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I R A M P I C A N T I

E D I Z I O N I V E R S A N T E S U D

A n d y C a v e

La SottiLe Linea Bianca

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Titolo originale: Thin white linePubblicato da Hutchinson - Random House, LondonCopyright © Andy Cave 2008

2010 © VERSANTE SUD S.r.l. Via Longhi, 10 MilanoPer l‘edizione italianatutti i diritti riservati

1a edizione Marzo 2010

www.versantesud.itISBN 978-88-87890-98-3

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Andy Cave

LA SOTTILE LINEA BIANCA

Traduzione di Giovanni Benedetti

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Ad Andy Parkin e Mick Fowler che ci ricordano costantemente come si esplorano le montagne

con dedizione e integrità.

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Ogni uomo porta dentro di sé un mondo fatto di tutto ciò che ha visto e ha amato, ed è a questo mondo che egli torna incessantemente, anche se sembra attraversarne e abitarne uno completamente diverso.

Chateaubriand

Più in alto nell’aria tersa, tra i penetranti raggi del sole, gli uomini diventano una cosa sola con le pacate divinità, e possono vedere se stessi, e i compagni, per ciò che veramente sono.

A.F. Mummery, 1894

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RicopeRta d’oRo

Derbyshire, Giugno 1997Mi guardai attorno, cercando il punto migliore per attraversare il ruscello. L’acqua scura come il brodo di uno stufato zampillava da sopra le rocce per poi deviare con un guizzo giù verso valle, verso il verde brillante della boscaglia. Poco più su, dove la salita finalmente spianava, Elaine mi stava aspettando. Nonostante le gambe ormai dure come tronchi continuai a salire, incespicando sui sassi bagnati mentre l’acqua schiumosa mi lambiva gli scarponi. Il pollice che il Changabang mi aveva quasi strappato con la sua morsa gelata pulsava ora senza pietà. Non avevo iniziato quella camminata con troppo entusiasmo ma ora, grazie ad Elaine e alla splendida giornata senza nuvole, sentivo l’umore riprendere quota. «Grazie per aver insistito a farmi salire fin quassù» dissi con un po’ di fiatone. «Bravo Andy» rispose lei dolcemente. «Vedrai che ti farà un gran bene». Verso nord l’altopiano di Kinder Scout si perdeva in un nero dedalo di viottoli, tornanti e sentieri di fango che correvano frenetici attorno a isole di erica dorata. Ci sedemmo per bere un goccio d’acqua e ascoltare il gorgoglio degli uccelli palustri. «Hai mai visto un gufo di palude?» chiesi. «No, mai. Ce ne sono molti da queste parti?» «Sembra che nidifichi in questa zona, probabilmente tra i banchi di torba.» La prima volta che avevo messo piede in quelle brughiere era stato a quattordici anni, insieme ai ragazzi del mio paese. Appena scesi dal treno, i gemelli avevano notificato il nostro arrivo a Edale scarabocchiando “qui comandano i

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Royston Skins” sulla tabella degli orari appesa al binario. Per prima cosa eravamo andati dritti al pub, dove Rhino ci aveva offerto un paio di pinte a testa. Dopodiché eravamo saliti sull’altopiano, ma in breve i gemelli si erano stufati dell’avventura all’aria aperta e avevano preso a tirare sassi alle capre. Improvvisamente erano scese le nuvole, e così per orientarmi avevo estratto la cartina, solo per riporla nello zaino non appena gli altri ragazzi avevano cominciato a prendermi in giro. Avevamo così finito col marciare per ore e ore attraverso la torba della brughiera nel tentativo di raggiungerne il limite settentrionale, vicino alla strada che passa dallo Snake Pass. Verso sera avevamo raggiunto un villaggio in lontananza che si era rivelato essere ancora una volta Edale: avevamo percorso un cerchio perfetto. Non era difficile intuire perché in quella zona la gente si perdesse tanto facilmente, e molti aerei si fossero schiantati: la brughiera era spesso ricoperta da un denso sudario di nebbia e quella collina era il rilievo più alto per miglia e miglia. Ci s’imbatteva a volte in veri e propri relitti, stanchi frammenti argentati sul nero della torba. Come me, anche Elaine amava i luoghi remoti e selvaggi, ed era appassionata di montagna. In una cosa però eravamo diversi: mentre lei non sopportava il freddo e la paura, io invece ero ben contento se al termine dell’avventura mi aspettava una parete da scalare. Elaine non sentiva il bisogno di spingere al limite corpo e mente, ed era una scelta che io rispettavo. «Un giorno o l’altro farò di te un gran camminatore» disse scherzando mentre ci preparavamo a scendere.Quel pomeriggio, tornando a casa, mi trovai a imprecare contro il laccio delle scarpe che per la terza volta mi era scivolato tra le mani. Ero già in ritardo. Fare nodi era il mio lavoro, mi dava da vivere in montagna, e ora non riuscivo a legare insieme neanche due maledette stringhe. Mi chinai

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e tirai i lacci il più stretto possibile con i denti e poi, con la mano non fasciata, li infilai dentro la scarpa. In ambulatorio, mentre aspettavo il mio turno, mi trovai seduto accanto a un’anziana signora chiusa in un cappotto di lana pesante e un cappello invernale. Che abbigliamento ridicolo per una così bella giornata d’estate. Con una parlantina inarrestabile, la vecchietta passava in rassegna gli acciacchi suoi e di suo marito, fissando di tanto in tanto la benda che mi fasciava la mano, evidentemente impaziente di sapere quale disgrazia mi fosse capitata. Il suo racconto era mortalmente noioso, ma se non altro distraeva la mia mente dal pensiero di ciò che mi attendeva, da quel che il dottore avrebbe ritenuto più saggio fare col mio pollice, e di questo gliene fui molto grato. Alla fine, incapace di trattenersi, mi chiese «Che ha fatto al pollice, giovanotto?» Non mi sembrò il caso di fornire la spiegazione completa, e così mentii, o almeno ci provai: «Stavo piantando un chiodo e…». Ma la vecchietta aveva già ripreso: «Oh poveri noi, è successo lo stesso a mio figlio, non tanto tempo fa. Terribile. Si era gonfiato come un pallone.» Proprio in quel momento suonò il campanello, offrendomi una tempestiva via d’uscita. Stando a quanto avevo letto, esisteva una vasta gamma di possibili soluzioni per il mio dito, dalla pura e semplice amputazione all’idromassaggio con acqua calda. Una in particolare mi era sembrata piuttosto macabra:Nel caso in cui l’infezione all’interno della ferita da congelamento diventi estremamente seria e non sembri guarire, se non siete in possesso di antibiotici e non vi è possibilità di asportare il tessuto necrotico, vale la pena prendere in considerazione la terapia con le larve, nonostante i possibili rischi a essa associata:

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• Esporre la ferita alle mosche per un giorno, poi coprirla.• Controllare giornalmente l’eventuale presenza di larve.• Una volta che queste cominciano a svilupparsi, mantenere la ferita coperta controllandola comunque periodicamente.• Rimuovere tutte le larve una volta che esse abbiano ripulito la ferita da tutto il tessuto morto ma prima che comincino ad attaccare quello vivo. L’acuirsi del dolore e la presenza di sangue rosso chiaro indica che le larve hanno raggiunto il tessuto sano.• Lavare la ferita con abbondante acqua sterile o urina fresca in modo da rimuovere le larve.• Controllare la ferita ogni quattro ore per diversi giorni per assicurarsi che tutte le larve siano state eliminate.

Quando l’infermiera cominciò delicatamente a rimuovere il bendaggio che mi avevano fatto a Delhi, istintivamente voltai lo sguardo. Il pollice si era dapprima annerito, per poi diventare verdognolo e maleodorante. Scherzai sul fatto delle larve, cercando di apparire calmo e rilassato, mentre invece sentivo lo stomaco contorcersi. «Temo che siamo a corto di mosche» rise l’infermiera gettando nel bidone la garza insieme alla mia unghia ormai staccata. «Ma abbiamo questa pomata al nitrito di argento, specifica per i casi di gravi ustioni da ghiaccio. Un vero toccasana per la cancrena.» Stava pulendo gentilmente il pollice ormai sfigurato, quando entrò il medico, un gigante dall’aspetto affabile. «Come andiamo qui?» Non sembrava per nulla infastidito dal fatto che uno spericolato alpinista stesse tenendo occupato il personale del suo pronto soccorso, forse perché in fatto di incoscienza anche lui godeva di una certa reputazione in paese: a quanto si diceva, infatti, qualche anno prima era stato protagonista col suo piccolo elicottero di uno spettacolare atterraggio di

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fortuna che gli era costato la frattura di diverse ossa, oltre ovviamente al risarcimento per il muretto di recinzione del campo contro il quale era andato a sbattere. In ogni caso immaginavo che nel Peak District i casi di congelamento rappresentassero un’assoluta novità in qualsiasi stagione dell’anno. «Dobbiamo cambiare il bendaggio ogni due giorni, e non appena gli antibiotici iniziano a fare effetto, le cose cominceranno a migliorare» disse l’infermiera. «Bene, molto bene» rispose lui, calmo e assorto. «Non ci si rende conto dell’importanza del proprio pollice finché...» azzardai. «Proprio così. In ogni caso, dove diavolo è stato?» «Una montagna chiamata Changabang, in India» borbottai. «Avrà se non altro fatto qualche foto, voglio sperare.» Quella domanda, fatta proprio in quel momento, fu come un salvagente: non avevo voglia di parlare di tutto il resto, della fame, della sciagura, e della lotta per la sopravvivenza. «Sì, certo. Alcune sono davvero strepitose.» «Vorrà dire che una di queste sere dovrà mostrarmele davanti a una birra. Immagino sia un posto spettacolare, laggiù.» «Sì» risposi. «È la fine del mondo.»

Qualche notte più tardi fui svegliato dal dolore ai piedi; dal giorno del mio ritorno erano rimasti come intorpiditi, ma credevo si trattasse semplicemente di una reazione a tutti i calci dati al ghiaccio con i ramponi. Qualsiasi cosa fosse, il dolore era straziante, come se qualcuno mi strappasse la carne dalla pianta dei piedi con degli uncini incandescenti. Il fatto era che non riuscivo a chiudere occhio, e cominciavo a pensare. Durante il giorno non era un grosso problema, ma di

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notte, avvolto da silenzio e oscurità, facevo molta più fatica a zittire i demoni nella mia testa. Ripensavo alla gigantesca valanga che con la sua furia aveva spazzato via Brendan per sempre. Noi che eravamo rimasti avevamo combattuto per altri tre giorni, attraversando due colli a oltre seimila metri. Eravamo riusciti a fare ritorno al campo base soltanto dopo diciassette giorni dalla partenza, gli ultimi dei quali senza cibo. Lo spettacolo che si era presentato a Roger e Julie-Ann, che ci avevano ormai dati per morti, era stato quello di tre fantasmi congelati e pieni di pustole che strisciavano a carponi verso la salvezza. Il mio pollice stava molto meglio ora, e non mi andava di tornare a seccare il medico, anche perché in apparenza i piedi sembravano a posto. Forse però il freddo aveva semplicemente causato danni interni invisibili a occhio nudo. Alla fine mi decisi a tornare all’ambulatorio. «Quest’inverno mi è capitato di visitare un giovane giocatore di calcio che aveva dei seri problemi di circolazione quando gli capitava di allenarsi al freddo. Gli abbiamo somministrato una medicina, non posso garantirle niente, ma nel suo caso ha funzionato.» «Di che si tratta?»«È un farmaco usato spesso nei casi di sindrome di Raynaud. In linea di principio dovrebbe incrementare notevolmente la circolazione sanguigna.» «Sono pronto a provare qualsiasi cosa, dottore. Invece di calare, il dolore sembra crescere sempre più forte.»

Con lo scivolare inavvertibile dell’estate verso un nuovo freddo, il mio pollice riacquistò gradualmente un aspetto normale e un fresco strato di pelle rosa fece la sua comparsa, mentre grazie alla miracolosa medicina del dottore i miei piedi cominciarono a migliorare, e il dolore andò via via

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sfumando. Dentro di me, però, non sentivo più niente, come se una spessa coltre di ghiaccio m’isolasse dal resto del mondo. Desideravo soltanto starmene per conto mio, e molto spesso finivo per staccare telefono e computer. Era ormai qualche tempo che non incontravo il dottore al di fuori del suo lavoro e un giorno, proprio sotto Natale, lui e sua moglie ci invitarono a cena. Il vino scorreva a fiumi, e mentre stavamo discorrendo di importanti questioni locali si accese improvvisamente un’animata discussione sui pericoli del gas Radon. Pur essendo comunemente utilizzato nei piccoli centri del sud del Derbyshire, imparammo che anche in certe abitazioni del nostro paesino ne erano state rilevate tracce consistenti e, a quanto pareva, a pochi chilometri da lì una donna era morta di tumore ai polmoni per via degli eccessivi livelli registrati nel suo salotto. Negli Stati Uniti valori pari al dieci per cento di quelli osservati nelle case inglesi erano già considerati inaccettabili. Grandioso, riesco a sopravvivere a una vita in miniera e all’aria sottile dell’Himalaya solo per farmi consumare dal Radon mentre guardo la televisione. «Altro vino?» chiese il dottore. «Vi ho mai parlato del mio viaggio all’Isola di Skye?» Scossi la testa. «Possiedo un piccolo aereo, in società con un amico. Volammo sull’isola per un weekend, e scalammo l’Inaccessible Pinnacle. Fu assolutamente fantastico» cominciò entusiasta, gli occhi che brillavano. «Eravamo pronti per ripartire, ma si era alzato un vento terribile, e quella di Glen Brittle è poco più di una pista di fortuna.» «Non mi ero mai accorto che ci fosse una pista di atterraggio a Glen Brittle, voglio dire, non c’è niente laggiù.» «Esatto. In pratica la pista è sulla spiaggia. Fu spaventoso, lascia che te lo dica. Temevo che saremmo potuti rimanere

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bloccati lì, e quella era la tratta più lunga che avessi mai coperto con quell’aereo.» «Mi sembra pura follia.» «A proposito, volevo chiederti: mi piacerebbe provare l’Old Man of Hoy, al largo delle Orcadi. Pensi che uno scalatore poco esperto come me potrebbe farcela?» «Non ti ho mai visto in azione.» «Perché non prendiamo il mio aereo e ci andiamo uno dei prossimi weekend? Che ne dici?» «Volare a Hoy? E perché? Non c’è dove atterrare!» «Perché? Mi stai veramente chiedendo perché?» Ci fu un attimo di silenzio, poi il dottore scoppiò a ridere. «Non avrei mai pensato che uno come te potesse chiedere a uno come me perché faccio qualcosa di avventuroso.» Sorrisi, stringendomi nelle spalle. Più tardi quella sera, a letto, ripensai alle mie parole. Avevo veramente voltato le spalle all’avventura? Se quella chiacchierata col dottore aveva davvero sortito qualche effetto, era stato quello di riempirmi di nostalgia. Ricordai che anch’io, un febbraio di qualche anno prima, ero stato a Glenn Brittle, sull’Isola di Skye: era stato la primissima volta che Mick Fowler ed io avevamo scalato insieme.

«Caro Andrew, le condizioni sono ottime oggi!» proclamò il mio amico mentre strisciavamo fuori dalla piccola tenda piazzata sul ciglio della strada. Mick era reduce da una giornata presso gli uffici del Fisco, cui erano seguiti un incontro con le reclute dell’ufficio, un viaggio in auto di sette ore filate, una conferenza a Glencoe e, visto che lì la quantità di neve caduta cominciava a farsi pericolosa, altre tre ore di guida fino a Skye. Solitamente, al termine di un fine settimana trascorso ad aprire nuove, epiche vie, Mick saltava di nuovo in auto, rifaceva tutti

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Sentimenti contRaStanti

«Sai che ti dico, Andy?» fece Dave nella truna, il mattino seguente. «Cosa?» «Che sei cambiato.» «In che senso?» «È come se tu non avessi più niente da dimostrare.» «Che vuoi dire?» «Sembra che non sia più così importante per te.» Sapevo che il Changabang mi aveva cambiato, ma non riuscivo ancora a spiegarmi in che modo. Spesso gli amici scalatori mi chiedevano cosa mi spingesse verso l’alta montagna, ed era difficile rispondere, le ragioni erano tante. La necessità di scalare è una spinta innata nell’uomo, come per un ragazzino arrampicarsi sugli alberi. Da bambino, molti anni prima di scoprire l’alpinismo, amavo salire sui tetti e le grondaie. Immagino che, una volta cresciuto, il passaggio alle cime innevate sia stato soltanto la naturale evoluzione di questa mia passione. «Certo che ho ancora voglia di scalare, Dave. Amo la montagna, è stata tutta la mia vita. Ma non esiste vetta per cui valga la pena morire.» «Hai ragione. Nessuna montagna vale quanto la vita.» «Quel che ho passato sul Changabang… non voglio più provare niente di simile. Mai più.» «Già. Comunque il problema vero è solo il meteo. L’ultima cosa che voglio è rimanere bloccato in parete con questi venti.» «Non è facile capire quanto può durare una finestra il bel tempo. Potrebbe essere qualche ora, oppure un giorno intero.» «Mi domando se quest’anno non sia peggio del solito.»

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Uscimmo a fare due passi. L’aria era piacevolmente tiepida, la brezza si era ormai posata e il cielo splendeva di azzurro. Era una bella giornata, ma eravamo esausti dal tentativo al Fitz Roy. Mentre le corde e gli indumenti asciugavano al sole, ci alternavamo ai binocoli cercando una linea che collegasse le striature di ghiaccio sulla parete est del Guillamet, una delle sorelle minori del Fitz Roy. «Sarebbe bello fare una via nuova.» «Sarebbe bello fare qualsiasi via, Dave.» Sapevo bene cosa intendesse il mio amico. Dopo aver attraversato tutto il Sud America era auspicabile riuscire a portarsi a casa qualche impresa entusiasmante, e non c’è niente di meglio che aprirsi a forza la via fino alla vetta lungo una parete ancora inesplorata. «Bisogna crederci» dissi. «Forse potremmo farcela anche in un giorno solo.» «Così avremmo meno probabilità di restare inchiodati da una tormenta.» «Esattamente.» «Vediamo come va domani, non abbiamo niente da perdere.» Per certe persone il fascino del Fitz Roy ha ben poco a che vedere con il reale desiderio di conquistarne la vetta; forse si tratta della selvaggia bellezza del posto, della sua aspra suggestione. Molti avventurieri si erano lasciati sedurre dal fascino di quella montagna, uno fra tutti Andreas Madsen. Nato a inizio secolo nella penisola dello Jutland, in Danimarca, Madsen trascorse un’infanzia fatta di miseria contadina prima di imbarcarsi su una nave della Baltic che lo portò, a soli vent’anni, fino a Buenos Aires. Lavorando vicino al confine argentino, Madsen incontrò un esploratore al quale si unì in un viaggio fino alle pendici del Fitz Roy. Abbandonato poi dal compagno, e nonostante un braccio rotto per una caduta da cavallo, riuscì a superare l’inverno

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da solo vivendo in una capanna fatta di rami. Alla fine tornò in Danimarca per rivedere la propria fidanzata, che lo aveva atteso per quattordici anni, e insieme decisero di ritornare e stabilirsi definitivamente in Sud America. Purtroppo la moglie morì, e la stessa sorte toccò a due dei loro quattro figli. Madsen li seppellì dietro alla sua casa sotto al Rio Blanco, e con le sue stesse mani scolpì le pietre tombali usando tre lastre di granito del Fitz Roy. Stando agli scalatori francesi che lo incontrarono nel 1�52, Madsen aveva un’idea tutta sua dell’alpinismo. «Il Fitz Roy sarà salito prima o poi» gli dissero una volta. «L’uomo non accetta mai la sconfitta». Il danese scosse semplicemente la testa, come a dire che non basta conquistare una montagna per romperne l’incantesimo. Senza dubbio Madsen era stato guidato da uno spirito vagabondo, come la maggior parte di coloro che si spingono fin laggiù. Come si può altrimenti finire in un posto come quello? Ma quell’uomo era anche un guerriero, uno che nella propria vita aveva dovuto superare numerose avversità. E forse l’alpinismo era un lusso per il quale non aveva abbastanza tempo ed energia. Madsen si era insediato quanto più dentro la montagna gli era stato possibile, tanto che nessuno nella calotta glaciale si era mai stabilito oltre. Gli alpinisti francesi, come noi del resto, erano laggiù solo temporaneamente, mentre lui si era invece costruito una casa nella valle sottostante, e non sentiva alcuna necessità di esplorare le montagne nel modo in cu De Agostini o noi due intendevamo fare. E allora, qual’era la differenza? Mi accorsi che tutte quelle riflessioni non mi erano di grande aiuto per chiarire i dubbi che ancora mi tormentavano circa il mio rapporto con le montagne. Dave e io ne avevamo visti di panorami suggestivi in montagna, ma la visione del cielo mattutino, l’indomani, ne spazzò via qualsiasi ricordo: fin dove l’occhio poteva arrivare,