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Page 1: Alias supplemento del Manifesto 14/05/2011

Chi ha paura del lupo?EGITTO, AHMAD FOAD NIGM • ULTRAVISTA: MARIANO TOMATIS • TELEFONI BIANCHI UNGHERESI • CHIPS&SALSA • ULTRASUONI: IL BIS

È FINITO • ON-U SOUND ON-U SOUND STORY• TALPALIBRI: PEDRIALI-PASOLINI • GALGUT • KINCAID • DUFFY • PAMUK • FINKIELKRAUT • ÉNARD • CARIFI/PUGNO/MARCHESINI • AGASSI

SABATO 14 MAGGIO 2011 ANNO 14 • N. 19SUPPLEMENTO SETTIMANALE DE «IL MANIFESTO»

«Viviamo un’epoca formata da tante culture che si mescolano, in cui non deve dare apprensione l’arrivo dei migranti, semmail’assenza di strateghi dei sistemi». Incontro con Michele Rak, teorico dei linguaggi d’arte e del mutamento culturale, per parlare

di fi abe e realtà a partire da «Cappuccetto rosso sangue», l’ultimo fi lm di Catherine Hardwicke

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di Giuseppe Acconcia

Sheikh Imam cantava:«Nei nostri campi c’è chi come noilavora con le mani/le birrerie vici-ne alle industrie e le prigioni al po-sto dei giardini/lascia (sicurezza distato) i tuoi segugi per strada echiudici nelle tue prigioni/non la-sciarci dormire nei nostri letti/dor-miremo in prigione e non nei no-stri letti/domanda di noi nei giornidella Rivoluzione/l’abbiamo fatta ea noi basta/sappiamo chi ci ha feri-ti e conosciamo noi stessi/lavorato-ri, contadini, studenti, il nostro oro-logio suona e iniziamo/imbocchia-mo una strada senza ritorno per-chè l’onore è vicino ai nostri occhi».

Ahmad Foad Nigm, ottantennepoeta vernacoliere egiziano, scris-se questi versi dopo la Rivoluzione

del 1952. Pensa di scrivere di nuo-vo, guarda le immagini dei motiegiziani scorrere sullo schermo eracconta, rinato nel fisico e nellospirito. «L’esercito inglese ha aper-to l’Egitto all’Europa e spronato ilpopolo a liberarsi dall’occupazio-ne. Nonostante negli anni ’40 fos-sero nati partiti e movimenti politi-ci, solo l’esercito egiziano seppeusare questo sentimento. Il primoministro Ali Maher andò dal re Fa-rouk perchè accettasse le sue di-missioni. Il re firmò, ma lo richia-mò poco dopo per siglare un nuo-vo documento. La prima volta lasua mano tremava. La comparsadi Nasser all’interno dell’esercito ela sua allenza con i socialisti cam-biò ogni cosa in Egitto. E Sadat, ta-lento d’ignoranza, è stato il porta-voce dell’esercito. La Rivoluzionedel 1952 fu contro la borghesia feu-dale. Da quel momento, l’esercitodovette vedersela con i comunisti:

gli operai di Mahalla vennero fuci-lati in pubblico per questo. Dopodi che, l’esercito ha dovuto con-frontarsi con gli islamisti. Ha sem-pre cercato di mantenere buonerelazioni con Stati Uniti e Fratellimusulmani da una parte, sovieticie comunisti egiziani dall’altra. Co-sì facendo, l’esercito ha vanificatogli sforzi rivoluzionari del 1952».

Nigm è entusiasta, questa non èuna rivoluzione militare. «Il 2011sarà ricordato come l’anno dellaprima Rivoluzione in Egitto, sonofelice e orgoglioso per questo. L’in-tera popolazione è scesa in piazza.

Aspettate finchè sarà completa-ta, sarà una leggenda da racconta-re! Gente senza il coltellino persminuzzare la cipolla ha affronta-to un gigantesco sistema di sicu-rezza di stato, che si è sbriciolato.Tutti ora credono nei giovani, so-no andati in trenta a Tahrir e sonodiventati un milione. E ancora so-no lì. Questa abilità di spingere lagente in piazza non ha un colorepolitico. Ha fatto più Wael Gho-nim con la sua pagina Facebook"Siamo tutti Khaled Sayd" che co-munisti e Fratelli musulmani. Gliegiziani hanno fatto la Rivoluzio-ne contro un regime potente e cor-rotto. Quanti sono morti? Non sap-piamo quanti, sappiamo solo dichi è morto davanti alle telecame-re. Chi fumava colla ora pulisce imarciapiedi».

Foad Nigm era in piazza Tahriril 2 febbraio, durante la «battagliadei cammelli». La folla lo ha circon-dato e così lentamente ha lasciatola rivolta. Più volte in prigione ne-gli anni di Nasser, Sadat e Muba-rak, è autore anche dei magnificitesti delle canzoni di Abdel KalimAfez. «Quanto avevamo bisogno di

questo? – riprende Foad dopo una pausa dianeddoti su Oum Khultum – Già nel 1919 i cuo-ri degli egiziani cantavano, era tempo di lamen-tarsi per l’occupazione e la povertà. E arrivaro-no Sayd Derwish con il suo teatro, gli scrittoriTawfiq Hakim, Taha Hussein, Habbas Mah-mud El Aqqad, e i musicisti Mohammed El Qa-sabji, Mohammed Fawzi, Belik Amdi. La Rivolu-zione del 1952 è stato il secondo atto delle rivol-te del 1919, che furono tradite da politici comeSaad Zaghloul e dall’impero inglese. Ma naquel’Egitto come nazione: il Parlamento, il sistemadell’informazione, musica e letteratura. La cul-tura egiziana cambiò definitivamente. Shawkiha stravolto le parole di Abdel Taieb Mutanabi(poeta che visse nel X secolo in Iraq, Egitto e Si-ria), di Abu Ala Al Maarri e le sue Resalat Al Ghu-fran, che ispirarono La Divina Commedia».

Il poeta egiziano continua ricordando alcuniepisodi dei moti del 1952, che lo videro protago-nista. «Abbiamo iniziato a manifestare prima

dell’esercito dopo la II guerra mon-diale. Grandi cose iniziarono conle manifestazioni. Restavamo dinotte fuori dalla moschea di AlAzhar, avremmo dato il nostro san-gue per liberarci dagli inglesi. Unuomo si unì a noi, brandiva un for-nelletto a petrolio, alzava la fiam-ma e urlava: "Andate via o vi dofuoco". Un giorno l’esercito ingle-se sparò in piazza Ismailia (oraTahrir) contro la folla. Morì un uo-mo. Lo prendemmo con il sangueche scorreva, lo tenevamo in alto.Conducemmo il suo corpo fino alpalazzo del re Farouk. Un ragazzoprese una bandiera egiziana da unnegozio di radio e avvolse il cada-vere. "Il popolo vuole il re": urlavala folla. Nagim Pasha uscì fuori edisse che il re era ad Alessandria.La folla allora gridò: "il popolonon vuole il re". Qualche giornodopo, tornammo alla moschea diAl Azhar e trovammo la porta chiu-sa e i soldati in uniforme bianca

■ EGITTO ■ INTERVISTA AL POETA AHMAD FOAD NIGM, 80 ANNI ■

2011, la nostraprima rivoluzione

«Aspettate finchè sarà

completata, sarà una leggenda

da raccontare! Gente senza

il coltellino per sminuzzar

cipolle ha affrontato

un gigantesco sistema

di sicurezza di stato, che si è

sbriciolato. Tutti ora credono

nei giovani, sono andati in 30

a Tahrir, sono diventati

1 milione, sono ancora lì»

Graffiti di Magdj El Saeef in via Mohammed Mahmud, al Cairo.Rapper nel centro del Cairo e foto in piazza Tahrir.

Foto di Giuseppe Acconcia

2) ALIAS N. 19 - 14 MAGGIO 2011

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Il ManifestoDIRETTORE RESPONSABILENorma RangeriVICEDIRETTOREAngelo Mastrandrea

AliasA CURA DIRoberto Silvestri

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REDAZIONEvia A. Bargoni, 800153 - RomaInfo:ULTRAVISTAfax 0668719573ULTRASUONIfax 0668719573TALPA LIBRItel. 0668719549e [email protected]:http://www.ilmanifesto.it

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per il caldo. Degli studenti alloraurlarono: "Soldato aiutaci, chi ven-de il suo paese è un infedele". E igiovani soldati applaudirono. Sem-bra che ora accada lo stesso, unasorta di controrivoluzione guidatadall’esercito in accordo con i Fra-telli musulmani. Il Consiglio delleForze armate vorrebbe fermaretutto, ma i giovani ufficiali non lopermetteranno, sono più vicini airivoluzionari di quanto si pensi.L’esercito resta un ordine antide-mocratico, ma noi siamo un eserci-to nell’esercito! Mentre i Fratellimusulmani sono stati distrutti dal-la prigione, sono esausti, pensanoalla via verso il Paradiso».

Nonostante la cancellazione del-la grande Fiera del libro, che si tie-ne al Cairo tutti gli anni nel mesedi marzo, piccoli editori hanno im-provvisato affollatissime fiere diquartiere, come a Zbakeya, Atta-ba. Giovani autori, come YoussefRakha e Mahmoud Atef, scrivonobrevi racconti e poesie sulla Rivolu-zione, Foad Nigm ha ispirato que-sta nuova generazione di artisti,ma il linguaggio e i mezzi sonocompletamente cambiati. È in cor-so un nuovo 1952, che avrà deglieffetti indefinibili sulla cultura egi-ziana. Magdy El Saeef, disegnatoredi graffiti era in giro per il Cairocon Omar Mustafa e Mohammed

Fami (detto Mufa) per colorare lemura di via Mohammed Mah-mud, di Bab el louk, Champollione perfino Dokki. Alcune scritte:«pane», «il pugno chiuso», «25 gen-naio sono Khaled Sayd». «Girava-mo bardati con i nostri spray e lenostre giubbe dalle mille tasche.Ma alcuni graffiti sono stati giàcancellati». Secondo Magdy c’è

una grande differenza tra i rivolu-zionari del ’52 e quelli del 2011.«Questa volta abbiamo ottenutoun risultato. I giovani che erano inpiazza non sono quelli del 1952.Sono ispirati da internet, hannoorizzonti diversi, hanno sviluppa-to un nuovo senso dell’umorismo.E tutto è successo così velocemen-te e senza legami pratici con la vec-

chia generazione. La sorpresa diKifaya nel 2005 e delle manifestaio-ni contro la corruzione e per l’indi-pendenza della magistratura del2007 hanno preparato i moti del2011. Ma la sopresa di Mubarak edi tutta la classe politica è statagrande perchè consideravano tut-to questo come un cadavere. Enon sono stati neppure i comuni-

sti, i liberali o la correttezza ma-chiavellica dei Fratelli musulmani,che fino all’ultimo momento han-no discusso con Suleiman, a ispira-re questi giovani. E allora cosa? An-che i tanti film che vengono da ol-treoceano». Magdy è consapevoleche questo è solo un primo passoverso il pluralismo. «Il nostro lavo-ro è solo all’inizio, anche la societàcivile, gli editori e le aziende han-no fatto parte di questo sistemacorrotto. E per questo il mio prossi-mo lavoro è ispirato alla Microfisi-ca del potere di Michel Foucault.Come cambia l’uomo che vive le ri-volte? Come si supera uno stato dipolizia che lascia votare la gentesu decisioni predeterminate? Co-me si passa da uno stato di resa aintravedere la possibilità del cam-biamento?».

Per Magdy è il tempo di disegna-re e raccontare. Come lui, giovaniteatranti tengono spettacoli perstrada o leggono le loro storie nel-la libreria Merit in via Qasr El Nil eal Centro Al Hanager. Sono compa-gnie indipendenti come Sabeel(fontana pubblica), Hala (stato del-la mente), Soo’Tafahom (incomprensione), Hawasa (alluci-nazione), Nas (gente) e Ana El-Hikaya (la storia sono io). Rac-contano la Rivoluzione attraverso le testimonianze di chi erain piazza usando canzoni, poesie, mimo e danza. MustafaSayd, giovane oudista della scuola classica, spera che questimovimenti si trasformino in nuova linfa per la musica ara-ba. Ma sembra scettico. «Le scuole persiana, turca, iraqena eegiziana sono dialetti di un unico sistema musicale. A parti-re dagli anni ’40, hanno preso dall’Occidente non solo mezzi

tecnici, ma l’armonia verticale. Ecosì dopo i grandi classici AzuriArun, Mohammed Qasabji e AbduEl Hamuli fino a Ryad Sambati eSaliba Qatrib negli anni ’40, la mu-sica araba è stata schiacciata dal si-stema occidentale e ha perso l’ar-monia lineare che la catterizzava,diventando melodia».

È rimasto poco del passato e ilmezzo popolare di espressionenon è solo l’oud, ma il rap dei gio-vani di Alessandria e dei quartieripoveri del Cairo. I rapper riempio-no le loro canzoni di temi socialiusando il dialetto mischiato a pa-role straniere. Ahmad Mikki pertutti, chiede la libertà per l’Egittoriferendosi agli incindenti nellapartita Egitto-Algeria in Sudan nel2010. Ma il numero di nuovi rap-per è infinito: gli Arabian Knightsdi Non siamo i tuoi prigionieri,Mc Amin di Mansoura e gli Y crewdi Alessandria. Rommel B e Prie-sto parlano dell’integrazione delledonne arabe all’estero, mentre gliEgy Rap school si soffermano sul-le ragazze egiziane vestite all’occi-dentale e in Stop al governo han-no incitato alla Rivoluzione per idiritti ben prima del 25 gennaio.Amr Ahah riprende le canzoni po-polari dei matrimoni, genereAdaweya degli anni ’70, parlandodegli attacchi ai centri commercia-li durante le rivolte. «Parliamo diRivoluzione, era un sogno/l’abbia-mo disegnato con la nostra rab-bia/è venuta perchè il cieco ditta-tore usa il potere/manifestiamocontro le loro povere idee, le loroingiustizie, la finta faccia dietro labandiera dell’Islam/vediamo i vol-ti delle manifestazioni, ascoltia-mo le loro voci e non aspettiamol’aiuto degli americani»: cantaHossem El Hosseini.

In copertina «LittleRed Riding Hood»di Brian Uhingaka Bruihn

ALIAS N. 19 - 14 MAGGIO 2011 (3

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■ INTERVISTA ■ MICHELE RAK ■

Bambine deviantidi Silvia Veroli

Che il regista di Cappuc-cetto Rosso Sangue versione cinema-tografica 2011 della fiaba di Perraultsia una donna, non stupisce. E anco-ra meno che si tratti della stessa regi-sta della saga gotica Twilight, Cathe-rine Hardwicke, a occuparsi di que-sta fiaba nera per eccellenza. La sto-ria che spaventa da sempre, conuna morale lampante, senza un’evo-luzione sociale dell’eroina, perlome-no nella sua versione originale ba-rocca dove non c’è riscatto per non-na e nipote, né cacciatori o tagliabo-schi a praticare tagli cesarei al lupo.

Di bambine che deviano dal per-corso in realtà la Hardwick si era oc-cupata ancora prima di raccontarcidella famiglia di vampiri e della Bella(che porta il nome, forse non a caso,di altra creatura fiabesca concepita,con la Bestia, nel ’700, ma rintraccia-bile ancora prima, in racconti del’500 e anche nel mito di Amore e Psi-che). Nel 2003 la regista ha girato in-fatti Thirteen (scritto con la Nikki Re-ed che interpreta Rosalie Hale inTwilight), dove l’adolescente Tracyinfrange molte regole, si scontra contotem e tabù e male gliene incoglie.Donne, dunque. Che vivono storieesemplari e le raccontano. Donnele vecchine, abbinate a gatti e foco-lari, le prime a tramandare e spaven-tare stuoli di nipoti. Donna italianala drammaturga Anna Bonacci, clas-se 1892, che pubblicò con lo pseu-donimo maschile di Igor Velasco Le

favole insidiose dove diede primaed eccellente (specie visto l’anno dipubblicazione: il 1926) lettura psico-analitica dei più noti personaggi del-la letteratura per l’infanzia.

Donna («e ottimo Mago e carissi-ma amica» per Salman Rushdie) eraAngela Carter, nata nel maggio1940, autrice della Camera di San-gue, ri-scrittura irridente e sovversi-va di 10 fiabe (da Barbablù a La Bel-la e la Bestia) e ne curò l’adattamen-to cinematografico con Neil Jordan(che ha diretto Intervista col Vampi-ro, e col gotico e le metamorfosi ne-anche lui scherza), dando vita a Incompagnia dei Lupi, ottimo, bizzar-ro film, riduttivamente definito hor-ror, del 1984. Vi spiccava come inter-prete della Nonna nientemeno cheAngela Lansbury: la Signora in Gial-lo per la bambina in rosso. La Hard-wick, per essere all’altezza, ha dovu-to schierare Julie Christie, comeNonna di Amanda Sayfried-Cappuc-cetto. Come dichiarato dalla stessaAngela Carter in un’intervista conJohn Haffenden nel 1984, i raccontidella raccolta non sono fiabe peradulti, espressione bacchettona del-l’edizione americana del libro, mastorie in cui è stato usato il contenu-to latente delle fiabe della tradizio-ne per usarlo come incipit di nuoviracconti. Si dice latente e Freud è infabula, peggio del lupo stesso. La let-tura freudiana di Cappuccetto Rossoè piana come la trama della primaedizione seicentesca della storia cheinizia con l’imperativo «non anda-re», prosegue con l’infrazione del co-mandamento e finisce con la puni-zione. Cappuccetto Rosso, come

scrisse Perrault, si spogliò, si infilòdentro il letto col lupo il quale, dopol’atroce e parodiabile all’infinitocommedia di quanto innaturalmen-te grandi siano occhi, braccia, orec-chie e infine bocca, della pretesanonna, la divora senza appello.

Freud e freudiani non dovetteroneanche darsi un gran daffare difronte a una morale che Perrault,nel 1695, dettò in questi termini: «iragazzi e le ragazze giovani e bellinon devono dare ascolto alla genteche si incontra nelle pericolose stra-de e piazze della città moderna». Aparte collegare, senza neanche tan-to sforzo, il cappuccio rosso al san-gue mestruale della giovinetta chediventa donna (ma Perrault nel ’600mette in guardia tanto jeunes fillesche jeunes enfants, dunque il fattoremestruazioni c’entra fino a un certopunto) il compito più arduo degliesegeti è stato semmai quello di ri-pulire la storia dalle infinite sedi-mentazioni, edulcorazioni e devian-ze frutto della tradizione orale, mol-to spesso femminile. Tutte le mam-me hanno prima glissato e poi igno-rato che Cappuccetto si sveste percoricarsi col lupo, hanno cambiatoil menù della merenda del cestino, il tragitto della bambina, ilmale invalidante della nonna, la localizzazione di casa sua, ilcarattere di Cappuccetto e soprattutto il finale della storia, do-ve variano figura del salvatore e cause della morte del lupo (dalcolpo d’arma da fuoco, alla caduta dal letto, dall’annegamentonel fiume all’ostruzione intestinale o emorragia post taglio permano del guardiacaccia di turno). Senza contare le variantiCarter, dato che lei dichiara, come visto, che di nuove versioninon si tratta: ma di nuove storie brevi, bellissime e rococò (scri-vere short stories, ha detto sempre lei, è come comporre musi-ca da camera. Di sangue), dove c’è addirittura un Lupo-Alice,un Cappuccetto che diventa lupo, e in generale molta compas-

sione per l’animale.Michele Rak (*), il teorico dei lin-

guaggi d’arte e del mutamento cultu-rale, che, negli anni in cui la Carter eJordan lavoravano alla Compagniadei lupi, ha tradotto dal napoletanobarocco il Cunto de li Cunti di Giam-battista Basile (il maggior testo di rife-rimento dei Racconti di Perrault), nel-la sua Breve storia illustrata della fia-ba barocca sostiene che a differenzadi quanto accade con Cenerentola,«è inutile provare a inseguire Cappuc-cetto Rosso, perché lei si è sempre in-filata nel letto con Qualcuno con cuinon dovrebbe stare». E morta lì, intutti i sensi. A differenza di altre colle-ghe immaginarie (la Bella Addormen-tata, ma anche Alice, Lolita e Zazie, siveda la prefazione di Bartezzaghi alfumetto di Oubrerie dedicato all’eroi-na di Queneau e Malle) non le è con-cesso neanche un pisolino decente; edire che in questi casi, come sostieneRak, dormire è sì pericoloso, maquando ti svegli la vita è cambiata. Einterrogato sul perché, la storia tantocontinui ad affascinare e produrre va-rianti, Michele Rak, che dirige l’Osser-vatorio europeo sulla lettura e la ricer-

ca nazionale e ha pubblicato da pocoper Lupetti La letteratura di Mediopo-lis, non ha dubbi: «Perché fa paura, eperché domina il rosso, un colore an-gosciante. Oltre, aggiunge, ad avereun finale falsato dal buonismo otto-centesco e falsabile in tutte le maniere».

Che rapporto tra cultura mediale e tradizioni narrative?La cultura mediale lavora e rilavora qualsiasi frammento diqueste tradizioni. Le altera mescolando colori e lupi, nonnee falsi cacciatori salvifici. Tanto i ruoli possibili sono sempre

quelli: qualche parente da mesco-lare con qualche bestia, qualchecolore allusivo di qualche violen-za. Serve a tutti i tipi di rappresen-tazione, soprattutto in questi tem-pi di riciclaggio. Eppure ci sono unmucchio di storie del presente daraccontare prima che il presente sidissolva come si è dissolto il tar-doseicento di Perrault.

Ecco però un nuovo filmNon mi meraviglio dei film in usci-ta, anche se non è al centro dei mieiinteressi perché non aggiungonomolto al mio lavoro sullo studio delmutamento, perché un film cristalliz-za le storie; sono più importanti intal senso le mamme che narrando lecambiano; le donne che narrano per-ché hanno fisiologicamente bisognodi un racconto, qualcosa che inizia efinisce, perché molto più degli uomi-ni avvertono i mutamenti, il declinodelle parabole anche fisiche.

Che tempi sono per le fiabe?Tempi più fluidi, confusi e creativiche mai. Cultura è, soprattutto oggi,capacità di percepire il cambiamen-to. Viviamo un’epoca formata datantissime culture che si mescola-no, in cui non deve dare apprensio-ne l’arrivo dei migranti, ma semmail’assenza di strateghi dei sistemi

La storia di Cappuccetto, dun-que, non è poi così attuale

No, a meno che non la si voglia rici-clare per le terribili storie di crona-ca. Ma queste hanno materiali suffi-cienti per nuovi racconti. Se ci fosse-ro buoni narratori e non solo padrie madre spaventati. Non c’è biso-gno di far finta di essere colti fautoridella tradizione letteraria per rac-contare dei delitti. Non c’è neppurebisogno di far finta che siano acca-duti in altri tempi e addirittura neitempi intenzionalmente remoti del-la fiaba cortigiana. Per conto miopossono tutti scrivere di tutto per-ché lo fanno già e la mescolanza del-le culture impedisce sia di rifletteresul testo originale sia di riflettere sulquotidiano che qualche volta ci op-prime. La letteratura, anche quellaremota, è stata sempre piegata alleesigenze del narratore. Comunquela buona Cappuccetto non c’entrapiù, c’entriamo noi in una culturain cui avvengono le stesse cose e lebambine non stanno ad ascoltare lenostre raccomandazioni. Il suo no-me viene fatto perché si fa riferi-mento al Lettore Bambino che siserve delle poche istruzioni ricevuteappunto da maestre, mamme e cru-deli scrittori di fiabe e al quale van-no venduti tutti questi prodotti.

* Michele Rak è nel Comitato scientifico delIII Festival Internazionale della Fiaba che si

svolge a Campodimele (Latina) in mezzoal Parco degli Aurunci, dal 25 al 27 mag-

gio, diretto da Giuseppe Errico.

BEASTLYDI DANIEL BARNZ; CON MARY-KATE OLSEN,

ALEX PETTYFER. USA 2011

0Versione moderna dellafavola «La bella e la be-stia». Un ricco e bellissimo

ragazzo di Manhattan, Kyle, umiliapubblicamente una giovane compa-gna di scuola, Kendra, apparentemen-te insignificante. Kyle non sa peròche Kendra è in realtà una strega:diventa così vittima di un incantesi-mo che gli sfigurerà il viso rendendo-lo simile a una bestia. L’unica possibi-lità di salvezza è che Kyle, entro dueanni, trovi il vero amore.

REDDI ROBERT SCHWENTKE; CON BRUCE WILLIS,

JOHN MALKOVICH. USA 2011

0Il titolo è un acronimo chesta per: Retired ExtremelyDangerous (pensionato ed

estremamente pericoloso), ispiratoalla graphic novel di Warren Ellis, ripro-posta dal regista tedesco in chiavepiuttosto comica. Frank Moses, un exagente della Cia vive una vita tranquil-la fino al giorno in cui un assassino sipresenta alla sua porta. Moses ricom-pone allora la sua vecchia squadra, inun ultimo disperato tentativo di soprav-vivenza, con Morgan Freeman, JohnMalkovich e Helen Mirren, tutto unprogramma. Ma ci sono anche RichardDreyfuss e Ernst Borgnine.

CON GLI OCCHIDELL'ASSASSINODI GUILLEM MORALES; CON BELEN RUEDA,

LLUÍS HOMAR. SPAGNA 2010

0Diretto da Guillem Moralese prodotto da Guillermo DelToro Los ojos de Julia rac-

conta la storia di una ragazza che acausa di una malattia degenerativa staperdendo progressivamente la vista.Quando sua sorella Sara, affetta dallastessa patologia, viene ritrovata impic-cata, Julia rifiuta di credere che si siasuicidata, e decide di intraprendereun'indagine personale che la porterà ascoprire delle verità inquietanti sugliultimi giorni di vita della ragazza. Ma lasua vista si affievolisce sempre di più eil tempo a disposizione è poco.

SEGUE A PAG 10

Le vie oscure della fiaba emergono anche nell’ultimo «Cappuccetto rosso sangue»

di Catherine Hardwicke dopo aver preso direzioni edulcorate, moralistiche,

cronachistiche, didattiche, spesso pilotate rispetto alla lettura dei bambini

LETALE

INSOSTENIBILE

RIVOLTANTE

SOPORIFERO

CLASSICO

BELLO

COSI’ COSI’

CULT

MAGICO

4) ALIAS N. 19 - 14 MAGGIO 2011

Page 5: Alias supplemento del Manifesto 14/05/2011

■ INTERVISTA ■ MARIANO TOMATIS ■

Mamme trigonometrichee martiri dell’aritmetica

di Luigi Calabrò

«Ci risiamo! I numeri sono fatti così: gli dai una frazione e siprendono l'algoritmo. Non puoi ignorarli e non puoi perderli di vista. Haivoglia a dividerli e a sottrarli, loro si sommano, si moltiplicano, si portanoappresso uno zero e ti invadono, ingaggiano una virgola e ti fanno nero!».

Ci vuole l'abilità di Mariano Tomatis, che torna nell'agone con I numeriassassini (ed. Kowalski, 2010), per mettere la briglia a queste isole razionaliimmerse nel caos liquido del caso bifido. Solo lui sa spiegare perché unamacchina per cucire incontra un ombrello su un tavolo operatorio. Sololui, per citare qualche caso esposto nel libro, sa trovare il minimo comundenominatore tra mamme trigonometriche, carcerati dagli algoritmi sinco-pati, sfinteri anali che imbrogliano la macchina della verità, martiri aritmeti-ci, telefonate che uccidono e numeri che impallano il cervello passando,magari, per il mostro di Firenze.

I matematici bisogna lasciarli stare, ne sanno sempre una più del diavo-lo. Tu credi di conoscerli e quelli si rivoltano all'improvviso e diventanoAmoricaldi, qualcuno ha svelato il futuro alla vigilia di un duello d'amoreche lo vedrà soccombere, qualcunaltro ha smascherato la scacchiera,ma Tomatis, che se provi a confon-derlo diventa uno «stimato tomi-sta», trasforma in finissimo gioco in-tellettuale gli arabeschi del ruminedei numeri, rilegge alla luce di para-bole ed ellissi celebri scene del cri-mine dondolando sul filo di lanadell'ironia, suggerendo e nascon-dendo per puro divertimento.

Ma allora la matematica fa diver-tire perché, ordinando il disordine,spera di controllare il caos? Vuoleproteggerci dall'irrazionale? Hauna funzione consolatoria? Di cer-to l'astrazione matematica è l'uni-co sistema per affrontare e esorciz-zare l'orrore della follia umana. So-lo una cosa sappiamo: nessuno, do-po aver letto I numeri assassini, po-trà dire: «Per me è algebra!». O forsesì. O forse no.

Mariano Tomatis è un divulgato-re scientifico si occupa del latooscuro della matematica e dellesue applicazioni ai campi più insoli-ti. Con una laurea in Informatica euna cattedra presso il Circolo Ami-ci della Magia di Torino, dove inse-gna storia e tecniche dell’illusioni-smo, Tomatis gioca su uno scivolo-so crinale: quello tra la razionalitàdei calcolatori e l’irrazionalità dellamagia e dell’occulto. Ma sentiamoil diretto interessato.

Come si coniugano disciplinetanto diverse?

Parlando di gioco, usi la parola giu-sta. Il gioco si colloca sull’intersezio-ne tra la razionalità delle regole e lalibertà delle azioni. Pensa agli scac-chi: ogni mossa deve rispettare pre-

cise regole matematiche, eppureogni partita è espressione unica e ir-ripetibile dell’arbitrio di ciascungiocatore. È proprio nel contesto lu-dico che il rigore dei numeri si con-cilia con gli aspetti più imprevedibi-li e irrazionali della realtà; ecco per-ché nei miei libri uso spesso il gio-co come strumento di divulgazio-ne.

A proposito del tuo libro «Lamagia dei numeri» è statoscritto che si può leggere siacome un testo di matematica,sia come un manuale di gio-chi di prestigio. Ti riferisci aqualcosa del genere?

Esattamente. La parapsicologia usai numeri per studiare i poteri dellamente, i dischi volanti e per valuta-re la fondatezza delle ipotesi nume-rologiche; al contempo, gli stessinumeri vengono usati dagli illusio-nisti per riprodurre i fenomeni pa-ranormali. Quello che nasce dall’in-contro tra mondi così diversi è tal-mente curioso che ho pensato didedicargli un libro. Ma per non scri-vere un testo solo teorico, ho pensa-

to di proporre una serie di esperi-menti pratici attraverso cui stupirei propri amici, che mettono all’ope-ra semplici ma potenti principi ma-tematici. È di nuovo un gioco (diprestigio, questa volta) a traghetta-re il lettore dai freddi numeri al sul-fureo mondo dell’occulto. Sono del-l’idea che apprendimento e diverti-mento non siano inconciliabili, eche la buona divulgazione debbarenderli un tutt’uno.

Va in questa direzione la tuaattività di divulgazione pres-so le scuole. In che modo ituoi giochi di prestigio posso-no dare un supporto all’attivi-tà didattica?

Uno dei maggiori stimoli all’ap-prendimento è il senso della mera-viglia. Proporre eventi insoliti o ap-parentemente impossibili collocachi osserva in una situazione di in-stabilità. Ogni cosa che vìola il mo-dello del mondo che ci siamo co-struiti, ci spinge a «risolvere» la si-tuazione cercando una spiegazionelogica e razionale. Lo stupore puòdunque accendere una scintilla eagire sull’istinto all’indagine e allostudio. I moderni teorici dell’illusio-nismo descrivono la loro disciplinacome una forma di «ingegneria del-la meraviglia». Quando questa èmessa al servizio della didattica,

può davvero risvegliare dal torporegli studenti, e indurli ad approfondi-re materie verso cui erano del tuttoindifferenti.

Il tuo libro affronta l’uso deinumeri per risolvere i crimini.La matematica funziona dav-vero in ambito investigativo?

Il mio libro è una raccolta di casicelebri nel corso dei quali i numerisono stati usati nelle indagini inve-stigative: dal caso Cogne al Mostrodi Firenze, dall’attentato a Kenne-dy a quello alle Torri Gemelle. Par-lando dei principi matematici ado-perati nell’ambito di casi reali, met-to in luce le potenzialità ma soprat-tutto i limiti di questi metodi. La ra-gione è ovvia: il crimine è un feno-meno caotico e irrazionale, ed èmolto difficile individuare deglischemi precisi.

Pur trattandosi di un saggiodivulgativo, il libro è pienodi enigmi e indovinelli. Ilgioco è pertinente anche a

questo ambito?Sì, la sfida che contrappone il crimi-nale e chi cerca di catturarlo può es-sere paragonata a un drammaticogioco tra guardie e ladri; le sue rego-le sono caotiche e apparentementeirrazionali, ma i bravi matematici sidistinguono per la capacità di indi-viduare schemi dove sembra nonce ne siano. Negli anni ’70, il primoa usare con successo un’equazioneper trovare un serial killer indivi-duò la residenza dell’assassino conalcuni calcoli geometrici.La sua indagine partiva da un pre-supposto filosofico amato da Bor-ges: l’uomo è una pedina nel gran-de gioco degli scacchi che è la vita.Scoprendo le regole che descrivo-no i movimenti di un criminale èpossibile ricostruirne le mosse e ad-dirittura prevederle. Registrandosu una mappa i luoghi dove il killeraveva ucciso e facendo una serie diipotesi sulle regole seguite durantei suoi attacchi, il matematico scoprì

SEGUE A PAGINA 10

LA DROGA FATTA IN CASAANCHE DALLO SCERIFFOL'ultimo spacciatore arrestato ènientemeno che uno sceriffo. Tom-my Adams, 31 anni, eletto fortuno-samente l'anno scorso (il vecchiosceriffo, corrotto, si era suicidato)è stato colto infatti una settimanafa con le mani nel sacco a vende-re, e consumare, metamfetamina.Ma i suoi 446 concittadini di Ellsi-nore non hanno fatto una piega.Per la tradizionale diffidenza versochi indossa la stella, ma ancheperché da quelle parti la metamfe-tamina è di casa. Il Missouri è di-ventato infatti la capitale della pro-duzione della nuova droga, condecine e decine di laboratori se-questrati, e con migliaia di consu-matori abituali. Spesso del resto ledue figure si sovrappongono, co-me nel caso dello sceriffo Adams,perché la metamfetamina è unprodotto casalingo. Bastano pochiingredienti, tra cui ad esempio ilSudafed, popolarissimo rimedioper il raffreddore in vendita inqualsiasi supermercato, ed è fatta.Così in Missouri, come in Tennes-see o in Kansas, nelle zone ruralidel Midwest e del Sud dove la cri-si ha colpito duro, e ancora persi-ste, molti hanno finito per arran-giare in garage un piccolo labora-torio e arrotondare così il miserosalario mensile. Per poi trasformar-si, in poche settimane in produtto-re consumatore.Al contrario degli sciroppi alla co-deina, di moda anche in Italia ne-gli anni '70, la metamfetamina èdevastante. E a Ellsinore molti oradicono che qualche sospetto c'erastato su Adams, vista la sua ma-grezza improvvisa, o i suoi dentimarci. Ma avevano preferito tace-re, visto che lo sceriffo non eracerto l'unico, in città o nella con-tea, con quei sintomi. Ed è ancheper questo uso diffuso che la bat-taglia contro la diffusione dellametamfetamina ha avuto ben po-co successo. Gli arresti, o i seque-stri di laboratori casalinghi (in Ten-nessee nel 2010 ne sono statichiusi 2100) sono all'ordine delgiorno ma il consumo non cala.Non sapendo più dove sbattere latesta, adesso in molti Stati si cercadi intervenire all'origine. Ovverorendere obbligatoria la ricetta delmedico per l'acquisto del Sudafed.Proposte di legge in tal senso so-no state presentate in numerosiStati. Ma spesso, come è successoin Arkansas, in Kentucky e in WestVirginia, senza successo. Perché iproduttori, ma anche i consumato-ri sono insorti e hanno bloccato iprovvedimenti. Solo in due Stati,Mississippi e Oregon, oggi è obbli-gatoria la ricetta per qualsiasi me-dicina che contenga la pseudofe-drina. I risultati sono stati ottimi eimmediati. In Mississippi negli ot-to mesi dopo l'approvazione dellanuova legge, il numero dei labora-tori sequestrati si è più che dimez-zato, passando da 607 a 203. Mafinché, come a Ellisnore, tutti cono-scono per nome e cognome i pro-duttori consumatori, e non dicononulla, ci sarà poco da fare. E forseper intervenire davvero sulle cau-se bisognerebbe fare qualcosa dipiù, per chi vive nelle desolate epovere campagne del Midwestamericano.

Immagini tratteda «I numeri assassini»(ed. Kowalski, 2010)di Mariano Tomatis

Incontro con un ricercatore che si occupa del lato oscuro

della matematica e delle sue applicazioni ai campi

più insoliti: illusionismo, ufo, paranormale, criminologia...

ALIAS N. 19 - 14 MAGGIO 2011 (5

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■ LIBRI ■ «EASTERN. LA COMMEDIA UNGHERESE SULLE SCENE ITALIANE» ■

I «telefoni bianchi»,made in Budapest

di Alessandro Cappabianca

Se Western indica l’avanzata verso ovest dei pionieri americani,immortalata da un numero di film così sterminato da aver dato luogo allemitologie e alle convenzioni di un vero e proprio «genere», in Eastern. Lacommedia ungherese sulle scene italiane fra le due guerre di Antonella Ottai(ed. Bulzoni – Roma, 2010), il neologismo Eastern sta soprattutto a indica-re il movimento verso est, in parti-colare verso l’Ungheria, dell’imma-ginario di alcuni paesi occidentali,movimento che in pratica quasisempre si concretizza nell’esodo fi-sico opposto, verso ovest, degli au-tori ungheresi, molti dei quali co-stretti all’esilio dalle necessità di la-voro o dalle vicissitudini politiche.

Nel caso della Ottai, il sottotito-lo un po’ inganna, nel senso che,contrariamente alla prassi, sembrapromettere assai meno di quantoil libro, nella sua ricchezza, effetti-vamente offre. Non si tratta solo discene, ma anche di schermi, nonsolo italiani, ma anche hollywoo-diani. I debiti di giganti come Er-nst Lubitsch e Billy Wilder verso ladrammaturgia ungherese vi sonorigorosamente annotati. Per esem-pio, nota la Ottai, il soggetto di Vo-gliamo vivere (To Be or Not To Be),girato da Lubitsch nel ’42, contie-ne già buona parte delle battutedel film, ed è dovuto al commedio-grafo ungherese Menhyert Len-gyel, mentre troviamo AlexanderKorda come producer, VinzenzKorda come scenografo e MiklosRózsa come collaboratore alle mu-siche (tutti oriundi ungheresi).

Ma si potrebbe continuare alungo con questo gioco delle attri-buzioni, le cui scoperte, spesso sor-prendenti, preferiamo lasciare allettore – tanto che il lavoro di Anto-nella Ottai potrebbe anche essereutilizzato per mettere in crisi certenostre radicate convinzioni di criti-ci cinematografici, secondo le qua-li primo, anche se non certo uni-co, responsabile della riuscita diun film è il regista: impossibile tra-scurare l’apporto degli sceneggia-tori, soprattutto nella commedia,di fronte a certe battute folgoranti,tipo «Nessuno è perfetto!» in Aqualcuno piace caldo (anche diquesta, la Ottai ricostruisce la sto-ria) o alla raffica di gag che FerencMolnar, nella commedia Uno,due, tre!.., metteva a disposizionedel film di Billy Wilder.

Di famiglia ebrea unghereseper parte di padre e abruzzese perparte di madre, la Ottai ha già me-scolato tradizioni diverse, nellafattispecie culinarie, in un suo li-bretto intitolato Il croccante e i pi-noli, edito da Sellerio, dove avevaalternato in scrittura sapientissi-ma, sotto la modesta apparenzadi un libro di cucina, raffinate ri-cette e intensi momenti d’esisten-za. È ampiamente noto, d’altraparte, il suo interesse non solo ac-cademico per la commedia, appli-cato alla valorizzazione critica del

grande teatro napoletano diEduardo De Filippo.

Ecco l’Ungheria, dunque - lacommedia ungherese, la letteratu-ra, anche il romanzo, se solo sipensa al clamoroso successo inter-nazionale di quei Ragazzi della viaPál , che un giovanissimo FerencMolnar aveva già pubblicato nel1908. L’Ungheria e Budapest – Bu-dapest come luogo di sogni e ditrasgressioni, cui però non viene(quasi) mai meno qualche sorta dilieto fine (magari sotto forma dimatrimonio): luogo per eccellenzateatrale, di scambi, travestimenti,equivoci e barbe finte, senza il qua-le non solo si capirebbe poco delcostume scenico italiano in epocafascista, né del cosiddetto «cine-ma dei telefoni bianchi», ma an-che della commedia musicale e /osofisticata hollywoodiana.

Quanto all’Italia, la Ottai scrive:«Durante il regime fascista nel co-stume italiano si verifica un feno-meno peculiare di cui è responsa-bile soprattutto il mondo dellospettacolo e, in qualche misura, laletteratura di grande consumo:l’Ungheria – ma sarebbe meglio di-re Budapest, città che è uno "statonello stato" – popola l’immagina-rio nazionale di narrazioni che in-vestono soprattutto la vita metro-politana e i suoi caratteri di moder-nità. Le trame che in qualche mo-do provengono dalla capitale ma-giara o "trafficano" con questa, ga-rantiscono al pubblico la leggerez-za degli intrecci e le ambientazio-ni ungheresi diventano prima in te-atro e in seguito nel cinema, unapratica diffusa che perdura fino al-la fine della seconda guerra mon-diale: dialoghi brillanti e abiti allamoda, favole sentimentali e ogget-ti di design si producono sulla sce-na in forma di operetta, di rivista,

di commedie e quindi, con l’avven-to del sonoro, anche sullo scher-mo ed è soprattutto come film checonseguono una propria tipologiadi riferimento, ottimizzando lostandard del racconto in una pro-duzione che conta un numero co-spicuo di opere».

La leggerezza degli intrecci e idialoghi brillanti, trasposti in unmilieu tutto sommato provincialecome quello italiano d’allora, bensi prestavano a configurare quel-l’universo di trasgressioni a buonmercato che il fascismo non pote-va ammettere avessero luogo nelcostume nazionale – adulteri, di-vorzi, incontri sentimentali etero-dossi, affari disinvolti, anche se tra-slati in riso, potevano essere am-messi solo in quanto appartenentia un altrove deterritorializzato edeterritorializzante, a un non-luo-go in parte moderno in parte esoti-co, che una città come Budapestben si prestava a incarnare e chele imitazioni nostrane spesso si li-mitavano a evocare solo nominal-mente. Il messaggio soggiacente ri-volto agli italiani era in fondo que-sto: nel nostro paese si lavora e si èseri – per divertirvi, c’è l’Ungheria(immaginaria).

Occorre precisare, però, che l’in-flusso ungherese acquista ben al-tro spessore a contatto con perso-nalità registiche più forti o con ununiverso più fortemente struttura-to come quello di Hollywood. Hala possibilità di emergere, allora,quello che potremmo chiamare ilversante serio del riso e addiritturail suo rapporto con la morte.

Il rapporto tra il mondo dei vivie quello dei morti va ben oltre iconfini del genere comico, natural-mente, investendo soprattutto ilgenere horror e quello fantastico,ma risulta anche il pezzo forte di

molte commedie, così come dimolte pièces tra dramma e com-media, che volentieri mettono inscena, in forma più o meno burle-sca, il Giudizio cui l’anima è sotto-posta al suo arrivo di fronte alle au-torità «superiori» (o infere). Pensia-mo a film come La leggenda di Li-liom (nelle sue diverse versioni,tratte dalla commedia di FerencMolnar) o come Il cielo può atten-dere (dalla pièce di un altro unghe-rese, Bús Fekete).

Rispetto a Liliom, la Ottai scri-ve: «La pièce... propone un univer-so raddoppiato e insegue il suoeroe nel soggiorno ultraterreno,perché leggenda vuole che il cieloconceda ai suicidi l’occasione ditornare un giorno sulla terra percompiere una buona azione che ri-sarcisca le malefatte del passato. Ilmotivo non è nuovo e il termineleggenda, inserito nel titolo, auto-rizza le soluzioni fantastiche dellastoria; in effetti esistono miti ma-giari – alla quale anche altri autoricontemporanei fanno riferimento– sui rapporti fra mondo dei vivi emondo dei morti, in particolareuno secondo il quale le genitricidefunte vegliano le sorti delle figliein età di marito. Molnár però mo-difica il mito originario: il mondoceleste che accoglie Liliom non èl’universo tellurico delle Madri re-golato dagli istinti e dalle passioniprimordiali, ma si presenta invececome il mondo dei Padri e dellaLegge, burocratico e anaffettivo,perfettamente speculare alla giusti-zia austroungarica che già avevadeterminato negativamente le vi-cende terrene di Liliom».

Nella bella versione filmica del’34, girata in Francia da un Fritz Lang in fuga dalla Germania nazista e inattesa di trasferirsi negli Stati Uniti, sono particolarmente evidenti le corri-spondenze tra la burocrazia celeste e quella terrena. Appena morto, Li-liom (Charles Boyer) viene preso in custodia e trasportato in cielo quasi

in stato d’arresto da due spettraliagenti della Polizia Celeste – non èportato davanti al Signore (che nelfilm è rappresentato solo dal dise-gno di un grande Occhio), ma ne-gli uffici del Commissariato (nonmolto diversi da quelli che fre-quentava in terra), dove dovrà at-tendere di essere interrogato assie-me ad altri suicidi, mentre un an-gelo/brigadiere, in divisa, ma contanto di ali, legge annoiato il Para-dise-Midi. Anche il Commissarioha le ali, è impegolato in disputeburocratiche con il rappresentan-te degli Inferi e non trova i timbriper vistare i documenti che si accu-mulano sulla sua scrivania. Nellasala d’attesa, Liliom riconosce unarrotino (Antonin Artaud) che erapassato accanto a lui e gli avevaparlato poco prima della fallita ra-pina, e si rende conto che si tratta-va del suo Angelo Custode, seguen-do i cui consigli si sarebbe potutosalvare.

Nel pieno del fallimento d’unavita, qualcosa comunque lo salve-rà lo stesso. Un filmato, risalente«alla mattina del 17 luglio, ore 8 e40», proiettato sullo schermo delcielo, sembra dimostrare solo lasua violenza, anche fisica, nei con-fronti della moglie che lo amava –

ma in cielo esiste la possibilità disostituire la colonna sonora delleparole effettivamente pronuncia-te, con quella dei pensieri – e allo-ra il comportamento di Liliom tro-va spiegazione, se non giustifica-zione: egli picchiava sua moglie econtemporaneamente se ne vergo-gnava. Lo faceva sentendosi inade-guato a corrispondere al suo affet-to e alla sua devozione. Lo facevaper disprezzo verso se stesso. Ben-ché egli stesso stenti a crederlo, lofaceva per amore.

Nel cinema del Paradiso, dun-que, è possibile leggere i pensieri,le motivazioni profonde, oltre l’evi-denza dei gesti e dei comporta-menti esteriori. Liliom però non ri-nuncia a essere se stesso, non di-venta «un pentito». Non rinuncia,per esempio, a strizzare l’occhio auna piacente dattilografa/angelo,che sta battendo a macchina lasua deposizione e che, del resto,sembra gradire le sue attenzioni.

Questo può servire a introdurreil discorso su Il cielo può attendere(versione Lubitsch, 1943), di cuiAntonella Ottai ha scritto: «AncheIl cielo può attendere è un film per-vaso di nostalgia, in vista però diabbandoni più definitivi: Lubitschha fatto già i propri conti con lalontananza dai luoghi originari edeve ora piuttosto elaborare luttiche non sono inscritti nell’ordinedella distanza, ma che sono il por-tato della dimensione del tempo.In questa prospettiva la comme-dia di Bús Fekete non gli offre solola memoria di un mondo anticocon vecchi signori intemperanti esanguigni signorotti di campagna,ma il paradigma della seduzionesenza altro dolore che non sia quel-lo di non goderne più».

Il film è certamente preso nelladimensione del tempo, non senzaqualche eccesso di nostalgia – mal’impenitente libertino DonAmeche, appena scampato allefiamme eterne grazie all’indulgen-za di un Giudice (Diavolo) com-prensivo, non perde il vizio neppu-re in cielo, e decide di seguire l’ani-ma di una graziosa ragazza che in-vece, condannata, sta scendendo

In alto a sinistra, Irazema Dilian in «Fugaa due voci» di Carlo Ludovico Bragaglia (’42),foto a destra: Mariella Lotti (Foto Ghergo).Le stelle: Doris Duranti (foto E. Greme),Neda Naldi (foto Ampelio Ciolfi), Luisella Beghi(foto Pasquale De Antonis), Umberto Melnati(foto F. Bertazzini)

VENTENNIO

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con l’ascensore ai piani sotterranei.Quanto al Cielo: può attendere.

Si è molto parlato del famosotocco di Lubitsch, nozione chesembra mettere senza dubbio diper sé un particolare accento sul-la leggerezza – la leggerezza deltocco, tanto per richiamare il tito-lo di uno spiritoso film di France-sco Calogero; ma intanto è un toc-co che si affina man mano, a parti-re da una certa grossolanità (chedisturbava Lotte Eisner), fino alleschermaglie dialettiche della com-media sofisticata classica, e poi, sitratta di qualcosa che tende ad ag-girare, con una malizia che qual-cuno ha definito «diabolica», i di-vieti e gli interdetti della censura.Lubitsch non rinuncia mai, nep-pure in piena vigenza del codiceHays, a parlare di «certe cose»,ma lo fa con un’abilità tale da ri-durre i censori alla disperazione(«Si sa cosa vuole dire, ma non sipuò dimostrarlo»).

Si pensi a La vedova allegra.L’operetta di Lehar si è da sem-pre collocata nell’immaginario collettivo come l’epito-me della gaiezza viennese, ma Lehar era ungherese dinascita! Comunque, mentre la versione di Eric vonStroheim (1925) sarà nel mirino dei bigotti, nonchéproibita in molti paesi europei (compresa l’Italia),quella di Ernst Lubitsch (1934), alla cui sceneggiaturaaveva collaborato l’ungherese Ernest Vajda, scivoleràindenne tra le più strette maglie censorie, sotto la mal-levadoria del divertimento più scintillante (e in appa-renza innocuo), senza risultare per questo meno cor-rosiva sul piano dell’ironia e della satira. In realtà, nelgag lubitschiano si concentra e si condensa fulminea-mente, nel giro di due, tre inquadrature, un’intera si-tuazione «piccante», senza che magari venga mai mo-strato nulla che possa dirsi, in sé, davvero tale.

Facciamo un solo esempio, tratto proprio dalla Vedo-va allegra. Nel regno di Marshovia (invisibile sulla cartad’Europa, senza l’aiuto di una lente d’ingrandimento,ma che occupa all’incirca la posizione dell’Ungheria), ilre e la regina, preoccupati che il denaro della ricca vedo-va Sonia (trasferitasi a Parigi) finisca «in mani stranie-re», discutono nella loro camera da letto su quale sia ilpersonaggio più adatto da spedire nella capitale france-se per sedurre (e sposare) la vedova. Vengono passati inrassegna parecchi candidati, sui quali la regina esprime

dubbi e riserve. Poi, il re esce dallacamera, per recarsi al Consigliodella Corona.

La mdp inquadra la porta dellacamera (chiusa) dall’anticamera.

Nell’ordine:1) la porta si apre, il re esce, ri-

chiudendosela alle spalle, e scom-pare fuori campo;

2) riconosciamo il conte Danilo(Maurice Chevalier) di guardia nel-l’anticamera. Quando il re se ne è

andato, entra dalla regina, chiuden-dosi anche lui la porta alle spalle;

3) vediamo tornare il re, che hadimenticato la sciabola, e rientrain camera per prenderla;

4) lo vediamo riuscire con lasciabola, ma non riesce ad allac-ciarla al fianco. Si rende conto chenon è la sua sciabola, e rientra in-sospettito.

Nel giro di quattro micro-azio-

ni, svolte attraverso una sola inquadratura fissa (la porta chesi apre e si chiude), Lubitsch ci fa dunque capire che il re èbecco, e il fascino di Danilo non ha risparmiato neppure laregina. Ma cosa abbiamo visto, in fondo? Una porta, alterna-tivamente aperta e chiusa, una sciabola che non si allaccia(il re è molto più corpulento del capitano).

Il dramma potrebbe forse scoppiare in seguito? Neppure,perché «le mura del palazzo hanno orecchie», bisogna evita-re lo scandalo e fingere di chiacchierare del più e del meno –finché non si impone l’idea, in tutta la sua semplice eviden-za: Danilo sarà mandato a Parigi, unico seduttore all’altezzadel delicato compito (la regina può testimoniarlo).

Una volta a Parigi, si presenta l’unico, vero intoppo, sulquale in fondo si basa tutta la vicenda della Vedova allegra(a partire da Lehar). Ogni piano rischia di saltare, perché

Danilo si innamora veramentedella Vedova (Jeannette MacDo-nald), e la sua sincerità, per unavolta, ha la sfortuna di coinciderecon l’interesse finanziario di Mar-shovia. Come distinguere alloracircuito erotico e circolazione mo-

netaria, tanto più che le due cose(specie in Lubitsch) sono troppospesso tutt’altro che chiaramentediscernibili?

Occorrerà un sovrappiù di mes-sa in scena. Non nei salottini priva-ti di Maxim, Sonia cadrà tra le brac-cia di Danilo, ma in una prigioneappositamente attrezzata, dove luiè stato rinchiuso, e lei va a visitar-lo, mentre viene introdotto profu-mo nella cella, si ode un suono diviolini zigani, compaiono in unanicchia del muro due bicchieri,una bottiglia di champagne, e per-fino due vere nuziali.

Non c’è nulla da fare, in Lubit-sch anche una prigione somiglie-rebbe a Chez Maxim, se non fosseper il prete, venuto non a conforta-re un condannato ma a celebrareun matrimonio.

Due o tre coseche so del comunismo

ABIEZIONENella notte dei tempi la terraemersa dalle acque era una cosasola (che i geologi di poi chiama-rono Pangea), amministrata indue parti distinte dall’Impero delBene e dall’Impero del Male. Aseguito di una secolare lotta paci-fica (che gli storici odierni chia-mano infatti Guerra Fredda) pre-valse infine l’Impero del Bene. Ivincitori non devastarono militar-mente i territori sottomessi, pre-ferendo favorire la deriva moraledei vinti. I capi delle regioni edegli stati, dei governi e delleopposizioni, dei partiti e dei sin-dacati dell’Impero del Male siridussero allegramente alla am-ministrazione del potere secon-do le regole dei vincitori. E fiumidi sudditi vinti, avviliti dalla viltàdei capi, si ridussero tristementein schiavitù dei vincitori, gli uomi-ni coltivando i loro campi, co-struendo le loro città, lavando leloro macchine, le donne anchepulendo le loro case, assistendoi loro vecchi, prostituendosi nel-le loro strade. Finché, perduran-do insostenibilmente l’abiezionedell’intera progenie umana, ilcuore della terra si spezzò edebbe inizio la deriva materialedei continenti, che dura tuttora.

APPARENZAEra un uomo cauto, insicuro, cru-dele, nottambulo, alto un metroe sessanta, Stalin. La misura geo-metrica getta una luce sinistrasui fotografi e sui cineasti, cheritraendolo inginocchiati lo face-vano apparire come un padreappare ai bambini.

MAO TSE-TUNGMao Tse-tung in gioventù guidòle operazioni di guerriglia al mo-do degli eroi di Sul bordo dell’ac-qua, il classico romanzo del ban-ditismo sociale cinese. In vecchia-ia istigò la guerrigliera e bandite-sca Grande Rivoluzione Cultura-le Proletaria.

LOUIS ALTHUSSERL’ultima volta che venne in Italia,Louis Althusser, fu per partecipa-re a un seminario sulla Comunedi Parigi che avevo organizzatonella città di Terni. In pubblicoaffermò: «Il comunismo è già quie adesso. Quei ragazzi che gioca-no al sole (e puntò l'indice oltrela finestra) e noi che discutiamoall’ombra (e ci raccolse in un cer-chio), allegramente in assenza dirapporti mercantili, non siamogià isole di comunismo?» In pri-vato sussurrò: «Machiavelli eracosì (e sollevò la mano piegata atettuccio finché poteva), Marxcosì… (e l’abbassò sotto il tavo-lo, invertendone l’angolo conl’avambraccio)». Un pugno digiorni dopo soffocò distrattamen-te la moglie comunista. Morì pri-ma d’invecchiare Louis, finito discrivere L’avenir dure longtem-ps, quel libro che inizia con laparola «Probabilmente» e finiscecon la parola «vivere».

www.pasqualemisuraca.com

Un saggio di Antonella Ottai

sul «tocco ungherese» che rese

meno provinciale il «cinema

del ventennio», più piccanti

le commedie sofisticate

di Hollywood, e più estremi

Lubitsch e Wilder

ALIAS N. 19 - 14 MAGGIO 2011 (7

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di Silvia Bencivelli

Italiani, popolo di fighetti.Che se non hanno il golfino griffa-to si sentono un po’ giù. E se sisentono un po’ giù vanno in far-macia a prendersi una pilloletta.Ma vogliono griffata anche quella.Così spendiamo un sacco di soldiin farmaci col brand mentre i co-siddetti generici restano a langui-re sul bancone del farmacista. Delresto, hanno un packaging grigia-stro e un nome ancor più grigio,perciò solo pochi individui bislac-chi li preferiscono a quelli di mar-ca, giusto qualche intellettuale disinistra e un paio di fanatici delno-logo. Il risultato è che, per unacomplicata legge di mercato, puressendo meno richiesti stanno co-minciando a costare di più. E senon costano di più a noi personal-mente, pesano di più sui conti del-lo Stato. Cioè, di nuovo sui nostri.Fighetti e autolesionisti, gli italia-ni.

Proviamo a capirci qualcosa. Ifarmaci generici sono farmaci chehanno lo stesso principio attivo

dei farmaci griffati (cioè la stessamolecola terapeutica, che poi è ilmotivo per cui li prendiamo), evengono immessi in commercioquando il brevetto dell’aziendafarmaceutica sul principio attivo èscaduto. Quindi possono essereprodotti anche da altre aziende aun prezzo più basso, oppure dallastessa ditta ma con meno vezzi. In-vece di chiamarsi Mocciolin o Dor-miben o Viaidolor, si chiamanocon il nome scientifico (ibuprofe-ne, lansoprazolo, amoxicillina…)che è sempre meno accattivante.E al contrario dei farmaci prêt à in-goier, sono confezionati in scatolecon su scritta la lista degli ingre-dienti, il prezzo, la scadenza enient’altro. L’altro, però, il fratellogriffato, rimane sul commercio an-che a brevetto scaduto, per cuiper il cliente si pone l’alternativatra quello bello col solito nomerassicurante e uno che diconouguale, ma è vestito da brutto ana-troccolo e ha un nome difficile daleggere. Trattandosi di popolo difighetti, l’italiano sceglie il primoe se è necessario paga la differen-za: le Regioni infatti ci mettonoun rimborso fino a coprire del tut-to il costo del generico, quello che

manca per arrivare al prezzo delgriffato ce lo mette il consumato-re. Che in genere sgancia i soldi enon ci pensa più.

Ma se proprio ci pensa può far-si venire qualche strano dubbiosugli altri componenti del farma-co e mettere in giro strane voci.Esattamente come per i vestiti dimarca, per cui c’è sempre unoche dice che ah, però, si sente cheè lana di buona qualità, anche peri farmaci senza brand c’è chi avan-za sospetti sulla chimica dell’inte-ra pasticca. Peccato che siano tut-te baggianate, secondo Silvio Ga-rattini, fondatore e direttore del-l'Istituto di ricerche farmacologi-che Mario Negri: «Non ci sono dif-ferenze significative tra farmacicon e senza brand che possanomodificare le risposte terapeuti-che. Il principio attivo è identico egli eccipienti sono spesso gli stes-si. La dissoluzione delle compres-se deve essere analoga e i livellinel sangue devono essere sovrap-ponibili. Se tutto ciò viene control-lato è difficile che siano prodottidiversi. D'altra parte vengono uti-lizzati in tutto il mondo. Solo inItalia si fanno storie». Infatti danoi la quota di farmaci generici è

intorno al 12 per cento del totale,nel resto d’Europa è in media del50 per cento. Va anche detto chequi i farmaci di cui esiste il generi-co sono una percentuale abba-stanza bassa del totale, ma forsela ragione è quella descritta nellariga precedente.

Peccato, eh. Perché i farmacisenza griffe costano meno. Intro-dotti dieci anni fa, hanno permes-so allo stato di risparmiare un sac-co di soldi: si tratta di circa 625 mi-lioni di euro solo nel 2010, micabruscolini. Se venissero usati dipiù, diciamo se venissero usati nelmodo migliore possibile, ci sareb-bero altri 800 milioni di euro di ri-sparmio.

È per questo che i dottori sareb-bero chiamati a incoraggiarne ilconsumo. Solo che a volte sono lo-ro stessi, i medici, i primi ad averepregiudizi e timori infondati e aspingere per il consumo dei farma-ci di marca. E poi, se anche sonotranquilli sulla composizione chi-mica del farmaco, ne fanno unaragione di praticità: è difficile la-sciare la solita, cara vecchia scato-la griffata per una scatola tuttabianca, dicono. È difficile, soprat-tutto per gli anziani e per i malati

cronici che prendono diversi me-dicinali al giorno, adattarsi a medi-cine più anonime, che si confon-do tra loro. Si rischia che la tera-pia sia seguita peggio, con più dif-ficoltà. Meglio il farmaco colbrand, sostengono, perché è sem-pre lui, è rassicurante ed è già benimpresso nella memoria dei pa-zienti. Ed ecco che il volume divendite del generico si abbassa, onon si alza, e i costi per l’aziendache lo produce non possono esse-re compressi oltre un certo limite.

Poi arriva l’Aifa, l’agenzia delfarmaco, che con una mossa a sor-presa a metà aprile decide di ridur-re il rimborso da parte dello Statodi una quota compresa tra il 10 eil 40 per cento, con l’intenzione dirisparmiare circa 600 milioni dieuro all’anno. Ma se lo stato pagauna quota minore del prezzo delfarmaco, chi è che paga il resto? Ilconsumatore, no? L’idea era chele aziende farmaceutiche avrebbe-ro abbassato il prezzo del generi-co, per mantenere costante il prez-zo al consumatore e per avvicina-re i prezzi a quelli degli altri Paesieuropei. «Per promuovere i generi-ci ci vuole concorrenza ed è logicoche il Servizio sanitario nazionalerimborsi solo i farmaci che costa-no meno», spiega Garattini. Ma,oh, guarda caso non è ancora suc-cesso.

Così intanto i consumatori han-no speso di più e ci sono Regioniche ci hanno messo soldi di tascaloro (come la solita Toscana) e as-sociazioni che hanno protestatoscrivendo persino al presidenteNapolitano. Intanto alcune azien-de farmaceutiche hanno effettiva-mente abbassato i prezzi su alcu-ni prodotti: ma siccome i tempi el’entità di questo riallineamentonon sono stati fissati, ogni azien-da si sta comportando come cre-de e come le conviene. Assogeneri-ci (l’Associazione dei produttoridi medicinali equivalenti) haobiettato che il taglio richiesto(600 milioni di euro, appunto) è aldi là delle possibilità di mercato eche, nonostante questo, molteaziende si stanno adeguando. Ilproblema è che, poiché il generi-co non si vende, non sempre èpossibile proporre un prezzo infe-riore. Tanto varrebbe toglierlo dalmercato, dicono.

Nel frattempo, al consumatore può capitaredi andare in farmacia e di trovare novità sulprezzo dei farmaci no-logo. Fino ad arrivare alparadosso per cui questo prezzo è superiore aquello che sosterrebbe per il farmaco griffato,che, se è ancora coperto dal brevetto, vienerimborsato dallo Stato. Allora ecco che il consu-matore e il suo medico, furbi, si sposterannosul farmaco col brand, il volume di vendita deigenerici si abbasserà ancora, cosìcome la sua reputazione, e alla fi-ne tutti avremo speso di più. Ilconsumatore non se ne accorgeràsubito, ma il suo sistema sanitariosì. E gli unici a guadagnarci saran-no i produttori che continueran-no a vendere farmaci griffati fin-ché il brevetto è valido. Poi ne in-venteranno un altro, lo ribrevette-ranno e così via.

Allora, come ci dobbiamo com-portare con quei fighetti dei nostriconnazionali? Grandi consumato-ri di farmaci ma anche di griffe,potremmo cominciare a notareche l’operazione di marketing delgenerico è stata davvero pessima.Il brand no-brand, il logo no-logo,in italiano, non avrebbe dovuto es-sere la parola generico. Per noiuna cosa generica è una cosa ap-prossimativa, vaga, indetermina-ta: vatti a fidare di qualcosa di ge-nerico, soprattutto se stiamo par-lando di salute. Che poi il nome,come il colore e la confezione,contribuiscono anche a quell’effet-to placebo fondamentale in ogniatto terapeutico. «Purtroppo si èutilizzata la traduzione italianadel termine inglese – spiega Garat-tini – che in italiano, effettivamen-te, non suona bene. Si è poi tenta-to di introdurre il termine farmaciequivalenti, ma forse è un po' tar-di». E comunque, bello slancio dicreatività anche quello. Con queifighetti degli italiani chissà se fun-zionerà.

www.effecinque.org

■ SALUTE PUBBLICA: TRA CONSUMO E MARKETING ■

No logo no farmacie addio generico

Come mai gli italiani preferiscono le più costose medicine di marca

a quelle equivalenti? Tra strategie di comunicazione fallite, pregiudizi

dei consumatori e connivenze dei medici, il perché di una rivoluzione mancata

8) ALIAS N. 19 - 14 MAGGIO 2011

Page 9: Alias supplemento del Manifesto 14/05/2011

di Bruno Di Marino

SADNESS IS A BLESSINGSvezia, 2011, 6’40”, musica: Lykke Li, regia: Tarik

Saleh, fonte: Youtube.com

7Un ristorante di lusso con icommensali come impietritiai loro tavoli. La cantautrice di

Ystad sta cenando con un uomo di unacerta età (Stellan Skarsgår), anche luidallo sguardo congelato. È solo un prolo-go muto. Non appena il brano ha inizio,la seducente Lykke Li comincia a danzareper il locale mentre i clienti continuano acenare ignorandola. La donna esprime,silenziosamente e con le sue movenzesensuali, una «follia» sociale o sentimen-tale: è la protesta contro un mondo impri-gionato dalle convenzioni e dai formali-smi o semplicemente un mal d’amoreverso l’uomo che gli siede di fronte. Pri-ma che la musica termini, lui la stringe asé facendola ritornare gradualmente allaragione, ma il senso di inquietudine crea-to da Tarik Saleh è ancora molto forte.Un lavoro di cristallina raffinatezza, inte-ressante anche per come mescola labase musicale con il suono ambientaleevitando la banalità del playback: il risul-tato è più vicino ad un video di arte con-temporanea che a un clip. Ottima la foto-grafia di Carl Nilsson.

SUBURBSCanada, 2010, 5’, musica: Arcade Fire, regia: Spike

Jonze, fonte: Youtube.com

7Girato ad Austin, in Texas, ilvideoclip segue le vite di ungruppo di teenager della peri-

feria: i loro passatempi con la bicicletta oanche più pericolosi come sparare confucili ad aria compressa, fino alle tragicheconseguenze di una violenza notturna.Jonze ci restituisce una visione di questopezzo di States quasi bellica, con un con-trollo da parte della polizia al limite dellamilitarizzazione. Il video è composto daestratti di Scenes from the Suburbs, uncorto di 30’ presentato alla Berlinale2011. L’unico rimando agli Arcade Fire ènel cameo del duo di musicisti del Que-beq, Win Butler e Régine Chassange, neipanni dei poliziotti.

TWIN FLAMESUk, 2010, 3’20”, musica: Klaxons, regia: Saam

Farahmand, fonte: Vimeo

8Un altro gioiellino firmato daFarahmand per il gruppo ingle-se: stavolta il regista si inventa

una sorta di orgia con i corpi di ragazzi eragazze che si fondono tra loro dandovita a creature di mostruosa e sublimebellezza dove non c’è distinzione tra ma-schile e femminile. I giovani si baciano, si«penetrano» in senso letterale, inscenan-do una composizione coreografica perva-sa da un erotismo congelato e post-hu-man. Tra loro vi sono anche gli stessimembri dei Klaxons. Troppo esplicito peressere trasmesso dai canali tv questo clipdi Twin Flames – il singolo è incluso nel-l’album Echoes – era destinato fin dasubito a diventare un «cult», visibile soloin rete.

TAKE A BOWUsa, 1994, 4’30”, musica: Madonna, regia: Michael

Haussman, fonte: Mtv Classic

1Nel campionario di Madonnanon poteva mancare il calien-te immaginario della corrida

spagnola, con la sua simbologia di eros etanatos. In un elegante color seppia lapopstar appare cantando, mentre Haus-sman illustra le varie fasi della sfida: dallavestizione del torero all’inizio dell’incon-tro. La cantante, rossetto calcato sullelabbra e veletta sul viso, assiste ammirataallo spettacolo. Stacco: ora la donna e iltorero si amano tra le lenzuola. Ma que-ste immagini appartengono al passato; ilpresente è il lyp sinch del refrain, inter-pretato da Madonna mentre si dimena inlingerie sul letto, strusciandosi davantiallo schermo televisivo che trasmette leimmagini della corrida. L’uomo le haspezzato il cuore e, forse, l’ha piantata inasso. Altri ci vedono un’allusione allostupro. Cinismo e machismo del matador(interpretato dal vero torero EmilioMuñoz) che affronta la donna alla stessamaniera del toro. Forse un po’ scontatonello svolgimento narrativo, ma allegori-co e glamour quanto basta.

L’INTERVISTA

Basta uno spote la pillola va giùdi S.B.

Esattamente come per golfini e profu-mi, anche le medicine hanno la loro pubblicità. Efunziona. Da quello in aereo col mal di testa aquella che al mattino dopo va meglio. Poi ci sonoprodotti non farmaceutici che vengono venduticon indicazioni e posologia per malattie immagi-narie: la pasta di riso per i non celiaci, lo yogurtche fa bene al cuore e all’intestino, l’acqua che(accidenti che sorpresa) fa fare pipì. Ma per i far-maci non da banco, quelli per cui serve la ricetta,la pubblicità diretta al consumatore non è con-sentita. Per ora. Perché, come spiega Maria Font,vicedirettore di Dialogosui Farmaci.it, le cose po-trebbero presto cambiare: «la Commissione Euro-pea sta proponendo una direttiva che permetteràla pubblicità dei farmaci camuffata da informa-zione al cittadino. Ma se a farla sarà l’industria far-maceutica, faccio fatica a pensare che si tratteràdavvero di un’informazione imparziale».

Come chiedere all’oste se il vino è buono.Ma che cosa prevede la direttiva?

La proposta, che è già stata approvata dal Parla-mento europeo, è stata modificata nel tempo eadesso dice che sarà possibile solo sui siti inter-net delle aziende farmaceutiche, su mezzi stam-pati non meglio precisati (ma che esclude giorna-li e riviste) e solo se si limita alle informazioni con-tenute sulla scheda tecnica del prodotto. Ma chicontrollerà? Internet è il regno del senza control-lo. Verosimilmente, più che un controllo a priorisarà un controllo a posteriori con un meccani-smo di sanzioni che però non sempre funziona: avolte conviene pagare la multa piuttosto che riti-rare una pubblicità o un prodotto dal mercato.

Ma perché la pubblicità dei farmaci ci pre-occupa? In alcuni Stati è concessa...

Il problema è che con la pubblicità, il consumodei farmaci in generale aumenta. Lo si è visto be-ne in Nuova Zelanda (mentre negli Stati Uniti,l’unico altro Paese dove è ammessa, il provvedi-mento è più vecchio). E non solo aumenta in ge-nerale: si è visto che il pubblico fa pressing suimedici per avere proprio quel farmaco lì. Nel ca-so di condizioni come l’ipertensione, questo spin-ge a saltare le prime misure che si dovrebberoprendere, quelle comportamentali, e anticipal’inizio della terapia farmacologica. E non si rie-sce a dimostrare che la pubblicità aumenti la con-sapevolezza sulla salute e che spinga le persone afarsi visitare. Tra l’altro anche per i medici esistela pubblicità, e anche su loro funziona. Solo che imedici hanno la presunzione di potersi difende-re.

Beh, la pubblicità diretta ai medici, però, èaccompagnata davvero a un’informazionescientifica, che loro sanno leggere.

Non è del tutto vero. Lo si è visto con il Vioxx, unantinfiammatorio che ebbe un lancio imponenteda parte dell’industria e poi fu ritirato dal merca-to perché aumentava il rischio cardiovascolare.Lavori indipendenti avevano già dimostrato que-sto rischio, a fronte di pochi vantaggi significativi,eppure i medici lo hanno prescritto a tonnellateed è stato un grande successo commerciale. Lostesso per la terapia ormonale sostitutiva per ledonne in menopausa. Malgrado le evidenze nonsupportino i presunti vantaggi (anzi: malgrado sidimostri che ci sono rischi importanti) ci sono an-cora medici che la prescrivono. Qualcuno forselo fa in buona fede, visto che escono articoli chepromuovono la terapie e che, è stato dimostratodi recente, sono spesso scritti da medici con con-flitto di interesse.

E poi a volte sono i giornalisti a fare, più omeno in buona fede, pubblicità...

Sono forme di marketing anche quegli articoli digiornale in cui si parla del nuovo farmaco o diuna certa malattia. E anche se non citano il nomecommerciale del farmaco contribuiscono al ricor-so compulsivo ai farmaci, alla medicalizzazionedei disagi.

Ma anche per i farmaci esistono le mode?Certo. Per i farmaci e per tutto quello che vienevenduto come terapia: le cosiddette alternative,ma anche gli alimenti con presunte proprietà te-rapeutiche come lo yogurt contro il colesterolo. Eper tutto c’è una pubblicità.

ALIAS N. 19 - 14 MAGGIO 2011 (9

Page 10: Alias supplemento del Manifesto 14/05/2011

10) ALIAS N. 19 - 14 MAGGIO 2011

SEGUE DA PAG 4

IL MERCANTE DI STOFFEDI ANTONIO BAIOCCO; CON SEBASTIANO

SOMMA, EMANUELA GARUCCIO. ITALIA 2011

0Due italiani, Marco e Luisa,arrivando nel sud del Maroc-co e scoprono, in un vec-

chio villaggio abbandonato, un meda-glione che apparteneva ad una giova-ne araba negli anni Trenta. Il preziosomonile riporta all’oggi la storia di Ales-sandro, un mercante italiano di stoffeche si spinge sino in Marocco per lavo-ro e, durante uno dei suoi viaggi nelsud del Paese, incontra Najiba e se neinnamora. Il prezzo da pagare è altosoprattutto per la donna.

UN PERFETTOGENTILUOMODI ROBERT PULCINI - SHARI SPRINGER BERMAN,

CON KEVIN KLINE, KATIE HOLMES. USA

FRANCIA 2010

0Un uomo che frequentaspesso le vedove benestantinell'Upper East Side di New

York, prende un drammaturgo esor-diente sotto la sua ala. Il film è trattodal romanzo The Extra Man di Jona-than Ames.

RESTLESSDI GUS VAN SANT; CON MIA WASIKOWSKA,

HENRY HOPPER. USA 2011

0È la storia di una adole-scente malata terminaleche si innamora di un ra-

gazzo che ha perso i genitori in unincidente stradale. Il terzo interpre-te è il fantasma di un giovane pilotagiapponese kamikaze della secondaguerra mondiale (Ryo Kase).

COME L’ACQUA PER GLIELEFANTIDI FRANCIS LAWRENCE, CON REESE

WHITERSPOON, ROBERT PATTINSON, USA 2010

4Nel clima della crisi del ’29si muove Jacob che dovreb-be laurearsi in veterinaria,

invece i genitori schiattano in un inci-dente, la banca gli ruba la casa ipote-cata e lui si ritrova homeless. Non gliresta che saltare su un treno per anda-re lontano in cerca di una nuova vita.E salta su quello del circo Benzini.Viene reclutato come veterinario tutto-fare. Diciamolo subito: il film non stain piedi, anche se ci sono momentiesilaranti. I soliti esperti ci dicono cheil bestseller da cui è tratto, Acqua perelefanti di Sara Gruen, nonostantegrondi melassa sia meglio del film. Civuole poco. (a.ca.)

MACHETEDI ETHAN MANIQUIS, ROBERT RODRIGUEZ; CON

DENNY TREJO, ROBERT DE NIRO. USA 2010

8Pastiche b movie di RobertoRodriguez, un perfetto inter-vento sullo stato delle cose

in America oggi visto da occhi ispanici:le leggi razziste dell'Arizona obbliganoa riesumare dagli archivi il clima rivolu-zionario dei film explotation anni 70.Esageratamente comico e violento,melodrammatico e aggressivo, di cli-max incalzante nel cercare di farcicomprendere il genocidio continuo diCittà Juarez è un film d'azione e diguerra. Da una parte un cartello dipoteri forti, trafficanti di droga, vigilan-tes assassini, poliziotti conniventi, me-dia asserviti e governatori ricattabili,dall’altra una Rete popolare di lavora-tori ispanici che hanno alzato la testae che riescono a rispondere con lalotta hacker di massa guidate da unleader travestito da Mito, Machete, expoliziotto incorruttibile che diventeràil re dei bassifondi di Austin. (r.s.)

IL PRIMO INCARICODI GIORGIA CECERE; CON ISABELLA RAGONESE,

FRANCESCO CHIARELLO. ITALIA 2010

7Bell’esordio di Giorgia Cece-re già sceneggiatrice perAmelio e Winspeare (San-

gue vivo e Il miracolo). Una maestradel sud negli anni cinquanta lascia il

paese assegnata a un paesino ancorapiù sperduto. Quando il fidanzato lalascia per una ricca ragazza del suostesso ambiente, lei si lascia andare aun rapporto con un giovane muratoree per non perdere il posto per lo scan-dalo, decide di sposarlo. Film di matu-razione e crescita di speciale spessore,dove Isabella Ragonese interpreta unintenso ritratto femminile. (s.s.)

I MALAVOGLIADI PASQUALE SCIMECA; CON NACER BEN

HAMMOUDA, VINCENZO ALBANESE. ITALIA

2010

8È la realtà che cercaScimeca nella messinscenaastratta del suo realismo,

qui fotografata accordandosi al senti-mento di esasperazione dei personag-gi. Gli attori sono quasi tutti alla loroprima esperienza cinematografica,Alfio il ragazzo tunisino, che si chiamaNacer Ben Hammouda, è arrivato inSicilia davvero su un barcone e per seianni non ha avuto permesso di sog-giorno. Padron 'Ntoni è pescatore ecome lui altri protagonisti, solo 'Ntoni,Antonio Ciurca, ha già lavorato conScimeca e così Vincenzo Albanese.Eccoci dunque tra la Provvidenza, labarca di questi Malavoglia, che galleg-gia sospesa come in un film di Vigo, epoi la camorra, l'amore, le tracce disse-minate di un'iconografia del sud. Nellaquale la memoria, che è il riferimentocentrale nel cinema del regista sicilia-no, ci appare come uno strumento diconsapevolezza, e l'arma migliore pernon farsi sorprendere dal presente. Èinfatti con la contaminazioni, di cono-scenze e di saperi che la famiglia vin-cerà la sua lotta. Un rap trionfante cheinietta la conoscenza antica dei nonnialle sonorità sintetiche di 'Ntoni. Laricchezza dell'incontro. (c.pi.)

NOTIZIE DEGLI SCAVIDI EMIDIO GRECO; CON GIUSEPPE BATTISTON,

AMBRA ANGIOLINI. ITALIA 2011

7Lo spaesamento che si av-verte nel film è giustificatodalla distanza con cui è sta-

to realizzato, da un racconto di FrancoLucentini letto nel 1964. Ci fa muove-re in una città del tutto onirica, ci ren-de partecipi dello spaesamento delprotagonista (memorabile GiuseppeBattiston) chiuso in un suo mondo dicertezze, catatonico tuttofare in unacasa di appuntamenti tenuta in pugnoda una madama caratteriale (Iaia For-te), abitata con languore Ambra Angio-lini uscita qui definitivamente dall'ado-lescenza. Fino a convergere nelle rovi-ne della Villa Adriana che abbaglia ecertamente ci stanno comunicandoqualcosa, se solo fossimo capaci dirisvegli. (s.c.)

TATANKADI GIUSEPPE GAGLIARDI; CON CLEMENTE

RUSSO, RADE SERBEDJA. ITALIA 2011

6Tratto da «La Bellezza e l'In-ferno» di Roberto Savianoracconta la storia di un ra-

gazzo che scopre il pugilato ed evitacosì di finire su una brutta strada. Inter-preta la storia di Michele il pugile Cle-mente Russo medaglia d’argento alleOlimpiadi di Pechino. Una prima parted’azione sangue e cuore, una secondain cui si toccano aspetti e locationdiverse, tali che fanno sbandare unpo’ la tenuta ferma del racconto, por-tandolo su terreni anche un po’ pleo-nastici (ad esempio con l’inserimentodi figure femminili che sembrano ag-giunte come una spruzzata di prezze-molo). Eccellenti tutti gli interpreti,una sorpresa il nostro campione. (s.s.)

IL FESTIVAL

èSTORIAGORIZIA, GIARDINI PUBBLICI DI CORSO VERDI, 20 - 22

MAGGIO

Si apre venerdì 20 maggio la settima edizio-ne di «èStoria» a cura di Adriano e FedericoOssola, dedicata alla guerra come ispirazio-ne per il cinema, con l’incontro dell’espertodi arti marziali Stephen Turnbull consulentespeciale del film 47 Ronin che avrà comeprotagonista Keanu Reeves. Il festival avrà130 ospiti internazionali, 60 eventi, percor-si guidati, bibliotenda. Quest’anno parteci-pano studiosi di strategia e tecnica militare,i «narratori» della guerra e i costruttori dipace come Dario Fo protagonista di una«conversazione sulla pace» con Chiara Fru-goni e Massimo Cirri. Tra gli eventi un focus sulla Russia con l’intervista al pronipo-te di Tolstoj direttore della casa museo di Jasnaja Poljana, lezione magistrale diGian Enrico Rusconi «fra Cavour e Bismarck», l’intervista a Daniel Goldhagen, pre-mio «Il romanzo della storia 2011». Accanto ai percorsi dedicati alla guerra, il festi-val dedicherà un importante spazio ai 150 Anni dell’unità d’Italia. (s.s.)

LECCE CITTÀ PUBBLICACONCORSO DI IDEE, SCADENZA 7 LUGLIO

Promosso dall’«Associazione di cittadinanzaattiva» (www.lecce2.0dodici.it) fondata daCarlo Salvemini, il concorso vuole attivare unariflessione per proporre ripensamenti su luo-ghi critici sullo spazio pubblico urbano. Il grup-po di progettazione deve creare un rapportoforte e diretto con lo spazio e il tema da pro-gettare, con un numero minimo di associazio-ni locali, entità commerciali e cittadini cheaderiscono al progetto. Il concorso è apertoalle professioni, ma anche a chiunque vogliaesprimere le proprie idee, privilegiati i gruppimultidisciplinari capaci di favorire lo scambioculturale. La presentazione (massimo 5 cartel-le, più manifesto, video o plastico) avverrà in forma pubblica (10 minuti di tempo) consuccessivo incontro collettivo. La giuria: Angela Barbanente assessore regionale al terri-torio, Giandomenico Amendola ordinario di sociologia urbana, Antonio De Luca sculto-re, Carlo Infante docente di performingMedia, Stefania Mandurino imprenditrice, MariaValeria Mininni architetto, Franco Ungaro direttore Koreja. (s.s.)

FLORACULTROMA, I CASALI DEL PINO, VIA ANDREASSI 30, LA STORTA.

13 - 15 MAGGIO, DALLE 10 AL TRAMONTO

Seconda edizione di «Floracult» creazione diIlaria Venturini Fendi e Antonella Fornai pres-so i Casali del Pino alla Storta nel Parco diVeio. Si potranno ammirare (e comprare) iprodotti scelti da più di cento vivaisti e avvici-narsi a temi come il riuso di materiali, l’artigia-nato, le arti visive, l’editoria specializzata, eco-logia e architettura ambientale, visite guitateal Parco. Le novità di quest’anno: le collezionidi rose antiche, trenta varietà di gelsomini,una collezione di clematidi, le plumerie prove-nienti dall’Australia, Thailandia e Centro Ameri-ca, i gelsi, i meli e i mandorli antichi dallaSicilia, 400 varietà di salvia da fiore. Tra i tanti incontri oggi alle ore 15 Paola Maugeriterrà un laboratorio di compostaggio per produrre da soli correttamente una compostie-ra da balcone, Renato Pavia terrà lezioni di giardinaggio, sculture di Van de Put, Stanzadei colori di Patrizia Savarese, Stanza delle farfalle. Navetta Atac gratuita dalla Storta.Biglietto 8 euro, gratuito per bambini fino a 6 anni, 5 euro da 6 a 12 anni. (s.s.)

filippo brunamontia.catacchio

mariuccia ciottagiulia d’a. vallan

marco giusticristina piccinoroberto silvestrisilvana silvestri

UOMINI SENZA LEGGEDI RACHID BOUCHAREB; CON SAMI BOUAJILA, JAMEL

DEBBOUZE, ROSCHDY ZEM. FRANCIA 2010

Quarant'anni anni di storia algerina, kolossaldal fraseggio e stile narrativo «mediterraneo-spettacolare». Attraverso le drammatiche av-venture di tre fratelli patrioti - due partigiani eun malandrino manager di boxe - racconta lacacciata degli algerini dalle proprie terre, glieccidi, la nascita del Mna, Movimento naziona-le algerino, del Fln, dell'Aln, il suo braccioarmato; il movimento di massa indipendenti-sta, che parallelamente agiva in patria e inFrancia negli anni 50; il «Toussaint rouge» e«La mano rossa», cioè il doppio gioco terrori-stico che insanguinò madrepatria e colonia,fino alla vittoria, nel 1962, della bandiera bianca e verde, con la stella e la mezza lunarosse nel centro. Fu quel drappo, clandestino fino al 1962, a scatenare la «battaglia diAlgeri». Un film che supera decenni di rimozioni, omertà e manicheismi storici. Boucha-reb, tra i registi beur, i francesi di origine maghrebina, è sempre stato il più cosmopoli-ta, il meno concentrato sulle sole radici arabe. (r.s.)

SINTONIEIL FILM

IL CONCORSO

LA MOSTRA

Laboratorio di composizione con Fran-co Piersanti. A parte qualche ecce-zione (Guido Chiesa, Matteo Garro-ne, Dario Argento, Paolo Sorrenti-no, Claudio Cuppelino, Louis Nero,Ermanno Olmi, ecc.), i registi, spes-so musicalmente «ignoranti», utiliz-zano solamente una parte dellepotenzialità offerte dalle colonnesonore. Le prendono quindi sotto-gamba, chiamando molto spessol’ultimo compositore alla moda(senza fare nomi), per chiedergli almassimo di sottolineare alcunesituazioni nel loro film. La musicanon è quasi mai considerata unacomponente fondamentale dellanarrazione filmica, come dimostra-no invece grandi film (vedi l’incre-dibile colonna sonora del Mestieredelle armi di Olmi, realizzata daFabio Vacchi o quella più recente,da Teho Teardo per Rasputin diLouis Nero), un elemento impor-tante quanto il movimento di mac-china, il montaggio, la recitazionedell’attore o la struttura della sce-neggiatura.L’Accademia Filarmonica Romana,in collaborazione con il Centro Spe-rimentale di Cinematografia di Ro-ma, organizza un laboratorio dicomposizione dal titolo «La musicaper il cinema» tenuto dal bravo eraffinato Franco Piersanti (Il Caima-no e Habemus Papam di Moretti)dal 13 al 18 giugno 2011 nellaSala Casella, in via Flaminia 118, aRoma. Il corso è completamentegratuito e aperto a tutti i musicisti,senza limiti di età e di nazionalità.Finalità del corso è affinare la tecni-ca che presiede al meccanismo diuna specifica drammaturgia filmi-co-musicale. La classe di «regia»del Centro Sperimentale di Cine-matografia fornirà un cortometrag-gio che sarà oggetto di prova com-positiva da parte dei corsisti. Previaselezione dei lavori da parte delcompositore romano, il 23 settem-bre 2011, sempre nella storica se-de di via Flaminia, si terrà un con-certo pubblico con l’esecuzionedelle partiture prescelte. È una pic-cola opportunità per i musicisti percapire come applicare la musica aun film, lavorando con un vero ma-estro del genere. La novità del la-boratorio sta proprio nel prendereun cortometraggio fornito dallaclasse di regia del Centro Speri-mentale di Cinematografia e didare ai giovani compositori la pos-sibilità di lavorare su un film «vergi-ne». Ma i registi? Nulla di nuovo,danno un cortometraggio montatoda musicare, senza avere pensatodavvero alla musica prima. Speria-mo che questa iniziativa tuttaviainnovativa per un’istituzione comeil Centro Sperimentale di Cinema-tografia sia un primo passo percostringere le diverse scuole esi-stenti in Italia, pubbliche e privateche siano, a considerare la partitu-ra musicale una componente es-senziale del film, e a istituire accan-to ai corsi annuali, biennali o trien-nali per attori, direttori della foto-grafia, sceneggiatori o scenografi,dei corsi annuali, biennali o trien-nali per «compositori di musicaapplicata al cinema» che potrebbe-ro allora imparare a lavorare congli altri creativi (e viceversa le altreprofessionalità, dalla scrittura almontaggio, potrebbero conosceremeglio e avvalersi di più dell’ele-mento musicale e sonoro). È vole-re troppo?

di Gabrielle Lucantonio

ENNIO & CO.SEGUE DA PAGINA 5

da quale «casella» era partito percolpire le sue vittime, individuan-done il domicilio.

Perché il titolo «Numeri as-sassini?». I numeri sono dav-vero così pericolosi?

Se fossi solo un matematico misarei limitato a raccontare i casiin cui i numeri vennero usati perrisolvere i crimini. Da prestigiato-re, mi sono divertito a confonde-re le acque con un capitolo in pu-ro stile hard boiled, dedicato ainumeri che uccidono.Film, romanzi e leggende metro-politane parlano da sempre di nu-meri letali. Il primo numero a uc-cidere fu la radice quadrata didue.All’epoca di Pitagora si conosce-vano solo i numeri razionali.Quando Ippaso scoprì che la radi-ce di due era irrazionale e lo rive-lò pubblicamente, violò una del-le regole della scuola pitagorica:venne esiliato e morì durante unnaufragio. Qualcuno disse che glidèi lo avevano punito per la suascoperta.Più di recente, Georg Cantor finìin un ospedale psichiatrico stu-diando un numero chiamatoalef; trattandosi di una quantitàche fa riferimento all’infinito, c’èchi ritenne la sua follia una puni-zione divina.Per non parlare della leggendametropolitana sul numero telefo-nico che uccide tramite un ultra-suono letale!

Ultimamente si fa un granparlare del 2012 e di unaprofezia maya sulla fine delmondo: un altro numeroche uccide?

È l’ultimo di una serie di numeriche abbaiano... ma non mordo-no! In realtà, studiando la culturadei Maya, e in particolare la loromatematica, si scopre che la sualeggenda ha molti punti in comu-ne con il timore covato per l’an-no 2000.Se dovessimo usare la numerazio-ne maya, la data del 21 dicembre2012 si scriverebbe «13.0.0.0.0».La febbre per la fine del mondonasce dall’abbondanza di zeri!Tutte le altre paure, relative a ca-taclismi, terremoti e catastrofi, so-no la solita minestra riscaldata,buona per tutte le «date tonde».All’argomento ho dedicato il miolibro 2012 È in gioco la fine delmondo (Iacobelli 2010), un sag-gio storico che mescola alla divul-gazione una serie di scherzi cru-deli con cui terrorizzare i propriamici – convincendoli che il mon-do finirà davvero; credo che l’iro-nia sia il migliore antidoto alla pa-ura!

Quali sono i progetti «mate-magici» su cui stai lavoran-do?

Ho da poco completato la decifra-zione e la mappatura di un testodel Seicento che si intitola Il Labe-rinto. Si tratta di un curioso librointerattivo che consente di pre-sentare un sofisticato gioco di let-tura del pensiero. Il trucco si ba-sa su un ingegnoso trucco mate-matico, mai scoperto prima.Si tratta di una specie di Ipad sei-centesco, decorato da xilografieda «cliccare» idealmente per pas-sare da una pagina all’altra. Congli studenti di informatica sarà in-teressante analizzare il «grafo»che lo fa funzionare, e lo stimolopartirà da una classica domandada esoterismo pop: in che modoun uomo poté concepire un libroche funziona come un sito web,400 anni prima della nascita di In-ternet?

Page 11: Alias supplemento del Manifesto 14/05/2011

ALIAS N. 19 - 14 MAGGIO 2011 (11

di Francesco Adinolfi

Ètutto spiegato (o quasi) in Encores ofthe Great Pianists, un libro del 1975 curato daRaymond Lewenthal, il pianista Usa. Racconta ii bis più noti della storia e i più eseguiti in ambi-to classico. La prefazione dell'artista è illuminan-te: «Nella mia analisi e dopo aver ascoltato unagran quantità di concerti ho capito che i bis han-no tutti alcune cose in comune: sono sorpren-denti, affascinanti, divertenti, toccanti. E soprat-tutto non sono mai noiosi». Peccato non sia piùcosì. Il bis, almeno nel pop e nel rock, è ormai tut-to fuorché sorprendente. È il terminal di arrivodi un concerto, il momento di raccolta dei pezzipiù attesi, delle hit, l'ultimo tentativo di ingraziar-si il pubblico sperando che torni a a casa sazio efelice. E il bis, oggi, è sempre già scritto, inciso afuoco in una scaletta. Già stabilito, fissato. È lanota alta con cui chiudere una performance. Aprescindere da tutto e tutti.

Glen Matlock, bassista originario dei Sex Pi-stols (prima dell'arrivo di Sid Vicious), autore del-le musiche di Anarchy in the Uk, God Save theQueen e Pretty Vacant (qui anche del testo, a par-te piccoli ritocchi di Johnny Rotten) è stato di re-cente in tour in Italia con il suo gruppo, i Philisti-nes. Dal vivo la band esegue come da copionel'intero album e poi, nel bis, arriva Pretty Vacant,il pezzo che storicamente più identifica Matlocke quello che tutti, ovunque, gli richiedono. L'uni-co che in quell'ora e passa di concerto, tutti vo-gliono ascoltare. Ci sta in questo caso il colloca-mento del bis in un ambito finale dello show, se-gna quasi un distacco emotivo dai Pistols e unomaggio sentito ai fan del suo ex gruppo; quelloche però salta subito agli occhi è la regola confer-mata: i pezzi più anelati e attesi vanno sempre afinire nel bis. Chi ha avuto la fortuna di arraffarea fine concerto una scaletta lasciata su un palco,se ne deve essere reso conto per forza: i bis sonotutti già previsti, scritti. Rappresentano l’ultimafermata di uno show, quella che non si salta mai,caschi il mondo.

Chi scrive frequenta da anni club, sale da con-certo e stadi. Un tempo il bis bisognava guada-gnarselo. In prima battuta l’artista. Era figlio del-la casualità, legato a sensazioni, a serate speciali.Era il momento supremo di un concerto, la ri-compensa offerta dall'artista a un pubblico cosìemotivamente coinvolto; a un pubblico che chie-deva, pretendeva e a cui l'artista - travolto da co-tanta esuberanza - si concedeva più di una volta;magari anche solo per uscire indenne dalla sera-

ta. E attenzione: qui non si sta negando il dirittoa una sosta, a un'interruzione; al contrario unapausa a metà show serve a rinfrancare l'artista ea restituircelo vispo per l'ora successiva. Ma cheil bis abbia ormai tacitamente rimpiazzato lapausa, questo no, non funziona. È un’altra cosa,non è un bis. E lo riconosci, nella sua nuova in-carnazione, quando sta per arrivare. Lo capisciperché i Rem non hanno ancora eseguito LosingMy Religion o perché Lady Gaga ha lasciato fuoriBad Romance.

Proprio Michael Stipe (Rem) prefigurò neglianni Ottanta l'alba dei nuovi bis; non a caso aiconcerti ripeteva spesso: «Non scorticatevi le ma-ni. Per quanto forte o piano applaudiate noi inogni caso tra cinque minuti torniamo sul palco».Traduzione: comunque sia andato il concerto, ilbis ce l'avrete lo stesso.

Ovviamente ogni ambito di suono ha la sua ri-tualità e aspettativa culturale. Un concerto rocknon assomiglierà mai a un concerto jazz, e unaesibizione di classica non sarà mai come unaperformance di folk. Alcuni generi (classica,jazz) presuppongono, inoltre, un pubblico co-modamente seduto. Se poi nel prosieguo del-l'esecuzione l'artista si guadagnerà/meriteràuna standing ovation, allora quello sarà il mo-mento del bis. Tante le vie prescelte. Tra le piùfrequenti quelle in sintonia o a contrasto conl’ultimo pezzo suonato.

L'ideale, ma ci vorrebbe un miracolo, sarebbeun finale preparato appositamente per la seratain questione. Un bis, cioè, fuori da ogni prevedi-bilità. Ma tant'è. Sempre più i bis assomigliano apersuasori nemmeno troppo occulti che adesca-no il pubblico convincendolo a restare reattivo ea sopportare anche i brani più letargici, perchétanto arriveranno quei 15 minuti finali, quelliche redimeranno lo show. Ogni artista ha inoltreun rapporto unico e irripetibile con il bis: unavolta il pianista classico Rudolf Serkin eseguì allafine dell'esibizione le Variazioni Goldberg di Ba-ch, opera che notoriamente dura ben più diun'ora! Dal canto suo Rubinstein, fischiato du-rante l'esecuzione dei Valses nobles et sentimen-tales di Ravel, ripetè quell’opera anche nel bis!

In ambito jazz, Miles Davis non si curava affat-to del pubblico; se per caso non apprezzava l'au-dience che aveva dinanzi era lesto a darle le spal-le e a continuare in splendida solitudine il suoconcerto. E se è stato sempre molto difficileestorcere un bis ai Velvet Underground, ai KingCrimson e oggi, ad esempio, ai Sigur Ros o ai Ma-nic Street Preachers, è innegabile che i Metallicaabbiano posto grande attenzione ai bis. Spessoavviene che suonino per quasi un'ora e mezza, siallontanino dal palco, chiedano di spegnere le lu-

ci e riaffiorino per altre otto canzoni di seguito. Ese Paganini non ripeteva (la storia della celebrefrase del 1818 «Paganini non ripete» è ovunqueon-line) e lo stesso Elvis quando lasciava l'edifi-cio («Elvis has left the building») lo lasciava sul se-rio, i Ramones il problema del bis non se lo sonomai posti. Il loro set durava agli esordi 15 minutie più in là nella carriera quasi un'ora. Prima cherealizzassimo quello che stavamo guardando eascoltando, la band era già sparita. In piena filo-sofia punk, tutto doveva bruciare in una vampa-ta che toglie il respiro, che include di seguito tut-ti i pezzi «forti», che induce il pubblico a chiede-re/pretendere di più. A inseguire il gruppo altro-ve nel mondo, a riascoltarselo su disco. Lo stessofacevano i Jesus and Mary Chain che dal vivonon si spingevano mai oltre la mezz'ora e cheagli inizi si esibivano con le spalle rivolte al pub-blico, lezione appresa dai Velvet Underground acui si ispiravano. Li vedevi e non capivi dove fini-va il concerto e dove iniziava il bis; era un uni-cum sonico che lasciava a bocca aperta.

Ora l'unico segnale che un concerto sia davve-ro finito sono quelle luci, bianche, accecanti chealla fine trionfano e illuminano a giorno il palco.Sopra, i resti di un evento appena ultimato e i so-liti omini in calzoncini che ripongono gli stru-menti. Prima di quel momento, tutto può essereavvenuto; anche che uno show sia stato lungo epessimo e che proprio quei due/tre bis l'abbianoredento per un istante (includendo in fila tutti ibrani più noti di un gruppo). Ma non basta. Al-meno per chi scrive i concerti che trafiggono ilcuore sono sempre quelli in cui brevità e qualitàtrionfano, altro che quantità offerta per ripagareil costo di un biglietto e bis finale per accontenta-re tutti (Springsteen che ha fatto delle maratonelive un suo tratto distintivo, è ovviamente un’ec-cezione). Facile a dirsi, soprattutto se per profes-sione si è portati ad usufruire di biglietti e passgratuiti. Ma il punto di vista non cambia, anchesenza biglietti omaggio sarebbe lo stesso. Il me-glio di una band va presentato tutto e subito oquantomeno diluito ad arte nel corso delloshow. Perché proprio la brevità e la rapidità -concetti supremi, a lungo indagati soprattuttoda Italo Calvino - danno il senso a una perfor-mance, la legittimano, cancellando quelle zoned’ombra, dilatate e noiosissime, in cui si affastel-lano «pezzi nuovi» e «brani minori». Ma chi livuole? Solo così si può giungere esausti al bis enon in trepidante attesa. Solo così il bis - che nel-la forma odierna non ha più ragion d’essere -smette di essere tanto scontato e torna a sferrareil colpo finale, quello più imprevedibile. Fosseanche una cover, ma di quelle che non ti sarestimai aspettato, per nessun bis al mondo.

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Michael Jackson raffigurato da Andy Warhol

Page 12: Alias supplemento del Manifesto 14/05/2011

■ ANNIVERSARI ■ COMPLEANNO PER L’ETICHETTA CHE HA LANCIATO I TACKHEAD ■

Nelpalazzodell’On-U(Sound)di Luca Gricinella

Il 20 ottobre scorso ad appe-na 48 anni è scomparsa una voceemblematica del punk, Ari Up. Adistanza di pochi mesi ecco la ri-stampa di uno degli album a cuiAriane Daniele Forster - vero no-me - ha prestato la voce, l'esordiodei New Age Steppers, datato1981. Nessuna operazione di«sciacallaggio», quest'anno infattil'etichetta che ha pubblicato quel-l’album, la On-U Sound, compietrent'anni e ha deciso di iniziarele celebrazioni ristampando treclassici del suo catalogo: oltre aldebutto dei New Age Steppers -primo album nella storia dell’eti-

chetta (e la prima voce a farsi vivaè proprio quella di Ari Up) -, quel-lo di una delle prime live banddub, i Creation Rebel, con Star-ship Africa (registrato a fine 1978e pubblicato nel 1980 tramite 4DRhythms - Hitrun poi nel 1982dalla On-U Sound) e il raro Offthe Beaten Track (1986) degli Afri-can Head Charge. Dietro ognunadi queste uscite naturalmente c'èla mano del produttore di famamondiale Adrian Sherwood, cin-

quantatreenne boss e fondatore della storica etichetta londinese, testachina sui piatti da quando aveva tredici anni: «Una volta un giornalistami ha descritto come un ‘fan che ha messo le mani sul tavolo delmixer’. Non lo diceva come un complimento ma è una perfetta descri-zione di me e di quanto faccio».

Le ristampe On-U Sound previste nel corso del 2011 riportano alla ri-balta altre firme notevoli: Dub Syndicate, Bim Sherman, Tackhead, Little

Annie, Singers & Players e soprat-tutto Lee «Scratch» Perry di cuiSherwood non può che parlare co-me un maestro: «Senza dubbio èil più grande produttore che ci sia,un Salvador Dalì, una via di mez-zo tra un direttore d’orchestra eun mago». Perry, classe 1936 e col-laboratore di Sherwood dal 1986,contraccambia le lodi: «C’è comeun’alchimia tra me e Adrian. Cipiace stare assieme e ci capiamobene». Di Perry per questo tren-tennale è prevista l’uscita anchedi un album di remix commissio-nati a produttori contemporanei.

Come accade spesso per similieventi c’è di mezzo anche unbox-set deluxe che farà gola nonsolo ai patiti del dub. Già, perchéi più identificano il marchioOn-U Sound sia con un suono siacon un’attitudine (o back-ground): il suono è appunto quel-lo dub, l’attitudine è quella punk.E se col reggae c’è un naturale rap-porto di sangue, con la new wavee il funk c’è un incrocio continuo,

tratto caratteristico dell’etichettadi Sherwood. Senza contarel’apertura ai suoni etnici. LaOn-U Sound insomma è figlia delversante migliore degli anni Ot-tanta, di quella premonitrice con-taminazione di culture che l’haportata in fretta a essere apprezza-ta non solo dai seguaci dei suonigiamaicani ma anche dagli aman-ti di Clash, Slits (il gruppo di AriUp), David Byrne o Esg, per faredei nomi emblematici. E Sherwo-od, non solo per ragioni anagrafi-che, è un collegamento tra vec-chia e nuova scuola, con la sua ca-sa discografica che fa proprio daponte tra questo vivido passato eil presente più espressivo tra quel-li emersi negli ultimi anni, vistoche a tutti gli effetti è anche partedella genealogia del dubstep: siascolti per esempio il suono di-storto e graffiante di GeoffreyBoycott (brano di Tunes from theMissing Channel, album del 1985firmato Dub Syndicate) o il groo-ve di Mark Stewart & The Maffia.

Ma non solo. Sherwood ha com-missionato tra gli altri a Kode9,nome di punta della scena dub-step (per quanto non purista) eboss dell’etichetta Hyperdub, il re-mix del brano di Perry Yellow Ton-gue, uscito appunto per On-USound nel 2009. Interpellato sullacollaborazione Kode9 ha citatoper l’assoluta originalità del suostile proprio una delle prime ri-stampe celebrative dell’etichetta,«lo strano album degli AfricanHead Charge», a suo dire l’uscitapiù interessante della neo-tren-tenne casa discografica. Dal can-to suo Sherwood non perde maioccasione per lodare pubblica-mente questo movimento nato aLondra e ancora in espansione:«La scena dubstep è sbalorditivaperché è una sorta di evoluzione.Se ascolti i Digital Mystikz ti rendiconto che si tratta ancora di radi-ci giamaicane ma il suono è mo-derno. Se ti limiti a riprodurresempre lo stesso suono è un’ope-razione nostalgica e la tua musica

Tre ristampe annunciano le celebrazioni

per i primi trent’anni della label londinese.

Dai New Age

Steppers di Ari Up

al rapporto

con Lee Perry fino

alla collaborazione

con Kode9

12) ALIAS N. 19 - 14 MAGGIO 2011

Page 13: Alias supplemento del Manifesto 14/05/2011

■ INTERVISTA/1 ■ «O CAMBI O MUORI» ■

Adrian Sherwood,l’espressione del dub

di Grazia Rita Di Florio

On-U Sound sta per«onus», che nella traslitterazioneinglese significa «very importantsound», indica cioè un progettomolto significativo e di grande re-sponsabilità. Ce lo spiega al telefo-no Adrian Sherwood, capo di unadelle etichette più importanti inambito dub, pioniere di un suonotrasversale e inedito(si legga arti-colo accanto), non lasciando tra-pelare, invero, nessuna emozioneper i trent’anni della sua creatura,di cui però sotto sotto è davverocompiaciuto. «L’idea di chiamarlacosì è stata di un mio caro amico,per sottolineare il concetto disound di elevato profilo che aveva-mo in mente quando ho fondatola label, e vuole racchiudere una fi-losofia di suono e di vita». Sherwo-od ha un curriculum artistico ditutto rispetto, ma gli va soprattut-to riconosciuto il merito di aver in-ventato un’«estetica» dub, di avertrasformato un genere giamaica-no in una raffinata arte dall’im-pronta occidentale, grazie a un ap-proccio del tutto personale con latecnologia. Risponde con estremacordialità alle nostre domandementre è indaffarato nel suo stu-dio, tra una data e l’altra del tourcon il fido amico d’infanzia, MarkStewart & Tackhead. Ha persinosuperato la sua notoria ritrosia ver-so le interviste e non resistiamo al-la tentazione di chiedergli comemai abbia cambiato idea in fattodi sovraesposizione mediatica.«In realtà continuo a preferire ilmio mixer, ma siamo nell’era di in-ternet e restare nell’ombra può es-sere nocivo anche per un’etichet-ta affermata», taglia corto.

Che significato ha per lei que-sto anniversario?

Sono molto soddisfatto del lavoroche abbiamo fatto nel lungo corsodell’etichetta, e che dire, sonomolto felice che la gente dimostritanto apprezzamento per il miosound, per il mio tocco personaleal mixer. Ho sviluppato nel corsodegli anni un approccio particola-re con la tecnologia, ho ricercatoun suono che fosse diverso, unsuono che fosse davvero in gradodi immaginare il futuro, non mipiaceva l’idea di scopiazzare i gia-

maicani tout court e sono conten-to di esserci riuscito, anche grazieall’aiuto di validi collaboratori emusicisti che hanno affollato imiei studi. Non mi piace l’idea direstare statico, e cerco di far in mo-do che il mio tocco continui ad es-sere originale, così continuo a la-vorare tutti i giorni con la stessapassione e lo stesso impegno delprimo giorno.

A quali progetti avete lavora-to per questo anniversario?E cosa avete ancora in cantie-re?

Attualmente sto lavorando con Lit-tle Axe a un album tra blues e

dub, è un album fantastico a mio avviso con un beat molto fluttuante eospita Skip McDonald con Roots Dub Band e Dub Syndicate, un mani-polo di visionari e artisti eccellenti. È una sorta di riunione di famiglia, ouna prova di fedeltà come per il proprio cane (ride, ndr). È ancora in cor-so l’antica collaborazione con Lee Perry, con il quale sto lavorando a unnuovo album dal titolo Modern Sound in Dub, in cui è insita la consuetamistica di Lee Perry, che ospita anch’esso contributi importanti comeCongo Natty (alias Rebel Mc, ndr). Questo album uscirà però il prossimoanno. Poi un album con New Age Steppers in ricordo di Ari Up delle Sli-ts. Sempre per il prossimo anno èin uscita un altro lavoro di cui so-no veramente orgoglioso, è un di-sco che prevede il contributo di so-le cantanti donne di tutto il mon-do, cinesi, arabe, etiopi, russe, spa-gnole; per l’Italia abbiamo MamaMarjas, un lavoro dal titolo Dub...No Frontiers. Sono molto felice an-che di aver rimesso in scena Afri-can Head Charge, un lavoro strepi-toso, Voodoo of the Godsent.

Lei ha iniziato ad appassio-narsi al reggae da giovanissi-mo in un momento moltoparticolare a livello politico esociale in Inghilterra. In checontesto nasce la sua passio-ne per questa musica?

Sai, la Gran Bretagna è un paesemultirazziale, pieno di pakistani,indiani, africani, caraibici, e allorasi ascoltava molto funk, emergevaun’idea particolare di pop, e siascoltava anche molto reggae. Co-sì mi sono appassionato al reggaeascoltandolo con un gruppo diamici dalle origini differenti, ave-vo circa dodici anni. In questocontesto sono nate in seguitoband come Asian Dub Founda-tion e altre, da un miscuglio disuoni e di etnie... Il reggae era unamusica carica di spirito di rivolta,che attecchiva molto tra i caraibi-ci e i neri impegnati a migliorare ele loro condizioni di vita, ma an-che tra il sottoproletariato biancoo qualche figlio di papà affetto dal-la sindrome di ribellione genera-zionale. Fu così che avvenne l’in-contro tra il punk e il reggae, per-ché c’erano molti punti di conver-genza su alcune questioni, sulle ri-vendicazioni politiche e socialiche fecero in modo che i due gene-ri musicali si fondessero.

Così avvenne l’incontro con iClash e le Slits?

C’era uno scambio fruttuoso tragli artisti e l’incontro tra i due mon-di musicali fu molto prolifico, co-me sappiamo. I Clash e le Slits era-no gruppi molto politicizzati e fa-cevano una musica che aveva i pie-di per terra. Furono interessati dallavoro che stavo facendo con alcu-ni artisti afrobritannici e caraibicicosì nacquero le nostre collabora-zioni. Ari Up era splendida, mi ri-cordo un tour fantastico in Italia, aModena dove fummo invitati auna festa organizzata dall’allora

Partito comunista italiano.

Come nasce la On-u Sound?Avevo uno stock di musica e unaserie di ritmi che avevamo regi-strato in un piccolo studio, e misono detto: ’che ci faccio di tuttaquesta roba?’. Così ho pensato,perché non registrare un marchioin grado di far venire alla luce delsole questo materiale? Tra l’altrodovevo fare un tentativo per so-pravvivere non avendo investitoin una formazione intellettuale,tutto il tempo dedicato alla musi-ca poteva servirmi anche per que-sto. E ho deciso di tentare, avendogià fondato una società di distribu-zione, J&I con un giamaicano euna piccola etichetta, la Hit Run,con cui lavoravamo con parecchiproduttori e con i negozi di musi-ca indipendente a Londra, primaancora di Carib Gems. On-USound rappresentava quindi unprogetto più ambizioso, come tiho detto prima.

Parlando del suo particolare approccio alla tecnolo-gia, lei è stato il primo a registrare intere tracce in re-verse?

Sì, ho provato a lavorare intere tracce in reverse perché vole-vo aumentare l’effetto shuffle e la velocità rispetto al down-tempo dub. Ho pensato che avrei potuto avere questo effet-to mandando la traccia all’indietro. C’era poi la possibilitàdi aumentare l’effetto strascicato, una tecnica come un’al-

tra per tentare di attualizzare ilsound. Ho tentato aggiungendoun riverbero che suonava come inuna trappola tipo ‘koww koww’,ma se lo mandavi al contrario di-ventava ’shhok shhok’, aggiungen-do un delay, e mischiando ran-dom bass line, batteria, colpi, tut-to al contrario...

Ma secondo lei il dub è anco-ra il suono del futuro?

Io cercherei ancora tra la blackmusic per capire dove si può an-dare nel futuro, tutto l’immagina-rio visionario e mistico che ha gui-dato questa musica nel passatocontiene anche l’ingrediente delfuturo. Continuerei a preoccupar-mi di avere una solida sezione rit-mica, cosa che la musica moder-na dimentica di fare, anche ladancehall per esempio, è veroche ci sono ottimi album dan-cehall, ma la maggior parte delleproduzioni ha un suono molto de-bole, ripetitivo e poco ipnotico.Per me resta fondamentale la li-nea di basso, lavorerei di più suquella per avere un suono poten-te, che senti nella pancia. Mi piac-ciono il dubstep e la jungle, e perquesto ho lavorato con artisti co-me Kode9 e Mala (Digital My-stikz, ndr). Mi piace ancora DmSheffield. Non è un caso che i mi-gliori produttori reggae siano an-che produttori dubstep, che rap-presenta l’evoluzione della musi-ca passata. Evolvere o morire.

muore. Tanto dubstep però suo-na giovane, fresco e nuovo. In-somma il dubstep per me, un po’come la jungle - ed entrambi si so-no evoluti a Londra grazie alla se-conda e terza generazione di origi-ne giamaicana -, è un nuovo reg-gae». Non a caso Sherwood è sta-to recentemente in studio per darvita a un nuovo progetto dub conun produttore come lui non piùgiovanissimo ma ammaliato daquesta nuova generazione deditaai suoni bassi hardcore, KevinMartin alias The Bug (vedi l’inter-vista qui a fianco). Un album percui le aspettative di cinquantennie ventenni viaggiano di pari pas-so. Prevista l’uscita anche di unnuovo album dei New Age Step-pers con contributi vocali ineditidi Ari Up che segue la recentepubblicazione di Voodoo of theGodsent, nuovo capitolo discogra-fico a firma African Head Charge.Insomma sono e saranno mesi in-tensi per Sherwood e soci, comenon capitava dagli anni Ottanta,anche se a dirla tutta il nostro aoggi nella sua carriera, oltre adaver co-fondato altre tre etichette- Pressure Sounds, Green Tea eSoundboy Records - come può in-tuire anche chi lo conosce appe-na può vantare miriadi di collabo-razioni e side-project. Insommatutto si può dire tranne che sia unartista quieto, nonostante la pre-dilezione per i ritmi lenti. «È durascegliere un progetto a cui ho par-tecipato in tutti questi anni e dicui vado più fiero. Potrei dire l’al-bum che ho fatto per i PrimalScream, Echo Dek (1997): non èmolto noto ma è un buon album,una sorta di disco noise, atipico ri-spetto ai generi su cui lavoro di so-lito. Più in generale delle mie pro-duzioni sono davvero fiero per-ché quasi tutte le ho realizzate inpochi giorni. Altre volte invece so-no stato dietro a un disco per unanno intero, vedi Time Boom(1987) di Lee Perry o Learning toCope with Cowardice (1983) diMark Stewart... un anno per pro-durli. Ma anche in casi simili infin dei conti è splendido avernepreso parte». Volenti o nolenti ce-lebrare gli anniversari spesso si-gnifica anche essere stimolati a ti-rare le somme. Anche per quelche riguarda la carriera solista, vi-sto che il boss della On-U Sounda un certo punto s’è detto cheavrebbe dovuto avere pieno con-trollo di quanto faceva e non lavo-rare prima di tutto per soddisfareun altro artista in veste di produt-tore. C’è qualche rammarico? Dicerto Sherwood non sembra pre-occuparsi di resoconti sulla popo-larità: «Se certe volte non ho otte-nuto il successo commerciale dialtri artisti la responsabilità è solomia ma sinceramente la cosa nonmi tocca: sono fiero della mia pro-duzione e se il mio fiuto per il bu-siness mi tradisce, così sia».

di Andrea Mi

Se le recenti jam di She-rwood con Lee Perry hanno ideal-mente saldato un ponte tra la pri-ma generazione di produttori dubgiamaicani e quella di mezzo cre-sciuta in Inghilterra, le nuove ar-chitetture soniche progettate assie-me a Kevin «The Bug» Martin pro-mettono di spingere ancora piùlontano il concetto di future dub,in un ideale passaggio di consegnetra due delle menti più brillanti eprolifiche della scena musicaled’oltremanica e tra due etichetteche l’hanno segnata in maniera in-delebile. L’annuncio della NinjaTune della prossima uscita di undisco a quattro mani dei due hacreato fremente attesa soprattuttoin chi ricorda le meraviglie della lo-ro collaborazione nel remix di TheBug per Ignorant Version, tracciadel debutto solista di SherwoodNever Trust a Hippy (2003). In oc-casione di un suo recente live fio-rentino abbiamo intervistato Ke-vin Martin.

Puoi raccontarci le intenzioniartistiche del progetto TheBug?

The Bug nasce grazie all’ossessio-ne per la musica giamaicana cheho sviluppato nei molti anni in cuiho vissuto in un quartiere londine-se a predominanza caraibica. Sen-tivo quella musica ovunque e hoimparato ad amarla perché nonha formule prestabilite né regole.È sperimentale, rilassante e asse-conda la mia passione per le linee

di basso. Da ragazzo ho deciso difare musica dopo aver ascoltatoJoy Division, Hüsker Dü, Killing Jo-ke, ma non realizzavo quanto fos-sero fondamentali le linee di bassoanche in quei suoni. È così che cre-do di essere stato introdotto allamusica ibrida, mutante. La rivolu-zione dell'elettronica sta nella pos-sibilità di personalizzare il suono,dipende dal modo in cui le macchi-ne traducono il tuo linguaggio.Nel dub ho visto una filosofia di vi-ta, una maniera di filtrare tuttal’esperienza attraverso l’idea dimutazione. Più che mai ora che in-ternet accelera l’accesso alle infor-mazioni è fondamentale filtrare,scegliere il proprio ritmo. Capitociò il mio modo di produrre musi-ca è cambiato. La combinazionedi queste componenti ha creatoThe Bug.

L’incontro tra la tua passioneper il dub e la tua attitudineelettronica è avvenuto anchegrazie a John Peel e i soundsystem?

John Peel ha avuto un ruolo chia-ve. Ai tempi non c'era internet matramite la sua trasmissione riusci-vo a sentire tanta musica nuova.Per me il suo show era una religio-ne. Vivevo in una piccola cittadinanel sud dell'Inghilterra, senza con-nessioni con le grandi città né conle scene musicali. Peel è diventato

la mia guida. Un mese dopo il miotrasferimento nell'east end londi-nese invece andai a una sfida tradue sound system: Iration Steppae Disciples. Rimasi stupefatto dal-la fisicità di quel suono, dal volu-me, dal potenziale psichedelico diquella situazione che sconvolgevacompletamente le regole deglishow musicali: non c'erano luci,non c'era palco, la gente si posizio-nava tra due colonne di casse digrande qualità e partecipava a unaspecie di rito meditativo perdendo-si nel suono.

Cosa puoi anticiparci dellacollaborazione con Sherwo-od che uscirà su Ninja Tune?

Dopo la lunga parentesi con KingMidas Sound ho sentito il bisognodi tornare a uno dei miei amori ori-ginari, ripensando alla prima colla-borazione con Sherwood. Quelloregistrato con lui sarà il mio primoalbum propriamente dub e mi pia-ce che risulti la fusione di due espe-rienze fondamentali per la musicainglese come Ninja Tune e On-USound. Dentro ci saranno dellereinterpretazioni di vecchi mate-riali firmati The Bug e di gemmeestratte dall’archivio di Adrian. Stoanche lavorando a un altro proget-to che si chiama Black Child cheuscirà su etichetta Jahtari e SoulJazz. Non mi basta il tempo, credoche dovrò clonarmi.

Nell’immagine grande Bonjodegli African Head Charge e Adrian

Sherwood (foto Kishi Yamamoto);qui accanto Ari Up, sotto Lee

«Scratch» Perry, in alto a sinistraSherwood (foto Yamamoto)

e a destra Kevin «The Bug» Martin

■ INTERVISTA/2 ■ KEVIN MARTIN ■

Un «Bug» nella rete.Come nascono i bassi

Al producer il merito di aver trasformato

un genere giamaicano in una raffinata

arte dall’impronta occidentale. «Il Regno

Unito è un paese multietnico. Qui è stato

facile mescolare reggae, punk e funk»

ALIAS N. 19 - 14 MAGGIO 2011 (13

Page 14: Alias supplemento del Manifesto 14/05/2011

Billy BraggTra i cantautori più impegnati del-la scena britannica.ANCONA SABATO 14 MAGGIO (TEATRODELLE MUSE)MILANO LUNEDI' 16 MAGGIO (CAMERADEL LAVORO)

REGGIO EMILIA MARTEDI' 17 MAGGIO(TEATRO DE ANDRE')

FIRENZE MERCOLEDI' 18 MAGGIO (FLOG)

The SelecterCon gli Specials e i Madness sonostati i principali artefici della (ri)na-scita della musica ska in Inghilter-ra. Eravamo alla fine degli anniSettanta, in piena epoca punk, eloro cantavano Too Much Pressu-re...ROMA MERCOLEDI' 18 MAGGIO (CIRCOLODEGLI ARTISTI, CON THEE OH SEES)LECCE GIOVEDI' 19 MAGGIO (OFFICINECANTELMO)

RIMINI VENERDI' 20 MAGGIO (VELVET)

GORIZIA SABATO 21 MAGGIO (PIEFFEFACTORY)

Blank DogsIl progetto del newyorkese MikeSniper, tra lo-fi, garage, post punke synth pop.TORINO MERCOLEDI' 18 MAGGIO (SPAZIO211)BRESCIA GIOVEDI' 19 MAGGIO (VINILE 45)

MARINA DI RAVENNA (RA) VENERDI'20 MAGGIO (HANA-BI)

SEGRATE (MI) SABATO 21 MAGGIO(MAGNOLIA)

Melissa Auf Der MaurLa ex bassista delle Hole e degliSmashing Pumpkins in una versio-ne più acustica.ROMA MARTEDI' 17 MAGGIO (CIRCOLODEGLI ARTISTI)SERRENTI (VS) GIOVEDI' 19 MAGGIO(TEATRO COMUNALE)

LIVORNO SABATO 21 MAGGIO (THE CAGE)

Thee Oh SeesGarage rock per la band california-na.MARINA DI RAVENNA (RA) MARTEDI'17 MAGGIO (HANA-BI)ROMA MERCOLEDI' 18 MAGGIO (CIRCOLODEGLI ARTISTI, CON THE SELECTER)

TORINO GIOVEDI' 19 MAGGIO (SPAZIO211)

MILANO VENERDI' 20 MAGGIO (PLASTIC)

Abe VigodaDa Los Angeles, il ritorno del Tropi-cal punk.FIRENZE DOMENICA 15 MAGGIO (LOGIC)

Michael MonroeIl glam punk del poliedrico MattiFagerholm, in arte Michael Mon-roe.PINARELLA DI CERVIA (RA) SABATO14 MAGGIO (ROCK PLANET)

Six Organs of AdmittanceUn mix di indie-rock, sperimenta-

le, post-rock e space-rock per laband statunitense.MILANO GIOVEDI' 19 MAGGIO (BITTE)

NAPOLI SABATO 21 MAGGIO (RIOTSTUDIO)

Gold PandaVari eppì e un solo long playingper il musicista, compositore eproduttore inglese.TORINO VENERDI' 20 MAGGIO (SPAZIO211)

The Crookes + Call MeAnimalDue emergenti indie band britanni-che, la prima da Sheffield e la se-conda da Londra.MILANO LUNEDI' 16 MAGGIO (TUNNEL)

Wolf PeopleLa band inglese si muove tral'hard rock e il progressive.TORINO SABATO 14 MAGGIO (SPAZIO 211)

MARINA DI RAVENNA (RA) DOMENICA15 MAGGIO (HANA-BI)

SEGRATE (MI) LUNEDI' 16 MAGGIO(MAGNOLIA)

The BusinessNata agli inizi degli anni Ottanta,la band londinese si rifà al movi-mento skinhead Oì. Sul palco an-che Bad Luck Charms.BERGAMO SABATO 21 MAGGIO (CS PACIPACIANA)

Esben & The WitchIl trio di Brighton ha appena pub-blicato l'album d'esordio, VioletCries, e guarda alle sonorità darkwave anni Ottanta.BOLOGNA SABATO 14 MAGGIO (COVO)

Robert WyattUn mito della musica, dagli anniSettanta a oggi.FIRENZE MARTEDI' 17 MAGGIO (STAZIONELEOPOLDA)

Agnes ObelLa cantautrice danese presenta ilsuo disco d'esordio, Philharmoni-cs.MILANO VENERDI' 20 MAGGIO (TEATROBLU)ROMA SABATO 21 MAGGIO (CIRCOLODEGLI ARTISTI)

As Blood Runs BlackUna data per il death metal dellaband losangelina.BRESCIA SABATO 14 MAGGIO (LATTE+)

OxbowTornano le note cupe e sinistredella storica band di San Franci-sco.SAN VITO DI LEGUZZANO (VI) VENERDI'20 MAGGIO (CENTRO STABILE DI CULTURA)

Gallon DrunkL’antitesi del brit pop è racchiusanel sound di questa band dell’un-derground londinese, superstitedegli anni Novanta.CATANIA SABATO 21 MAGGIO (LA LOMAX)

Frontier RuckusUna sola data per il duo folk-blue-grass statunitense, alle radici delsound chitarristico dell'America.VARESE SABATO 21 MAGGIO (TWIGGY)

GonjasufiPsichedelia, hip hop e funk nel pro-getto del musicista-sciamano Suma-ch Valentine, in arte Gonjasufi.BOLOGNA VENERDI' 20 MAGGIO (LINK)

TORINO SABATO 21 MAGGIO (IL CORTILEDELLA FARMACIA)

JazzsteppaA Roma il combo dubstep inglese.ROMA SABATO 14 MAGGIO (ANIMALSOCIAL CLUB)

Alexis GideonIn concerto il musicista, animatoree regista statunitense.RAVENNA VENERDI' 20 MAGGIO (CISIM)

ROMA SABATO 21 MAGGIO (SINISTERNOISE)

Meat PuppetsUna band che ha fatto la storia del-l’hardcore punk statunitense.BRESCIA SABATO 21 MAGGIO (LATTE+)

Alpha BlondyL’ultracinquantenne artista reggaeoriginario della Costa d’Avorio.BOLOGNA SABATO 14 MAGGIO(ESTRAGON)

Atari Teenage RiotTorna la band hardcore technotedesca di Alec Empire. Con loroArmy of Universe.ROMA GIOVEDI' 19 MAGGIO (ALPHEUS)

MILANO VENERDI' 20 MAGGIO(LAMBRETTO)

Buddy WhittingtonBlues e southern rock per il chitarri-sta texano.LEGNANO (MI) LUNEDI' 16 MAGGIO (LANDOF LIVE)TORINO MARTEDI' 17 MAGGIO (LAPSUS)

PISA MERCOLEDI' 18 MAGGIO(BORDERLINE)

VIGNOLA (MO) GIOVEDI' 19 MAGGIO(STONES CAFE')

ROMA VENERDI' 20 MAGGIO (JAILBREAK)

Gotan ProjectIl trio sudamericano riporta sul pal-co i suoni tra tango, elettronica ejazz.PADOVA SABATO 14 MAGGIO (GRANTEATRO GEOX)ROMA LUNEDI' 16 MAGGIO (ATLANTICOLIVE)

MILANO MARTEDI' 17 MAGGIO (ALCATRAZ)

Paul CollinsCon i suoi Beat è tra i principali eprimi esponenti del power-pop.BRESCIA SABATO 14 MAGGIO (VINILE 45)

TORINO DOMENICA 15 MAGGIO (UNITEDCLUB)

Das RacistIl trio con base a Brooklyn mescolanella sua musica hardcore, rap,freak folk e atmosfere da harekrishna.ROMA VENERDI' 20 MAGGIO (AKAB)

VERONA SABATO 21 MAGGIO (INTERZONA)

Uli Jon RothLa chitarra elettrica è il suo mondo.CREMONA SABATO 21 MAGGIO (PARCOEX COLONIE PADANE)

Rotting ChristSerate dedicate al black metal con

la band greca, con loro i conterra-nei Daylight Misery e i finlandesiDead Shape Figure.ROMAGNANO SESIA (NO) SABATO14 MAGGIO (ROCK'N'ROLL ARENA)ROMA DOMENICA 15 MAGGIO (INIT)

Greg TrooperNel solco della tradizione cantauto-rale folk statunitense.MILANO MARTEDI' 17 MAGGIO (NIBADATHEATRE)MEZZAGO (MB) GIOVEDI' 19 MAGGIO(BLOOM)

Baba SissokoL’artista maliano porta le note dellasua Africa, al suo fianco TamanKan.ROMA SABATO 14 MAGGIO (CS ANGELOMAI)

Oriental Night FeverIl progetto, nato da un'idea delloscomparso Hector Zazou, ripropo-ne alcuni classici della discomusicdegli anni Settanta in versione«world music», con Barbara Eramo,Stefano Saletti e Ominostanco.ROMA SABATO 14 MAGGIO (KE NAKO)

Cristina DonàTorna dal vivo la cantante/autricedi Rho.PALERMO MERCOLEDI' 18 MAGGIO(CINETEATRO DANTE)CATANIA GIOVEDI' 19 MAGGIO (MERCATIGENERALI)

Marlene KuntzIn tour la band piemontese perpresentare il nuovo disco, Ricoverivirtuali e sexy solitudini.RIMINI SABATO 14 MAGGIO (VELVET)

Modena City RamblersDal folk irlandese alle sonorità lati-ne ai canti rivoluzionari.FERRARANUORO SABATO 14 MAGGIO(SPAZIO BOWLING)

Sud Sound SystemLa band salentina in tour.CATANZARO SABATO 14 MAGGIO (PEOPLE)

TREZZO D'ADDA (MI) VENERDI' 20MAGGIO (LIVE)

FABRIANO (AN) SABATO 21 MAGGIO(POIESIS FESTIVAL)

Yo Yo MundiLa band piemontese presenta dalvivo il nuovo album Munfrà.TORINO SABATO 14 MAGGIO (OFFICINECORSARE)

CaparezzaIl rapper di Molfetta è tornato conun nuovo album dal titolo Sognoeretico.VILLAFRANCA (VR) SABATO 14 MAGGIO(PALACOVER)SASSARI MERCOLEDI' 18 MAGGIO(PALAZZETTO DELLO SPORT)

TANETO DI GATTATICO (RE) VENERDI'20 MAGGIO (FUORI ORARIO)

MARGHERA (VE) SABATO 21 MAGGIO(CS RIVOLTA)

Assalti FrontaliLa band hip hop romana di nuovoon the road per presentare il nuo-vo album Profondo rosso.PERUGIA SABATO 21 MAGGIO(CS IL MATTATOIO)

Acoustic Guitar MeetingLa rassegna internazionale dedicataalla chitarra acustica giunge alla suaquattordicesima edizione e rinnoval'appuntamento con concerti,workshop, corsi, mostre e quant'al-tro. La kermesse, che si apre il 18,vede tra le performance live quelledi, il giorno successivo, Giulia Millan-ta, Hussy Hicks, Andrea BraidoAcoustic Duo e Guitar Republic (Pi-no Forastiere, Sergio Altamura, Ste-fano Barone), di Roberto Dalla Vec-chia, Massimo Gatti, Beppe Gambet-ta, Mike Marshall e The KrugerBrothers (il 20) e Soumik Datta &Nico Di Battista, Diane Ponzio, Da-vid Essig, Mauro Di Domenico, Fran-cesco Loccisano con ospite EugenioBennato, e Angel Parra, figlio diVictor Jara e Violeta Parra alla me-moria dei quali viene consegnato ilpremio «Corde & voci per dialogo ediritti».SARZANA (SP) DA MERCOLEDI' 18A SABATO 21 MAGGIO (FORTEZZAFIRMAFEDE)

CrossroadsIl festival prosegue con il progettoMistico Mediterraneo di Paolo Fresue Daniele Di Bonaventura, con ilcoro A Filetta (domani) e con il dop-pio appuntamento di venerdì 20, inprogramma il duo Francesco Cafiso/Dino Rubino in Travel Dialogues e ilMattia Cigalini Quintet con ospitiTullio De Piscopo e Marco Tamburi-ni in Arriving Soon.RUSSI (RA) DOMENICA 15 MAGGIO (TEATROCOMUNALE)CORREGGIO (RE) VENERDI' 20 MAGGIO(TEATRO ASIOLI)

Palazzetto Bru ZaneOltre a eventi collaterali in altre se-di, la stagione concertistica nellastruttura veneziana prevede perdomani La prova del virtusosismo,musiche di Dukas, Ravel e Heisser,per il 17 Un pomeriggio nel salottocon opere di, tra gli altri, di Fauré,Debussy, Rossini, Donizetti,Hahn,Messager e per il 21 Trii con piano-forte con il Trio Hochelaga.VENEZIA DOMENICA 15, MARTEDI' 17E SABATO 21 MAGGIO (PALAZZETTO BRUZANE)

Casa del JazzPiù italiana e ordinaria la program-mazione della struttura capitolinasotto la gestione di Giampiero Ru-bei. Spicca nel cartellone il Tributoa Ornette Coleman del quartetto diRosario Giuliani con Fabrizio Bosso;per il resto Partenope Duo (Antonel-la De Grossi, Marco Siniscalco), Mi-chel Godard & Massimo PironeQuartet e i domenicali Appunti diJazz a cura di Lino Patruno.ROMA SABATO 14, DOMENICA 15E DA GIOVEDI' 19 A SABATO 21 MAGGIO(CASA DEL JAZZ)

Vicenza JazzNew ConversationsLa manifestazione chiude i battenticon la performance Sound and Ima-ge che vede le foto di Pino Ninfa ela musica di Enrico Intra e GiulioVisibelli (palazzo Montanari, ore18), il progetto Mistico Mediterra-neo con Paolo Fresu, Daniele Di

Bonaventura e il coro A Filetta (tea-tro Olimpico, ore 21), la formazioneDajaloo che unisce percussionistiafricani a Pietro Tonolo, GiampaoloCasati e Roberto Rossi (Panic JazzCafè Trivellato, ore 22).VICENZA SABATO 14 MAGGIO (VARIE SEDI)

Roma Napoli RioLa manifestazione intende unirebossanova, musica mediterranea ejazz. I primi artisti in cartellone sonoil chitarrista Irio De Paula, FrancescoLoccisano in solo e il gruppo Curan-dero specializzato in samba e bossa-nova.ROMA SABATO 14, GIOVEDI' 19 E VENERDI'20 MAGGIO (BEBA DO SAMBA)

Jazz a RomaNel rinato locale di Largo dei Fioren-tini (Music Inn) suona il gruppoApogeo (Max Ionata, Claudio Filippi-ni, Bebo Ferra, Anthony Pinciotti) diGiovanni Tommaso. L’UniversitàCattolica del Sacro Cuore apre ilsuo auditorium per un concerto diJavier Girotto con Aires Tango perpresentare il nuovo cd Alrededoresde la ausencia. Nella programma-zione dell’Alexanderplatz il quartet-to di Paolo Recchia con Alex Sipia-gin, il gruppo del batterista FabioAccardi che presenta l’album Melo-drumatik, i trii con Elio Tatti/Giam-paolo Ascolese/Mauro Zazzarini econ Roberto Tarenzi/Pietro Cianca-glini/Roberto Pistolesi.ROMA SABATO 14, MERCOLEDI' 18, VENERDI'20 E SABATO 21 MAGGIO (MUSIC INN,AUDITORIUM DELL’UNIVERSITÀ CATTOLICADEL SACRO CUORE, ALEXANDERPLATZ)

Ah-Um Jazz FestivalLa nona edizione della rassegnamilanese propone il progetto multi-mediale di Roberto Masotti Im-proWYSIWYNG - Re-beginning, conMasotti (concept e immagini)Gianluca Lo Presti-R. Masotti (con-trollo live video), Guido Mazzon(tromba/cornetta),Walter Prati (vio-loncello, elettronica)MILANO MERCOLEDI' 18 MAGGIO(ZONA K)

AngelicaLa rassegna ha in cartellone oggi lariproposizione di In D di Terry Rileye In C di Stefano Scodanibbio con ilLudus Gravis Ensemble, per il 17ancora Scodanibbio in Reinvenzioni,il 18 il Gruppo Ocarinistico Budriesecon ospiti Cristina Zavalloni e Rober-to «Freak» Antoni in Terra, mentredal 19 al 21 tre serate dedicate allaNorvegia con artisti quali ChristianWallumrod, gli Huntsville e altri.BOLOGNA SABATO 14 E DA MERCOLEDI'18 A SABATO 21 MAGGIO (TEATRO SANLEONARDO)LUGO (RA) MARTEDI' 17 MAGGIO (TEATROROSSINI)

ClematidayUna serata per l'associazione onlusClematide con i live di VirginianaMiller e Offlaga Disco Pax.MONTEROTONDO (RM) SABATO14 MAGGIO (PIAZZA DUOMO)

a cura di Roberto Peciola con Luigi Onori (jazz)(segnalazioni: [email protected])

Eventuali variazioni di date e luoghi sonoindipendenti dalla nostra volontà.

ON THE ROAD

14) ALIAS N. 19 - 14 MAGGIO 2011

Page 15: Alias supplemento del Manifesto 14/05/2011

di Andrea Camerino

IJazzsteppa (Gal S Moore e Gal Bar-Adon) sono una anomalia. In un periodo sto-rico in cui la musica elettronica sembra nonavere più confini in termini di evoluzione tec-nologica, c’è ancora qualcunoche evita di tagliare completa-mente i ponti con il passato cer-cando invece una continuità, siastilistica che compositiva, conciò che ci ha preceduto e ispira-to. I Jazzsteppa rappresentano in-fatti un'esperienza del tutto uni-ca nel panorama elettronico con-temporaneo. Il loro raffinatissi-mo mix fra analogico e digitalenon ha eguali in ambito interna-zionale. Il loro live set (con lap-top, batteria, effetti, mc e trom-bone) e le loro produzioni conci-liano, in maniera calibrata eomogenea, le sperimentazioniritmiche proprie del freejazz coni bassi pulsanti della dubstep, re-galando ai propri avventori unavisione vintage ma allo stessotempo estremamente avanzatadella musica che verrà. I Jazzstep-pa (il progetto è stato fondatonel 2006 a Berlino) hanno recen-temente dato alle stampe unnuovo ep intitolato I-Doser per laStudio Rockers (in cui spicca lasognante Dont Luvs Me, realizza-ta in collaborazione con la musi-cista israeliana Efrat Gosh) e so-no in procinto di pubblicare,sempre per la stessa etichetta,un nuovo freschissimo album(Hyper Nomads) con ospiti dispessore come, tra gli altri, Forei-gn Beggars, Borgore, Ghetto Pri-est e Benjamin Zephaniah e benventi coinvolgenti tracce tra cuil’irresistibile cover di Wipe Outdei Surfaris. Tra le numerose pro-duzioni che hanno pubblicatonegli ultimi tempi, per diverse la-bel tra cui Hot Flush, Mg77 e Stu-dio Rockers, dobbiamo sicura-mente ricordare il loro cavallo dibattaglia American B e l'energicaInvestment Decision, in cui il ca-ratteristico «mashup» fra musicatradizionale e nuove tecnologieraggiunge il suo apice. Li abbia-mo incontrati.

Avete appena pubblicatoun eppì, siete in procinto dipubblicare un nuovo albumcon tante partecipazioni dispessore e suonate pratica-mente in tutta Europa. Èuna fase estremamente cre-ativa della vostra carriera?

Sì, siamo davvero impegnatissi-mi! Quando hai così tante coseda fare e a cui pensare, non haidavvero tempo per sederti unattimo a riflettere. Devi per for-za essere creativo, non c’è al-tro modo. Devi fidarti di ciòche senti dentro e tenere pre-muto il tasto avanti.

Potete darci qualche antici-pazione sui contenuti delnuovo album? Quando usci-rà?

La data di pubblicazione? Ti pos-so solo dire che uscirà moltopresto. Hyper Nomads è un lavo-ro denso di contenuti, che me-scola in maniera uniformeavant-garde jazz, dubstep,drum’n’bass e funky house. Pen-siamo che molte persone fini-ranno per innamorarsene.

Come è nata l’idea di conci-liare strumenti tradizionalicome batteria e trombonecon le nuove tecnologie?

Entrambi avevamo un back-ground squisitamente jazz.Quando eravamo bambini, cipiaceva andare in giro con il no-stro walkman e, a differenza ditanti nostri coetanei, non ascolta-vamo le hit del momento magrandi artisti jazz come OrnetteColeman, John Coltrane e MilesDavis. A quei tempi non mi sareimai immaginato che il jazz sareb-be poi caduto così in basso. Inpratica, il suo incontenibile svi-luppo stilistico sembra essere fer-mo agli anni Settanta. Penso chemescolare strumenti tradizionalicon le nuove tecnologie sia unmodo come un altro per cercaredi far evolvere la musica jazz inquanto tale. La maggior partedella gente stenterà a credermi,ma penso davvero che i Jazzstep-pa siano una jazz band!

Quali sono i vostri principa-li punti di riferimento in am-bito musicale? Da quali arti-sti, generi musicali o conte-sti culturali traete maggioreispirazione?

Pensiamo che la musica abbia raggiunto ilsuo apice tra il 1700 e il 1950 e che da allorasia andata incontro a un progressivo peggio-ramento. Sia la classica che il jazz sono sem-pre state forti influenze, insieme a tutte quel-le sonorità che, sfidando il passare del tem-po, sono arrivate fino a noi. Per intenderci,preferiamo un Renato Carosone a un FabriFibra, oppure un Duke Ellington piuttostoche una Lady Gaga.

Qual è l’iter con cui realizza-te una vostra canzone? Laproducete prima con il lap-top per poi arrangiarla con ivostri strumenti oppure è ilfrutto di una o più sessiond’improvvisazione?

Sono uno dei co-fondatori delFat-Pig di Londra, uno studio diregistrazione che ha tutta la stru-mentazione di cui potremmoaver bisogno. Oggi come oggi,dobbiamo solo andare lì e fareciò che vogliamo. In passato, ab-biamo provato di tutto: registra-re prima gli strumenti tradiziona-li e poi il resto, immortalare conun mini-disc i suoni della strada,registrare tutto in presa direttaper poi post-produrre il materia-le in studio o masterizzarlo con ilnostro laptop su un volo di linea!L’unico nostro vero obiettivo era

riuscire ad ottenere musica chesuonasse bene. E pensiamo di es-serci sempre riusciti.

Nel corso di questi anni, inmolte vostre produzioniavete utilizzato vocalist di-versi. Come scegliete i vo-stri cantanti? In base a qualicriteri?

Niente di più facile. Non abbia-mo mai scelto un cantante per lenostre tracce. Sono sempre statiloro a cercarci!

Il 2010 è stato sicuramentel’anno della dubstep. Qualiulteriori margini di svilup-po ha questo genere musi-cale? A vostro avviso, perquale motivo il dubstep èriuscito a diffondersi cosìtanto in tutto il mondo?

È vero, il dubstep sta veramen-te esplodendo in questi ultimimesi ma tutti già sapevano chestava arrivando, fin dal 2005!Questo genere musicale ha sa-puto soddisfare le esigenze del-le persone ma sono sicuro che

tra non molto completerà il suo ciclo. Tra pochi annici sarà già qualcos’altro...

I Jazzsteppa sono l’unico gruppo dubstep a propor-re un live set che mescola analogico con digitale.Come è organizzato il vostro live?

La cosa senz’altro più bizzarra è che per 75 minuti riuscia-mo a suonare tutta musica dei Jazzsteppa. Ormai abbia-mo un repertorio piuttosto vasto. Alcuni brani durano unminuto, altri sono più lunghi. Ogni nuovo beat che scrivia-mo - cosa che per altro avvieneogni settimana - viene regolar-mente suonato durante i nostriconcerti. Il nostro live è una sor-ta di mashup di tutti i suoni chedue persone possono creare si-multaneamente. Qualche voltadiventa così mostruoso e com-plesso da costringerci a sederciper dargli un senso!

Che musica vi piace ascolta-re quando siete nell’intimi-tà della vostra casa o in com-pagnia dei vostri amici?

A Londra esiste una stazione ra-dio che si chiama Gold e che pro-pone solo sdolcinate canzonipop dal 1960 al 1980. Ecco, mipiace ascoltare quella radio 24ore al giorno. Per quanto riguar-da invece dub e reggae, devo rin-graziare Melissa Peritore, che havissuto insieme a me negli ultimitre anni. Mi ha praticamente in-segnato tutto quello che so diquesti generi musicali.

Quali sono i vostri progettiper il futuro? Cosa bolle inpentola?

Si preannuncia un’estate senzaprecedenti. Viaggeremo senza so-sta ed entreremo in studio tuttele volte che si renderà necessa-rio, cercando di sfornare semprenuovi suoni. Purtroppo, non sia-mo ancora stati invitati a suona-re a Ibiza. Mi domando se nonsia necessario produrre musicahouse melensa per andarci! Madi questo noi non ci preoccupia-mo. Il nostro vero obiettivo è e re-sterà sempre quello di fare casi-no in giro e di diffondere l’amoreovunque andiamo!

■ INCONTRI ■ QUESTA SERA DAL VIVO ALL’ANIMAL SOCIAL CLUB ■

Londra oltre il futuro.Ecco il vintage digitaleIn attesa dell’uscita del nuovo album, «Hyper Nomads», la band

che fa base nella capitale britannica, è a Roma per una data

del tour europeo. «Il nostro live è una sorta di ’mashup’

di tutti i suoni che due persone possono creare simultaneamente»

Sopra due immagini deiJazzsteppa, in basso dalvivo nella metropolitanalondinese. A sinistra,in verticale, alcunecopertine di lp e epdella band inglese

ALIAS N. 19 - 14 MAGGIO 2011 (15

Page 16: Alias supplemento del Manifesto 14/05/2011

16) ALIAS N. 19 - 14 MAGGIO 2011

AA. VV.BRAZIL BOSSA BEAT! (Soul Jazz)

8Il lungo sottotitolo Bossa Nova and the Storyof Elenco Records precisa subito che il conte-nuto riguarda l'etichetta di Rio de Janeiro

che, fra il 1963 e il 1970, produce la seconda (e ultima)ondata di bossa carioca, più jazzy, virtuosistica, disimpe-gnata, rispetto al boom iniziale (1957-1962). Famosaper gli album dalla grafica essenziale (con soli bianco,rosso, nero sulle copertine, peraltro riprodotte nel cor-poso booklet) la Elenco sforna ancora ellepì di Jobim,Elis Regina, Gilberto, Jorge Ben, Sergio Mendes, BadenPowell, ma punta - come in quest’antologia di ventitretracce - su Edú Lobo, Quarteto Em Cy, Nara Neão, Sér-gio Ricardo, Roberto Menescal all'inizio di una ventenna-le dittatura che costringerà non pochi musicisti, e nonsolo, all'esilio. (g.mic.)

AUSTRAFEEL IT BREAK (Domino/Self)

7Niente che non sia già stato fatto o ascoltato.D’altronde i cliché dell’electropop sono bendefiniti da anni, dai Depeche Mode in poi,

fino ai Ladytron, Röyksopp e simili. La differenza cheperò ci fa appezzare questo progetto che fa capo allapolistrumentista e cantante Katie Stelmanis, da Toron-to, Canada, sta proprio nelle composizioni, tutte ampia-mente sopra la sufficienza e alcune ben oltre la stessa.Dicevamo della voce della leader, non particolarmenteoriginale se vogliamo andare a vedere, ma sa comecreare melodie che restano in testa, giocando su costru-zioni più complesse di quanto sia lecito attendersi, rega-lando momenti davvero alti in Darken Her Horse, SpellWork, Hate Crime, The Noise e The Beat. Resta peròqualche dubbio una volta sentita dal vivo... (r.pe.)

SUSANA BACAAFRODIASPORA (Luaka Bop/Goodfellas)

7Dai landos emozionali al forrò, dalla cumbia,bomba y plena di Portorico, tango, son, sal-sa, nuova canzone e valzer messicano, al

funk spettinato e decontestualizzato di Hey Pocky Way(The Meters), il nuovo disco di Susana Baca è una sagradi poliritmi sprigionati dai vari luoghi della diasporanera (da cui il titolo Afrodiaspora). Su tutto domina lei,la voce straripante della diva peruviana, debordante,appassionata, piena di una giovialità contagiosa ovun-que spanda il suo fremito di vita e di emozioni. Denso edeciso il timbro della chitarra di Ernesto Hermoza, gor-gogliante il cajon di Hugo Bravo, cui è affidato il compi-to di esaltare la curiosità e l’attenzione della cantanteper la poesia lirica nell’ambito di un consesso che, nonriuscendo a rimarginare le ferite, tenta quantomeno dibonificare il percorso, raccogliendo ogni notte, in ogniparte dell’emisfero, diverse musiche sotto la stessa lu-na. (g.d.f.)

FABIO CINTIL'ESEMPIO NELLE MELE (Soundaymusic)

6Elettronica minimale, testi sghembi e un po'criptici, echi di melodie lontane un po' tede-sche. Battiato? No, Fabio Cinti, suo epigone

anche se, vale la pena dirlo, con classe. Le rassomiglian-ze ci sono tutte, anche nella scelta di una cover comeCuccuruccu paloma ma l'artista romano ci sa fare comedimostra in più brani. Deve solo affrancarsi dal modellooriginale... (s.cr.)

STEPHAN CRUMP/STEVE LEHMANKALEIDOSCOPE AND COLLAGE (Intakt/Ird)

8Gran duo, grande musica, sorretta da un’ideadella composizione istantanea per nienteconvenzionale. Lehman, altosassofonista, è

davvero una stella del nuovo firmamento post-jazzisti-co. Afferra gli ultimi preziosi suggerimenti dell’esperien-za di «Bird» Parker, riflette sulla varietà di soluzioni me-lodiche che stanno tra le frasi ampie e concitate, le sfu-mature nell’oscillazione tra tonale e atonale, le troncatu-re aspre, gli squarci lirici quieti, la sonorità limpida chesi fa tranquillamente «sporca» (ma nell’introversionepacata) per qualche episodio. Crump, contrabbassista,interloquisce e «accompagna», usa lo strumento comecorpo da percuotere con una certa regolarità della scan-sione, si concede sequenze solitarie di liquida pensosi-tà. Bellissime le pause, l’accuratezza con cui viene evita-to il «tutto pieno» che è la debolezza dei jazzmen, spe-cie in duo. Due menti sopraffine. (m.ga.)

FOJA'NA STORIA NOVA (M. Principale-F.Heads/Audioglobe)

6Cose nuove. Che arrivano da Napoli. Ottimoesordio per i Foja, formazione imperniata suvoce, chitarre, basso e batteria. Quattro musi-

cisti che danno vita a un lavoro molto interessante doveemerge una forte attitudine al cantautorato, in versionerock. Tanti sono gli influssi che possono essere percepi-ti, che vanno dalle storie grunge alle vibranti ballate deiDays of the New, passando per strali chitarristici chesanno di tex-mex e Calexico, nonché di reminescenzedei romani Elettrojoice. Il tutto espresso in suoni siaelettrici che acustici, con un cantato in napoletano. Can-zoni, che da quelle parti le sanno scrivere bene. E sisente. Su tutto, il brano 'A freva. Benvenuti. (g.di.)

WILD BEASTSSMOTHER (Domino/Self)

8Che i Wild Beasts avessero le qualità e soprat-tutto le potenzialità di un grande gruppo ciera sembrato abbastanza chiaro già dal debut-

to Limbo, Panto. Sensazione confermata, in parte, dalsecondo lavoro, Two Dancers, che li ha portati a guada-gnarsi un pubblico sicuramente più ampio ma che, purottimo, a noi era sembrato un tentativo di ripercorrere lastessa strada dell’esordio anziché osare qualcosa d’altro.Però quella sensazione che fossero davvero bravi e chepotessero rappresentare una via diversa ai cliché dell’in-die pop rock non era svanita, e quando abbiamo ascolta-to per la prima volta questo nuovo Smother ci siamofatti i complimenti perché «ci avevamo preso». Smotherè l’album della maturità, un disco in cui concretizzano illoro sound, dando meno risalto alla parte ritmica - quasitribale - dei lavori precedenti per dare spazio e forza alleatmosfere e attenzione alla composizione. Le voci, ilfalsetto sempre più concreto e sicuro di Hayden Thorpee il baritono di Tom Fleming, si intersecano e collabora-no di più e meglio, e anche lo spettro sonoro si apre anuove soluzioni. E come per incanto ci appare lo spettrodi Mark Hollis e dei suoi Talk Talk... (r.pe.)

GABLE’CUTE HORSE CUT (Loaf/Audioglobe)

7Art-pop davvero sghembo quello che propo-ne questa folle formazione francese. Venti ibrani contenuti in Cute Horse Cut, uno più

«assurdo» dell’altro e uno diverso dall’altro, brani chedimostrano quanto sia fervido l’immaginario di questi«pazzerelli» che giocano con i generi fino a creare unostile personalissimo. Certo, se cercate musica che sipossa anche canticchiare qua non ne troverete molta -per quanto alcuni spunti melodici se inseriti in un con-testo sonoro più «canonico» forse... - ma c’è di cherestare soddisfatti comunque. (r.pe.)

ROSARIO GIULIANILENNIE’S PENNIES (FDM Dreyfus)

7Altista virtuoso, dalla voce strumentale e dalfraseggio personalissimo, Giuliani si divedetra Italia e Francia. Qui ha avuto occasioni e

riconoscimenti nonché opportunità discografiche, lega-te al produttore Francis Dreyfus (di recente scompar-so). Il carattere e la maturità di Rosario Giuliani si sta-gliano subito nel titolo d’apertura che dà il nome all’al-bum: un’austera composizione di Lennie Tristano rilet-ta con la coolness dell’originale unita a un fuocoespressivo quasi travolgente. Sensibile e raffinato nelleballad, l’altista - insieme a un quartetto francoamerica-no - si muove con grintosa convinzione su 74 MilesAway di Joe Zawinul come in Picchi, rarefatto e penso-so brano originale dedicato alla moglie di Pepito Pigna-telli (per anni animatrice del club romano Music Inn).Un grosso calibro del jazz europeo. (l.o.)

ROMOLO GRANOHO INCONTRATO UN’OMBRA(Digisoundtracks)

8E per chi ha voglia di ritrovare il sound deglianni Settanta ecco che finalmente esce sucd la colonna sonora di Ho incontrato

un’ombra, mitico sceneggiato Rai della seria mistero egiallo insieme. Autore di queste stupende e imperdibilimusiche è il maestro Romolo Grano, uno dei composi-tori più interessanti della musica applicata agli sceneg-giati. Infatti, in questo caso, Grano, così come avevafatto per il più famoso Il segno del comando, costrui-sce la partitura su una serie di temi che si ripetono,recuperando la matrice sonora e melodica e creandouna hit che vendette come mai nella musica applicata:A Blue Shadow, che nella versione di un altro grandecome Berto Pisano, segnò un’epoca! Per chi non ènostalgico e ama il sound elettronico italiano. (m.ra.)

RONNIE HAWKINS & THE HAWKSRONNIE HAWKINS + MR. DYNAMO (Hoodoo Records/Egea)

7Dall'Arkansas, per scrivere pagine memorabi-li del rockabilly. Ma non solo. Come moltialtri della sua generazione, Presley in testa

dal cui genetliaco lo dividono solo due giorni e pocomeno di 400 miglia, deve molto a gente come SlimHarpo, Howlin' Wolf, Bo Diddley, gli eroi di Chicago emolti altri. Nei primi due dischi della sua carriera quiraccolti e che comprendono ventiquattro incisioni tra il1959 e il 1960, si trova la giustificazione di uno deisuoni nickname più noti Prof. of Rock'n'Roll. E tanta,davvero tanta african-american music. Il futuro poisappiamo cosa riserverà. Molta più gloria ai musicistibianchi che metabolizzeranno questi suoni (ascoltateClara, Diddley docet), piuttosto che ai loro colleghi. Maquesta è un'altra storia. (g.di.)

KODE9 AND THE SPACEAPEBLACK SUN (Hyperdub/Goodfellas)

7Il titolo dice già molto del secondo album diKode9 e Spaceape, visto che alla base dellaloro musica ci sono suoni oscuri con origini

calde. Il duo di stanza a Londra dà alle stampe un di-sco di bass music che può avere la tensione di un ritotribale e pochi istanti dopo quella di un paesaggio ur-bano notturno e ostile, con ritmi in movimento tra dube house. Ritmi e suoni dopati attraversati per giuntadalla voce robotica di Spaceape, vero e proprio elemen-to distintivo, non solo nel panorama della musica daibassi più penetranti. Il dubstep, per come lo abbiamoconosciuto, da queste parti sembra già passato e, consi-derato il fermento londinese, è una conseguenza natu-rale. (l.gr.)

RETINA.ITRANDOMICON (Flatmate/Family Affair)

8C'è qualcosa di primordiale e possente, nel-la corrusca musica elettronica dei Retina.it:mutatis mutandis, si potrebbe fare un para-

gone con certe avventure teutoniche da «futuro remo-to» dei Can, dei Faust, o, per avvicinarsi al presente, alsenso di impaurita meraviglia che distillano i nordiciSupersilent. Il duo pompeiano attivo da un trentennio(Lino Monaco e Nicola Buono) in Randomicon, tuttosuonato su synth modulari in gran parte autocostruiti,gioca con classe superiore sui timbri e sulle ritmiche, inuna scarnificazione essenziale (figlia del mai rinnegatoamore per la techno sperimentale) che riporta a unasorta di magnifico grado zero della musica. Non è uncaso che anche il trombettista Giorgio Li Calzi li abbiavoluti in Organum. Roba da specialisti veri. (g.fe.)

stefano crippagianluca diana

grazia rita di florioguido festinesemario gambaluca gricinella

guido micheloneluigi onori

roberto peciolamarco ranaldi

L E G E N D A

Giovanni Vacca

La canzone d'autore e il rock progressi-vo rappresentarono, in rapporto di op-posizione ma anche di completamen-to (proprio come sarebbe piaciuto aNietzsche), l'«apollineo» e il «dionisia-co» nell'esperienza musicale degli anniSettanta che, anche per questo, furonouna straordinaria stagione creativa. Aun cantautore simbolo di quel decen-nio, Leonard Cohen, e all'intero generedel «progressive», sono dedicati duelibri pubblicati dalla Giunti. Il primo èla biografia di Cohen, Una vita di Leo-nard Cohen, di Ira B. Nadel (pagg. 320,20 euro). L'autore, professore di Lin-gua e Letteratura inglese alla Universi-ty of British Columbia, ha già scritto suEzra Pound e James Joyce e seguescrupolosamente le vicende dell'artistafino al 1997 (anno di pubblicazionedell'originale in inglese, ma un paio dipostfazioni aggiornano gli eventi). Neescono fuori i molti aspetti della com-plessa personalità del cantautore cana-dese, in una lunga parabola che lo ve-de trasformarsi da scrittore in rockstar,senza mai abbandonare la letteratura,tra successi e depressioni, vagabondag-gi e zen: tutto l'armamentario, insom-ma, di un bohémien borghese che sirispetti. Si narra anche delle sue passio-ni giovanili per la sinistra radicale ame-ricana («ma non sono mai uscito dame stesso», ammise), della sua amici-zia con Dylan e del sostegno dato allostato di Israele durante la guerra delloYom Kippur, con le esibizioni per i mili-tari impegnati nel conflitto. Di Cohen,che ha oggi quasi ottant'anni ed è sta-to reinterpretato in Italia da FabrizioDe André (Suzanne, Giovanna D'Arco,

Nancy), Nadel sottolinea alcuni ele-menti (il simbolo del fuoco, la dimen-sione mitica in cui vivono molti suoipersonaggi) importanti per la compren-sione della sua opera poetica, che sfu-ma e si confonde con quella di autoredi canzoni e cantante.

The Prog Side of the Moon (pagg. 239,illustrato, 22 euro), di Cesare Rizzi, èinvece una rassegna praticamenteesaustiva della scena progressive bri-tannica e tedesca. Accanto ai «classici»del genere (Genesis, Yes, King Crim-son, JethroTull, ecc.) viene dettagliata-mente presentata la cosiddetta «scuo-la di Canterbury» con tutti i suoi alfieri(Soft Machine e Wyatt, Gong, Caravan,Camel, tra i tanti) e grande spazio èdedicato al rock sperimentale tedesco(«alle porte del cosmo che stanno suin Germania», cantava in quegli anniEugenio Finardi), con Popol Vuh, Tan-

gerine Dream, Klaus Schulze, Kraftwe-rk, Amon Düül e Ash Ra Tempel. Man-cano gli italiani, inseriti in un preceden-te volume dello stesso autore (Progres-sive & Underground, sempre per la Giun-ti) e di cui questo lavoro, unica peccail titolo non proprio brillante, si ponecome completamento. Una sezione aparte è poi dedicata alle etichette indi-pendenti, che in quell'epoca lanciaro-no il genere applicando nuove e spre-giudicate strategie manageriali. Il librodi Rizzi, però, è soprattutto da guarda-re, per l'enorme spazio che il progressi-ve diede alla grafica delle copertineche mai come in quel periodo diventa-rono veri e propri feticci (e il cui uso,se lo ricorderà chi c'era, partiva dal-l'apertura del cellophan e comprende-va non solo la lettura dei testi e la con-templazione delle immagini ma siestendeva fino agli odori del cartone edella stampa).

ULTRASUONATI❙ ❙ B O O K N O T E ❙ ❙

Poeti sulla luna.Il lato oscurodi Leonard Cohen

OMAR SOSACALMA (Ota)

7Il pianista cubano sceglie - ed è la quintavolta - la dimensione dell’improvvisazioneper piano solo: acustico, Fender Rhodes con

elettronica e campionamenti (il tutto registrato rigorosa-mente dal vivo, seppur in studio, senza sovraincisioni).Quando Sosa si propose - era il 1997 - la sua musica eraquasi ossessivamente poliritmica, impegnata a connette-re in una dimensione spesso collettiva i linguaggi delladiaspora nera, con risultati di travolgente efficacia. Con ilpassare degli anni e delle esperienze Sosa si è domicilia-to nell’area del Mediterraneo, ha messo su famiglia eintrapreso un percorso che , senza rinnegare il passato,lo porta a esplorare attraverso la musica l’interiorità. Inpiù ha accentuato l’aspetto melodico-timbrico della suaproduzione. Da sempre devoto agli Orisha, il pianistaafrocubano indugia in Calma su tempi lenti, lavora sullerisonanze (musicali ed emotive), distilla sonorità ampiee pastose, che tendono a trasformarsi in colori dallepennellate ampie. Sosa parla di riflessione, intimità, spe-ranza, ottimismo, pace: non è, però, la sua una ritiratadal mondo quanto un’autodifesa, una sorta di «ecologiasonora». (l.o.)

L/O/N/GAMERICAN PRIMITIVE (Glitterhouse)

8La «lunghezza» messa tra le barre sta a indicare otto anni. Otto anni incui Chris Eckman, l'uomo che ha inventato i Walkabouts e mille altrigruppi «laterali», sempre al confine tra finezze art rock e solidi richiami

«roots» nordamericani, ha avuto modo di trovare un compagno di suoni, di atmo-sfere, di ricerca imprevedibile: Rupert Huber, nome facilmente riferibile all'elettro-nica, ai beat metronomici, alle hit riempipista dei Tosca. Tutta un'altra storia, inve-ce: perché quando Eckman ha cominciato a fare lunghe session con il bavarese ha

scoperto che era un ottimo pianista, un certosino conoscitore della musica «classica», un curioso a tutto campo. E cosìil tempo è passato, tra incontri fisici e scambi di file via internet. È andata a finire che, a giochi fatti, Eckman s'è trovatoa maneggiare l'elettronica, e Huber gli strumenti acustici, e viceversa, in un gioco di specchi che non ha lasciato tracciain questa musica «americana primitiva», ironico gioco a rintracciare le piste originarie in quei settantotto giri che i colle-zionisti cercavano come tesori nascosti nelle pieghe degli States. Chissà se un giorno, tra cent'anni, anche questesplendide, oscure, a tratti lampeggianti dieci tracce saranno oggetto di caccia al tesoro. Probabilmente sì. (g.fe.)

Page 17: Alias supplemento del Manifesto 14/05/2011

ALIAS N. 19 - 14 MAGGIO 2011 (17

Nell’ottobre 1975,

a poche settimane

dalla morte,

Pasolini

si sottopone

all’obiettivo

di un giovane

fotografo, prima

nella casa

di Sabaudia, poi

in quella di Chia:

e qui il servizio,

che lo ritrae nudo,

ha un giro di vite.

Sfogliamo

quell’album-calco

ora ripubblicato

di Emanuele Trevi

Poche idee morali sembrano giuste e necessarie come quella chesuggerisce di vivere ogni giorno come fosse l’ultimo. Scacciando via da sé,dunque, come una fastidiosa menzogna, l’idea di possedere un futuro, unaserie indefinita di assi nella manica da calare sul tavolo della sorte. Dell’uo-mo che si affranca da questa illusione, si può dire che si è riappropriato inte-ramente della propria umanità. Haaccettato da caricarsene tutto il pe-so sulle spalle, senza attenuanti esenza consolazioni. Perché se è ve-ro che il divenire è qualcosa che ac-cade nel tempo, è altrettanto veroche solo il presente può renderlo vi-sibile, e reale. È forse questo il moti-vo profondo per cui il tipo particola-re di nobiltà d’animo che traspiradai ritratti di Pier Paolo Pasoliniscattati da Dino Pedriali è quello dichi non fa nessun conto sul tempoche gli rimane. Tra la seconda e laterza settimana dell’ottobre 1975quel tempo è veramente ridotto apochi giorni. Ma né il grande scritto-re, che ha cinquantatré anni (e dun-que, né vecchio né giovane, è pro-prio nel mezzo dantesco della vita),né il fotografo, che ne ha ventiquat-tro, possono saperne qualcosa. Nonc’è nulla, in questo stupendo servi-zio fotografico, che assomigli a unpresentimento, che alluda a una ca-tastrofe imminente. Semmai, quel-la che Pedriali riesce a far vedere èuna condizione irreversibile di soli-tudine: l’essersi spinto di Pasolini inun territorio dove nessuno dei suoisimili potrà più fargli compagnia.

Sfogliare la ristampa dell’opera diPedriali (Pier Paolo Pasolini, Johan& Levi Editore, € 27,00) è un’espe-

rienza di rara intensità. All’inizio cre-diamo di guardare una serie di im-magini. Ma a partire da un certopunto, ci accorgiamo che è un rac-conto quello di cui, sempre più am-mirati e sconcertati, tentiamo di de-cifrare la trama, di interpretare il fi-nale. E dire che l’incontro tra il gran-de poeta e il giovane fotografo, desti-nato a produrre conseguenze cosìimportanti, era nato sotto il segnodella casualità e della reciproca diffi-denza. Ma non è forse vero che piùl’incontro è importante, più si erapartiti da lontano? Non tutto è chia-ro, nella storia di questo rapporto.Non a caso Walter Siti ne ha trattol’ispirazione per un racconto (l’ulti-mo della Magnifica merce) per nullapreoccupato di verità oggettive. Epiù recentemente, Marco Belpolitiha dedicato a Pedriali e alle sue fotoun intero capitolo del suo Pasoliniin salsa piccante, dove formulaun’interpretazione molto ricca ecoinvolgente, soprattutto nel ritrat-to di un Pasolini terminale, al quale,dopo che «i corpi dei ragazzi sono di-ventati brutti», è rimasto «solo il suocorpo». Ma andiamo con ordine. Imesi che precedono l’assassinio so-no fitti di eventi importanti nella vi-ta di Pasolini, e nella sua vicenda ar-tistica. In primavera, escono gli Scrit-ti corsari, mentre Pasolini continuaa lavorare sia alle Lettere luterane,sia alle recensioni di libri poi raccol-te in Descrizioni di descrizioni. A feb-braio, aveva iniziato a girare Salò.Qualche mese dopo, il furto di unaparte della pellicola gli porrà seriproblemi di montaggio. Il posibiletentativo di recuperare queste «piz-ze» rubate (magari pagando un ri-

scatto) è stato messo in relazionecon l’assassinio di Pasolini in manie-ra abbastanza convincente. Salò èanche l’occasione immediata dell’in-contro di Pasolini con Pedriali, checonosceva Man Ray, del quale Paso-lini voleva utlizzare il famoso ritrat-to di Sade per la locandina del film.Ma questo pur sommario resocontonon può omettere il lavoro a Petro-lio, iniziato tre anni prima, nel qua-le Pasolini pensava di rimanere invi-schiato per il resto della vita. Allasua morte, i frammenti di questogrande libro, tra appunti schematicie sezioni più estese e rifinite, am-monteranno a poco più di cinque-cento pagine dattiloscritte sulle due-mila progettate. Ma anche nel casoin cui fosse stato terminato, Petrolioavrebbe dovuto conservare l’aspet-to di un enorme frammento, diun’edizione critica di un testo inedi-to privo di una versione definitiva.Tutte queste cose, apparentementemolto distanti da un servizio fotogra-fico, finiranno per imprimere una di-rezione e un significato del tutto im-previsti al lavoro di Pedriali, ignarodel campo di forze nel quale, arma-to della sua Nikon, sta per inoltrarsi.

Un primo gruppo di fotografie vie-ne scattato a Sabaudia, sia nella casache Pasolini possiede assieme a Mo-ravia e Dacia Maraini, costruita sulledune della spiaggia, sia per le vie delpaese, rivestite dei marmi e dei tra-vertini dell’archiettetura fascista, esul ponte che attraversa la laguna. Al-cune foto di questo primo gruppo so-no senza dubbio molto belle, ma se illavoro di Pedriali fosse finito qui, benpoco ci sarebbe da dirne. Passatoqualche giorno, Pedriali e Pasolini si

danno un nuovo appuntamento, di-retti questa volta a Chia, un piccoloborgo nella campagna di Viterbo. Lìc’è un’altra casa, che Pasolini ha rica-vato da una torre medievale circon-data da un fiabesco paesaggio di bo-schi, dirupi, torrenti selvaggi. Ed èqui che si verifica quel giro di vite checonferisce al servizio di Pedriali lasua straordinaria efficacia narrativa.

All’origine del mutato clima psico-logico, che le immagini testimonia-no in maniera così evidente, c’èun’idea che Pasolini confida a Pe-driali: le sue fotografie non dovran-no apparire su giornali e riviste, per-ché diventeranno una parte inte-grante di Petrolio. Per capire in chesenso, basterà leggere quella letteraad Alberto Moravia che nel roman-zo incompiuto svolge la funzione diun’estrema dichiarazione di poeti-ca, dove Pasolini confessa all’amicoche, stanco di indossare le vesti del«narratore convenzionale», ha deci-so di parlare al lettore direttamente,senza nessuna mediazione retorica– «in quanto io stesso, in carne ed os-sa». Imprimendo in tal modo, sullalingua dell’ultima opera, una pres-sione che equivale a un calco, aun’impronta rivelatrice. Ed è l’imma-gine di questo essere umano «in car-ne ed ossa», al limite delle sue possi-bilità di realizzazione individuale,che Pedriali, con un’empatia chesoccorre la scarsa esperienza, si inca-rica di catturare nelle sue foto. Conun’emozione indefinibile, che cre-sce a ogni pagina, noi assistiamo aquesta straordinaria metamorfosiche non è altro che un ritorno a ca-sa, un definitivo riappropriarsi di sé.Ecco Pasolini al tavolo di lavoro, un

grande ripiano sgombro, mentrecorregge a penna un dattiloscritto. Eancora, accucciato per terra, mentredisegna a carboncino e a china, sugrandi fogli sparpagliati attorno alui, il profilo di Roberto Longhi (e imaestri coinvolti nell’omaggio sonodue, perché il ritratto di Longhi chePasolini copia è quello che apparesulla custodia del «Meridiano» cura-to da Gianfranco Contini, Da Cima-bue a Morandi).

Ma arriviamo, finalmente, all’ulti-mo, splendido capitolo di questastoria. È notte, e Pedriali è uscitodalla casa, mentre Pasolini, nella ca-mera da letto, si mostra totalmentenudo allo sguardo di qualcuno che,da lì fuori, sembra spiarlo oltre il ve-tro della finestra, dove si stampanoi riflessi degli alberi. Magro e musco-loso, col grande cazzo che gli pendefra le gambe, il poeta legge un libro,seduto su una sedia accanto al lettoo disteso sulla trapunta bianca.Sembra non possedere un’età, opossederle tutte simultaneamente.Per un po’ fa finta di non accorgersidi essere guardato. Ma poi, il giocogli viene a noia, e comincia anchelui a guardare oltre il vetro, versoquella che è la nostra posizione. Siè alzato in piedi adesso, e sembrache faccia fatica a distinguere qual-cosa nel buio della notte. Sono qui,sembra dire, sono qui adesso, e que-sta lama a doppio taglio, questo es-sere guardati che è anche l’ultimaoccasione di guardare, è tutto ciòche resta. E non c’è rischio più gran-de di quello che corre chi accetta diessere nient’altro che se stesso, «incarne ed ossa», come un animale,un dio, un condannato a morte.

Pasolini a Chia (Viterbo), nell’ottobre 1975,in uno degli scatti «definitivi» di Dino Pedriali

■ L’ULTIMO PASOLINI NELLE FOTOGRAFIE DI DINO PEDRIALI ■

L’impronta rivelatrice

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BERSAGLII N L I B R E R I A

I Caraibi high browdell’esordiente Kincaid

di Caterina Ricciardi

Con scadenze misurate dal 1997al 2008 – quattro romanzi e Unposto piccolo, l’esile saggio al ve-triolo sulla corruzione neocolonia-le della sua isola di origine –, Adel-phi, promotore in Italia di JamaicaKincaid (alias Elaine Cynthia Pot-ter Richardson, classe 1949), ègiunto infine a mandare in libreriaIn fondo al fiume (traduzione di Mi-rko Esposito, cura editoriale diFranca Cavagnoli, «Piccola bibliote-ca», pp. 96, € 10,00), il primo librodella scrittrice di Antigua, e prolo-go necessario a inquadrare la suaopera successiva, in special modoAnnie John (1985, non ancoratradotto) e lo splendido Autobio-grafia di mia madre (1997). Matu-rati nell’ambito del «New Yorker»,dove negli anni settanta la neoimmigrata (come ragazza au pair)si era conquistata un ruolo nellarubrica «Talk of the Town», i dieciracconti di In fondo al fiume nel1983 assicurarono a Kincaid unfortunato battesimo nel mondodelle lettere high brow. E non atorto. «Questo libro canterà sulvostro scaffale», scrisse allora De-rek Walcott, nonostante l’’alterità’per i più della materia trattata (fral’altro così poco da «New Yorker»)e le difficoltà poste da una scrittu-ra personalissima, e da una gestio-ne della forma breve fuori delleconvenzioni. Al punto che sembraquasi pretestuoso parlare in que-sto caso di racconti in senso stret-to, perché le dieci memorie – odivagazioni poetiche – vanno acomporre la storia di un’educazio-ne al mondo dei Caraibi, più odia-to che amato, verso cui l’atto adul-to del rifiuto (lo hanno fatto inmolti negli ultimi decenni) nonimpedirà alla linfa nativa di conti-nuare a ribollire nel sangue.Dipanandosi contro un paesaggiosocialmente diseredato, lussureg-giante in eccesso negli sfondi natu-rali e minaccioso nei substrati arca-ni, dopo l’autoritario ’introito’ inti-tolato Bambina, un decalogo sucome svolgere mansioni femminili(«guarda come si prepara un pep-per pot»), come osservare tabù(«non tirare sassi ai merli, potreb-be non essere un merlo»), e giusticomportamenti («guarda come cisi comporta in presenza di uominiche non ti conoscono bene, pernon farti riconoscere subito perquella zoccola che ti ho avvertitodi non diventare»), e su come im-parare pratiche utili («guarda co-me si prepara un buon rimedioper buttar via un bambino primache diventi un bambino»), il rac-conto confessionale di Kincaid sigenera da una scenografia menta-le capace di esprimersi solo nellemodalità dell’onirico e del visiona-rio, entrambi custodi del rapportoconflittuale con il (simbolico) ma-terno da un lato e dall’altro (maforse si tratta della stessa entitàpsicologica) con il misterioso re-taggio culturale dell’Arcipelago,che conservava negli anni cinquan-ta la sua ibrida, e unica, identitàantropologica.È soprattutto nella notte che siscandisce il tempo dell’iniziazione,il tempo in cui i suoni inquieti del-l’isola vengono assorbiti da un dor-miveglia infantile: «C’è il suono diuna radio in lontananza – un pe-scatore che ascolta musica meren-gue. C’è il suono di un uomo che

geme nel sonno; c’è il suono diuna donna nauseata dai gemitidell’uomo. C’è il suono dell’uomoche accoltella la donna, il suonodel sangue che cade sul pavimen-to, il suono di Mr. Straffee, il bec-chino, che porta via il corpo. C’è ilsuono dello spirito che ritorna daimorti, e guarda l’uomo che alloragemeva; lui avrà per sempre lafebbre». Ecco come si imbastisceun intreccio alla Kincaid. Qui c’èuna storia in sottotraccia (con tan-to di zombie), costruita da unascarna fraseologia che affida il suoschema narrativo al suono incanta-torio di ritorni lessicali e sintatticiamplificanti. Dopo il decalogo ma-terno dell’esordio, Nella notte in-troduce a un sommerso psico-so-ciologico e amniotico. Difficile sfug-gire alla rete dei Sargassi per chi,condizionato dal gender, la pellenera, e la memoria della schiavitù,a quel retaggio deve l’umiliazionedella propria storia etnica e perso-nale (gli anatemi di Kincaid control’Inghilterra sono ben noti). Il riscat-to s’intravede quando il giovanesoggetto femminile riconosce nelfolklore ancestrale (l’obeah, e al-tro) forme di potere alternativo.Non si sfugge, per esempio, al fa-scino del/della jablessé, demonia-ca creatura, medusèa e metamorfi-ca: «È una persona che può trasfor-marsi in qualsiasi cosa. Ma si capi-sce che non sono reali dai loroocchi. Gli occhi sono accesi comelampade, così brillanti che nonpuoi guardare. Ecco come si capi-sce che è un jablessé (…). Staiall’erta quando vedi una bella don-na. Un jablessé cerca sempre diassomigliare a una bella donna».L’ambiguità del jablessé si affermain Kincaid come l’energia del fem-minile primordiale: «Gli uominiche svuotano latrine vedono unuccello che cammina fra gli alberi.Non è un uccello. È una donnache si è appena tolta la pelle e vaa bere il sangue dei suoi nemicisegreti». Jablessé è il potere ser-pentino del materno: «Mia madresi tolse i vestiti e si spalmò su tut-to il corpo un olio denso e dorato,ottenuto dal fegato di alcuni rettilicon il gozzo che aveva sciolto po-co prima in una padella rovente.Sulla schiena le venne una coraz-za di squame color metallo». Ja-blessé contribuisce alla bellezzadella negritudine in Nerezza («Co-me è morbida la nerezza mentrescende»), il color notte della pelleumana capace di cancellare il sog-getto ma anche di fonderlo con la«vastità della materia che fluiscelibera», e di spogliarlo infine delsuo «mantello di odio» (per la tra-gedia coloniale).La sospensione del rancore segnal’inizio del recupero della dignitàdella razza e del femminile, unrecupero perfezionato in In fondoal fiume, l’ultimo atto, tutto in ap-nea, di questa educazione caraibi-ca: «Rivendico queste cose allora –sono mie – e adesso sento che stodiventando solida e completa, ilmio nome mi riempie la bocca».Certezze non ricevute ma conqui-state, che hanno portato Kincaidper le strade del mondo. MentreAntigua è lasciata al turista al qua-le, ora sappiamo, conviene stareall’erta quando vede una belladonna del posto. Non si sa mai,potrebbe essere una jablessé.

GALGUT

■ «IN UNA STANZA SCONOSCIUTA» DI DAMON GALGUT ■

Lo spreco conoscitivodi un’utopia mobile

di Carlo Mazza Galanti

Quello di recensire li-bri sarebbe un me-

stiere piuttosto ingrato, abbastan-za monotono, se nella quotidianaperegrinazione attraverso il preve-dibile paesaggio delle «novità»non capitasse ogni tanto, rara-mente, d’imbattersi in qualchebene prezioso, in libri che valgo-no da soli la fatica di leggerne mol-ti altri. In questi casi l’indubbio,inconfondibile accadere della let-teratura – di quella che davveroconta – ripaga il perplesso consu-matore di prodotti occasionali.Qualcosa s’impone, e tutto il re-sto cade in secondo piano. Se siparlasse soltanto di libri simili cre-do basterebbe una minuscola per-centuale delle informazioni oggifornite da terze pagine, riviste,blog, siti d’informazione cultura-le, eccetera. Quella sfera in conti-

nua espansione di discorsi, pro-mozioni, dibattiti che, un po’ co-me la famosa mappa borgesianain scala 1:1, tende a neutralizzarela naturale funzione della criticagiornalistica e militante. Ovveroorientare, selezionare, dividere ilgrano dal loglio.

Tutto questo solo per segnala-re Damon Galgut come uno diquei rari scrittori che non cono-scere sarebbe un vero peccato.Uno di quelli che, appunto, s’im-pongono. I suoi libri bastano a sestessi: indicarli è semplicementeil minimo, e forse anche il massi-mo, che un critico letterario po-trebbe e dovrebbe fare. E anzi, vo-lendo essere ancora più tran-chant, a dover scegliere un «TQ»(per dirla con una sigla all’ordinedel giorno) nell’intera area dellaletteratura in lingua inglese, Gal-gut sarebbe senz’altro tra i mieiprincipali candidati. Molto primadi Franzen, di Coe, di Eggers e dialtri campioni con il posto eterna-mente garantito nelle vetrine del-

le librerie e sulle prime pagine deigiornali.

Tra gli autori sudafricani dellagenerazione successiva a quelladi Coetzee e Breytenbach, quellodi Damon Galgut – nato nel 1963e già autore di una decina di ope-re abbondantemente premiate eapprezzate in giro per il mondo –è in effetti il nome che viene fuoripiù spesso. Da noi sono stati tra-dotti solo un paio di romanzi perGuanda (tra cui Il buon dottore,un libro splendido, evidentemen-te riconducibile al filone più«kafkiano» di Coetzee, ma senzanulla di epigonale), e quest’ulti-mo pubblicato da e/o. Diversa-mente dai suoi libri precedenti,In una stanza sconosciuta (tra-duzione di Claudia Valeria Leti-zia, pp. 210, € 18,00) non contie-ne nessun riferimento alla condi-zione politica, sociale, culturaledel paese dove lo scrittore è natoe cresciuto. Si tratta di un roman-zo autobiografico composto ditre racconti lunghi ma organici,

omologhi, che nel giro di pocopiù di duecento pagine ci fannoletteralmente attraversare il pia-neta terra: dallo Zimbabwe all’In-ghilterra, dalla Svizzera all’India.Mesi e mesi di spostamenti, mi-gliaia di chilometri, decine di pae-si: eppure confinare questo testonel pur vasto e poroso reparto del-la letteratura di viaggio rischiereb-be di mancarne completamentela qualità specifica. O almeno, sedi letteratura di viaggio si tratta,abbiamo a che fare con un esem-plare del genere assolutamenteoriginale. Galgut, come Chatwin,viaggia perché non può farne ameno, perché qualcosa d’impera-tivo e d’irresistibile lo obbliga alnomadismo, a fare lo zaino e la-sciare il proprio mondo per un al-tro dai contorni sconosciuti (o«strani»: In a strange room è il tito-lo originale del libro – citazionefaulkneriana tratta da As I LayDying).

L’Altro di Galgut, tuttavia, nonha nulla a che fare con la specifici-tà dei luoghi e delle culture incon-trate. È impressionante la supre-ma noncuranza «conoscitiva» del-lo scrittore, quasi lo spreco verreb-be da dire. I paesaggi restano lon-tani come splendidi fondali, i co-stumi, le genti, la politica dei pae-si attraversati sono del tutto as-senti: appena qualche tratto, piùche altro accidentale, sfuggitoquasi suo malgrado alla pennadel narratore. Galgut, come giàha dimostrato in passato, è un abi-lissimo illustratore di rapporti, in-contri, combinazioni relazionali.Ma rapporti, incontri, relazioniappaiono adesso strappati a qual-siasi indice culturale, radice stori-ca o funzionale, liberati di tuttociò che non sia il semplice e in-controvertibile fatto umano didue individui a confronto. Con-fronto che nell’esperienza delviaggio e in particolare del viaggia-re insieme (i protagonisti di que-sti racconti sono proprio i viaggia-tori che accompagnano Galgut)assume una dimensione tanto ri-schiosa quanto paradossale: qua-si il partire, l’abbandono dei luo-ghi famigliari, invece di «aprire»isolasse le persone in una sorta dimondo parallelo. Il viaggio, inte-so come «utopia mobile», eserci-zio di deprivazione, spoliazionedi qualsiasi eredità simbolica (e lascrittura estremamente asciuttadi Galgut ne testimonia, splendi-damente) è allora occasione persublimare l’essenza chimica deirapporti, la loro nuda meccanicaevoluzionistica, al di fuori di pre-testi e contesti, liberando l’avvi-cendarsi dei temi intimi, dei mo-tori immobili dell’interiorità, do-ve psicologia diventa sinonimo didestino e la sua rappresentazionenarrativa si espande nel dominiorarefatto dell’allegoria. «Il segua-ce», «l’amante», «il guardiano»: so-no i titoli dei tre momenti chescandiscono il romanzo, tre mo-dulazioni essenziali dello stare in-sieme (il potere, l’amore, la cura),tre personaggi/emblemi che ilnarratore riconosce in sé e nell’al-tro, o meglio nello spazio tra idue: uno spazio tutto interno allavoce narrante, che perciò oscillacontinuamente tra prima e terzapersona. Elemento stilistico, que-st’ultimo, assai caratterizzante,gestito e valorizzato benissimo daGalgut e in qualche modo legatoanche al ruolo che investe la me-moria nella ricostruzione narrati-va del tempo trascorso. Raccontooggettivo e soggettivo, Io passatoe Io presente: confusi o alternatinel gioco dei punti di vista. Comenell’ultimo libro di Coetzee (Sum-mertime), l’autobiografia diventaun esercizio di spossessamento.La sincerità un obiettivo difficileda cercare al di fuori di sé.

Mesi e mesi di spostamenti, decine di paesi visitati: ma paesaggi,

costumi e politica sono spogliati di ogni indice culturale. Per lo scrittore

sudafricano viaggiare è soprattutto relazionare il proprio io con l’Altro

Ina van Zyl, «Achille’s Heel», 2006,L’Aja, Gemeentemuseum Den Haag

18) ALIAS N. 19 - 14 MAGGIO 2011

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■ «LA DONNA SULLA LUNA», UN’ANTOLOGIA PER LA SCOZZESE CAROL ANN DUFFY ■

Il poeta laureato è lesbicaBERSAGLI

P O E S I A

GABRIEL FERRATER,MEMORIE ED EROSDI UN CATALANOdi Stefano Zangrando

di Viola Papetti

Un’antologia di poe-sie che raccolga autori affini percontagio poetico o che provenga-no dalla stessa piccola patria oche abbiano scritto nel medesi-mo arco di tempo, è accettabileanzi godibile. Dunque, ricchezzae voluttà delle antologie di poetiper cui diventiamo degustatori senon proprio giudici della loro qua-lità, confrontando un poeta conl’altro, e stilando classifiche a no-stro piacere. Ma non è questo ilcaso di un’antologia di un poetavivente, per giunta poco conosciu-to in Italia. Il collage di testi sceltidai curatori è spesso surreale: quiun naso, là un piede, a margineun orecchio. Si sente il bisogno al-meno di una sua foto per guardar-lo negli occhi, di un’intervista perquanto banale, di sapere almenoquanti amanti ha avuto, e figliecc. ecc. In fondo il signor Testo èpur stato partorito dalla testa ap-punto di un essere umano e si ri-volge a noi in quanto partecipidella stessa umanità, anche senon della stessa lingua.

Questo a proposito dell’antolo-gia di poesie scelte di Carol AnnDuffy, La donna sulla luna (a cu-ra di Giorgia Sensi e Andrea Siroc-chi, testo inglese a fronte, Le Lette-re, pp. 195, € 19,00), arricchito diinformazioni biografiche e biblio-grafiche. Di Duffy – da non confon-dere con Maureen Duffy, anchelei poetessa e lesbica – era già usci-to nel 2002, sempre presso Le Let-tere e curato sempre da Sensi e Si-rocchi, La moglie del mondo(1999), una serie di monologhi dipersonaggi femminili, spesso mi-tologici, mogli figlie amanti di uo-mini celebri. Spiritosi, paradossa-li, raramente romantici, spesso ir-resistibili come quelli di Frau

Freud, Anne Hathaway, QueenKong, Little Red-Cap. Quest’ulti-mo è l’autoritratto di Duffy stessa,vigoroso Cappuccetto Rosso sedi-cenne, figlia di operai, che nel bo-sco – la gang degli intellettuali diGlasgow dove lei era nata nel 1955– incontra il Lupo, ossia AdrianHenri, uno dei Liverpool Poets diventitre anni, suo senior. Lui decla-ma versi con vocione lupesco, lazampa pelosa, la barba macchiatadi vino rosso, una stagione dopol’altra le stesse facili rime, gli stessibislacchi ragionamenti. Lei loascolta e impara, e per dieci anniresta nella sua tana. Nel 1977 pub-blicano insieme Beauty and the Be-ast, in cui si prevede un finale ca-povolgimento dei ruoli: lei, diven-tata la Bestia, con la sua accetta vi-rile abbatte la Bella, verseggiatricemonotona, e esce dalla foresta,con i suoi fiori, cantando, tutta so-la (Little Red Cap).

Adrian Henri (1932-2000), insie-me a Roger McGough (1937-) eBrian Patten (1946-), sono cono-sciuti come The Mersey Sound daltitolo del Penguin Modern Poets 10del 1967, che raccoglie buona par-te delle loro poesie, lette o megliocantate o agite nei pub e nei coffeebar della Liverpool degli anni ses-santa. Il loro pubblico erano i ra-gazzi che andavano ai concertipop, i comportamenti e i temi era-no quelli quotidiani (sesso, guerradel Vietnam, i Beatles, Liverpool enon Londra, le droghe di moda).Erano performer, come Hopkinsavrebbe voluto fossero tutti i poe-ti. La performance poetry, con ilsuo linguaggio demotico, irrisorioe l’impatto fisico dei poeti-attoritrionfava nella provinciale Scozia,mentre a Londra i poeti del Move-ment leggevano compostamente iloro testi ai microfoni della Bbc esubito li pubblicavano. A Roma,dai microfoni del Terzo Program-ma, Manganelli traduceva e com-mentava quei poeti: Alvarez, Amis,

Conquest, Fuller, Gunn, Hill, Hu-ghes, Larkin.

All’università invitammo i tre Li-verpool Poets che si scatenaronopazzamente nell’aula affollatissi-ma ed eccitata. Per noi tutti fuun’esperienza insolita: per la pri-ma volta la poesia ci arrivava contanta energia e semplicità, senzaaura. Il romantico lupo AdrianHenri recitò Love is, venti versi eventi ripetizioni del titolo, eWithout You, trenta ripetizioni deltitolo che ritorna a conclusione.Sono i trucchi che i poeti orali han-no sempre praticato e Duffy pureli usa, ma con più sottigliezza,

quando vuol far salire la febbre delpubblico (Nome, Se fossi morta, As-senza, Risposta, Appeal e in altreoccasioni). Ama spesso iniziareuna poesia l’If di Kipling, poichécome lui essendo un buon cattivopoeta, deve aprire con autorità untema ad alto rischio, ed esplorarloin tutte le sue pieghe. «Se tu fossifatta di fuoco,/ la tua testa una Me-dusa selvaggia che sibila fiamma,/la lingua un attizzatoio incande-scente in gola,/ il cuore un piccolocarbone ardente in petto,/ le ditamarchi a fuoco vivo sulla carne,/se fossi acqua, se fossi fatta di ac-qua, sì, sì». E il crescendo finale:«Se tu fossi fatta di aria, se fossiaria,/ se tu fossi fatta di acqua, sefossi acqua,/ se tu fossi fatta di fuo-co, se fossi fuoco,/ se tu fossi fattadi pietra, se fossi pietra,/ o se tunon fossi niente di tutto questo senon la morte,/ la risposta è sì, sì».Ma il suo «If» è erotico, non didatti-co come quello di Kipling, né bef-fardo come quello di Cecco Angio-lieri, non riguarda né la morale, néla società, ma la donna amata, allaquale è riconosciuto un potere as-soluto di vita e di morte.

Certi critici non sono stati indul-genti con Duffy e le hanno rimpro-verato i difetti comuni ai LiverpoolPoets e ai loro discendenti: improv-visazione, sfrontatezza, sciatteria,trovatine spiritose, poesie da bered’un colpo e dimenticare subitodopo. Le hanno anche trovato tan-ti maestri. Browning per i monolo-ghi drammatici: ecco Cesare e Cle-opatra nell’intimità: «Sul suo let-to/ lei gli si stendeva sopra, lo truc-cava,/ gli sbaffava le labbra col ros-setto,/ la sua cipria gli arrossava labarba incolta,/ il turchese degli oc-chi sulle palpebre./ Lo sfidava, bic-chiere dopo bicchiere/ nelle garedi bevute …» (Bellissima) – nonstupisce che abbia scritto ancheper il teatro e la radio. Molte cita-zioni da scrittrici, Plath e Carter,specie nella rielaborazione di fia-

be, racconti e poesie per ragazzi, edai classici Shakespeare, Donne, eaggiungerei anche l’Hopkins deisonetti disperati che echeggia nel-l’ultima raccolta Rapture (2005),un lungo poema d’amore che vadalla piena felicità dell’inizio alvuoto della fine «Mi sveglio aun’ora cupa fuori del tempo, vadoalla finestra./ Non una stella inquesto cielo buio, nemmeno la lu-na, non un nome/ o numero perl’ora, né una scheggia di luce. In-spiro» (È finita). Il paesaggio avevabenedetto il tenero abbraccio de-gli amanti: «La pietà della primave-ra è qui, un addolcirsi dell’aria,/ laluce di un’ora più luminosa, il tem-po/ come perdono, concesso nelsussurrato colorarsi/ dei fiori, nelmantra della pioggia, sollievo, sol-lievo, sollievo» (Primavera). Il cor-po dell’amata è un gioiello chenon si vuole percepire con i sensi,ma che invece è visto pienamentein cielo, come astro: «La perla neradella pupilla/ montata nell’oro deltuo occhio –/ e non vedo/ il fruttoscuro del capezzolo/ maturo sultuo seno –/ e non sento/ la puntadella mia lingua/ bruciare nel-l’astro della tua bocca –/ e non av-verto/ il lieve battito del tuo polso/sotto il pollice – osservo invece/ iltransito di Venere/ sulla faccia delsole» (Venere).

Ormai Duffy è divenuta un poe-ta classico, studiata nelle scuole,acclamata nelle letture pubbliche,premiatissima persino dalla Natio-nal Lottery con una vincita di75.000 sterline. Donna, scozzese,lesbica, madre singola e felice di El-la, è stata finalmente nominata Po-et Laureate. Ma sul Poet Laureateha pesato il compito di celebrare ilmatrimonio di Kate e William: sela sarà cavata meglio che nellacommemorazione del tallone diAchille e di David Beckham, colpi-ti l’uno in guerra e l’altro duranteuna partita? Non sempre il mito sipresta in aiuto al postmoderno.

Dal 2004, quando apparve Il coloredel silenzio del ceco Jan Skácel, lacollana «Biblioteca di poesia» cura-ta da Massimo Rizzante per l’edito-re pesarese Metauro colma a ca-denza annuale lacune spesso im-perdonabili del nostro panoramalibrario proponendo antologie digrandi poeti stranieri del ventesimosecolo. Proseguita con Haroldo DeCampos, José Ángel Valente, Ta-deus Rózevicz e Jean-Jacques Vi-ton, l’impresa giunge oggi a propor-re il più notevole poeta catalanodel secondo Novecento, GabrielFerrater (Curriculum vitae Poesie1960-1968, pp. 273, € 20,00). Ilrischio, nel caso di quest’ultimo, èquello di restare affascinati dall’uo-mo a discapito dell’opera: nato nel1922, Ferrater fu «di un’intelligenzafolgorante e di una personalità allostesso tempo anarchica e disciplina-ta, tenera e narcisistica, spirito anti-romantico» – così la quarta di co-pertina, che riecheggia a sua voltauna testimonianza di Vargas Llosacitata nella Nota del curatore PietroU. Dini. Ma sono qualità compiuta-mente riscontrabili in quest’antolo-gia, che raccoglie componimentidai tre soli libri in versi scritti daFerrater in un arco di tempo relati-vamente breve, tra il 1958 e il1966, prima di dedicarsi agli studilinguistici. Già i titoli ne annuncia-no l’inclinazione antiretorica e sen-suale, dal catulliano Da nuces pue-ris – che Ferrater definisce «un pre-cetto etico… poiché si fa carico delfatto che ai bambini piacciono lenoci. È una frase che parla in favoredella felicità» – al carnalmente sur-reale Mangiati una gamba, fino aTeoria dei corpi, che ben riassumel’unione di eros e ferma lucidità cuii componimenti più tardi sono vota-ti, e all’allusione esiodea di Le don-ne e i giorni, il titolo con il qualeFerrater nel 1968 raccoglierà i lavo-ri precedenti. Vissuto in Francia eGermania, amante della poesiamedioevale e dei grandi inglesi etedeschi («Brecht è colui che perprimo mi ha fatto comprendereche la poesia può fare a meno dimolti lussi»), Ferrater si muove inbilico tra vocazione alla memoria etentazione dell’oblio, tormentatodal logorio dei ricordi esposti altempo e al linguaggio: «Posso ripe-tere la frase che s’è portata via / iltuo ricordo. Non so più nulla di te./ Questa insistente acqua di paro-le, / sempre crescente, va sgretolan-do i margini / della vita che credet-ti reale». E se i poemetti della pri-ma parte, che rievocano i tempiadolescenziali della guerra civile e iprimi anni della dittatura, sono ani-mati da un’etica volta per lo più afare i conti con un’epoca in cui «ilmondo / era pieno di responsabi-li», più avanti il rigore formale el’impulso prosastico rideclinanol’impeto morale e l’anelito di felici-tà nel canto appassionato e disillu-so delle figure femminili, dove lapluralità incarnata delle donneamate trova un vano contrappesonel «mito inaugurale: / Eva, dasMädchen: neutro puro. / Un facileessere mattinale: / due cosce, unsesso / e due piedini che calpesta-no prati». All’amico Jaime Salinas,Ferrater confidò che si sarebbe sui-cidato a cinquant’anni – «Non vo-glio puzzare di vecchio. Quel tanfomi ha sempre ripugnato» – e cosìfece il 27 aprile 1972.

DUFFYVigorosa

cappuccetto rosso

figlia di operai

di Glasgow (1955),

incontra il «lupo»

Adrian Henri

che la attira

nella tana

dei poeti-performer

di Liverpool:

ma lei li mescola

con la Plath

e la Carter,

Shakespeare

e Hopkins. Fino

a «laurearsi»

poeta ufficiale

del Regno Unito

La poetessa scozzese Carol Duffy

ALIAS N. 19 - 14 MAGGIO 2011 (19

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■ «IL SIGNOR CEVDET E I SUOI FIGLI»: TRADOTTO IL PRIMO ROMANZO (1982) ■

Cercando Mann a NishantashiIstanbul e il suo elegante quartiere di Nishantashi in un’epopea dell’Est e dell’Ovest

attraverso tre generazioni di una famiglia borghese: così il trentenne Orhan Pamuk

gettò le basi del suo mondo letterario guardando ai «Buddenbrook» e ai grandi russi

di Fabio De Propris

Arriva finalmente in Ita-lia il primo romanzo del premio No-bel turco Orhan Pamuk, Il signorCevdet e i suoi figli (traduzione diBarbara La Rosa Salim, revisione diSemsa Gezgin, Einaudi «Supercoral-li», pp. 683,€ 24,00), e la nostra sen-sazione è che il monumento unita-rio formato dalle sue opere si sia ar-ricchito delle sue fondamenta. Il te-

ma di Pamuk è, da sempre, la dialet-tica tra Oriente e Occidente nel suoPaese, una Turchia che ha unagrande estensione anatolica, ma hail suo centro a Istanbul, nell’elegan-te quartiere di Nishantashi, dovesorge il palazzo Pamuk, in una stan-za del quale c’è un tavolo su cuil’autore, con carta e penna, ha co-minciato a creare il suo mondo let-terario poco più che ventenne, do-po aver abbandonato il sogno di di-ventare pittore. In Istanbul (2003)Pamuk avrebbe raccontato la suainfanzia e la sua giovinezza fino al

1975. Dal ’74 al ’78 si era chiuso nel-la sua stanza a scrivere Il signor Ce-vdet e i suoi figli, pubblicato poi nel-l’82. Per paradosso, possiamo direche il romanzo giovanile cominciadove finisce Istanbul. Epopea del-l’Est e dell’Ovest vissuta in seno atre generazioni di una famiglia bor-ghese esemplata su quella dell’auto-re, esso si apre con il 1905, annoche prelude all’ascesa politica deiGiovani Turchi e alla fine dell’Impe-ro ottomano. Prosegue nel periodointorno al 1938, in cui si festeggia ilquindicennale della Repubblicafondata nel 1923, muore Atatürk esi addensano le ombre del secondoconflitto mondiale, per poi conclu-dersi nel 1970, poco prima del col-po di stato militare che ferisce sia leforze di sinistra, sia gli islamisti.

Le tre generazioni della famigliadi Cevdet, ricco commerciante mu-sulmano (in un’epoca in cui il com-mercio di Istanbul era in mano adarmeni, greci ed ebrei) abile negli af-fari ed estraneo alla politica, si succe-dono, nonostante la mole del ro-manzo, con grande velocità, comefotografate ciascuna a trent’anni didistanza. Nel capitolo «La notte e lavita» (I, 12), ad esempio, il trentaset-tenne Cevdet si chiede se sarà felicecon la sua futura sposa Nigân, timi-da figlia di un pascià fedele al sulta-no, ma grande bevitore ed economi-camente quasi al collasso. Poche pa-gine dopo Cevdet è già nonno, unpo’ svanito, e i figli Osman e Refik glirubano la scena. Al pacato Cevdet,

che, per essersi aggiudicato in esclu-siva la fornitura di lampade al Co-mune, si guadagnerà il cognome diIshikçi (‘L’Elettricista’, in traduzio-ne, ma sarebbe più chiaro‘L’Illuminatore’), si oppone il fratel-lo Nusret, impetuoso sostenitoredell’illuminismo (tutt’altra luce) edella rivoluzione francese; al solidoOsman si contrappone Refik, peren-nemente insoddisfatto, cui si affian-cano gli amici con i quali ha studia-to ingegneria all’università: Ömer,che si sente un conquistatore comeil balzacchiano Rastignac, e Muhit-tin, che invece è malinconico e brut-to, ama Baudelaire e vuole diventa-re un grande poeta entro i trent’an-ni, o altrimenti suicidarsi. Ziya, il ni-pote di Cevdet, un Ishikçi anche lui,ma inviso alla famiglia, declinerà ilsuo ruolo di «portatore di luce» di-ventando ufficiale dell’esercito (ri-suona forse nel suo nome quello delteorico nazionalista Ziya Gökalp).

Il romanzo, strutturato sulle op-posizioni caratteriali dei molti per-sonaggi, è un succedersi di dialo-ghi, anche interiori e non detti. Ben-ché le pagine dedicate a Cevdetnon siano molte, è giustamentesuo il nome che compare nel titolo,perché i suoi dialoghi con il fratelloe con il futuro suocero sono tra ipiù belli e significativi del testo. SeCevdet contiene in nuce la successi-va produzione dell’autore, la suaprima parte è la radice del suo svi-luppo futuro, quella cioè in cui ci sicomincia a chiedere «chi sono e co-

sa devo fare della mia vita». Questadomanda è un tema che musical-mente si sviluppa in infinite varia-zioni. La musicalità è sottolineatada ripetizioni ritmiche di parole econcetti (essere un Rastignac, suici-darsi, il conflitto per la provincia diHatay), o da riapparizioni di perso-naggi anche a distanza di centinaiadi pagine (caso limite: uno scono-sciuto Cenap Sorar, citato in un ba-nale articolo di cronaca a pag. 130,ricompare a pag. 613 come secon-do marito di una delle protagonistedella storia). La complessità sinfoni-ca della vicenda invita alla riletturadel modello, I Buddenbrook di Tho-mas Mann. Il quartiere di Nisantasirimanda a Lubecca, il commercian-te Cevdet al commercianteJohann, il Refik nervoso lettore del-le Confessioni di Rousseau al Tho-mas Buddenbrook consultatore in-soddisfatto del Mondo come volon-tà e rappresentazione di Scho-penhauer. Ma le somiglianze fan-no in ultima analisi risaltare unafondamentale differenza: il roman-zo di Mann racconta il declino diuna famiglia e di un mondo, quellodi Pamuk la sua ascesa, per quantotormentata e drammatica.

La parola centrale è perciònishan, ‘bersaglio’. Ogni personag-gio cerca di individuare il suo ed èdunque proiettato in avanti. Nel testo la parola ricorre in varicontesti, a riprova del maestoso controllo che Pamuk ha dellasua lingua e che talvolta nella traduzione italiana si scioglie inuna scorrevolezza facile e «amica del lettore», a cui si è del re-sto offerto un romanzo storico senza corredarlo di note, per-ché non si affatichi. Il cognome che (per legge, nel 1934) si èscelto Muhittin è Nishanci, perché il padre in guerra era ap-punto «bersagliere», fuciliere scelto. Ciò spiega la sua battutain uno dei tanti momenti di sconforto: sarebbe stato più giu-sto scegliere Nishancioglu, «figlio del bersagliere», visto chenon so cosa fare della mia vita (p. 327). I fidanzamenti, falliti o

a buon fine, che coinvolgono moltipersonaggi, rammentano che in tur-co l’anello di fidanzamento si chia-ma «anello del bersaglio». Infine varicordato che la villa di Cevdet, cen-tro ideale della vicenda, è nel quar-tiere di Nishantashi, che significa«pietra del bersaglio», perché i sol-dati ottomani andavano in quellazona, prima che divenisse residen-ziale, per esercitarsi al tiro. Se nontutti i personaggi, l’autore ha di sicu-ro centrato il suo obiettivo, collegar-si alla grande tradizione del roman-zo europeo, ma esplorando l’animadella nascente borghesia turca. Ol-tre che a Mann, Pamuk si è infattiispirato ai russi dell’Ottocento, rico-struendo ad esempio certe febbriliriunioni politiche in cui è coinvoltoMuhittin a partire dai Demoni do-stoevskijani, o donando al Refikaspirante riformatore del sistemaagrario l’afflato del Levin di AnnaKarenina (Refik è un Levin fallito).

L’operazione artistica trova inol-tre interessanti paralleli cinemato-grafici con il contemporaneo Fannye Alexander (1982), la grande saga fa-miliare in cui Ingmar Bergman riela-bora gli anni della propria infanzia,e Amore e guerra (1975) di Woody Al-len, omaggio parodico ma dolentea Guerra e pace. Come Allen e Berg-man, Pamuk prende come materia-le di base la propria vita interiore,pur strutturando la sua opera sumodelli preesistenti. Ne è prova Lavaligia di mio padre, il discorso pro-nunciato nel 2006 a Stoccolma in oc-casione del conferimento del No-bel: la dialettica tra Pamuk e suo pa-dre la troviamo già tra Refik e Muhit-tin, ovviamente modificata dall’arteromanzesca. E Pamuk stesso è intutti i personaggi di Cevdet, ma pla-tealmente è in Ahmet, il figlio di Re-fik, aspirante pittore nel 1970, chelegge il diario del padre senza capir-lo nell’intimo. Alla fine, però, «inascesa», al contrario di Hanno Bud-denbrook che muore di tifo e mettefine alla sua dinastia, entra nella suastanza e comincia a lavorare.

BERSAGLII N L I B R E R I A

CAMARGUE 1893,I MIGRANTI ITALIANIAL MASSACROdi Luca Scarlini

In tempi in cui l’Italia agita tutti isuoi fantasmi xenofobi è assaiutile la lettura della notevole ricer-ca di Gérard Noiriel, recentemen-te pubblicata da Marco Tropea: Ilmassacro degli italiani Aigues Mor-tes 1893 (traduzione di RobertaMiraglia, pp. 253, € 18,00). Lostorico francese ha lavorato a lun-go negli archivi per ricostruire lagenesi di uno dei più tremendiatti di razzismo compiuti in Euro-pa a fine Ottocento, che si svolsesullo sfondo incantato della Ca-margue, in un tempo in cui peròquella zona era soltanto luogo diemigrazione stagionale. Gli italia-ni (soprattutto piemontesi, maanche toscani) accorrevano con iloro «caporali», in gruppi serrati,per compiere un lavoro sfinentenelle saline, che permetteva lorodi vivere poi meglio per il restodell’anno. Come illustrava NutoRevelli nel suo Il mondo dei vinti(1977), ricostruzione del mondorurale tra Otto e Novecento, laforza fisica era il solo capitale sucui far conto. I migranti che veni-vano da Asti e da Cuneo eranoquindi abituati a dover dimostrareai loro padroni di avere una resi-stenza incredibile alla fatica e inbreve anche per questo si trovaro-no contro gli autoctoni, che recla-mavano un miglior trattamento,secondo le antiche tradizioni. Inun momento in cui il grande capi-tale usava il cottimo come regola,gli scontri tra gruppi nazionali era-no all’ordine del giorno. Noirielricostruisce molto bene il climaallucinato che prelude al disastro,in una sequenza di rancori. Il 17agosto 1893, il caldo malarico eraal suo apice alla Fangouse, di pro-prietà della potente Compagniede Salins du Midi e i «trimards», ilavoratori locali, dal mattino aveva-no fatto girare la voce per cui cisarebbe stata una dimostrazioneviolenta. I «Piemos», come veniva-no definiti con termine che volevaessere al massimo dispregiativo,oppure in langue d’oc estranjeïra-io, ovvero gli sporchi stranieri, co-me si legge in un poema politicodel tempo, dal sinistro titolo diAïgamorto, dovevano andarsene.Il bilancio di una giornata di mat-tanza, scatenata da una scaramuc-cia e gestita secondo una strate-gia di accerchiamento con la qua-si totale complicità degli abitanti(incluso il possidente Granier, chechiuse le porte della sua proprietàai fuggiaschi per paura di ritorsio-ni), fu pesantissimo. Ventidue tramorti e dispersi e quasi sessantaferiti, cui venne rifiutato soccorsonell’ospedale di Marsiglia. Il casodivampò sulla stampa italiana edesplose una crisi diplomatica gra-ve, mentre da più parti si parlavadi imminente conflitto. Il processoperò fu una farsa, con condanneminime e il paese si affrettò ascordare quel giorno di sangue,mentre da noi Francesco Crispiapprofittò della situazione pertornare al potere. Solo da pochianni una lapide ricorda nel paesedalle belle mura quell’episodiotremendo, che ispirò al sociologoÉmile Durkheim la formulazionedel concetto di anomia, per descri-vere l’epoca senza legge del liberi-smo selvaggio che produceva,insieme al nazionalismo, fruttiavvelenati e micidiali.

Immagine di copertinadella recente riedizioneturca del primoromanzo di Pamuk

PAMUK

20) ALIAS N. 19 - 14 MAGGIO 2011

Page 21: Alias supplemento del Manifesto 14/05/2011

■ «UN CUORE INTELLIGENTE»: NOVE LETTURE A TESI ■

Finkielkrauttempista affabile

Da Kundera a Grossman, da Camus a Conrad,

alla Blixen: attraverso questi e altri autori

del ’900 il filosofo parigino Alain Finkielkraut usa

a priori la letteratura contro i veleni della Storia,

praticando un oltranzismo della verità a scapito

della giustizia sociale: in nome del «tempismo»

di Enzo Di Mauro

«Vivere senza tempimorti, godere senza ostacoli – sì,certo, ma più di tutto volevamoguadagnarci il diritto di vivere innal-zandoci al livello di coloro che, pri-ma che noi venissimo al mondo,avevano dovuto affrontare le tem-peste della Storia»: è precisamentenelle pagine dedicate a Lord Jim, eintitolate «Una tragica mancanzadi tempismo», che il filosofo e pub-blicista parigino Alain Finkielkraut,classe 1949, svela con cristallinachiarezza l’assillo mondano che logoverna e, insieme, come voce dalsen fuggita, ne tradisce l’estrover-sa postura intellettuale. Intendoriferirmi a un qual certo aplombteorico tipico di coloro i quali simisurano, dopo tutto, con le bru-tali questioni messe in campo nelcorso del secolo scorso, là dove di-verse generazioni di uomini e didonne furono indotte dall’urgen-za e dalla necessità, prima di tut-to, a essere persino intempestive,spietate con se stesse, freccia ebersaglio nel mentre procedeva-no nell’azione, esse di sicuro nondissimili dal protagonista del ro-manzo di Conrad. C’era, in quel-l’incedere, serve ancora ricordar-lo, più umanità di quantoFinkielkraut mostri di credere e,proprio nell’intempestività, untasso altissimo (sebbene cruccia-to da laceranti circostanze ed eve-nienze) di tempestività, anzi di al-

trettanto e veramente tragico tem-pismo.

Il tempismo del filosofo francese,invece, è di natura assai diversa – lochiamerei sociale e culturale – co-me dimostra anche il taglio politicoe autobiografico (o, meglio, esisten-ziale) delle nove letture (così egli ledefinisce) che, tassello dopo tassel-lo, vanno a formare Un cuore intel-ligente (Adelphi «Saggi», traduzio-ne di Francesco Bergamasco, pp.212, € 20,00), un volume che racco-glie una corona d’eccellenza di auto-ri e di libri piegati dall’esegeta alleproprie tesi, prima tra le altre quellache vede nella letteratura la supre-ma «forma di mediazione che nonoffre garanzie», posta fuori dal recin-to pietroso della Storia, «modernoavatar della teodicea». Soltanto laletteratura, sostiene Finkielkraut,può darci le risposte giuste non tan-to per imparare le leggi della vita,bensì la sua «giurisprudenza», oltreagli «enigmi del mondo». L’impres-sione, però, è che il sessantatreennefilosofo francese le risposte che an-dava cercando se le era già, in granparte, date a priori, prima di interro-gare Milan Kundera e Vassilij Gros-sman, Storia di un tedesco di Seba-stian Haffner e Albert Camus, Philip Roth e Conrad, Dostoe-vskij e Henry James e Karen Blixen. Egli, in altri termini, essen-do l’opposto di un critico, mette i testi al proprio servizio e nonmostra di avere alcun interesse per lo stile, la forma e la struttu-ra dei romanzi esaminati.

Ma intanto quel plurale – quel «volevamo» dal timbro tantosolenne della citazione posta all’inizio di questo articolo – siriferisce alla generazione che nel maggio del Sessantotto, epoi nei mesi a venire, innalzò le barricate nelle piazze e nellestrade di tutta Europa, la «rivolta prometeica» ed «edonistica»– la chiama così oggi, ex-post, Finkielkraut, saltando d’un bal-

zo dal solenne al sarcastico e allosprezzante – che ha combattutocontro «la circospezione e la misu-ra come espressioni di una serietàpusillanime», a differenza della «ri-volta dei moderati», la quale invece«riconosce l’importanza dell’imper-fezione, dell’incompiutezza, dell’in-certezza, della fallibilità, riconosceinsomma l’irrimediabile non serie-tà di ogni convinzione e congetturaumana». La lettura dello Scherzo diKundera, ouverture del libro, sugge-risce all’autore una griglia interpre-tativa del Novecento di sicuro effet-to scenografico, con due piazze

contrapposte – o due orizzonti inconflitto – che marcano la distanzaontologicamente incolmabile tra loslancio rivoluzionario di alcuni (va-le a significare gli astratti furori de-gli ossessi e dei burocrati, secondoFinkielkraut gli unici artefici del se-colo, i soli vincitori ai danni diun’intera umanità composta di vit-time) e la maggioranza silenziosaformata da saggi che ridono solo tre-mando. Allora, alla stessa manieradei sessantottini che adottarono aloro eroe (sbagliando tutto) Lu-dvik, il protagonista del romanzodi Kundera, che in realtà non era

vittima dello Stato o del sistemaquanto piuttosto della propria vio-lenza socialista e del proprio estre-mismo rivoluzionario, così Sartrenon colse nel segno (per narcisi-smo, senso di colpa, angoscia del-l’influenza e nevrosi da agit-prop)trascurando gli interessi e le pove-re, semplici, oltraggiate vite deifrancesi d’Algeria a vantaggio dellalotta antimperialista degli indigeni.La posizione appare di una chiarez-za lampante: non bisogna sacrificare sull’altare della giustiziasociale e dell’uguaglianza l’unica nozione che conti, ovvero l’«oltranzismo della verità», come lo praticò l’irregolare Camus,a cui pure, in occasione della prematura morte, il vanitosoSartre rivolse parole meravigliose di commiato improntate,pur nell’avvenuta rottura, a indistruttibile fraternità per quelmodo altro e non meno intenso «di vivere insieme» nel mon-do «stretto» che a entrambi fu dato di abitare seppure nel dis-sidio, ricordando di essersi sempre chiesto, mentre scriveva,«che cosa ne pensa in questo momento?».

L’idea che Finkielkraut ha dunque della Storia – che eglicontrappone allo spazio del quotidiano – è univoca e demoni-aca; anzi, per lui, il movimento stesso è un frutto avvelenato,un triste retaggio del passato (ossia di tutte le più antiche epiù recenti rivoluzioni) per difendersi dal quale (come re Salo-mone rivolto all’Altissimo) occorre implorare che ci vengaconcesso «un cuore intelligente», l’accoglienza dell’immoto,del sogno splendido (perché perduto) delle delizie di un son-no senza risveglio e immacolato, il solo stato in cui un’umani-tà di vittime possa tutelare la «fragilità» e la «singolarità» diognuno. Ma per meglio comprendere la traiettoria diFinkielkraut e il suo attuale approdo, bisogna ricordare come,ancora nel 1977 – quando, firmandolo insieme a Pascal Bruck-

ner, diede alle stampe un lungo,verboso ed estenuante saggio inti-tolato Il nuovo disordine amoroso,tradotto due anni dopo in Italia nel-la collana dei «Saggi blu» di Garzan-ti – Finkielkraut parlava per conto e«in nome del diritto al desiderio»del soggetto, una formula allora as-sai in voga e certamente figlia di al-cune delle parole d’ordine del Ses-santotto («sii realista, pretendi l’im-possibile», «l’emancipazione del-l’uomo sarà totale o non sarà» e co-sì via). Oggi si propone ai lettori,quasi trentacinque anni dopo, co-me un intellettuale del limite e del-la misura, impegnato a combattere«le astrazioni egemoniche dei pro-gressisti» (di cui mostra di possede-re una immagine, assai generica ov-vero grottesca, di tetragona com-pattezza) nel mentre auspica unterrificante accordo di non aggres-sione tra oppressori e oppressi.

È questa vertigine e questo movi-mento, se vogliamo, a trasformareUn cuore intelligente in un gesto ditestimonianza e di fedeltà. A chi o acosa? Non certo ai maestri suoi e no-stri, buoni o cattivi che siano stati, iquali pensarono e agirono tra i ma-rosi del secolo terribile. Più verosi-milmente l’unica, la vera divinità acui Finkielkraut rende piena e altalode e di cui sembra ergersi a fedeletestimone (lo si diceva all’inizio) po-trebbe essere il tempismo, conside-rato come l’arte suprema e di certola più affabile e cordiale a chi sap-pia praticarla. In specie, come nelcaso, ai penitenti del tua culpa.

CASI CRITICIUna lunga notte in treno, in viag-gio da Milano a Roma, per attraver-sare le carneficine del Novecentonella prospettiva sghemba di unaspia in fuga verso una nuova vita.È così che Mathias Énard impostail dramma di Zona (Rizzoli «la sca-la», pp. 490, € 22,00), fluviale ro-manzo del 2008 finalmente arriva-to in Italia nell’ottima traduzionedi Yasmina Melaouah.Francis Servain Mirkovic, ragazzofranco croato con una formazionedi estrema destra, un passato dasoldato nel conflitto serbo bosnia-co e uno più recente nei Servizifrancesi, porta con sé una valigettapiena di documenti segreti che,venduta in Vaticano, dovrebbedargli un’altra libertà. Sono nomidi criminali di guerra, scovati nel«mestiere dell’ombra, delle sche-de e degli archivi» e cercando sulcampo, ma nello scorrere dellanotte i binari del passato si intrec-ciano a un ben altro ritmo ossessi-vo. Francis è un erudito di storia eletteratura in anfetamina e ubria-co di gin, unico io narrante dentrocui si mescolano i fatti di sanguedell’ultimo secolo e non solo, unosguardo per cui i paralleli tra i fattistorici e le assonanze tra le parolefanno esplodere il ragionamento,come per Milano, incrocio tra «mi-lan», il nibbio in francese, e Mil-lán-Astray, farabutto franchistanella guerra civile spagnola, padredel motto «Viva la muerte!». Lavita di Francis, i suoi anni da solda-to, le sue tre donne, città comeParigi, Barcellona, il Cairo, Vene-zia, il ricordo di scrittori amati co-me Jean Genet, William S. Burrou-ghs, Ezra Pound si infrangono con-tro lo scoglio della Storia e deglianni passati a indagare nella Zo-na: il cerchio dei paesi che si affac-ciano sul Mediterraneo scardinan-do l’idea di una piccola Europa.Una Zona che è un luogo fisico,ma che è anche un luogo dell’ani-ma: «uno spazio intermedio indefi-nito mobile e azzurro dove si leva-va un lungo lamento funebre can-tato da un coro antico». Dunqueancora un «treno», come nella liri-ca greca, che svela una prima coin-cidenza tra il luogo in cui il prota-gonista riflette e quanto racconta.Ossessionato dagli artefici di tantevittime, nazisti come Alois Brun-ner, Franz Stangl e Odilo Globoni-ck, per dirne solo alcuni, il protago-nista vorrebbe uscire dall’ascoltodel coro dei morti, ma è ancheben cosciente che fuori «invecedella danza del ricordo c’è la dan-za dell’oblio, l’unica concessa dal-la memoria di Stato, che decidedove è opportuno ricordare e do-ve è meglio mettere un parcheg-gio». Divisa in 24 movimenti, co-me i canti de l’Iliade spesso evoca-ta, la narrazione è svolta in un uni-ca lunga frase, ritmata dalla virgo-la, mentre i pochi capitoli nell’edi-zione francese segnavano le tappedel treno con una corrispondenzatra numero di pagina e chilome-traggio percorso. Una scelta retori-ca che funziona, perché la nottelunga un periodo di centinaia dipagine ribadisce, nel continuo ri-tornare di temi e orrori evocati, lanera ridondanza del dolore chel’uomo ha creato con le sue mani.Un uomo fatto di individui chehanno un nome e cognome chenon dovremmo mai dimenticare.

BERSAGLIN A R R A T I V A

MATHIAS ÉNARD,LA LUNGA NOTTEDEL NOVECENTOdi Andrea Beretta

Gerhard Richter,«Abstraktes Bild

(503)», 1982,collezione Lonardi

Buontempo

ALIAS N. 19 - 14 MAGGIO 2011 (21

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PEDEMONTE,CHI SALVAI GIORNALI?

Morte e resurrezione dei giornali(Garzanti, pp. 237, € 14,60): cosìEnrico Pedemonte titola questasua opera di riguardo, dove, qualeesperto dell’informazione dellacarta stampata, di essa raccontala crisi negli Stati Uniti e in Euro-pa, cogliendone le molteplici moti-vazioni. Fatta salva l’irrinunciabili-tà nella vita civile di ogni collettivi-tà del «quarto potere», Pedemon-te segnala un processo in corsoda molti anni, cominciato con l’ac-centramento dell’informazionedei giornali più ricchi, seguito dal-l’arrivo della televisione, guardataalla sera da milioni di personechiuse nelle case, e negli anni no-vanta dalla tv via cavo, dai giornaligratuiti, fino a, buon ultimo, Inter-net, «chiamato familiarmente Pa-per Killer, assassino di giornali».Insomma, se oggi sappiamo chiuccide i giornali, quel che resta dachiedersi è chi potrà salvarli.

PETER WEISS,ESILIO INVENTATODAL VERO

Rendiamo merito all’editore Crono-pio che quasi cinquant’anni doporistampa di Peter Weiss Punto difuga (Cronopio, pp. 206, € 18,50):la Descrizione di un esilio, quelladell’autore, ma, come nella postfa-zione scrive Clemens-Carl Harle,dove Weiss «cerca di rivelare e fis-sare quel vissuto» inventandosi,letteralmente – e questo è Weiss–, «un testimone che faccia da ga-rante di quella verità che esso af-ferma in ogni sua frase, in ogniparola, un testimone che non puòessere né l’io di allora né l’io dioggi, venti anni dopo, senza poter-li più verificare, e l’unico testimoneche potrebbe smentirmi, il mio iodi allora, si è corroso dissolvendosiin me». E se è vero, com’egli anco-ra dice, che «scrivere mi procurauna vita immaginaria, in cui tuttoquello che era sfocato e incerto sifinge chiaro», altro non gli restavada fare che inventare dal vero.

WILLIAM MARXE LA QUOTIDIANITÀDEI LETTERATI

«Sempre intelligente, sempre bril-lante», è stato scritto di WilliamMarx, l’autore de Il letterato: Usi ecostumi (Guanda, pp. 299, €22,00), dove il lettore è guidatonegli spazi atemporali di una im-maginaria aristotelica Accademiaaffollata da Confucio a Borges,passando per Cicerone, Petrarca,Freud, Leopardi e Barthes. Insom-ma, come è detto nel sottotitolodell’opera, La storia bizzarra diuna specie anomala, osservatanella quotidianità: quali i suoi rap-porti con la politica, la guerra, lamorte, la convivialità di un pran-zo, o di una accalorata disputaletteraria: quel mondo insiemeterreno e metafisico di chi dellelettere ha fatto la scelta della suavita, fra altri quella, da Marx nontenuta in cale, di Eugenio Monta-le, di cui ci piace ricordare il suoQuaderno di traduzioni, dove ilpoeta fornisce alcune esperienzedella sua storia di scrittore.

a cura di Romano Costa

■ ROBERTO CARIFI ■

Il dolore-fibradel Tibet

ITALIANA■ LAURA PUGNO ■

Una linguache radifica

■ MATTEO MARCHESINI ■

Profondoquasi cantabile

DECOUPAGE

di Raffaele Manica

«Dopo che avrai co-nosciuto tutto il mondo / e ti saraivestito di abbandono»: questi dueversi sono una delle porte di in-gresso a Tibet di Roberto Carifi(Le Lettere, pp. 88, € 12,00). Forse.Perché le porte di ingresso sonomolte, ma Tibet, sotto la sua linea-rità, è un libro di improvvisi pen-dii e alture. È silenzioso, e il silen-zio non è solo il suo contorno, è lasua sostanza e il suo tono; esplici-to, ma una riduzione delle parolefino all’osso, rimandando a qual-cosa che si sente e intuisce e cheguarda il mondo dopo che si sonoallentati tutti i legami con la terra,ma con la terra che è ancora qui:la scomparsa del mondo diventauna più vera attestazione di pre-senza del mondo, in altra forma:«Ho lasciato cose miserabili, lag-giù, sulla terra / che desideravanoessere possedute / io che per pri-mo mi lasciavo prendere, / mi fa-cevo amare da un amore falso, /in tristi camere d’albergo, / a po-co a poco salutavo il mio corpo, /prendeva l’anima il suo posto / edera là, con la sua carne apparente,/ che mi faceva cenno di entrare».Così la saggezza serena che sem-bra spirare sulle cose, alitando ilcorso del tempo, è risultante di in-numerevoli tensioni, vitalità chetorna quando la lotta è lontana:«Il tempo si offre a chi, nel silen-zio, / saluta tutti, a chi diventauna cosa sola / con la fiamma econ lo spazio, colui che non ritor-na / che non è qui e tuttavia lopuò / si offre a chi non è diventatoniente / ed è chiamato con nomidi animali / e solo così è ricono-sciuto / piange con tutte le creatu-re / e piange con tutti i sassi e lepietraie / con i laghi e le locuste /ed è così che egli è».

Resoconto di un viaggio nellaterra chiamata dal titolo, Tibet at-testa di un mondo dove il dolore èuna fibra che non ha a che faretanto con l’intelligenza delle cose,quanto direttamente con le cose,e con gli uomini: «È negli anfrattipronti al disfacimento / che la lu-na si solleva, i cani tremano / e lecose smettono di soffrire»: e ognicosa diventa ogni cosa, tempio,fiume, neve, roccia. La neve è la ci-ma su cui posa; il tempio la rocciasu cui è fondato, l’umanità è la ter-ra (unico antecedente a soccorre-re, in italiano: Pascoli, Il bordonedel pellegrino).

E l’illuminazione, la strada, imonaci che «si sollevano e tocca-no gli alberi / misti ai ghiacciai,di tanto in tanto sfiorati da un ali-to di vento» sono il preludio a ciòche resta da constatare: «i lamaguardano nel presente, / capisco-no che né nascere né morire gliappartengono più / con i visisempre più luminosi». L’espe-rienza del vuoto, l’assoluto di-stacco è nelle nevi che romponole viscere: «e sarò Compassione eRitorno», ovvero cosa trasforma-ta, come il pianto diventato ericao come «corpi che non esisteva-no più / tu ed io, perfettamenteuguali, in alto». Riferire di questiversi immaginando un divenirenella vicenda di Tibet dà disagio,effetto del disagio forse provatoda Carifi a parlare di cose in unalingua non propria a quelle cose.Se non fosse che Tibet è le cosestesse di cui dice.

di Cecilia Bello Minciacchi

Nell’Epopea di Gilga-mesh, la fanciulla che fa il vino, Si-duri, «la donna della vigna», rivol-ge all’eroe parole disilluse: «Gilga-mesh dove ti affretti? Non troveraimai la vita che cerchi. Quando glidei crearono l’uomo, gli diedero infato la morte, ma tennero la vitaper sé». Immedicabile resta in Gil-gamesh il dolore per la perdita del-l’amico Enkidu, e inutile, benchécoraggioso e ostinato, il suo tenta-tivo di trovare l’immortalità. Losgomento e la durezza imposti daquesta limitazione, tremenda e ve-ra per ognuno, sono i temi che af-fronta e attraversa l’ultimo libro dipoesia di Laura Pugno, La mentepaesaggio (Giulio Perrone, pp.94, € 10,00). Ma il linguaggio è cosìdecantato e portato in primo, pri-missimo piano, e la materia è cosìfermamente tenuta entro immagi-ni nitide, come è proprio della suapoesia – si pensi a il colore oro (LeLettere, 2007) –, che il risultato siapre a una pluralità di sensi. E leoccorrenze biografiche che qui po-trebbero essere rintracciate, siapur con fatica, sono ragione per di-re (anche) altro, per esplorare ilrapporto possibile con il linguag-gio e con le sue determinazioni,concrezioni tangibili e implicazio-ni concettuali.

Il primo testo muove da una di-stanza/sintesi che diviene tracciafatale di sopravvivenza a unascomparsa: «tu-io sei quella che ri-mane / corpo quasi identico / visi-bilità estrema del da te / non vi-sto»; il secondo costringe a fronteg-giare il limite irrevocabile, l’impos-sibilità che «una vita duri in eter-no», come si legge nell’epopea me-sopotamica, obbliga infatti a «sgra-nare di conto alla rovescia / tre me-si, forse un anno / il resto è bian-co». Da qui il libro procede fino aquando «il non dolore / torna» e la«lingua piccola, / ma ancora / vi-va» dirà «il paesaggio / il corponon / dimenticando». L’architettu-ra del libro, tutto declinato alla se-conda persona, poggia su cinquesezioni: la splendida madreperla,il coagulo, la secrezione malignache drammaticamente occupa lascatola cranica; la mente paesag-gio, «mente igloo» ormai «cava alcentro», glaciazione per «gli amun-dsen»; gilgames’, sezione già appar-sa (Transeuropa, 2010) per la qua-le Marco Giovenale ha parlato di«espressionismo freddo in gradodi ritagliare o disegnare i contornidi una diversa, riconfigurata classi-cità». E riverberi di classicità unitia una sensibilissima acuzie percet-tiva emergono anche nelle ultimesezioni: il nuovo mondo dove «tut-to è smisurato» e ancestrale, la lin-gua è «utile-inutile», fluttuano cor-pi sommersi e «il non mai visto /sta per rompere l’acqua»; e the mir-ror, riflesso e approdo dell’attraver-samento tutto, della mutevolezzaprescritta ai corpi e infine compiu-ta, «quando tornerà / la quietitudi-ne», parola rara, distesa e pacatissi-ma eppure subdolamente sbale-strante. Sul trauma si agisce col ri-gore della sostituzione e dell’ellis-si, solo così l’elaborazione può far-si esemplare, universale. A questotende l’esattezza della lingua poeti-ca di Laura Pugno, rastremata e le-vigata come «pezzi di ossa chiare»,rituale nella sua forza allusiva, madensa e sanguigna, che «radifica».

di Raoul Bruni

Matteo Marchesini(classe 1979), a scapito della giova-ne età, ha già al suo attivo un cor-pus di scritti tanto cospicuo quan-to vario, che comprende, tra l’al-tro, narrazioni per l’infanzia, un li-bro di racconti, due sorprendentivolumi su Bologna, un gran nume-ro di interventi critici su quotidia-ni e riviste. La vocazione primariadell’autore rimane però quella po-etica, che si è manifestata precoce-mente nelle due plaquette Asilo(2004) e I cani alla tua tavola(2006), in parte confluite nell’im-portante raccolta del 2008 Marcianuziale, pubblicata nella prestigio-sa collana Scheiwiller diretta da Al-fonso Berardinelli.

A questi titoli si aggiunge ora Sa-la d’aspetto (Valigie rosse, pp. 48,€ 8,00, premio Piero Ciampi 2010),che raduna quattordici nuove poe-sie corredate da suggestivi disegnidi Riccardo Bargellini. Leggendoqueste liriche, si è immediatamen-te colpiti dalla capacità di affidarea un dettato leggero, a tratti quasicantabile (che fa pensare a Pen-na), tematiche profonde e densedi sfumature concettuali: ogni ver-so, anche il più apparentementesemplice, si trasforma in un vetto-re conoscitivo, e più precisamentepsicologico. Ciò si nota fin dallaprima poesia, composta in granparte da un elenco quasi crepusco-lare: «Tutte le cose che ho assaggia-to / senza conoscerle davvero: le ri-viste engagées / gli allenamenti dicalcio / e poi il tedesco, le ragazze/ che dànno il primo bacio a diecianni [...]». Le situazioni e le perso-ne evocate configurano i «tempi diproroga» che scandiscono l’esi-stenza dell’autore, ai quali corri-sponde, come dice benissimo Pao-lo Maccari nella postfazione, «untepore malato, che non sembra la-sciare vie d’uscita».

Il tempo di questo libro è il pre-sente (nessuno spazio per nostal-gie elegiache): «un presente vora-ce, – scrive ancora Maccari – cherende attuale, orizzontale, ognipensiero». Imprigionato nel limbokafkiano (una volta tanto l’aggetti-vo è pertinente) di questa Salad’aspetto, Marchesini osserva glialtri con il medesimo disingannocon cui scruta se stesso, tratteg-giando, in Nota biografica, il fulmi-nante ritratto di «un essere a metà/ tra astuta scimmia e strano pole-mista», nonché una descrizioneimpietosa ma estremamente pre-cisa del mestiere di pubblicista (sucui verte la poesia eloquentemen-te intitolata Collaborazionismo).

Il libretto di Marchesini è unsingolare diario lirico in cui l’iopoetante non si ripiega solipsisti-camente su se stesso ma estendeil suo sguardo a persone e luoghi(in particolare la regione natia: silegga Passi in Emilia) e, come giàin Marcia nuziale, interloquiscecon un tu femminile: «lo specchioscopre quello che non sei, / tuquello che non so». Cercare la pro-pria identità nello sguardo dell’al-tro anziché nello specchio di Nar-ciso, aderendo al ritmo semprecangiante della vita: questa la poe-tica eraclitea di Marchesini, chescorge nel cambiamento l’unicapossibile forma di salvezza: «la sal-vezza / sta solo nel mutare / ognigesto del giorno in esercizio. /Amare, respirare».

poesia

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Page 23: Alias supplemento del Manifesto 14/05/2011

■«OPEN», AUTOBIOGRAFIA DELL’EX CAMPIONE U.S.A. ■

Uomo e tennistaperché ho odiato

VAGABONDINGL I B R I E V I A G G I

IL TOUR ITALIANO(SENZA STEREOTIPI)DI SCHULZE E HOCHdi Roberto Duiz

Giocando all’elastico del tempo, l’«enfant prodige» di Las Vegas

(1970) si confessa: dal padre-padrone alle luci dello star system.

Ma quel che colpisce è il racconto delle sconfitte e l’accettazione

esistenziale che occorre sempre «odiare» per diventare se stessi

Neanche un cane o un gatto ingiro per le strade di Randazzo,paesino ai piedi dell’Etna domina-to da una grande chiesa nera dedi-cata a San Martino. Ristoranti sbar-rati e, nell’aria, una pioggerellafitta che «è come se, da primaverache era, si fosse fatto di colpo no-vembre». Comincia così, divoran-do dolci («come per prendermiciò che mi si voleva negare») nel-l’unica pasticceria aperta che haper soli clienti taciturni e stranitituristi randagi, il racconto dellostrano viaggio in Italia di IngoSchulze, tedesco di Dresda conresidenza a Berlino e per un annoospite dell’Accademia TedescaVilla Massimo a Roma. Bozzettiitaliani è il sottotitolo di Arance eangeli (Feltrinelli, pp. 187, €16,00), parole sue arricchite dafotografie di Matthias Hoch, fuorisincrono ma in sintonia con l’in-tento di fissare immagini sfuggen-ti gli stereotipi che si pensa (nonsempre a torto) l’Italia offra di séall’estero. Uno sguardo «laico» eprivo di pregiudizi quello delloscrittore tedesco che The Obser-ver verso la fine del secondo mil-lennio ha citato tra i «ventuno au-tori di cui ci si ricorderà nel ventu-nesimo secolo». Ingrandimenti didettagli còlti girovagando, messaa fuoco di persone estrapolate dapaesaggi in cui si confondono co-me figure di Escher, o vi si mime-tizzano come animali nella sava-na, scrutando in una dimensionemultietnica data per scontata co-me non tutti gli italiani sanno an-cora fare, sia a Roma che a Napolio in Sicilia, volutamente confon-dendo i confini tra realtà e fanta-sia delle sue osservazioni e delleemozioni che ne derivano. Sonoinequivocabilmente vere le cicatri-ci di graffi e bruciature di sigarettesulla pelle del rumeno che raccat-ta mance riempiendo e trasportan-do sacchetti in un supermercatoromano. Non del tutto verosimilee piena di reticenze la spiegazio-ne che ne dà, alludendo a unafesta sadomaso in cui è stato coin-volto da una bella e ricca signoradei Parioli. Storia, però, comun-que sintomatica dell’immaginarioprodotto dall’impatto dei migrantipoveri con l’Italia benestante. Equelle donne di colore in abitisuccinti che agli automobilisti dipassaggio offrono la schiena ma-nifestano pudore, come interpre-ta l’amico Ralf, o «come le etèredell’antichità allettano i loro clien-ti mostrando il sedere anziché iseni»? Domanda senza rispostalungo l’ultimo tratto di strada cheporta al «mare di Roma». Ma nonimporta. Ciò che conta per Schul-ze è raccogliere suggestioni, an-cor più che descrizioni, sbirciandonei cortili interni di Napoli dove sirivela il vero sfarzo di «una cittàche sperpera la propria bellezza,non solo a causa della criminalitàdel degrado», o quasi commuo-vendosi davanti alle meravigliearchitettoniche siciliane, immagi-nando al contempo antichi bagnidi sangue, perché «intorno a Sira-cusa non c’è nessun luogo chenon sia stato, prima o poi, uncampo di battaglia». È un’Italiadisertata dalle cronache, quellache vedono i tedeschi Schulze eHoch. Un’«altra Italia» da mostra-re anche agli italiani.

AGASSIdi Stefano Gallerani

Dopo aver regolatoun affranto Guillermo Vilas, nelgiugno del ’74 un diciassettennesvedese riposa solo due ore primadi spuntare una a una tutte le ar-mi del rumeno Ilie Nastase, peruna volta più irritato che irritante.Sui mattoni sgretolati del Foro Ita-lico, Björn Borg incanta gli specia-listi con un gioco solido e origina-le: sorretti da gambe d’acciaio eda una volontà precocissima, isuoi colpi imprimono alle palletraiettorie micidiali e cariche dispin che ricacciano anche gli av-versari più ostinati all’ombra deicartelloni pubblicitari. I tifosi diRoma vanno in visibilio davanti al-le prodezze balistiche di quest’«or-so nella fortezza» (così, più o me-no, la traduzione del nome finni-co), consci d’assistere a una vera epropria rivoluzione copernicana.La stance frontale e il rovescio adue mani sono i due comanda-menti principali del tennis moder-no e Borg è l’unto del Signore, ilMessia. Da questo momento, la di-dattica dello sport che è stato diRod Laver e Don Budge si stravol-ge. Dovunque, milioni di bambinitentano di imitare l’estro discipli-nato del profeta del Nord.

Nel 1987, a distanza di tredicianni e dieci titoli dello Slam, il mi-racolo si ripete a Itaparica, in Bra-sile: stavolta il giovane Cristo nonha i modi gentili del fuoriclasse diSödertälje, ma irrompe ugualmen-te nel Tempio come un ribelle daltalento smisurato e dalla tecnicapersonalissima. Per Andre Agassi– classe 1970, da Las Vegas, Neva-da: posizione d’attesa della pallafrontale e colpo rovescio bimane,esattamente come Borg – è il pri-mo titolo tra i «grandi»; la primastazione di una carriera che sichiuderà in casa, nel 2006, sul ce-mento di Flushing Meadows, ser-rando in bacheca otto vittorie neiquattro più importanti tornei delcircuito (Australian Open, RolandGarros, Wimbledon e Us Open),vinti almeno una volta ciascuno,e una serie di numeri e record im-pressionanti. Non ultimo, il pri-mato incalcolabile di aver cam-biato la percezione dello sportdella racchetta agli occhi del pub-blico, specializzato e non, di tuttoil mondo: i suoi completi, comegià quelli di Borg, diventano mo-da, superano gli steccati dell’at-trezzatura tecnica ed esprimonoun modo di essere, di vivere. An-che il gioco ne esce sfigurato, ac-celerato nei movimenti e violenta-to nella tattica: che serve colpirepiù volte se puoi colpire più fortee con maggiore precisione? Èl’apoteosi del tennis-flipper, fattodi scambi forsennati e proiettivincenti. Ma la classe, il genio,quelli no, non si possono imitare.Di Agassi, come già di Borg, si fati-ca a tenere il conto degli epigoni,e però il ricavato, in termini di ri-sultati e «imprese» sportive, è tut-to dalla sua parte, perché si puòessere dei modelli ma non si puòinsegnare quello che si è ricevuto

in dono dalla sorte come una gra-zia. Nello specifico, il dono diAgassi è la velocità: velocità di pie-di, di pensiero e di braccio: unaqualità che i tennisti perdono perultima, come i pugili la potenza,sì da poterla preservare, tra alti ebassi, anche per un ventennio –dal 1986 al 2006, appunto.

E proprio dal capitolo conclusi-vo prende l’avvio Open La mia sto-ria (traduzione di Giuliana Lupi,Einaudi «Stile Libero Extra», pp.502, € 20,00), il libro che nel 2009,quasi proseguendo una sfida cheè stata a lungo la sfida, il Kid diLas Vegas (tanto per attenerci auno dei soprannomi più longevidi Agassi) ha licenziato per i tipi diKnopf e con la supervisione/me-stiere di J.R. Moehringer, un annodopo A Champion’s Mid, di PeteSampras. Pure, se quella del rivaledi sempre (i due si sono affrontatipiù di trenta volte nell’arco di ol-tre una decade) può ascriversi algenere della classica autobiogra-fia-conversazione di un grande

sportivo, la fatica «letteraria» di«Andreino» occupa piuttosto il ter-reno della confessione. Giocandocol tempo come un elastico, Agas-si ripercorre la sua storia di uomoe di tennista scoperchiando acces-si segreti, rivelando scoop e illumi-nando le zone più in ombra diquell’appendice dello star systemche è diventato il proscenio agoni-stico dei grandi eventi sportivi.L’effetto narrativo è contagioso,come gli episodi scelti, i quali, seb-bene echeggino luoghi spesso co-muni nelle carriere degli enfantprodige di tutti i tempi, assumo-no, per il tono e la schiettezza concui sono affrontati, connotati tuttiloro e particolarissimi.

Su ogni aspetto di quell’abnor-me concentrazione di esperienze,dinamiche, tensioni e passioniche fa spesso indulgere nella corri-va interpretazione dello sport co-me metafora della vita, domina ilrapporto col padre-padrone, aconferma d’un conflitto edipicoche il tennis moderno ha ripetuta-

mente registrato, soprattutto incampo femminile (vedi alla voceAustin o Graf o Williams); da quinasce gran parte dell’irrequietez-za del campione statunitense,ininterrottamente alla ricerca diun ambiente, una condizione incui ricreare l’idillio solo sognatodi una famiglia serena che lo po-tesse redimere, o quantomeno al-leviare, dal passato e dal ricordodell’infanzia che Emmanuel«Mike» Aghassian, un ex pugile diTeheran fuggito tra le mille lucidella capitale mondiale del giocod’azzardo, imprigionò da subitotra le righe e le invisibili geometriedi un campo da tennis. E sempreda qui nasce quella che AndreAgassi definisce a più riprese lacontraddizione vitale e micidialedella sua intera esistenza: odiarequalcosa e non potersene stacca-re, per quanto si fugga, si distrug-ga, ci si lasci alle spalle affetti, ami-cizie e luoghi. Probabilmente è ve-ro che Agassi odi il tennis – e sicu-ramente lo avrà odiato quando ilsuccesso lo ha investito con unaforza contro cui la racchetta e i ri-flessi eccezionali non potevanonulla –, ma è anche vero che sitratta del tipo d’odio dal qualenon ci si può mai liberare, l’odioche ci spinge a fare e a realizzare,a disfare e a cominciare tutto dac-

capo: una partita che ci sembrapersa oppure un torneo che vo-gliamo vincere anche solo per di-mostrare che la vittoria non è tut-to. Quell’odio che chiamiamo co-sì per dargli un volto riconoscibi-le, per attribuirgli un’identità chenon sia sempre quella che ricono-sciamo come la nostra ogni voltache ci guardiamo allo specchio.

A volere scavare, nascono anco-ra da questa contraddizione purele «proiezioni» sentimentali delgiocatore e la sua scelta di raccon-tarsi attraverso le sconfitte piùche nelle vittorie. In quest’ottica,però, i dettagli tecnici non restanomai solamente tali né la vita fuoridel rettangolo di gioco è solo edesclusivamente privata. Agli aficio-nados farà piacere – un piacerepettegolo e stravagante – leggeredel campo di concentramento del-l’Academy di Bollettieri, così co-me non si possono che divorare iritratti di colleghi e compagni(ognuno a suo modo epitomed’un modo d’essere, d’un tipo so-ciale e culturale), ma le pagine piùbelle di Open sono quelle in cuiAgassi, come un uomo qualsiasi,si trova solo con se stesso e con ilproprio infinito dono: quel donoche alla fine, se davvero vogliamotrarre una morale dal suo raccon-to, gli ha insegnato ciò che nem-meno Borg, probabilmente, è riu-scito mai ad afferrare: e cioè chela contraddizione è la cifra dellacondizione umana, ne è, anzi,l’estrinsecazione più sincera e, tut-to sommato, onesta; che, in altraparole, è inutile fare dell’odio unfantasma da scacciare, perché èquello stesso odio a sussurrarci,anche dopo aver sentito l’arbitrorecitare la fatidica trimurti «Ga-me, Set and Match», che l’unicaserenità imperfetta cui possiamoaspirare sta nel volere «giocare sol-tanto un altro po’».

Un’«icona» di Agassiquando dominavai tornei del Grande Slam

ALIAS N. 19 - 14 MAGGIO 2011 (23

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