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di CAMILLA MIGLIO

Christoph Ransmayr, nato nel1954, cresce in Alta Austria tra pae-saggi agricoli e montagne, tra idillionaturale e percezione dell’orroreumano (nei pressi, la memoria uncampo di concentramento). Studiaetnologia e filosofia a Vienna, vive alungo in Irlanda, e viaggia quasiovunquenelmondo. Il suo primo ro-manzo,Gli orrori dei ghiacci e delle te-nebre (1984), gli vale l’attenzione diEnzensberger, che lo chiama a colla-borare all’antologia poeticaDasWas-serzeichen der Poesie (La filigrana del-la poesia): una specie di summa del-la poesia del mondo. Tra gli antichitradotti da Ransmayr c’è Ovidio.L’esperienza delle versioni ovidianegli ispira il romanzo che lo rende fa-moso,Die letzteWelt, 1988 (Il mondoestremo, Feltrinelli 2003). Ultima tel-lus, orbis ultimus (così Ovidio neiTri-stia): ilmondo aimargini dell’ecume-ne;ma in tedesco, letzte è anche ulti-mo in senso temporale, prima dellafine. La storia si svolge su diversi pia-ni temporali e narra il viaggio di Cot-ta alla ricerca dell’amico poeta esilia-to daAugusto sulMarNero, nella cit-tà di Tomi. Elementi di realtà, l’esiliodi Ovidio, la sua amicizia con CottaMessalino, si mescolano con la fin-zione della quête amicale, dell’ipote-si di un libro delle Metamorfosi in-compiuto, di un manoscritto brucia-to da ricomporre attraverso iscrizio-ni incise su rocce. Il discorso è sullapoesia, su una politica che assume itratti di una società totalitaria (inunaconvergenza temporale tra impe-ro romano e TerzoReich), e sulle pre-senze, nei nomi propri, di tutto ilmondo di dèi e personaggi delle Me-tamorfosi degradato a comunità diuomini stremati. Cotta non troveràOvidio, qualcuno dirà che è sparitonella montagna, e nella montagnasparirà anche lui nel finale. Ver-schwinden: lo scomparire, in tedescoè anche la fugacità. Il lettore vienecontagiato da una nostalgia di maree di altezzemontane,ma senza senti-mento romantico; è afferrato da unimpulso unheimlich, perturbante,nella consapevolezza dei tempi chequei luoghi hanno attraversato, la-sciando tracce.

Distopia, memoria storica indivi-duale, ucronia, memoria e fugacità,rinascita e apocalisse, sono caratteri-stiche costanti della scrittura di Ran-smayr. Le ritroviamo nel romanzoMorbus Kitahara (1997), situato inun territorio montagnoso la cui po-polazione, colpevole di terribili orro-ri durante una guerra, viene costrettadalle forze vincitrici alleate a un re-gresso dalla tecnologia avanzata allavita primitiva. Vi confluiscono le sto-rie e i destini di molti transfughi daguerre e orrori; è qualcosa tra la Wa-ste Land e Mauthausen, dove tutta-via nulla è determinabile e conoscibi-le con le categorie della realtà.

Per quanto diversi, i romanzi diRansmayr inseguono sempre unaqualche non-località. Basti pensareall’incipit del romanzo in versi Lamontagna volante, del 2006 (Feltri-nelli ’08): «Sono morto / a 6840 metrisopra il livello del mare / il quattromaggio dell’anno del Cavallo. // Illuogo della mia morte / si trovava aipiedi di una guglia rocciosa corazza-ta di ghiaccio, / nel cui lato riparatodal vento avevo superato la notte. //… Da sud-est, attraverso gli abissisenza fondo ai miei piedi, / sfilavanoammassi di nubi». Il narratore, damorto, o forse da risorto, racconta lastoria di due fratelli, morti insieme inuna scalata in Tibet. Rivisita la storiaterribile della morte in quota, tra ighiacci, del fratello di Reinhold Mes-sner.Ma anche qui non si tratta di re-altà, ma di occasioni suggerite dalla

cartografia del mondo e dell’uomoche nel mondo vive, per aprire porteinattese.

Il medesimo impianto geopoeticoè riconoscibile nelle settanta micro-storie che segnano l’Atlante di un uo-mo irrequieto (2012), ora in italianonella bella traduzione di ClaudioGroff (Feltrinelli «Narratori», pp. 361,e 20,00). Una strana coincidenza ve-de nello stesso anno l’uscita di unfilm dei fratelli Wachowsky, intitola-ta Cloud Atlas. Come nel film, qui lestorie aprono accessi a piani cronolo-gici multipli, e i luoghi, pur mante-nendo una referenza reale, mettonoin crisi la ragione cartografica. Se di-sponessimo sulla carta del mondo iluoghi evocati da Ransmayr non riu-sciremmo a percorrere traiettorie li-neari. Cile, Cina, Brasile, Stati Uniti,Marocco, Spagna, Islanda, Grecia,Messico, Laos, Austria, Nuova Zelan-da, Nepal, Tibet, India, Isole sperdu-te del Pacifico, dell’Artico, dell’Ocea-no Indiano, e poi Hong Kong, Giava,Indonesia, Sri Lanka e ancora più lon-tano. Spazi e tempi sono richiamatidalla memoria visiva, acustica e poe-tica dell’io che per settanta volte di-ce: Ich sah (ho visto), facendosi testi-mone dell’autenticità di un vissuto,nello stesso tempo sottraendolo alleleggi del realismo. La maggior partedelle storie richiama l’esattezza: lati-tudine-longitudine, toponimi preci-si, descrizioni minuziose della natu-ra e del paesaggio, terminologia spe-cifica negli ambiti della botanica,dell’ornitologia, della zoologia in ge-nerale. Registrazione delle abitudinialimentari, del modo di vestire, dipensare, di credere delle popolazioni

sconosciute, come di quelle familia-ri. La descrizione antropologica sicombina con l’occhio del naturalistae del reporter, per far emergere la vi-sione del poeta in cerca di «mondiestremi», che sia l’Isola di Pasqua ola Muraglia cinese considerata dalpunto di vista degli uccelli. Ma in unbar sperduto in California, l’estremonon è tanto la cometa Hale Boppsfrecciante nella notte e da tutti am-mirata, bensì il cameriere chino subicchieri rotti, e gli avventori che di-stolgono la vista dal sublime celestee lo aiutano a raccoglierli, quasi fosse-ro stelle cadute. O il bivacco con fuo-co acceso, in un ospedale psichiatri-co a Vienna, tutto mentale, creato dauna donna capace di vedere il suo«luogo selvaggio». Luoghi dimentica-ti, eppure toccati dalla violenza, dallaguerra, dai rifiuti della civiltà, nelle fo-reste lungo il Mekong, in Americacentrale, nei deserti del Maghreb, inLaos. In ciascuno il viaggiatore con-nette i tempi, legge nelle storie narra-te dalle sue ‘guide’ locali le vie segre-te per recuperare ‘il paradiso terre-stre’. Ma legge anche storie latenti,che talvolta appartengono a personeestranee, altre volte al viaggiatore, eriemergono nella memoria.

Certi luoghi funzionano come figu-re del narrare. Qui uno tra molti. Sia-mo in Cambogia: «È un incrocio sol-cato da gorghi e mulinelli, nel qualeil Tonlé Sap, l’unico fiume al mondoche inverte il corso al ritmo delle sta-gioni, si perde quasi silenziosamen-te». Il fiume, come la narrazione, ci-clicamente cambia corso, da vicino alontano, da passato a presente a futu-ro. E osservare la giungla può far

emergere la memoria sanguinaria diPol Pot.Ma altrove, al cimitero ebrai-co di Praga, desolato durante gli annidel regime parasovietico, c’è un cer-to Pavlik, nemmeno ebreo, a custodi-re le tombe, e mettere continuamen-te nuovi sassi su ciascuna, per salvar-la dall’oblio, in modo che «un essereumanodopo l’altro» possa essere, «al-meno per lui, per così dire, risorto».Questo, per Ransmayr, è il «lavorode-gli angeli» (e degli scrittori?). E salvez-za c’è nelmomento estremo, persinoper un toro, che continua a sfidare ilsuo torero spagnolo così coraggiosa-mente che il pubblico chiede di gra-ziarlo. O ancora: nell’arrivo in unagrotta montana, a migliaia di metrid’altezza, dopo un’ascesa quasimor-tale; i monaci biascicano mantra, ilfuoco pian piano si spegne, e il viag-giatore si sente al sicuro, salvato daun ricordo d’infanzia fattosi presentea migliaia di chilometri, a decined’anni di distanza.

L’impianto di questa mappa, cheunisce la percezione del singolo coni luoghi e le storie del mondo, fissa lasua rete attorno a nodi memoriali te-nuti insieme da parole e immagini ri-correnti: l’oscurità, la tempesta, la sal-vezza, la folla, il paesaggio selvaggio,un vento caldo, il verde. A leggerequeste pagine, in cui ogni raccontoinvita a un viaggio al termine di noistessi e della storia del mondo, co-smo incluso, potremmoancheperde-re l’equilibrio, cadere dall’altra partedello specchio. L’io che «ha visto»scompare nel quadro e ci lascia soliin quei paesaggi. Con lo squalo tigrerovesciato da un trasporto nel deser-to, con la bambina impaurita nellanebbia, pietrificata da un latrato dicane, tra pire funebri nell’umiditàdei tropici, serpenti e macachi, pap-pagalli e bradipi, con un insegnanteche muore alla fermata di un auto-bus. Non un libro di viaggio, ma unatlante di spazi e tempi che ci invitaa sovrascrivere i nostri, e cambia, fu-gace e leggero ma profondo, di letto-re in lettore.

LEE • TEVIS • O’NEILL • MOODY • MODICK •FRIEDENTHAL • NOOTEBOOM • SENECA • FIRENZEOPERADUOMO•CONTINI•ARCANGELI •BURRIANY

LO SCRITTOREGEOPOETICO

«HO VISTO... HO VISTO... HO VISTO». IN 70 MICROSTORIEDAI LUOGHI DEL MONDO CHRISTOPH RANSMAYRSOTTRAE IL VISSUTO ALLE LEGGI DELLO SPAZIO-TEMPO:«ATLANTE DI UN UOMO IRREQUIETO», DA FELTRINELLI

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(2) ALIAS DOMENICA29 NOVEMBRE 2015

Oltre la siepe c’è soloun frutto acerbodel cinismo editorialedi ANDREA COLOMBO

No, Scout non è tornata. Se ilettori l’avessero conosciuta solograzie a Va’, metti una sentinella(traduzione di Vincenzo Mantova-ni, Feltrinelli, pp. 272, e 18.00), ilsecondo romanzo di Harper Leearrivato nelle librerie cinquanta-cinque anni dopo il primo, JeanLouise Finch, dalla bimba «Scout»che era, non sarebbe mai diventa-ta uno dei personaggi più celebrie amati della letteratura america-na. E suo padre, Atticus Finch,non sarebbemai stato quel simbo-lo della lotta per l’integrazione raz-ziale nel Sud degli Stati Uniti che èda decenni, il personaggio lettera-rio al quale si deve, grazie a To Killa Mockingbird, in Italia Il buio ol-tre la siepe, il fatto di avere avviatomoltissimi giovani idealisti versola professione d’avvocato.

Abbiamo ora il dubbio piaceredi scoprire che Atticus è, in realtà,un segregazionista, e se nell’Alaba-ma del 1935 aveva osato l’inosabi-le, difendere un nero accusato diaver stuprato una bianca, lo avevafatto per amore del codice, nondei diritti. L’uscita a sorpresa diun nuovo romanzo della oggi qua-si novantenne Harper Lee si èconfigurata, sin dall’inizio, comeuna delle operazioni editorialipiù spregiudicate e discutibili.Spacciato come «il seguito» delcapolavoro precedente, il nuovoromanzo ne è in realtà la prima epochissimo riuscita versione: unabbozzo informe destinato a tra-sformarsi, dopo due anni di lavo-ro intenso, in qualcosa di comple-tamente irriconoscibile, sia nellostile che nella trama.

Harper Lee, che aveva tenutonascosto il manoscritto per oltremezzo secolo, ha dato il suo bene-stare alla lucrosa pubblicazione.Ma è lecito sospettare che la suadecisione sia stata a dir poco in-tensivamente influenzata dai con-giunti, né depone favorevolmenteil fatto che il via libera sia arrivatoimmediatamente dopo la mortedella sorella, che la accudiva e necurava gli interessi. Questa primaversione del romanzo è ambienta-ta nel 1955, vent’anni dopo le vi-cende narrate in To Kill aMocking-bird. Racconta il ritorno di Scout,nel frattempo trasferitasi a NewYork dalla cittadina natale diMaycomb, dove la situazione èben diversa da quella di vent’anniprima. I neri hanno cominciatoad alzare la testa, reclamano dirit-ti e la Corte costituzionale dà lororagione. I bravi cittadini del Sud siorganizzano per resistere a quellache vivono come una inammissi-bile lesione dei loro diritti. PerScout, scoprire che l’idolatrato pa-dre e il quasi-fidanzato sono impe-lagati fino al collo nella resistenzasegregazionista è un trauma pro-fondo, chemina il suo interomon-do interiore e si abbatte sugli stes-si ricordi dell’infanzia.

Il fratello della narratrice, Jem,coprotagonista diToKill aMockin-gbird, è nel frattempo morto. Ilcompagnodi giochiDill, personag-gio dietro il quale si celava TrumanCapote, amico fraterno della scrit-trice sin dall’infanzia e per tutta lavita, è citato solo di sfuggita. La sto-ria si snoda su piani diacronici: i ri-cordi e i flashback di questa versio-ne diventeranno il materiale con

cui edificare il capolavoro successi-vo. Particolare significativo: il pro-cesso contro il nero accusato di stu-pro è in questa stesura iniziale unepisodio appena accennato, pur seimportante, e si conclude, al con-trario che nel romanzo maggiore,con l’assoluzione dell’imputato.

Questo «secondo libro» di Har-per Lee è in realtà un romanzoacerbo, che giustamente gli editoririfiutarono a suo tempo di pubbli-care e che, dal punto di vista dellaqualità, sarebbe stato molto me-glio lasciare nel cassetto. Ma ne re-sta vivo l’interesse, a patto di consi-

derarlo non per il suo valore in sé,ma come materiale prezioso permettere meglio a fuoco quello cheresterà il solo romanzo firmato daHarper Lee. Leggerlo, purché se neabbia ben presente la successivaevoluzione, significa assistere allamisteriosa genesi di un capolavo-ro. Gli aneddoti e gli ambienti cherenderanno indimenticabile Il bu-io oltre la siepe ci sono già tutti, avolte descritti con le medesime pa-role che torneranno nella versionedefinitiva, ma squadernati comeuna serie sconclusionata di ricordiprivati, tanto coinvolgente quantol’album di foto di famiglia mostra-te e quasi imposte da un petulanteospite . Eppure, quegli stessi episo-di, quelle stesse strade e case, di-venteranno, dopo un processo dimaturazione tanto rapido quantoradicale, un’atmosfera magica, unmondo nel quale si specchia lostesso Sud sconfitto di Faulkner,ma osservato con lo sguardo maiinfantile di tre bambini.

Con tutta la loro a volte insop-portabile prolissità, i lunghissimi

dialoghi farciti di citazioni incon-gruedi questo libro aiutano a svela-re il miracoloso equilibrio di ToKill a Mockingbird, quella violentarequisitoria contro la segregazioneche risparmiava i segregazionisti ene evidenziava i lati più umana-mente apprezzabili.

Nata e cresciuta in un’Alabamache conservava ancora fresco il ri-cordo della più feroce e sanguino-sa guerra civile della storia, la scrit-trice sapeva bene che il segregazio-nismo del Sud era dovuto, più cheal razzismo, al rifiuto di accettarela cultura colonizzatrice dei vincito-ri. Era la difesa estrema, e da Har-per Lee pienamente condivisa,dell’identità diDixie, nazione scon-fitta e scomparsa ma non vinta.

Quando le argomentazioni, chein questa prima stesura unamalde-stra apprendista spiattellava met-tendole in bocca a personaggi sen-za spessore, diventeranno l’animae il sangue di figure reali e vive,dunque senza più bisogno di esse-re esplicitate, nascerà un grande ro-manzo. Probabilmente, se avessedeciso di scrivere ancora, HarperLee avrebbe davvero scelto cometema il ritorno a Maycomb diScout. Avrebbe preso la metà am-bientata negli anni ’50 del primomanoscritto per rielaborarla comeaveva nel frattempo imparato a fa-re. Persino la materia informe pre-sentata grazie a questa cinica ope-razione editoriale basta a indicareche ne sarebbe potuto venir fuoriun grande libro sulla delusione, lanecessità di fronteggiarla e superar-la, la possibilità di trasformarla inoccasionedimaturazione e allarga-mento della comprensione. Pur-troppo Nelle Lee, in arte Harper,ha scelto di non farlo.

di LUCA BRIASCO

Cinquantenne, irlandese di na-scita ma di madre turca; cresciuto trail Mozambico e l’Iran, la Turchia el’Olanda; stabilitosi prima a Londra,poi a New York, dove vive, JosephO’Neill ha raggiunto fama e successocon il suo terzo romanzo, Nether-land, pubblicato nel 2008, premiatocon il Pen-Faulkner Award e salutatodal severissimo James Wood come«uno dei libri post-coloniali più note-voli che io abbia mai letto».

Ambientato aNewYork all’indoma-ni dell’11 settembre,Netherland (pub-blicato in Italia da Rizzoli, con il titoloLa città invincibile, ma sostanzial-mente ignorato da critica e lettori) èforse il più bel romanzo sulle ferite la-sciate dall’attentato alle Torri Gemel-le: il ritratto toccante di una città checerca di tener fede al proprio sogno,continua ad attrarre nuovi migranti eperò si disfa proprio agli occhi di chine ha vissuto l’ascesa sfrenata: fraquesti, il protagonista, un agente diborsa che, insieme al luogo fisico delproprio lavoro, perde l’affetto e la vici-nanza di moglie e figlio, insieme allasperanza di poter costruire, con loro,un futuro.

Inevitabile che, dopo un libro cosìtoccante e profondo, sorretto da unlinguadi scintillante inventiva, la criti-ca e i lettori attendessero O’Neill alvarco, pronti a cogliere qualunque

traccia di ripetizione o di ripiegamen-to. Non c’è dunque da stupirsi che ilsuccessore di Netherland, The Dog,pubblicato negli Stati Uniti lo scorsoanno, sia stato accolto in modo dise-guale, dividendo i recensori tra chi loritiene degno in tutto e per tuttodell’opera precedente e chi lo consi-dera un passo falso o, tutt’al più, laconferma in tono minore di un gran-de talento. Ora, The Dog arriva anchein Italia, ospitato nella bellissima col-lana di narrativa di Codice, con il tito-lo infedele L’uomo di Dubai (traduzio-ne di Tommaso Pincio, pp. 288, e18,90), e merita una lettura attenta,sia da parte di chi ha intercettato Lacittà invincibile prima che finisse de-solatamente fuori stampa, sia di chiinvece si avvicini per la prima volta al-la scrittura di O’Neill.

Come è stato notato in quasi tuttigli articoli che la stampa americanaha dedicato al libro, L’uomo di Dubairiproduce molte delle situazioni e deitemi che avevano innervato La cittàinvincibile, riprendendone anche lastruttura – narrazione rigorosamentein prima persona, tono meditativo,predilezione per le pause digressive –e l’eleganza della lingua. Proprio co-meHans van den Broek, il protagoni-sta di Netherland, anche l’avvocatosenza nome al centro dell’Uomo diDubaiha appena affrontato unadolo-rosa separazione dalla donna, Jenn,con cui ha diviso nove anni della sua

vita, e tenta faticosamente di riemer-gere da una lunga deriva dell’anima.Come in Netherland New York occu-pava il centro della scena elevandosia vero e proprio personaggio, così, inTheDog, Dubai viene evocata nel suofuribondo e insensato dinamismo,che ne fa la proiezione e lo specchiodei sogni e delle aspirazioni di un oc-cidente stanco e sazio di sé ma anco-ra disperatamente bulimico.

La trama del libro è relativamentesemplice: l’innominato protagoni-sta, proprio per sfuggire alle conse-guenze di un fallimento sentimenta-le e umano, accetta un impiego co-me esecutore fiduciario e factotumdei Batros, una ricchissima famiglialibanese che ha creato un autenticoimpero e che daDubai e dintorni am-ministra buona parte dei propri benie asset. Trasferitosi da New York ne-gli Emirati, in un lussuoso grattacie-lo residenziale nel quale gli apparta-menti hanno tutti lo stesso mobilio eaddirittura gli stessi libri alle pareti,il narratore trascorre il suo tempo inuna condizione di ben retribuita ser-vitù: privo di qualunque potere deci-sionalema costretto a firmare e aval-lare decine di operazioni, non sem-pre comprensibili e a volte di dubbialiceità; o ancora oggetto di richiesteimprobabili, come ingaggiare can-tanti pop e rock perché si esibiscanoal compleanno o anniversario di ma-trimonio di Sandro, uno dei fratelli

Batros, o tenerne a bada il figlio mi-nore, un ragazzino viziato e affettoda devastante obesità.

La servitù del protagonista sembratrovare il proprio correlativo nel fattostesso che, ai nostri occhi di lettori,egli rimane costantemente senza no-me: di lui ci è possibile conoscere so-lo lo pseudonimodietro il quale si na-sconde quando, attingendo al pro-prio invidiabile stipendio, si reca a ca-denze regolari in un albergo di lussoper usufruire dei servigi di prostitute,tutte e rigorosamente provenientidall’ex Unione Sovietica. Questa as-senza di identità e questa dispersionedel sé e delle radici, più che ai Batroso agli esponenti più ricchi e altezzosidella comunità di espatriati che popo-lano grattacieli, alberghi e resort diDubai, avvicina il protagonista ad Alì,l’immigrato senza permesso di sog-giorno della cui collaborazione usu-fruisce a piene mani senza poterlamai regolarizzare in un contratto, eche ogni sera svanisce dalle luci dellaribalta ritraendosi nelmondodegli in-visibili e degli schiavi. E, al tempo stes-so, lo avvicina a Ted Wilson, il miste-rioso americano che, da oscuro pro-fessore universitario di storia tedesca,si è trasformato in brand-setter peruna grande società diDubai, coltivan-do al contempo una vera e propriapassione per le immersioni subac-quee; ma poi è sparito nel nulla, co-me capita ai tanti che, vivendo al di

sopra dei propri mezzi, finiscono percontrarre debiti, rischiando, in basealla legge degli Emirati, un lungoperi-odo di galera.

Come si comprenderà da questa si-nossi incompleta, la forza del roman-zo non sta nella trama. Se in La cittàinvincibile non mancavano scene epassaggi memorabili, L’uomo di Du-bai punta tutto sulla dispersione, sul-le lunghe digressioni meditative, sul-le tante riflessioni filosofiche affidatealla inarrestabile logorrea del protago-nista. La scelta è, tuttavia, del tuttoconsapevole: lo stesso O’Neill, in unabella e lunga intervista pubblicata sul-laParis Review, ha dichiarato che, nel-la sua scrittura, «l’intreccio si manife-sta al livello della frase», e che ogni pa-ragrafo deve avere la capacità di pren-dere direzioni imprevedibili, spiaz-zando ogni volta il lettore. Come giànellaCittà invincibile,ma conuna ra-dicalità se possibile ancora maggiore,la scrittura sembra assumere su di sélo spaesamento dell’Io che la produ-ce, rifiutando la facile soluzione dellanarratività pura o del coup de théâtree optando per un moto irregolare, di-vagante, giocato tutto tra memoria,descrizione, meditazione.

Sostenere che L’uomo di Dubai siauna sorta di variazione in tono mino-re della Città invincibile sarebbe fareun torto a O’Neill, al suo coraggio, al-la consequenzialità delle sue scelte edel suo percorso di narratore. È piùgiusto e corretto, invece, affermareche il nuovo romanzo comincia esat-tamente dove finiva il suo magnificopredecessore, e che le analogie tra i ri-spettivi protagonisti servono amante-nere vivo e continuo il filo di una ri-flessione acuta quanto malinconicasull’agonia dell’Occidente, della qua-le l’11 settembre è stato forse solo unepifenomeno.

Tra digressioni, passaggi di svagatacomicità o esilarante pedanteria – sipensi solo allemail che il protagonistasogna di scrivere ai suoi esasperantidatori di lavoro, ma che non sarannomai spedite –, riflessioni illuminantisulle servitù del nuovo capitalismo,L’uomo di Dubai non corre mai il ri-schio di cadere nella facile satira o nelmero reportage giornalistico, grazie auna scrittura di inesauribile inventivaesaltata dalla traduzione, di TommasoPincio, davvero ammirevole.

GERENZA

di STEFANO GALLERANI

Nel 1980, vent’anni dopo To Kill aMockingbird (in italiano Il buio oltre lasiepe), che valse a Harper Lee il premioPulitzer del ’61, il mimo, o tordoamericano, tornava a campeggiaresolitario sulla copertina di un libro dinarrativa. Con Mockingbird, Walter Tevisinterrompeva un silenzio che duravadalla pubblicazione dell’Uomo che caddesulla terra: in mezzo, solo alcuni raccontisparsi, una dura battaglia control’alcolismo e la lotta quotidiana conquelle che, sin dall’infanzia (minata dauna malattia reumatica al cuore), loscrittore giudicava le proprieinadeguatezze umane e artistiche. Anulla o poco erano le valse le fortune(anche cinematografiche) dei suoi primidue romanzi – oltre a L’uomo,soprattutto Lo spaccone, del 1959, da cuifu tratto il film omonimo di RobertRossen, con Paul Newman e JackieGleason – così che negli anni settanta lavena creativa di Tevis sembrava essersiesaurita, schiacciata dal peso di troppeaspettative e molte incertezze. Pure, per

quanto breve, proprio Mockingbirdavrebbe inaugurato il suo periodo piùproduttivo: nel 1981 uscì l’antologiaLontano da casa, l’anno seguente Apochi passi dal sole e La Regina degliscacchi, mentre nel 1984 fu la volta delColore dei soldi, malinconico edisincantato sequel dello Spaccone.Pubblicato in Italia per la prima volta allavigilia della morte del suo autore dalleedizioni Nord e da Mondadori (coldubbio titolo di Futuro in trance),Mockingbird compare di nuovo nellenostre librerie pubblicato da minimumfax, che per l’occasione rispolvera,aggiornata, la prima versione di RobertaRambelli: Solo il mimo canta al limitaredel bosco (con una nota di JonathanLethem, pp. 343, e 13,50). Ambientato inun distopico 2467, il romanzo è unomaggio al genere fantascientifico con ilquale Tevis aveva esordito, nel 1957,sulle colonne di «Galaxy Science Fiction»e del quale aveva già dato prova, tradistorsioni temporali e alienazionecontemporanea, proprio in The ManWho Fell to Earth. Con quest’ultimo, Soloil mimo condivide l’effetto di ansia e

spaesamento, ma stavolta diverso non èl’alieno – metaforicamente l’altro – bensìl’essere umano: il futuro qui immaginatocon efficace preveggenza non riservaall’uomo altro che un ruolo marginalenella nuova società controllatadall’intelligenza artificiale dei robot.Nella desertificazione dei rapportipianificata dalle macchine le personesono ridotte a uno stato narcotico diprostrazione emotiva e sentimentale:vittime di un progressivo, controllatoimbarbarimento, vivono inconsapevolidi se stesse e degli altri, prive di memoriacollettiva come di ricordi personali, cosìche riappropriarsi anche dei principi piùelementari del vivere è per loro unaimpresa tanto impervia quantopericolosa. Paradigma di questacondizione è Paul Bentley, che, come lascimmia della kafkiana «Relazione perun’accademia», si costruisce dal nullauna nuova identità imparando prima aleggere poi a scrivere attraverso isottotitoli di dimenticate pellicolecinematografiche di cui i robot nonsanno che fare; ed è infatti proprio unodi loro, Spofforth, androide di ultimagenerazione e rettore dell’Università diNew York, ad affidare a Bentley, ignarodelle conseguenze di un simile gesto, ilsuo primo incarico. Man mano cheprogredisce nel lavoro, Paul conosceMary Lou, le insegna i rudimenti dellalettura, va a vivere con lei e insiemeintravedono la possibilità di un’esistenzafuori dai rigidi schemi individualisti easociali progettati dai robot. Tuttavia,non appena Spofforth si accorge che lacoppia sta per formare una famigliatrasgredendo il rigido programma dicontrollo delle nascite loro imposto,

Bentley viene processato e incarcerato,mentre Mary Lou «riprogrammata»come casalinga e compagna di un altroandroide. La prigione, però, non riesce ainterrompere l’educazione sentimentaledi Bentley, che presto escogita un pianoper evadere, ricongiungersi a Mary Lou econ lei gettare le basi di una nuova vita(per loro e per tutti gli esseri umani); unanuova vita in cui, aiutato da Paul e MaryLou, anche Spofforth – sorta di alter egodel Roy Batty di Blade Runner – troveràfinalmente il modo di compiere ilproprio destino con un atto estremo diautodeterminazione. Alternando registristilistici e punti di vista, Solo il mimocanta al limitare del bosco richiama,come annota Goffredo Fofinell’introduzione che apre il volume, latradizione «demistificatrice degli Orwell,degli Huxley e degli Zamjatin»; ma anchequella di Burgess e di Bradbury: come in1984&1985 o in Farenheit 451, appunto,l’unica speranza che gli uomini hannoper scongiurare la tirannia e la dittaturadella tecnologia sta in un idealeumanistico e sociale a un tempo: unideale fatto di piccole conquiste, dubbi,sentimenti e contraddizioni – le stessevissute, fronteggiate e testimoniate daWalter Tevis. Paragonato a Lo spaccone oa La Regina degli scacchi, Mockingbird èsicuramente più slegato nellaconcezione, meno sciolto e risoltonell’analisi di una situazione criticanonché nel ritratto in prospettiva deisuoi personaggi, ma una volta terminatoè difficile non desiderare di esseredichiarati colpevoli delle tre accusemosse a Bentley dal tribunale dei robot:«Coabitazione, lettura e insegnamentodella lettura».

Per sfuggireall’amore deluso,un newyorkeseva incontroalla volontariaservitù di un lavoronegli Emirati;ma la vera tramaè nello stile

di DANIELA DANIELE

Cresciuto musicalmente tra le dissonanze deiSonic Youth e dell’«Hoboken sound» dei Feelies e diYo La Tengo (sulle cui note compose il romanzod’esordio, Garden City), Rick Moody per anni haabbracciato la proverbiale marginalità degli scrittoridel New Jersey senza avere, però, nulla da invidiareai cugini newyorkesi. Fu una vera sorpresa, nelladevastazione psichica e materiale del dopo-undicisettembre, assistere al suo esordio musicale con ungruppo folk dal gusto decisamente antiquario. Quelrepertorio popolare non scevro di derive spiritualisteche, come riconobbe lo scrittore, «in molti farannofatica ad apprezzare», pareva abiurare lo stile cool epost-punk a cui ci aveva abituati, essendo apparso,nel 1997, molto a suo agio tra gli altrimusicisti/scrittori del Lower East Side, coinvolti daSteve Buscemi nel suo video-remake di Vicious, conla complicità di Maggie Estep e di un sornione LouReed. Accanto ai suoi bei romanzi di ordinariedisfunzioni familiari, di Moody oggi è possibileleggere anche gli scritti musicali, editi con il titoloMusica celestiale da Bompiani (traduzione di LiciaVighi, p. 414, e 20,00). Nelle cadenze del flusso

discorsivo ininterrotto che abbiamo sempreapprezzato, questo libro raccoglie «avventured’ascolto», in cui trovano uno spazio accogliente, insalsa indie, anche le elegie evangeliche deiDanielson Famile, un gruppo del New Jersey, trabizzarrie corali e travestimenti posticci, chesmaschera i paradossi delle seduzioni spiritualistetornate in auge nell’era del terrore. Tracamuffamenti e falsetti, questo folk revivalcontinuamente deformato dalle distorsioni newwave, è una commistione di sacro e profano (un po’B52, un po’ sorelle Roches), che bene illustra laforma hipster impressa da Moody alla suaricognizione, capace di trovare una dimensione«celestiale» proprio in virtù della naturale grazia concui riesce a navigare nelle acque massimaliste dellapynchoniana tolleranza. Situandosi, assieme ad altrimusicisti/scrittori, nell’alveo di uno sperimentalismonovecentesco insieme metrico e «sonico» che,partendo da Samuel Beckett e da James Joyce arrivafino alle propaggini newyorkesi di Lydia Davis edella stessa Estep, Moody mette in gioco uncomplesso bagaglio di collaborazioni intermediali,fino a convergere in una compilationsemi-autobiografica, in grado di spaziare dalla

fierezza del be-bop di Miles Davis all’erotismo rockdelle controculture degli anni sessanta, dal punkallucinato degli anni settanta all’insuperataconsonanza prodotta, nel vuoto ideologico deglianni ottanta, del fake jazz dei Lounge Lizards(«Bisogna amarsi molto per suonare così», scrisseJohn Lurie). Al ricordo di questi ensemble, Moodyaggiunge un salto ancestrale nell’Irlanda della madrepianista e la cronaca di un magico duettododecafonico con Meredith Monk, tradotto nelleacrobatiche coreografie della new dance. Il suoviaggio informale ma informatissimo attraverso learti musicali si carica di inediti retroscena e diarguzie retrospettive degne di Grace Paley, in cuinon mancano colte riflessioni sullo slang cheinevitabilmente si associa a tutti questi stili dimusica e di vita alternativi. Moody divaga abilmentein questo percorso affettivo nella memoria musicale,seguendo cadenze imprevedibili e «jazzate». Nel suoattraversamento sonoro di New York e dintorni,musica e scrittura vengono assimilate come«fenomeni uditivi» che, nella dimensione pubblicadei reading e dei concerti, hanno l’importantefunzione sociale di farci uscire di casa anche quandoil globo pare «finito in convulsioni».

O’NEILLHarper Lee, foto Life/Getty

WALTER TEVIS «SOLO IL MIMO CANTA AL LIMITARE DEL BOSCO»

Una distopia ambientatanell’era dei robot

HARPER LEE

RICK MOODY

«Musicacelestiale»,una compilationaffettivatra be-bop,punk, fake jazz

«L’UOMO DI DUBAI», ULTIMO ROMANZO DI JOSEPH O’NEILL, DA CODICEDubai vista dall’alto

In copertina di «Alias-D»:sopra, foto di Luigi Ghirrida «Atlante», Modena,1973; in basso,Christoph Ransmayrnel 1981 ritratto da DidiSattmann

ESCE DA FELTRINELLI «VA’, METTI UNA SENTINELLA»

Spacciatocome «il seguito»del capolavoroprecedente,il romanzodella scrittricedell’Alabamane è, in realtà,la prima versionefallimentare

Ondivaga narrazionedi uno spaesamento

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Page 3: Alias Del 29 Novembre 2015

(3)ALIAS DOMENICA29 NOVEMBRE 2015

Oltre la siepe c’è soloun frutto acerbodel cinismo editorialedi ANDREA COLOMBO

No, Scout non è tornata. Se ilettori l’avessero conosciuta solograzie a Va’, metti una sentinella(traduzione di Vincenzo Mantova-ni, Feltrinelli, pp. 272, e 18.00), ilsecondo romanzo di Harper Leearrivato nelle librerie cinquanta-cinque anni dopo il primo, JeanLouise Finch, dalla bimba «Scout»che era, non sarebbe mai diventa-ta uno dei personaggi più celebrie amati della letteratura america-na. E suo padre, Atticus Finch,non sarebbemai stato quel simbo-lo della lotta per l’integrazione raz-ziale nel Sud degli Stati Uniti che èda decenni, il personaggio lettera-rio al quale si deve, grazie a To Killa Mockingbird, in Italia Il buio ol-tre la siepe, il fatto di avere avviatomoltissimi giovani idealisti versola professione d’avvocato.

Abbiamo ora il dubbio piaceredi scoprire che Atticus è, in realtà,un segregazionista, e se nell’Alaba-ma del 1935 aveva osato l’inosabi-le, difendere un nero accusato diaver stuprato una bianca, lo avevafatto per amore del codice, nondei diritti. L’uscita a sorpresa diun nuovo romanzo della oggi qua-si novantenne Harper Lee si èconfigurata, sin dall’inizio, comeuna delle operazioni editorialipiù spregiudicate e discutibili.Spacciato come «il seguito» delcapolavoro precedente, il nuovoromanzo ne è in realtà la prima epochissimo riuscita versione: unabbozzo informe destinato a tra-sformarsi, dopo due anni di lavo-ro intenso, in qualcosa di comple-tamente irriconoscibile, sia nellostile che nella trama.

Harper Lee, che aveva tenutonascosto il manoscritto per oltremezzo secolo, ha dato il suo bene-stare alla lucrosa pubblicazione.Ma è lecito sospettare che la suadecisione sia stata a dir poco in-tensivamente influenzata dai con-giunti, né depone favorevolmenteil fatto che il via libera sia arrivatoimmediatamente dopo la mortedella sorella, che la accudiva e necurava gli interessi. Questa primaversione del romanzo è ambienta-ta nel 1955, vent’anni dopo le vi-cende narrate in To Kill aMocking-bird. Racconta il ritorno di Scout,nel frattempo trasferitasi a NewYork dalla cittadina natale diMaycomb, dove la situazione èben diversa da quella di vent’anniprima. I neri hanno cominciatoad alzare la testa, reclamano dirit-ti e la Corte costituzionale dà lororagione. I bravi cittadini del Sud siorganizzano per resistere a quellache vivono come una inammissi-bile lesione dei loro diritti. PerScout, scoprire che l’idolatrato pa-dre e il quasi-fidanzato sono impe-lagati fino al collo nella resistenzasegregazionista è un trauma pro-fondo, chemina il suo interomon-do interiore e si abbatte sugli stes-si ricordi dell’infanzia.

Il fratello della narratrice, Jem,coprotagonista diToKill aMockin-gbird, è nel frattempo morto. Ilcompagnodi giochiDill, personag-gio dietro il quale si celava TrumanCapote, amico fraterno della scrit-trice sin dall’infanzia e per tutta lavita, è citato solo di sfuggita. La sto-ria si snoda su piani diacronici: i ri-cordi e i flashback di questa versio-ne diventeranno il materiale con

cui edificare il capolavoro successi-vo. Particolare significativo: il pro-cesso contro il nero accusato di stu-pro è in questa stesura iniziale unepisodio appena accennato, pur seimportante, e si conclude, al con-trario che nel romanzo maggiore,con l’assoluzione dell’imputato.

Questo «secondo libro» di Har-per Lee è in realtà un romanzoacerbo, che giustamente gli editoririfiutarono a suo tempo di pubbli-care e che, dal punto di vista dellaqualità, sarebbe stato molto me-glio lasciare nel cassetto. Ma ne re-sta vivo l’interesse, a patto di consi-

derarlo non per il suo valore in sé,ma come materiale prezioso permettere meglio a fuoco quello cheresterà il solo romanzo firmato daHarper Lee. Leggerlo, purché se neabbia ben presente la successivaevoluzione, significa assistere allamisteriosa genesi di un capolavo-ro. Gli aneddoti e gli ambienti cherenderanno indimenticabile Il bu-io oltre la siepe ci sono già tutti, avolte descritti con le medesime pa-role che torneranno nella versionedefinitiva, ma squadernati comeuna serie sconclusionata di ricordiprivati, tanto coinvolgente quantol’album di foto di famiglia mostra-te e quasi imposte da un petulanteospite . Eppure, quegli stessi episo-di, quelle stesse strade e case, di-venteranno, dopo un processo dimaturazione tanto rapido quantoradicale, un’atmosfera magica, unmondo nel quale si specchia lostesso Sud sconfitto di Faulkner,ma osservato con lo sguardo maiinfantile di tre bambini.

Con tutta la loro a volte insop-portabile prolissità, i lunghissimi

dialoghi farciti di citazioni incon-gruedi questo libro aiutano a svela-re il miracoloso equilibrio di ToKill a Mockingbird, quella violentarequisitoria contro la segregazioneche risparmiava i segregazionisti ene evidenziava i lati più umana-mente apprezzabili.

Nata e cresciuta in un’Alabamache conservava ancora fresco il ri-cordo della più feroce e sanguino-sa guerra civile della storia, la scrit-trice sapeva bene che il segregazio-nismo del Sud era dovuto, più cheal razzismo, al rifiuto di accettarela cultura colonizzatrice dei vincito-ri. Era la difesa estrema, e da Har-per Lee pienamente condivisa,dell’identità diDixie, nazione scon-fitta e scomparsa ma non vinta.

Quando le argomentazioni, chein questa prima stesura unamalde-stra apprendista spiattellava met-tendole in bocca a personaggi sen-za spessore, diventeranno l’animae il sangue di figure reali e vive,dunque senza più bisogno di esse-re esplicitate, nascerà un grande ro-manzo. Probabilmente, se avessedeciso di scrivere ancora, HarperLee avrebbe davvero scelto cometema il ritorno a Maycomb diScout. Avrebbe preso la metà am-bientata negli anni ’50 del primomanoscritto per rielaborarla comeaveva nel frattempo imparato a fa-re. Persino la materia informe pre-sentata grazie a questa cinica ope-razione editoriale basta a indicareche ne sarebbe potuto venir fuoriun grande libro sulla delusione, lanecessità di fronteggiarla e superar-la, la possibilità di trasformarla inoccasionedimaturazione e allarga-mento della comprensione. Pur-troppo Nelle Lee, in arte Harper,ha scelto di non farlo.

di LUCA BRIASCO

Cinquantenne, irlandese di na-scita ma di madre turca; cresciuto trail Mozambico e l’Iran, la Turchia el’Olanda; stabilitosi prima a Londra,poi a New York, dove vive, JosephO’Neill ha raggiunto fama e successocon il suo terzo romanzo, Nether-land, pubblicato nel 2008, premiatocon il Pen-Faulkner Award e salutatodal severissimo James Wood come«uno dei libri post-coloniali più note-voli che io abbia mai letto».

Ambientato aNewYork all’indoma-ni dell’11 settembre,Netherland (pub-blicato in Italia da Rizzoli, con il titoloLa città invincibile, ma sostanzial-mente ignorato da critica e lettori) èforse il più bel romanzo sulle ferite la-sciate dall’attentato alle Torri Gemel-le: il ritratto toccante di una città checerca di tener fede al proprio sogno,continua ad attrarre nuovi migranti eperò si disfa proprio agli occhi di chine ha vissuto l’ascesa sfrenata: fraquesti, il protagonista, un agente diborsa che, insieme al luogo fisico delproprio lavoro, perde l’affetto e la vici-nanza di moglie e figlio, insieme allasperanza di poter costruire, con loro,un futuro.

Inevitabile che, dopo un libro cosìtoccante e profondo, sorretto da unlinguadi scintillante inventiva, la criti-ca e i lettori attendessero O’Neill alvarco, pronti a cogliere qualunque

traccia di ripetizione o di ripiegamen-to. Non c’è dunque da stupirsi che ilsuccessore di Netherland, The Dog,pubblicato negli Stati Uniti lo scorsoanno, sia stato accolto in modo dise-guale, dividendo i recensori tra chi loritiene degno in tutto e per tuttodell’opera precedente e chi lo consi-dera un passo falso o, tutt’al più, laconferma in tono minore di un gran-de talento. Ora, The Dog arriva anchein Italia, ospitato nella bellissima col-lana di narrativa di Codice, con il tito-lo infedele L’uomo di Dubai (traduzio-ne di Tommaso Pincio, pp. 288, e18,90), e merita una lettura attenta,sia da parte di chi ha intercettato Lacittà invincibile prima che finisse de-solatamente fuori stampa, sia di chiinvece si avvicini per la prima volta al-la scrittura di O’Neill.

Come è stato notato in quasi tuttigli articoli che la stampa americanaha dedicato al libro, L’uomo di Dubairiproduce molte delle situazioni e deitemi che avevano innervato La cittàinvincibile, riprendendone anche lastruttura – narrazione rigorosamentein prima persona, tono meditativo,predilezione per le pause digressive –e l’eleganza della lingua. Proprio co-meHans van den Broek, il protagoni-sta di Netherland, anche l’avvocatosenza nome al centro dell’Uomo diDubaiha appena affrontato unadolo-rosa separazione dalla donna, Jenn,con cui ha diviso nove anni della sua

vita, e tenta faticosamente di riemer-gere da una lunga deriva dell’anima.Come in Netherland New York occu-pava il centro della scena elevandosia vero e proprio personaggio, così, inTheDog, Dubai viene evocata nel suofuribondo e insensato dinamismo,che ne fa la proiezione e lo specchiodei sogni e delle aspirazioni di un oc-cidente stanco e sazio di sé ma anco-ra disperatamente bulimico.

La trama del libro è relativamentesemplice: l’innominato protagoni-sta, proprio per sfuggire alle conse-guenze di un fallimento sentimenta-le e umano, accetta un impiego co-me esecutore fiduciario e factotumdei Batros, una ricchissima famiglialibanese che ha creato un autenticoimpero e che daDubai e dintorni am-ministra buona parte dei propri benie asset. Trasferitosi da New York ne-gli Emirati, in un lussuoso grattacie-lo residenziale nel quale gli apparta-menti hanno tutti lo stesso mobilio eaddirittura gli stessi libri alle pareti,il narratore trascorre il suo tempo inuna condizione di ben retribuita ser-vitù: privo di qualunque potere deci-sionalema costretto a firmare e aval-lare decine di operazioni, non sem-pre comprensibili e a volte di dubbialiceità; o ancora oggetto di richiesteimprobabili, come ingaggiare can-tanti pop e rock perché si esibiscanoal compleanno o anniversario di ma-trimonio di Sandro, uno dei fratelli

Batros, o tenerne a bada il figlio mi-nore, un ragazzino viziato e affettoda devastante obesità.

La servitù del protagonista sembratrovare il proprio correlativo nel fattostesso che, ai nostri occhi di lettori,egli rimane costantemente senza no-me: di lui ci è possibile conoscere so-lo lo pseudonimodietro il quale si na-sconde quando, attingendo al pro-prio invidiabile stipendio, si reca a ca-denze regolari in un albergo di lussoper usufruire dei servigi di prostitute,tutte e rigorosamente provenientidall’ex Unione Sovietica. Questa as-senza di identità e questa dispersionedel sé e delle radici, più che ai Batroso agli esponenti più ricchi e altezzosidella comunità di espatriati che popo-lano grattacieli, alberghi e resort diDubai, avvicina il protagonista ad Alì,l’immigrato senza permesso di sog-giorno della cui collaborazione usu-fruisce a piene mani senza poterlamai regolarizzare in un contratto, eche ogni sera svanisce dalle luci dellaribalta ritraendosi nelmondodegli in-visibili e degli schiavi. E, al tempo stes-so, lo avvicina a Ted Wilson, il miste-rioso americano che, da oscuro pro-fessore universitario di storia tedesca,si è trasformato in brand-setter peruna grande società diDubai, coltivan-do al contempo una vera e propriapassione per le immersioni subac-quee; ma poi è sparito nel nulla, co-me capita ai tanti che, vivendo al di

sopra dei propri mezzi, finiscono percontrarre debiti, rischiando, in basealla legge degli Emirati, un lungoperi-odo di galera.

Come si comprenderà da questa si-nossi incompleta, la forza del roman-zo non sta nella trama. Se in La cittàinvincibile non mancavano scene epassaggi memorabili, L’uomo di Du-bai punta tutto sulla dispersione, sul-le lunghe digressioni meditative, sul-le tante riflessioni filosofiche affidatealla inarrestabile logorrea del protago-nista. La scelta è, tuttavia, del tuttoconsapevole: lo stesso O’Neill, in unabella e lunga intervista pubblicata sul-laParis Review, ha dichiarato che, nel-la sua scrittura, «l’intreccio si manife-sta al livello della frase», e che ogni pa-ragrafo deve avere la capacità di pren-dere direzioni imprevedibili, spiaz-zando ogni volta il lettore. Come giànellaCittà invincibile,ma conuna ra-dicalità se possibile ancora maggiore,la scrittura sembra assumere su di sélo spaesamento dell’Io che la produ-ce, rifiutando la facile soluzione dellanarratività pura o del coup de théâtree optando per un moto irregolare, di-vagante, giocato tutto tra memoria,descrizione, meditazione.

Sostenere che L’uomo di Dubai siauna sorta di variazione in tono mino-re della Città invincibile sarebbe fareun torto a O’Neill, al suo coraggio, al-la consequenzialità delle sue scelte edel suo percorso di narratore. È piùgiusto e corretto, invece, affermareche il nuovo romanzo comincia esat-tamente dove finiva il suo magnificopredecessore, e che le analogie tra i ri-spettivi protagonisti servono amante-nere vivo e continuo il filo di una ri-flessione acuta quanto malinconicasull’agonia dell’Occidente, della qua-le l’11 settembre è stato forse solo unepifenomeno.

Tra digressioni, passaggi di svagatacomicità o esilarante pedanteria – sipensi solo allemail che il protagonistasogna di scrivere ai suoi esasperantidatori di lavoro, ma che non sarannomai spedite –, riflessioni illuminantisulle servitù del nuovo capitalismo,L’uomo di Dubai non corre mai il ri-schio di cadere nella facile satira o nelmero reportage giornalistico, grazie auna scrittura di inesauribile inventivaesaltata dalla traduzione, di TommasoPincio, davvero ammirevole.

GERENZA

di STEFANO GALLERANI

Nel 1980, vent’anni dopo To Kill aMockingbird (in italiano Il buio oltre lasiepe), che valse a Harper Lee il premioPulitzer del ’61, il mimo, o tordoamericano, tornava a campeggiaresolitario sulla copertina di un libro dinarrativa. Con Mockingbird, Walter Tevisinterrompeva un silenzio che duravadalla pubblicazione dell’Uomo che caddesulla terra: in mezzo, solo alcuni raccontisparsi, una dura battaglia control’alcolismo e la lotta quotidiana conquelle che, sin dall’infanzia (minata dauna malattia reumatica al cuore), loscrittore giudicava le proprieinadeguatezze umane e artistiche. Anulla o poco erano le valse le fortune(anche cinematografiche) dei suoi primidue romanzi – oltre a L’uomo,soprattutto Lo spaccone, del 1959, da cuifu tratto il film omonimo di RobertRossen, con Paul Newman e JackieGleason – così che negli anni settanta lavena creativa di Tevis sembrava essersiesaurita, schiacciata dal peso di troppeaspettative e molte incertezze. Pure, per

quanto breve, proprio Mockingbirdavrebbe inaugurato il suo periodo piùproduttivo: nel 1981 uscì l’antologiaLontano da casa, l’anno seguente Apochi passi dal sole e La Regina degliscacchi, mentre nel 1984 fu la volta delColore dei soldi, malinconico edisincantato sequel dello Spaccone.Pubblicato in Italia per la prima volta allavigilia della morte del suo autore dalleedizioni Nord e da Mondadori (coldubbio titolo di Futuro in trance),Mockingbird compare di nuovo nellenostre librerie pubblicato da minimumfax, che per l’occasione rispolvera,aggiornata, la prima versione di RobertaRambelli: Solo il mimo canta al limitaredel bosco (con una nota di JonathanLethem, pp. 343, e 13,50). Ambientato inun distopico 2467, il romanzo è unomaggio al genere fantascientifico con ilquale Tevis aveva esordito, nel 1957,sulle colonne di «Galaxy Science Fiction»e del quale aveva già dato prova, tradistorsioni temporali e alienazionecontemporanea, proprio in The ManWho Fell to Earth. Con quest’ultimo, Soloil mimo condivide l’effetto di ansia e

spaesamento, ma stavolta diverso non èl’alieno – metaforicamente l’altro – bensìl’essere umano: il futuro qui immaginatocon efficace preveggenza non riservaall’uomo altro che un ruolo marginalenella nuova società controllatadall’intelligenza artificiale dei robot.Nella desertificazione dei rapportipianificata dalle macchine le personesono ridotte a uno stato narcotico diprostrazione emotiva e sentimentale:vittime di un progressivo, controllatoimbarbarimento, vivono inconsapevolidi se stesse e degli altri, prive di memoriacollettiva come di ricordi personali, cosìche riappropriarsi anche dei principi piùelementari del vivere è per loro unaimpresa tanto impervia quantopericolosa. Paradigma di questacondizione è Paul Bentley, che, come lascimmia della kafkiana «Relazione perun’accademia», si costruisce dal nullauna nuova identità imparando prima aleggere poi a scrivere attraverso isottotitoli di dimenticate pellicolecinematografiche di cui i robot nonsanno che fare; ed è infatti proprio unodi loro, Spofforth, androide di ultimagenerazione e rettore dell’Università diNew York, ad affidare a Bentley, ignarodelle conseguenze di un simile gesto, ilsuo primo incarico. Man mano cheprogredisce nel lavoro, Paul conosceMary Lou, le insegna i rudimenti dellalettura, va a vivere con lei e insiemeintravedono la possibilità di un’esistenzafuori dai rigidi schemi individualisti easociali progettati dai robot. Tuttavia,non appena Spofforth si accorge che lacoppia sta per formare una famigliatrasgredendo il rigido programma dicontrollo delle nascite loro imposto,

Bentley viene processato e incarcerato,mentre Mary Lou «riprogrammata»come casalinga e compagna di un altroandroide. La prigione, però, non riesce ainterrompere l’educazione sentimentaledi Bentley, che presto escogita un pianoper evadere, ricongiungersi a Mary Lou econ lei gettare le basi di una nuova vita(per loro e per tutti gli esseri umani); unanuova vita in cui, aiutato da Paul e MaryLou, anche Spofforth – sorta di alter egodel Roy Batty di Blade Runner – troveràfinalmente il modo di compiere ilproprio destino con un atto estremo diautodeterminazione. Alternando registristilistici e punti di vista, Solo il mimocanta al limitare del bosco richiama,come annota Goffredo Fofinell’introduzione che apre il volume, latradizione «demistificatrice degli Orwell,degli Huxley e degli Zamjatin»; ma anchequella di Burgess e di Bradbury: come in1984&1985 o in Farenheit 451, appunto,l’unica speranza che gli uomini hannoper scongiurare la tirannia e la dittaturadella tecnologia sta in un idealeumanistico e sociale a un tempo: unideale fatto di piccole conquiste, dubbi,sentimenti e contraddizioni – le stessevissute, fronteggiate e testimoniate daWalter Tevis. Paragonato a Lo spaccone oa La Regina degli scacchi, Mockingbird èsicuramente più slegato nellaconcezione, meno sciolto e risoltonell’analisi di una situazione criticanonché nel ritratto in prospettiva deisuoi personaggi, ma una volta terminatoè difficile non desiderare di esseredichiarati colpevoli delle tre accusemosse a Bentley dal tribunale dei robot:«Coabitazione, lettura e insegnamentodella lettura».

Per sfuggireall’amore deluso,un newyorkeseva incontroalla volontariaservitù di un lavoronegli Emirati;ma la vera tramaè nello stile

di DANIELA DANIELE

Cresciuto musicalmente tra le dissonanze deiSonic Youth e dell’«Hoboken sound» dei Feelies e diYo La Tengo (sulle cui note compose il romanzod’esordio, Garden City), Rick Moody per anni haabbracciato la proverbiale marginalità degli scrittoridel New Jersey senza avere, però, nulla da invidiareai cugini newyorkesi. Fu una vera sorpresa, nelladevastazione psichica e materiale del dopo-undicisettembre, assistere al suo esordio musicale con ungruppo folk dal gusto decisamente antiquario. Quelrepertorio popolare non scevro di derive spiritualisteche, come riconobbe lo scrittore, «in molti farannofatica ad apprezzare», pareva abiurare lo stile cool epost-punk a cui ci aveva abituati, essendo apparso,nel 1997, molto a suo agio tra gli altrimusicisti/scrittori del Lower East Side, coinvolti daSteve Buscemi nel suo video-remake di Vicious, conla complicità di Maggie Estep e di un sornione LouReed. Accanto ai suoi bei romanzi di ordinariedisfunzioni familiari, di Moody oggi è possibileleggere anche gli scritti musicali, editi con il titoloMusica celestiale da Bompiani (traduzione di LiciaVighi, p. 414, e 20,00). Nelle cadenze del flusso

discorsivo ininterrotto che abbiamo sempreapprezzato, questo libro raccoglie «avventured’ascolto», in cui trovano uno spazio accogliente, insalsa indie, anche le elegie evangeliche deiDanielson Famile, un gruppo del New Jersey, trabizzarrie corali e travestimenti posticci, chesmaschera i paradossi delle seduzioni spiritualistetornate in auge nell’era del terrore. Tracamuffamenti e falsetti, questo folk revivalcontinuamente deformato dalle distorsioni newwave, è una commistione di sacro e profano (un po’B52, un po’ sorelle Roches), che bene illustra laforma hipster impressa da Moody alla suaricognizione, capace di trovare una dimensione«celestiale» proprio in virtù della naturale grazia concui riesce a navigare nelle acque massimaliste dellapynchoniana tolleranza. Situandosi, assieme ad altrimusicisti/scrittori, nell’alveo di uno sperimentalismonovecentesco insieme metrico e «sonico» che,partendo da Samuel Beckett e da James Joyce arrivafino alle propaggini newyorkesi di Lydia Davis edella stessa Estep, Moody mette in gioco uncomplesso bagaglio di collaborazioni intermediali,fino a convergere in una compilationsemi-autobiografica, in grado di spaziare dalla

fierezza del be-bop di Miles Davis all’erotismo rockdelle controculture degli anni sessanta, dal punkallucinato degli anni settanta all’insuperataconsonanza prodotta, nel vuoto ideologico deglianni ottanta, del fake jazz dei Lounge Lizards(«Bisogna amarsi molto per suonare così», scrisseJohn Lurie). Al ricordo di questi ensemble, Moodyaggiunge un salto ancestrale nell’Irlanda della madrepianista e la cronaca di un magico duettododecafonico con Meredith Monk, tradotto nelleacrobatiche coreografie della new dance. Il suoviaggio informale ma informatissimo attraverso learti musicali si carica di inediti retroscena e diarguzie retrospettive degne di Grace Paley, in cuinon mancano colte riflessioni sullo slang cheinevitabilmente si associa a tutti questi stili dimusica e di vita alternativi. Moody divaga abilmentein questo percorso affettivo nella memoria musicale,seguendo cadenze imprevedibili e «jazzate». Nel suoattraversamento sonoro di New York e dintorni,musica e scrittura vengono assimilate come«fenomeni uditivi» che, nella dimensione pubblicadei reading e dei concerti, hanno l’importantefunzione sociale di farci uscire di casa anche quandoil globo pare «finito in convulsioni».

O’NEILLHarper Lee, foto Life/Getty

WALTER TEVIS «SOLO IL MIMO CANTA AL LIMITARE DEL BOSCO»

Una distopia ambientatanell’era dei robot

HARPER LEE

RICK MOODY

«Musicacelestiale»,una compilationaffettivatra be-bop,punk, fake jazz

«L’UOMO DI DUBAI», ULTIMO ROMANZO DI JOSEPH O’NEILL, DA CODICEDubai vista dall’alto

In copertina di «Alias-D»:sopra, foto di Luigi Ghirrida «Atlante», Modena,1973; in basso,Christoph Ransmayrnel 1981 ritratto da DidiSattmann

ESCE DA FELTRINELLI «VA’, METTI UNA SENTINELLA»

Spacciatocome «il seguito»del capolavoroprecedente,il romanzodella scrittricedell’Alabamane è, in realtà,la prima versionefallimentare

Ondivaga narrazionedi uno spaesamento

Il manifestodirettore responsabile:Norma Rangeri

inserto a cura diRoberto AndreottiFrancesca BorrelliFederico De Melis

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Page 4: Alias Del 29 Novembre 2015

(4) ALIAS DOMENICA29 NOVEMBRE 2015

di VALENTINA PARISI

Forse il titolo più adatto all’ulti-mo romanzo di Klaus Modick po-trebbe essere Settantadue ore nellavita di un pittore, se non fosse giàgravato da quello assai contorto diConcerto di una sera d’estate senzapoeta (traduzionedi RiccardoCrave-ro, Neri Pozza, pp. 188, e 16,00): puressendo decisamente intricata, la lo-cuzione riflette tuttavia alla perfezio-ne l’ekfrasis complessa e l’ancor piùtravagliata genesi del quadro omoni-mo di Heinrich Vogeler Concerto oSerata estiva, scelto daModick comespecchio – benché reticente – delleaggrovigliate geometrie amorose cre-atesi ai primi delNovecento all’inter-no del cenacolo artistico di Worp-swede, grazie anche all’inatteso ap-porto fornito da un ospite d’eccezio-ne come Rainer Maria Rilke.

Per ricostruire i contorni di questaesperienza umana e creativa, tra lepiù originali della belle époque tede-sca, l’autore si affida in egual misuraai diari del poeta e ai ricordi del pitto-re, tessendo il proprio intreccio intor-no alle tre giornate comprese tra il 7e il 9 giugno del 1905, allorché Voge-ler,maestro riconosciuto dello Jugen-dstil, si appresta a lasciare la sua pre-diletta dimora di Worpswede, ilBarkenhoff, per recarsi via Brema aOldenburg, dove riceverà la Granmedaglia d’oro per l’arte e la scienzadalle mani del locale granduca.

Una consacrazione apparente-mente definitiva per il pittore che, inrealtà, coincide conuna profondissi-ma crisi d’ispirazione: il matrimoniodi Vogeler con l’exmusaMartha è or-mai finito, l’affinità spirituale conRi-lke, «proclamata in maniera troppofrettolosa» si è trasformata in «rigidacortesia» e non resta più niente deigiorni felici in cuiWorpswede, da re-moto villaggio sprofondato nelle pa-ludi, era diventato, d’un tratto, cro-giolo di anime elette dedite all’arte.Lo sta a testimoniare lo stesso Con-certo, quel quadro «riuscito così com-piutamente male», dove i compo-nenti del cenacolo – gli artisti OttoModersohn, Clara Westhoff e PaulaModersohn-Becker – sono dispostinel giardino del Barkenhoff intornoalla figura assente del poeta Rilke,cancellata da Vogeler in un impetodi stizza. La mestizia dei loro voltiinsistentemente ritoccati, la fissitàdei loro sguardi dolenti sembranoalludere, pur nel loro mutismo, aun fallimento comune. Così, il per-sonaggio certamente più a suo agionello spazio claustrofobico della te-la è il levriero Karla, ritratta in pri-mopiano sulla scalinata ai piedi del-la padrona Martha.

Eppure, l’utopia agreste di Worp-swede è esistita davvero, e le paginepiù riuscite del romanzo sono quellein cuiModick, grazie a una vertigino-sa successione di analessi, riesce at-traverso le riflessioni malinconichedi Vogeler a illuminare le motivazio-ni ideali della fuga dalla città com-piuta dal protagonista e dai suoi ami-ci negli ultimi anni del XIX secolo.Andarsene da Brema per rifugiarsinel Teufelsmoor, la «palude del Dia-volo» situata a nord-est della città an-seatica, significava innanzitutto rifiu-tare l’asfitticamentalità della borghe-sia mercantile dedita all’importazio-ne di beni coloniali, e ricercare nuo-

ve forme di confronto sia con l’altrosesso, sia con la locale popolazionecontadina. Una scelta che, in termi-ni pittorici, si traduceva nel rifiutodella sensibilità Biedermeier e deisuoi soffocanti interni domestici,per precipitarsi all’aperto a raffigura-re eteree fanciulle in ampie tuniche,libere dalla costrizione di lacci e cor-setti, se non addirittura nude, sullo

sfondo di verdi betulle e lividi tra-monti nordici.

Difficile che una simile esteticanon degenerasse da lì a breve in unestenuato decorativismo, e infattiben presto Vogeler si ritroverà aconfrontare, deluso, le sue composi-zioni stilizzate – peraltro assai ap-prezzate dai collezionisti borghesidi turno – con l’irruenza informe e

sublime della natura.«C’è così tanto che non è stato di-

pinto, forse tutto», sempre più insi-stente risuona al suo orecchio l’am-monimento dell’ex amico Rilke, chedopo aver fatto scandalo aWorpswe-de con la sua camicia contadina rus-sa e le sue relazioni amorose con leartiste Clara Westhoff e Paula Bec-ker, si è dileguato a caccia di nuovi

stimoli creativi. Di lì a breve sarà lostesso Vogeler a riprendere inaspet-tatamente la ricerca, sempre menodisposto a essere «un artista come lodesideravano la nobiltà e la borghe-sia che pagava e collezionava l’arte».Peccato che la narrazione pur prege-vole diModick si arresti alla soglia diquesta rinascita, cioè quando Voge-ler tenta invano di ricomprare dalmecenateRoselius la tela delConcer-to per distruggerla.

Un senso crescente di insoddisfa-zione condurrà in seguito il pittorea Ceylon – dove resterà colpito dal-la spietatezza dello sfruttamento co-loniale – e poi nella Russia bolscevi-ca, in cui intraprenderà una nuovastrada di artista impegnato, fino al-lamorte avvenuta nel 1942, dopo es-sere stato deportato in quanto tede-sco in Kazachstan. Tappe questeche restano fuori dall’orizzonte diModick, cui resta tuttavia il meritodi aver recuperato una delle figurepiù inquiete e affascinanti del Nove-cento germanico.

MEELIS FRIEDENTHAL «LE API», DA IPERBOREA

Melanconie secenteschedi uno studente di Tartu

di ANDREA BAJANI

In Autoritratto di un altro(Crocetti 1998, traduzione di FulvioFerrari) Cees Nooteboom avevascritto: «La trasmigrazione delle ani-me non avviene dopo, ma durantela vita». Quelle parole eranouna di-chiarazione di poetica, ancillari eseduttivenell’accompagnare il lavo-ro dell’allora sessantacinquennescrittore olandese, già a quei tempitra gli autori imprescindibili di unsecolo. Dicevano del suo indefessoviaggiare e della ricerca di formesempre nuove in cui, come ognigrande scrittore, provava a costrin-gere l’informe di un caos sfuggen-te: dall’afflato lirico dell’esordio,nel 1955, con Philip e gli altriall’umorismo del saggio su Cervan-tes Verso Santiago a Le montagnedei paesi bassi, (disponibili da Iper-borea nelle traduzioni di Fulvio Fer-rari e David Santoro). Dicevano,quelle parole, che ogni libro è ilmondo che rinasce, il vagito e il ten-tativo di mettere a fuoco le cose, difarle assomigliare a un’ipotesi, perpoi – sempre, alla fine – smentirla,dichiararla fallita, e dover ricomin-ciare a raccontare.

A furia di trasmigrare Noote-boom ha dato del filo da torcere aicritici che cercavano parentele, haseminato gli etichettatori che lo rin-correvano con un cartellino da ap-pendere al vestito. Sopra c’era scrit-to Nabokov, Borges, Calvino, loscrittore metafisico, ma anche ilsuo contrario: il viaggiatore, il croni-sta del presente, la memoria d’Eu-ropa, il testimone degli snodi di unsecolo, Budapest ’56, Berlino 1989.

Sono state così tante le vite diNo-oteboom che Rüdiger Safransky hadeciso a un certo punto di racco-glierne scampoli – in forma diestratti e di citazioni – dentro ununico affascinante volume, Avevomille vite e neho preso una sola (tra-duzione di Marco Agosta e FulvioFerrari). A leggerlo, se ne ricava

l’impressione non solo di maneg-giare in un unico impasto densità eironia, saggezza e naïveté, ma so-prattutto di avere tra le mani la te-stimonianza non di un uomo, madi un’intera comunità.

È prima di tutto la storia di unacomunità quella che Cees Noote-boomracconta ora in Tumbas Tom-be di poeti e pensatori (traduzionedi Fulvio Ferrari, Iperborea, pp.375, e 20,00) libro ancora una voltaanomalo, in cui l’autore di Ritualiraccoglie ottantatre omaggi a altret-tanti autori, ottantare raccoglimen-ti di fronte all’ultima dimora, quel-la in cui peraltro, nella beffa finale,l’autore non c’è più. «Chi giace nel-la tomba di un poeta?», si chiedeNooteboom nell’introduzione al li-bro. «In ogni casonon il poeta, que-sto è sicuro. Il poeta è morto, altri-menti non avrebbe una tomba. Machi èmorto non si trova più da nes-suna parte, nemmeno nella pro-pria tomba. Le tombe sono ambi-gue: custodiscono qualcosa e noncustodiscono niente». Nell’ennesi-ma contraddizione che fa grande loscrittore olandese c’è insieme il ra-zionalismo e l’incerta ambiguità(«custodiscono qualcosa e non cu-stodiscono niente») di una sorta diculto laico. Di un’interrogazione, infin dei conti, nell’evidenza di undialogo ininterrotto e inininterrom-pibile. Perché dentro la «trasmigra-zione delle anime» di cui parlava inAutoritratto di un altro, c’era a benvedere uno spiraglio: non certo lamano tesa alla telogia ma qualcosadi simile a uno spiffero, il pensierodella morte che soffia sulle cavigliedei vivi, che li fa raccogliere fetaliogni notte sotto le coperte.

Da Auden sepolto a Kirchstet-ten, in Austria, alla Sligo di Wil-liamButler Yeats – in rigoroso ordi-ne alfabetico – passando per Bor-ges, Canetti, Eliot, Melville, Valéry,Wittgenstein, quella che prendeforma sotto gli occhi di chi legge èinsieme una comunità utopica,

una bilblioteca ideale, e anche unagrande autobiografia compilata an-no dopo anno da Nooteboom, du-rante i suoi viaggi.

Al tempo stesso è la testimonian-za di un meraviglioso, ancorchéestenuante, scacco continuo: perquanto il mondo sia per certi versisempre lo stesso, ogni tentativo diraccontarlo – ogni tomba – contie-

ne un fallimento, e la somma deifallimenti è ciò che tiene vivo chicerca di confezionare, scrivendo, ilproprio personalissimo e vano ten-tativo. Tumbas è, infine, una cittàideale in forma di cimitero. Idealesoprattutto per chi la disegna, dalmomento che non è scontato – ilpensiero fa sorridere – che Kafka sela intenderebbe conCalvino oDan-

te con Neruda e Vallejo con Keats.Ma quello di Nooteboom è an-

che un libro di lapidi, Tumbas, im-mortalate dagli scatti di SimoneSassen, sua fotografa e compagnadi vita. Il libro è la testimonianzaanche di quella complicità, è anchel’autobiografia di una coppia. Imar-mi sepolcrali stanno lì, come porteestreme, con sopra scritti i nomi de-gli autori, incisi nella pietra comeformule magiche da recitare. Quel-le formule sono per certi versi an-che il senso del viaggio: raggiunge-re il sepolcro, completare il nome easpettare che si compia la magia diun’opera che si dischiude.

In fondo, a vederle tra le paginedi questo volume già diventato diculto (l’originale è del 2007), questeporte estremenon sembrano acces-si al mondo dei morti. Al contrario,sembra siano porte di fronte a cuiNooteboomha pronunciato la for-mula magica perché si spalancas-sero verso i vivi, perché le opere, li-berate, tornassero a volare nel

mondo. Per questo i lettori si rac-colgono, sembra dire Nooteboom,di fronte alle tombe degli scrittoriche hanno amato così profonda-mente. Bernhard seppellito insie-me alla zia, Chateaubriand sottouna croce in pietra senza nome,Walter Benjamin fuggitivo e solonel cimitero di Portbou, FranzKafka all’ombra di HermannKafka anche dopo il 1924, Brodskije Pound concittadini nel cimiteroveneziano di San Michele, Melvillefinito in una tomba semplice,«quasi povera, la sepoltura di unautore dimenticato al momentodella morte». Ciascuno dei loro se-polcri, visitati dai tanti o pochi pel-legrini, libera un’opera che stavachiusa, sclerotizzata dentromemo-rie e biografie. «Rendere visita allatomba di un poeta – scrive Noote-boom – è un pellegrinaggio allesue opera complete. E anche que-sto è un paradosso, perché per ave-re accesso alle opere non c’è biso-gno di andare sulla sua tomba».

Infine gli epitaffi. Nooteboomcorreda le foto di Simone Sassencon notazioni personali. A volte so-no dei piccoli reportages di viaggio,come nel caso di Auden; altre voltesono commoventi digressioni (tratutte la più struggente è quella cheaccompagna «la tomba animisticadi Cortázar», con due pagine dedi-cate in realtà alla morte della mo-glie dell’autore di Rayuela, CarolDunlop), altre ancora citazioni delpoeta o pensatore lì sepolto, utiliz-zate alla stregua di epitaffi. È inqueste compilazioni discrete,quando Nooteboom intenzional-mente resta in disparte, che si pale-sa qualcosa di fondamentale.Mon-tale, Hoffmann, Brodskij, Pound,Wallace Stevens: quasi tutti sem-brano aver composto in vita le pa-role del proprio congedo, sembra-no aver meditato, ruminandone ilsenso e il modo, la propria uscitadi scena. C’è chi l’ha fatto a un pas-so dalla soglia (Benjamin: «In unasituazione senza uscita, non ho al-tra scelta che farla finita. Lamia vi-ta si conclude in un piccolo paesedei Pirenei dove non mi conoscenessuno... Non mi resta abbastan-za tempo per scrivere tutte le lette-re che avrei voluto scrivere»), chil’ha composto e incastonato den-tro l’opera (Eliot: «Nel mio princi-pio è la mia fine», dai Quartetti).

Certo è che a leggerli sembra evi-dente come scrivere sia stato pertutti, e non solo per Nooteboom,una «trasmigrazione» fatta in vita,ovvero parole calate in fondo almi-stero per vedere se si sarebbero sal-vate almeno loro. Le opere dei poe-ti e dei pensatori, sembra direNoo-teboom, non sono altro che provedi morte, prove generali di evacua-zione, accompagnatrici di uominie donne spaventati quanto e forsepiù di tutti dall’idea di sparire. È tut-to vano, perché di tante parole neresteranno due, e saranno il nomee il cognome incisi nella pietra. Eniente è vano, perché basterà pro-nunciarli per aprire la cassaforteche contiene tutte le altre. Quelleparole sono il nostro tesoro e il no-stro inganno.

«CONCERTO DI UNA SERA D’ESTATE SENZA POETA» DI KLAUS MODICK PER NERI POZZA

NOOTEBOOM

di MARIA PELLEGRINI

A Chiavari nel 1997 si tenne unconvegno per il bimillenario della nascita diSeneca e il sindaco si stupì che potesseancora interessare un’«anticaglia» come ilfilosofo di Cordova. Lo riferisce in una notadella nuova traduzione del De tranquillitateanimi il curatore Stefano Costa (La VitaFelice, pp. 230, e 12,50). All’ingrataespressione di quel sindaco si contrapposeun rinnovato interesse per Seneca, attestatodal moltiplicarsi di iniziative e articoli edalla riproposta delle opere, che hannoconquistato via via nuovi lettori attrattidalla sua saggezza disincantata e dallasuggestione del suo discorso sugli uomini,«creature deboli», vittime di continueillusioni e impulsi irrazionali, afflitte dapassioni e ambizioni che tormentano glioscuri labirinti della coscienza alla ricercadi un equilibrio interiore. Nel dialogo De

tranquillitate animi Seneca affronta conSereno, giovane amico iniziato allostoicismo, il tema dell’inquietudine, deltaedium vitae, della ricerca di felicità cheognuno crede di trovare impegnandosi inogni genere di attività, in fuga dalle proprieinsicurezze – ma poi si ritrae nauseato escontento di sé e desidera la solitudine. Ilfilosofo, esperto medico dell’anima, esortaa vivere in serena operosità senza escluderemomenti di meditazione introspettiva,durante i quali osservare con distacco eserenità gli eventi. In sintesi, la tranquillitàdell’animo è frutto dell’equilibrio tra la vitaattiva e quella meditativa. Fondendoelementi democritei e stoici Senecariassume così il senso che per lui acquistala parola tranquillitas: «rimanere in unacondizione pacifica non esaltandosi mai, néscoraggiandosi». Esiste una sola via perraggiungerla, ed è quella che si percorrefrenando le passioni sconvolgenti,

portando ordine nel proprio animomediante la ragione. La nobiltà dell’uomosi mostra proprio nella lotta continuacontro gli allettamenti esterni, senza cederea essi. Ne consegue anche l’idea che la virtùnon sia innata, ma frutto di una conquistaprogressiva. Nella presente edizione le notedi commento, estrapolate di fatto dainumerosi saggi che il filologo Alberto Grilliaveva dedicato a questo testo, predilettoper la sua «profonda introspezione, lontanada semplici stereotipi moralistici»,forniscono informazioni di caratterefilosofico e linguistico e aiutano così illettore a osservare, per esempio, l’attentaelaborazione del periodo senecano conl’accostamento di termini in gradazionecrescente, o ad apprezzare l’intensità dicerti tocchi stilici, o a meditare sulsignificato da dare a taedium e displicentiasui («noia» e «disgusto di sé» che assalgonochi vive un’esistenza vuota di significato:

tema di ascendenza diatribica), o a prestareattenzione all’utilizzo delle metaforepresenti nell’opera. Il cammino verso lasaggezza è configurato come via imperviacon continue deviazioni e oscillazionirispetto al retto cammino, e quella piùricorrente della navigazione: lo stato diSereno è simile a quello del tremolio delmare, egli ondeggia incerto senza trovarecalma, pur in vista della terraferma.

La traduzione, che Costa con modestiadefinisce «di servizio», è molto vicina altesto latino senza cancellarne lacomplessità e specificità: le frasi concise eincalzanti, l’accavallarsi di termini simili oantiteci, la vivacità e rapidità di passaggi daargomento ad argomento. Tuttavia èsempre azzardato dare un giudizio sullaversione di un testo, tenendo a mente ciòche scrisse Leopardi, raffinato traduttore diclassici: «Del modo di ben tradurre ne parlapiù a lungo chi traduce men bene».

CLASSICI

La ‘tranquillitas’di Seneca,via dalle passionimescolandovita attivae introspezione

OTTANTARE OMAGGI A POETI E FILOSOFI: «TUMBAS» DI CEES NOOTEBOOM

di LUCA SCARLINI

Oppositore, da posizioni con-servatrici, del regimenazista, depor-tato a Buchenwald per la sua visibili-tà pubblica quando sostenne ilmini-stro luterano Martin Niemöller, chesi era opposto fortemente alla aria-nizzazione della chiesa tedesca rifiu-tando di sottostare alle richieste delregime, Ernst Wiechert fu un testi-mone del suo tempo. Quando eraancora all’università si era espressochiaramente, a fianco degli studen-ti, contro il nuovo corso, e da tempoera sotto l’occhio della polizia. Il go-verno gli inflisse una pena severa:quattromesi, tra carcere e campo diconcentramento; in seguito vennetenuto sotto stretta sorveglianza, fi-no al 1945, e la sua opera fu sottopo-sta a limitazioni e censure preventi-ve. Gli era permesso di pubblicare,dopo visione da parte del ministerodella Propaganda, solo se non tratta-va, nemmeno vagamente di questio-ni politiche.

Al suo ritorno si occupò di temiconnessi alla natura, godendo di unseguito di lettori, che facevano circo-lare i suoi testi, tra canali autorizzatie clandestini. Della sua tremendaesperienza di detenzione raccontain quello che è forse il suo libro piùfamoso, La selva dei morti che oraopportunamente Skira riproponenella antica versione di LaviniaMaz-zucchetti (pp. 119, e 14,00), a tre an-ni di distanza dalla riproposta, pres-so Ancora, di Missa sine Nomine.Wiechert scrisse il testo nel 1939 e loseppellì in una scatola di metallonel suo giardino; solo nel 1946 fustampato in Svizzera, dove lo scritto-re decise di vivere gli ultimi anni del-la sua esistenza.

In Italia, dove era stata molto ap-prezzata la sua commossa Novellapastorale, uscita nellamagnifica ver-sione di Massimo Mila, il libro arri-vò quasi subito, nel 1947, nella colla-na Medusa Mondadori. L’autore sipresenta in terza persona con il no-medi Johannes, per raccontare quel-lo che, nella nota introduttiva, defi-nisce «unpreludio alla grande Sinfo-nia della Morte, che sarà scritta ungiorno, da chi ne sarà più degno». Ilcampo, «luogo di enigmi e orrori»,in cui molti cercano di darsi la mor-te per uscire da una miserabile con-dizione di esistenza, è anche luogodi incontri memorabili. Lo scrittore,che assume il nome di Johannes, in-contra persone che lo aiutano acomprendere le micidiali regole delluogo. Wiechert ha sempre comepunto di riferimento, nella descrizio-ne delle dinamiche dell’orrore, lasua fede cattolica, che sostanzia unavisione da Inferno dantesco.

Le punizioni, la morte sono inflit-ti con demoniaca capricciosità,mente il lavoro aumenta in modoesponenziale, e lo scrittore si trovainadatto a compierlo, fragile, espo-sto apunizioni continue. A sostener-lo, oltre alla religione, è il profondoconvincimento che il regime nazi-sta, per la sua stessa natura, è desti-nato a scomparire rapidamente, per-ché – scrive – «non esiste civiltà chesi possa costruire sul sangue uma-no. Si possono erigere sul sangue esulla violenza degli Stati, ma gli statifurono sempre cartelli di carte per ilvento dell’eternità».

ERNST WIECHERT

Buchenwaldovvero«La selvadei morti»:un resocontodatato 1939

di INGRID BASSO

«I giorni trascorrono come le nuvolenel cielo, che errano intrecciandosi unaall’altra, senza significato alcuno. Maall’improvviso le cose appaiono collegatetra loro, non sono più eventi isolati. Lenuvole hanno assunto la forma di animali,di uccelli, tutto ha un significato, uncontenuto. Uno scopo». La forma è lachiave di tutto: secondo Aristotele l’animaè appunto forma del corpo, e LaurentiusHylas – il protagonista del romanzo Le apidello scrittore estone Meelis Friedenthal(traduzione e postfazione di DanieleMonticelli, Iperborea, pp. 276, e 16,50) èun aristotelico. Un aristotelicocontrocorrente, dal momento chel’università di Tartu, dove da poco èstudente – l’Estonia è ancora sotto ilglorioso dominio svedese – alla fine delSeicento è un importante e modernissimocrocevia culturale e linguistico: il rettore, ilmatematico Sven Dimberg, vi insegna lateoria newtoniana ancor prima che essa sidiffonda in Inghilterra (come spiega condovizia di dettagli Daniele Monticelli nellapostfazione al romanzo). MeelisFriedenthal, da teologo e attento studiososecentista, è in grado di penetrare conpasso sicuro l’atmosfera culturale

dell’ultimo decennio del secolo,tratteggiando con successo la figura di ungiovane intellettuale combattuto tra latradizione e il meccanicismo della scienzanuova. La storia di Hylas ha la durataesatta di una settimana, la settimana chesegue al suo arrivo a Tartu all’indomanidell’abbandono dell’università di Leida.Sono giorni di pioggia ininterrotta in cui ilticchettio delle gocce d’acqua fa da bassocontinuo allo scorrere onirico di immaginisfumate, quasi acquee appunto e dunquesenza forma. Così appare la vita almelanconico Hylas, che porta il nome –non sarà casuale – del giovane di cui lamitologia racconta che il corporeo Eraclesi inamorò, ma che morì proprio perannegamento, rapito dalle Ninfe. Anche lavita di Laurentius Hylas è vissuta su unariva, sul bordo di un abisso «acqueo» chesepara il significato dal non-senso, laforma dalla materia bruta. L’acqua non hamemoria, scriveva Conrad, ma lamancanza di memoria implical’impossibilità di costruire una storia, cheè fatta di collegamenti significativi e diintenzionalità, intrinseca se non agli eventialmeno all’intelletto di chi li determina.Hylas è quindi alla ricerca di un senso, perpotersi liberare di quel sapore di marcioche gli infesta le narici, insegue uno scopo

capace di liberarlo dall’umor nero che loperseguita, ovvero di liberarlo da quella«morte per acqua» che – come ricordavaElliot – non permette, forse, resurrezione.Il crinale su cui si muove Hylas è anche illimite che separa il corporeo dallospirituale, la materia dalla forma, neltentativo di vedere dove finisce uno e dovecomincia l’altro (la cartesiana ghiandolapineale, possibile luogo d’incontro dicorpo e spirito), o meglio dove l’uno siintravede nell’altro, perché la vista – diceAristotele – è in senso metaforico l’animadell’occhio: «l’occhio non è altro che lamateria della vista. Se eliminiamo la vista,l’occhio non è più occhio». Non a casoHylas si sta dedicando alla stesura di untrattato sull’anima, nel quale si chiede sela vita dell’uomo non sia forse quel fiatoche si muove dentro e fuori di noi, quellostesso umore che fa sfrigolare i rami vivinel camino: «L’anima viene fuori ed esceda noi continuamente, come il fiato, comele api dall’alveare... E all’improvviso se neva, proprio come le api abbandonanol’alveare, in un giorno caldo, dirigendosi insciame chissà dove». Così la morte,sembra concludere Hylas, non è ancora lafine di tutto, perché forse «... è solo unerrore», un intralcio gratuito in unpercorso che dovrebbe condurre a unameta precisa, dal momento che «ogni cosasi dirige verso la sua destinazione finale.Ma qual è la destinazione degli esseriumani?» La domanda attanaglia il giovanestudente con l’insistenza che ha losguardo di una «triste compagna dagliocchi scuri», la definizione cheShakespeare dà della melancolia. E forsenon è un caso se soltanto il teatro è ingrado di distogliere Laurentius dal suoumor nero, perché al contrario di quantoavviene nella vita, nel teatro secentescoogni storia ha termine soltanto quando èrealmente compiuta.

Tra diari di Rilkee ricordi di Vogeler,la ricostruzioneromanzescadi una esperienzaartisticatra le più originalidella belle époquetedesca

Una comunità utopica,una biblioteca ideale,una autobiografia: i commiatidello scrittore olandese da Auden,Borges, Yeats,Wittgenstein...

Geometrie amorosenel cenacolo artisticodi Worpswede

«Between Eternity and Geniuscide»,1994, installazione di Braco Dimitrjevic,Vienna, Liechtenstein Palace, ’94

Nei cimiteri idealirisorgono le opere

MODICKHeinrich Vogeler,«Sehnsucht (Träumerei)», circa 1900

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(5)ALIAS DOMENICA29 NOVEMBRE 2015

di VALENTINA PARISI

Forse il titolo più adatto all’ulti-mo romanzo di Klaus Modick po-trebbe essere Settantadue ore nellavita di un pittore, se non fosse giàgravato da quello assai contorto diConcerto di una sera d’estate senzapoeta (traduzionedi RiccardoCrave-ro, Neri Pozza, pp. 188, e 16,00): puressendo decisamente intricata, la lo-cuzione riflette tuttavia alla perfezio-ne l’ekfrasis complessa e l’ancor piùtravagliata genesi del quadro omoni-mo di Heinrich Vogeler Concerto oSerata estiva, scelto daModick comespecchio – benché reticente – delleaggrovigliate geometrie amorose cre-atesi ai primi delNovecento all’inter-no del cenacolo artistico di Worp-swede, grazie anche all’inatteso ap-porto fornito da un ospite d’eccezio-ne come Rainer Maria Rilke.

Per ricostruire i contorni di questaesperienza umana e creativa, tra lepiù originali della belle époque tede-sca, l’autore si affida in egual misuraai diari del poeta e ai ricordi del pitto-re, tessendo il proprio intreccio intor-no alle tre giornate comprese tra il 7e il 9 giugno del 1905, allorché Voge-ler,maestro riconosciuto dello Jugen-dstil, si appresta a lasciare la sua pre-diletta dimora di Worpswede, ilBarkenhoff, per recarsi via Brema aOldenburg, dove riceverà la Granmedaglia d’oro per l’arte e la scienzadalle mani del locale granduca.

Una consacrazione apparente-mente definitiva per il pittore che, inrealtà, coincide conuna profondissi-ma crisi d’ispirazione: il matrimoniodi Vogeler con l’exmusaMartha è or-mai finito, l’affinità spirituale conRi-lke, «proclamata in maniera troppofrettolosa» si è trasformata in «rigidacortesia» e non resta più niente deigiorni felici in cuiWorpswede, da re-moto villaggio sprofondato nelle pa-ludi, era diventato, d’un tratto, cro-giolo di anime elette dedite all’arte.Lo sta a testimoniare lo stesso Con-certo, quel quadro «riuscito così com-piutamente male», dove i compo-nenti del cenacolo – gli artisti OttoModersohn, Clara Westhoff e PaulaModersohn-Becker – sono dispostinel giardino del Barkenhoff intornoalla figura assente del poeta Rilke,cancellata da Vogeler in un impetodi stizza. La mestizia dei loro voltiinsistentemente ritoccati, la fissitàdei loro sguardi dolenti sembranoalludere, pur nel loro mutismo, aun fallimento comune. Così, il per-sonaggio certamente più a suo agionello spazio claustrofobico della te-la è il levriero Karla, ritratta in pri-mopiano sulla scalinata ai piedi del-la padrona Martha.

Eppure, l’utopia agreste di Worp-swede è esistita davvero, e le paginepiù riuscite del romanzo sono quellein cuiModick, grazie a una vertigino-sa successione di analessi, riesce at-traverso le riflessioni malinconichedi Vogeler a illuminare le motivazio-ni ideali della fuga dalla città com-piuta dal protagonista e dai suoi ami-ci negli ultimi anni del XIX secolo.Andarsene da Brema per rifugiarsinel Teufelsmoor, la «palude del Dia-volo» situata a nord-est della città an-seatica, significava innanzitutto rifiu-tare l’asfitticamentalità della borghe-sia mercantile dedita all’importazio-ne di beni coloniali, e ricercare nuo-

ve forme di confronto sia con l’altrosesso, sia con la locale popolazionecontadina. Una scelta che, in termi-ni pittorici, si traduceva nel rifiutodella sensibilità Biedermeier e deisuoi soffocanti interni domestici,per precipitarsi all’aperto a raffigura-re eteree fanciulle in ampie tuniche,libere dalla costrizione di lacci e cor-setti, se non addirittura nude, sullo

sfondo di verdi betulle e lividi tra-monti nordici.

Difficile che una simile esteticanon degenerasse da lì a breve in unestenuato decorativismo, e infattiben presto Vogeler si ritroverà aconfrontare, deluso, le sue composi-zioni stilizzate – peraltro assai ap-prezzate dai collezionisti borghesidi turno – con l’irruenza informe e

sublime della natura.«C’è così tanto che non è stato di-

pinto, forse tutto», sempre più insi-stente risuona al suo orecchio l’am-monimento dell’ex amico Rilke, chedopo aver fatto scandalo aWorpswe-de con la sua camicia contadina rus-sa e le sue relazioni amorose con leartiste Clara Westhoff e Paula Bec-ker, si è dileguato a caccia di nuovi

stimoli creativi. Di lì a breve sarà lostesso Vogeler a riprendere inaspet-tatamente la ricerca, sempre menodisposto a essere «un artista come lodesideravano la nobiltà e la borghe-sia che pagava e collezionava l’arte».Peccato che la narrazione pur prege-vole diModick si arresti alla soglia diquesta rinascita, cioè quando Voge-ler tenta invano di ricomprare dalmecenateRoselius la tela delConcer-to per distruggerla.

Un senso crescente di insoddisfa-zione condurrà in seguito il pittorea Ceylon – dove resterà colpito dal-la spietatezza dello sfruttamento co-loniale – e poi nella Russia bolscevi-ca, in cui intraprenderà una nuovastrada di artista impegnato, fino al-lamorte avvenuta nel 1942, dopo es-sere stato deportato in quanto tede-sco in Kazachstan. Tappe questeche restano fuori dall’orizzonte diModick, cui resta tuttavia il meritodi aver recuperato una delle figurepiù inquiete e affascinanti del Nove-cento germanico.

MEELIS FRIEDENTHAL «LE API», DA IPERBOREA

Melanconie secenteschedi uno studente di Tartu

di ANDREA BAJANI

In Autoritratto di un altro(Crocetti 1998, traduzione di FulvioFerrari) Cees Nooteboom avevascritto: «La trasmigrazione delle ani-me non avviene dopo, ma durantela vita». Quelle parole eranouna di-chiarazione di poetica, ancillari eseduttivenell’accompagnare il lavo-ro dell’allora sessantacinquennescrittore olandese, già a quei tempitra gli autori imprescindibili di unsecolo. Dicevano del suo indefessoviaggiare e della ricerca di formesempre nuove in cui, come ognigrande scrittore, provava a costrin-gere l’informe di un caos sfuggen-te: dall’afflato lirico dell’esordio,nel 1955, con Philip e gli altriall’umorismo del saggio su Cervan-tes Verso Santiago a Le montagnedei paesi bassi, (disponibili da Iper-borea nelle traduzioni di Fulvio Fer-rari e David Santoro). Dicevano,quelle parole, che ogni libro è ilmondo che rinasce, il vagito e il ten-tativo di mettere a fuoco le cose, difarle assomigliare a un’ipotesi, perpoi – sempre, alla fine – smentirla,dichiararla fallita, e dover ricomin-ciare a raccontare.

A furia di trasmigrare Noote-boom ha dato del filo da torcere aicritici che cercavano parentele, haseminato gli etichettatori che lo rin-correvano con un cartellino da ap-pendere al vestito. Sopra c’era scrit-to Nabokov, Borges, Calvino, loscrittore metafisico, ma anche ilsuo contrario: il viaggiatore, il croni-sta del presente, la memoria d’Eu-ropa, il testimone degli snodi di unsecolo, Budapest ’56, Berlino 1989.

Sono state così tante le vite diNo-oteboom che Rüdiger Safransky hadeciso a un certo punto di racco-glierne scampoli – in forma diestratti e di citazioni – dentro ununico affascinante volume, Avevomille vite e neho preso una sola (tra-duzione di Marco Agosta e FulvioFerrari). A leggerlo, se ne ricava

l’impressione non solo di maneg-giare in un unico impasto densità eironia, saggezza e naïveté, ma so-prattutto di avere tra le mani la te-stimonianza non di un uomo, madi un’intera comunità.

È prima di tutto la storia di unacomunità quella che Cees Noote-boomracconta ora in Tumbas Tom-be di poeti e pensatori (traduzionedi Fulvio Ferrari, Iperborea, pp.375, e 20,00) libro ancora una voltaanomalo, in cui l’autore di Ritualiraccoglie ottantatre omaggi a altret-tanti autori, ottantare raccoglimen-ti di fronte all’ultima dimora, quel-la in cui peraltro, nella beffa finale,l’autore non c’è più. «Chi giace nel-la tomba di un poeta?», si chiedeNooteboom nell’introduzione al li-bro. «In ogni casonon il poeta, que-sto è sicuro. Il poeta è morto, altri-menti non avrebbe una tomba. Machi èmorto non si trova più da nes-suna parte, nemmeno nella pro-pria tomba. Le tombe sono ambi-gue: custodiscono qualcosa e noncustodiscono niente». Nell’ennesi-ma contraddizione che fa grande loscrittore olandese c’è insieme il ra-zionalismo e l’incerta ambiguità(«custodiscono qualcosa e non cu-stodiscono niente») di una sorta diculto laico. Di un’interrogazione, infin dei conti, nell’evidenza di undialogo ininterrotto e inininterrom-pibile. Perché dentro la «trasmigra-zione delle anime» di cui parlava inAutoritratto di un altro, c’era a benvedere uno spiraglio: non certo lamano tesa alla telogia ma qualcosadi simile a uno spiffero, il pensierodella morte che soffia sulle cavigliedei vivi, che li fa raccogliere fetaliogni notte sotto le coperte.

Da Auden sepolto a Kirchstet-ten, in Austria, alla Sligo di Wil-liamButler Yeats – in rigoroso ordi-ne alfabetico – passando per Bor-ges, Canetti, Eliot, Melville, Valéry,Wittgenstein, quella che prendeforma sotto gli occhi di chi legge èinsieme una comunità utopica,

una bilblioteca ideale, e anche unagrande autobiografia compilata an-no dopo anno da Nooteboom, du-rante i suoi viaggi.

Al tempo stesso è la testimonian-za di un meraviglioso, ancorchéestenuante, scacco continuo: perquanto il mondo sia per certi versisempre lo stesso, ogni tentativo diraccontarlo – ogni tomba – contie-

ne un fallimento, e la somma deifallimenti è ciò che tiene vivo chicerca di confezionare, scrivendo, ilproprio personalissimo e vano ten-tativo. Tumbas è, infine, una cittàideale in forma di cimitero. Idealesoprattutto per chi la disegna, dalmomento che non è scontato – ilpensiero fa sorridere – che Kafka sela intenderebbe conCalvino oDan-

te con Neruda e Vallejo con Keats.Ma quello di Nooteboom è an-

che un libro di lapidi, Tumbas, im-mortalate dagli scatti di SimoneSassen, sua fotografa e compagnadi vita. Il libro è la testimonianzaanche di quella complicità, è anchel’autobiografia di una coppia. Imar-mi sepolcrali stanno lì, come porteestreme, con sopra scritti i nomi de-gli autori, incisi nella pietra comeformule magiche da recitare. Quel-le formule sono per certi versi an-che il senso del viaggio: raggiunge-re il sepolcro, completare il nome easpettare che si compia la magia diun’opera che si dischiude.

In fondo, a vederle tra le paginedi questo volume già diventato diculto (l’originale è del 2007), questeporte estremenon sembrano acces-si al mondo dei morti. Al contrario,sembra siano porte di fronte a cuiNooteboomha pronunciato la for-mula magica perché si spalancas-sero verso i vivi, perché le opere, li-berate, tornassero a volare nel

mondo. Per questo i lettori si rac-colgono, sembra dire Nooteboom,di fronte alle tombe degli scrittoriche hanno amato così profonda-mente. Bernhard seppellito insie-me alla zia, Chateaubriand sottouna croce in pietra senza nome,Walter Benjamin fuggitivo e solonel cimitero di Portbou, FranzKafka all’ombra di HermannKafka anche dopo il 1924, Brodskije Pound concittadini nel cimiteroveneziano di San Michele, Melvillefinito in una tomba semplice,«quasi povera, la sepoltura di unautore dimenticato al momentodella morte». Ciascuno dei loro se-polcri, visitati dai tanti o pochi pel-legrini, libera un’opera che stavachiusa, sclerotizzata dentromemo-rie e biografie. «Rendere visita allatomba di un poeta – scrive Noote-boom – è un pellegrinaggio allesue opera complete. E anche que-sto è un paradosso, perché per ave-re accesso alle opere non c’è biso-gno di andare sulla sua tomba».

Infine gli epitaffi. Nooteboomcorreda le foto di Simone Sassencon notazioni personali. A volte so-no dei piccoli reportages di viaggio,come nel caso di Auden; altre voltesono commoventi digressioni (tratutte la più struggente è quella cheaccompagna «la tomba animisticadi Cortázar», con due pagine dedi-cate in realtà alla morte della mo-glie dell’autore di Rayuela, CarolDunlop), altre ancora citazioni delpoeta o pensatore lì sepolto, utiliz-zate alla stregua di epitaffi. È inqueste compilazioni discrete,quando Nooteboom intenzional-mente resta in disparte, che si pale-sa qualcosa di fondamentale.Mon-tale, Hoffmann, Brodskij, Pound,Wallace Stevens: quasi tutti sem-brano aver composto in vita le pa-role del proprio congedo, sembra-no aver meditato, ruminandone ilsenso e il modo, la propria uscitadi scena. C’è chi l’ha fatto a un pas-so dalla soglia (Benjamin: «In unasituazione senza uscita, non ho al-tra scelta che farla finita. Lamia vi-ta si conclude in un piccolo paesedei Pirenei dove non mi conoscenessuno... Non mi resta abbastan-za tempo per scrivere tutte le lette-re che avrei voluto scrivere»), chil’ha composto e incastonato den-tro l’opera (Eliot: «Nel mio princi-pio è la mia fine», dai Quartetti).

Certo è che a leggerli sembra evi-dente come scrivere sia stato pertutti, e non solo per Nooteboom,una «trasmigrazione» fatta in vita,ovvero parole calate in fondo almi-stero per vedere se si sarebbero sal-vate almeno loro. Le opere dei poe-ti e dei pensatori, sembra direNoo-teboom, non sono altro che provedi morte, prove generali di evacua-zione, accompagnatrici di uominie donne spaventati quanto e forsepiù di tutti dall’idea di sparire. È tut-to vano, perché di tante parole neresteranno due, e saranno il nomee il cognome incisi nella pietra. Eniente è vano, perché basterà pro-nunciarli per aprire la cassaforteche contiene tutte le altre. Quelleparole sono il nostro tesoro e il no-stro inganno.

«CONCERTO DI UNA SERA D’ESTATE SENZA POETA» DI KLAUS MODICK PER NERI POZZA

NOOTEBOOM

di MARIA PELLEGRINI

A Chiavari nel 1997 si tenne unconvegno per il bimillenario della nascita diSeneca e il sindaco si stupì che potesseancora interessare un’«anticaglia» come ilfilosofo di Cordova. Lo riferisce in una notadella nuova traduzione del De tranquillitateanimi il curatore Stefano Costa (La VitaFelice, pp. 230, e 12,50). All’ingrataespressione di quel sindaco si contrapposeun rinnovato interesse per Seneca, attestatodal moltiplicarsi di iniziative e articoli edalla riproposta delle opere, che hannoconquistato via via nuovi lettori attrattidalla sua saggezza disincantata e dallasuggestione del suo discorso sugli uomini,«creature deboli», vittime di continueillusioni e impulsi irrazionali, afflitte dapassioni e ambizioni che tormentano glioscuri labirinti della coscienza alla ricercadi un equilibrio interiore. Nel dialogo De

tranquillitate animi Seneca affronta conSereno, giovane amico iniziato allostoicismo, il tema dell’inquietudine, deltaedium vitae, della ricerca di felicità cheognuno crede di trovare impegnandosi inogni genere di attività, in fuga dalle proprieinsicurezze – ma poi si ritrae nauseato escontento di sé e desidera la solitudine. Ilfilosofo, esperto medico dell’anima, esortaa vivere in serena operosità senza escluderemomenti di meditazione introspettiva,durante i quali osservare con distacco eserenità gli eventi. In sintesi, la tranquillitàdell’animo è frutto dell’equilibrio tra la vitaattiva e quella meditativa. Fondendoelementi democritei e stoici Senecariassume così il senso che per lui acquistala parola tranquillitas: «rimanere in unacondizione pacifica non esaltandosi mai, néscoraggiandosi». Esiste una sola via perraggiungerla, ed è quella che si percorrefrenando le passioni sconvolgenti,

portando ordine nel proprio animomediante la ragione. La nobiltà dell’uomosi mostra proprio nella lotta continuacontro gli allettamenti esterni, senza cederea essi. Ne consegue anche l’idea che la virtùnon sia innata, ma frutto di una conquistaprogressiva. Nella presente edizione le notedi commento, estrapolate di fatto dainumerosi saggi che il filologo Alberto Grilliaveva dedicato a questo testo, predilettoper la sua «profonda introspezione, lontanada semplici stereotipi moralistici»,forniscono informazioni di caratterefilosofico e linguistico e aiutano così illettore a osservare, per esempio, l’attentaelaborazione del periodo senecano conl’accostamento di termini in gradazionecrescente, o ad apprezzare l’intensità dicerti tocchi stilici, o a meditare sulsignificato da dare a taedium e displicentiasui («noia» e «disgusto di sé» che assalgonochi vive un’esistenza vuota di significato:

tema di ascendenza diatribica), o a prestareattenzione all’utilizzo delle metaforepresenti nell’opera. Il cammino verso lasaggezza è configurato come via imperviacon continue deviazioni e oscillazionirispetto al retto cammino, e quella piùricorrente della navigazione: lo stato diSereno è simile a quello del tremolio delmare, egli ondeggia incerto senza trovarecalma, pur in vista della terraferma.

La traduzione, che Costa con modestiadefinisce «di servizio», è molto vicina altesto latino senza cancellarne lacomplessità e specificità: le frasi concise eincalzanti, l’accavallarsi di termini simili oantiteci, la vivacità e rapidità di passaggi daargomento ad argomento. Tuttavia èsempre azzardato dare un giudizio sullaversione di un testo, tenendo a mente ciòche scrisse Leopardi, raffinato traduttore diclassici: «Del modo di ben tradurre ne parlapiù a lungo chi traduce men bene».

CLASSICI

La ‘tranquillitas’di Seneca,via dalle passionimescolandovita attivae introspezione

OTTANTARE OMAGGI A POETI E FILOSOFI: «TUMBAS» DI CEES NOOTEBOOM

di LUCA SCARLINI

Oppositore, da posizioni con-servatrici, del regimenazista, depor-tato a Buchenwald per la sua visibili-tà pubblica quando sostenne ilmini-stro luterano Martin Niemöller, chesi era opposto fortemente alla aria-nizzazione della chiesa tedesca rifiu-tando di sottostare alle richieste delregime, Ernst Wiechert fu un testi-mone del suo tempo. Quando eraancora all’università si era espressochiaramente, a fianco degli studen-ti, contro il nuovo corso, e da tempoera sotto l’occhio della polizia. Il go-verno gli inflisse una pena severa:quattromesi, tra carcere e campo diconcentramento; in seguito vennetenuto sotto stretta sorveglianza, fi-no al 1945, e la sua opera fu sottopo-sta a limitazioni e censure preventi-ve. Gli era permesso di pubblicare,dopo visione da parte del ministerodella Propaganda, solo se non tratta-va, nemmeno vagamente di questio-ni politiche.

Al suo ritorno si occupò di temiconnessi alla natura, godendo di unseguito di lettori, che facevano circo-lare i suoi testi, tra canali autorizzatie clandestini. Della sua tremendaesperienza di detenzione raccontain quello che è forse il suo libro piùfamoso, La selva dei morti che oraopportunamente Skira riproponenella antica versione di LaviniaMaz-zucchetti (pp. 119, e 14,00), a tre an-ni di distanza dalla riproposta, pres-so Ancora, di Missa sine Nomine.Wiechert scrisse il testo nel 1939 e loseppellì in una scatola di metallonel suo giardino; solo nel 1946 fustampato in Svizzera, dove lo scritto-re decise di vivere gli ultimi anni del-la sua esistenza.

In Italia, dove era stata molto ap-prezzata la sua commossa Novellapastorale, uscita nellamagnifica ver-sione di Massimo Mila, il libro arri-vò quasi subito, nel 1947, nella colla-na Medusa Mondadori. L’autore sipresenta in terza persona con il no-medi Johannes, per raccontare quel-lo che, nella nota introduttiva, defi-nisce «unpreludio alla grande Sinfo-nia della Morte, che sarà scritta ungiorno, da chi ne sarà più degno». Ilcampo, «luogo di enigmi e orrori»,in cui molti cercano di darsi la mor-te per uscire da una miserabile con-dizione di esistenza, è anche luogodi incontri memorabili. Lo scrittore,che assume il nome di Johannes, in-contra persone che lo aiutano acomprendere le micidiali regole delluogo. Wiechert ha sempre comepunto di riferimento, nella descrizio-ne delle dinamiche dell’orrore, lasua fede cattolica, che sostanzia unavisione da Inferno dantesco.

Le punizioni, la morte sono inflit-ti con demoniaca capricciosità,mente il lavoro aumenta in modoesponenziale, e lo scrittore si trovainadatto a compierlo, fragile, espo-sto apunizioni continue. A sostener-lo, oltre alla religione, è il profondoconvincimento che il regime nazi-sta, per la sua stessa natura, è desti-nato a scomparire rapidamente, per-ché – scrive – «non esiste civiltà chesi possa costruire sul sangue uma-no. Si possono erigere sul sangue esulla violenza degli Stati, ma gli statifurono sempre cartelli di carte per ilvento dell’eternità».

ERNST WIECHERT

Buchenwaldovvero«La selvadei morti»:un resocontodatato 1939

di INGRID BASSO

«I giorni trascorrono come le nuvolenel cielo, che errano intrecciandosi unaall’altra, senza significato alcuno. Maall’improvviso le cose appaiono collegatetra loro, non sono più eventi isolati. Lenuvole hanno assunto la forma di animali,di uccelli, tutto ha un significato, uncontenuto. Uno scopo». La forma è lachiave di tutto: secondo Aristotele l’animaè appunto forma del corpo, e LaurentiusHylas – il protagonista del romanzo Le apidello scrittore estone Meelis Friedenthal(traduzione e postfazione di DanieleMonticelli, Iperborea, pp. 276, e 16,50) èun aristotelico. Un aristotelicocontrocorrente, dal momento chel’università di Tartu, dove da poco èstudente – l’Estonia è ancora sotto ilglorioso dominio svedese – alla fine delSeicento è un importante e modernissimocrocevia culturale e linguistico: il rettore, ilmatematico Sven Dimberg, vi insegna lateoria newtoniana ancor prima che essa sidiffonda in Inghilterra (come spiega condovizia di dettagli Daniele Monticelli nellapostfazione al romanzo). MeelisFriedenthal, da teologo e attento studiososecentista, è in grado di penetrare conpasso sicuro l’atmosfera culturale

dell’ultimo decennio del secolo,tratteggiando con successo la figura di ungiovane intellettuale combattuto tra latradizione e il meccanicismo della scienzanuova. La storia di Hylas ha la durataesatta di una settimana, la settimana chesegue al suo arrivo a Tartu all’indomanidell’abbandono dell’università di Leida.Sono giorni di pioggia ininterrotta in cui ilticchettio delle gocce d’acqua fa da bassocontinuo allo scorrere onirico di immaginisfumate, quasi acquee appunto e dunquesenza forma. Così appare la vita almelanconico Hylas, che porta il nome –non sarà casuale – del giovane di cui lamitologia racconta che il corporeo Eraclesi inamorò, ma che morì proprio perannegamento, rapito dalle Ninfe. Anche lavita di Laurentius Hylas è vissuta su unariva, sul bordo di un abisso «acqueo» chesepara il significato dal non-senso, laforma dalla materia bruta. L’acqua non hamemoria, scriveva Conrad, ma lamancanza di memoria implical’impossibilità di costruire una storia, cheè fatta di collegamenti significativi e diintenzionalità, intrinseca se non agli eventialmeno all’intelletto di chi li determina.Hylas è quindi alla ricerca di un senso, perpotersi liberare di quel sapore di marcioche gli infesta le narici, insegue uno scopo

capace di liberarlo dall’umor nero che loperseguita, ovvero di liberarlo da quella«morte per acqua» che – come ricordavaElliot – non permette, forse, resurrezione.Il crinale su cui si muove Hylas è anche illimite che separa il corporeo dallospirituale, la materia dalla forma, neltentativo di vedere dove finisce uno e dovecomincia l’altro (la cartesiana ghiandolapineale, possibile luogo d’incontro dicorpo e spirito), o meglio dove l’uno siintravede nell’altro, perché la vista – diceAristotele – è in senso metaforico l’animadell’occhio: «l’occhio non è altro che lamateria della vista. Se eliminiamo la vista,l’occhio non è più occhio». Non a casoHylas si sta dedicando alla stesura di untrattato sull’anima, nel quale si chiede sela vita dell’uomo non sia forse quel fiatoche si muove dentro e fuori di noi, quellostesso umore che fa sfrigolare i rami vivinel camino: «L’anima viene fuori ed esceda noi continuamente, come il fiato, comele api dall’alveare... E all’improvviso se neva, proprio come le api abbandonanol’alveare, in un giorno caldo, dirigendosi insciame chissà dove». Così la morte,sembra concludere Hylas, non è ancora lafine di tutto, perché forse «... è solo unerrore», un intralcio gratuito in unpercorso che dovrebbe condurre a unameta precisa, dal momento che «ogni cosasi dirige verso la sua destinazione finale.Ma qual è la destinazione degli esseriumani?» La domanda attanaglia il giovanestudente con l’insistenza che ha losguardo di una «triste compagna dagliocchi scuri», la definizione cheShakespeare dà della melancolia. E forsenon è un caso se soltanto il teatro è ingrado di distogliere Laurentius dal suoumor nero, perché al contrario di quantoavviene nella vita, nel teatro secentescoogni storia ha termine soltanto quando èrealmente compiuta.

Tra diari di Rilkee ricordi di Vogeler,la ricostruzioneromanzescadi una esperienzaartisticatra le più originalidella belle époquetedesca

Una comunità utopica,una biblioteca ideale,una autobiografia: i commiatidello scrittore olandese da Auden,Borges, Yeats,Wittgenstein...

Geometrie amorosenel cenacolo artisticodi Worpswede

«Between Eternity and Geniuscide»,1994, installazione di Braco Dimitrjevic,Vienna, Liechtenstein Palace, ’94

Nei cimiteri idealirisorgono le opere

MODICKHeinrich Vogeler,«Sehnsucht (Träumerei)», circa 1900

Page 6: Alias Del 29 Novembre 2015

(6) ALIAS DOMENICA29 NOVEMBRE 2015

La facciata 1:1di Arnolfo, fra enfasi,confusione e utilità

di MASSIMO ROMERI

Tarsie usciva nel 1942: in pie-na guerra e in un periodo nero perl’editoria italiana. Il volume erauno dei primi «Quaderni d’arte»,una collana «popolare» che l’edi-tore Calogero Tumminelli avevaaffidato alle cure di Emilio Cec-chi. I «Quaderni» dovevano avereun taglio moderno, buone ripro-duzioni fotografiche, intelligenzanegli apparati critici; la scelta deitemi e dei curatori era, ovviamen-te, centrale.

Il progetto era ambizioso. Coin-volgeva molti storici dell’arte, tracui diversi giovani, e programma-va sei uscite annue; a frenarlo, ol-tre ai bombardamenti, furono lamorte di Tumminelli e una concor-renza sempre più preparata – i«Quaderni», dati alle stampe finoal 1946, furono solamente dodici.

Per il volume sulle tarsie Cecchiaveva pensato ad Anna Banti, mo-glie di Roberto Longhi: lei rifiutò.Si sentiva «disarmata per queglistudi», e aveva già troppo in cantie-re. Rilanciò su uno degli allievi piùbrillanti del marito, Francesco Ar-cangeli. Sembrò subito perfetto:l’argomento, già affrontato da Cec-chi in un articolo sul coro della cat-tedrale di Todi nel 1941, doveva es-sere sostenuto da una voce giova-ne, che si approcciava a quelmate-riale in un modo nuovo.

Occupandosi di tarsie lignee ri-nascimentali il giovane Arcangelidoveva affrontare un antico e radi-cato atteggiamentomentale. La re-alizzazione lignaria si portava infat-ti appresso il fardello della subalter-nità alla pittura, persino tra le righedi Roberto Longhi. Per chi avevastudiato l’argomento, più delle rea-lizzazioni finali, contavano imodel-li preparatori – tutti perduti – dise-gnati dai pittori. Un preconcettoche risaliva a Vasari, difficile dascardinare. Ci si era provato EmilioCecchi,ma il colpodefinitivo lo die-de proprio Arcangeli in Tarsie.

Inoltre, della capacità fabbriledei maestri di tarsia, cara al mon-dodelle scuole d’arte a cui Tummi-nelli avrebbe voluto destinare il li-bro, al ventisettennebolognese do-veva importare poco. Come pocoimportava, a lui e a Cecchi, di pen-sare alla tarsia in un sistema inte-

grato di struttura e decorazione:c’era da trovare un equilibrio trauna visione ancora ottocentesca,che relegava la tarsia a un fattod’artigianato, e certo idealismo cro-ciano. In questo senso il problemadelle tarsie si legava a quello delleriproduzioni fotografiche delle ope-re d’arte: immagini leggibili, nuovee inaspettate,montate intelligente-mente, sarebbero state il corollariogiusto al testo. Immagini che, nelQuaderno, avrebbero dovuto rap-presentare non cori o interi appara-ti, ma singole specchiature. Comese le tarsie fossero, prese una auna, pitture da cavalletto. Era già,di per sé, un’indicazione critica. Eil reperimento del materiale foto-grafico fu uno degli impicci mag-giori per Arcangeli.

Il volumetto fu il primo vero im-pegno saggistico per lo storicodell’arte, che in quegli anni conti-nuava a mescolare passioni lette-rarie e critica militante. Longhi vi-gilò sul lavoro, che venne conclu-so in poco più di tre mesi. Ripub-blicato ora in anastatica dalle Edi-zioni della Normale (e 25,00), Tar-sie svela molto di quel momento.Grazie, soprattutto, a una postfa-zione scritta da Massimo Ferrettiche ricostruisce con un montag-gio persuasivo, con flashback escatti in avanti, la formazione dellibro. Al centro della riflessione diFerretti sono gli scambi epistolaritra i protagonisti di quella vicen-da: le lettere calano nella salamacchine non solo del Quadernodi Arcangeli, ma di una stagione

intera della cultura italiana.Tra le altre cose, l’insistenza di

Longhi sulla chiarezza: la «zavorrafilologica», che era pure uno dei ri-sultati del pensiero critico longhia-no, andava ridotta al minimo peragevolare la lettura al «grande pub-blico». Una sensibilità divulgativache raggiungerà l’apice vent’annidopo, nei «Maestri del Colore» deiFratelli Fabbri.

Ferretti, che di Arcangeli fu allie-vo, nella postfazione a Tarsie apreuno squarcio importante per rico-struire il pensiero e la storia forma-tiva del proprio maestro. Una for-mazione sulla quale pesò molto ilrapporto con Longhi, tanto fonda-mentale quanto visceralmente pro-fondo. Arcangeli lo confessò in unabellissima lettera a Cecchi nel gen-

naio 1942: «in certi giorni vien vo-glia di lavorare e lavorare quasicon la speranza di potermi tutto“trasferire in lui”».

Era così anche per i compagni distudio più vicini, tra cui AlbertoGraziani, il geniale, precocissimo,scolaro di Longhi scomparso nel1943 a ventisette anni. Grazianiaveva già pubblicato alcuni contri-buti magistrali, mentre Arcangeliaveva seguito la sua vocazione let-teraria e si stava spendendo, neglistessi mesi tra ’41 e ’42, come criti-co militante. Tarsie poteva colma-re un poco le distanze, ma fu unafatica improba, un lavoro fatto inpoche settimane e tutto, o quasi,subordinato ai materiali fotografi-ci. Anzi, tanto più impegnativopro-prio perché non aveva offerto la

possibilità di un rapporto direttocon le opere. Lo dice bene Ferretti,quella di Arcangeli è «una cono-scenza storico-critica che maturaattraverso la frequentazione repli-cata, continua, interrelata a quan-to entra in una più profonda me-moria, dov’è il presente vissuto adare il senso del luogo storico». Bo-logna è la città in cui convergonovissuto e maturazione intellettua-le; una città rivitalizzata da presen-ze che lasceranno il segno per tuttal’esistenza: certo Longhi, poi Gior-gio Morandi, ma anche legaminon esperienziali, ma mentali, conalcuni oggetti. Come i quadri di Lu-dovicoCarracci, unodei pittori pre-diletti, nonché uno dei grandi arti-sti della sua città.

Sembra quindi naturale che Ar-cangeli non più giovane, già pro-fessore all’Università di Bologna,relegasse i il ricordo di Tarsie tra leesperienze occasionali e, apparen-temente, poco care. Eppure, mal-grado le difficoltà affrontate, il li-bro riesce a ridefinire un tema sto-rico con intensità e intelligenza,senza cadere in quello che sareb-be stato un gioco facile, soprattut-to in quegli anni, cioè «abbando-narsi al fascino capzioso di un’in-terpretazione “metafisica”». Unparagone, quello tra le tarsie e lapittura metafisica, che aveva pro-posto Cecchi. Non era di per sé as-surdo,ma ad Arcangeli non torna-va. La prospettiva e la sintassi rina-scimentale erano una cosa diver-sa dagli esercizi di de Chirico o da-gli edifici di Marcello Piacentini, eil rapporto tra passato e presenteandava se mai invertito e mante-nuto nel suo spessore, senza gli ap-piattimenti retorici che giustifica-vano quel processo di sintesi e iso-lamento idolatrico delle formeche aveva originato, per esempio,via della Conciliazione.

Nel libro, il momento più altonella storia dell’arte dell’intaglio èassociato, per la prima volta inmo-do così chiaro, alla pratica prospet-tica: il «trionfo solenne e semplicis-simodella prospettiva» si toccanel-le specchiature del coro del duo-mo di Modena lavorato dai fratelliCanozi da Lendinara.Nell’aggrega-zione dei legni del duomo emilia-no si concretizza infatti la nozionematematica del disegno suggeritadalle ricerche di Piero della France-sca e Leon Battista Alberti. L’evi-denza della materia non è smenti-ta, ma utilizzata in chiave espressi-va, calcolata sulle possibilità delleessenze lignee. E imodelli per que-ste tarsie non sonodisegnati da Pie-ro, come credevano Longhi e Ar-cangeli, ma da Cristoforo Canozistesso, in totale autonomia.

Da Tarsie in poi gli studi non po-tevano che riflettere su questi lega-mi tra ricerca (Alberti, Piero, Bru-nelleschi) e applicazione tecnica:le tarsie prospettiche sono oggiconsiderate, per citare Ferretti, «ilsegmento di una catena che si si-tua spesso ai più alti livelli tecnolo-gici del tempo». Ma, al di là delleconsiderazioni di Arcangeli sull’ar-gomento, ancora oggi insostituibi-li, Tarsie diventa, grazie soprattut-to alla nota finale di Ferretti, unodei testi chiave per comprenderepiù a fondo la cultura e la societàdi una nazione che stava affrontan-dounodeimomenti più drammati-ci della propria storia.

di CLAUDIO GULLIFIRENZE

Rischia di passare sotto silen-zio critico un avvenimento di unacerta portata, nel panoramamuse-ale italiano: è stato riallestito – einaugurato il 29 ottobre – il NuovoMuseo dell’Opera del Duomo diFirenze (con annessa guida omo-nima, a cura di Timothy Verdon,per Mandragora, pp. 147, e 15,00).Il museo, che aprì i battenti nellontano 1891, non ha bisogno dipresentazioni: qui si conservanole celebri sculture provenienti dalDuomo, dal Battistero o dal Cam-panile. In origine erano solo tre sa-le, dopo gli ampliamenti novecen-teschi si era giunti al numero diventi. La storia di questo restylinginizia invece nel 1998, quandol’Opera acquista, per dodicimiliar-di di vecchie lire, l’adiacenteex-Teatro degli Intrepidi, già tra-sformato in garage in pieno Nove-cento. Lo spazio a disposizione co-sì raddoppia e viene indetto unconcorso a inviti per la realizzazio-ne del progetto architettonico. FraGae Aulenti, lo studio di Gregotti equello di Adolfo Natalini, il vincito-re risulta Santiago Calatrava(2002) – e un buon catalogo, a se-guito di una mostra, raccoglie leproposte pervenute (Il nuovo Mu-seo dell’Opera del Duomo. Quattroprogetti, Mandragora, 2002). Madopo due anni di stallo, il matri-monio fra l’Opera e l’architettospagnolo si scioglie e l’incarico

passa ai ‘Natalini architetti’, sup-portati dallo studio di Piero Guic-ciardini e Mario Magni, ben piùaddentro alla realtà dei musei to-scani (hanno, fra gli altri allesti-menti in cantiere, anche quellodei Nuovi Uffizi).

Passato il tornello all’entrata delmuseo, appare un corridoio barda-to di marmo, dove sono incisi no-mi di artisti o artigiani impiegatidella Fabbrica, quasi sullo stile deimemoriali americani. Materiali ecromie sono pesanti, dominanogli scuri, l’illuminazione spessoscarseggia, anche se sotto gli spot

va una splendida testa del più clas-sico e fortunato dei gotici senesi,Tino di Camaino. In caratteri cubi-tali e dorati, troneggiano citazionidalle Vite vasariane o dai Salmi.Ma c’è spazio per un grande rega-lo. Si intravede quasi subito: unaricostruzione della facciata dellaCattedrale in scala uno a uno – enelle nicchie, nelle logge, nelle lu-nette, sono stati collocati i calchida sculture note anche a chi fre-quenta i manuali di storia dell’ar-te: con una certa enfasi, è ora chia-mata ‘Sala del Paradiso’. Su pro-getto di Arnolfo di Cambio, a parti-re dall’inizio del Trecento e fino alprimo ventennio del Quattrocen-to, la decorazione della facciataera andata crescendo progressiva-mente, sino a divenire una babeledi stili lunga un secolo. Il docu-mento che guida a recuperare lecollocazioni delle sculture nellostato antico della facciata è un fa-moso disegno, attribuito a Bernar-dino Poccetti, precedente il 1587 eperò mai riprodotto nei cartelli: losi vede apparire solo in video. Perla prima volta, si riesce dunque acapire come funzionava uno scor-cio di Arnolfo, scultore che ora sipuò riscoprire del tutto. I suoi vo-lumi massicci, le esasperazionidelle proporzioni, le squadratureche costringono i volti – tutto unarmamentario che la critica avevagià avvertito come falsante – torna-no a essere meri espedienti peruna visione dal basso. Gli originalisono quasi sempre a portata di oc-chio, a pochi metri dallo spettato-re, solo i doppioni servono da gui-da alla comprensione. Di fronte,una accanto all’altra, le porte delBattistero, e sopra, i relativi grup-pi bronzei, sempre nella posizio-ne originaria. Le formelle del Ghi-berti dialogano con i Profeti di Do-natello o di Nanni di Banco conuna facilità che sembra unmiraco-lo museografico, eppure non c’ènulla di artificiale: doveva essereproprio così. E anche i sarcofagiromani – sottolinea in un breve in-contromonsignor Verdon, diretto-re e autore del progettomuseologi-co – sono qui esposti a documen-tare quanto l’antico fosse una mi-niera a disposizione di scultori escalpellini che trafficavano fraDuomo, Battistero e Campanile.Visti dal basso, anche i bronzi delRustici guadagnano in ferocia,mentre il Battista di VincenzoDanti sta quasi a chiudere il sipa-rio, nella solita maniera fra l’acca-demia e la spacconeria.

Tanto il museo restituisce in sa-le ariose e chiare gli spazi esterni odi grandi dimensioni, quanto rac-chiude reliquiari, dalmatiche e og-getti da sacrestia in ambienti mi-nori, popolati di teche valide. LaMaddalena di Donatello forse me-ritava una sala tutta per sé, comeè toccato alla Pietà di Michelange-lo. Invece, nelle pareti attorno allasanta decrepita di legno, si affolla-nomaestri fiorentini anche del se-colo prima, da Bernardo Daddi aGiovanni del Biondo. Si haun’idea dello scarto fra vecchio enuovo allestimento, se si conside-ra che la Pietà, abbandonata inuno scatto d’ira dal Buonarroti,prima era esposta nell’andito del-la scala. Ora è alla ribalta, sopraun finto altare e tutti i tormentatipassaggi, dalla finitezza alla mate-ria bruta, si apprezzano a dovere.Anche le sale dedicate ai reliquari

o ai paramenti funzionano: dimez-zo ci sono artisti della levatura diAntonio Pollaiolo (è stato ricompo-sto il parato di SanGiovanni) e ora-fi non meno esperti, in fatto di fa-stosità decorative, come Antoniodi Salvi. Da vari punti del museo, sirivedono le sculture della facciata:per esempio da una galleria dovesono esposti imarmi per il Campa-nile. La serie di Andrea Pisano fron-teggia i primi profeti, popolari o se-natoriali, che uscivano dallo scal-pello di Donatello; ma qui non so-no pervenuti tentativi di ricostru-zione della collocazione originaria.Al momento di raccontare la storiadella cupola, regna la confusione:ci sono dei tronchi che evocano leforeste del Casentino e un videodal volume troppo alto. Anche il re-sto del museo abbonda di musica,come la sala delle Cantorie, an-ch’essa deludente. Meglio quandosi torna a occuparsi della facciata:un video, stavolta più ragionato,spiega per filo e per segno comenel 1587 Francesco I facesse smon-tare la facciata arnolfiana e da lì ini-ziasse una storia moderna di pro-getti irrealizzati: dalle prime propo-ste, morigerate, di Bernardo Buon-talenti o di Giovanni Antonio Do-sio, fino agli sfoggi, di festoni e dichiarezza, di Gherardo Silvani. So-lamente un secolo dopo si concre-tizzò qualcosa, ben poco: una fac-ciata effimera dipinta, commissio-nata da Cosimo III nel 1689, in oc-casione delle nozze di suo figlio.Questo assetto giunge sino all’epo-ca della fotografia: la situazione ri-mase tale fino al compimento delprogetto di Emilio De Fabris(1887). In mezzo, c’erano stati itempi in cui si sognava di una San-ta Maria del Fiore che somigliassea una Chartres o a una Westmin-ster o, tout court, a una cattedraleda fiaba anderseniana. Fra i tantimateriali, si riscopre la qualità diun pittore assai teatrale, come Nic-colò Barabino, autore dei cartoniper i mosaici.

Sia detto a margine: ma quantorimane ancora da fare, anche a Fi-renze! Si crede che sia tutto alla lu-ce e invece non è così. La città-ve-trina non restituisce una profondi-tà. Per esempio, restando in areaDuomo, c’è la Sacrestia dei Cano-nici. Sono riuscito a entrare, per laprima volta, grazie alla gentilezzadi un custode; ma piange il cuorea pensare che sia l’ultima: la sacre-stia, ancora utilizzata, è semprechiusa a doppia mandata. Eppuredentro ci sono gli armadi intarsia-ti da Giuliano e Benedetto da Ma-iano, prodigi della visione prospet-tica: anche gli alberi e le nuvole,nell’Annunciazione, rispondonoal nuovo teorema. Ci vorrebberoanche qui le visite guidate, come aPalermo. Ma Verdon ci ha ancheconfessato: ‘Firenze è la città delturismo di massa’. Purtroppo,monsignore, e bisogna lavorare insenso contrario.

ARCANGELISpecchiatured’Italia, nel ’42

di MARIO MANCINI

Può accadere che un critico, ancheimportante, diventi nel tempo un’icona,riverita ma lontana: non è certo questo ilcaso di Gianfranco Contini, la cui figuracontinua a essere al centro di analisi edibattiti, non solo per la sua straordinariaopera di critico e di filologo, ma, possiamosenz’altro dirlo, per il fascino della suapersonalità. Una preziosa occasione diriflessione è stato il convegno diPisa-Firenze del dicembre 2012, per ilcentenario della nascita, di cui possiamoora leggere gli Atti (Gianfranco Contini1912-2012 Attualità di un protagonista delNovecento, a cura di Lino Leonardi,Edizioni del Galluzzo, pp. 214, e 42,00).Contini è un critico profondamente legatoal Novecento europeo e alle sueavanguardie: è il tema del bel saggio diRoberto Antonelli che apre il volume.L’angoscia, per lui il sentimento araldicodel secolo, è anche e innanzituttol’emblema dell’Espressionismo – cui èdedicato un grande saggio (1977) – che,con Benn, con Pessoa, con gli eredi Céline

e Gadda, è crisi e rivolta: «il frutto di unaforza scatenata, una momentaneadeformazione sollecitata da unmovimento, una spazialità che include iltempo». Fare critica significa allora – eAntonelli coinvolge moltoopportunamente il resoconto continianosulle deludenti Rencontres internationalesdi Ginevra, del settembre 1946, dedicate alfuturo della cultura europea – raccogliereuna grande sfida: ripensare, dopo la Crisi,esistenziale ed epocale, tutta la culturaitaliana in termini nuovi, ricollocarla inEuropa. L’itinerario di Contini linguista estrutturalista è ben ricostruito da MarcoMancini in tutti i suoi aspetti e anche nellacomplessa interazione con Saussure, conMeillet, con Benveniste, con Jakobson. Cisono i rigorosi esercizi di fonologiadiacronica, i saggi dialettologici,caratterizzati, rispetto alla tradizionepositivista, pure non rinnegata, daun’estrema cura nell’individuazione deiprotocolli filologici, c’è soprattutto, neisaggi di critica letteraria, un’attenzionesistemica connessa con la mouvamcetemporale dei testi. È evidente come

questo organicismo a base linguistica –basato sul principio cardine della«differenzialità» – sia vicino alla Stilkritik diSpitzer, al suo «circolo ermeneutico», chemuove dal testo e ritorna al testo.Strutturalista è anche il Contini filologo,ma in una originale sintesi distrutturalismo e di storicismo, dove èdeclinata una «critica della tradizione» chenon rinuncia ad affrontarne e ainterpretarne la diacronia, e una «storia deltesto» visto nella sua dimensione dinamicama insieme proposto nel suo valore neltempo, nel suo signficato per noi. Lanatura stessa dell’edizione critica, fossepura quella di un autografo, èinterpretazione e ipotesi scientifica, nonriproduzione materiale: «Ogni testo criticoè un fatto teoretico». Nel momento stessoin cui ricostruisce lucidamente ipresupposti della filologia continiana e ilsuo eccezionale impatto sul contestoitaliano, Lino Leonardi rifiuta condecisione la tendenza generale attuale che,soprattutto in Francia, va verso unaconservazione feticistica dell’oggettomanoscritto. Il ritorno alla fisicità del

manoscritto e alla sua «verità», per tantiversi salutare – è la cosiddetta «filologiamateriale» – non deve farci perdere di vistal’altra «verità», quella che trascende ilmanoscritto ed esige il riconoscimento delsuo posto nella tradizione. «Interpretare latradizione dei testi medievali europei edoffrirne un testo che di questa tradizionedia conto – così Leonardi in quello chesuona come un ambizioso e necessarioprogramma di lavoro – è un compito che

può tornare a dare un senso alla nostrafilologia». Questa stessa doppia tensione difilologia e presenza del Contini filologo laritroviamo, e ne fa la grandezza, nelContini critico letterario, che ama definirsi«critico militante». In un processo che è«sperimentale», al rigore dello sguardomicroscopico – come bene argomentaAndrea Cortellessa – corrisponde ancheuna «visione telescopica». Quella cheindividua, con il nome di «funzioneGadda» o di «funzione Longhi», i rami diun albero genealogico d’immaneestensione e profondità. Solo «una visionetelescopica, che è quella di un’autenticacontemporaneità», così Cortellessa, puòpermetterci di intravedere, nel buiodell’epoca, la luce stellare e inattuale deltesto. Un assioma centrale, ormai mitico,della critica continiana – qui ripercorso daClaudio Giunta e da Andrea Soldani – è lapolarità Dante-Petrarca: pluralità degli stili,interesse teorico, sperimentalismo, da unaparte, unità di tono e di lessico, nessunesperimento, introversione, dall’altra. SeContini, puntando sui fatti di stile, mette inprimo piano il carattere e l’unità della

poesia di Dante, dalle Rime alla Commedia,Giunta si domanda se questo noncomporti dei rischi: di «sopravvalutazionedi somiglianze verbali probabilmentefortuite, o non dimostrabilmenteintenzionali» e di una «loro interpretazionein chiave ideologica». Le stagioni di Dantesi possono distinguere, per Contini,speculando sull’influsso dei maestri:Guittone, Cavalcanti, Arnaut Daniel. È unacatena aurea di confronti e di superamentiche si regge su una prodigiosa memorialetteraria: Dante come personaggio poeta(1958). Giunta, forse trascinato, comeconfessa, da una sua «renitenza ai sistemi»,non esita a ridimensionare il grandesaggio: «rileggendolo si ha soprattutto lapercezione di un eccesso, di un trascorrerenon abbastanza motivato da fatti di linguaa fatti di ideologia». Il saggio di Soldani suPetrarca è un vero tour de force. Prendecome punto di partenza l’antinomiafondativa continiana Dante-Petrarca escavandola acutissimamente fino in fondovede come l’assolutezza formale diPetrarca è un «essere per mancanza» e nonpermette la caratterizzazione e la

concettualizzazione perché è un negativoincluso dialetticamente nel suo opposto:«Contini non rappresenta Petrarca,rappresenta il rovescio di Dante,“l’anti-Dante”». Se ci sentiamo lontanidalla sua grandiosa prospettivastoriografica fondata su questa antinomia,così Soldani, possiamo però riprendere daContini una serie di illuminanti affondistilistici, rimasti irrelati, e pensare ilCanzoniere come «narrazione», come libromobile, dinamico e temporalizzato,pensare un nuovo Petrarca dotato di unasua interna «tensione differenziale». Comeessere post-continiani senza essereanti-continiani. L’eccezionale personalità,intellettuale e umana, di Contini si rivelaanche nella sezione del volume che siintitola Dialoghi. Vengono qui ripercorsil’intenso rapporto con Giorgio Pasquali, ilgrande classicista, l’autore di Storia dellatradizione e critica del testo, operafondamentale per la prassi filologicacontiniana (Domenico Di Martino); lalunga amicizia, picaresca e surreale, conGadda (Paola Italia); l’«amor de loinh» chelo lega a Pasolini, il giovane poeta di cui nel

1942 recensisce Poesie a Casarsa, di cuiammira «l’amore dell’umile edell’autentico» (Franco Zabaglia). Epossiamo ora aggiungere il carteggio con ilpoeta aronese Carlo Sinigaglia, una verasimbiosi d’anime, vissuta nel ricordo della«socialistica libertà» che li vide insiemenella Resistenza e nella Repubblicadell’Ossola ("Come per una congiura".Corrispondenza tra Gianfranco Contini eSandro Sinigaglia (1944-1989), a cura diGualberto Alvino, Edizioni del Galluzzo,pp. 288, e 45,00). Spicca, in questa sezione«Dialoghi», la felicità stilistica dellesessantadue lettere e cartoline, finorainedite, che Contini scrive a Gadda tra il’36 e il ’67 e che sono qui commentate, congioiosa complicità, da Paola Italia. Ci sonogli incontri e le scorribande lombarde, leinevitabili autoaccuse per il silenzioepistolare, c’è, soprattutto, un’entusiasticae immediata empatia, che si manifestaanche nella collaborazione, alla prosadell’ingegnere. Con magnifiche, folgorantiformule critiche, come questa, per laseconda Adalgisa: «Porta 1945, o piuttostoProust eroicomico».

MUSEI

MAESTRI DI FILOLOGIA

Come esserepost-continianisenza essereanti-continiani:escono gli Attidel centenario

L’allargamentodegli spazi, siglato‘Natalini architetti’,va sotto il segnodi una controversaspettacolarità,ma aiuta a capirel’antico frontedel Duomo

Museo dell’Opera del Duomo,Sala del Paradiso o dell’Antica facciata,foto Antonio Quattrone

«TARSIE», TORNA, NELLE EDIZIONI DELLA NORMALE, IL PRIMO SAGGIO DI FRANCESCO ARCANGELI

Cristoforo da Lendinara, particolaridel San Matteo e del San GiovanniEvangelista nelle tarsie del Duomodi Modena; le foto, Anderson, sono quelleusate da Arcangeli (in foto) nel suo libro

A FIRENZE IL NUOVO ALLESTIMENTO DELL’OPERA DEL DUOMO

Intorno allo scrittosull’arte lignariadel Quattrocento,ora riproposto,Massimo Ferrettifa convergeremagistralmentei dati culturalidi un’intera epoca

Page 7: Alias Del 29 Novembre 2015

(7)ALIAS DOMENICA29 NOVEMBRE 2015

La facciata 1:1di Arnolfo, fra enfasi,confusione e utilità

di MASSIMO ROMERI

Tarsie usciva nel 1942: in pie-na guerra e in un periodo nero perl’editoria italiana. Il volume erauno dei primi «Quaderni d’arte»,una collana «popolare» che l’edi-tore Calogero Tumminelli avevaaffidato alle cure di Emilio Cec-chi. I «Quaderni» dovevano avereun taglio moderno, buone ripro-duzioni fotografiche, intelligenzanegli apparati critici; la scelta deitemi e dei curatori era, ovviamen-te, centrale.

Il progetto era ambizioso. Coin-volgeva molti storici dell’arte, tracui diversi giovani, e programma-va sei uscite annue; a frenarlo, ol-tre ai bombardamenti, furono lamorte di Tumminelli e una concor-renza sempre più preparata – i«Quaderni», dati alle stampe finoal 1946, furono solamente dodici.

Per il volume sulle tarsie Cecchiaveva pensato ad Anna Banti, mo-glie di Roberto Longhi: lei rifiutò.Si sentiva «disarmata per queglistudi», e aveva già troppo in cantie-re. Rilanciò su uno degli allievi piùbrillanti del marito, Francesco Ar-cangeli. Sembrò subito perfetto:l’argomento, già affrontato da Cec-chi in un articolo sul coro della cat-tedrale di Todi nel 1941, doveva es-sere sostenuto da una voce giova-ne, che si approcciava a quelmate-riale in un modo nuovo.

Occupandosi di tarsie lignee ri-nascimentali il giovane Arcangelidoveva affrontare un antico e radi-cato atteggiamentomentale. La re-alizzazione lignaria si portava infat-ti appresso il fardello della subalter-nità alla pittura, persino tra le righedi Roberto Longhi. Per chi avevastudiato l’argomento, più delle rea-lizzazioni finali, contavano imodel-li preparatori – tutti perduti – dise-gnati dai pittori. Un preconcettoche risaliva a Vasari, difficile dascardinare. Ci si era provato EmilioCecchi,ma il colpodefinitivo lo die-de proprio Arcangeli in Tarsie.

Inoltre, della capacità fabbriledei maestri di tarsia, cara al mon-dodelle scuole d’arte a cui Tummi-nelli avrebbe voluto destinare il li-bro, al ventisettennebolognese do-veva importare poco. Come pocoimportava, a lui e a Cecchi, di pen-sare alla tarsia in un sistema inte-

grato di struttura e decorazione:c’era da trovare un equilibrio trauna visione ancora ottocentesca,che relegava la tarsia a un fattod’artigianato, e certo idealismo cro-ciano. In questo senso il problemadelle tarsie si legava a quello delleriproduzioni fotografiche delle ope-re d’arte: immagini leggibili, nuovee inaspettate,montate intelligente-mente, sarebbero state il corollariogiusto al testo. Immagini che, nelQuaderno, avrebbero dovuto rap-presentare non cori o interi appara-ti, ma singole specchiature. Comese le tarsie fossero, prese una auna, pitture da cavalletto. Era già,di per sé, un’indicazione critica. Eil reperimento del materiale foto-grafico fu uno degli impicci mag-giori per Arcangeli.

Il volumetto fu il primo vero im-pegno saggistico per lo storicodell’arte, che in quegli anni conti-nuava a mescolare passioni lette-rarie e critica militante. Longhi vi-gilò sul lavoro, che venne conclu-so in poco più di tre mesi. Ripub-blicato ora in anastatica dalle Edi-zioni della Normale (e 25,00), Tar-sie svela molto di quel momento.Grazie, soprattutto, a una postfa-zione scritta da Massimo Ferrettiche ricostruisce con un montag-gio persuasivo, con flashback escatti in avanti, la formazione dellibro. Al centro della riflessione diFerretti sono gli scambi epistolaritra i protagonisti di quella vicen-da: le lettere calano nella salamacchine non solo del Quadernodi Arcangeli, ma di una stagione

intera della cultura italiana.Tra le altre cose, l’insistenza di

Longhi sulla chiarezza: la «zavorrafilologica», che era pure uno dei ri-sultati del pensiero critico longhia-no, andava ridotta al minimo peragevolare la lettura al «grande pub-blico». Una sensibilità divulgativache raggiungerà l’apice vent’annidopo, nei «Maestri del Colore» deiFratelli Fabbri.

Ferretti, che di Arcangeli fu allie-vo, nella postfazione a Tarsie apreuno squarcio importante per rico-struire il pensiero e la storia forma-tiva del proprio maestro. Una for-mazione sulla quale pesò molto ilrapporto con Longhi, tanto fonda-mentale quanto visceralmente pro-fondo. Arcangeli lo confessò in unabellissima lettera a Cecchi nel gen-

naio 1942: «in certi giorni vien vo-glia di lavorare e lavorare quasicon la speranza di potermi tutto“trasferire in lui”».

Era così anche per i compagni distudio più vicini, tra cui AlbertoGraziani, il geniale, precocissimo,scolaro di Longhi scomparso nel1943 a ventisette anni. Grazianiaveva già pubblicato alcuni contri-buti magistrali, mentre Arcangeliaveva seguito la sua vocazione let-teraria e si stava spendendo, neglistessi mesi tra ’41 e ’42, come criti-co militante. Tarsie poteva colma-re un poco le distanze, ma fu unafatica improba, un lavoro fatto inpoche settimane e tutto, o quasi,subordinato ai materiali fotografi-ci. Anzi, tanto più impegnativopro-prio perché non aveva offerto la

possibilità di un rapporto direttocon le opere. Lo dice bene Ferretti,quella di Arcangeli è «una cono-scenza storico-critica che maturaattraverso la frequentazione repli-cata, continua, interrelata a quan-to entra in una più profonda me-moria, dov’è il presente vissuto adare il senso del luogo storico». Bo-logna è la città in cui convergonovissuto e maturazione intellettua-le; una città rivitalizzata da presen-ze che lasceranno il segno per tuttal’esistenza: certo Longhi, poi Gior-gio Morandi, ma anche legaminon esperienziali, ma mentali, conalcuni oggetti. Come i quadri di Lu-dovicoCarracci, unodei pittori pre-diletti, nonché uno dei grandi arti-sti della sua città.

Sembra quindi naturale che Ar-cangeli non più giovane, già pro-fessore all’Università di Bologna,relegasse i il ricordo di Tarsie tra leesperienze occasionali e, apparen-temente, poco care. Eppure, mal-grado le difficoltà affrontate, il li-bro riesce a ridefinire un tema sto-rico con intensità e intelligenza,senza cadere in quello che sareb-be stato un gioco facile, soprattut-to in quegli anni, cioè «abbando-narsi al fascino capzioso di un’in-terpretazione “metafisica”». Unparagone, quello tra le tarsie e lapittura metafisica, che aveva pro-posto Cecchi. Non era di per sé as-surdo,ma ad Arcangeli non torna-va. La prospettiva e la sintassi rina-scimentale erano una cosa diver-sa dagli esercizi di de Chirico o da-gli edifici di Marcello Piacentini, eil rapporto tra passato e presenteandava se mai invertito e mante-nuto nel suo spessore, senza gli ap-piattimenti retorici che giustifica-vano quel processo di sintesi e iso-lamento idolatrico delle formeche aveva originato, per esempio,via della Conciliazione.

Nel libro, il momento più altonella storia dell’arte dell’intaglio èassociato, per la prima volta inmo-do così chiaro, alla pratica prospet-tica: il «trionfo solenne e semplicis-simodella prospettiva» si toccanel-le specchiature del coro del duo-mo di Modena lavorato dai fratelliCanozi da Lendinara.Nell’aggrega-zione dei legni del duomo emilia-no si concretizza infatti la nozionematematica del disegno suggeritadalle ricerche di Piero della France-sca e Leon Battista Alberti. L’evi-denza della materia non è smenti-ta, ma utilizzata in chiave espressi-va, calcolata sulle possibilità delleessenze lignee. E imodelli per que-ste tarsie non sonodisegnati da Pie-ro, come credevano Longhi e Ar-cangeli, ma da Cristoforo Canozistesso, in totale autonomia.

Da Tarsie in poi gli studi non po-tevano che riflettere su questi lega-mi tra ricerca (Alberti, Piero, Bru-nelleschi) e applicazione tecnica:le tarsie prospettiche sono oggiconsiderate, per citare Ferretti, «ilsegmento di una catena che si si-tua spesso ai più alti livelli tecnolo-gici del tempo». Ma, al di là delleconsiderazioni di Arcangeli sull’ar-gomento, ancora oggi insostituibi-li, Tarsie diventa, grazie soprattut-to alla nota finale di Ferretti, unodei testi chiave per comprenderepiù a fondo la cultura e la societàdi una nazione che stava affrontan-dounodeimomenti più drammati-ci della propria storia.

di CLAUDIO GULLIFIRENZE

Rischia di passare sotto silen-zio critico un avvenimento di unacerta portata, nel panoramamuse-ale italiano: è stato riallestito – einaugurato il 29 ottobre – il NuovoMuseo dell’Opera del Duomo diFirenze (con annessa guida omo-nima, a cura di Timothy Verdon,per Mandragora, pp. 147, e 15,00).Il museo, che aprì i battenti nellontano 1891, non ha bisogno dipresentazioni: qui si conservanole celebri sculture provenienti dalDuomo, dal Battistero o dal Cam-panile. In origine erano solo tre sa-le, dopo gli ampliamenti novecen-teschi si era giunti al numero diventi. La storia di questo restylinginizia invece nel 1998, quandol’Opera acquista, per dodicimiliar-di di vecchie lire, l’adiacenteex-Teatro degli Intrepidi, già tra-sformato in garage in pieno Nove-cento. Lo spazio a disposizione co-sì raddoppia e viene indetto unconcorso a inviti per la realizzazio-ne del progetto architettonico. FraGae Aulenti, lo studio di Gregotti equello di Adolfo Natalini, il vincito-re risulta Santiago Calatrava(2002) – e un buon catalogo, a se-guito di una mostra, raccoglie leproposte pervenute (Il nuovo Mu-seo dell’Opera del Duomo. Quattroprogetti, Mandragora, 2002). Madopo due anni di stallo, il matri-monio fra l’Opera e l’architettospagnolo si scioglie e l’incarico

passa ai ‘Natalini architetti’, sup-portati dallo studio di Piero Guic-ciardini e Mario Magni, ben piùaddentro alla realtà dei musei to-scani (hanno, fra gli altri allesti-menti in cantiere, anche quellodei Nuovi Uffizi).

Passato il tornello all’entrata delmuseo, appare un corridoio barda-to di marmo, dove sono incisi no-mi di artisti o artigiani impiegatidella Fabbrica, quasi sullo stile deimemoriali americani. Materiali ecromie sono pesanti, dominanogli scuri, l’illuminazione spessoscarseggia, anche se sotto gli spot

va una splendida testa del più clas-sico e fortunato dei gotici senesi,Tino di Camaino. In caratteri cubi-tali e dorati, troneggiano citazionidalle Vite vasariane o dai Salmi.Ma c’è spazio per un grande rega-lo. Si intravede quasi subito: unaricostruzione della facciata dellaCattedrale in scala uno a uno – enelle nicchie, nelle logge, nelle lu-nette, sono stati collocati i calchida sculture note anche a chi fre-quenta i manuali di storia dell’ar-te: con una certa enfasi, è ora chia-mata ‘Sala del Paradiso’. Su pro-getto di Arnolfo di Cambio, a parti-re dall’inizio del Trecento e fino alprimo ventennio del Quattrocen-to, la decorazione della facciataera andata crescendo progressiva-mente, sino a divenire una babeledi stili lunga un secolo. Il docu-mento che guida a recuperare lecollocazioni delle sculture nellostato antico della facciata è un fa-moso disegno, attribuito a Bernar-dino Poccetti, precedente il 1587 eperò mai riprodotto nei cartelli: losi vede apparire solo in video. Perla prima volta, si riesce dunque acapire come funzionava uno scor-cio di Arnolfo, scultore che ora sipuò riscoprire del tutto. I suoi vo-lumi massicci, le esasperazionidelle proporzioni, le squadratureche costringono i volti – tutto unarmamentario che la critica avevagià avvertito come falsante – torna-no a essere meri espedienti peruna visione dal basso. Gli originalisono quasi sempre a portata di oc-chio, a pochi metri dallo spettato-re, solo i doppioni servono da gui-da alla comprensione. Di fronte,una accanto all’altra, le porte delBattistero, e sopra, i relativi grup-pi bronzei, sempre nella posizio-ne originaria. Le formelle del Ghi-berti dialogano con i Profeti di Do-natello o di Nanni di Banco conuna facilità che sembra unmiraco-lo museografico, eppure non c’ènulla di artificiale: doveva essereproprio così. E anche i sarcofagiromani – sottolinea in un breve in-contromonsignor Verdon, diretto-re e autore del progettomuseologi-co – sono qui esposti a documen-tare quanto l’antico fosse una mi-niera a disposizione di scultori escalpellini che trafficavano fraDuomo, Battistero e Campanile.Visti dal basso, anche i bronzi delRustici guadagnano in ferocia,mentre il Battista di VincenzoDanti sta quasi a chiudere il sipa-rio, nella solita maniera fra l’acca-demia e la spacconeria.

Tanto il museo restituisce in sa-le ariose e chiare gli spazi esterni odi grandi dimensioni, quanto rac-chiude reliquiari, dalmatiche e og-getti da sacrestia in ambienti mi-nori, popolati di teche valide. LaMaddalena di Donatello forse me-ritava una sala tutta per sé, comeè toccato alla Pietà di Michelange-lo. Invece, nelle pareti attorno allasanta decrepita di legno, si affolla-nomaestri fiorentini anche del se-colo prima, da Bernardo Daddi aGiovanni del Biondo. Si haun’idea dello scarto fra vecchio enuovo allestimento, se si conside-ra che la Pietà, abbandonata inuno scatto d’ira dal Buonarroti,prima era esposta nell’andito del-la scala. Ora è alla ribalta, sopraun finto altare e tutti i tormentatipassaggi, dalla finitezza alla mate-ria bruta, si apprezzano a dovere.Anche le sale dedicate ai reliquari

o ai paramenti funzionano: dimez-zo ci sono artisti della levatura diAntonio Pollaiolo (è stato ricompo-sto il parato di SanGiovanni) e ora-fi non meno esperti, in fatto di fa-stosità decorative, come Antoniodi Salvi. Da vari punti del museo, sirivedono le sculture della facciata:per esempio da una galleria dovesono esposti imarmi per il Campa-nile. La serie di Andrea Pisano fron-teggia i primi profeti, popolari o se-natoriali, che uscivano dallo scal-pello di Donatello; ma qui non so-no pervenuti tentativi di ricostru-zione della collocazione originaria.Al momento di raccontare la storiadella cupola, regna la confusione:ci sono dei tronchi che evocano leforeste del Casentino e un videodal volume troppo alto. Anche il re-sto del museo abbonda di musica,come la sala delle Cantorie, an-ch’essa deludente. Meglio quandosi torna a occuparsi della facciata:un video, stavolta più ragionato,spiega per filo e per segno comenel 1587 Francesco I facesse smon-tare la facciata arnolfiana e da lì ini-ziasse una storia moderna di pro-getti irrealizzati: dalle prime propo-ste, morigerate, di Bernardo Buon-talenti o di Giovanni Antonio Do-sio, fino agli sfoggi, di festoni e dichiarezza, di Gherardo Silvani. So-lamente un secolo dopo si concre-tizzò qualcosa, ben poco: una fac-ciata effimera dipinta, commissio-nata da Cosimo III nel 1689, in oc-casione delle nozze di suo figlio.Questo assetto giunge sino all’epo-ca della fotografia: la situazione ri-mase tale fino al compimento delprogetto di Emilio De Fabris(1887). In mezzo, c’erano stati itempi in cui si sognava di una San-ta Maria del Fiore che somigliassea una Chartres o a una Westmin-ster o, tout court, a una cattedraleda fiaba anderseniana. Fra i tantimateriali, si riscopre la qualità diun pittore assai teatrale, come Nic-colò Barabino, autore dei cartoniper i mosaici.

Sia detto a margine: ma quantorimane ancora da fare, anche a Fi-renze! Si crede che sia tutto alla lu-ce e invece non è così. La città-ve-trina non restituisce una profondi-tà. Per esempio, restando in areaDuomo, c’è la Sacrestia dei Cano-nici. Sono riuscito a entrare, per laprima volta, grazie alla gentilezzadi un custode; ma piange il cuorea pensare che sia l’ultima: la sacre-stia, ancora utilizzata, è semprechiusa a doppia mandata. Eppuredentro ci sono gli armadi intarsia-ti da Giuliano e Benedetto da Ma-iano, prodigi della visione prospet-tica: anche gli alberi e le nuvole,nell’Annunciazione, rispondonoal nuovo teorema. Ci vorrebberoanche qui le visite guidate, come aPalermo. Ma Verdon ci ha ancheconfessato: ‘Firenze è la città delturismo di massa’. Purtroppo,monsignore, e bisogna lavorare insenso contrario.

ARCANGELISpecchiatured’Italia, nel ’42

di MARIO MANCINI

Può accadere che un critico, ancheimportante, diventi nel tempo un’icona,riverita ma lontana: non è certo questo ilcaso di Gianfranco Contini, la cui figuracontinua a essere al centro di analisi edibattiti, non solo per la sua straordinariaopera di critico e di filologo, ma, possiamosenz’altro dirlo, per il fascino della suapersonalità. Una preziosa occasione diriflessione è stato il convegno diPisa-Firenze del dicembre 2012, per ilcentenario della nascita, di cui possiamoora leggere gli Atti (Gianfranco Contini1912-2012 Attualità di un protagonista delNovecento, a cura di Lino Leonardi,Edizioni del Galluzzo, pp. 214, e 42,00).Contini è un critico profondamente legatoal Novecento europeo e alle sueavanguardie: è il tema del bel saggio diRoberto Antonelli che apre il volume.L’angoscia, per lui il sentimento araldicodel secolo, è anche e innanzituttol’emblema dell’Espressionismo – cui èdedicato un grande saggio (1977) – che,con Benn, con Pessoa, con gli eredi Céline

e Gadda, è crisi e rivolta: «il frutto di unaforza scatenata, una momentaneadeformazione sollecitata da unmovimento, una spazialità che include iltempo». Fare critica significa allora – eAntonelli coinvolge moltoopportunamente il resoconto continianosulle deludenti Rencontres internationalesdi Ginevra, del settembre 1946, dedicate alfuturo della cultura europea – raccogliereuna grande sfida: ripensare, dopo la Crisi,esistenziale ed epocale, tutta la culturaitaliana in termini nuovi, ricollocarla inEuropa. L’itinerario di Contini linguista estrutturalista è ben ricostruito da MarcoMancini in tutti i suoi aspetti e anche nellacomplessa interazione con Saussure, conMeillet, con Benveniste, con Jakobson. Cisono i rigorosi esercizi di fonologiadiacronica, i saggi dialettologici,caratterizzati, rispetto alla tradizionepositivista, pure non rinnegata, daun’estrema cura nell’individuazione deiprotocolli filologici, c’è soprattutto, neisaggi di critica letteraria, un’attenzionesistemica connessa con la mouvamcetemporale dei testi. È evidente come

questo organicismo a base linguistica –basato sul principio cardine della«differenzialità» – sia vicino alla Stilkritik diSpitzer, al suo «circolo ermeneutico», chemuove dal testo e ritorna al testo.Strutturalista è anche il Contini filologo,ma in una originale sintesi distrutturalismo e di storicismo, dove èdeclinata una «critica della tradizione» chenon rinuncia ad affrontarne e ainterpretarne la diacronia, e una «storia deltesto» visto nella sua dimensione dinamicama insieme proposto nel suo valore neltempo, nel suo signficato per noi. Lanatura stessa dell’edizione critica, fossepura quella di un autografo, èinterpretazione e ipotesi scientifica, nonriproduzione materiale: «Ogni testo criticoè un fatto teoretico». Nel momento stessoin cui ricostruisce lucidamente ipresupposti della filologia continiana e ilsuo eccezionale impatto sul contestoitaliano, Lino Leonardi rifiuta condecisione la tendenza generale attuale che,soprattutto in Francia, va verso unaconservazione feticistica dell’oggettomanoscritto. Il ritorno alla fisicità del

manoscritto e alla sua «verità», per tantiversi salutare – è la cosiddetta «filologiamateriale» – non deve farci perdere di vistal’altra «verità», quella che trascende ilmanoscritto ed esige il riconoscimento delsuo posto nella tradizione. «Interpretare latradizione dei testi medievali europei edoffrirne un testo che di questa tradizionedia conto – così Leonardi in quello chesuona come un ambizioso e necessarioprogramma di lavoro – è un compito che

può tornare a dare un senso alla nostrafilologia». Questa stessa doppia tensione difilologia e presenza del Contini filologo laritroviamo, e ne fa la grandezza, nelContini critico letterario, che ama definirsi«critico militante». In un processo che è«sperimentale», al rigore dello sguardomicroscopico – come bene argomentaAndrea Cortellessa – corrisponde ancheuna «visione telescopica». Quella cheindividua, con il nome di «funzioneGadda» o di «funzione Longhi», i rami diun albero genealogico d’immaneestensione e profondità. Solo «una visionetelescopica, che è quella di un’autenticacontemporaneità», così Cortellessa, puòpermetterci di intravedere, nel buiodell’epoca, la luce stellare e inattuale deltesto. Un assioma centrale, ormai mitico,della critica continiana – qui ripercorso daClaudio Giunta e da Andrea Soldani – è lapolarità Dante-Petrarca: pluralità degli stili,interesse teorico, sperimentalismo, da unaparte, unità di tono e di lessico, nessunesperimento, introversione, dall’altra. SeContini, puntando sui fatti di stile, mette inprimo piano il carattere e l’unità della

poesia di Dante, dalle Rime alla Commedia,Giunta si domanda se questo noncomporti dei rischi: di «sopravvalutazionedi somiglianze verbali probabilmentefortuite, o non dimostrabilmenteintenzionali» e di una «loro interpretazionein chiave ideologica». Le stagioni di Dantesi possono distinguere, per Contini,speculando sull’influsso dei maestri:Guittone, Cavalcanti, Arnaut Daniel. È unacatena aurea di confronti e di superamentiche si regge su una prodigiosa memorialetteraria: Dante come personaggio poeta(1958). Giunta, forse trascinato, comeconfessa, da una sua «renitenza ai sistemi»,non esita a ridimensionare il grandesaggio: «rileggendolo si ha soprattutto lapercezione di un eccesso, di un trascorrerenon abbastanza motivato da fatti di linguaa fatti di ideologia». Il saggio di Soldani suPetrarca è un vero tour de force. Prendecome punto di partenza l’antinomiafondativa continiana Dante-Petrarca escavandola acutissimamente fino in fondovede come l’assolutezza formale diPetrarca è un «essere per mancanza» e nonpermette la caratterizzazione e la

concettualizzazione perché è un negativoincluso dialetticamente nel suo opposto:«Contini non rappresenta Petrarca,rappresenta il rovescio di Dante,“l’anti-Dante”». Se ci sentiamo lontanidalla sua grandiosa prospettivastoriografica fondata su questa antinomia,così Soldani, possiamo però riprendere daContini una serie di illuminanti affondistilistici, rimasti irrelati, e pensare ilCanzoniere come «narrazione», come libromobile, dinamico e temporalizzato,pensare un nuovo Petrarca dotato di unasua interna «tensione differenziale». Comeessere post-continiani senza essereanti-continiani. L’eccezionale personalità,intellettuale e umana, di Contini si rivelaanche nella sezione del volume che siintitola Dialoghi. Vengono qui ripercorsil’intenso rapporto con Giorgio Pasquali, ilgrande classicista, l’autore di Storia dellatradizione e critica del testo, operafondamentale per la prassi filologicacontiniana (Domenico Di Martino); lalunga amicizia, picaresca e surreale, conGadda (Paola Italia); l’«amor de loinh» chelo lega a Pasolini, il giovane poeta di cui nel

1942 recensisce Poesie a Casarsa, di cuiammira «l’amore dell’umile edell’autentico» (Franco Zabaglia). Epossiamo ora aggiungere il carteggio con ilpoeta aronese Carlo Sinigaglia, una verasimbiosi d’anime, vissuta nel ricordo della«socialistica libertà» che li vide insiemenella Resistenza e nella Repubblicadell’Ossola ("Come per una congiura".Corrispondenza tra Gianfranco Contini eSandro Sinigaglia (1944-1989), a cura diGualberto Alvino, Edizioni del Galluzzo,pp. 288, e 45,00). Spicca, in questa sezione«Dialoghi», la felicità stilistica dellesessantadue lettere e cartoline, finorainedite, che Contini scrive a Gadda tra il’36 e il ’67 e che sono qui commentate, congioiosa complicità, da Paola Italia. Ci sonogli incontri e le scorribande lombarde, leinevitabili autoaccuse per il silenzioepistolare, c’è, soprattutto, un’entusiasticae immediata empatia, che si manifestaanche nella collaborazione, alla prosadell’ingegnere. Con magnifiche, folgorantiformule critiche, come questa, per laseconda Adalgisa: «Porta 1945, o piuttostoProust eroicomico».

MUSEI

MAESTRI DI FILOLOGIA

Come esserepost-continianisenza essereanti-continiani:escono gli Attidel centenario

L’allargamentodegli spazi, siglato‘Natalini architetti’,va sotto il segnodi una controversaspettacolarità,ma aiuta a capirel’antico frontedel Duomo

Museo dell’Opera del Duomo,Sala del Paradiso o dell’Antica facciata,foto Antonio Quattrone

«TARSIE», TORNA, NELLE EDIZIONI DELLA NORMALE, IL PRIMO SAGGIO DI FRANCESCO ARCANGELI

Cristoforo da Lendinara, particolaridel San Matteo e del San GiovanniEvangelista nelle tarsie del Duomodi Modena; le foto, Anderson, sono quelleusate da Arcangeli (in foto) nel suo libro

A FIRENZE IL NUOVO ALLESTIMENTO DELL’OPERA DEL DUOMO

Intorno allo scrittosull’arte lignariadel Quattrocento,ora riproposto,Massimo Ferrettifa convergeremagistralmentei dati culturalidi un’intera epoca

Page 8: Alias Del 29 Novembre 2015

(8) ALIAS DOMENICA29 NOVEMBRE 2015

«THE TRAUMA OF PAINTING» MOSTRA-CENTENARIO A CURA DI EMILY BRAUN

Burri e il controllodella materia, dall’agoalla saldatrice al fuoco

di GIAN MARIA ANNOVINEW YORK

Completato lo scorso maggioa trent’annidall’iniziodei lavori, do-po una lunghissima interruzione, ilGrande cretto di Alberto Burri è for-se l’operad’arte ambientalepiùpre-potentementeemotivamai realizza-ta. Chi hapercorso le larghe spacca-ture della colata di cemento che siestende per oltre ottantamila metriquadrati dove un tempo si trovavala cittadina trapanese di Gibellina,rasa al suolo nel 1968 dal terremo-to, conoscebene lapotenzaevocati-va di questa memoria pietrificatache biancica sotto il sole del Belice.L’ispirazione per la serie pittoricadeiCretti, che Burri realizza a parti-re dagli anni settanta stendendo unimpiastrodi caolino, zincoecolle vi-niliche, e facendolo seccare fino alformarsi di crepe e spaccature irre-golari, proviene da un luogo moltolontano dai paesaggi della Sicilia edell’Umbria, dove l’artista era natonel 1915, esattamente cent’anni fa.

A partire dal 1963, e fino al ’91,infatti, Burri e la moglie trascorro-no parte dell’anno nella loro ca-sa-studio di Los Angeles. È visitan-do il paesaggio aridamente lunaredella vicina Death Valley, immor-talata proprio nel ’70 daMichelan-gelo Antonioni in Zabriskie Point,che l’artista inizia a concepirel’idea di riprodurre pittoricamen-te le spaccature del terreno, fino atrasporre letteralmente la topogra-fia naturalmente crettosa del de-serto americano, sull’umiliata val-le siciliana, come una sindone oun sigillo inamovibile.AlbertoBurriTheTraumaofPain-

ting, la grande retrospettiva curatada Emily Braun al GuggenheimMuseum di New York, dimostrache gli Stati Uniti non sono staticentrali solo per la valorizzazionecritica dell’opera dell’artista italia-no, ma anche per lo sviluppo dellasuapittura, avviata comepassatem-podurante la Seconda guerramon-diale, quando Burri era internato inun campo di prigionia del Texas. Asigillare questo legame, la mostra(visitabile fino 6 gennaio prossimo)si conclude proprio con il GrandeCretto, idealmente trasportato nelmuseo tramiteunvideodiPetraNo-ordkamp.

L’architetturadi FrankLloydWri-ght, con la sua ascendente rampa a

spirale, sembra suggerire anche nelcaso di Burri un percorso linear-mente progressivo di ricerca artisti-ca. In realtà, le opera composte con-temporaneamente a partire dal1949 fino alla metà degli anni cin-quanta, corrispondenti alle seriedei Catrami, dei Gobbi, delle Muffee dei Bianchi, già contengono po-tenzialmente l’intero vocabolario ela sintassi di tutta l’opera dell’arti-sta, scomparso nel ’95.

Secondo una rigida consuetudi-ne che enfatizza il suo rifiuto diogni componente figurativa, Burriintitola le proprie opere secondo imateriali, i colori e le procedure im-

piegate. Per questo, la tela del 1952intitolata Lo strappo, appare comeunametaforica quanto significativalacerazionediquestapratica.Realiz-zata a soli tre anni dai primissimiesperimenti con le superfici catra-mose che ritorneranno amplificatee ingigantite nella monotona seriedeiCelletexdegli anni ottanta, l’ope-ra presenta la prima delle famosecuciture chirurgiche di Burri, insie-me all’uso di tessuti grezzi, fiorituredi polvere di pomice, e un’austeratavolozza che combina bianco, ne-ro e rosso, i tre colori su cui si con-centra l’artista, salvo saltuarie esplo-sioni dell’oro.

È a partire dagli anni cinquanta,in particolare grazie ai contributi diJames Johnson Sweeney, all’epocadirettoredelGuggenheim, che l’ope-ra di Burri comincia a venire inter-pretata come metafora riparativadella ferite – fisiche e psicologiche –causate dal traumadella guerra. No-nostante le resistenze dell’artista alleevocazioni del trauma ripropostenel titolo scelto dalla curatrice chenel documentatissimo catalogopro-pone anche un discutibile parallelotra l’interesse di Burri per i materialidi scarto e l’estetica del cinemaneo-realista, l’interpretazioneprivilegia-ta dalla mostra sembra confermareuna letturadell’artistaormaiossifica-ta.Già inopere comeGrandebianco(’52), dove la tela di juta cicatrizzacombinandosi con stracci chiazzatidi colore che hanno la stessa traso-gnata leggerezza di certe marine diDe Pisis, e soprattutto nella serie deiSacchi, appare evidente che le cuci-turediBurri nonhanno tanto la fun-zione di impedire la suppurazionedel trauma, quanto quella di ottene-re un inedito realismo puramentemateriale. Un’opera come Grandesacco BS (’56), ad esempio, mostrala complessità e l’eleganza del suoprocesso compositivo, che baroc-cheggia con tessiture, spessori e cro-mie differenti, creando, tramite lalievità di cuciture meccaniche e laviolenza di punti inferti a mano,una cosmogonia tanto visiva quan-to tattile.

Visitando la mostra, lo spettatorecheporta in sé lapiattamemoria fo-tografica dei sacchi violentati daBurri, fa esperienza di quella che il

poeta Emilio Villa ha definito lagrande invenzionedell’artista: l’opa-cità ardita delle sue opere, che sug-gerisce una percezione aptica dellapittura. Le tele di Burri non evoca-no soltanto il corpo umano nellesueulcerazioni, concrezioni patolo-giche e cavernosità sessuali, machiamano in causa lo spettatorenel-la complessità delle sue capacitàpercettive.

Nel percorso che conduce ai Sac-chi, l’opera di Burri ridefinisce con-cettualmente il gesto femminiledel-la cucitura combinandolo con unacomposizionedello spaziopittoricoche, pur rompendo con il passatodella tradizione, lo evoca tramitecampituredi colore ingradodi spet-tralizzare la geometria simmetricadegli affreschi di Piero della France-sca e il selvaggio cromatismo deimaestri umbri. Con la serie delleCombustioni e dei Legni, realizzatitra la fine degli anni cinquanta el’inizio del decennio successivo,Burri sembra attraversare una fasedi irrigidimento espressivo, comin-ciando a sperimentare con una ge-stualità più aggressiva, esercitata suun materiale resistente come il le-gno, cauterizzato attraverso l’usodella fiamma ossidrica.

Dopoaver esercitatoun sicuro in-flusso sulla poetica iniziale di artistiquali Rauschenberg e Twombly, distanza a Roma negli anni cinquan-ta, opere come Legno nero e rosso(’60) sembrano invece anticiparecerti risultati delMinimalismoame-ricano e dell’Arte povera che avreb-bero dominato la scena artistica neidecenni successivi. Si tratta, anchein questo caso, di un minimalismomaterico, che nella serie dei Ferri siesplicita nelle saldature di fogli dimetallo, lavorati con la fiammaossi-dricaper castrarne laqualità riflessi-va. La componente femminile degliesordi, spesso evocata anchedall’uso di lacerti di indumenti ebiancheria (si pensi allo straordina-rio Grande bianco del ’56) lascia ilposto a una inflessibile gestualitàmaschile: all’ago si sostituisce la sal-datrice. Le opere di questo periodosono minacciose e potenzialmentepericolose, per via delle slabbratureche espongonogli angoli vivi dei fo-gli di metallo. Nella carriera di Bur-ri, si apre una fase riflessiva: chiusoinuna fucina simile aquella delVul-cano di Vélazquez, ritrova la legge-rezza di un maldestro soffiatore di

vetro nella serie delle Combustioniplastiche che lo occupa dal 1957agli anni settanta.

Sebbene l’artista abbia sempreinsistito sulla sua completa capaci-tà di controllare la materia, l’usodel fuoco aggiungeuna componen-te aleatoria al suo processo compo-sitivo, perché la bruciatura agiscesulla materia secondo principi fisi-ci mai esattamente controllabili.Le Grandi plastiche degli anni ses-santa rappresentano forse il risulta-to più rigoroso della pittura senzapittura di Burri. Realizzate con varistrati di plastica trasparentemonta-ti su cornici dimetallo di grandi di-mensioni e successivamente oltrag-giati con la fiamma ossidrica, que-ste opere non solo radicalizzanol’importanza del gesto, non piùsupportato dalle protesi di pennel-lo e pittura, ma annullano anchel’idea di fondo, così primaria nelleopere precedenti. Burri, infatti,espone le Grandi plastiche al cen-tro dello spazio, liberando il poten-ziale scultoreo dell’opera. Se questilavori vescicolari sembrano unamessa in scena del drammaepiteli-co intrinseco a ciò che il grandepsi-coanalista francese Didier Anzieuha chiamato l’io-pelle, riferendosial nucleo protettivo del soggetto, al-lo stesso tempo si configurano co-me una prima presa di contattocon la realtà delmiracolo economi-co e la sua plastificazione del con-sumo e dell’esperienza.

Per la prima volta nell’opera diBurri, lavori successivi come Rossoplastica e Nero plastica, inglobanol’esterno. Con la loro sensuale luci-dità, infatti, riflettono e drammatiz-zano la luce, producendo effettiche richiamano le sculture plasma-te dalle violente ditate di Lucio Fon-tana. Le oltre cento opere espostein Alberto Burri: The Trauma ofPainting testimoniano insomma ilcoerente tentativo di controllareuna materia devastata e devastabi-le. Ciò che ancora colpisce, persi-no nella profonda durezza delGrande cretto di Gibellina, è tutta-via la possibilità di percepire,nell’irruenza della materia, il deli-cato rispetto del gesto di Burri.

ALBERTO BURRI AL GUGGENHEIMMUSEUM, FINO AL 6 GENNAIO

di DANIELE CAPRA

Risulta sempre di grande complessità erischio intellettuale cogliere l’andamento edelineare le direzioni di imminente sviluppo diun soggetto come l’arte contemporanea, che simuove con particolare velocità e in modo deltutto imprevedibile ed entropico: è inevitabileinfatti che fare una foto di gruppo mentre tuttisi muovono possa comportare che alcuni deisoggetti risultino mossi o fuori fuoco. Questoperò non ha scoraggiato Mario Perniola, che hadedicato la sua ultima fatica proprio all’analisidelle tendenze delle arti visive a partire daglianni novanta, con particolare attenzione allostatus dell’artista, al ruolo dell’opera e allefinalità della critica. Le modalità operative deitre soggetti, ma anche il contradditorioalternarsi di contesti ideologici emacrostrutture differenti, tratteggiano infattiun mondo dell’arte che tende a evolversi

espandendosi e annettendo a sé finalità epratiche che non gli sono proprie per nascita.L’arte espansa (Einaudi, pp. 102, e 11,00) apre echiude simbolicamente con le ultime dueBiennali di Venezia, quella del 2013 curata daMassimiliano Gioni e quella ancora visibile finoa fine novembre curata da Okwui Enwezor. PerPerniola la mostra di Gioni prende inconsiderazione il fenomeno dell’outsider artargomentandone la significatività e la portatarispetto all’arte prodotta da artisti consapevoliprofessionisti, con l’esito finale «delcambiamento del paradigma di ciò che è statoconsiderato finora come arte». Al contrario laseconda mette in scena un accademico ritornoall’ordine centripeto rispetto all’Occidente incui la quasi totalità degli artisti, pur provenientida ogni parte del mondo, ha studiato e iniziatola propria carriera: sotto un’apparentemulticulturalità giace infatti, ed è difficileobiettarlo, «un’operazione di marca

neo-colonialista». Nel saggio – il cui unicolimite è il fatto di considerare il sistemadell’arte come un blocco unitario, mentre alcontrario è una struttura eterogeneaattraversata da tendenze divergenti cheagiscono sovente come fiumi carsici – nonmancano riferimenti a molti degli studi piùsignificativi dedicati al ruolo dell’arte insider edoutsider da parte dell’antropologia, dellasociologia, dell’estetica, è dedicato adanalizzare quella che viene definita come lasvolta fringe, ossia la pratica delcapovolgimento di ruolo (cioè di importanza)di ciò che è sempre stato marginale:«trasformare in qualcosa di emozionante,eccitante e seducente un’entità che non riescea manifestarsi da sola come tale, oppure lo èper ragioni che non hanno nulla a che fare conciò che finora si è inteso come arte». L’autorecoglie infatti uno degli aspetti più intriganti eproblematici della pratica artistica di questo

decennio, caratterizzata dal superamento dellacondizione postmoderna: molti degli artisti sisono occupati di portare al centro dellosguardo ciò che ne è sempre stato alla periferiae nemmeno meritevole di essere guardato,oppure hanno cercato di far cambiare lamodalità con cui l’osservatore guarda ciò chegià conosce. Il fenomeno, che l’autoreidentifica con il neologismo «arstistizzazione»,è quello di considerare arte «la maniera in cuil’autore pensa la propria attività, il contestosincronico e diacronico in cui si pone, il lavorodi mediazione ermeneutica cui è sottoposto, laricezione del pubblico e della critica, lamanipolazione cui i mass media loassoggettano, la conservazione di ciò che èstato fatto». Al ritorno al reale che Hal Forstercoglie nel lavoro artistico degli anni novanta,Perniola fa così acutamente seguire lariscoperta di sensibilità, modalità e praticheinaspettatamente surrealiste.

Lungo la spiraledi Lloyd Wrightoltre cento operedell’artista,che negli Usa trovòla valorizzazionecritica e lo stimoloalla ricerca: finoal «Grande cretto»

MARIO PERNIOLA

Arte oggi,dopo il ritornoal realesi riscopronole pratichesurrealiste

DA NEW YORK

In alto, l’allestimento della mostraper il centenario di Burri (in foto)al Guggenheim di New York; sotto,Alberto Burri, «Rosso gobbo», 1955