli sugli atti del Governo affidati alla Corte dei conti ai quali si è fatto cenno (art. 100, comma 2), un controllo di legittimità sugli atti amministrativi delle Regioni esercitato in forma decentrata da un organo dello Stato (art. 125 Cost.) e un controllo di legittimità sugli atti delle Province e dei Comuni attribuito a un organo regionale (art. 130 Cost.).

Peraltro un siffatto sistema non è pienamente compatibile con un’impostazione autonomistica dell’ordinamento che valorizza il principio di autoresponsabilità. Inoltre, data la mole degli atti che devono essere singolarmente scrutinati (milioni solo a livello statale), il controllo preventivo di legittimità costituisce un fattore di appesantimento e rallentamento dell’attività amministrativa.

Ancora, il controllo sugli atti, adottato nell’ambito del modello tradizionale di “amministrazione per atti”, nel quale ciò che conta è essenzialmente la conformità alla legge piuttosto che la capacità di erogare prestazioni e servizi di elevata qualità ai cittadini e utenti, ha subito un ripensamento complessivo con l’affermarsi della cosiddetta “amministrazione di risultato”, nella, come si è già accennato, è molto più avvertita l’esigenza di assicurare i valori dell’efficienza, dell’economicità e dell’efficacia.

Per queste e altre ragioni, in occasione della riforma del Titolo V della Costituzione attuata con la legge costituzionale n. 3 del 2001 il controllo preventivo di legittimità degli atti è venuto in gran parte meno e ad esso sono subentrate altre forme di controllo di tipo soprattutto finanziario e gestionale.

A livello statale, il controllo preventivo di legittimità attribuito alla Corte dei conti è ormai limitato a un elenco tassativo limitato di atti (art. 3 della legge 14 gennaio 1994, n. 20) tra i quali possono essere ricordati, per esemplificare, i provvedimenti emanati con delibera del Consiglio di ministri, le piante organiche, il conferimento degli incarichi dirigenziali, gli atti normativi a rilevanza esterna, gli atti di disposizione del demanio e del patrimonio immobiliare. Il procedimento di controllo deve concludersi entro 60 giorni dalla ricezione dell’atto (salvo sospensione in caso di richieste istruttorie). In caso di esito negativo del controllo, il ministro può chiedere al Consiglio dei ministri che l’atto abbia comunque corso e che venga ammesso al cosiddetto visto (o registrazione) con

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riserva: l’atto acquista così efficacia nonostante l’illegittimità rilevata dalla Corte dei conti che però ne dà comunicazione al Parlamento.

Il controllo successivo su singoli atti è ormai quasi del tutto superato. A livello statale, la Corte dei conti può però deliberare motivatamente che “singoli atti di notevole rilievo finanziario” siano sottoposti al suo esame per un determinato periodo di tempo. La Corte può richiedere all’amministrazione entro 15 giorni il riesame degli atti adottati, richiesta che non son sospende l’esecutività dei medesimi (art. 3, comma 3, della l. n. 20/1994).

Il controllo sull’attività ha per oggetto la gestione di un apparato considerata nel suo complesso e mira a valutarne i risultati globali. Per sua natura si tratta di un controllo di tipo successivo (o ex post) che può avere una varietà di oggetti, come, in particolare, la regolarità contabile e finanziaria della gestione e l’efficienza, l’efficacia e l’economicità.

A livello centrale, in attuazione dell’art. 100, comma 2 della Costituzione già citato, la Corte dei conti svolge il controllo successivo sulla gestione del bilancio e del patrimonio delle amministrazioni pubbliche. Verifica cioè la legittimità e la regolarità delle gestioni, accertando la rispondenza dei risultati dell’attività amministrativa agli obiettivi stabiliti dalla legge e valuta comparativamente costi, modi e tempi dello svolgimento dell’attività amministrativa (art. 3, comma 4, della l. n. 20/1994). La Corte valuta anche il funzionamento dei controlli interni a ciascuna amministrazione, creando così un legame tra controlli interni e controlli esterni.

Più in particolare, il controllo successivo sulla gestione del bilancio dello Stato ha per oggetto gli andamenti generali della finanza pubblica e consiste nell’esame del rendiconto generale dello Stato presentato dal Governo alla Corte di conti entro il 31 maggio successivo a quello di chiusura dell’anno finanziario. Il rendiconto viene messo a raffronto con la legge di bilancio e nel caso di accertata concordanza viene emanato un “giudizio di parificazione” inviato, insieme a una relazione, al Parlamento entro il 30 giugno di ogni anno.

A livello decentrato, la Corte dei conti, tramite le sezioni regionali, esercita un controllo successivo sul rispetto da parte di Regioni ed enti locali della normativa sul cosiddetto Patto di stabilità e ai vincoli derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea. Verifica anche la sana gestione finanziaria il funzionamento dei controlli interni. I revisori degli enti locali, che costituiscono il principale organo di controllo interno,

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inviano alle sezioni regionali della Corte una relazione sul bilancio di previsione e sul conto consuntivo di ciascun ente, redatta secondo criteri e linee guida predisposte a livello nazionale della Corte stessa. All’esito del controllo le sezioni regionali riferiscono agli organi rappresentativi dell’ente e vigilano sull’adozione da parte dell’ente locale delle misure correttive per assicurare il rispetto dei vincoli e obiettivi. Analoghi controlli sono previsti nei confronti delle aziende sanitarie locali, che gestiscono la maggior parte delle risorse disponibili a livello regionale. All’esito di questo controllo le sezioni regionali della Corte inviano una segnalazione alla Regione per l’assunzione di provvedimenti conseguenti. La Corte esercita un controllo esterno, mediante un esame dei rendiconti, anche nei confronti di enti pubblici e privati ai quali lo Stato contribuisce in via ordinaria e in particolare alle università.

Questo tipo di controllo esercitato dalla Corte di conti ha una valenza essenzialmente collaborativa nei confronti delle amministrazioni interessate e l’estensione del controllo dalle amministrazioni statali in senso stretto alle amministrazioni regionali e locali ha comportato un riposizionamento della Corte dei conti che è sempre di più un apparato al servizio, non solo del Governo, bensì dello Stato-comunità.

3. I controlli gestionali.

I controlli gestionali, che costituiscono la specie principale di controlli interni alle pubbliche amministrazioni, hanno acquistato un peso crescente in parallelo al declino del controllo preventivo sugli atti, fenomeni entrambi correlati a un ripensamento del ruolo delle amministrazioni, a partire dagli anni Novanta del secolo scorso, ripensamento che, come si è accennato, ha posto in primo piano, più che il principio della legalità formale, quello del conseguimento di obiettivi e risultati collegati alle finalità di interesse pubblico perseguite.

La disciplina generale è contenuta nel d.lgs. 30 luglio 1999, n. 286 emanato in attuazione di una delega legislativa contenuta nella legge 15 marzo 1997, n. 59 (cosiddetta legge Bassanini) nell’ambito di una riforma dell’organizzazione delle amministrazioni pubbliche volta ad attuare il massimo di decentramento compatibile con l’assetto costituzionale.

Il d.lgs. n. 286 individua quattro tipi di controllo interno che devono essere introdotti in tutte le pubbliche amministrazioni statali e non statali.

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Il primo tipo di controllo è quello di regolarità amministrativo-contabile volto a “garantire la legittimità, regolarità e correttezza dell’azione amministrativa” (art. 1, comma 1, lett. a)). Questo tipo di controllo è affidato, a seconda del tipo di amministrazione, agli uffici di ragioneria (ministeri), agli organi di revisione (enti locali), ai servizi ispettivi di finanza. La composizione di detti organismi prevede la presenza maggioritaria di componenti iscritti all’albo dei revisori contabili (art. 2).

Questo tipo di controllo ha carattere preventivo e avviene sulla base di parametri costituti dai principi generali della revisione aziendale asseverati dagli ordini e collegi professionali operanti nel settore.

Il secondo tipo di controllo è il controllo di gestione ed è volto a “verificare l’efficacia, efficienza ed economicità dell’azione amministrativa al fine di ottimizzare, anche attraverso tempestivi interventi di correzione, il rapporto tra costi e risultati” (art. 1, comma 1, lett. b)). Questo tipo di controllo viene effettuato da un organismo istituito a supporto dei dirigenti che possono utilizzare tale strumento per poi organizzare meglio la loro attività.

Ciascuna amministrazione deve pertanto definire le unità organizzative da sottoporre al tipo di controllo menzionato; stabilire le procedure per la determinazione degli obiettivi gestionali con l’individuazione dei soggetti responsabili; individuare l’insieme dei prodotti e delle finalità dell’azione amministrativa riferiti all’intera organizzazione o a singole unità organizzative; definire le modalità di rilevazione e ripartizione dei costi tra le unità organizzative e di individuazione degli obiettivi per cui i costi sono sostenuti; elaborare gli indicatori specifici per misurare efficacia, efficienza ed economicità; stabilire la frequenza di rilevazione delle informazioni (art. 4).

Il terzo tipo di controllo riguarda la valutazione della dirigenza pubblica (art. 1, comma, 1 lett. c)). Esso è effettuato con periodicità annuale e consiste nella valutazione delle prestazioni dei dirigenti e delle competenze organizzative, anche sulla base dei risultati del controllo di gestione. Nelle amministrazioni dello Stato la valutazione è effettuata dal livello dirigenziale via via superiore rispetto al dirigente interessato e per i capi di dipartimento esso spetta direttamente al Ministro, sulla base degli elementi forniti dall’organo di valutazione e controllo strategico (art. 5). Questo tipo di controllo è funzionale a far valere la responsabilità di tipo dirigenziale che costituisce una particolare forma di responsabilità (diversa da quella disciplinare) alla quale soggiacciono le figure

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dirigenziali e che può determinare, a seconda dei casi, il mancato rinnovo dell’incarico, la revoca del medesimo collocando il dirigente a disposizione, il recesso dal rapporto di lavoro (art. 21 del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165). Queste misure sono disposte avendo assunto un parere conforme di un comitato di garanti.

Il quarto tipo di controllo consiste nella valutazione e controllo strategico preordinati a “valutare l’adeguatezza delle scelte compiute in sede di attuazione dei piani, programmi ed altri strumenti di determinazione dell’indirizzo politico, in termini di congruenza tra risultati conseguiti e obiettivi predefiniti (art. 1, comma 1, lett. d)). L’organo deputato al tipo di controllo in esame riferisce in via riservata all’organo di vertice competente a impartire le direttive e gli altri atti di indirizzo politico. Il controllo mira a verificare l’effettiva attuazione delle scelte indicate in questo tipo di atti e si concretizza nell’analisi della congruenza o degli eventuali scostamenti tra le missioni affidate, le scelte operative effettuate, le risorse umane, finanziarie e materiali assegnate, identificando gli eventuali fattori ostativi, le responsabilità e i possibili rimedi (art. 6).

L’insieme dei controlli interni, da esercitare in modo integrato, tende a migliorare l’azione amministrativa e ha prevalentemente una funzione collaborativa. I controlli interni, sperimentati da molto tempo nelle organizzazioni private, hanno fatto fatica ad attecchire nel contesto delle pubbliche amministrazione e testimoniano il tentativo di introdurre all’interno di queste ultime una visione aziendalistica della gestione dei poteri pubblici.

B) LA RESPONSABILITA’

4. Premessa

Nel Cap IV si è osservato che la violazione di una norma di relazione causata da un comportamento della pubblica amministrazione lesivo di un diritto soggettivo dà origine a un illecito ex art. 2043 del cod. civ. La violazione di una norma di azione causata da un provvedimento amministrativo illegittimo lesivo di un interesse legittimo, invece, per lungo tempo, fino alla svolta operata dalla Corte di Cassazione con la sentenza delle Sezioni Unite n. 500 del 1999 più volte citata, non costituiva un illecito. Anzi, la distinzione diritto soggettivo-interesse

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legittimo costituiva il criterio per tracciare la linea di confine della responsabilità civile della pubblica amministrazione.

Conviene ora svolgere il tema della responsabilità della pubblica amministrazione e dei funzionari in modo più sistematico.

Da un punto di vista storico, la responsabilità dello Stato collegata a comportamenti o ad atti illeciti dei suoi agenti costituisce l’esito di una evoluzione che muove dal principio della immunità del sovrano sancito in tutti gli ordinamenti in epoca antecedente allo Stato di diritto. Di essa si ha un’eco nel detto inglese secondo il quale “The King can do no wrong”.

Ancora a fine Ottocento la dottrina italiana (G. MANTELLINI) sosteneva che l’idea stessa della responsabilità dello Stato fosse incompatibile con il perseguimento di fini pubblici da parte da parte degli apparati pubblici e con il carattere etico dello Stato. L’esigenza di tutelare gli interessi pubblici giustificava il sacrificio a carico dei soggetti privati. Tutt’al più chiamato a rispondere poteva essere il funzionario.

Con l’affermarsi dell’ideale dello Stato di diritto l’immunità della pubblica amministrazione venne via via erosa a favore di un assoggettamento sempre più pieno al principio di responsabilità. Così, nel nostro ordinamento, già prima della Costituzione si affermò la tesi secondo la quale la pubblica amministrazione è responsabile nei confronti di terzi in relazione ai cosiddetti atti di gestione (da contrapporre ai cosiddetti atti di imperio) in quanto in questo ambito essa opera su un piano di parità con i soggetti privati.

Il punto di arrivo del percorso delineato, con varianti significative nei singoli Stati europei, è enunciato simbolicamente nell’art. 340 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea. Il secondo comma stabilisce che in materia di responsabilità extracontrattuale l’Unione deve risarcire di danni cagionati dalla sue istituzioni o dai suoi agenti nell’esercizio delle loro funzioni “conformemente ai principi generali comuni ai diritti degli Stati membri”. Quest’ultima disposizione dà per assunto che a livello europeo la pubblica amministrazione sia assoggettata a un regime di responsabilità per danni cagionati a terzi.

Semplificando molto, due sono i modelli prevalenti di responsabilità della pubblica amministrazione affermatisi a livello europeo. Il primo, adottato in Gran Bretagna, si fonda sul principio della responsabilità personale del dipendente pubblico nei confronti dei terzi danneggiati, responsabilità che entro certi limiti viene estesa dalla legge agli apparati al servizio dei quali opera il dipendente. Il secondo modello, adottato in

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Germania, si fonda sul principio opposto della responsabilità oggettiva indiretta dell’apparato, nella sua veste di datore di lavoro del dipendente che ha posto in essere l’illecito (sul modello dell’art. 2049 cod. civ. sulla responsabilità dei padroni e committenti).

In ogni caso, quale che sia il modello adottato, la responsabilità dell’amministrazione e dei suoi funzionari richiede un bilanciamento tra varie esigenze: reintegrare pienamente per equivalente i privati dei danni subiti; prevenire comportamenti illeciti da parte dei dipendenti pubblici ponendo un incentivo per innalzare il grado di diligenza nei comportamenti degli agenti pubblici e di rispetto degli standard legali; evitare il rischio di un eccesso di deterrenza (“overdeterrence”), nel senso che il timore della responsabilità personale del dipendente possa costituire un freno all’attività delle amministrazioni posta in essere per perseguire interessi pubblici e ne comprometta dunque l’efficacia. Quest’ultima esigenza è particolarmente rilevante poiché i funzionari pubblici hanno generalmente un atteggiamento di avversione al rischio. L’esposizione ad azioni risarcitorie induce a comportamenti opportunistici che tendono variamente a rinviare le decisioni, a scegliere tra più soluzioni possibili quella più sicura anziché quella che massimizza l’interesse pubblico, a coinvolgere nella decisione altri funzionari o apparati in modo da rendere più difficile l’accertamento della responsabilità, ecc. L’analisi economica del diritto ha in proposito analizzato il sistema degli incentivi e disincentivi discendente dai vari modelli di responsabilità della pubblica amministrazione e dei funzionari, in modo da ricercare soluzioni ottimali volte a massimizzare il benessere collettivo.

5. L’art. 28 della Costituzione e la responsabilità civile da comportamento illecito.

La responsabilità della pubblica amministrazione in Italia trova fondamento nell’art. 28 della Costituzione. La disposizione stabilisce che “ i funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili secondo le leggi penali, civili e amministrative degli atti compiuti in violazione di diritti. In tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici”. Il richiamo alle leggi civili rinvia alle norme codicistiche sulla responsabilità contrattuale, extracontrattuale e precontrattuale.

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A prima vista, l’art. 28 sembra porre in primo piano la responsabilità personale del dipendente e solo in via subordinata (per estensione) la responsabilità dell’apparato.

Più precisamente quest’ultima sembra avere carattere sussidiario e parallelo: sussidiario, nel senso che il danneggiato deve proporre l’azione per danni in prima battuta nei confronti del dipendente pubblico e può agire contro l’amministrazione solo nei casi in cui quest’ultimo non abbia un patrimonio capiente; parallelo nel senso che può sorgere se e solo se sussista una responsabilità personale del dipendente. L’interpretazione dell’art. 28, come si vedrà di seguito, è stata invece nel senso di ritenere che la responsabilità del dipendente e dell’amministrazione abbia natura solidale e non sia necessariamente parallela.

In realtà, l’art. 28 fu il frutto della riformulazione non felice di un articolo che i costituenti volevano introdurre per rafforzare la tutela dei diritti di libertà sanciti dalla Costituzione. L’idea originaria era cioè di introdurre una nuova responsabilità di rango costituzionale e non a caso l’articolo chiude il Titolo primo della parte Prima della Costituzione dedicato ai diritti fondamentali. Gli emendamenti via via introdotti snaturarono la portata dell’articolo la cui formulazione finale diede subito adito a un dibattito circa la sua portata effettiva. L’interpretazione giurisprudenziale ricondusse la portata della disposizione al modello di responsabilità, già affermatosi nei decenni precedenti, che pone in primo piano la responsabilità dell’apparato.

Già prima della Costituzione, infatti, la responsabilità degli apparati pubblici derivante da comportamenti illeciti venne ricostruita come responsabilità diretta che sorge in base al cosiddetto rapporto organico (o di immedesimazione organica) intercorrente tra l’agente e l’amministrazione di appartenenza. A quest’ultima si imputano direttamente gli effetti dell’attività del primo, sia che essa si esprima in provvedimenti amministrativi sia che essa si esprima in comportamenti. Ciò perché, in base alla ricostruzione richiamata, da un punto di vista formale, non è il dipendente pubblico che opera, ma è “l’ente stesso che agisce e vuole” (E. CASETTA). Pertanto in caso di attività illecita posta in essere dal dipendente nell’ambito delle mansioni alle quali è adibito, la responsabilità sorge esclusivamente in capo alla pubblica amministrazione, la quale peraltro può rivalersi sul dipendente in base ai principi della responsabilità amministrativa, cioè, come si vedrà, di una responsabilità di tipo interno.

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Solo per alcune categorie particolari di dipendenti pubblici (giudici, cancellieri, ufficiali giudiziari, conservatori dei registri immobiliari, ecc,) leggi speciali antecedenti alla Costituzione avevano introdotto una responsabilità personale del dipendente con esclusione della responsabilità dell’apparato.

L’assoggettamento della pubblica amministrazione ai principi di diritto comune in tema di responsabilità subì peraltro inizialmente numerose deroghe. Da un lato, varie leggi speciali riferite a particolari tipi di attività connesse a servizi pubblici ponevano limiti alla responsabilità del gestore. Per esempio, esentavano da ogni responsabilità l’amministrazione postale in caso di perdita o di manomissione di lettere raccomandate o il gestore dei servizi telefonici in caso di interruzione colposa del servizio. Dall’altro lato, interpretazioni giurisprudenziali ritennero incompatibile l’applicazione di alcune regole civilistiche alla pubblica amministrazione.

Così, per esempio, per lungo tempo la giurisprudenza ritenne che a quest’ultima non potesse trovare applicazione l’art. 2050 cod. civ. secondo il quale chi provoca un danno nello svolgimento di attività pericolosa è responsabile se non prova di aver adottato tutte le misure idonee a evitare il danno. Infatti, mentre i privati svolgono tali attività a scopi di lucro, l’amministrazione lo fa per esigenze della collettività (si pensi alle esercitazioni militari). Inoltre, il controllo da parte del giudice sull’idoneità delle misure adottate per evitare il danno comporterebbe un’intromissione inammissibile nella sfera delle scelte discrezionali dell’amministrazione.

Anche l’applicazione ai beni demaniali dell’art. 2051 cod. civ. in materia di responsabilità da cose in custodia (per esempio le strade pubbliche) venne a lungo esclusa. Lo stesso art. 1337 cod. civ. in tema di responsabilità precontrattuale venne ritenuto non applicabile ai contratti della pubblica amministrazione. Ciò perché l’indagine sulla lealtà del comportamento dell’amministrazione nella fase delle trattative con il privato comporterebbe un sindacato sull’esercizio del potere discrezionale.

La giurisprudenza ha via via superato molte posizioni volte a riconoscere alla pubblica amministrazione aree di immunità. Ha per esempio applicato l’art. 2050 cod. civ. all’attività di gestione di linee elettriche ad alta tensione. Ha affermato che la responsabilità ai sensi dell’art. 2051 cod. civ. per danni da omessa o insufficiente manutenzione delle strade pubbliche è esclusa solo quando vi è un’oggettiva impossibilità di esercizio di un potere di controllo a causa della notevole

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estensione del bene e dell’uso generalizzato da parte di terzi. Ha affermato che viola l’art. 1337 cod. civ. la condotta dell’amministrazione che ha avviato e concluso una procedura a evidenza pubblica, ma che abbia poi revocato l’aggiudicazione per mancanza di copertura finanziaria, cioè della disponibilità delle somme necessarie per far fronte agli impegni contrattuali.

Anche la Corte Costituzionale è intervenuta in più occasioni a dichiarare incostituzionali le leggi che riconoscevano esenzioni dalla responsabilità a favore dell’amministrazione. In definitiva, l’evoluzione normativa e giurisprudenziale nel nostro ordinamento è stata nella direzione di assoggettare sempre di più al diritto comune la responsabilità della pubblica amministrazione.

Il legislatore ordinario, avallando l’interpretazione dell’art. 28 della Costituzione tesa a metterne in luce gli elementi di continuità con il sistema precedente, ha introdotto alcune delle prescrizioni generali negli artt. 22 e seg. del Testo Unico sugli impiegati civili dello Stato approvato con d.P.R. gennaio 1957, n. 3 (ancor oggi in vigore in questa parte),

All’esito di questa complessa evoluzione, il modello della responsabilità della pubblica amministrazione e dei suoi agenti riferita a meri comportamenti, cioè condotte non ricollegabili all’esercizio di un potere e all’emanazione di un provvedimento, può essere così ricostruito.

In primo luogo, la responsabilità del funzionario e dell’amministrazione per danni provocati a terzi è una responsabilità diretta di tipo solidale. Il danneggiato può scegliere liberamente se agire contro il dipendente, contro l’amministrazione o contro entrambi. L’art. 22 del Testo Unico, rubricato “Responsabilità verso i terzi”, prevede infatti, da un lato, che l’impiegato che cagioni ad altri un danno ingiusto “è personalmente obbligato a risarcirlo”; dall’altro lato che l’azione di risarcimento nei suoi confronti “può essere esercitata congiuntamente con l’azione diretta nei confronti dell’Amministrazione”. Per prassi, tenuto conto che l’amministrazione è un debitore patrimonialmente molto più solido del dipendente, l’azione risarcitoria viene esperita soltanto nei confronti dell’amministrazione, salvo che sussistano ragioni di ostilità e acrimonia particolari,. In questo modo si evita il rischio di “overdeterrence”.

In secondo luogo, il perimetro della responsabilità della pubblica amministrazione è più ampio di quello della responsabilità del dipendente. Infatti, la responsabilità personale di quest’ultimo per danni provocati

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nell’esercizio delle funzioni alle quali è preposto è limitata ai casi di dolo e colpa grave (art. 23 del Testo Unico). In caso di colpa lieve, l’azione risarcitoria può essere proposta solo nei confronti dell’amministrazione e viene dunque meno il principio del parallelismo. Inoltre, l’impossibilità pratica di identificare il dipendente pubblico che ha posto in essere il comportamento dannoso non esclude la responsabilità della pubblica amministrazione, purché sia accertato che la condotta sia riferibile a un dipendente di quell’amministrazione. Anche questa ipotesi esclude il principio del parallelismo delle responsabilità.

In terzo luogo, l’amministrazione che abbia risarcito il terzo del danno cagionato dal dipendente può esercitare un’azione di regresso contro quest’ultimo secondo i principi della responsabilità amministrativa (art. 22 del Testo Unico). Si tratta di una responsabilità per così dire interna al rapporto tra dipendente e amministrazione che include tutti “i danni derivanti da violazioni di obblighi di servizio” (art. 18 del Testo Unico). La responsabilità amministrativa, come si vedrà, ha caratteristiche particolari ed è accertata attraverso un giudizio innanzi alla Corte dei conti (art. 19). Questo tipo di responsabilità assolve in modo efficace la funzione di prevenire comportamenti illeciti da parte dei dipendenti pubblici. Di fatto questi ultimi temono la responsabilità per danno erariale azionata, come si vedrà, dalla procura della Corte dei conti, molto più di quella civile azionata dai terzi danneggiati.

Fin qui ci si è occupati del modello generale di responsabilità della pubblica amministrazione e dei suoi agenti scomponendo la relazione trilaterale che la caratterizza nelle sue componenti essenziali: il rapporto tra terzo danneggiato e il dipendente pubblico che ha posto in essere il comportamento illecito; il rapporto tra il terzo danneggiato e la pubblica amministrazione nella quale è incardinato il dipendente pubblico; il rapporto per così dire interno tra dipendente e amministrazione di appartenenza.

Occorre ora prendere in considerazione gli elementi strutturali dell’illecito civile ex art. 2043 cod. civ. Va posta anzitutto la distinzione tra illecito riferito ai meri comportamenti degli agenti della pubblica amministrazione e illecito conseguente all’emanazione di provvedimenti amministrativi illegittimi. Quest’ultimo ambito, divenuto attuale solo dopo la sentenza n. 50/1999, presenta alcune peculiarità che verranno messe in evidenza dopo aver trattato l’ambito dei meri comportamenti (non collegati in alcun modo all’esercizio del potere).

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Rientrano in tale ambito, tipicamente, l’incidente stradale causato da un automezzo militare; il danno subito da uno scolaro non sorvegliato adeguatamente dall’insegnante; il danno provocato a un autoveicolo a causa della difettosa manutenzione di una strada (la cosiddetta insidia o trabocchetto); il danno causato da un incendio della sterpaglia presente sulle sponde di un fiume lasciate negligentemente in stato di abbandono.

In estrema sintesi, in base alla disposizione codicistica, per essere risarcibile il danno deve essere riconducibile a una condotta colposa o dolosa dell’agente; deve essere qualificato come “ingiusto”; deve sussistere un nesso di causalità tra condotta ed evento pregiudizievole.

Per quanto riguarda la condotta, in conformità ai principi generali, la responsabilità del dipendente e della pubblica amministrazione può sorgere sia quando l’illecito consegua al compimento di atti od operazioni, sia quando l’illecito consista “nell’omissione o nel ritardo ingiustificato di atti od operazioni al cui compimento l’impiegato è obbligato per legge o per regolamento” (art. 23, comma 2, del Testo Unico). La proposizione dell’azione risarcitoria deve essere preceduta in questo caso da un atto formale di diffida (art. 25 del Testo Unico).

Inoltre, nel caso in cui la condotta consista in atti od operazioni compiute da organi collegiale, tutti i membri del collegio sono responsabili in solido. La responsabilità è esclusa solo per coloro che abbiano fatto verbalizzare il proprio dissenso (art. 24 del Testo Unico).

Infine, la condotta illecita deve essere imputabile all’agente in base all’art. 2046 del cod. civ., che esclude l’imputabilità in caso di incapacità di intendere e volere al momento in cui la condotta è stata posta in essere. Deve essere inoltre riferibile all’amministrazione in base al rapporto di immedesimazione organica. Quest’ultimo può spezzarsi (cosiddetta frattura del rapporto organico) solo nei casi in cui il dipendente agisce per finalità personali ed egoistiche al di fuori delle proprie incombenze.

Tuttavia non vi è automatismo, come si riteneva in passato, tra condotta dolosa, qualificabile o meno come reato e frattura del rapporto organico. Infatti secondo la giurisprudenza più recente, in presenza di una condotta dolosa non si ha frattura allorché sia rinvenibile comunque un nesso di “occasionalità necessaria” tra attività illecita e mansioni del dipendente. In concreto, occorre verificare se il comportamento doloso o costituente reato dell’agente sia comunque riconducibile in ultima analisi, a un interesse dell’amministrazione. In particolare va stabilito se lo specifico comportamento dell’agente, pur costituendo un abuso volontario

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o riconducibile a una prassi distorta, si inserisca in un’attività complessiva comunque rivolta al perseguimento dei fini istituzionali dell’ente. Solo se manca tale nesso, come per esempio quando il comportamento illecito dell’agente costituisca un reato il cui soggetto passivo è la stessa pubblica amministrazione, responsabile è solo il dipendente. Così, per esempio, sussiste il nesso di occasionalità necessaria nel caso di un carabiniere che ferisce con la pistola d’ordinanza un commilitone nella camerata di una caserma scaricando la pistola d’ordinanza in violazione del divieto di tenere l’arma carica; non sussiste invece tale nesso nel caso di un carabiniere, in libera uscita in un locale pubblico, ferisce un amico con l’arma in dotazione mentre per scherzo, quasi per vanteria, la maneggia incautamente.

Passando a considerare il requisito della colpa, un aspetto particolare riguarda il nesso tra colpa e discrezionalità. In passato la giurisprudenza riteneva che fosse precluso al giudice l’accertamento della colpa perché esso si sarebbe risolto in un giudizio sulla discrezionalità della pubblica amministrazione non consentito in base alla legge 20 marzo 1865, n. 2278 All. E che, come si è accennato, individua l’ambito della giurisdizione del giudice ordinario. Progressivamente la giurisprudenza ha superato questa chiusura affermando invece il principio, oggi pacifico, secondo il quale il potere discrezionale dell’amministrazione incontra un limite, non soltanto nelle disposizioni di legge e di regolamento che prescrivono determinate modalità di comportamento, ma anche nelle comuni regole di diligenza e prudenza. In altre parole, l’amministrazione nell’operare le scelte discrezionali è tenuta al rispetto del principio generale del neminem laedere.

Su questo tema rileva la distinzione tra scelta discrezionale dei mezzi più idonei per soddisfare gli interessi pubblici (per esempio, le modalità organizzative di un servizio pubblico) e attività di realizzazione e messa in opera dei mezzi prescelti. Con riguardo a quest’ultima non sorge tanto un problema di sindacato sulla discrezionalità, quanto un problema di valutazione di un comportamento del dipendente che abbia attuato in modo difettoso, con negligenza, imperizia o imprudenza, la scelta. Così, per esempio, il giudice non potrebbe censurare la scelta organizzativa del proprietario e gestore della rete ferroviaria di lasciare incustodito un passaggio a livello, ma ben potrebbe invece valutare se gli strumenti di segnalazione del passaggio a livello incustodito non abbiano funzionato correttamente a causa di una cattiva manutenzione dei medesimi.

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Quanto al requisito dell’ingiustizia del danno, come già più volte accennato, la giurisprudenza costante (per i critici “monolitica” o “pietrificata”), prima della svolta operata dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la sentenza n. 500/1999, riteneva che poteva essere definito come ingiusto ai sensi dell’art. 2043 cod. civ. il danno conseguente alla lesione di un diritto soggettivo e non anche quello conseguente alla lesione di un interesse legittimo.

Veniva così esclusa la risarcibilità dei danni conseguenti causati da provvedimenti amministrativi illegittimi, mentre essa era ammessa con riguardo a tutta l’area dei meri comportamenti degli agenti della pubblica amministrazione. Questi ultimi, ove posti in essere “contra jus”, determinano una lesione di una situazione giuridica soggettiva di diritto soggettivo in senso proprio in capo al soggetto danneggiato.

Peraltro, già prima della sentenza n. 500/1999 la giurisprudenza aveva esteso l’ambito della responsabilità della pubblica amministrazione a fattispecie nelle quali emergeva un collegamento almeno indiretto con l’esercizio di poteri amministrativi che incidono negativamente sulla sfera giuridica del destinatario ai quali corrispondono, come si è visto, i cosiddetti interessi legittimi oppositivi.

L’esempio più significativo era quello dell’occupazione di un terreno operata dalla pubblica amministrazione in esecuzione di un provvedimento di espropriazione illegittimo. Infatti il proprietario leso in un suo interesse legittimo ad opera del provvedimento di esproprio poteva proporre un’azione di annullamento innanzi al giudice amministrativo. In caso di accoglimento del ricorso, con conseguente annullamento del provvedimento di esproprio, la retroattività dell’annullamento ripristinava e faceva riespandere il diritto soggettivo in capo al proprietario privato. Pertanto l’avvenuta occupazione del terreno, valutata a posteriori, diventava abusiva, cioè priva di un titolo dei legittimazione. La posizione dell’amministrazione era dunque del tutto assimilabile a quella di un soggetto privato che si fosse impossessato del terreno del vicino, un comportamento certamente illecito ai sensi dell’art. 2043 cod. civ. tutelabile innanzi al giudice ordinario.

Analogamente, la revoca illegittima di una concessione amministrativa attributiva a un soggetto privato il diritto soggettivo a svolgere una determinata attività poteva costituire un illecito risarcibile una volta che il provvedimento fosse stato annullato dal giudice amministrativo. Il danno da risarcire era quello correlato al mancato esercizio dell’attività oggetto

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della concessione nel periodo di tempo intercorrente dalla revoca all’emanazione della sentenza di annullamento.

Attraverso questo meccanismo, un po’ macchinoso poiché comportava la necessità di instaurare due giudizi dapprima innanzi al giudice amministrativo per tutelare l’interesse legittimo e poi innanzi al giudice ordinario per tutelare il diritto soggettivo, tutta l’area degli interessi legittimi oppositivi (o, per usare un’altra terminologia già menzionata, dei diritti affievoliti) era potenzialmente in grado di far sorgere una responsabilità a carico dell’amministrazione.

La giurisprudenza aveva invece negato in modo netto possibilità di richiedere il risarcimento del danno nel caso di diniego illegittimo di un provvedimento favorevole che preclude lo svolgimento di un’attività e dunque l’esercizio di un diritto. Ed è proprio sul versante dei cosiddetti interessi legittimi pretensivi che la sentenza n. 500/1999 ha introdotto le innovazioni maggiori.

6. La risarcibilità del danno da lesione di interessi legittimi.

Con la sentenza n. 500/1999 è emerso in primo piano il tema della responsabilità da provvedimento illegittimo.

La Corte di Cassazione ha abbattuto la barriera della irrisarcibilità del danno da lesione di interesse legittimo, dimostrandosi sensibile alle critiche quasi unanimi della dottrina e cogliendo alcune sollecitazioni provenienti dal diritto comunitario che non conosce la distinzione tra diritti soggettivi e interessi legittimi.

La Corte ha operato una nuova interpretazione della nozione di “danno ingiusto” ex art. 2043 cod. civ. A questo fine ha anzitutto qualificato l’art. 2043 cod. civ. non più “come norma (secondaria), volta a sanzionare una condotta vietata da altre norme (primarie), bensì come norma (primaria) volta ad apportare una riparazione del danno ingiustamente sofferto da un soggetto per effetto dell'attività altrui”.

In altre parole, per la sua applicazione l’art. 2043 cod. civ. non richiede che si rinvengano altre norme primarie recanti divieti e costitutive di diritti, ma pone direttamente il criterio per stabilire se il danno possa essere qualificato come “ingiusto”. Non ha più un rilievo determinate la qualificazione formale della situazione giuridica soggettiva del danneggiato in termini di diritto soggettivo, ma è sufficiente che in capo al danneggiato sia riscontrabile “la lesione di un interesse giuridicamente

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rilevante”. E’ ingiusto cioè il danno che lede un interesse giuridicamente rilevante e ciò a prescindere dalla qualificazione di quest’ultimo in termini di diritto soggettivo o di interesse legittimo.

Diventa allora cruciale stabilire in quali casi un interesse è giuridicamente rilevante e a questo fine la Corte precisa che occorre operare un giudizio di valutazione e comparazione tra interessi in conflitto alla stregua del diritto positivo, accertando con quale consistenza e intensità l’ordinamento assicura tutela all’interesse del danneggiato.

In base a questo criterio non tutti gli interessi legittimi sono risarcibili. Occorre infatti appurare se per effetto del provvedimento illegittimo risulti leso “l’interesse al bene della vita al quale l’interesse legittimo si correla”. Nel caso degli interessi legittimi oppositivi la correlazione al bene della vita, cioè la conservazione del bene o della situazione di vantaggio di fronte a un provvedimento che mira a sacrificarlo o a limitarlo, è per così dire in re ipsa.

Nel caso degli interessi legittimi pretensivi, in relazione ai quali la sentenza n. 500 introduce, come si è già detto, le innovazioni maggiori, la cui lesione può derivare dal diniego illegittimo del provvedimento favorevole richiesto sia dal ritardo ingiustificato nell’adozione di quest’ultimo, il collegamento con il bene della vita è meno automatico e richiede una valutazione più complessa.

Quest’ultima implica infatti “un giudizio prognostico da condurre in riferimento alla normativa di settore, sulla fondatezza o meno della istanza onde stabilire se il pretendente fosse titolare non già di una mera aspettativa, come tale non tutelabile, bensì di una situazione suscettiva di determinare un oggettivo affidamento circa la sua conclusione positiva, e cioè di una situazione che, secondo la disciplina applicabile, era destinata, secondo un criterio di normalità, ad un esito favorevole, e risultava quindi giuridicamente protetta”.

Scomponendo e sviluppando questo passaggio centrale della sentenza n. 500/1999 nei sui passaggi logici, ne deriva che: il giudizio prognostico ha per oggetto la fondatezza o meno dell’istanza del privato volta a ottenere il provvedimento favorevole e dunque tende ad appurare se all’esito del procedimento il bene della vita o l’utilità che il privato mira a conseguire gli deve essere riconosciuto; esso richiede un esame della normativa di settore che disciplina quel particolare tipo di procedimento e ciò soprattutto per stabilire se e quanti margini di discrezionalità sono riconosciuti all’amministrazione, atteso che la sussistenza della

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discrezionalità esclude la spettanza del bene della vita; esso va condotto secondo un criterio di normalità, cioè prefigurando, anche alla luce della situazione concreta di fatto, l’andamento e l’esito del procedimento; all’esito del giudizio può risultare alternativamente, in caso di prognosi negativa, che il privato è titolare di una semplice aspettativa non tutelata (una sorta di mera speranza a ottenere il provvedimento favorevole), in caso di prognosi positiva, che egli si trovi in una situazione di oggettivo affidamento, giuridicamente protetto, a conseguire il bene della vita ad opera di un provvedimento favorevole.

Solo in quest’ultimo caso, che coincide sostanzialmente con i provvedimenti vincolati, negli interessi legittimi pretensivi sussiste un collegamento diretto con il bene della vita tale da renderli risarcibili.

In definitiva, secondo la Corte di Cassazione, la linea di confine tra risarcibilità e irrisarcibilità non è tracciata più dalla distinzione tra diritto soggettivo e interesse legittimo, ma è costituita più semplicemente dalla esistenza o meno della lesione di un bene della vita accertata attraverso il giudizio prognostico.

La sentenza n. 500/1999 fornisce altri criteri per stabilire se un provvedimento illegittimo della pubblica amministrazione sia o meno riconducibile allo schema dell’art. 2043 cod. civ.

In particolare, precisa che l’accertamento dell’illegittimità del provvedimento non integra in modo automatico (in re ipsa) il requisito della colpa. E’ richiesta invece un’ indagine ulteriore che vada a verificare se la l’illegittimità riscontrata derivi dalla violazione delle regole di imparzialità, di correttezza e di buona amministrazione alle quali deve ispirarsi l’esercizio della funzione amministrativa e che si pongono come limiti esterni alla discrezionalità. Il giudice deve cioè valutare le ragioni che hanno determinato l’illegittimità.

In secondo luogo, la colpa va riferita, più che al funzionario agente, all’apparato nel suo complesso, andando a sindacare se vi sia stata una disfunzione complessiva che ha determinato l’illegittimità, per esempio a causa di una cattiva organizzazione del personale, dei mezzi e delle risorse dell’ufficio.

Sul requisito della colpa, la giurisprudenza amministrativa ha introdotto una serie di precisazioni tese soprattutto a semplificare l’onere probatorio in capo al danneggiato. Il punto di arrivo di questa evoluzione sembra essere nel senso di utilizzare a favore di quest’ultimo le presunzioni semplici di cui agli artt. 2727 e 2729 cod. civ. in base ai quali

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esse sono rimesse al prudenze apprezzamento del giudice e devono essere “gravi, precise e concordanti”. In pratica, per assolvere al proprio onere probatorio, il danneggiato può invocare la stessa illegittimità come indice presuntivo della colpa allegando anche altre circostanze idonee a dimostrare che non si è trattato di un errore scusabile quali, per esempio, la chiarezza e univocità della norma da applicare, il carattere vincolato del potere, la mancata considerazione da parte dell’amministrazione dell’apporto partecipativo del privato. A questo punto per superare la presunzione di colpa, spetta all’amministrazione allegare elementi indiziari che viceversa consentono di qualificare l’errore come errore scusabile, quali, per esempio, la novità assoluta della norma applicata, contrasti giurisprudenziali in ordine alla sua interpretazione, la formulazione incerta della norma, il comportamento non corretto del danneggiato che ha tenuto nascosto circostanze rilevanti o abbia prodotto nel procedimento dichiarazioni inesatte, ecc. In presenza di una illegittimità macroscopica e plateale il danneggiato, per far scattare la presunzione di colpa, può limitarsi ad allegare quest’ultima, gravando poi sull’amministrazione il compito di fornire elementi volti a dimostrare l’assenza di colpa.

Si tratta di un tipo di verifica molto simile, come si vedrà, a quella operata dalla giurisprudenza comunitaria per valutare la gravità della violazione commessa dall’amministrazione, gravità che viene apprezzata in base a parametri quali il grado di chiarezza e precisione della norma violata, la presenza di una giurisprudenza consolidata sulla questione esaminata, la novità della questione, ecc.

La sentenza n. 500/1999 e la giurisprudenza amministrativa prevalente inquadrano il fenomeno della responsabilità per danno da lesione di interessi legittimi all’interno degli schemi della responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 del cod. civ.

Tuttavia sono emerse in dottrina e in giurisprudenza ricostruzioni alternative del modello di responsabilità, ricondotta piuttosto agli schemi della responsabilità contrattuale o precontrattuale.

Si è osservato infatti che nella vicenda procedimentale conclusasi con l’emanazione di un provvedimento illegittimo, il privato danneggiato non può essere equiparato al “chiunque” o al semplice “passante” con il quale il danneggiante non ha alcuna relazione preesistente, che è il contesto nel quale può sorgere tipicamente la responsabilità extracontrattuale. Viceversa il contatto procedimentale tra il privato e la pubblica amministrazione si presta ad essere inquadrato più propriamente nello

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schema del rapporto obbligatorio o del “contatto sociale” qualificato. Ciò perché si tratta di un rapporto che lungi dall’essere slegato da qualsivoglia regolamentazione, impone alle parti una serie precisa di obblighi comportamentali di correttezza e buona fede. Del resto, già nel Cap. III si è utilizzata l’espressione “rapporto giuridico amministrativo” e si è accennato alle tesi dottrinarie più recenti che riconducono l’interesse legittimo all’interno dello schema del rapporto obbligatorio.

Riconoscere natura contrattuale o precontrattuale alla responsabilità per danno da provvedimento illegittimo avrebbe come conseguenza l’applicazione del relativo regime (termini di prescrizione, onere probatorio, danno risarcibile, ecc.).

In realtà, la questione rimane ancora aperta e in ogni caso qualche adattamento rispetto agli schemi civilistici puri sembra inevitabile. Quest’opera di affinamento del regime giuridico della responsabilità è reso più agevole dal fatto che a partire dal 2000 e ora con il Codice del processo amministrativo (art. 7, comma 4), la giurisdizione in tema di azioni risarcitorie per lesione di interessi legittimi è affidata al giudice amministrativo. Quest’ultimo è così in grado di elaborare con maggior autonomia il regime della responsabilità, atteso che la Corte di cassazione non può esercitare la funzione nomofilattica uniformante sulla interpretazione delle norme civilistiche, poiché il sindacato della Corte sulle sentenze del Consiglio di Stato è limitato alle questioni di giurisdizione (art. 111, comma 8, Cost.). Il rischio, segnalato in dottrina, è dunque che giudice ordinario e giudice amministrativo sviluppino i principi in materia di responsabilità in direzioni non coincidenti.

Un’ipotesi particolare di responsabilità dell’amministrazione collegata all’esercizio del potere amministrativo è il cosiddetto danno da ritardo. Si tratta cioè dei casi nei quali l’amministrazione, in violazione dell’art. 2 della l. n. 241/1990 non conclude il procedimento avviato entro il termine previsto.

L’art. 2-bis stabilisce che le pubbliche amministrazioni sono tenute al risarcimento del danno in giusto “in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento”. La disposizione precisa poi che il diritto si prescrive in cinque anni e che le relative controversie sono attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. Da questa disposizione sembra emergere che il tempo costituisce un “bene della vita” autonomo suscettibile di risarcimento a prescindere dalla legittimità o illegittimità a del provvedimento emanato. Ottenere o veder negata un’autorizzazione entro

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un termine certo costituisce un’utilità apprezzabile di per sé sotto il profilo economico. Il ritardo nel rilascio di un provvedimento favorevole può determinare immobilizzazioni di materiali e attrezzature o di risorse finanziarie e mancati introiti relativi all’attività da intraprendere.

Possono infatti darsi in astratto tre fattispecie. La prima è che l’amministrazione abbia emanato nel termine un provvedimento di diniego (per esempio, un diniego di autorizzazione) impugnato e annullato dal giudice amministrativo e che essa abbia poi rilasciato il provvedimento favorevole in esecuzione della sentenza. In questo caso il ritardo nell’avvio di attività è causato in modo diretto dal primo provvedimento di diniego e si tratta dunque di responsabilità da provvedimento illegittimo. La seconda è che l’amministrazione abbia rilasciato il provvedimento favorevole in ritardo, mentre la terza è che l’amministrazione abbia negato legittimamente il provvedimento richiesto sempre in ritardo. In queste due ipotesi il danno da ritardo non è causato direttamente dal provvedimento, che anzi in entrambe risulta pienamente legittimo, ma soltanto dalla mancata conclusione del procedimento nel termine previsto. In esse emerge dunque la questione del ritardo allo stato puro (o mero ritardo), disancorato dalla legittimità o meno del provvedimento. In passato queste due ipotesi avevano dato origine a oscillazioni giurisprudenziali sia sulla spettanza del risarcimento, sia in ordine al giudice investito della giurisdizione che ora dovrebbero essere superate dall’art. 2-bis che rafforza il principio della certezza del tempo dell’agire amministrativo.

Sotto il profilo processuale, l’azione per il risarcimento del danno da lesione di interesse legittimo rientra ormai, come si è già accennato, nella giurisdizione del giudice amministrativo (art. 7, comma 4 del Codice del processo amministrativo). Inoltre essa può essere proposta insieme all’azione di annullamento o anche in modo autonomo (art. 30 del Codice). Si supera così il precedente contrasto giurisprudenziale tra giudice ordinario propenso ad ammettere l’azione risarcitoria autonoma (o pura) e il giudice amministrativo fermo a sostenere il cosiddetto principio della pregiudizialità amministrativa, cioè del collegamento necessario tra azione di annullamento e azione di risarcimento.

Come già accennato, peraltro, il Codice assoggetta l’azione risarcitoria a un termine di 120 giorni, molto più breve del termine ordinario di prescrizione quinquennale delle azioni risarcitorie innanzi al giudice civile e consente al giudice amministrativo di tener conto in sede di quantificazione del danno del comportamento del privato danneggiato

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escludendo in particolare “il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza, anche attraverso l’esperimento degli strumenti di tutela previsti” (art. 30, comma 3). L’onere di diligenza in questione, che richiama quello posto in termini generali dall’art. 1227, comma 2, cod. civ., include, come ha chiarito la sentenza dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 3 del 2011, quello di proporre l’azione di annullamento. Si è parlato in proposito di “pregiudizialità mascherata”, perché il rischio di veder azzerato il danno costituisce un incentivo molto forte a non proporre l’azione risarcitoria pura.

In ogni caso la materia è ancora fluida in quando pende un ricorso alla Corte costituzionale e comunque da più parti si sollecita un intervento legislativo che renda più lungo il termine e che eviti penalizzazioni eccessive all’azione risarcitoria pura.

Un ultimo accenno va dedicato alla responsabilità contrattuale della pubblica amministrazione in base agli artt. 1218 e seg. cod. civ. Essa è stata sempre riconosciuta alla pubblica amministrazione nei casi in cui agisca nella sua capacità di diritto privato nei rapporti con i terzi. In passato si riteneva peraltro che essa fosse assoggettata ad alcuni principi speciali, in particolare per quanto riguarda il carattere liquido ed esigibile dei crediti pecuniari. Si riteneva cioè che la normativa sulla liquidazione delle somme dovute dallo Stato ai creditori contenuta nella legge sulla contabilità prevalesse sul codice civile. Così fin tanto che la stessa amministrazione non emetteva il mandato di pagamento il credito non poteva essere considerato liquido ed esigibile, non decorrevano gli interessi di mora e non poteva essere intrapresa la procedura esecutiva. A partire dalla fine degli anni Settanta del secolo scorso, è prevalsa la tesi che le norme di contabilità hanno un carattere essenzialmente organizzativo interno e che pertanto lo Stato è equiparato in tutto e per tutto a un debitore comune.

Anche i principi della responsabilità precontrattuale, come si è già accennato, trovano ormai piena applicazione nei confronti delle amministrazioni pubbliche.

7. La responsabilità nel diritto europeo.

La responsabilità della pubblica amministrazione nel diritto europeo può essere analizzata sotto due profili principali: la responsabilità degli organi dell’Unione europea nei confronti dei

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terzi in relazione all’attività giuridica posta in essere in contrasto con il diritto europeo; la responsabilità degli Stati membri nei confronti dei terzi in relazione alla violazione del diritto europeo.

Il primo profilo trova una disciplina espressa nel Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea. Il secondo ha origine essenzialmente giurisprudenziale.

La disposizione fondamentale è l’art. 340 del TFUE già citato. Il primo comma disciplina la responsabilità contrattuale della Comunità e si limita ad operare un rinvio alla legge nazionale applicabile al contratto in causa. Il secondo comma regola invece la responsabilità extracontrattuale della Comunità e prevede, come si è già accennato, che “l’Unione deve risarcire, conformemente ai principi generali comuni ai diritti degli Stati membri, i danni cagionati dalle sue istituzioni o dai suoi agenti nell’esercizio delle loro funzioni”. Questa disposizione ha acquistato una forza espansiva tale da costituire il fondamento della responsabilità degli Stati membri.

Il quarto comma dell’art. 340 stabilisce infine che la responsabilità personale dei dipendenti dell’Unione nei confronti di quest’ultima è regolata dalle disposizioni sul loro stato giuridico.

Quanto ai profili processuali, l’art. 268 del TFUE attribuisce alla Corte di giustizia la competenza a conoscere le controversie relative alla responsabilità extracontrattuale della Comunità di cui all’art. 340 secondo comma sopra citato. Con l’istituzione del Tribunale di primo grado, spetta a quest’ultimo la cognizione in prima istanza delle domande risarcitorie proposte da persone fisiche e giuridiche.

I presupposti sostanziali della responsabilità delle istituzioni comunitarie deducibili dall’art. 340, comma 2 del TFUE sono essenzialmente tre: un comportamento contra jus riferibile a un’istituzione comunitaria; l’esistenza di un danno; il nesso di causalità. Ciascuno di essi richiede un breve commento.

In primo luogo nella nozione di comportamento contra jus imputabile alla Comunità rientra sia la nozione di comportamento o fatto materiale (omissivo o commissivo) sia quella di atto giuridico, normativo o amministrativo.

Circa il carattere grave e manifesto della violazione, questa condizione contribuisce ad attribuire carattere eccezionale alla responsabilità delle istituzioni comunitarie in settori nei quali il potere

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normativo esercitato assume connotati di ampia discrezionalità (sentenza 25 maggio 1978, in cause riunite C-83 e 94/76, C-4, 15 e 40/77, Bayerische HNL e altri c. Consiglio e Commissione e sentenza 19 maggio 1992, in cause riunite C-104/89 e C-37/90, Mulder e altri. c. Consiglio e Commissione,).

Il carattere grave e manifesto della violazione può essere ricavato in via sintomatica, come si è già accennato, da una serie di indici: il grado di chiarezza e di precisione della norma violata, il carattere intenzionale o involontario della trasgressione commessa o del danno causato, la scusabilità di un eventuale errore di diritto, l’accertamento dell’inadempimento contestato da parte di una pronuncia giudiziale, ecc. (cfr. sentenza 5 marzo 1996, in cause riunite C-46/93 e C-48/93, punto 56, Brasserie du pécheur-Factortame).

Affinché sorga la responsabilità extracontrattuale non è richiesto invece che la violazione della norma derivi da una condotta dolosa o colposa, elemento soggettivo invece richiesto in molti ordinamenti nazionali. Il danno risarcibile deve essere effettivo, cioè certo e attuale. Può trattarsi di danni presenti o futuri, ma non meramente ipotetici. Il danno risarcibile include non solo il danno emergente, ma anche il lucro cessante, peraltro raramente riconosciuto in concreto (sentenza 3 febbraio 1994, in causa 308/87, Grifoni).

Ai fini della quantificazione del danno, la giurisprudenza applica il “principio generale comune agli ordinamenti giuridici degli Stati membri secondo il quale la persona lesa, per evitare di doversi accollare il pregiudizio, deve dimostrare di aver agito con ragionevole diligenza onde limitare l’entità del danno” (cfr. sentenza 19 maggio 1992, citata, punto 33, Mulder e altri. c. Consiglio e Commissione).

Passando ora a considerare la responsabilità degli Stati membri, la sentenza capostipite è la sentenza Francovich (19 novembre 1991, in cause riunite C-6 e 9/90) sulla quale si è ormai formata un’ampia letteratura.

Il caso riguardava il mancato recepimento da parte della Repubblica italiana entro il termine prescritto di una direttiva comunitaria (80/987/CEE). Due giudici nazionali, richiesti di pronunciarsi sul diritto di alcuni lavoratori a ottenere direttamente dallo Stato italiano i benefici previsti dalla direttiva sottoponevano alla Corte di giustizia dell’Unione europea in via pregiudiziale

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alcune questioni interpretative tendenti ad accertare se i singoli possano far valere direttamente nei confronti dello Stato i benefici previsti dalla direttiva risultanti da disposizioni sufficientemente precise e incondizionate e comunque richiedere allo Stato il risarcimento del danno subito in relazione alle disposizioni della direttiva che non abbiano tali caratteristiche.

Appurato che la direttiva in questione non è sufficientemente precisa e incondizionata e dunque non consente agli interessati di far valere i diritti da essa attribuiti ai lavoratori direttamente nei confronti dello Stato membro, la Corte di giustizia ha esaminato la questione della responsabilità dello Stato per danni derivanti dalla violazione degli obblighi ad esso derivanti in forza del diritto comunitario.

La motivazione della sentenza dapprima si sofferma in astratto sul fondamento della responsabilità dello Stato, poi passa a definire le condizioni in presenza delle quali può sorgere una siffatta responsabilità.

Sul primo punto, afferma che “il principio della responsabilità dello Stato per danni causati ai singoli da violazioni del diritto comunitario ad esso imputabili è inerente al sistema del Trattato” (punto 35). Un fondamento specifico può essere ritrovato, secondo la Corte, già nell’obbligo degli Stati membri di adottare tutte le misure atte ad assicurare l’esecuzione degli obblighi comunitari (oggi art. 4, comma 3, Trattato sull’Unione Europea), compreso quello di eliminare le conseguenze illecite di una violazione del diritto europeo.

La sentenza enuncia tre condizioni in presenza delle quali può sorgere una siffatta responsabilità: che la direttiva implichi l’attribuzione di diritti a favore dei singoli; che il contenuto di tali diritti possa essere individuato sulla base della direttiva stessa; che esista un nesso di causalità tra la violazione dell’obbligo a carico dello Stato e il danno subito dai soggetti lesi.

La sentenza Francovich, secondo gran parte dei commentatori, segna una tappa fondamentale nella costruzione del sistema europeo come ordinamento autonomo, un ordinamento che costruisce al proprio interno i propri principi e che è in grado di imporli anche agli Stati membri. Nel caso di specie, la responsabilità degli Stati membri non è più retta solo dai principi del diritto nazionale, ma anche dai

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principi autonomamente formatisi (anche in via giurisprudenziale) nel diritto europeo.

La Corte di giustizia ha ripreso e sviluppato i principi enunciati nella sentenza Francovich.

La sentenza Brasserie du pécheur-Factortame del 5 marzo 1996, già richiamata, ha chiarito che gli Stati membri possono essere tenuti a risarcire i danni cagionati da violazioni del diritto comunitario da parte del legislatore nazionale. I casi sottoposti alla Corte riguardavano, per un verso, un divieto di importazione in Germania di birra francese prodotta in modo non conforme ai requisiti di genuinità prescritti dalla legge fiscale tedesca sulla birra in violazione dell’art. 34 TFUE; per altro verso, la previsione contenuta nella legge inglese sulla navigazione mercantile di taluni requisiti restrittivi di nazionalità, residenza e domicilio per i proprietari e gli esercenti di pescherecci prescritti ai fini dell’iscrizione in un apposito registro e ciò in violazione dell’art. 49 TFUE. Le disposizioni europee violate dal legislatore nazionale in entrambi i casi erano tali da conferire direttamente ai singoli diritti in senso proprio.

La sentenza Lomas del 23 maggio 1996, in causa C-5/94, ha sancito il principio secondo il quale la responsabilità dello Stato può sorgere non solo in relazione a un atto normativo, bensì anche a un atto amministrativo adottato in violazione del diritto comunitario. Il caso riguardava un diniego di una licenza di esportazione di animali da macello destinati alla Spagna da parte del Ministero dell’Agricoltura, della Pesca e dell’Alimentazione britannico, giustificato dal fatto che i mattatoi spagnoli utilizzavano tecniche di macellazione contrastanti con la direttiva comunitaria 74/577/CE relativa allo stordimento degli animali prima della macellazione, La Corte ha sottolineato che nel caso di diniego della licenza di esportazione, diversamente da quanto accade normalmente nel caso di attività normativa, il Ministero inglese non dispone di margini di discrezionalità significativi e pertanto “la semplice trasgressione del diritto comunitario può essere sufficiente per accertare l’esistenza di una violazione sufficientemente grave e manifesta” (punto 28).

La Corte ha poi precisato che la responsabilità dello Stato membro per violazione del diritto comunitario sorge qualunque sia l’organo di quest’ultimo la cui azione od omissione ha dato origine alla trasgressione. I casi più rilevanti hanno riguardato il Land del Tirolo

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(sentenza 1 giugno 1999, in causa C-302-97, Konle), nel quale è stato precisato che uno Stato membro non può sottrarsi alla responsabilità invocando la ripartizione interna delle competenze derivante dalla sua struttura federale, e un ente previdenziale pubblico (la cassa di malattia dei dentisti tedesca) (sentenza 7 aprile 2000, in causa C-424-97, Haim).

Da ultimo si è affermato anche che la responsabilità dello Stato può sorgere in conseguenza di pronunce di organi giurisdizionali (sentenze 30 settembre 2003, in causa C-224-01, Koebler; 13 giugno 2006, in causa C-173-03, Traghetti del Mediterraneo). Non possono costituire un impedimento a riconoscere questo tipo di responsabilità, come chiarisce la sentenza Koebler, né il principio dell’autorità del giudicato poiché il giudizio “inteso a far dichiarare la responsabilità dello Stato non ha lo stesso oggetto e non implica necessariamente le stesse parti del procedimento che ha dato luogo alla decisione che ha acquisito l’autorità della cosa definitivamente giudicata” (punto 39; né il principio dell’indipendenza del giudice, poiché assume rilievo “non la responsabilità personale del giudice, ma quella dello Stato” (punto 42).

8. La responsabilità amministrativa.

Si è già esaminata nel secondo paragrafo un’ipotesi particolare di responsabilità amministrativa che si ha quando la pubblica amministrazione, condannata a risarcire un terzo del danno provocato dal comportamento illecito del proprio dipendente, agisce in via di regresso nei confronti di quest’ultimo. La somma corrisposta al terzo costituisce un danno per l’erario del quale l’amministrazione di rivale sul proprio dipendente (danno erariale cosiddetto indiretto). Ma, al di là di questa fattispecie, la responsabilità amministrativa riguarda ogni genere di danno causato all’amministrazione dal proprio dipendente che determini un decremento patrimoniale o un mancato introito nelle casse dello Stato (danno erariale diretto).

Gli esempi più tipici di danno erariale sono i danni arrecati ad attrezzature e macchinari dell’amministrazione, consulenze non necessarie affidate a professionisti esterni, contratti stipulati a condizioni sfavorevoli per l’amministrazione, spese superflue degli amministratori di enti o non legate strettamente all’attività di servizio, ecc.

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La responsabilità amministrativa involge il rapporto interno tra dipendente pubblico e amministrazione di appartenenza e in questo senso costituisce, concettualmente, una sottospecie della responsabilità del lavoro subordinato nei confronti del proprio datore di lavoro che nasce in conseguenza della violazione dei doveri di diligenza (art. 2104 cod. civ.).

Tuttavia il regime giuridico della responsabilità amministrativa è molto diverso da quello del diritto comune e si caratterizza per avere un carattere ibrido, a metà strada tra la responsabilità contrattuale ed extracontrattuale. Essa ha una finalità essenzialmente risarcitoria, ma in alcune fattispecie particolari emerge anche una finalità sanzionatoria.

Le fonti normative della responsabilità amministrativa sono costituite dal Testo unico delle leggi sulla Corte dei conti approvato con r.d. 12 luglio 1934, n. 1214, che risale, quanto a impostazione, alla legislazione di contabilità approvata all’epoca dell’Unità d’Italia, e soprattutto dalla legge 14 gennaio 1994, n. 20, più volte modificata.

Quanto al campo di applicazione, sotto il profilo soggettivo, questo tipo di responsabilità vale per i funzionari, impiegati, agenti pubblici e amministratori delle amministrazioni pubbliche statali e non statali e di enti pubblici (aziende sanitarie locali, enti parastatali, ecc.). Nel corso del tempo il novero delle figure incluse nella nozione si è ampliato fino ad abbracciare anche, negli anni Novanta, gli amministratori di enti pubblici economici. Possono essere chiamati a rispondere anche soggetti esterni all’amministrazione, ma comunque legati ad essa di un “rapporto di servizio”, come per esempio, in materia di lavori pubblici finanziati con fondi erariali, il progettista, il direttore dei lavori e il collaudatore anche se sono liberi professionisti non dipendenti di una pubblica amministrazione. Infatti queste figure svolgono compiti che includono l’esercizio di poteri autoritativi nei confronti dell’impresa appaltatrice e sono inseriti, sia pure solo temporaneamente e funzionalmente, nell’apparato organizzativo della pubblica amministrazione.

In anni recenti, la giurisprudenza della Corte dei conti aveva esteso l’ambito della responsabilità amministrativa anche agli amministratori e dirigenti delle società per azioni in mano pubblica, assoggettando così questi ultimi a un doppio regime di responsabilità, cioè alla responsabilità in base al diritto societario (art. 2393 e seg. cod. civ.) e a quella per danno erariale. La preoccupazione della Corte era che attraverso il ricorso (e talora all’abuso) dello strumento della società per azioni in mano pubblica si volessero eludere i vincoli pubblicistici. Da ultimo, peraltro, la Corte di Cassazione (Sezioni Unite 19 dicembre 2009, n. 26806) ha posto un

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limite a questo tipo di estensione, affermando che in linea di principio le società pubbliche non rientrano nel perimetro della responsabilità amministrativa e, se mai, per le perdite derivanti dalla cattiva gestione societaria possono rispondere per danno erariale i responsabili dei ministeri e delle amministrazioni pubbliche titolari delle azioni per aver svolto in modo corretto il loro ruolo di azionista. Solo le società pubbliche (come per esempio la RAI) che in virtù delle numerose deroghe legislative all’assetto di diritto comune sono assimilabili per molti aspetti a pubbliche amministrazioni rientrano pienamente nel regime della responsabilità amministrativa.

La responsabilità ha natura personale. Quando il fatto dannoso è causato da più persone, ciascuna risponde solo per la parte di sua competenza. Tuttavia nel caso in caso di dolo o quando le persone coinvolte hanno conseguito un illecito arricchimento la responsabilità è solidale (art. 1, comma 1-quater e comma 1-quinquies della l. n. 20/1994). Inoltre, nelle deliberazioni degli organi collegiali la responsabilità si imputa esclusivamente a coloro che hanno espresso il voto favorevole (art. 1, comma 1-ter, della l. n. 20/1994). Per attenuare il rischio dei vertici istituzionali delle amministrazioni è previsto che se si tratta di atti che rientrano nella competenza propria di uffici tecnici o amministrativi, la responsabilità non si estende ai titolari degli organi politici che li abbiano approvati in buona fede ovvero abbiano autorizzato o consentito l’esecuzione.

Sotto il profilo oggettivo, la responsabilità sorge in relazione “ai fatti ed alle omissioni commessi con dolo e colpa grave” (art. 1, comma 1, della l. n. 20/1994). L’esclusione della responsabilità nel caso di colpa lieve mira a evitare di sovraccaricare i dipendenti pubblici del rischio di essere chiamati a rispondere di attività che comunque perseguono l’interesse pubblico.

Se il danno deriva da un provvedimento, resta ferma comunque “ l’insindacabilità delle scelte discrezionali” (art. 1, comma 1, della l. n. 20/2004). Ciò significa che se il provvedimento è legittimo, la Corte dei conti non può sostituire le proprie valutazioni in ordine alla convenienza o non convenienza di una determinata scelta amministrativa. Altrimenti ne verrebbe penalizzata, con effetti paralizzanti, la managerialità degli amministratori pubblici che devono assumere decisioni spesso in condizioni di incertezza in ordine agli esiti delle medesime. Va comunque verificato che l’attività sia stata posta in essere nel perseguimento dei fini pubblici e il sindacato della Corte di conti, al pari

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di quello del giudice amministrativo, può riguardare tutti i profili di legittimità incluso l’eccesso di potere nella molteplicità delle sue figure sintomatiche.

In relazione al danno, rileva non soltanto il danno provocato all’amministrazione in cui è incardinato il dipendente, ma più in generale il danno cagionato “ad amministrazioni o enti diversi da quelli di appartenenza” (art. 1, comma, 4 della l. n. 20/1994). In quest’ultimo caso si ha il cosiddetto “danno obliquo” che può emergere nel caso di un dipendente pubblico distaccato o comandato presso un’altra amministrazione oppure il componente di un consiglio di amministrazione di un ente pubblico nominato da un ministero o altro ente. Il danno obliquo non si presta a essere inquadrato nello schema della responsabilità contrattuale tra dipendente e proprio datore di lavoro, ma è coerente con una visione che tende a tutelare l’interesse erariale considerando, sotto questo profilo, il settore pubblico come un unico comparto.

Il diritto al risarcimento del danno si prescrive in cinque anni dalla data in cui il fatto si è verificato, ovvero, in caso di occultamento doloso del danno, dalla data della sua scoperta (art. 1, comma 2, della l. n. 20/1994) e ciò avvicina il regime della responsabilità amministrativa a quello extracontrattuale per il quale il termine di prescrizione è quinquennale (art. 2947 cod. civ.).

In tema di quantificazione del danno erariale, esso si sostanzia nel decremento patrimoniale o in una mancata entrata da parte dell’amministrazione. Al danno patrimoniale si aggiunge in alcuni casi il danno all’immagine dell’amministrazione, per esempio nel caso di percezione di tangenti da parte di amministratori per il compimento di atti in violazione dei doveri d’ufficio. Il danno va diminuito tenendo conto “dei vantaggi comunque conseguiti dall’amministrazione di provenienza o da altra amministrazione, o dalla comunità amministrata” (art. 1, comma 1-bis della l. n. 20/1994). Così, per esempio, se un amministratore di un ente assume fuori dalla pianta organica e violando le regole dipendenti a tempo determinato, il danno commisurato alle retribuzioni versata va depurato delle utilità che l’ente e gli amministrati hanno ricavato grazie alle attività poste in essere dagli assunti. Nel caso di realizzazione di lavori non previsti dal capitolato, ma comunque utili per l’amministrazione, occorrerà tener conto di questo beneficio. Questa sorta di compensatio lucri cum damno, operata con criteri sostanzialmente

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equitativi, non può tuttavia portare a un azzeramento totale del risarcimento.

Una particolarità del regime della responsabilità amministrativa consiste nel cosiddetto potere riduttivo previsto all’art. 52, comma 2 del Testo unico, in base al quale la Corte “può porre a carico dei responsabili tutto o parte del danno accertato o del valore perduto”. Questo potere consente di modulare la somma a carico delle finanze personali del dipendente (spesso non floridissime) rispetto all’enormità dei danni potenziali all’amministrazione. Si pensi al caso di un militare che per imperizia distrugga un aereo o un mezzo blindato. Secondo alcuni (G. CORSO), questo potere risente di una concezione paternalistica del rapporto dello Stato con i propri dipendenti, nei confronti dei quali vengono usati “il bastone” della responsabilità amministrativa e “la carota” del potere riduttivo.

Sotto il profilo processuale, come si è accennato, la responsabilità amministrativa viene accertata in un giudizio innanzi alla Corte dei conti. L’iniziativa processuale, all’esito di indagini che già prevedono un momento di contraddittorio con l’interessato, spetta alla Procura regionale della Corte dei conti competente. La Procura agisce d’ufficio o anche su denunzia dei direttori generali e dei capi servizio che vengono a conoscenza di fatti suscettibili di costituire un illecito erariale (art. 53 del T.U.).

Complessivamente, per effetto delle modifiche normative intervenute soprattutto negli ultimi anni, la responsabilità amministrativa sembra soggetta a un regime non omologabile ai modelli di responsabilità del codice civile e in essa sembra prevalere la funzione di dissuasione dalla commissione di illeciti, senza per questo provocare un rischio di overdeterrence.

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CAP. VII

LA GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA

1. Nozione; 2. Cenni storici: a) la legge abolitiva del contenzioso amministrativo; 3. Segue: b) la nascita del giudice amministrativo; 4. La giustizia amministrativa nella Costituzione; 5. L’istituzione dei Tribunali Amministrativi Regionali e le riforme successive; 6. Il dualismo del sistema italiano e il riparto di giurisdizione; 7. La giurisdizione amministrativa di legittimità, esclusiva e di merito; 8. Le azioni nel processo di cognizione, le azioni cautelare ed esecutiva; 9. Lo svolgimento del processo amministrativo. I principi informatori; 10. I ricorsi amministrativi; 11. Cenni alle giurisdizioni amministrative speciali.

1. Nozione

Nei capitoli precedenti si è accennato più volte a questioni di tipo processuale muovendo dalla osservazione, fatta nel Cap. I, che il diritto amministrativo si è sviluppato in stretta correlazione con l’istituzione nel 1889 di un giudice amministrativo speciale, distinto dal giudice ordinario. Molti istituti del diritto amministrativo sostanziale poi si colgono appieno solo se si tiene conto delle implicazioni di tipo processuale. Si è per esempio sottolineato come i bisogni di tutela correlati agli interessi legittimi pretensivi sono molto diversi da quelli correlati agli interessi legittimi oppositivi.

E’ ora necessario operare una trattazione più organica della giustizia amministrativa, a conclusione della parte dedicata all’attività amministrativa. Si limiterà l’analisi alle strutture portanti del sistema, rinviando ai manuali di giustizia amministrativa o di diritto processuale amministrativo per l’esposizione più compiuta dei singoli argomenti.

L'espressione giustizia amministrativa, nell’accezione più ampia, include tutti i mezzi predisposti da un ordinamento giuridico per assicurare la conformità dell'azione amministrativa alla legge e il miglior perseguimento dell'interesse pubblico nel caso concreto. Questa accezione abbraccia anche i controlli amministrativi di legittimità e di merito, le garanzie procedimentali, l'autotutela cosiddetta decisoria (annullamento d'ufficio, revoca, ecc.), il difensore civico, ecc. Essa riflette la cosiddetta

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concezione oggettiva della tutela, più risalente nel tempo, che pone in primo piano l’interesse generale a garantire con ogni mezzo il rispetto dei limiti giuridici e non giuridici imposti all’azione amministrativa.

L’accezione più ristretta corrisponde invece alla concezione soggettiva della tutela. Questa trova fondamento negli artt. 24 e 113 della Costituzione, i quali pongono in primo piano l’esigenza di una tutela piena ed effettiva dei diritti soggettivi e degli interessi legittimi.

L’accezione più ristretta della giustizia amministrativa include dunque soltanto gli istituti volti ad assicurare la tutela delle situazioni giuridiche dei soggetti che entrano in contatto con la pubblica amministrazione allorché questa pone in essere atti e comportamenti non conformi alle leggi e ai principi generali dell'attività amministrativa.

Essi consistono in rimedi propriamente giurisdizionali, da esperire innanzi al giudice ordinario e innanzi al giudice amministrativo e in rimedi non giurisdizionali (ricorso gerarchico, ricorso in opposizione, ricorso straordinario al Presidente della Repubblica).

La concezione soggettiva è ora pienamente sviluppata nel Codice del processo amministrativo approvato con d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104, che costituisce oggi la fonte generale di disciplina del processo amministrativo.

Sotto il profilo storico e culturale gli istituti della giustizia amministrativa, e in particolare i rimedi di tipo giurisdizionale, vanno collocati nel contesto del costituzionalismo moderno e dell’affermarsi progressivo dello Stato di diritto nei secoli XVIII e XIX .

Come si è già osservato nel Cap. I, l'ideale dello Stato di diritto infatti non può dirsi compiutamente realizzato in assenza di alcune condizioni, tra le quali rientra una tutela giurisdizionale completa ed effettiva del cittadino nei confronti della pubblica amministrazione.

In Italia il sistema della giustizia amministrativa si sviluppò — a partire dalla seconda metà del XIX secolo fino al Codice del processo amministrativo — in modo empirico e graduale, cioè per tentativi, innesti e perfezionamenti successivi ad opera del legislatore e della giurisprudenza amministrativa, piuttosto che secondo un disegno preordinato.

2. Cenni storici: a) la legge abolitiva del contenzioso amministrativo.

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Le tappe essenziali dell'evoluzione della giustizia amministrativa nel nostro ordinamento possono essere così schematizzate: il contenzioso amministrativo negli Stati italiani preunitari; il sistema del giudice unico (autorità giudiziaria ordinaria) sperimentato tra il 1865 e il 1889; l'istituzione del giudice amministrativo nel 1889 e gli assestamenti fino alla Costituzione del 1948; l'attuazione del disegno costituzionale e le riforme più recenti

Il contenzioso amministrativo abbraccia quel complesso di organi, commissioni e tribunali speciali separati dai tribunali ordinari competenti a dirimere le liti tra i privati (consiglio del re, intendenti di finanza, camera dei conti, giurisdizione delle acque e delle foreste, comitato contenzioso delle finanze, ecc.) istituiti a livello centrale e periferico dal sovrano (e da questo dipendenti) per risolvere, in relazione a determinate materie, le controversie in cui fosse interessato il potere esecutivo. Si trattava di organismi dipendenti dal sovrano (amministrazione contenziosa), per quanto separati in qualche misura dagli organi di amministrazione attiva, e dunque non potevano essere considerati giudici in senso proprio.

In Francia un siffatto sistema venne introdotto in epoca antecedente alla Rivoluzione del 1789 e venne da questa confermato e perfezionato. Fu adottato in numerosi Stati europei (Spagna, Portogallo, Grecia, Romania, ecc.). In Italia, dove erano già state sperimentate forme anche non rudimentali di tutela giustiziale (in particolare la Regia Camera della Sommaria operante da oltre tre secoli nel Regno di Napoli), il sistema del contenzioso amministrativo prese piede soprattutto in seguito all'occupazione napoleonica.

Con l'unificazione nazionale proclamata nel 1861, si pose il problema di riordinare la materia della giustizia amministrativa organizzata in modi diversi negli Stati preunitari. Il contenzioso amministrativo, nel quale la tutela del cittadino era affidata in realtà alla stessa pubblica amministrazione, sia pur con qualche garanzia a favore di quest’ultimo, non sembrava in linea con la nuova visione dello Stato di diritto. In quest’ultimo la giustizia non può essere elargita, per così dire, per grazia del sovrano, ma deve essere assicurata da un giudice in senso proprio. Il modello ritenuto più conforme ai principi dello Stato liberale fu quello della devoluzione al giudice ordinario delle controversie tra cittadino e pubblica amministrazione, già previsto dalla Costituzione belga del 1831 ad imitazione dell'esperienza inglese della common law.

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La legge fondamentale 20 marzo 1865, n. 2248 Allegato E, già richiamata nel Cap. I e che definisce ancor oggi il fondamento e i limiti della giurisdizione del giudice ordinario nei confronti della pubblica amministrazione, abolì i precedenti sistemi del contenzioso amministrativo e attribuì la tutela dei “diritti civili e politici ” dei cittadini al giudice ordinario (art. 2), ma pose limiti rigidi ai poteri decisori di quest’ultimo in ossequio al principio della separazione dei poteri.

L'art. 4, comma 2 prevede infatti che “l'atto amministrativo non potrà essere revocato o modificato se non sovra ricorso alle competenti autorità amministrative”. Il giudice ordinario non può cioè emanare sentenze costitutive sotto forma di annullamento, revoca, modifica, sospensione di un atto amministrativo e, più in generale, di sostituzione diretta o indiretta della volontà espressa dall'amministrazione con l'atto amministrativo (per esempio, di condanna a emanare un determinato provvedimento o a svolgere un'attività che consista nell'esercizio di una potestà pubblica).

L'art. 5, prevede invece che “le autorità giudiziarie applicheranno gli atti amministrativi ed i regolamenti generali e locali in quanto siano conformi alle leggi”. Attribuisce cioè al giudice la possibilità di emanare soltanto sentenze dichiarative (o di mero accertamento) che conducono alla disapplicazione del provvedimento lesivo del diritto soggettivo che sia in contrasto con la legge, disapplicazione limitata alla singola controversia di cui il giudice è investito.

La legge del 1865 segnò dunque una svolta forse troppo radicale che portò, nell’applicazione pratica, a una situazione paradossale nella quale il cittadino si trovò ancor meno tutelato nei suoi rapporti con l'amministrazione. Ciò a causa di una pluralità di fattori: l'incerta determinazione dell'ambito di cognizione del giudice ordinario unita a una certa timidezza di quest’ultimo nei confronti dell’amministrazione; la mancanza di strumenti efficaci per indurre l'amministrazione a conformarsi al giudicato del giudice ordinario; l'assenza di strumenti di tutela giurisdizionale per interessi individuali diversi dai diritti soggettivi che in precedenza potevano essere fatti valere, almeno in parte, all'interno del sistema del contenzioso amministrativo.

Determinante fu soprattutto la ricostruzione dei rapporti tra atto amministrativo e diritto soggettivo. Infatti, la giurisprudenza civile ritenne che l’atto amministrativo, ancorché illegittimo, fosse comunque imperativo, cioè idoneo a produrre gli effetti nella sfera giuridica del destinatario e in particolare a incidere sul diritto soggettivo. E se

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quest’ultimo era destinato a soccombere di fronte al potere amministrativo, il privato non era più in condizione di rivolgersi al giudice civile affermando la lesione di un diritto soggettivo ad opera dell’amministrazione. In definitiva, secondo la giurisprudenza civile, solo per i cosiddetti “atti di gestione”, cioè gli atti emanati nell’esercizio della capacità di diritto privato, poteva incardinarsi la giurisdizione del giudice ordinario. Al contrario, i cosiddetti “atti di imperio”, correlati a un potere dell’amministrazione in senso proprio, restavano del tutto sprovvisti di una tutela giurisdizionale.

3. Segue: b) la nascita del giudice amministrativo.

Si aprí così un dibattito politico e dottrinale (MANTELLINI, MINGHETTI, SPAVENTA) che sfociò nella legge 31 marzo 1889 n. 5992 istitutiva della IV Sezione Consiglio di Stato. La IV Sezione, che si aggiungeva a quelle già istituite con funzioni consultive nei confronti del Governo, era investita della competenza a “decidere sui ricorsi per incompetenza, per eccesso di potere o per violazione di legge contro atti e provvedimenti di un'autorità amministrativa o di un corpo amministrativo deliberante, che abbiano per oggetto un interesse d'individui o di enti morali giuridici, quando i ricorsi medesimi non siano di competenza dell'autorità giudiziaria, né si tratti di materia spettante alla giurisdizione od alle attribuzioni contenziose di corpi o collegi amministrativi ” (art. 3).

Questa formulazione delinea i caratteri essenziali del nuovo rimedio del quale peraltro rimase incerta, in origine, la natura propriamente giurisdizionale. Si trattava cioè di un ricorso volto a contestare la legittimità di un provvedimento lesivo di un interesse del ricorrente (l’interesse legittimo) e finalizzato a rimuovere l’atto e i suoi effetti (annullamento con effetto retroattivo), cioè a ripristinare la situazione di fatto e di diritto esistente prima dell’emanazione dell’atto illegittimo.

Peraltro, la legge del 1889 operò, non già un superamento completo, bensì un’integrazione del sistema di tutela giurisdizionale delineato dalla legge del 1865, che non venne abrogata. Si diede così origine a un sistema dualistico di giustizia amministrativa, che permane tutt’oggi, fondato su due giudici: il giudice ordinario, preposto alla tutela dei diritti soggettivi; il giudice amministrativo, preposto alla tutela degli interessi legittimi.

Molte disposizioni della legge del 1889, che delineano l'ossatura del processo amministrativo concepito essenzialmente come processo di

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annullamento di provvedimenti amministrativi illegittimi vennero riprese, con poche variazioni, nel testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato del 1924 (r.d. 26 giugno 1924, n. 1054) e nella legge 6 dicembre 1971, n. 1034, istitutiva dei Tar. Solo il Codice del processo amministrativo delinea un processo, come si vedrà, con una struttura di azioni e di mezzi di tutela molto più articolato, ma che comunque ha al suo centro la tradizionale azione di annullamento dei provvedimenti illegittimi.

La legge 7 marzo 1907, n. 42 sancì in modo definitivo la natura giurisdizionale del procedimento innanzi al giudice amministrativo e istituì la V Sezione del Consiglio di Stato, alla quale venne deferita la cosiddetta giurisdizione di merito. Nell’ambito di quest’ultima il giudice, sostituendosi all’amministrazione, può esercitare un controllo che va oltre la verifica della legittimità del provvedimento e che può concludersi con una pronuncia che modifica e riformare l’atto impugnato. Va ricordato anche il “regolamento per la procedura dinanzi al Consiglio di Stato in sede giurisdizionale ” 17 agosto 1907 n. 642 rimasto in vigore fino al Codice.

Il r.d. 30 dicembre 1923, n. 2840 istituì la cosiddetta giurisdizione esclusiva in alcune materie (impiego pubblico, riconoscimento e trasformazione di enti pubblici, recupero delle spese di spedalità, ecc.) nelle quali l'intreccio inestricabile tra diritti soggettivi e interessi legittimi creava una situazione di incertezza e consigliava dunque la devoluzione della loro tutela al giudice amministrativo. La tutela di alcuni diritti soggettivi veniva cioè affidata al giudice amministrativo, creando però negli anni successivi problemi di adattamento delle regole processuali (mezzi di prova, tipologia di azioni, termini per proporre il ricorso) a una situazione giuridica soggettiva strutturalmente diversa dall’interesse legittimo. Le disposizioni sul processo amministrativo furono accorpate e riordinate nel citato t.u. n. 1054/1924 delle leggi sul Consiglio di Stato.

4. La giustizia amministrativa nella Costituzione.

Il sistema della giustizia amministrativa non fu oggetto di particolare attenzione in sede di Assemblea costituente. La Costituzione non ha fatto altro che “confermare il sistema già vigente limitandosi ad elevare i suoi principi a norme di ordine costituzionale ” (G. ZANOBINI) e “ha consolidato i lineamenti del sistema quali risultano dalle leggi del 1865 e del 1889” (M. NIGRO).

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In primo luogo, la Costituzione conferma il dualismo dei giudici e delle situazioni giuridiche delle quali possono essere titolari i soggetti privati nei rapporti con le amministrazioni. I diritti soggettivi e gli interessi legittimi trovano infatti una collocazione parallela e paritaria negli artt. 24, comma 1, e 113, comma 1, Cost..

L'art. 103, comma 1, stabilisce poi che “Il Consiglio di Stato e gli altri organi di giustizia amministrativa hanno giurisdizione per la tutela nei confronti della pubblica amministrazione degli interessi legittimi e, in particolari materie indicate dalla legge, anche dei diritti soggettivi”. Il giudice amministrativo si conferma pertanto come il giudice per così dire naturale degli interessi legittimi.

Il giudice amministrativo può conoscere anche di situazioni giuridiche di diritto soggettivo (giurisdizione esclusiva), ma solo “in particolari materie indicate dalla legge”. La Corte Costituzionale, nella fondamentale sentenza 6 luglio 2004 n. 204, già citata, ha chiarito come debba essere interpretata la formula “particolari materie”: deve trattarsi di materie nelle quali la pubblica amministrazione agisce comunque come “autorità”, cioè come titolare di un potere amministrativo in senso proprio, e nelle quali dunque la tutela dei diritti soggettivi è ancillare rispetto a quella degli interessi legittimi.

La Corte ha dunque escluso che per radicare la giurisdizione amministrativa sia sufficiente che la controversia involga una parte pubblica, cioè una pubblica amministrazione, (criterio seguito per esempio in Germania) oppure interi “blocchi di materie” (come il criterio del servizio pubblico adottato in Francia). La Corte ribadisce così il criterio della titolarità della situazione giuridica soggettiva lesa come criterio generale del riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo.

L'art. 113, comma 2, prevede che la tutela giurisdizionale “non può essere esclusa o limitata a particolari mezzi di impugnazione o per determinate categorie di atti” e ciò per evitare che, com’era accaduto nel precedente regime autoritario, possano essere sottratte per legge intere materie o tipologie di atti al controllo giurisdizionale.

L'art. 113, comma 3, infine stabilisce che “La legge determina quali organi di giurisdizione possono annullare gli atti della pubblica amministrazione nei casi e con gli effetti previsti dalla legge”. Questa disposizione evita cioè di costituzionalizzare il divieto di annullamento

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degli atti amministrativi previsto dall'art. 4, comma 2, l. n. 2248/1865, All. E.

La Costituzione regola alcuni aspetti organizzativi della giustizia amministrativa. Anzitutto definisce il Consiglio di Stato come “organo di consulenza giuridico-amministrativa e di tutela della giustizia nell’amministrazione” (art. 100). Questa disposizione consolida il duplice ruolo del Consiglio di Stato come organo di alta consulenza del Governo e come organo di vertice (cioè come giudice di appello) della giurisdizione amministrativa. Attualmente, quattro sezioni del Consiglio di Stato svolgono le funzioni giurisdizionali (III, IV, V e VI), mentre le altre (I, II, Sezione atti normativi), svolgono le funzioni consultive.

L’art. 125, secondo comma Cost. prevede l’istituzione in ciascuna Regione di organi di giustizia amministrativa di primo grado.

Infine l’art. 111, ultimo comma della Costituzione, precisa che contro le pronunce del Consiglio di Stato può essere proposto ricorso in Cassazione “per i soli motivi inerenti alla giurisdizione”. Questa disposizione assegna alla Corte di Cassazione (a Sezioni Unite) il compito di definire i limiti della giurisdizione amministrativa soprattutto rispetto a quella ordinaria e fonda, come si dirà, un sistema dualistico non paritario della giustizia amministrativa.

La Costituzione non determinò nell'immediato mutamenti significativi del quadro legislativo in materia di giustizia amministrativa. Furono soltanto istituiti nel 1948 la Sesta sezione del Consiglio di Stato con funzioni giurisdizionali e, come riconoscimento dell’autonoma speciale della Regione siciliana, il Consiglio di giustizia amministrativa, che costituisce un organo distaccato del Consiglio di Stato con funzioni consultive nei confronti del governo regionale e funzioni giurisdizionali (oggi come giudice di appello).

5. L’istituzione dei Tribunali Amministrativi Regionali e le riforme recenti.

A distanza di un quarto di secolo dalla Costituzione, la l. n. 1034/1971 istituì i Tribunali amministrativi regionali (insediati effettivamente nel 1974) e diede attuazione all’art. 125, comma 2, della Costituzione. Non fu colta peraltro l’occasione per porre una disciplina organica e compiuta del processo amministrativo.

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La novità più rilevante fu aver qualificato i Tar come organi generali di giustizia amministrativa di primo grado, attribuendo al Consiglio di Stato la configurazione di giudice essenzialmente d'appello (art. 28, comma 2). Inoltre la l. n. 1034/1971 ampliò le materie devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo includendo quella relativa ai rapporti di concessione di beni o di servizi pubblici, ad esclusione delle controversie concernenti le indennità e i canoni di concessione che restavano attribuite alla competenza del giudice ordinario e quelle dei tribunali delle acque pubbliche (art. 5, l. n. 1034/1971). Attribuì al giudice amministrativo, nelle materie devolute alla propria competenza esclusiva e di merito, il potere di emanare sentenze di condanna, limitate peraltro al pagamento delle somme delle quali l'amministrazione fosse debitrice (art. 26, comma 3, l. n. 1034/1971).

Infine, reimpostò i rapporti tra ricorso giurisdizionale e ricorsi amministrativi, oggetto di una disciplina generale organica ad opera del quasi coevo d.P.R. 24 novembre 1971, n. 1199 emanato sulla base dell’art. 6, legge delega 28 ottobre 1970, n. 775. L'art. 20 pose cioè il principio della facoltatività del previo esperimento del ricorso gerarchico, cioè della non necessarietà dell’esperimento degli strumenti di tutela amministrativa come condizione per instaurare il processo amministrativo. In precedenza, il ricorso giurisdizionale era ammesso solo contro gli atti definitivi, quelli cioè già oggetto del ricorso gerarchico. L’accesso alla tutela giurisdizionale divenne così più diretto, senza filtri intermedi.

La legge 27 aprile 1982, n. 186, tuttora vigente, contiene una serie di disposizioni organizzative e di funzionamento del Consiglio di Stato e dei Tar (articolazione dei Tar in più sezioni anche distaccate, composizione dei collegi giudicanti, istituzione del Consiglio di presidenza come organo di autogoverno, nomina, status e carriera dei magistrati e del personale di segreteria, ecc.).

Negli anni successivi alla l. n. 1034/1971 il legislatore operò una serie di interventi minori. Per esempio estese la giurisdizione esclusiva ad altri casi, introdusse riti speciali accelerati (per esempio, per la tutela del diritto di accesso ai documenti amministrativi ai sensi della l. n. 241/1990). Il d.lgs. n. 80 del 1998 trasferì al giudice ordinario la cognizione delle controversie relative ai rapporti di lavoro con le pubbliche amministrazioni privatizzati all’inizio degli anni Novanta, controversie devolute in precedenza alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. In parallelo, il d.lgs. n. 80 ampliò i casi di

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giurisdizione esclusiva a interi blocchi di materie (urbanistica, edilizia, servizi pubblici), un ampliamento che la Corte Costituzionale con la sentenza n. 204 del 2004 ritenne non compatibile con l’art. 103 della Costituzione.

Una riforma strutturale del processo amministrativo venne operata con la legge 21 luglio 2000, n. 205 con due obiettivi principali: disciplinare l’azione risarcitoria per danni da lesione di interessi legittimi prendendo atto della svolta operata dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la sentenza n. 500/1999; accrescere l’effettività della tutela prevedendo alcuni riti accelerati, ridisegnando la tutela cautelare, disciplinando il giudizio sul silenzio, rafforzando i poteri istruttori e decisori del giudice amministrativo e ampliando le materie devolute alla giurisdizione esclusiva. Le novità introdotte dalla legge n. 205 del 2000 sono state poi trasfuse nel Codice del processo amministrativo.

Conviene soffermarsi su un solo aspetto della legge n. 205 e cioè quello relativo all’azione risarcitoria. La sentenza n. 500/1999 attribuì la cognizione delle controversie risarcitorie al giudice ordinario, argomentando in base ai principi generali e cioè ricostruendo il risarcimento del danno come un diritto soggettivo sia pur nascente da un provvedimento amministrativo illegittimo. Il giudice ordinario poteva conoscere dell’illegittimità del provvedimento in via incidentale, cioè nell’ambito dell’accertamento degli elementi costitutivi dell’art. 2043 cod. civ. e ai soli fini risarcitori. In questo modo il giudice amministrativo perdeva per così dire il monopolio nella cognizione della legittimità del provvedimento amministrativo e si alterava l’equilibrio con il giudice ordinario. L’art. 7, comma 4, delle legge n. 205/2000 pose rimedio a questa situazione stabilendo che l’azione risarcitoria relativa alla lesione di interessi legittimi rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo aggiungendosi così e integrando la tradizionale azione di annullamento. L’azione risarcitoria consente anche la reintegrazione in forma specifica. La legge n. 205 sancì dunque, con scelta confermata dal Codice del processo amministrativo, la trasformazione del giudice amministrativo da giudice dell’annullamento degli atti amministrativi illegittimi a giudice anche del risarcimento del danno da lesione di interessi legittimi.

Il Codice del processo amministrativo costituisce il punto di arrivo di una evoluzione del processo amministrativo che nel corso dei decenni, e in special modo a partire dagli anni Novanta del secolo scorso, ha assunto una struttura più articolata con la previsione di una gamma più ampia di

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azioni e con una tipologia più variegata di riti e di strumenti di tutela. Esso è stato emanato sulla base di una legge di delega che attribuiva a una commissione tecnica istituita presso il Consiglio di Stato con il compito di elaborare una bozza di articolato.

Il Codice unifica per la prima in un solo corpo normativo la disciplina del processo amministrativo abrogando tutte le norme precedenti (All. 4, recante “Norme di coordinamento e abrogazione”). Il Codice ha però una struttura snella (137 articoli) e contiene molti rinvii espressi a singole disposizioni del codice di procedura civile. Inoltre, come si è già anticipato nel Cap. I, rinvia, per quanto non disciplinato dal Codice, alle disposizioni del codice di procedura civile “compatibili o espressione di principi generali” (art. 39 rubricato “Rinvio esterno”).

6. Il dualismo del sistema italiano e il riparto di giurisdizione.

Come si è accennato, una specificità del sistema di giustizia amministrativa italiano consiste nella presenza di una duplicità di giudici, ordinario e amministrativo, competenti a dirimere le controversie tra cittadino e pubblica amministrazione.

Il criterio generale di riparto della giurisdizione tra i due ordini giudiziari è tuttora, come si è detto più volte e com’è stato riaffermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 204 del 2004, quello delle situazioni giuridiche soggettive fatte valere in giudizio: diritti soggettivi, devoluti alla giurisdizione del giudice ordinario; interessi legittimi, devoluti alla giurisdizione del giudice amministrativo.

L’art. 7, primo comma, del Codice, riprendendo in ciò l’art 103, primo comma, della Costituzione, attribuisce infatti in termini generali alla giurisdizione amministrativa tutte le controversie “nelle quali si faccia questione di interessi legittimi”, escludendo così implicitamente che esse possano attribuite al giudice ordinario. Questa formulazione è simmetrica a quella contenuta nell’art. 2 della legge del 1865 che attribuisce al giudice ordinario le controversie “nelle quali si faccia questione d’un diritto civile o politico” (cioè di un diritto soggettivo).

Inoltre, deve trattarsi di controversie riguardanti “provvedimenti, atti, accordi o comportamenti riconducibili anche mediatamente all’esercizio del potere”. Questa formulazione si ispira al criterio indicato dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 204 del 2004 già citata che connota

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la giurisdizione amministrativa come una giurisdizione che ha per oggetto il potere dell’amministrazione, ovvero l’amministrazione-autorità.

L’art. 7, primo comma, esclude peraltro dal perimetro della giurisdizione amministrativa “gli atti o provvedimenti emanati dal Governo nell’esercizio del potere politico”, disposizione già contenuta nella legge del 1889 che pone all’interprete la necessità di distinguere tra atti politici e atti amministrativi. I primi sono retti dalle regole e dai meccanismi della responsabilità politica (rapporti elettore-eletti, rapporto di fiducia tra Governo e Parlamento) e in quanto tali non sono sindacabili da alcun giudice.

Il riparto di giurisdizione ha creato molte incertezze proprio perché la distinzione tra diritti soggettivi e interessi legittimi appare spesso incerta. Come si è accennato nel Cap. III, la giurisprudenza della Corte di cassazione ha elaborato nel corso del tempo tre criteri empirici: la distinzione tra norma di relazione e norma di azione; quella tra potere vincolato e potere discrezionale; quella tra carenza di potere e cattivo esercizio del potere.

La giurisprudenza della Corte di cassazione ha inoltre individuato all’interno dei diritti costituzionalmente garantiti una categoria di diritti soggettivi incomprimibili (o non degradabili) da parte del potere amministrativo, la cui tutela resta comunque attribuita al giudice ordinario anche in presenza di provvedimenti amministrativi (diritto alla salute, all’ambiente salubre, diritti elettorali).

Fino ad anni recenti, le due giurisdizioni ordinaria e amministrativa venivano ritenuti incomunicabili. L’errore sulla giurisdizione era in molti casi fatale atteso che la pronuncia sul difetto di giurisdizione interveniva spesso dopo che era prescritto il diritto soggettivo o si era prodotta una decadenza, precludendo così al titolare della situazione giuridica soggettiva di avviare un nuovo giudizio innanzi al giudice dotato di giurisdizione. Il Codice del processo amministrativo, in conformità agli indirizzi più recenti della Corte di cassazione e della Corte costituzionale, supera questo genere di problemi introducendo il principio della translatio judicii. Infatti, se la giurisdizione è declinata dal giudice amministrativo in favore del giudice ordinario e viceversa, “sono fatti salvi gli effetti processuali e sostanziali della domanda se il processo è riproposto innanzi al giudice indicato nella pronuncia che declina la giurisdizione entro il termine di tre mesi dal suo passaggio in giudicato” (art. 11, secondo comma).

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Sul riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo decide in ultima istanza la Corte di cassazione (a Sezioni Unite), in base all’art. 111, ultimo comma, della Costituzione. Poiché la Corte di cassazione rappresenta la struttura di vertice dell'ordine giudiziario ordinario, il dualismo del sistema di giustizia amministrativa italiano non può definirsi perfettamente paritario, ma a prevalenza istituzionale del giudice ordinario. Ciò a differenza del sistema francese nel quale la parità istituzionale tra giudice ordinario e giudice amministrativo è garantita dal fatto che sul riparto di giurisdizione si pronuncia il “Tribunal des Conflits”, composto in misura paritaria da giudici ordinari e giudici amministrativi.

L’art. 111, ultimo comma, della Costituzione, peraltro, nel definire i rapporti tra i due ordini giudiziari, esclude che la Corte di cassazione possa sovrapporsi al giudice amministrativo nell’interpretazione delle leggi che quest’ultimo applica. La disposizione costituzionale preclude dunque la cosiddetta funzione nomofilattica che la Corte esercita nei confronti di tutti i giudici ordinari. Così, per esempio, in tema di risarcimento del danno ex 2043 cod. civ., come si è visto, la giurisprudenza amministrativa sta facendo proprie interpretazioni non del tutto in linea con quelle della giurisdizione ordinaria.

Il dualismo che caratterizza l'ordinamento italiano rappresenta un unicum nell'esperienza occidentale, che registra invece la prevalenza di sistemi monistici, di sistemi cioè nei quali le liti tra cittadino e pubblica amministrazione vengono devolute tendenzialmente a un solo giudice: giudice ordinario, nel Regno Unito, negli Stati Uniti, in Belgio; giudice amministrativo, in Francia, Germania, Austria e nella gran parte dei paesi dell'Europa continentale.

La giurisdizione del giudice ordinario nei confronti della pubblica amministrazione include anche una serie di fattispecie nelle quali il legislatore gli attribuisce espressamente la giurisdizione sul presupposto che si tratti di materie che involgono soltanto diritti soggettivi. Tra i casi più importanti va ricordato il giudizio di opposizione alle sanzioni amministrative pecuniarie (legge 24 novembre 1981, n. 689), le controversie di lavoro riguardanti i dipendenti pubblici privatizzati (d.lgs. n. n. 165/2001), gli accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori, i provvedimenti di espulsione di stranieri, i provvedimenti del Garante per la tutela dei dati personali.

Nelle controversie attribuite alla sua giurisdizione che coinvolgono la pubblica amministrazione (in particolare quelle riguardanti i cosiddetti

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meri comportamenti della pubblica amministrazione), il giudice ordinario può emanare in linea di principio tutte le pronunce previste dal codice di procedura civile che siano in grado di offrire una tutela piena del diritto soggettivo.

Nel corso del tempo il giudice ordinario ha superato alcune restrizioni ritenendo per esempio di poter emanare sentenze costitutive ex art. 2932 cod. civ. nel caso in cui l’amministrazione si sia obbligata a concludere un contratto e non abbia provveduto a farlo, ammettendo azioni di condanna e possessorie in un numero più ampio di casi, consentendo l’esecuzione forzata a valere su somme di danaro della pubblica amministrazione.

7. La giurisdizione amministrativa di legittimità, esclusiva e di merito.

Prima di procedere all’analisi delle specificità della giurisdizione amministrativa conviene premettere alcune classificazioni elaborate dalla teoria generale del processo.

In primo luogo, va richiamata la distinzione tra tutela dichiarativa, tutela cautelare e tutela esecutiva. Nella prima viene sottoposto all’esame del giudice un determinato rapporto giuridico intercorrente tra le parti (processo di cognizione); la tutela cautelare consente alla parte che promuove il giudizio di ottenere dal giudice misure adottate d’urgenza volte a impedire che nelle more del giudizio di cognizione, si verifichino danni gravi e irreparabili tali da rendere inutile o da ridurre l’utilità della sentenza che conclude il giudizio (processo cautelare); la tutela esecutiva, a valle della pronuncia emanata in sede di cognizione, mira a conformare la situazione di fatto a quella di diritto nei casi in cui la parte soccombente non provveda spontaneamente a porre in essere le attività esecutive (processo di esecuzione).

In secondo luogo, le azioni proponibili nel processo di cognizione sono astrattamente riconducibili a tre tipi: di accertamento, di condanna, costitutiva.

L’azione di accertamento (o dichiarativa) mira a stabilire, in presenza di una contestazione, il modo di essere di un determinato rapporto giuridico e si conclude, in caso di accoglimento, con una sentenza che si limita a constatare la piena conformità della situazione di fatto alla situazione di diritto. Un esempio può essere la sentenza che in una lite tra proprietari confinanti stabilisce che il limite delle rispettive proprietà

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coincide perfettamente con la recinzione esistente. Nessuna attività esecutiva è richiesta a valle della sentenza.

L’azione di condanna, accertata invece una difformità tra situazione di fatto e situazione di diritto, impone alla parte soccombente di porre in essere un’attività volta a rimuovere tale difformità. Riprendendo l’esempio della lite tra proprietari confinanti, la sentenza di condanna, stabilito il limite delle rispettive proprietà in base ai titoli di acquisto, ordina alla parte soccombente di rimuovere l’attuale recinzione che include una porzione di terreno di proprietà della parte vincitrice. La sentenza di condanna include un momento di accertamento, ma a questo si aggiunge anche un elemento di tipo ordinatorio. La condanna può avere ad oggetto un facěre specifico (per esempio il pagamento del corrispettivo dovuto in base a un contratto) o anche il risarcimento del danno.

L’azione costitutiva è volta a costituire, modificare o estinguere una situazione giuridica soggettiva. Essa è correlata ai cosiddetti diritti potestativi a necessario esercizio giudiziale dei quali si è parlato nel Cap. III. A differenza delle sentenze di accertamento e di condanna, la sentenza costitutiva opera anzitutto una modifica nella configurazione del rapporto giuridico intercorrente tra le parti e a valle di tale modifica, ove necessario, richiede un adeguamento della situazione di fatto al nuovo modo di essere del rapporto giuridico. La sentenza di annullamento di un atto amministrativo rientra tipicamente in questo schema.

Passando ora a esaminare la giurisdizione del giudice amministrativo e in particolare il processo di cognizione, il Codice del processo amministrativo, in continuità con l’assetto precedente, distingue tre tipi di giurisdizione (art. 7): la giurisdizione generale di legittimità; la giurisdizione esclusiva; la giurisdizione di merito.

La prima, certamente ancor oggi la più importante, ha natura generale, perché si incardina direttamente in base all’art. 7, comma 4, senza necessità di un'ulteriore previsione legislativa caso per caso. Essa interviene cioè ogniqualvolta si tratta di una controversia relativa ad atti, provvedimenti o omissioni delle pubbliche amministrazioni lesivi di situazioni giuridiche di interesse legittimo.

La generalità della competenza sta altresì a significare che la competenza attribuita alle altre giurisdizioni amministrative (Corte dei conti, Tribunale superiore delle acque pubbliche) va considerata come speciale e dunque derogatoria rispetto alla prima.

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Gli altri due tipi di giurisdizione hanno carattere speciale, aggiuntivo e parallelo: speciale, perché si riferiscono esclusivamente alle fattispecie tassativamente individuate dal legislatore; aggiuntivo, in quanto l'ambito di cognizione e i poteri decisori vanno a cumularsi e a integrare quelli caratteristici della competenza generale di legittimità; parallelo, perché esse possono cumularsi in relazione alla singola fattispecie (competenza esclusiva di merito).

La giurisdizione esclusiva, cui fa riferimento, come si è visto, anche l’art. 103, primo comma, della Costituzione, consente al giudice amministrativo di conoscere “anche delle controversie nelle quali si faccia questione di diritti soggettivi” (così l’art. 7, comma 5 del Codice). L’elenco delle materie devolute alla giurisdizione esclusiva è contenuto nell’art. 133 del Codice.

La cognizione dei diritti soggettivi nell'ambito della competenza esclusiva non è peraltro integrale. Restano infatti riservate all'autorità giudiziaria ordinaria le questioni pregiudiziali concernenti lo stato e la capacità dei privati e la risoluzione dell'incidente di falso (art. 8, secondo comma, del Codice).

Inoltre, poiché la cognizione dei diritti soggettivi è aggiuntiva (o per sommatoria) rispetto a quella degli interessi legittimi, la giurisdizione esclusiva finisce per avere un carattere composito. Infatti, se il ricorrente fa valere nel ricorso soltanto un interesse legittimo, il processo segue le regole proprie della competenza generale di legittimità. Se invece il ricorrente fa valere un diritto soggettivo cambia, oltre che la causa petendi, il petitum (domanda di accertamento o di condanna) e viene meno la necessità di impugnare entro il termine decadenziale di sessanta giorni gli atti cosiddetti paritetici.

La giurisdizione di merito è richiamata dall’art. 7, comma 7, del Codice che rinvia all’art. 134 per l’individuazione dei casi tassativi in cui essa è prevista. Nella giurisdizione di merito “il giudice amministrativo può sostituirsi all’amministrazione”. Il caso da sempre più rilevante (tra i cinque indicati dall’art. 134) è costituito dal cosiddetto giudizio di ottemperanza, cioè dal giudizio di esecuzione che, come si vedrà, può essere instaurato per ottenere l'adempimento dell'obbligo dell'autorità amministrativa di conformarsi alle pronunce del giudice amministrativo e del giudice ordinario emanate nei confronti dell’amministrazione (art. 112 del Codice). Di un certo rilievo è anche la fattispecie relativa alle sanzioni amministrative pecuniarie, che consente al giudice oltre che di annullare anche di modificare l’entità della sanzione irrogata.

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La giurisdizione di merito appare nel complesso recessiva perché rischia di sovrapporre e confondere il ruolo del giudice con quello dell’amministrazione.

8. Le azioni nel processo di cognizione, le azioni cautelare ed esecutiva.

Nel processo di cognizione può possono essere proposti più tipi di azioni.

In primo luogo, vi è l’azione di annullamento del provvedimento illegittimo (art. 29). Essa ha natura costitutiva e storicamente, come si è detto più volte, è l’azione principale per la tutela degli interessi legittimi lesi da un provvedimento amministrativo illegittimo.

L’azione va proposta entro 60 giorni e ha lo scopo di verificare se l’atto amministrativo impugnato sia viziato per “violazione di legge, incompetenza ed eccesso di potere”. Se l’azione viene accolta il giudice “annulla in tutto o in parte il provvedimento impugnato” (art. 34, comma 1, lett. a)).

La sentenza di annullamento, nell’interpretazione giurisprudenziale che ha recepito l’elaborazione della dottrina (M. NIGRO), produce tre tipi di effetti: di annullamento, ripristinatorio e conformativo.

L’effetto di annullamento rimuove l’atto impugnato e i suoi effetti retroattivamente. Esso, per così dire, ripristina la situazione di diritto, nel rapporto giuridico amministrativo tra amministrazione che esercita il potere e titolare dell’interesse, preesistente all’emanazione dell’atto. Dal punto di vista strettamente giuridico è come se l’atto non fosse mai stato emanato. L’effetto di annullamento esprime il carattere propriamente costitutivo della sentenza.

L’effetto ripristinatorio mira a ricostruire per quanto possibile la situazione di fatto e di diritto nella quale si sarebbe trovato il ricorrente al momento dell’emanazione della sentenza in assenza dell’atto amministrativo illegittimo. Si pensi per esempio alla restituzione di un bene occupato illegittimamente o alla ricostruzione della carriera di un dipendente dichiarato decaduto. L’effetto ripristinatorio va per così dire a integrare quello di annullamento: all’effetto demolitorio di quest’ultimo,

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aggiunge le attività necessarie per elidere ogni pregiudizio subito dal soggetto privato nel periodo in cui l’atto ha prodotto i suoi effetti. Ove non sia possibile raggiungere questo risultato in presenza di situazioni irreversibili, può trovare spazio la tutela risarcitoria.

L’effetto conformativo, particolarmente rilevante nel caso degli interessi legittimi pretensivi, crea un vincolo in capo all’amministrazione nel momento in cui essa emana, ove possibile, un nuovo provvedimento in sostituzione di quello annullato. In ossequio al principio della doverosità dell’esercizio dei poteri, l’amministrazione è tenuta, di regola, ove permangano le esigenze di tutela dell’interesse pubblico che stavano alla base del provvedimento impugnato, a emanare un nuovo provvedimento.

L’ampiezza dell’effetto conformativo si determina in funzione dei motivi di ricorso dedotti in giudizio e posti alla base della sentenza di annullamento. In generale, l’accertamento di un vizio di natura sostanziale (assenza di un presupposto di legge necessario per l’emanazione dell’atto, sviamento di potere) può determinare talvolta una preclusione assoluta alla reiterazione del provvedimento emanato (effetto preclusivo). Per esempio, se viene annullata una sanzione amministrativa perché il soggetto nei cui confronti essa è stata irrogata non ha commesso il fatto, la sanzione non può essere reiterata. L’accertamento di un vizio di natura formale o procedurale (mancata acquisizione di un parere obbligatorio, incompletezza o carenza di motivazione) lascia invece aperta la possibilità per l’amministrazione di emanare un nuovo atto avente il medesimo contenuto di quello annullato.

Una seconda azione è l’azione di condanna al risarcimento del danno provocato da un atto amministrativo illegittimo che lede un interesse legittimo. Essa può essere proposta o in collegamento con l’azione di annullamento o in modo autonomo.

In primo luogo l’azione deve essere proposta entro un termine di 120 giorni dal fatto o dalla conoscenza del provvedimento che ha provocato il danno (art. 30, comma 3). Molti commentatori hanno ritenuto che si tratti di un termine troppo breve. Infatti, nel diritto civile l’azione per danni può essere proposta usualmente entro termini molto più lunghi (il termine è quello quinquennale di prescrizionale).

In secondo luogo, il Codice contiene una disposizione molto controversa volta a penalizzare il ricorrente che scelga di proporre l’azione di risarcimento senza proporre insieme (o aver proposto prima)

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l’azione di annullamento. Infatti, nel momento in cui determina l’ammontare del risarcimento, il giudice amministrativo deve escludere i danni “che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza, anche attraverso l’esperimento dei mezzi di tutela previsti” (art. 30, comma 3, ultimo periodo). Quest’ultima dizione, che rinvia implicitamente all’art. 1227, secondo comma, del codice civile, è già stata interpretata dalla giurisprudenza nel senso che si riferisce anche alla mancata richiesta dell’annullamento dell’atto illegittimo (Cons. St., Adunanza plenaria, 23 marzo 2011, n. 3).

In definitiva, quest’ultima disposizione sembra assegnare una priorità all’azione di annullamento, poiché l’azione di risarcimento del danno è vista come un’azione complementare alla prima, cioè riguardante esclusivamente i danni ai quali, come si è visto, l’annullamento del provvedimento amministrativo non riesce a porre rimedio.

Viene accolta così una soluzione molto vicina a quella fatta propria dal giudice amministrativo, in contrasto con il giudice ordinario. Da un lato, quest’ultimo aveva ritenuto in alcune pronunce del 2006 e del 2008 che il privato fosse libero di scegliere se proporre l’azione di risarcimento in modo autonomo o in connessione con l’azione di annullamento (ordinanze delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione 13 giugno 2006, nn. 13659, 13660, 13911 e sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione 23 novembre 2008, n. 30254). Dall’altro il giudice amministrativo aveva negato questa possibilità di scelta ammettendo che potesse essere proposta l’azione di risarcimento solo se fosse stata tempestivamente proposta l’azione di annullamento (la cosiddetta pregiudizialità amministrativa) (Cons. St., Adunanza plenaria 26 marzo 2003, n. 4 e 22 ottobre 2007, n. 12).

Questa seconda tesi è volta a limitare gli esborsi economici a carico dello Stato in conseguenza dell’incremento prevedibile delle azioni di risarcimento del danno. Essa è più conforme alla visione tradizionale dell’interesse legittimo come strettamente legato e in qualche misura servente rispetto all’interesse pubblico, tanto da giustificare l’onere in capo al ricorrente di impugnare l’atto illegittimo anche che nei casi in cui tale forma di tutela non soddisfa il suo interesse effettivo. Si pensi al caso di un’impresa che impugna l’esclusione da una procedura di gara ad evidenza pubblica, che sarebbe risultata vincitrice ove questa si fosse svolta in modo legittimo e che, per qualsivoglia ragione, non abbia più interesse a stipulare il contratto e preferisca ottenere soltanto il risarcimento del danno.

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Il conflitto interpretativo tra giudice ordinario e giudice amministrativo esploso dopo la riforma del 2000 che, come si è visto, ha attribuito al giudice amministrativo il potere di condannare l’amministrazione al risarcimento del danno, è stato risolto in modo compromissorio. Infatti, come detto, l’art. 30, da un lato, consente l’azione risarcitoria autonoma (o pura), dall’altro prevede una restrizione (termine breve) e una penalizzazione (sotto il profilo dell’ammontare del risarcimento liquidato) entrambe di dubbia costituzionalità. La Corte Costituzionale è già stata investita della questione di costituzionalità del termine di 120 giorni stabilito dall’art. 30, comma 5, per la proposizione dell’azione di risarcimento dopo il passaggio della sentenza i annullamento.

Accanto all’azione di condanna al risarcimento del danno si è posta la questione se siano ammissibili nel processo amministrativo anche altri tipi di azione e in particolare l’azione di condanna all’emanazione di un atto amministrativo richiesto (cosiddetta azione di adempimento). Infatti, il progetto di Codice elaborato dalla commissione istituita presso il Consiglio di Stato conteneva una disposizione sull’azione di adempimento, cioè all’azione volta a ottenere la condanna dell’amministrazione a emanare un atto amministrativo dal contenuto determinato. Essa riprendeva il modello tedesco della Verpflichtungsklage, prevista, ormai da molti decenni, nei casi in cui alla conclusione del processo amministrativo avverso un provvedimento di diniego o contro l’inerzia il giudice accerta che l’amministrazione, stante l’assenza di discrezionalità, è tenuta a emanare l’atto richiesto. In questo caso, oltre all’annullamento dell’atto di diniego del provvedimento, la sentenza ordina all’amministrazione di emanare l’atto.

Nel Codice non figura più un articolo specifico sull’azione di adempimento. Tuttavia alcune disposizioni consentono di ritenere di ritenere che è ammessa anche questa particolare azione di condanna. Infatti, in particolare, l’art. 34 che disciplina i tipi di sentenze che possono essere emanate a conclusione del processo attribuisce al giudice amministrativo anche il potere di condannare l’amministrazione ad adottare le “misure idonee a tutelare la situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio”. Il Codice non ha cioè accolto il principio della tipicità e dunque il giudice può emanare, su richiesta della parte, ogni tipo di sentenza, a seconda dello specifico bisogno di tutela. Ciò ha consentito alla giurisprudenza di ritenere ammessa anche l’azione di adempimento (Ad. plen. n. 3/2011 e Tar Lombardia – Milano, Sez. III, 8 giugno 2011, n. 1428).

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L’azione di adempimento può essere proposta insieme all’azione di annullamento del provvedimento di diniego. In questa fattispecie, l’accertamento della illegittimità del diniego e l’annullamento di quest’ultimo costituiscono il presupposto logico perché il giudice possa procedere all’esame dell’azione di adempimento. Nel caso invece di inerzia della pubblica amministrazione protrattasi oltre il termine per la conclusione del procedimento, l’azione di adempimento può essere proposta insieme all’azione avverso il silenzio illustrata qui di seguito. In entrambi i casi si realizza un cumulo di domande (art. 32).

Nel processo di cognizione sono esperibili altre due altre azioni: l’azione avverso il silenzio, proponibile cioè in caso di mancata risposta da parte dell’amministrazione di fronte alla richiesta di un provvedimento amministrativo presentata da un privato (art. 31, commi 1, 2 e 3); l’azione di accertamento della nullità di un provvedimento amministrativo (art. 31, comma 4).

L’azione avverso il silenzio può essere proposta fin tanto che perdura l’inerzia dell’amministrazione e comunque entro il termine di un anno. Se nel frattempo l’amministrazione emana un atto che nega la richiesta, esso può essere impugnato con la normale azione di annullamento.

L’azione è volta anzitutto ad accertare l’inadempimento dell’obbligo di provvedere enunciato dall’art. 2 della l. n. 241/1990, un obbligo, come si è visto, di natura meramente formale che può essere adempiuto con l’emanazione entro il termine di un provvedimento espresso, o di accoglimento o di diniego dell’istanza del privato.

Ove richiesto il giudice può anche pronunciare “sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio” (art. 31, terzo comma) e cioè sul se il provvedimento richiesto dal privato debba essere rilasciato dall’amministrazione, ma ciò “solo quando si tratti di attività vincolata o quando risulta che non residuano ulteriori margini di discrezionalità”, espressione che include, come si è già osservato nel Cap. III, sia la vincolatezza in astratto sia la vincolatezza in concreto. Il giudice non può conoscere della fondatezza della pretesa neppure nei casi in cui siano necessari “adempimenti istruttori che debbano essere compiuti dall’amministrazione”. Se il giudice accerta che l’amministrazione non ha discrezionalità e che dunque l’emanazione dell’atto richiesto è dovuta, può condannare l’amministrazione ad adottare l’atto in questione.

L’azione per la declaratoria della nullità del provvedimento in relazione ai vizi di cui all’art. 21-septies della l. n. 241/1990 può essere

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proposta entro 180 giorni. Scaduto questo termine, il giudice può comunque dichiarare la nullità dell’atto anche ex ufficio, cioè, per esempio, nel corso di un giudizio nel quale la parte privata ponga alla base della sua azione un atto amministrativo. Ciò potrebbe accadere, volendo fare un esempio estremo, nel caso di un concessionario di un servizio pubblico che si rivolga al giudice amministrativo per ottenere un aggiornamento del canone corrisposto dagli utenti del servizio. Di fronte a questa pretesa fondata sul contratto di servizio accessivo alla concessione, l’amministrazione convenuta in giudizio potrebbe eccepire la nullità della concessione. In realtà i casi di nullità dell’atto sono poco frequenti nella prassi concreta.

Il Codice non contiene, al di là del riferimento all’azione di nullità, un articolo che disciplini in termini generali l’azione di accertamento, contemplata invece nel progetto di codice predisposto dalla Commissione istituita presso il Consiglio di Stato. Stabilisce soltanto che “In nessun caso il giudice può pronunciare con riferimento a poteri amministrativi non esercitati” e neppure “può conoscere della legittimità degli atti che il ricorrente avrebbe dovuto impugnare con l’azione di annullamento” (art. 34, secondo comma). E’ così esclusa la possibilità di esperire un’azione, diversa da quella contro il silenzio, tesa ad accertare in astratto come un potere debba essere esercitato, sia un’azione che accerti l’illegittimità di un provvedimento con finalità diverse da quelle del suo annullamento.

Tuttavia, al di là di questa esclusione, il principio di atipicità delle azioni, ribadito dalla giurisprudenza anche successiva al Codice, consente di esperire un azione di accertamento ove essa corrisponda al bisogno di tutela correlato a una situazione giuridica soggettiva. In ogni caso, ove sia proposta un’azione di annullamento, ma nel corso del giudizio l’annullamento non risulta più utile per il ricorrente, “il giudice accerta l’illegittimità dell’atto se sussiste l’interesse a fini risarcitori” (art. 34, comma 3).

Un’azione particolare, peraltro non inclusa nel Codice, è la speciale azione per l’efficienza della pubblica amministrazione, alla quale si è fatto cenno nel Cap. III, correlata alla violazione di livelli e standard di qualità previsti per le prestazioni agli utenti (d.lgs. 20 dicembre 2009, n. 198). Essa mira a costringere l’amministrazione a raggiungere o a ripristinare i livelli delle prestazioni stabiliti in atti amministrativi generali.

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Completata l’analisi delle azioni esperibili nel processo amministrativo, occorre soffermarsi brevemente sull’oggetto di quest’ultimo.

Il tema è stato sempre molto dibattuto in dottrina. In origine e per lungo tempo, il processo amministrativo è stato ricostruito come “processo sull’atto”, visto che la sola azione esperibile era quella di annullamento di un provvedimento amministrativo illegittimo. L’oggetto del processo veniva variamente individuato nel potere di provocare l’annullamento dell’atto, nella questione di legittimità dell’atto impugnato, nell’interesse alla legittimità dell’atto, ecc. In ogni caso, al centro del processo si collocavano l’atto impugnato e i motivi di ricorso. Del tutto minoritaria in dottrina era la ricostruzione del processo amministrativo come “processo sul rapporto” (A. PIRAS), cioè direttamente sul rapporto giuridico intercorrente tra l’amministrazione e il cittadino prescindendo dunque dal provvedimento.

La concezione originaria del processo amministrativo come “processo sull’atto” è entrata in crisi per una pluralità di ragioni. Il processo amministrativo si è anzitutto aperto a una gamma di azioni diverse dall’azione costitutiva di annullamento. Anche in quest’ultima, poi, è stato individuato un contenuto di accertamento e un effetto conformativo che tende, più che a censurare il modo in cui il potere amministrativo è stato esercitato, a stabilire la regola dell’azione amministrativa, cioè se e come l’amministrazione possa esercitare nuovamente il potere, sostituendo l’atto annullato con un nuovo provvedimento. Inoltre, l’interesse legittimo, soprattutto una volta riconosciuta la sua risarcibilità, ha acquisito, come si è visto, una connotazione sostanziale più precisa sotto forma di collegamento a un’utilità o un “bene della vita” che il suo titolare mira a conservare o ad acquisire.

La giurisprudenza più recente è giunta così ad affermare che nei casi di provvedimenti vincolati il giudizio ha per oggetto direttamente il rapporto amministrativo controverso (Cons. St., Ad. Plen. n. 3/2011 cit.).

Questa concezione sembra essere fatta propria anche dal Codice che contempla almeno due azioni, cioè quella risarcitoria pura e quella avverso il silenzio, nelle quali il ricorrente non impugna e non richiede l’annullamento di alcun provvedimento amministrativo. L’azione risarcitoria pura ha come oggetto l’accertamento di un illecito ex art. 2043 cod. civ., mentre l’azione avverso il silenzio ha come oggetto l’accertamento dell’inadempimento dell’obbligo di provvedere ed eventualmente l’accertamento della fondatezza della pretesa. Anche

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l’azione di adempimento ha per oggetto l’accertamento della fondatezza della pretesa come presupposto logico per la pronuncia di condanna dell’amministrazione al rilascio del provvedimento richiesto.

Queste ultime due azioni sono anche slegate dalla deduzione specifica di vizi del provvedimento che caratterizza invece l’azione di annullamento e hanno invece per oggetto direttamente la spettanza o meno di un determinato bene della vita.

In definitiva, volendo proporre una definizione più aderente all’attuale disciplina processuale, l’oggetto del processo amministrativo può essere individuato nella pretesa a conservare o conseguire, in forma specifica o per equivalente, l’utilità o il “bene della vita” correlato all’interesse legittimo fatto valere in giudizio. L’annullamento del provvedimento non si colloca più al centro del processo amministrativo, ma esso è sempre solo strumentale all’accertamento della spettanza o meno di un bene della vita. E ciò sia nel caso in cui l’amministrazione abbia emanato un provvedimento di diniego su una istanza, in quanto, come si è detto, l’annullamento di tale provvedimento costituisce presupposto logico per poter accertare la fondatezza della pretesa; sia più in generale in quanto anche nella sentenza di annullamento rileva, come si è accennato, più che l’effetto demolitorio, il contenuto di accertamento e l’effetto conformativo o preclusivo.

L’art. 40 disciplina il contenuto del ricorso prendendo atto di questa evoluzione. Stabilisce infatti che il ricorso deve contenere “l’indicazione dell’oggetto della domanda, ivi compreso l’atto o il provvedimento eventualmente impugnato”, dove l’avverbio “eventualmente” sta proprio a indicare che ormai l’oggetto del processo non ruota sempre e necessariamente attorno al provvedimento amministrativo.

Due altri tipi di azione (o di processi) completano le tutele sin qui esaminate, riferite al processo di cognizione: l’azione cautelare e l’azione esecutiva.

L’azione cautelare, che dà origine a una fase autonoma nell’ambito del processo di cognizione, consente di richiedere al giudice provvedimenti interinali nei casi in cui vi è la necessità di evitare danni gravi e irreparabili che si potrebbero produrre in attesa della sentenza definitiva. Questo tipo di azione era già prevista fin dalla legge del 1889 e fu rafforzata notevolmente in via giurisprudenziale e poi ad opera della legge n. 205 del 2000 e del Codice (artt. da 55 a 62),

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Anzitutto le misure cautelari che possono essere richieste già nel ricorso principale o in qualsiasi momento successivo all’instaurazione del giudizio spaziano dalla sospensione degli effetti dell’atto impugnato (per esempio, di un ordine di demolizione di un edificio) al pagamento in via provvisoria di una somma di danaro. Il Codice attribuisce cioè ampia discrezionalità al giudice nell’individuare il rimedio più efficace per prevenire il danno (principio dell’atipicità delle misure cautelari). Nella prassi giudiziale sono emerse per esempio fattispecie di ordinanze cosiddette “propulsive” (che ordinano all’amministrazione il riesame di un provvedimento di diniego) o che ammettono con riserva a un concorso un candidato ritenuto privo dei requisiti di partecipazione,

L'accoglimento della domanda cautelare è legato all'accertamento di due presupposti: il fumus boni juris, interpretato dalla giurisprudenza in modo non uniforme, talora come probabilità di accoglimento del ricorso, talaltra, in modo meno rigoroso, come minimo di attendibilità o non manifesta infondatezza del ricorso; il periculum in mora, inteso come pregiudizio grave e irreparabile che deriverebbe in capo al ricorrente nelle more della conclusione del grado di giudizio, danno che va valutato, bilanciandolo, anche con l'interesse dell'amministrazione. L'ordinanza deve essere motivata sia in ordine al pregiudizio allegato, sia in ordine ai profili che a un sommario esame inducono a una ragionevole previsione sull’esito del ricorso.

In presenza di fatti sopravvenuti la domanda cautelare respinta può essere riproposta o può essere proposta domanda di revoca o modificazione della misura concessa. La fase cautelare può concludersi, se il giudice ritenga di avvalersi di questa possibilità, anziché con un’ordinanza, con una sentenza in forma semplificata, nei casi in cui siano accertate la completezza del contraddittorio e dell’istruttoria (art. 60).

In caso di inottemperanza da parte dell’amministrazione alle misure cautelari disposte, la parte interessata può chiedere al giudice, investito dei poteri previsti nell’ambito del giudizio di ottemperanza, le opportune disposizioni attuative (art. 59). E ammesso il ricorso in appello entro 30 giorni dalla notificazione dell’ordinanza ovvero di 60 giorni dalla pubblicazione dell’ordinanza (art 62).

Di regola la richiesta di tali misure viene rivolta al Collegio che poi decide la causa nel merito in tempi piuttosto brevi (art. 55). Nei casi di estrema gravità e urgenza le misure cautelari possono essere chieste al presidente del Collegio o a un suo delegato che provvede

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immediatamente, anche inaudita altera parte, con una pronuncia provvisoria (decreto cautelare) che poi è essere confermata o non confermata in occasione della prima riunione del collegio (art. 56). Le misure cautelari possono essere richieste, in casi eccezionali di urgenza, anche prima che sia proposto il ricorso principale (tutela cautelare ante causam) (art. 61). Quest’ultimo deve essere proposto entro 15 giorni dalla concessione delle misure che altrimenti decadono automaticamente. Dopo la proposizione del ricorso le misure devono essere confermate dal collegio.

L’azione esecutiva, che dà origine al cosiddetto giudizio di ottemperanza, può essere proposta a valle del processo di cognizione nei casi in cui l’amministrazione non esegua una sentenza del giudice amministrativo (ma anche, in base all’art. 112, una sentenza del giudice civile o un lodo arbitrale emessi nei confronti di una pubblica amministrazione).

Va premesso che spesso la sentenza di annullamento emanata nell’ambito del processo di cognizione è autoesecutiva, nel senso che non richiede alcuna attività da parte dell'amministrazione soccombente (per esempio, l'annullamento di un ordine di demolizione di un edificio). Talora, specie se il provvedimento annullato è già stato eseguito, l'amministrazione è tenuta a compiere un'attività materiale e giuridica tesa, per quanto possibile, a ripristinare la situazione di fatto e di diritto così come essa si presentava al momento dell'emanazione del provvedimento impugnato e ad adeguarsi al contenuto ordinatorio della sentenza (si tratta dei menzionati effetti ripristinatorio e conformativo ).

Nel caso di mancata esecuzione della sentenza, il ricorrente può esperire il cosiddetto giudizio di ottemperanza.

Oggetto del giudizio è la verifica se la pubblica amministrazione abbia o meno adempiuto all'obbligo nascente dal giudicato. L'inadempimento può consistere, oltre che nell'inerzia totale o parziale, nell'adozione di atti amministrativi elusivi del giudicato.

Nel giudizio di ottemperanza il giudice amministrativo esercita una giurisdizione di merito che gli consente di sostituirsi all’amministrazione rimasta inadempiente. Così in particolare, se in seguito alla sentenza l’amministrazione è tenuta a emanare un’autorizzazione o a riconsegnare un terreno espropriato, il giudice può prescrivere all’amministrazione le modalità esecutive o addirittura provvedere direttamente o tramite un delegato (il cosiddetto “commissario ad acta”) (art. 112). L’azione può

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essere proposta entro dieci anni dal giorno in cui si è formato il giudicato (art. 114, primo comma). Il giudice può anche condannare l’amministrazione al risarcimento dei danni derivanti dalla mancata esecuzione della sentenza e al pagamento di una ulteriore somma di danaro per ogni giorno ulteriore di ritardo da parte dell’amministrazione (le cosiddette “astreintes”).

È discussa in dottrina la natura del giudizio di ottemperanza e in particolare se esso debba essere ricostruito come un giudizio avente natura di esecuzione pura oppure natura mista di cognizione e di esecuzione e finanche come prosecuzione del giudizio amministrativo, in quanto solo a conclusione del giudizio di ottemperanza si perviene a un assetto definitivo degli interessi.

9. Lo svolgimento del processo. I principi informatori.

Come si è accennato, il processo amministrativo muove dalla concezione soggettiva della tutela giurisdizionale. Il Codice infatti pone in primo piano la situazione giuridica soggettiva fatta valere in giudizio (di regola l’interesse legittimo), i bisogni di tutela del titolare di quest’ultima (espressi nella varietà delle azioni previste dal Codice), la sentenza del giudice. Il principio di effettività della tutela giurisdizionale, richiamato dall’art. 1 del Codice, che rinvia ai “principi della Costituzione e del diritto europeo”, esprime questa concezione: il processo serve ad assicurare al ricorrente una tutela piena ed effettiva delle situazioni giuridiche soggettive (cosiddetta strumentalità del processo, già teorizzata da G. CHIOVENDA).

In coerenza con questa impostazione, il processo amministrativo è retto in primo luogo dal principio della domanda, corrispondente al brocardo “nemo judex sine actore”, formulato in termini generali dall’art. 99 cod. proc. civ. e richiamato in varie disposizioni del Codice. In particolare, l’art. 34, comma 1 stabilisce che in caso di accoglimento del ricorso, il giudice emana la sentenza, tra quelle elencate nella disposizione (annullamento, condanna, ecc.), “nei limiti della domanda”.

In applicazione di questo principio rientra tra le prerogative del ricorrente, non solo l’impulso processuale (proposizione del ricorso), ma anche l’individuazione dell’oggetto della domanda e (art. 40, primo comma, lett. b)) attraverso l’indicazione del provvedimento eventualmente impugnato, l’esposizione sommaria dei fatti, la

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formulazione dei motivi, l’indicazione dei mezzi di prova e dei provvedimenti chiesti al giudice (lett. c)).

Nel processo di impugnazione di un provvedimento i motivi sono i profili di illegittimità dedotti nel ricorso e devono essere enunciati in modo specifico, cioè con il riferimento preciso alla norma o al principio violato e al tipo di vizio (“motivi specifici” (lett. c)). I motivi formulati in modo generico sono dichiarati inammissibili. In base al principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato (art. 112 cod. proc. civ.), il giudice, da un lato, non può pronunciarsi d’ufficio su motivi non specificamente dedotti; dall’altro lato, ha il dovere di pronunciare, di regola, su tutti i motivi formulati nel ricorso di modo che la sentenza abbia un contenuto di accertamento il più ampio possibile e vincoli in modo più puntuale l’azione amministrativa successiva al giudicato (in relazione, al cosiddetto effetto conformativo al quale si è fatto cenno).

Scaduto il termine per la presentazione del ricorso (60 giorni per l’azione di annullamento), il ricorrente può proporre soltanto i cosiddetti motivi aggiunti, cioè “nuove ragioni a sostegno delle domande già proposte, ovvero domande nuove purché connesse a quelle già proposte” (art. 43). Per esempio, può dedurre profili di vizio del provvedimento impugnato emersi in un momento successivo, che il ricorrente non era in grado di dedurre nel ricorso originario perché rilevabili solo in seguito al deposito di documenti in giudizio da parte dell’amministrazione oppure di vizi legati all’emanazione da parte dell’amministrazione di un ulteriore provvedimento connesso a quello già impugnato. La proposizione di motivi aggiunti determina un ampliamento dell’oggetto del processo e dunque dell’oggetto della cognizione del giudice.

Il processo amministrativo è un processo retto, in secondo luogo, dai “principi della parità delle parti, del contraddittorio e del giusto processo” (art. 2).

Questi principi sono particolarmente rilevanti se si considera che, sul versante sostanziale, cioè nel rapporto giuridico amministrativo, le parti non sono poste su un piano di parità, e anzi la relazione potere-interesse legittimo colloca l’amministrazione in una posizione di sovra ordinazione rispetto al soggetto privato. Tuttavia, almeno all’interno del processo, le parti sono poste su un piano di parità, nel senso che ad esse sono riconosciute le medesime garanzie.

Nel processo amministrativo trovano ingresso le parti necessarie e le parti eventuali.

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Le parti necessarie, nel senso che tutte quante devono essere evocate in giudizio in modo tale che la sentenza sia emanata a contradditorio integro, sono, in aggiunta al ricorrente, l’amministrazione resistente e il controinteressato.

Muovendo l’analisi dal ricorrente, spetta a questa parte, come si è detto, proporre l’azione formulando le domande e delimitando l’oggetto del giudizio.

Per presentare ricorso il titolare della situazione giuridica soggettiva deve dimostrare la legittimazione e l’interesse a ricorrere. Si tratta di due “ filtri processuali”, elaborati dalla dottrina processualcivilista, che a seconda delle varie classificazioni sono riconducibili ai cosiddetti presupposti processuali o, come appare preferibile, alle condizioni generali dell’azione, la cui sussistenza è necessaria per proporre l’azione. La loro assenza preclude al giudice di pronunciarsi sul merito del ricorso e il processo si conclude con una sentenza di rito (inammissibilità o improcedibilità secondo l’art. 35, comma 1, lett. b) e c)).

La legittimazione a ricorrere (legitimatio ad causam attiva) individua il soggetto legittimato a far valere in giudizio una determinata situazione giuridica soggettiva. Essa serve cioè a stabilire quale debba essere la posizione di un soggetto affinché questi possa chiedere, in nome proprio, al giudice la tutela di una situazione giuridica soggettiva. Questa posizione consiste nella affermazione da parte del ricorrente della titolarità di un interesse legittimo o di un diritto soggettivo del quale si chiede tutela e sancisce la normale correlazione tra titolarità di una situazione giuridica soggettiva e titolarità del diritto d’azione. Nessuno può agire in giudizio per la tutela di situazioni giuridiche altrui.

La questione della legittimazione a ricorrere si è posta nel processo amministrativo, soprattutto, come si è già accennato, con riguardo agli interessi superindividuali (diffusi e collettivi). In relazione a questi, in ambiti particolari (ambiente, tutela del consumatore, ecc.), è stata riconosciuta per legge la legittimazione a ricorrere a favore di associazioni ed enti privati.

Da ultimo, essa è stata attribuita anche a favore dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato che può impugnare innanzi al giudice amministrativo i provvedimenti generali e individuali e i regolamenti di tutte le pubbliche amministrazioni “che violano le norme a tutela della concorrenza e del mercato” (art. 21-bis della l. n. 287/1990 aggiunto dal d.l. 6 dicembre 2011, n. 201, convertito in l. 22 dicembre 2011, n. 214).

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E’ stata così introdotta una sorta di azione pubblica a tutela di un interesse pubblico, sganciata dalla titolarità di una qualsivoglia situazione giuridica soggettiva. Ciò reintroduce però una colorazione oggettiva al processo, nel quale, in questi casi, riemerge la funzione di controllo delle legalità dell’azione amministrativa.

L’interesse a ricorrere, che corrisponde nel processo civile all’interesse ad agire (art. 100 cod. proc. civ.), ha nel processo amministrativo una rilevanza teorica e pratica più marcata. Esso consiste nel beneficio o utilità effettiva che il ricorrente potrebbe conseguire ove il ricorso fosse accolto. L’interesse deve avere i requisiti della personalità, della concretezza e della attualità (non basta, per esempio, il mero pericolo di una lesione). Deve inoltre permanere per tutta la durata del processo: se esso viene meno il processo di conclude con una sentenza che dichiara la carenza sopravvenuta di interesse (art. 35, comma 1, lett. c)).

In base a questi criteri, manca l’interesse a ricorrere, per esempio, nel caso di un candidato a un concorso pubblico non incluso nella graduatoria dei vincitori il quale lamenta un’attribuzione errata dei punteggi in relazione alla mancata valutazione di un titolo di studio che però, quand’anche fosse stato correttamente valutato, non avrebbe comportato comunque un incremento di punteggio tale da modificare la graduatoria.

Nel caso dei regolamenti e degli atti amministrativi generali illegittimi l’interesse al ricorso di regola sorge (e acquista attualità) solo nel momento in cui vengono emanati gli atti applicativi. Il ricorrente può dunque rinviare l’impugnazione dell’atto generale al momento in cui propone ricorso contro quest’ultimi. Così, per esempio, i criteri generali per l’erogazione di contributi finanziari usualmente possono essere impugnati solo insieme al provvedimento che respinge la domanda di contributo: solo in questo caso diventa attuale, di regola, l’interesse a contestare la legittimità dei criteri generali. Un altro esempio può essere il bando di gara per l’aggiudicazione di un contratto pubblico che può essere impugnato insieme al provvedimento di esclusione di un’impresa concorrente. Solo in pochi casi, come per esempio quello di un bando che prevede requisiti di ammissione arbitrari con effetti escludenti immediati, l’atto generale può essere impugnato senza attendere l’emanazione degli atti applicativi.

Spetta anche al ricorrente provvedere sia alla notifica del ricorso, a pena di inammissibilità, all’amministrazione resistente e ad almeno uno dei controinteressati (art. 41), sia al deposito del ricorso notificato entro trenta giorni presso la segreteria del giudice (art. 45). Il giudice può

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ordinare l’integrazione del contraddittorio nel caso in cui individui ulteriori controinteressati (art. 49).

L’amministrazione resistente e gli eventuali controinteressati ai quali è stato notificato il ricorso si possono costituire in giudizio presentando memorie, formulando istanze, indicando i mezzi di prova e i documenti a sostegno della loro posizione (art. 46). Il processo amministrativo, peraltro, non conosce l’istituto della contumacia, cioè di quell’insieme di regole particolari che trovano applicazione nel caso in cui la parte intimata non si costituisce in giudizio.

Parte resistente è l’amministrazione che ha emanato il provvedimento. Controinteressato è il soggetto la cui posizione giuridica soggettiva sarebbe intaccata dall’accoglimento del ricorso e si individua in base a un’analisi degli effetti del provvedimento impugnato. Così, per esempio, se viene impugnato un permesso a costruire, controinteressato è il soggetto che ha chiesto e ottenuto il provvedimento che lo abilita a edificare; se viene impugnata l’aggiudicazione di una procedura per l’affidamento di un contratto pubblico, controinteressata è l’impresa risultata prima nella graduatoria.

In definitiva, il controinteressato interviene in giudizio a fianco dell’amministrazione per difendere la legittimità del provvedimento e l’infondatezza delle altre domande (per esempio, dell’azione di adempimento). A questo fine l’amministrazione e il controinteressato possono esporre nelle proprie memorie e nell’udienza di discussione le ragioni per le quali il ricorso deve essere respinto per ragioni di rito o ragioni di merito.

Il controinteressato ha tuttavia uno strumento in più rispetto all’amministrazione. Può cioè proporre un ricorso incidentale impugnando lo stesso provvedimento (o anche altro provvedimento) e proponendo motivi che, ove accolti, farebbero venir meno l’interesse del ricorrente a ottenere una pronuncia sul ricorso principale (art. 42). Così, nell’esempio dell’impugnazione dell’aggiudicazione di un contratto pubblico da parte del secondo classificato, l’aggiudicatario controinteressato potrebbe proporre un ricorso incidentale censurando l’ammissione alla procedura di gara del ricorrente principale perché carente dei requisiti richiesti dal bando o dalla lettera d’invito. Ove fosse accertata la fondatezza di quest’ultima censura, il ricorrente principale non avrebbe più un interesse qualificato a ottenere una pronuncia sul ricorso poiché, sia pure ex post, egli sarebbe equiparabile al quisque de populo. Il ricorso incidentale amplia l’oggetto del processo e, in base

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agli indirizzi giurisprudenziali più recenti (Ad. Plen. n. 4/2011 cit.), deve essere esaminato dal giudice per primo, proprio perché il suo accoglimento determina un effetto paralizzante il ricorso principale (che viene dichiarato inammissibile per carenza di interesse).

In aggiunta alle parti necessarie, nel processo amministrativo possono trovare ingresso parti cosiddette eventuali, cioè gli intervenienti volontari ad adiuvandum e ad opponendum (art. 50). I primi affiancano il ricorrente e possono integrare le difese di quest’ultimo, ma non proporre motivi di ricorso ulteriori tali da ampliare l’oggetto del processo. Un esempio può essere costituito da un’associazione di categoria che interviene a supporto del ricorso proposto da uno dei suoi iscritti. Non può peraltro intervenire ad adiuvandum colui che avrebbe potuto proporre ricorso autonomo in quanto titolare di una situazione giuridica soggettiva identica. L’interventore ad opponendum affianca l’amministrazione resistente.

Un altro principio del processo amministrativo, che riguarda l’istruzione probatoria, è il principio dispositivo che trova applicazione con alcune attenuazioni (principio dispositivo con metodo acquisitivo, secondo la definizione classica di F. BENVENUTI).

Infatti, da un lato, vige la regola generale propria del processo civile secondo la quale le parti devono individuare e allegare i fatti rilevanti e fornire la prova dei medesimi (principio dell’onere della prova di cui all’art. 2697 cod. civ. richiamato anche dall’art. 63, primo comma, del Codice). Secondo l’art. 64 del Codice, infatti,“Spetta alle parti l’onere di fornire gli elementi di prova che siano nella loro disponibilità riguardanti i fatti posti a fondamento delle domande e delle eccezioni”.

Dall’altro lato, il giudice può disporre d’ufficio, cioè anche a prescindere dalle domande istruttorie formulate dalle parti, i mezzi istruttori ritenuti necessari (il cosiddetto metodo acquisitivo). E’ tuttavia necessario che le parti (in particolar modo il ricorrente), che in molti casi non hanno a disposizione la prova di tutti i fatti che invece l’amministrazione ha acquisito nel corso del procedimento amministrativo, forniscano almeno un “principio di prova”.

Quanto ai mezzi istruttori, il giudice può anzitutto chiedere alle parti chiarimenti o documenti, può ordinare anche a terzi di esibire in giudizio documenti, può disporre ispezioni, può ammettere la prova testimoniale (acquisita però solo in forma scritta e di fatto assai raramente) e può

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assumere tutti i mezzi di prova previsti dal codice di procedura civile esclusi l’interrogatorio formale e il giuramento (art. 63).

Nel caso in cui l’accertamento dei fatti o l’acquisizione di valutazioni richiedono particolari competenze tecniche, il giudice può ordinare l’esecuzione di una verificazione o, se indispensabile, può disporre una consulenza tecnica. (art. 63, comma 4). La verificazione (attraverso accessi, misurazioni, esperimenti, accertamenti, ecc.) è effettuata a cura di un organismo verificatore individuato dal giudice (in genere una pubblica amministrazione dotata delle necessarie competenze tecniche), il quale defnisce i quesiti e fissa un termine per il deposito della relazione conclusiva (art. 66). La consulenza tecnica ha una funzione analoga e si connota soprattutto per la previsione di maggiori garanzie di contraddittorio. Infatti le parti possono nominare propri consulenti tecnici che assistono a tutte le operazioni del consulente tecnico d’ufficio (nominato dal giudice e che assume l’incarico prestando giuramento) e possono formulare osservazioni allo schema di relazione predisposto da quest’ultimo (art. 67).

Il giudice amministrativo ha dunque un accesso autonomo e diretto al fatto e può sindacare se esso sia stato ricostruito in modo corretto nel provvedimento (attraverso la figura sintomatica dell’eccesso di potere, già esaminata, dell’errore o travisamento dei fatti). Inoltre, soprattutto attraverso la consulenza tecnica il controllo del giudice amministrativo sulle valutazioni tecniche è divenuto più penetrante. Il giudice infatti può infatti verificare, come si è accennato nel Cap. III, l’attendibilità delle valutazioni tecniche effettuate dall’amministrazione. Il giudice non può però sostituire la propria opinione, formatasi anche in base agli esiti della consulenza tecnica, sovrapponendola a quella dell’amministrazione. L’attendibilità di una valutazione tecnica non presuppone necessariamente la sua condivisibilità.

Altri principi del processo amministrativo sono quelli della concentrazione, della collegialità e dell’oralità.

L’articolazione del processo amministrativo è molto più semplice rispetto a quella del processo civile. Essa è incentrata sull’udienza collegiale di discussione nella quale “le parti possono discutere sinteticamente” (art. 73), preceduta eventualmente da un’udienza cautelare nella quale sono sentiti oralmente i difensori che ne facciano richiesta (art. 55, comma 7). Non è prevista necessariamente una fase istruttoria, atteso che in molti casi (in relazione soprattutto all’azione di annullamento) il deposito del provvedimento impugnato unitamente agli

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atti procedimentali a cura dell’amministrazione (art. 46, comma 2) è di regola sufficiente per poter appurare l’esistenza dei vizi dedotti nel ricorso. La massima concentrazione si ha allorché il giudice ritenga di procedere alla definizione del giudizio con sentenza in forma semplificata assunta all’esito della fase cautelare (art. 60). La collegialità vale sia per la fase di merito, sia per la fase cautelare, atteso che qualora sia stata concessa una misura cautelare monocratica, il decreto cautelare perde efficacia se non è confermato dal collegio in camera di consiglio (art. 56, comma 4).

Un altro principio è quello del doppio grado di giudizio enunciato già dall’art. 125, comma 2, della Costituzione, attuato, come si è visto, dalla legge del 1971 istitutiva dei Tribunali amministrativi regionali, previsto ora dall’art. 100 del Codice.

Si è discusso in dottrina e in giurisprudenza se l’appello nel processo amministrativo sia da considerare un mezzo di gravame in senso proprio (rinnovatorio o sostitutivo della sentenza di primo grado), oppure un mezzo di impugnazione meramente eliminatorio (cassatorio) della sentenza di primo grado.

Sembra preferibile la prima concezione. Infatti l’appello può essere proposto senza alcuna limitazione di motivi e il Consiglio di Stato, di regola, se accoglie il ricorso decide della controversia senza limitarsi ad annullare la sentenza di primo grado rimettendo la questione al Tar competente (art. 105 del Codice che prevede la rimessione solo in casi eccezionali tassativi come nel caso in cui sia mancato il contraddittorio).

La parte appellante (soccombente nel giudizio di primo grado) individua nel ricorso in appello i capi di sentenza oggetto di impugnazione e con riferimento ad essi deve dedurre specifiche censure (art. 101, primo comma del Codice). Deve inoltre riproporre espressamente le domande e le eccezioni dichiarate assorbite o non esaminate nella sentenza di primo grado che altrimenti si intendono rinunciate (art. 101, secondo comma). Un onere analogo grava sulle altre parti.

Nel giudizio di appello non possono essere proposte nuove domande, né nuove eccezioni non rilevabili d’ufficio. Non sono ammessi nuovi mezzi di prova o nuovi documenti, salvo che il collegio li ritenga indispensabili o la parte dimostri non averli potuti proporli o produrli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile (art. 104). Il cosiddetto effetto devolutivo dell’appello, che consiste nella riemersione

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in sede di appello del materiale di cognizione e probatorio del giudizio di primo grado in modo tale che il giudice di appello possa conoscere della controversia con la stessa pienezza del giudice di primo grado, subisce dunque molte limitazioni.

Anche nel giudizio di appello è prevista una fase cautelare nel caso in cui la parte appellante chieda la sospensione dell’esecutività della sentenza impugnata ove dalla sua esecuzione derivi un danno grave e irreparabile (art. 98).

In virtù del cosiddetto rinvio interno, il processo di appello si svolge, salvo deroghe espresse, secondo le regole del giudizio di primo grado (art. 38).

Oltre all’appello il processo amministrativo prevede altri mezzi di impugnazione e cioè la revocazione, l’opposizione di terzo e il ricorso per cassazione (artt. 106-111).

Per quest’ultimo il Codice riprende il principio costituzionale, già ricordato, per cui il ricorso è ammesso “per soli motivi inerenti alla giurisdizione” (art. 100) e prevede che la sospensione cautelare della sentenza oggetto del ricorso in cassazione può essere disposta, in caso di eccezionale gravità ed urgenza, dallo stesso Consiglio di Stato (art. 111).

Completata la ricostruzione dei principi informatori del processo amministrativo, è sufficiente rammentare che il Codice dedica alcuni articoli alle questioni di giurisdizione, disciplinando in particolare il cosiddetto regolamento preventivo di giurisdizione (art. 10), pone alcune regole per individuare il Tribunale amministrativo regionale fornito di competenza (art. 13 e seg.), regola numerosi altri istituti processuale (astensione, ricusazione, patrocinio, ecc.). Prevede inoltre, accanto al rito ordinario (al quale è dedicato il Libro Secondo, Titolo I), una serie di riti speciali. Essi sono previsti in particolare, in materia di accesso ai documenti amministrativi (art. 116), in relazione elenco tassativo di controversie per le quali il legislatore ritiene che sussistano esigenze particolari di una definizione più rapida dei giudizi (art. 119 e seg.), in relazione alle procedure di affidamento di lavori pubblici, servizi e forniture (art. 120 e seg.), in relazione al contenzioso elettorale (art. 126 e seg.). La disciplina del rito ordinario e dei riti speciali, nonché quella di altri istituti processuali, viene esposta in modo più puntuale nei manuali di diritto processuale amministrativo.

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10. I ricorsi amministrativi.

I ricorsi amministrativi possono essere annoverati tra i cosiddetti procedimenti di secondo grado, cioè tra quei procedimenti che hanno ad oggetto altri procedimenti. Più specificamente essi hanno natura di procedimenti di riesame ad iniziativa di parte (contrapposti a quelli d'ufficio, come per esempio la revoca) con funzione giustiziale.

La disciplina generale dei ricorsi amministrativi è contenuta nel d.P.R. n. 1199/1971 che individua tre tipi fondamentali di ricorso: il ricorso gerarchico, il ricorso in opposizione e il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica.

Quanto al ricorso in opposizione, presentato cioè allo stesso organo che ha emanato l'atto, l'art. 7 si limita a porre il principio della tassatività e a rinviare alle disposizioni del Capo I che disciplinano il ricorso gerarchico.

Carattere tassativo (o eccezionale) ha anche il cosiddetto ricorso gerarchico improprio, che può essere cioè proposto al di fuori di un rapporto di gerarchia, in particolare avverso gli atti di organi collegiali (art. 1, comma 2).

Carattere generale hanno invece i due tipi principali di ricorso, cioè il ricorso gerarchico, esperibile nei confronti degli atti non definitivi (art. 1, comma 1), e il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, esperibile nei confronti degli atti definitivi (art. 8, comma 1).

Il ricorso gerarchico è esperibile entro 30 giorni innanzi al superiore gerarchico che cura l'istruttoria e assume la decisione (art. 4). Può essere proposto anche per motivi di merito (art. 1, comma 1). Il superiore gerarchico può annullare o riformare l’atto impugnato e la sua decisione deve essere motivata (art. 5). Se la decisione non interviene entro 90 giorni il ricorso si intende respinto (art. 6).

Il ricorso straordinario, da proporre entro 120 giorni, è costruito come un rimedio parallelo e alternativo rispetto al ricorso giurisdizionale: parallelo, perché offre una tutela molto simile a quella giurisdizionale; alternativo, perché il ricorrente, una volta proposto il ricorso giurisdizionale non può proporre il ricorso straordinario e viceversa.

Il ricorso straordinario può essere proposto esclusivamente per motivi di legittimità (art. 8, comma 1). E’ ammessa la tutela cautelare e sono previste adeguate garanzie del contraddittorio (sia pur soltanto in forma scritta).

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Il ministero competente cura l’istruttoria e trasmette tutti gli atti al Consiglio di Stato che esprime il suo parere. Il parere del Consiglio di Stato è vincolate, non può essere cioè superato, come accadeva in passato, con una delibera motivata del Consiglio dei ministri. La decisione finale è adottata con decreto del Presidente della Repubblica su proposta del ministro competente.

I controinteressati possono proporre opposizione al ricorso straordinario chiedendo che il ricorso sia trasposto nella sede giurisdizionale, innanzi al Tar competente (art. 10). Il Codice disciplina il procedimento per la riassunzione conseguenze all’opposizione (art. 48).

In conseguenza delle modifiche legislative più recenti, il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica è ormai assimilabile in gran parte a un ricorso giurisdizionale. I suoi pregi consistono nel fatto di essere assoggettato a un termine per la proposizione più lungo del termine di 60 giorni previsto per il ricorso giurisdizionale e per essere meno costoso, non essendo richiesta la difesa tecnica di un avvocato.

In epoca recente, il legislatore ha cercato di introdurre rimedi di tipo non giurisdizionale in modo di deflazionare il contenzioso giurisdizionale (le cosiddette ADR, alternative dispute resolution) che oggi registra gravi problemi di arretrato e di lunghezza dei processi. Per esempio, in materia di diritto di accesso ai documenti amministrativi, l’art. 25 della l. n. 241/1990 prevede la possibilità di un ricorso al difensore civico o alla Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi in alternativa al ricorso in sede giurisdizionale (disciplinato dall’art. 116 del Codice come rito speciale che può concludersi con l’ordine di esibizione dei documenti richiesti).

11. Cenni alle giurisdizioni amministrative speciali.

L'art. 100, comma 2, Cost. include la Corte dei conti tra gli organi ausiliari dello Stato e le attribuisce funzioni di controllo preventivo di legittimità sugli atti del Governo, di controllo successivo sulla gestione del bilancio dello Stato e di controllo sulla gestione finanziaria degli enti ai quali lo Stato contribuisce in via ordinaria.

Accanto alle funzioni di controllo, tra le quali assumono un rilievo istituzionale crescente i controlli di efficienza ed efficacia a scapito del controllo preventivo sugli atti recessivo nella legislazione recente, la Corte dei conti esercita funzioni propriamente giurisdizionali “nelle

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materie di contabilità pubblica e nelle altre specificate dalla legge” (art. 103, Cost.).

La giurisdizione della Corte dei conti riguarda i seguenti settori: a) la responsabilità amministrativa e contabile dei pubblici funzionari, che rappresenta la funzione giurisdizionale più rilevante sul piano politico-istituzionale; b) il contenzioso in materia pensionistica; c) i giudizi di conto; d) i giudizi a istanza di parte in materia contabile (essenzialmente ricorsi proposti da esattori, tesorieri e agenti contabili).

Merita qualche considerazione più specifica il giudizio in materia di responsabilità amministrativa e contabile la sorge, come si è visto nel Cap. VI, a carico dei propri dipendenti in relazione ai danni causati all’erario nell’esercizio delle loro funzioni.

Come si è accennato, il giudizio di responsabilità è promosso dalla procura regionale nel termine di prescrizione di cinque anni. Prima di emettere il decreto di citazione in giudizio, il procuratore invita il presunto responsabile a presentare entro un termine non inferiore a trenta giorni deduzioni e documenti (art. 5 della l. n. 19/1994). Questi può chiedere di essere sentito personalmente. Il procuratore è titolare di poteri istruttori d’ufficio molto estesi (esibizione e sequestro di documenti, ispezioni, audizioni personali, accertamenti, perizie, consulenze). Scaduto il termine per le deduzioni a difesa, il procuratore emette entro un termine perentorio di 45 giorni l’atto di citazione oppure dispone l’archiviazione. L’atto di citazione è notificato al convenuto dopo che il presidente ha fissato l’udienza e assegnato il termine per il deposito di scritti difensivi. La fase dibattimentale avviene davanti alla sezione regionale della Corte dei conti, la quale può disporre l’acquisizione di ulteriori elementi probatori. Contro le decisioni delle sezioni regionali è ammesso l’appello alle sezioni giurisdizionali centrali. La proposizione dell’appello sospende l’esecuzione della sentenza impugnata.

Hanno natura di giudici amministrativi speciali le Commissioni tributarie provinciali e regionali disciplinate dal decreto d.P.R. 31 dicembre 1992, n. 545. Le Commissioni in questione sono composte da magistrati e da altre figure professionali (avvocati, dipendenti pubblici laureati, ufficiali della Guardia di Finanza cessati dal servizio, ragionieri e perititi con esperienza specifica, ecc.) iscritti in appositi elenchi (art. 9).

Le controversie devolute alla cognizione delle Commissioni tributarie sono individuate in modo tassativo dall'art. 2, d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 (imposta sui redditi, imposta sul valore aggiunto, imposta comunale

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sull'incremento di valore degli immobili, imposta di registro, ecc.). Le controversie non incluse nell'elenco rientrano invece, in base ai criteri generali, nell'ambito della competenza del giudice amministrativo o del giudice ordinario.

Va considerato come giudice amministrativo speciale il Tribunale superiore delle acque che è composto da magistrati amministrativi e ordinari e da tecnici e che esercita una competenza generale sui ricorsi giurisdizionali contro i provvedimenti amministrativi in materia di acque pubbliche e una competenza speciale di merito in materia di contravvenzioni e di altri provvedimenti di polizia demaniale (art. 143, r.d. 11 dicembre 1933, n. 1775 contenente il testo unico delle leggi sulle acque e sugli impianti elettrici).

Il t.u. contiene un elenco delle controversie devolute in primo grado ai Tribunali regionali (artt. 140 e 141): demanialità delle acque, limiti dei corsi d'acqua e bacini; diritti relativi alle derivazioni e utilizzazioni delle acque pubbliche; indennità e risarcimenti per occupazioni ed espropriazioni di fondi per la esecuzione e manutenzione di opere idrauliche; risarcimento dei danni derivanti da opere idrauliche eseguite dalla pubblica amministrazione; ricorsi in materia di indennità di espropriazione dei diritti esclusivi di pesca nelle acque demaniali; appello contro le sentenze relative alle azioni possessorie.