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di ELISA DONZELLI

●●●Il 7 gennaio di cent’anni fa nasceva GiorgioCaproni. Amava definirsi ‘genovese di Livorno’ per-ché nel capoluogo ligure era arrivato all’età di diecianni trascorrendo parte dell’infanzia e la giovinez-za tra gli studi di violino e i primi esperimenti poeti-ci. Ma il 1˚novembre del 1938, fresco dei versi pub-blicati in due brevi raccolte, aveva lasciato la casadei genitori e si era trasferito a Roma per insegnarenelle scuole elementari. Dopo la guerra «penetratanell’ossa», dalla Val Trebbia era tornato nella Capi-tale senza immaginare che proprio qui, «purtrop-po o per fortuna», avrebbe abitato per tutto il restodella sua vita, sino al 22 gennaio del 1990. Alla «lu-ce rossa di Roma», ai suoi ponti, ai suoi quartieriCaproni ha dedicato alcuni dei versi più alti del No-vecento nutrendo per lei un affetto assai più con-traddittorio e intermittente (e ancora poco indaga-to) rispetto a quello per la Livorno di sua madre«Annina» e per la sua «Genova di tutta la vita».

Proprio a Roma nel quartiere Marconi, a qual-che isolato da una delle scuole in cui il poeta ave-va insegnato e dalla casa di via dei Quattro Venti,si trova il Fondo della Biblioteca privata di Capro-ni. Sono state le Biblioteche di Roma ad acquisire,nel 2000, quasi cinquemila volumi provenientidall’abitazione romana di via Pio Foà e poi sposta-ti nei locali della Biblioteca «Guglielmo Marconi».In pochi lo sanno perché chi cerca tra le carte delpoeta spesso preferisce visitare gli archivi di Firen-ze dove sono conservati i suoi manoscritti e i suoidattiloscritti. E invece è a Roma che bisogna veni-re per condividere con il poeta le letture che loavevano accompagnato nel tempo.

Il «baco della letteratura» Caproni diceva diaverlo preso alle elementari, anni di «miseria ne-ra» durante i quali leggeva Dante in un’edizione adispense comprata dal padre in edicola. Giovanis-simo, oltre ai classici e ai contemporanei, aveva

scoperto i filosofi cui si era unita la passione pre-coce per la poesia straniera. L’elenco sarebbe lun-go ma, tra gli autori annoverati nella vigile biblio-grafia caproniana di Adele Dei, spicca il nome diun poeta francese della generazione di Ungaretti,Pierre Jean Jouve, cui in Italia non si presta gran-de attenzione.

Tra gli scaffali del Fondo Marconi è nascosto unlibretto di Jouve, Per esser gai come Titania, che Al-do Capasso aveva pubblicato nel 1935 traducen-do alcuni dei versi più incisivi del poeta di Arras.Dico nascosto perché il profilo sottile della Colle-zione degli «Scrittori Nuovi» di Emiliano degli Orfi-ni (la stessa che nel 1936 avrebbe accolto, grazie aCapasso, l’esordio poetico di Caproni Come un’al-legoria e, nel 1938, la poesia ariosa delle nozze conRina Ballo a Fontanigorda) rischia di essere mes-so in ombra da volumi più corposi soprattutto perchi avesse frequentato solo di scorcio la poesia po-co rassicurante di un grande autore del Novecen-to francese. Ci sono cinque libri di Jouve nel Fon-do romano ma quell’edizione curata da Capassoha qualcosa in più rispetto agli altri volumi dellaBiblioteca. Chi si appresta a sfogliarla troverà trale pagine ingiallite alcuni appunti che Caproniaveva segnato a margine dei testi. Fino a qui nulladi nuovo perché i libri del Fondo Marconi si pre-sentano proprio così: note, pensieri, versi interrot-ti e scritti a mano con una grafia cuneiforme. Manel libretto di Jouve accanto alla poesia diciassette-sima, sotto la traccia sbiadita di un rossetto rossodepositato sul margine del foglio, Caproni avevascritto a matita un appunto veloce che a tentare dirileggerlo appare più o meno così: «Il segno rossoè un bacio di Olga datovi a Neiron[…] in una gior-nata di serenità. Perché cadde proprio in questapoesia? E per di più è 17esima (17 febbraio aman-doti, 27 febbraio peggiorando, 7 marzo morta a 27anni!)». Di Olga Franzoni, prima fidanzata del poe-ta morta in Val Trebbia nel 1936, la critica ha parla-

to molto. A quella ragazza, da poco scomparsa, Ca-proni aveva dedicato la prima edizione di Comeun’allegoria e l’ultima poesia di Ballo a Fontani-gorda. L’episodio della sua morte l’aveva ricorda-to nel racconto Il gelo della mattina, iniziato nel1937 e simile allo Jouve di Dans les années profon-des del 1935. Poi il nome di Olga era scomparsoma la sua ombra era tornata a vivere nei Sonettidell’anniversario del 1942 e nei versi di E lo spazioera un fuoco entrambi ambientati in una Roma dirovine e macerie dove il rossetto di quella ragazzaspargeva, in incognita, i suoi segni febbrili: «Rive-do / i tuoi netti confini / d’iridata fanciulla / – ilfuoco sulla bocca / d’una chiusa rincorsa». Nel se-gno di Olga erano nate queste poesie della «stagio-ne rossa» di Cronistoria rispetto alle quali la criticacaproniana ha saputo dare i suoi migliori frutti.Oggi, grazie al libretto di Jouve conservato nel Fon-do Marconi, la sua immagine di ragazza-lettricescavalca ulteriormente l’eterno femminino dellatradizione lirica italiana per mostrare una nuovanatura camaleontica.

Secondo Ungaretti in Jouve «l’amore si conver-te in morte spaccato dal peccato» e Risi (che mol-

to lo ha tradotto dopo Capasso) ha aggiunto cheper salvarsi l’uomo «esteriorizza i fantasmi che lodivorano». Lo confermano i bestiari jouviani cheriesumano la cerva di Petrarca e che inscenano ilpassaggio di una misteriosa bestia: «Una bestiaammirabile dalla coscia segreta / Passa sulla terrainfinitamente ferita – / Piaga di sangue spumeg-giante e fresco – / Esso mi trascina, lo sento, fuoridella città». Di questa poesia, scoperta da Capas-so, Caproni aveva parlato sul «Popolo di Sicilia»nel 1937: «La donna, ecco ‘la bestia ammirabile’[…]. Qui sembrerebbero i cardini della poesia diJouve: una sensualità gaudiosa, che drammatica-mente è in lotta, straziandosene, con l’idea di pec-cato». Insieme alla caccia la Bestia con la ‘B’ maiu-scola, si sa, è uno dei grandi temi dell’ultima sta-gione poetica caproniana ma, rileggendo questoarticolo, viene il sospetto che all’anagrafe propriolei, «(l’ónoma) che niente arresta», fosse stata regi-strata sotto il nome di Jouve.

Chi è la Bestia? si chiedeva il poeta di Livornoin un’intervista rilasciata a la Repubblica nel

●●●In occasione del centenario della nascita di Giorgio Caproni(Livorno 1912-Roma 1990), questa primavera la città di Roma siprepara a celebrare il poeta con due importanti iniziative. Il 16 aprilela Biblioteca dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani dedicheràun’intera giornata al poeta di Livorno riunendo assieme insignistudiosi tra cui Sabino Cassese, Pietro Citati, Antonio Debenedetti,Adele Dei, Giorgio Devoto, Anna Dolfi, Biancamaria Frabotta, LuigiSurdich e Stefano Verdino. Il 19 aprile sarà la Biblioteca Comunale«Guglielmo Marconi» dell’Istituzione delle Biblioteche di Roma apromuovere e a ospitare un’iniziativa dedicata al rapporto di Giorgio

Caproni con la città di Roma e i quartieri della Capitale nei quali ilpoeta aveva abitato per più di cinquant’anni, dal 1942 al 1990.Durante la giornata sono previste proiezioni di materialeaudio-visivo e letture degli studenti delle Scuole superiori. Ilprogetto ideato e curato da Elisa Donzelli nasce in collaborazionecon i responsabili dell’area culturale della Biblioteca «GuglielmoMarconi» (Laura Alegiani, Stefano Gambari, Marina Girardet e AnnaTaccone) e si avvale del contributo e della partecipazione diBiancamaria Frabotta e della preziosa testimonianza di Attilio MauroCaproni.

GIORGIO CAPRONI (LIVORNO 1912-ROMA 1990)

DALLA TRECCANI ALLA MARCONI, UN CENTENARIO «ROMANO»

SEGUE A PAGINA 4

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(2) ALIAS DOMENICA22 GENNAIO 2012

●●●Il teatro di Friedrich Dürrenmatt vive in un tumultuosoabbraccio di suggestioni brechtiane e pirandelliane, rielaboratesecondo una personalissima sensibilità per il grottesco e laprovocazione, non esente da certe suggestioni di Shaw. Marcos yMarcos, da sempre fedele all’autore svizzero, ripubblica in questigiorni l’antica (e per certi aspetti datata) traduzione di Aloisio Rendi(uscita per la prima volta da Einaudi negli anni ’70) di una dellecommedie più famose dell’autore: Romolo il grande. Il testo è del1950 e risente decisamente dei fantasmi della guerra da pococonclusa. Protagonista del lavoro è l’ultimo imperatore di Roma, cheha deciso di sabotare il residuo potere del suo regno, scegliendol’inazione assoluta. I suoi predecessori sono diventati per lui galline,che da provetto pollicultore alleva e cura nella sua villa di Campania,tenendosi ben lontano da Roma e dai suoi intrighi, quando tuttistanno cambiando bandiera, in attesa dei barbari, o fuggendo versoaltri lidi. In quella rovinata dimora-pollaio, dove i Flavi e i Domizianidanno i nomi a creature che becchettano per terra a caccia di vermi,il paladino dell’inazione assoluta, viene continuamente visitato da

persone che lo spronano a agire. Il buffonesco Spurio Tito Mamma,capitano delle armate, giunto in corsa da Pavia coperto di sangue,continua a ribadire la disfatta. La moglie Giulia inneggia a prendere learmi, la figlia, Rea, ha una dissennata passione per il teatro e, sotto laguida dell’attore Filace, prova ossessivamente una parte che nonriesce a dominare: quella di Antigone. Zenone Isaurico, imperatored’Oriente, arriva a chiedere aiuto con i suoi due verbosissimicamerlenghi: Fosforide e Sulfuride. Giunge anche un industriale,Cesare Rupf, che produce pantaloni, rivoluzionario indumentograzie alla praticità del quale i barbari otterranno la vittoria. Eglichiede in sposa la rampolla imperiale in cambio della salvezza delpotere romano, ma l’augusto rifiuta. Lentamente, nel corso didialoghi surreali e spesso sgangherati, si svela che il disegno diRomolo è quello di esaurire una storia intessuta di morte e sangue, acui nel tempo del suo regno ha cercato di porre fine, nonoccupandosi se non di uova e di cucina. Quando infine giunge iltedesco Odoacre non reca la morte prevista, anzi anche lui vuolesfuggire a un potere che lo opprime, mentre sullo sfondo si esercitail nipote Teodorico, visto come futura minaccia. La suggestione deitemi classici, da sempre rilevante per Dürrenmatt, qui diviene chiaveper una riflessione sull’Europa della guerra fredda, declinata comeagitata farsa filosofica. (luca scarlini)

di STEFANO ZANGRANDO

●●●«Un tipo di esperienza vitale chefino a oggi è stata attribuitaesclusivamente all’esperienza misticaè invece un’esperienza normale, dinorma soltanto nascosta»: così RobertMusil descriveva l’«altro stato», quellasorta di estasi e «metafora assoluta»,come ebbe a chiamarla FerruccioMasini, la cui esplorazione attraversatutta l’opera del classico di Klagenfurt.Potrebbe essere questa l’epigrafe airacconti giovanili della conterraneaIngeborg Bachmann finalmenteproposti al pubblico italiano con iltitolo Il sorriso della sfinge (a cura diAntonella Gargano, Cronopio, pp.112, € 14,00). Sono dieci prose

narrative, due delle quali in forma diframmento, scritte tra il 1945 e la finedegli anni ‘50: certo, parlare di«narrativa» nel caso della Bachmann èun po’ rischioso, se è vero quel chedisse Christa Wolf, e cioè che l’autricedel Trentesimo anno «non ha lanatura della narratrice, se con ciò sivuole intendere chi racconta condisinvoltura delle storie,dimenticandosi di se stesso.» Ebbene,in questi primi racconti l’aspettoriflessivo si traduce, con le paroledella curatrice, in un «intrecciarsi esovrapporsi di concretezza eastrazione», una forma peculiare diquella commistione di poesia e prosache contraddistingue tutta l’operadella Bachmann, tra rigorecompositivo e tensione linguistica.C’è peraltro un Leitmotiv che legaquesti racconti, ed è quello delconfine. Nel primo racconto, Il

traghetto, il fiume che separa icomuni mortali dalla «casa deisignori» è una linea tra due mondi,mentre l’assenza di coordinatestoriche e i nomi del traghettatore,Josip, e della donna cui egli precludecon mal celata gelosial’attraversamento, Maria, alludonoinsieme a un elemento favoloso che,al di là della matrice goethianaindividuata dalla curatrice nellapostfazione, è già irruzione dell’altro,e che nei racconti successivi assumespesso i tratti di una parabolakafkiana. Del resto quello di Kafka èforse il debito più manifesto di questiprimi lavori in prosa. Nel secondoracconto, In cielo e in terra, ilrapporto asimmetrico tra uomo edonna, dove l’abnegazione femminileè tutt’uno con l’autoritarismoparossistico del maschio, assumetinte già vagamente irreali, assurde.

Nel Sorriso della sfinge la dimensioneè più allegorica, con un re che,costretto dall’ombra di un’immanecreatura, induce i sudditi a unaindagine completa dello scibile perpoi concludere in sterminio lareazione all’ultima domanda delmostro. Puramente visionaria èinvece la rappresentazione dell’aldilànel racconto titolato La carovana e laResurrezione, il cui finale prevede unbambino che rompe la fila dei mortiambulanti cui appartiene per seguireil richiamo dello scampanio che lotrasformerà in fiamma. «Richiamo» èdel resto una parola chiave per capirel’accesso all’altrove da parte deipersonaggi bachmanniani:nell’onirico Il comandante, ilprotagonista è indotto da un motoinspiegato a svegliarsi e abbandonarela propria stanza per cercareinizialmente di prendere un treno

impossibile, e dunque attraversare apiedi la «barriera XIII», ovvero lafrontiera oltre la quale lo aspetta, trauna «strada larga» e un edificiochiamato «Comando», un perpetuorovesciamento della propria identità.Tema, questo del corto circuitoidentitario, che – a conti fatti –emerge come il più incisivo delvolumetto. Notevole in questo senso èil pur incompiuto Ritratto di AnnaMaria, narrazione turbata di unafigura inafferrabile di pittrice, dove,come si legge nella postfazione, «l’ionarrante si scontra con il problemadella dicibilità del reale per la perditadi ogni valore denotativo econnotativo della lingua». Un negoziodi sogni, invece, declina lo stessotema come rottura della quotidianitàborghese da parte di un personaggioche, oltrepassato l’ingresso diun’insolita bottega, andrà incontro a

una visione che lo disancorerà persempre dai propri «doveri». E Ilsaldatore traspone lo stesso principiotematico e strutturale a un livelloancor più dirompente, poiché qui ilprotagonista di una svolta nellapropria vita è un lavoratore proletario,che trova per caso, sotto il tavolo diun bar, un libro abbandonato, La gaiascienza, grazie alla lettura del qualelotterà per una emancipazioneradicale, destinata tuttavia a nondurare. Se si tratti di fallimento oimpossibilità, è difficile dirlo. Delresto, nelle sue lezioni francofortesitra il 1959 e il 1960, la Bachmannparlò di «letteratura come utopia».Nell’ultima di quelle lezioni disse: «laletteratura non è un fatto compiuto,essa è il territorio più aperto, piùaperto ancora di quelle scienze in cuiogni nuova scoperta soppianta levecchie… »

di CLOTILDE BERTONI

●●●Non c’è discorso sulle proble-matizzazioni della detective story chenon preveda almeno un rinvio al ro-manzo più famoso di Dürrenmatt,La Promessa, del 1958, sottotitolatoappunto Requiem per il romanzogiallo. Ma a ben vedere questo re-quiem è assai meno radicale di quelliproposti da Borges, Gadda, Sciascia:intanto, perché presenta una indagi-ne ancora impeccabilmente raziona-le, di cui la casualità impedisce iltrionfo ma non lo svolgimento; inol-tre, perché l’intreccio contesta il poli-ziesco ponendosi sul suo stesso pia-no, mantenendo una tensione centri-peta che converge verso un finale col-po di scena. Tensione che caratteriz-za anche opere successive dell’auto-re, in cui il pessimismo, peraltro, siaccentua: per esempio Giustizia,comparsa nel 1985, da noi già uscitaper Marcos y Marcos e ora ripubbli-cata da Adelphi nella stessa traduzio-ne di Giovanna Agabio (pp. 211, € 18,00); storia in cui a un incipit che sem-bra negare ogni suspense segue unasuspense delle più avvincenti, e incui eventi che sembrano affastellarsiin girandole impazzite si saldano in-vece in un sofisticato puzzle.

Opposti squilibriIl colpevole è subito noto, il delittodei più atipici: il rispettabile ex consi-gliere cantonale Kohler uccide l’al-trettanto rispettabile professor Win-ter in un ristorante di Zurigo, davantia numerosi avventori, tra cui un co-mandante della polizia stupito nondalla crudeltà ma dall’insensatezzadei fatti («Un omicidio senza motivoper lui non era un delitto contro lamorale, bensì contro la logica»); l’as-senza di movente e la sardonica sere-nità dell’assassino fanno apparire ilgesto come un atto dimostrativo ogratuito nel solco di Dostoevskij o diGide, finalizzato a indagare e sfidarele leggi sociali.

Ma il quadro si complica: dopo ilprimo processo, malgrado la flagran-za del reato, le testimonianze inizia-no a contraddirsi e Kohler riesce a in-dirizzare i sospetti su un altro perso-naggio; inoltre, la rete delle complici-tà e delle ritorsioni si infittisce, figuredisparate (un campione sportivo,una coppia di sociologi, un detectiveprivato, un’ereditiera e una prostitu-ta unite da un rapporto di vita per de-lega di impronta balzacchiana) inne-scano una ridda di gelosie, umiliazio-ni, atti mancati e nuovi omicidi, unasulfurea commedia nera rispetto acui la legge è sempre più impotente.Impotenza evidenziata dagli oppostisquilibri di due suoi rappresentanti:l’inflessibilità ostinata e fallimentaredi un sostituto procuratore, e la debo-lezza dell’avvocato narratore della vi-cenda, prima difensore di Kohler eoscuramente invischiato nei suoiprogetti, poi ansioso di sottrarsi aquesta connivenza e di sopperire al-lo scacco delle istituzioni conun’azione plateale, ma sprofondatonell’alcoolismo, degradato come ilMatthai della Promessa (senza essere

riuscito, diversamente da lui, a deci-frare l’accaduto), visibilmente inca-pace di assolvere i suoi propositi, inpreda a un disorie-ntamento che ilsuo resoconto, in cui i piani tempora-li si accavallano e la narrazione ri-schia il tracollo, mette in tangibileevidenza.

Il testo però non resta in bilico suquesto disorientamento, perché lanarrazione dell’avvocato risulta, co-me si sarebbe detto un tempo, «intra-diegetica», in quanto inviata all’auto-re – o meglio a uno scrittore che ne èla proiezione – dal comandante dellapolizia: un passaggio accompagnatodal vezzo citazionistico, perché il co-mandante è quel dottor H. che nellaPromessa introduce la storia, e loscrittore rintraccia il testo molti annidopo, con allusione implicita alla tra-vagliata gestazione del libro, iniziatonel 1957, lasciato a lungo in sospeso,e portato a termine solo nel 1985.

Il ricorso al topos del manoscrittoritrovato non si esaurisce nel giocometaletterario, perché rimette in mo-to la trama: lo scrittore ritrova luoghie personaggi del resoconto, fino adapprendere che gli omicidi derivava-no da un movente concreto ed eranointerconnessi dalla strategia, mutua-ta dal biliardo, del colpo à la bande(che tira una palla verso la spondaperché rimbalzando ne mandi in bu-ca altre); in uno stratificato spiazza-mento delle attese, le fila che sembra-vano confusamente aggrovigliate sidistendono, la curiosità che parevadover rimanere inappagata è canoni-camente soddisfatta.

Impotenza dell’autoreMa se la suspense del poliziesco è ri-presa, i suoi presupposti sono scardi-nati: i colpevoli restano impuniti, leloro ragioni appaiono pressanti manon lineari (le faide economiche diun gruppo industriale si intreccianoa slanci intimi di desiderio o astio), enon c’è più una forza in grado di di-panare, neanche idealmente, questigrovigli: la giustizia evocata nel titololatita dalla vicenda, non solo perché(come nella narrativa giudiziaria clas-sica) quella istituzionale risulta fragi-le e quella privata dannosa o imprati-cabile, ma perché anche le sue istan-ze astratte vacillano, la realtà appareindocile a qualsiasi forma di verdettoe persino di giudizio.

La tranquilla Svizzera, dedita «agliorologi di precisione, agli psicofarma-ci, al segreto bancario e alla neutrali-tà perenne» (elenco ironico che unpo’ riecheggia la celebre tirata di Or-son Welles nel Terzo uomo), e di fat-to inquinata da grossi giri e conflittiaffaristici, appare come la punta sim-bolica di una pace occidentale fitti-zia, che ricopre dinamiche di rapaci-tà e sopraffazione cruente come leguerre del passato, dinamiche chenessuno è in grado di valutare esatta-mente. Tantomeno l’autore, che,mettendosi in scena, rinuncia a ogniclassico piedistallo, mostrandosi pri-ma sprovveduto come le sue creatu-re, incapace di capire gli eventi senon grazie a tardive rivelazioni, e poi(quando la finzione è ormai dichiara-ta tale), ancorato al conforto del pro-prio mondo immaginario e insiemeriluttante a cavarne un senso defini-to: «Stanco, ritorno alla mia scrivania... nel cerchio magico dei miei perso-naggi... Li ho inventati ma non sonoriuscito a decifrarli»: un’intensa mes-sin-scena della costitutiva ambiva-lenza della creazione letteraria, insie-me strumento per esplorare senza re-more l’esperienza e voluttuoso ripa-ro dai suoi contraccolpi.

«IL SORRISO DELLA SFINGE», DIECI RACCONTI DELLA SCRITTRICE AUSTRIACA RIBADISCONO IL POTERE TRASFORMATIVO DELLA LETTERATURA

Ingeborg Bachmanntra vite e mondi

LA FARSA FILOSOFICA ALLUSIVA DELLA GUERRA FREDDA IN EUROPA

Riproposta la pièce di Dürrenmattsu Romolo il grande

Un delitto in gradodi uccidere la logica

Gelosie,umiliazioni,omicidi impunitiin una sulfureacommedia neratitolata «Giustizia»:Adelphi la riprendedopo l’edizioneMarcos y Marcospubblicata nell’85

DÜRRENMATTFelix Vallotton,

«Le mauvais pas» (part.),1893, xilografia

VARIAZIONI SUL GENERE POLIZIESCO

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(3)ALIAS DOMENICA22 GENNAIO 2012

di MARIA FANCELLI

●●●Riletti oggi nel loro insieme,gli articoli scritti da Claudio Magristra il 2006 e il 2011 e appenaripubblicati da Garzanti sotto iltitolo Livelli di guardia. Note civili(pp. 208, €18) con l’aggiunta didue importanti discorsi (a Roma il27 gennaio e a Francoforte il 18ottobre 2009) e il ripristino deititoli originali dell’autore, cirestituiscono l’impressione di unlibro coeso nei contenuti e perfinonella sua nuova struttura, che è unpo’ quella involontaria del diario.Il diario di una crescente passionecivile che, per la sua forteimpronta didascalica, può essere

letto anche come un manuale ocome un «breviario»: uso questotermine perché qualcosa, inquesto libro, mi ha fatto più voltepensare a quel Breviario didevozioni domestiche che BertoltBrecht aveva scritto nel 1927,fornendo ai suoi lettori, sotto laforma dell’esercizio devozionale,un’opera di educazione laica e distraniamento. Ebbene, i pezzi diquesto breviario civile di Magrisraccontano fatti di cronaca, eventipolitici e di costume, dove da ogniparte monta l’ira e la vocedell’autore risuona forte comeraramente l’avevamo sentita. Ilgermanista, il fine scrittore eletterato, qui fa parlare a voce altala sua coscienza di cittadino: haaffilato le sue armi contro imaggiori responsabili del degradomorale italiano e ha preso a

commentare senza veli gli eventipiù squallidi della cronaca e dellavita politica nazionale. Nonsempre emergono i nomi e icognomi, ma i bersagli sonochiari: la degenerazione dellinguaggio politico, la praticadell’insulto, la regressione moraledella Lega, la volgarità dei suoileader, la lotta agli immigratitrasformata in odio razziale,l’egoismo di un nord arricchito esenza pietà, lo spettro del nuovopopulismo, l’indifferenza di classisociali che sembrano nonpercepire più neppure lo stato e illivello del degrado, soprattutto daparte di una borghesia «pezzente»e «pasciuta» che ha perduto ognirispetto di sé e degli altri. L’occhiodel cittadino Magris si spostaspesso anche sulle istituzioni chenon hanno saputo mantenere la

dignità del loro ruolo; su questionigrandi e piccole dell’esistenza; suinuovi luoghi comuni, come ladiffusa retorica della diversità oquella delle scuse pubbliche e delperdono erga omnes. Il punto divista è quello di un laico che nonsi sente in opposizione alcredente, ma che vive il propriolaicismo come tolleranza e comedubbio, «come capacità di crederefortemente in alcuni valorisapendo che ne esistono altri». Sequelli dell’impegno civile e delladenuncia sono i temi più in vistadel libro, il Magris scrittore e lostudioso della storia e della culturatedesca non scompare affattodietro alla cronaca italiana, macontinua a parlarci e a offrire,anche qui, molti illuminantispunti di riflessione. Penso al belricordo del collezionista triestino

di minerali e fossili, Primo Rovis;alle pagine dedicate alla Shoah;alle riflessioni sulla memoria comepresente e alla storia che non èmaestra di vita; penso, in manieraparticolare, a quella forma diorganizzazionepolitico-economica cosiddetta delcapitalismo renano che Magrisaffronta nell’articolo cui avevaoriginariamente dato il titolo,appunto, Capitalismo renano,ovvero umano, e nel qualesintetizza alcune riflessioni sulsistema tedesco e sulle sue radicistoriche, indicandoci un modellopossibile e invitandoci adapprofondirne la conoscenza e ilfunzionamento. Infine, neldiscorso di ringraziamento per ilFriedenspreis (18 ottobre 2009),con il quale si chiude questo libro,Magris disegna il modello della

nuova Europa e la sua è davverouna direzione possibile e forse piùche una speranza: «All’Europaspetta il grandioso e arduocompito di aprirsi alle nuoveculture dei nuovi europeiprovenienti da tutto il mondo, chevengono ad arricchirla con le lorodiversità. Si tratterà di mettere indiscussione noi stessi e di aprirsi almassimo dialogo possibile conaltri sistemi di valori, matracciando le frontiere di unminimo di valori non piùnegoziabili... Pochi ma netti valori,come per esempio l’uguaglianza ditutti i cittadini a prescindere daogni differenza di sesso, direligione o di etnia. Ma finchél’Europa sarà ancora un’Azioneparallela, la nostra realtà, comequella musiliana, sarà campata inaria».

Anche lo stilevittima di guerra

Ibrido testuale sistematico ma inclassificabile – a meno di non scaderenell’approssimazione più conformista –, Lo chalet della memoria diTony Judt (Laterza, pp. 220, € 16,00) è tuttavia più che onesto nelsuggerire al lettore, sin dal sottotitolo, la natura dei pezzi che locompongono: diviso in tre parti precedute e chiuse da una prefazione eda un «commiato», i venticinque capitoli di questo Novecento privato sonopropriamente delle tessere sia perché elementi distinti di un unico, eunitario, affresco sia perché micro-libretti cui sono affidati i principalitratti distintivi del loro autore (uno dei massimi esponenti anglosassonidella sua generazione): intuizione analitica, capacità di sintesi e nitored’espressione. Qualità, tutte, che in questo libro Judt (nato a Londra nel’48 e scomparso nell’estate di due anni fa a New York, stroncato daglieffetti devastanti della SLA) dispiega per ricostruire la sua vicenda diuomo e di intellettuale eludendo qualsiasi forma di retorica dell’io (e ilsuo contrario): che parli di episodi e momenti personali o si soffermi suaspetti particolari di quel secolo che è stato per oltre trent’anni al centrodegli interessi storici di Judt, ogni tessera dello Chalet combacia con quellache la precede o la segue in virtù di una disposizione improvvisamentechiara del carattere e del destino del loro artefice, il quale, sebbene «piùcomprensivo nei confronti di chi è costretto al silenzio» a causa dellamalattia che gli fu diagnosticata nel 2008, pure non ha mai smesso di«disprezzare il linguaggio confuso» e l’arroganza che proprio dietro ildisordine e la semplificazione a ogni costo maschera nient’altro che unpensiero debole e insicuro: “«non più libero di praticarla, apprezzo piùche mai l’importanza della comunicazione nella vita pubblica: non solo ilmezzo che ci consente di vivere insieme, ma il senso profondo di quelvivere insieme. L’abbondanza di parole in cui sono cresciuto costituivauno spazio pubblico in sé. E quello che manca, oggi, sono proprio spazipubblici ben tenuti. Se le parole cadono in rovina, che cosa prenderà illoro posto? Sono tutto quello che abbiamo». (stefano gallerani)

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TRA CRONACA, EVENTI POLITICI E COSTUME, NOTE PASSIONALI SCRITTE PER «IL CORRIERE» TRA IL 2006 E IL 2011

Un breviario civiledi Claudio Magris

GERENZA

«LO CHALET DELLA MEMORIA»

Tony Judt, il Novecento privatodi uno storico in difesa delle parole

di ENZO DI MAURO

●●●Devo confessare di avere letto Do-po le guerre (Le Lettere, trad. di PaoloScotini, pp. 168, € 16, 50) sulla spintadi due impulsi assai poco attinenti allequalità letterarie, o per dir meglio stili-stiche, del libro: due curiosità, due os-sessioni, due coazioni a ripetere ripor-tando al presente eredità obsolete, con-suetudini antiche, incrostazioni ruggi-nose di patemi privatissimi, di trafficiinteriori più o meno oscuri o, se si pre-ferisce, limacciosi. La prima ragione ègenerazionale, l’autrice essendo natanel 1955, ossia e pur sempre nel cuoredel lungo secondo dopoguerra tede-sco, a macerie ancora calde e visibili,dentro un paesaggio morale devasta-to, stretto tra sconfitta e sentimento dicolpa, quasi in esergo a una lunga, inin-terrotta elaborazione, che con l’avanza-re degli anni è diventato, per limitarcialla letteratura, un vero e proprio gene-re (un flusso torrenziale o una corren-te ricca di nomi e di titoli, cioè di operetra loro concomitanti e però dal valorediscontinuo, spesso chiuse e pinzate al-la voluminosa cartella delle testimo-nianze o al registro dell’interrogarsinel migliore dei casi sul silenzio e sullaresponsabilità che quell’aver taciutoha comportato e comporta).

La ragione seconda, di conseguen-za, mi pare inerente (e funzionale) altema stesso affrontato nel romanzo daDagmar Leupold, il cui esordio risaleal 1992, in morte del padre Rudolf, aguisa di indagine, rendiconto, resocon-to e persino saggio critico, almeno nel-l’ultima parte, dentro e intorno ai restidella scrittura (diaristica e narrativa)dell’uomo che a lungo, oltre alla pas-

sione per la matematica, coltivò unaondivaga vocazione (ma la figlia pro-pende, più crudelmente, per una sem-plice e mai piegata ambizione) alla ce-lebrità letteraria e che al dunque rima-se uno scrittore inespresso e soprattut-to ignoto al mondo.

Leupold, mentre sperimenta in cor-pore vili come non sempre l’approssi-marsi della fine renda migliori gli uomi-ni e come, anzi molti tra loro, nonsmettano d’attossicarsi di boria e di va-nità, cerca di ricomporre i tasselli diuna vita, di dare senso a ciò che chia-ma una «forma mancata, una forma ro-vinata dalla guerra», laddove inoltrel’esperienza bellica va a scavare un fos-sato all’interno della famiglia, ad esem-pio tra chi c’era e vi ha preso parte echi (i figli), di quell’evento in sé laceran-te, sarà destinato a respirare gli effettipostumi, dentro e fuori le mura di ca-sa, nei discorsi e nei silenzi e poi nel pa-esaggio ferito e nelle ferite dei mutilati,degli invalidi. Ricorda l’autrice un’im-magine che fu comune a una genera-

zione: «Negli anni ’50 e ’60 – la mia in-fanzia – stampelle, fasce per tenere lebraccia, maniche vuote e ciondolanti,gambe di pantaloni tirate su, occhi divetro e cicatrici non erano nulla di stra-ordinario». La guerra come punto col-lettivo di non ritorno, la guerra (ormaivecchia di cinque, dieci, quindici,vent’anni) come «unico avvenimento... che imponeva una narrazione».

Una narrazione imperniata innanzi-tutto attorno a frattaglie verbali ines-senziali, corrive, esornative. Oppurec’era il silenzio, un silenzio mirato, in-consapevolmente intelligente ovveroplastico e rivelatore. Il ritratto del pa-dre è equilibrato. Dopo aver letto e stu-diato i diari, i racconti e gli appunti diguerra, dell’uomo che era stato primache lei nascesse emergono verità, de-duzioni e implicazioni mai sensaziona-li, sebbene non meno atroci, non me-no crude per chi mostro non può esse-re definito e invece di grana piuttostoordinaria, fatto salvo un certo talento,fatta salva un’ambizione di sicuro più

forte del coraggio – che è poi il grandepeccato, il supremo disonore di coloroi quali hanno praticato il nazionalismoe il razzismo, tipici marchi della gioven-tù tedesca umiliata dalla sconfitta nelprimo conflitto mondiale, nel nome diuna supposta posizione di superiorità.

È a partire da qui, a me pare, che simostra tutta l’originalità di Dopo leguerre. Leupold – che prende su di sé ilpeso di procedere verso quell’introspe-zione radicale che Rudolf non seppe onon volle mettere in atto, seppure e amaggior ragione nel corso del tempoguardasse con forte simpatia alla so-cialdemocrazia e ai movimenti della si-nistra giovanile e antagonista del Ses-santotto – trasforma il suo romanzo inun serrato, tagliente saggio critico in-torno allo stile della scrittura del padree ai segnali (anche evidenti o addirittu-ra lampanti) ch’essa lancia mentre sispecchia nella lezione dei due maestririconosciuti, vale a dire Ernst Jünger(quello di Irradiazioni, pubblicato involume nel 1949, e in genere dei diari)e Gottfried Benn, in particolare l’auto-re del Tolemaico, anch’esso stampatonel 1949. Due supremi stilisti, dunque,due eclatanti esemplari di animali asangue freddo, secondo i quali il distac-co è sostanza spirituale ed elementomorale. Il nocciolo della questione,per il padre e per i suoi modelli, erapur sempre logistico e il mondo e lasua realtà una immensa scacchiera.L’assillo, l’ambizione è venirne fuori sa-ni e salvi, attraversare indenni l’orroree le tempeste. Così lo sguardo neutro,«anche dopo la guerra», restò comeuno stigma dello «scrittore» RudolfLeupold. Ogni cosa si equivale per l’oc-chio che esamina come una telecame-ra, ogni cosa merita «un interesse disin-teressato, una partecipazione indiffe-rente»: «la fioritura, la digestione, il tea-tro, le esecuzioni capitali». È precisa-mente qui, a questa altezza, che la posi-zione estetica si fa politica ed etica. An-che se quel padre e i suoi «padrini» let-terari (li appella proprio così l’autrice)vollero negarlo o ignorarlo, sia nella vi-ta e di sicuro a partire dallo stile. An-che questo, ci viene suggerito, fu undanno delle guerre.

In copertina,uno dei dipinti rupestridi Lascaux

DALLA GERMANIA, UN CASO DI «VÄTERLITERATUR»

Immersa nei diarie negli appuntidel padre,che fu uno scrittoreinespresso,Dagmar Leupoldne ricomponecriticamente la vitain «Dopo le guerre»,un romanzo-saggio

LEUPOLDGerhard Richter, «Betty»,

collezione privata

Page 4: Alias de Il Manifesto 22 gennaio 2012

(4) ALIAS DOMENICA22 GENNAIO 2012

di ANGELO MASTRANDREA

●●●Che secolo di grandi rivolgimen-ti, speranze passioni e massacri, quelloche si apriva alla Storia mentre, sedutiattorno a un falò dopo la battaglia, i fra-telli Abatemarco arrostivano e mangia-vano la faccia del sindaco Nicola Cesta-ri come si usava fare in quella stagioneper il maiale. Era il 17 febbraio del 1799e contemporaneamente, qualche chilo-metro più a sud, nella stessa piazza incui quasi sessant’anni dopo Carlo Pisa-cane si accorse dell’errore madornalecompiuto – aver voluto l’insurrezioneproprio mentre chi avrebbe dovutocompierla era nelle Puglie per la stagio-nale mietitura – qualcuno piantava unolmo e lo chiamava «albero della liber-tà». Poco più a nord, invece, i rivoluzio-nari bruciavano la biblioteca di donDiego Gatta, colto e ricco discendentedi una famiglia di chiesa e di medicina,costringendolo a una fuga precipitosa.

Donna Mariantonia de Stefano «lamaccarunara», classe 1916, era la custo-de di memorie popolari che risalendocontrocorrente il fiume del tempo rian-nodavano il secolo dei rivolgimenti, del-le passioni e dei massacri a partire dal-

la sua conclusione, dai briganti ai fran-cesi e non viceversa. Eccoli, questi ulti-mi, in una «oralità» che in appena trepassaggi fa un salto all’indietro di tre-cent’anni: «Mi diceva mia madre cheuna sua zia morta a 96 anni racconta-va: quando venivano i francesi, loro fug-givano subito. Dicevano nascunnite licriature. Le bambine andavano a na-sconderle nelle pagliere (i fienili, ndr),le coprivano di paglia, perché facevanostrage (le stupravano, ndr)».

I francesi liberatori e violentatori, i li-bertari sui cui alberi innalzati nelle piaz-ze furono piantate le loro teste e in qual-che caso sbranate per vendetta da cru-deli sanfedisti di paese, don Matteo Far-ro che, uscito dalle galere borboniche,si fece aprire la chiesa per dire messa epredicò dal pulpito la richiesta della Co-stituzione, i tre disertori dell’esercitoche furono uccisi proprio nel giorno incui la pena capitale fu tramutata in er-gastolo. A conclusione del centocin-quantenario dell’Unità d’Italia, può es-sere di qualche interesse provare aguardare alla storia del Risorgimentoda una prospettiva solo apparentemen-te laterale: quella di un’area del sud Ita-lia periferica perfino all’epoca, rispetto

alla Sicilia napoletana e a quella paler-mitana, e quella delle classi che hannovissuto la Storia senza poterla scrivere.La regione di cui parliamo è più gran-de della Valle d’Aosta e comincia laddo-ve nell’immaginario di Carlo Levi Cri-sto si era fermato. È il Cilento con ilconfinante Vallo di Diano, tra Montesa-no dove il 17 febbraio del 1799 i fratelliAbatemarco banchettarono con la fac-cia del sindaco e Casalbuono dove gliinsorti piantarono un olmo nella piaz-za in cui i loro nipoti si perderanno l’ar-

rivo di Pisacane, tra Sala Consilina do-ve il rogo della biblioteca costrinse allafuga don Diego Gatta e Auletta doveMariantonia de Stefano la «maccaruna-ra» ha esercitato indisturbata il ruolo dicustode della memoria popolare fin-ché un appassionato, autodidatta, cul-tore di storia orale l’ha finalmente sot-tratta all’underground del vicolo.

Giuseppe Colitti per decenni è anda-to casa per casa, nei campi e nei merca-ti, munito solo di un registratore porta-tile, ha ordinato in numerosi libri (maiusciti dalla dimensione locale: la perife-ria culturale ha spesso distanze ancoramaggiori da percorrere per far centro)le migliaia di testimonianze raccolte.Quella che ci interessa in questa sedeha un titolo semplice, Popolo e risorgi-mento nelle fonti orali del Vallo di Diano(Laveglia&Carlone editore, pp. 208, €10,00), e ci pare il naturale complemen-to al Noi credevamo di Mario Martone,un film che ha avuto il merito di com-prendere la centralità di un’area perife-rica come quella del Cilento per la sto-ria dell’Unità d’Italia, smontando in uncolpo solo qualsiasi montante nostal-gia neoborbonica di ritorno. Anche inquesto caso, si deve alla tenacia di unpiccolo editore locale, Giuseppe Galze-rano, il merito di aver tirato fuori dal-l’oblio – ripubblicando le memorie diun protagonista, Antonio Galotti, edita-te a Parigi nel 1831 e mai tradotte in Ita-lia – un massacro sconosciuto, quellocon cui furono annegate nel sangue,dalla ferocia borbonica, le speranze diun pugno di ribelli.

Siamo nel solco de La conquista, lastoria del Risorgimento riletta da que-sto giornale (a cura di Gabriele Polo).Siamo nel 1828, l’olmo piantato a Ca-salbuono nel ’99 era ormai da tempobruciato, e il Cilento tornò a ribellarsichiedendo la Costituzione. Un paese,Bosco, poco lontano dalla Sapri in cuitrent’anni dopo sbarcherà Pisacane,accolse gli insorti e mal glie ne incor-se. La rivolta fu stroncata nel sangue, irivoltosi arrestati e molti di loro con-dannati a morte, le loro teste espostein gabbie di ferro nelle piazze e lungole strade in cui abitavano i familiari. Ilpaese fu fatto radere al suolo e il terre-no cosparso di sale, a impedire scara-manticamente che la mala pianta del-l’insurrezione potesse tornare a cresce-re: un decreto reale ne dispose la sop-pressione e il divieto di riedificarlo. Fuin quei giorni che, a Sala Consilina,don Matteo Farro uscito di galera si fe-ce aprire la chiesa e invece della messarecitò la Costituzione.

Non sapeva, il buon prete, che di lì avent’anni, nel 1848, accadrà di benpeggio. Quando Ferdinando II ritirò laCarta, furono dichiarati decaduti i Bor-bone, a Sala fu nominata la sede delgoverno provvisorio e arrivò una co-lonna rivoluzionaria guidata da un lu-cano. Finì con il paese circondato dal-le truppe e i rivoluzionari costretti allaresa dopo otto giorni di assedio, nonprima di aver incenerito tutti i docu-menti del governo provvisorio. Fu an-che per questi fermenti passati cheCarlo Pisacane, nove anni dopo, dovet-te decidersi che l’Italia si faceva a Pa-dula o non si sarebbe fatta. La storiaracconta che finì in un vicolo cieco, isuoi trecento giovani e forti trucidatisenza possibilità di difendersi, i cada-veri ammucchiati davanti al conventodei minori osservanti e poi bruciati.Dell’assenza dei contadini impegnatinelle Puglie abbiamo già detto, del fat-to che quando il socialista utopistache voleva dirottare il corso della sto-ria meridionale perse la vita tra le mon-tagne di Sanza il resto della popolazio-ne locale era in chiesa a celebrare la fe-sta della Madonna della Grazia ancorano. La tradizione popolare, forse perautoassolvere se stessa dall’onta stori-ca, attribuisce la fine a un equivoco: Pi-sacane avrebbe sparato un colpo inaria di saluto che per fatalità avrebbeforato il cappello di una persona delluogo, innescando così lo scontro defi-nitivo.

Incontro al Ponte RottoComunque sia andata, è certo che

Pisacane e Garibaldi si fermarono a ce-nare nella stessa osteria, e per quest’ul-timo l’accoglienza riservata, tre anni eun terremoto devastante dopo, fu deci-samente migliore. Zì Giovanni Di Filip-po gli andò incontro al Ponte Rotto,sul passo del Fortino dove le camicierosse poi si fermarono a riposare. Ceci-lia Bruno che lo aveva conosciuto rac-conta a Colitti: «Era vestito rosso, cam-minava a piedi. Andò a mangiare dadon Ciccillo Sabatini. Qua cantavano:Garibbaldi, quannu venne, ne purtauna quantità: cappielli cu le ppenne, nefece nnammurà».

Come fu possibile che da quell’acco-glienza festosa per le camicie rosse sul-le stesse montagne si passò al brigan-taggio è oggetto di discussione storicae politica. Tra gli effetti collaterali dellalegge Pica che mise a tacere con la for-za il malcontento nei confronti delloStato unitario c’è la strage che tra il 28e il 30 luglio del 1861 i soldati fecerofra la popolazione di Auletta. Marianto-nia “la maccarunara” l’aveva ascoltatadalla nonna, che aveva vissuto in diret-ta gli eventi. Quando cominciarono gliscontri, la donna si nascose in un cami-no per salvarsi la vita. E così potè rac-contare ai nipoti: «Quando mia nonnaè uscita cosa ha trovato? Erano diven-tati tutti garibaldini, i signori borboni-ci». Alla fine della battaglia si contaro-no venticinque morti tra i cittadini.Per un pezzo d’Italia si chiudeva così,quarant’anni prima del previsto, un se-colo più breve di quello che si apriva al-le porte, denso di rivolgimenti, speran-ze passioni e massacri. La storia nongli concederà una seconda possibilità.

DALLA PRIMA

Caproni e la «bêteinnommable»di Lascauxvista da Blanchot

Cilento magnetofonodella Conquista

BENVENUTI AL SUD

Via dal fotoshopideologico,tra i borbonie i piemontesiio scelgoil Cilento

1986. Una risposta quell’anno ave-va provato a darla tramite i versidel Conte di Kevenhüller: «La Bestiaassassina. / La Bestia che nessunomai vide. / La Bestia che sotterra-neamente / – falsamente mastina –/ Ogni giorno ti elide. / La Bestiache ti vivifica e uccide… / Io solo,con un nodo in gola, / sapevo. / Èdietro la parola». Verso il 1990, quel-l’animale erratico si era spostatonei territori «disabitanti» della poe-sia postuma di Res amissa. Ma lasua presenza ferina affondava le ra-dici molto lontano nel tempo. Mol-teplici erano state le sue metamor-fosi, ancora più evidenti le sue eclis-si. In origine, con Jouve, era stata«bestia ammirabile» e, dopo l’inter-vallo della poesia di Finzioni, si eramanifestata ‘dentro’ la città di Ro-ma nelle poesie di Cronistoria. Nel1962 con René Char, tradotto da Ca-proni per Feltrinelli, si era trasfor-mata nella «Bête innommable» in-terpretata da Maurice Blanchot co-me «parola che dona voce all’assen-za» nel saggio La Bête de Lascauxdel 1958 (le pitture rupestri di La-scaux, manifesto della nascita del-l’arte e del congedo dell’uomo dalsuo passato animale). Caproni, chenelle interviste non ha confessatoproprio tutto su Blanchot, quel sag-gio lo conosceva bene e lo possede-va sin dal 1961 (negli anni del Con-gedo del viaggiatore cerimonioso)perché era stato Char a inviarglielo.Il libretto è conservato nel Fondoromano e lo ha segnalato con atten-zione Michela Baldini.

Quante e quali sono le Bestie nel-l’opera di Giorgio Caproni? È que-sto l’oggetto di uno studio che mi ri-servo di descrivere a fondo in sedecritica. Basti dire per ora che qual-cosa distingue il poeta di Livornoda altri scrittori della stessa genera-zione. Molto per lui è stato fatto (tal-volta «con punte di culto» avverteMengaldo) e molto resta da fare.Già nel 1980 lo aveva segnalato Se-reni: «alla poesia di Caproni biso-gnerà anzitutto invidiare la sortepiuttosto rara (perché non equivo-ca) del suo circolare ed essere letta,ossia del suo parlare ad altri ancheindipendentemente dal rapportodelle definizioni critiche e dal giocodei confronti e delle poetiche con-trapposte». E prima ancora lo ave-va capito Pasolini che, venuto adabitare a Roma nel 1950, dieci annipiù tardi, avrebbe dedicato A Capro-ni questi versi: «Anima armoniosa,perché muta, e, perché scura, tersa:/ se c’è qualcuno come te, la vitanon è persa».

Un appassionat0autodidattaregistra memorie«vive» fino al 1799sottraendoleall’undergrounddel vicolo

di FRANCO ARMINIO

●●●Gli Italiani non conoscono bene la lorostoria e gli italiani del sud ancora meno. Mi ca-pita spesso girando nei paesi di trovare qual-che targa di cui nessuno sa dirmi niente. È co-me se la memoria si fosse fermata a Mike Bon-giorno e all’avvento della televisione. Quasisempre nei paesi c’è lo storico locale, ma spes-so ha le idee confuse. Quello che manca è unaconsapevolezza diffusa di quello che è accadu-to, specialmente nei momenti più significati-vi. In Campania questo momento copre un ar-co che va dalla rivoluzione napoletana del1799 fino al passaggio garibaldino.

Storie di ardori rivoluzionari e di miserieclericali, storie tristissime in cui le intelligen-ze più illuminate trovano i peggiori nemicinella plebe. Un groviglio di eventi che ha co-me epicentro il Cilento e il Vallo di Diano.Venivano da questa terra molti degli intellet-tuali napoletani della rivoluzione trucidatidai borboni.

Quando si va in vacanza nel Cilento è il ca-so di ricordarsi che ci si trova in un luogo im-

portante della storia d’Italia. In quei piccoli pa-esi c’era e c’è ancora una bella fibra morale.Le rivoluzioni di allora non andarono a buonfine, ma il Cilento è un sud non completamen-te abbrutito. Pollica, Auletta, Sanza, Padula,Sapri e i tantissimi paesi grandi quando il pu-gno di Polifemo non sono la stessa cosa dei pa-esi giganti della pianura intorno a Napoli e Ca-serta. Stanno nella stessa regione, hanno dadecenni lo stesso malgoverno regionale, mal’atmosfera è diversa. Basti pensare a cosa è di-ventato il mare nel litorale domizio e a quelloche si trova pochi chilometri più sotto, tra Ac-ciaroli e Palinuro.

Sarebbe una buona pratica se si trovasse ilmodo di raccontare ai turisti la storia di luo-ghi ancora tanto belli. Andare a Padula pervedere la Certosa e per sapere la storia diCarlo Pisacane e anche quella di Petrosino.Oltre alle vicende del mezzo secolo che pre-cede l’unificazione italiana, il Cilento è an-che una zona capitale delle varie ondate mi-gratorie. È un fatto che dal Risorgimento fi-no ai giorni nostri la grande ferita dell’emi-grazione non si è mai arrestata.

Oggi per essere buoni meridionali è bene ca-pire cosa è successo. Guardare alla nostra sto-ria senza mettere ridicole casacche per cui ibriganti sono eroi o delinquenti. La rappresen-tazione del regno piemontese che abbiamo let-to a scuola risentiva di una sorta di fotoshopideologico teso a esaltarne virtù e nasconderedifetti. Ora il gioco si è ribaltato e pare che il re-gno di Napoli fosse la mecca del buon gover-no. E allora tra i borboni e i piemontesi io scel-go il Cilento. Scelgo Vincenzo Lupo da Caggia-no, avvocato, giustiziato a Napoli il 20 agostodel 1799. Scelgo Nicola Maria Rossi da Lauri-no, professore dell’università, giustiziato a Na-poli l’otto ottobre del 1799.

Non tutte le nazioni sono uguali e non tuttele regioni sono uguali. Si può amare l’Italiaper le sue diversità e credere che il criminemaggiore che abbiamo commesso contro que-sta nazione sia stato quello di piallare le suedifferenze. L’omologazione consumistica dicui già parlava Pasolini, l’ossessione della cre-scita, lo sviluppismo senza cultura ha fattodanni enormi anche nella vastissima provin-cia salernitana, basti pensare all’indegna bol-

gia urbanistica dell’agro nocerino-sarnese o al-la villetteria spuntata in pochi decenni su quelmeraviglioso panno da biliardo che è il vallodi Diano, però nel Cilento qualcosa ha fatto re-sistenza, qualcosa c’è ancora. Mi piace pensa-re che sia una resistenza che venga proprio daquei semi di civiltà che allora furono repressi eche tuttavia appartengono al dna del popolocilentano. Volendo si può andare ancora piùlontano e si può pensare a Velia e alla scuolaeleatica fondata da Parmenide e portata avan-ti dal suo allievo Zenone.

Oggi parlare di sud significa parlare di que-ste cose e farlo insieme alla denuncia della mi-opia piccolo-borghese che ha spostato a valleinteri paesi, secondo un modello che ha i suoifasti massimi in Calabria, ma che è già ben visi-bile nel capoluogo del Vallo di Diano, SalaConsilina. Il sud sono gli intellettuali della re-pubblica napoletana e i contadini di Sanza e ilprete che li avvisò dell’arrivo dei «briganti». Ilsud è Giordano Bruno e i sanfedisti. Bisognascegliere da che parte stare. Ora come allora.Ora più di allora. La parola in cima all’agendavolendo è sempre la stessa: rivoluzione.

SUD SUD

In alto, una scena di «Noi credevamo»di Mario Martone, 2010;nella pagina a fianco in basso,Ferdinando Scianna, «Senza titolo»

PISACANE, UN’INCOMPIUTA PER LA PRIMA VOLTA IN INTEGRALE«La rivoluzione» avrebbe dovuto essere il terzo dei «Saggi storico-politico militari sull’Italia» di Carlo Pisacane(nell’immagine). Ma si interruppe tragicamente all’alba del 2 luglio 1857 tra i monti di Sanza, in Cilento. Nerimane una stesura provvisoria, di primo getto, però preziosa per approfondire il socialismo utopista,libertario del «giovin dagli occhi azzurri e dai capelli d’oro» descritto nella «Spigolatrice di Sapri» e che VictorHugo considerava più simpatico di Garibaldi. Ora la grande incompiuta di Pisacane esce per la prima voltaper merito di una piccola casa editrice cilentana, Galzerano («Rivoluzione», a cura di Aldo Romano, pp. 416,€ 20,00), accompagnata da una ponderosa introduzione di Giuseppe Galzerano sul personaggio. Sullostesso tema va segnalato il numero di dicembre del «Calendario del Popolo» (pp. 87, €, 9,00), dedicato ai150 anni dell’Unità d’Italia e aperto dall’ultimo saggio dello storico Franco della Peruta (scomparso lo scorso13 gennaio), che nel 1970 aveva curato e introdotto per Einaudi un’edizione degli scritti di Pisacane.

GIUSEPPE COLITTI, UN LIBRO DI STORIA ORALE SU RISORGIMENTO E POPOLO NEL MERIDIONE

Page 5: Alias de Il Manifesto 22 gennaio 2012

(5)ALIAS DOMENICA22 GENNAIO 2012

di SILVANA TURZIO

●●●In Autoritratto di un fotografo(Bruno Mondadori, pp. 208, € 16,15)Ferdinando Scianna racconta le suevicende di giornalista e fotoreporter,di critico fotografico e di intellettuale.Se l’autoritratto fa parte di un piùgenerale pensiero autobiografico, sideve allora indicare come punto dipartenza Quelli di Bagherìa ( 2003),ottimo frutto di una sperimentazionepoco praticata nel mondo editorialefotografico italiano. La definizionemigliore ce la dà lo stesso Sciannanell’Autoritratto: «Non eranodidascalie e le foto non illustravanoquel tessuto di memorie che siandava strutturando. Volevo che

vivessero insieme.. È un lungofotoromanzo». Quelli di Bagherìa èdiventato una mostra, poi un film, havinto premi. Da lì, da quel particolarelivello di qualità, cosa e come fare perproseguire nell’elaborazione diun’autobiografia? Certo, non sipoteva pensare a un secondocapitolo di Quelli di Bagherìa, manon si poteva non partire da lì.Autoritratto riannoda infatti i fili conil volume precedente per illuminaregli incontri fondamentali che Sciannaracconta con una calibrata dose diveemenza e di autoironia. Il padreche condanna la scelta dellafotografia, e così facendo a fortiori lalegittima. E poi i maestri amici,Roberto Leydi, Leonardo Sciascia,Henri Cartier- Bresson chepunteggiano le vicende professionali:la pubblicazione di Feste siciliane,l’Europeo dei tempi gloriosi e Parigi,

la Magnum, il giornalismo critico e lecorrispondenze per Le Mondediplomatique, e ancora, il mondodella moda nel quale entra grazie aDolce e Gabbana alle loro primeprove.

Ma eccolo, Scianna, ancora esempre a tu per tu con la sua Sicilia:terra primordiale, popolata dianimali, abitata da paure ancestrali epervasa da sentimenti radicali aiquali Scianna non può sottrarsiperché tutto questo è allo stessotempo nutrimento e veleno.«Credevo che con quel libro (Quelli diBagherìa), avrei affrontato i mieirancori oscuri sul mio paese e laSicilia sciogliendoli dentro tutto ilmio amore. Non è stato così: magariè stato un modo , invece per dire,addio». Strana faccenda questa dellasicilianità che ogni volta lo allontanadalla sua terra per riportarcelo

sempre animato dagli stessisentimenti minacciosi. Il raccontoche si dipana qui è un filo d’Ariannache conduce al punto dove risiedeuna personale mitologia fondativa: ilrancore e l’amore, Scilla e Caridditempestosamente uniti e divisi: «Perme il grigio del nord è una luceesotica, mentre i fotografi che dalnord vengono a fotografare in Grecia,in Sicilia, cercano l’apollineità, ilclassicismo, l’abbacinamento. Ifotografi siciliani sembrano inveceamare la Sicilia nera. Io dico che ilsole mi appassiona perché fa ombra.Costruisco le immagini a partiredall’ombra». È infatti da una costanteopposizione tra luce e ombra chenasce la sua fotografia, e non è soloun vezzo del fotografo in bianco enero, ma un vero e proprio puntopercettivo che fonda la sua estetica.Molte delle sue foto portano il segno

dell’ombra come un secondo trattoche delimita la superficiedell’immagine, a sottolineare che èdall’ombra che nascono, così come èdalla dialettica tra rancore e amoreverso questa terra, padre oscuro e

vendicativo, madre solare e ridenteche nasce forse il suo inarrestabiledesiderio di scrivere.

Paul Ricoeur aveva definitol’insieme delle riflessioni alla ricercadi un tema fondante «le formidabilioscillazioni del pensiero sull’io e sulsé»: questo movimento pendolare ènel caso di Scianna particolarmenteevidente. Se il centro è definito nondalla sua marmorea consistenza madalla forma mutevole eppure semprelocalizzata, ogni volta che scrive di séScianna percorre le escursioni delpendolo e intanto scava un po’ più afondo nel centro per rivelare unpunto di vigile intelligenza delproprio operare. «La risatadevastante» con cui Scianna prendedistanza dalle proprie e altruiossessioni, dalle convenzionifotografiche e dai conformismiintellettuale, richiede libertà.

di VIOLA PAPETTI

●●●Innamorati a volte delusi sono gli esti-matori della ubiqua, ambigua, bellissima crea-tura ermafrodita che è la chiocciola, «impasta-ta di d’argento e di perle» – secondo padreBartoli – «fortezza portatile», disabitata prigio-ne, funerea mangiatrice di bulbi oculari mor-ti. La conchiglia è figura del barocco che ha ge-nerato preziose varianti ornamentali e concet-tuali, e può crescere da metaforetta a metafo-ra addirittura romanzesca, come dimostraVincenzo Consolo nel Sorriso dell’ignoto mari-naio del 1997. Salvatore Grassia fa un’analisicapillare, illuminista, ironica di quel denso lu-mescente tessuto narrativo in La ricreazionedella mente. Una lettura del «Sorriso dell’ igno-to marinaio» (Sellerio, pp. 80 € 12). La struttu-ra triangolare del romanzo, che si vuole ro-manzo ideologico, antirisorgimentale, è affi-data al protagonista, il barone siciliano EnricoPirajino di Mandralisca, patriota e malacolo-go, veramente vissuto, che trascrive gli «atrocifatti succedutisi in Alcàra Li Fusi» il 17 maggiodel 1860, in cui villani e pastori ferocementemassacrarono i padroni delle terre, e a lorovolta furono imprigionati e «moschettati».Vessillo della atavica elusiva identità è il Ritrat-to d’ ignoto di Antonello da Messina, tradizio-nalmente detto dell’Ignoto marinaio, somi-gliante a Mandralisca, Sciascia, Consolo, – ag-giungerei anche Silvano Nigro – troppo acutoper essere uno strumentale servitore della sto-ria. Grassia ricostruisce una genealogia dellascrittura menzognera che si vorrebbe veritie-ra, da Manzoni al barocco tropicale di AlejoCarpentier, scrittura della lumaca che a volteappare scia d’argento a volte schiuma bavosa.

La tesi di Grassia è che Consolo, scrittore ci-vile, «si rivela perennemente taglieggiato dal-le parole, edonisticamente sedotto dall’acca-dimento sonoro e ritmico della pagina, arren-devolmente soggiogato dall’incantesimo del-la retorica: il libro "impegnato" di un letteratocoscientemente compromesso con l’indeco-rosa e dilettevole pratica irresponsabile dellaletteratura, e con l’ "impellenza" agiatamentemenzognera della scrittura.» Si comprendeperciò il dispetto di Mandralisca (alter ego diConsolo) di fronte alla capricciosa ornamenta-zione della propria scrittura che dovrebbe te-stimoniare i drammatici fatti di Alcàra. Nongli resta che trascrivere le singole testimonian-ze dei protagonisti storici, tracciate col carbo-ne sui muri del carcere prima dell’esecuzio-ne, in oscuri e tremendi dialetti.

Scrittura nera – ma anche questa derivatadalla tradizione colta e non da quella popola-re secondo le prove portate da Grassia – con-tro scrittura d’argento. Ai dubbiosi non restache godere della imprevista Wunderkammerlinguistica di cui Consolo è capace, e che ma-terializza a tratti in decrizioni incantate e poe-ticamente ritmate, una lingua che si fa cassadi risonanza dei dialetti dell’isola, un italianoperò impregnato di quella pastosità esuberan-te: parole riempite di cose, profumate, colora-te, gustose. Così, come i villani di Retablo, sipuò essere trasportati «in altri mondi e vani,su alte sfere e acute fantasie, sopra piani di lu-ce e trasparenze, col solo appiglio d’un qua-dro informe e incomprensibile e la parola piùmielosa e scaltra…»

JOVINE ■ «LE TERRE DEL SACRAMENTO» DEL ’50

Storie molisanesospese nel panicoe governatedallo stupore

di CECILIA BELLO MINCIACCHI

●●●La cifra stilistica di Anna Maria Orte-se, quella sua peculiare finezza di tratto uni-ta alla capacità di affondare immediatamen-te al cuore delle cose, di coglierne l’essenzacon una naturalezza infallibile, riemergeora, tutt’intera, nella raccolta di scritti sullaletteratura e sull’arte appena curata da Mo-nica Farnetti, Da Moby Dick all’Orsa Bianca(Adelphi, pp. 187, € 13,00). In poche altrescrittrici si possono ravvisare insieme, mira-colosamente inestricabili, severità e pietà.Lo sguardo di Anna Maria Ortese è sempreesatto: i dettagli necessari, le inquadraturemai sfocate, incarnati e contorni mai dilava-ti. La sua pietà, vibratile, è quella di chi si èconosciuta dovunque «in luoghi di esilio».

La sicurezza del suo gusto letterario e arti-stico non prescinde dalla densità etica delleopere a cui rivolge attenzione. Del Diario diAnna Frank, che è uno dei «libri che guarda-no l’orizzonte», Anna Maria Ortese cogliesubito la freschezza adolescenziale – «è il li-bro di tutte le generazioni giovani del mon-do» –, l’affamato desiderio di capire e al con-tempo la saggezza straordinaria e istintiva:«non hanno nome né volto né sguardo i na-zisti per Anna, sono il male anonimo, la na-tura inquieta, la condizione dell’oscuritàmentale: un assurdo». A rendere la piccolaolandese «imbattibile», a sostenerla nelchiuso del suo «alloggio segreto», è una pas-sione che la Ortese chiama «amore della re-altà». Passione che lei stessa ha condiviso te-nacemente, ma in modo unico, suo pro-prio. Che era il vedere «la realtà vera disfarsicontinuamente (...), e la realtà irreale domi-nare l’eterno», scriveva nel Porto di Toledo.

Ortese non si lascia persuadere da storie«esemplari», con personaggi altrettantoesemplari, narrate «con linguaggio esempla-re», e non teme di scrivere che avrebbe pre-ferito «un Metello meno sicuro di sé, una Er-silia meno cosciente, un Libero meno paffu-to ed anonimo»: il Pratolini che ha caro, in-fatti, è «quello che invece di parlare agli uo-mini li fa parlare; e ascolta anche il linguag-gio dell’Arno dove è più basso». In questiscritti critici, mai apparsi prima in silloge, adominare è la libertà del metodo e della vo-ce, che passa dalla «magnifica discrezione»di Cechov per le sue creature, al Buzzati«scrittore delicato e sinistro, sempre in allar-me», all’«infanzia meravigliosa piantata ne-gli occhi» di Hemingway. Nei Vangeli – cia-scuno, «dietro un’apparente semplicità, mi-sterioso e terribile» – riconosce la condannadel tempo che si oppone all’eternità: «di so-lo tempo non ci si può nutrire, senza man-giare morte». In Achab che perseguitaMoby Dick, balena enorme e bianca comel’Orsa che «ha avuto un figlio» allo zoo, scor-ge un «Uomo-Senza-Natura, cioè senza pa-ce, uomo muto, perduto nei sistemi senzaorizzonte dell’utile». Lungimirante, acutissi-ma, Anna Maria Ortese si chiede se il perse-cutore non sia «il mondo come America».Ben sapendo di poter dire anche la «Russiadi domani», l’«Europa di oggi». Ovvero «vitacome mercificazione della vita; trionfo del-l’utile, apoteosi dei costi». Il mercato, «com-pra-vendita di ogni splendore».

ANNA MARIA ORTESE

Da Anna Frankai Vangeli,una «lettrice»sotto il segnodella pietàe dell’esattezza

di GRAZIELLA PULCE

●●●Pubblicato nel 1950 – propriol’anno della riforma agraria – subito do-po la morte di Francesco Jovine, Le ter-re del Sacramento (introd. di France-sco D’Episcopo, Donzelli, pp. XIV-257,€ 23,00) avevano conosciuto una lun-ga gestazione. Nel ’46 l’autore dichiara-

va alla «Fiera letteraria»: «Da dieci annimi porto in mente un romanzo di va-stissime proporzioni, senza titolo, perora, ma con una decina di personaggiche mi fanno già ottima compagnia».Il romanzo rappresenta uno dei più co-spicui contributi al realismo e il verticedell’opera dell’autore molisano, chevolle rappresentare la condizione del

Meridione d’Italia nel suo groviglio divitalismo e abiezione, fede e disincan-to. L’opera è articolata secondo unascansione lenta e vede alternarsi unaserie di figure che inizialmente paionocontendersi il ruolo protagonista: Enri-co Cannavale, proprietario delle terredel Sacramento, tremila ettari espro-priati alla Chiesa nel 1867 e ritenuti ma-ledetti dalla superstizione popolare;Clelia, cugina di Enrico e sua amanteoccasionale; Laura, la moglie che siadopera perché il Fondo sia nuova-mente coltivato e poi distribuito tra icontadini; e infine Luca Marano, ex se-minarista e poi avvocato, che coadiuvaLaura nell’impresa di strappare quelleterre al destino di abbandono e di sal-vare i Cannavale dalla rovina.

Le rivolte contadine, gli assalti squa-dristi ai danni dei lavoratori in lotta ela marcia su Roma costituiscono la tre-nodia che accompagna il racconto, incui s’infiltrano elementi di schietto pa-ganesimo. Questo per dire che nulla diciò che accade nel romanzo ha un valo-re puramente individuale, né nelle sueorigini lontane, né nelle motivazionipiù o meno prossime, né negli effettiche ne scaturiscono. Tanto il mondocittadino che quello agricolo-pastora-le, i due poli di un cosmo verghiana-mente corale, sono librati in una condi-zione di sospensione panica. E dun-que ciò che accade e ancor di più ciòche non accade appartengono para-dossalmente al medesimo universo go-vernato da inerte stupore.

In questa opera potentemente reali-stica e insieme sanguignamente fanta-stica Jovine ha dato vita a una storiache non si lascia circoscrivere nei confi-ni del romanzo di intonazione sociale,dove il giovane Luca conquistata lenta-mente e faticosamente coscienza del-l’ingiustizia sociale. Rinunciando aogni consolazione e a ogni semplifica-zione, Jovine ha creato un mondo com-plesso dove le varie voci coabitano sen-za istituire una gerarchia, quella gerar-chia tanto celebrata dal fascismo e del-la quale in queste pagine si evidenzia-no le radici storiche e i meccanismi psi-cologici. Che Luca Marano sia destina-to alla morte lo si intuisce sin dal princi-pio e non solo per ragioni di natura so-cio-politica, ma per ragioni squisita-mente letterarie di dispositio. Egli haosato sfidare le camicie nere e i privile-gi della proprietà fondiaria, ma primasi era sottratto alla volontà della madreche lo voleva prete. Ed è in quella sce-na iniziale apparentemente irrelata,nella quale la terribile donna scopre ilseno e pronuncia la propria maledizio-ne, che tutto si incardina verso la trage-dia. È la Grande Madre mediterranea,amorosa e distruttrice, il luogo centra-le della vicenda e della storia di questopaese, come in qualche modo avevagià intuito Grazia Deledda che con Lamadre aveva delineato un conflitto diidentica tragicità. Le terre del Sacramen-to non sarebbe quel complicato e attua-lissimo romanzo che è se la voce delnarratore avesse voluto imporre unproprio superiore ed esterno ordine aquesto grumo di storia mediterranea emolisana, nel quale il denaro e i manga-nelli sono in mani maschili, ma la for-za resta nelle mani della donna.

CONSOLO RILETTO

«Il sorriso dell’ignotomarinaio»restituitoin una analisiironica e capillaredi Salvatore Grassia

«AUTORITRATTO DI UN FOTOGRAFO»: LA FUNZIONE-SICILIA IN UN’ESTETICA DIALETTICA E PENDOLARE, DOVE IL SOLE «FA» OMBRA

Le oscillazionidi Ferdinando Scianna

TRE SGUARDI D’AUTORE FRA CONTESTI SOCIALI E LETTERARI

SUD SUDJOVINE RITRATTODA CARLO LEVINel 1977 Carlo Levi cifornisce notizie sulla genesidel dipinto «Lo scrittoreFrancesco Jovine conl’asino», 1947, che illustraquesta pagina: «Di ritrattidi Jovine ne ho fatti due, ealcuni disegni. Eravamostati insieme, con RoccoScotellaro, nei prati di VillaDoria Pamphili, ancoraabitata da veri pastori, e dagreggi e da animali nellecapanne. Per questo in unodei due ritratti (e non soloriferendomi al suo mondopoetico del Sud) misi unasino e un contadino (chein quel tempo erano quasila mia firma). Questoritratto, dipinto il 20 ottobre1949, lo rappresenta con ilsuo peso e il colore violaceodei morti. Jovine cadde aterra per infarto, appenaarrivato, con tutti noi aVenezia, al Congresso dellaResistenza, nel 1950. Loricordo all’ospedale diVenezia (meraviglioso diassurda architettura)convinto di non avere nulladi grave. Lasciato partiredopo solo una settimanadai medici, ebbe, subitodopo il viaggio, il secondoinfarto e morì. E lo ricordocon le macchie viola sulviso, identico a quello cheavevo dipinto l’annoprima».

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(6) ALIAS DOMENICA22 GENNAIO 2012

UN NIETZSCHE LICEALE

LA TRAGEDIAPRIMA DI BASILEA

Sulla trinceadei classici

Nell’aprile 1864, durante l’ultimo anno diliceo a Pforta, il diciannovenne, giàfremente Friedrich Nietzsche riempiequasi per intero un quaderno di 72 paginecon un saggio sul primo canto coraledell’Edipo re di Sofocle. Si tratta per certiversi di una tipica dissertazione diimpianto scolastico ‘prussiano’, chepresuppone cioè il ruolo predominantedelle lingue classiche nella regia didattica eformativa: e infatti viene redattadall’alunno Nietzsche in tre lingue, inprevalenza in latino, con diverse parti ingreco antico e in tedesco. Ma essasuppone soprattutto – di qui il nostrointeresse retrospettivo – quel raptus diinteressi specifici che otto anni più tardi(gennaio 1872) daranno vita alladeterminante Nascita della tragedia. Disolito la elaborazione della concezionetragica, anti-aristotelica, di Nietzsche si farisalire sostanzialmente agli anni diBasilea, e invece una più attenta lettura diquesto quaderno già percorso dariflessioni sul rapporto con la musicacontemporanea (Wagner vi compare), inqualche modo retrodata la humus.Imprevedibilmente anche in Italia èsoltanto adesso, dal melangolo, che arrivauna traduzione del liceale esercizio, nonincluso nell’edizione Adelphi delle operegiovanili, per le cure di Gherardo Ugolini:Il primo canto corale dell’Edipo re(pp. 118, € 12,00). Questi, in buonasostanza, gli spunti che fanno affioraresotto la veste filologica ed esegetica –coerente con la manualistica coeva – ilfuturo teorico della Tragedia: la figurainnocente di Edipo schiacciato dal destinocome «il più puro degli uomini», cheinnesta una drammatica dialettica traestetica ed etica, foriera di grandi sviluppi;il valore di rappresentazione sacraconnesso alla tragedia greca e la funzioneprevalente del coro e della musica nellarealizzazione dell’«effetto tragico»; latragedia come «opera d’arte totale», incui il tragediografo antico è il pentatletaimpegnato nelle varie discipline(compositore, poeta, scenografo,coreografo, attore).

di FEDERICO CONDELLO

●●●«Classici: si presume di conoscer-li». Così Flaubert, Dizionario dei luo-ghi comuni. Ci sarebbe poco da ag-giungere. Se non fosse che la placidasonnolenza del «classico» – forte di unprimato che mille classicismi e anti-classicismi hanno mutualmente rin-forzato – sembra oggi turbata da sogniinquieti, o destinata a bruschi risvegli.In Italia, specialmente: perché il Ven-tennio fascista, con la sua «orgia diclassicità» (Degani), ha prodotto unadura reazione all’altezza, per dirla allagrossa, del Dopoguerra. Una reazioneche ha iniziato a incidere, allora per laprima volta, sulla scuola e sui suoi pro-grammi, e non solo su quelli del su-per-gentiliano liceo classico. Un certo«classico» appariva ormai di classe,platealmente e non senza ragioni. Delresto, il ron ron classico sembrava or-mai fuori moda a ogni acuto osservato-re dell’epoca. Micidiale una paginadei Fiori italiani di Meneghello, dedi-cata alla quotidianità della formazio-ne liceale in età fascista: nei «classici»imparaticci della scuola, ricorda il ro-manziere, «si trovavano memorabilibattute di guerrieri e filosofi, ragguaglisugli effetti delle pugnalate e sulla bo-ria, e con poche altre cose, qualchemodello di bellezza suprema. Moltisingoli versi greci e latini, come “l’am-bidestro campione asteropeo”, s’im-

primevano profondamente negli ani-mi; e c’erano infine quelle stimolantitrovate circa la natura del mondo, peresempio panta rei, e una serie di argu-ti ideali, a cominciare dal calò-cagaz-zò». Chiunque abbia frequentato, ne-gli ultimi venti o trent’anni, un liceoclassico, non tarderà a riconoscere ladeprimente attualità del brano.

E oggi? Oggi, da un quindicennioalmeno, spia di una situazione sem-pre più critica è la fortuna di un gene-re saggistico che assomma ormai tito-li a decine: chiamiamolo, per inten-derci, l’«apologia del classico». Unaspecie di libro, o di libello, inimmagi-nabile fino a due generazioni fa. Cer-to, l’allarme è periodico e l’apologiaaltrettanto: i prodromi di questo ge-nere panflettistico risalgono almenoal Seicento. Nel Novecento la produ-zione si intensifica, specie fra annitrenta e quaranta, quando l’Occiden-te si identifica nel «classico» soprat-tutto per reazione identitaria; e pocoimporta se fosse reazione alto-bor-ghese o apertamente nazi-fascista,dal momento che non pochi sloganaccomunano personaggi della statu-ra di Curtius ai più servili propagandi-sti di regime, ivi compreso quel Hei-degger su cui Karl Löwith pronunciòuna famosa, agghiacciante boutade:dopo averlo ascoltato, «non sapevi seprendere in mano i Presocratici diDiels o se marciare con le S.A.». Di lì

a poco – e siamo finalmente a noi – lacrisi è conclamata: e tocca davvero lascuola, di ogni ordine e grado, dai li-cei via via riformati alle università co-strette a criteri di ranking – oscura pa-rola di moda – elaborati a prescinde-re dai saperi più tradizionali. Una cri-si indubbia, che ha i suoi promotoritanto nella destra neoliberista, chechiama «riforme» i tagli, quanto incerta sinistra progressista, che ribadi-sce volentieri stereotipi grossolani(fra gli ultimi, il giubilante PiergiorgioOdifreddi: «gli umanisti continuanoa predicare l’insostituibile ruolo for-mativo delle lingue morte nel mondovivo», «la lobby umanistica sta per fi-nire inesorabilmente nel “cestino deirifiuti della storia”»).

Di fronte a un simile cataclisma –cui non mancano, come si vede, can-tori e corvi – gli odierni apologeti delclassico ce l’hanno messa tutta. Han-no rinverdito argomenti perenni: le«radici» greco-romane (pericolosa li-nea destrorsa) e il «latino lingua logi-ca» (dunque l’inglese è illogico?); nehanno inventato di nuovi o quasi nuo-vi: l’«inattualità» antagonistica delclassico (trovata di vaga matrice nietz-schiana) e addirittura, all’antitesi diogni «radice», il mirabolante esotismodi Atene e di Roma (ma per quale ra-gione il «classico» sarebbe più esoticodi qualsiasi altro «antico», o di qualsia-si altro «altrove»?); infine – argomento

imperituro – le lingue classiche comeindispensabile ausilio all’apprendi-mento dell’italiano (ma quale italia-no? Quello dei «classici» italiani, forse:non certo quello, finalmente stan-dard, dell’età post-televisiva).

Sono argomenti stanchi, che giusta-mente stancano. Ne faceva un picco-lo, corrosivo censimento, anni fa, Giu-seppe Cambiano, in un suo contribu-to compreso in Di fronte ai classici (ac. di I. Dionigi, BUR, 2002), e proprioda Cambiano viene ora una notevoleraccolta di saggi Perché leggere i clas-sici Interpretazione e scrittura (il Muli-no, pp. 192, € 18.00), che è senza dub-bio fra le letture più ricche e racco-mandabili, sul tema, degli ultimi tredecenni. Non deve ingannare il titoloalla Calvino, che poco merito rende al-la ricchezza del volume, e che suggeri-sce un improprio apparentamento alsuccitato genere apologetico: quel cheimporta qui, è semmai il sottotitolo.Perché, se una morale si ricava dallosnello ma densissimo lavoro, è che i«classici» dovrebbero essere letti peruna sola e semplice ragione: perché es-si sono sempre stati letti.

Soluzione troppo facile? Soluzioneaddirittura tautologica? Pigra resa al-l’autorità del canone? Niente di tuttoquesto. L’essenza di ogni classicismo– scriveva Valéry – è «de venir après»,di venire dopo. L’après strutturale delclassico è preso da Cambiano moltosul serio, con dottrina pari al disincan-to. Un après che può essere mero con-formismo (e sostanziale indifferenza);può essere nostalgia reazionaria e an-sia di rinascita; può essere anche – edè il punto che più interessa all’autore– illusoria presunzione di estraneità, edunque passiva accettazione di idee,ideologie e stereotipi dalle quali puòimmunizzarci soltanto una meditatariappropriazione della tradizione. Sic-ché questo invito a rileggere i classici –invito pacato, illuminato, laico, mai re-torico né prescrittivo – si traduce spon-taneamente in una storia delle rilettu-re passate e contemporanee: storia cri-tica, va da sé, e spesso polemica.

Sulla «vigilia del Nazismo» si apre,non a caso, il volume: e Cambiano ri-costruisce magistralmente le posizio-ni assunte nel 1930, durante un cele-bre convegno svoltosi a Naumburg,su impulso di Werner Jaeger, dai mi-gliori rappresentanti della filologia co-eva, a proposito del «classico» e dellasua vitalità. È un vero germinaio diclichés tuttora prosperi. E, pur fra ac-centi diversi, spicca la sinistra conso-nanza di quell’«umanesimo» (cosid-detto «terzo») con temi e intenti delterzo Reich. Fa eccezione, nell’am-biente, il grande Bruno Snell: quelloSnell – giova ricordarlo – che nel fati-dico 1934, anno del plebiscito pro Hit-ler (19 agosto), scrisse un articolo, in-nocente in apparenza, sul «verso del-l’asino» nelle lingue classiche; per di-mostrare che se il verso dell’asino, ingreco, si trascrive sempre più o menocon ou («no»), l’asino tedesco, inve-ce, fa sempre j-a («sì», come il 90%dei tedeschi dinanzi al nuovo Führer;l’articolo è stato felicemente ripropo-sto negli ultimi «Quaderni di Storia»,luglio-dicembre 2011). Fa eccezionea suo modo anche il vecchio Wila-mowitz, che nel 1930, in risposta allesollecitazioni del Convegno, scrisseseccamente: «la parola “classico” mifa orrore». Quanto a Benjamin, cherecensì gli atti della grande kermesse,il suo verdetto fu ancor più drastico:«una considerazione del classico chenon sa dir nulla sulla schiavitù nonpuò certo valere come conclusiva».

Il séguito del volume mostra benecome alla trappola del classicismoapologetico – anzi, con il termine diCambiano, «cosmetico» – non sfugganessuno dei successivi laudatores del-la tradizione greco-romana: non certoGadamer, di cui è denunciata con luci-dità la «concezione reverenziale», ap-pena mascherata dall’ermeneutica;ma nemmeno i rappresentanti delclassicismo liberal d’Oltreoceano, daRorty alla Nussbaum, che per procla-mare continuità o auspicare restaura-zioni (democratiche, naturalmente)bonificano il «classico» da quanto inesso è più scabroso e scandaloso. An-cor più in generale, Cambiano argo-

menta con efficacia contro la tenden-za sottilmente anti-illuministica dimolta ermeneutica contemporanea,che rimprovera alla «critica» – sono pa-role di Gadamer – i suoi «pregiudizicontro i pregiudizi»: una tendenza an-ti-illuministica contro la quale vannofatte valere, almeno, le ragioni dellapiù concreta filologia, intesa come«materialismo testuale» minimo e tut-tavia indispensabile.

Molto altro si troverà, in queste pa-gine avvincenti, dai singolari riusi diTucidide alla vigilia dell’ultima guer-ra in Iraq, fino alle posizioni della filo-sofia contemporanea (Derrida com-preso) sull’«oralità» come dimensio-ne comunicativa della poesia e dellafilosofia antiche. E Cambiano non siesime, nell’epilogo, dall’affrontare laquestione che dà il titolo al volume.Perché leggere i classici, appunto. Per-ché saremmo altrimenti condannati– se non pratici di letture e riletture –a subirne passivamente l’influenza. Ilclassico è davvero l’«Ewig-Alte, Ewig-Tote», il «sempre-antico, sempre-mor-to», come voleva Wölfflin? In un certosenso sì, per Cambiano, che da ogniclassicismo vitalistico e da ogni tradi-zionalismo restaurativo è lontano mil-le miglia. Ma sono «morti» particola-ri, i classici splendidamente ritratti inqueste pagine: sono morti che posso-no ancora – per parafrasare Eschilo –uccidere i vivi.

L’ARBORETODEI DALLA RAGIONE

CAMBIANO

Luca Pignatelli,«Schermi - Caccia», 2007

«Perché leggere i classici»? Il saggio illuminantedi uno storico della filosofia antica controil ritorno identitario dell’apologetica di destrae gli stereotipi anti-umanistici di certa sinistra

È, anch’esso, tutt’altro che salvatico,l’arboreto di circa quattrocento piante dafrutto di molteplici varietà locali, antiche,ormai rare e trascurate, recuperate dalpaziente lavoro di ricerca, innesto esalvaguardia avviato a partire dall’AltaValle del Tevere molti decenni fa da LivioDalla Ragione e proseguito poi con suafiglia Isabella. Varietà di fruttiferi sottratteall’abbandono dettato da quell’imperantemonoculturale omologazione al profitto,del tempo e del gusto, che si misura, adesempio, in una produzione di mele cheoggi è basata all’80% su tre sole varietà,mentre cinquanta se ne contavanoall’inizio del Novecento e un centinaio sene trovavano nominate nei trattatiottocenteschi. Esito di una pionieristica,generosa, ricerca etnobotanica, questacollezione di varietà altrimenti disperse,coltivate secondo metodi tradizionali aSan Lorenzo di Lerchi, vicino a Città diCastello, e denominata Archeologiaarborea, è diventata una sorta di salvificovivente giardino di alberi fruttiferi. Ma,assieme, anche, «raccolta di storie, diviaggi, di profumi e sapori, vicende umanee tradizioni popolari, cucina earcheologia, ricordi e racconti». Custodiadi un patrimonio di conoscenze, usi,saperi, simbologie che solo integratorestituisce senso a quei testimoni vegetali,superstiti alla livella della monocolturaintensiva. Prescelti, fino ad allora, eaffiancati tra loro nel campo sulla base didiversificate capacità di adattarsi e diresistere alle malattie. Diversi tra lorogeneticamente e perciò in grado diassicurare nel complesso stabilitàproduttiva, raccolti «da maggio anovembre», in regimi spesso diautonomia alimentare. Diversi peraspetto, sapore, periodo di maturazione,modalità di utilizzo, conservazione econsumo. I molti fili di questa vicendasono raccolti nel volume Archeologiaarborea Diario di due cercatori di piante,(Ali&no editrice, Perugia, pp. 167, €16,00), giunto alla quarta edizioneintegrando le tappe di un lavoro che nonsi arresta. Dalle perlustrazioni di poderiabbandonati e proprietà dismesse, sul filodel ricordo, del racconto di qualcheanziano contadino, inseguendo la tracciadi vecchie varietà botaniche testimoniatenei vecchi manuali di agricoltura e neisussidi delle cattedre ambulanti diagricoltura che riaffiora nei toponimi, neiproverbi, nelle fantasmagorie dellanomenclatura popolare di specie e varietàe si conferma nel loro affacciarsi dagliaffreschi delle antiche residenze nobiliaridella regione (altrove, Isabella DallaRagione affronta queste rappresentazionicon le varietà della sua collezione:Tenendo innanzi frutta. Vegetali, coltivati,descritti e dipinti tra ’500 e ’700 nell’AltaValle del Tevere, Peruzzi, 2009). Dalleesplorazioni «per merangole», aisopralluoghi in antichi monasteri econventi, meglio ancora se di clausura,votati alla conservazione di un sapere(anche) vegetale. Sempre rincorrendosegnalazioni di fruttiferi da salvaredall’estinzione. Per tornare, una voltaindividuati, a trovarli a tempo debito everificarne dai frutti l’identità, potarli,innestarli, preservarli. Una sfida checontinua con l’aspirazione a creare unaFondazione a supporto della collezione(cfr. www.archeologiaarborea.org). Nelfrattempo, si può contribuire adottandoun albero, con il diritto di goderne ilraccolto. A patto, secondo la tradizione,di lasciare sulla pianta almeno tre frutti:uno per il sole, uno per la terra e uno…per ricompensarla.

LA RICEZIONE MODERNA DEI TESTI GRECO-LATINI, UNA STORIA CRITICA

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(7)ALIAS DOMENICA22 GENNAIO 2012

Lo scultoreparalleloe contiguo

●●●Una nuova costola della «Piccola Biblioteca Einaudi»,«Piccola Storia dell’Arte», che si propone di presentarespaccati tematici fuori dalle consuete partizionimanualistiche. Prezioso ausilio una tagliata antologia ditesti figurativi, con relativa scheda, alla fine del volume.Scopo di Le Arti e i Lumi Pittura e scultura da Piranesi aCanova (pp. 262, € 28,00), scritto dalla ferratissimasettecentista Liliana Barroero, è – sulla traccia diRosenblum e in discreta alternativa, invece, a Honour –decostruire il sistema di lettura e di riferimenti definito daltermine «neoclassicismo», vera e propria «"camicia diforza" semantica», per restituire al secondo Settecentotutta la sua ricchezza e complessità di espressione e dicultura. Motore di ricerca in questo approccio piùempirico, più aderente alla concretezza del prodottoartistico, è la cultura illuminista e l’internazionale delle artiche vi si realizza. Si consideri una figura come Diderot,tutte le produttive contraddizioni insite nel suo rapporto,ora mercuriale ora sistematico, con le arti figurative, percomprendere quanto il concetto di illuminismo sceltodalla Barroero sia permeabile alla ricchezza del quadro inquestione: e, non tanto paradossalmente, questo vettorefinisce per sposarsi con la tendenza storiografica, di cui laBarroero è protagonista della prima ora, che vede nellaRoma del Settecento una ritrovata centralità cosmopolitanegatagli dal mito del ‘progresso’ parigino. (f.d.m.)

●●●Uno dei capitoli più perspicui dell’arte illuminista èla pittura di Bernardo Bellotto, al quale Conegliano dedica,in Palazzo Sarcinelli, una mostra dignitosa di prestiti, acura di Dario Succi (fino al 15 aprile, catalogo Marsilio).Artista viaggiante, secondo la modalità di un secolo intrisodi confronti culturali, Bellotto tocca alcune delle più esimiecorti europee: da Torino a Dresda, Vienna, Monaco, dinuovo Dresda, e poi, fino alla morte (1780), la Varsavia diStanislao Augusto. E in tutte conduce la potente luciditàottica di nipote di Canaletto, che gli frutta la serie,diremmo mitologica, di ‘ritratti’ di città che conosciamo.Per leggere Bellotto ci sono però due strade, che nellastoria degli studî risultano abbastanza divaricate: la prima– privilegiata, ci sembra, nel presente appuntamento – èinquadrarlo, e magari isolarlo, in quel laboratorio digenere che è il vedutismo veneziano , con le sue partizioni:da un lato Carlevarijs-Canaletto-Bellotto, a definire unrepertorio di immagini «a scatola ottica», massimamenteoggettivanti; dall’altro Marieschi-Guardi, cioè a dire unalinea più interessata al ‘ teatro’ della città, e dell’io, sino aesiti volanti di tocco in anticipo su... de Pisis. L’altra letturaprivilegia invece, longhianamente, la «pittura della realtà»,vedendo in Bellotto, via-Codazzi, un erede di Caravaggio.Dal che si stabilisce con più cognizione anche il confrontocon lo zio, il cui cristallo non riflette mai le frementi gored’ombra che ‘animano’, invece, le città del nipote. (f.d.m.)

di BARBARA CINELLI

●●●Nel 1989 la Galleria d’Arte Mo-derna di Roma dedicava a BertelThorvaldsen una esposizione chepossiamo ancora ricordare come tur-ning point della fortuna in Italia delloscultore danese. Il merito ne andavaa Stefano Susinno che indicava unavia fino ad allora inesplorata e rivela-tesi poi intuizione straordinariamen-te feconda: Thorvaldsen andava lettooltre il topos della contrapposizionecon Canova – già allora recuperato,contrariamente al danese, alla fortu-na degli studi –, e inteso invece comeartista autonomamente capace di ac-cogliere nel suo linguaggio «lo scorre-re parallelo e contiguo» di sollecita-zioni diverse, per costruire un para-digma di sapiente narrazione che tra-scorreva dai modelli classici alle emo-zioni contemporanee.

Quasi in reverente omaggio a Car-lo Giulio Argan, ‘padre nobile’ a untempo della Galleria e del recuperocanoviano, il catalogo si apriva conun suo testo dedicato a Thorvaldsenfilosofo dell’arte: con cristallina, e que-sta sì davvero filosofica, intelligenza,Argan conduceva uno dei suoi straor-dinari sillogismi, opponendo alla cop-pia Canova/Kant quella formata daThorvaldsen e Hegel; al paganesimoclassico della prima, il cristianesimopurista e romantico anticipato dallaseconda; per concludere, con unodei suoi strepitosi cortocircuiti ideolo-gici – che oggi abbiamo imparato arimpiangere – come proprio la scultu-ra di Thorvaldsen costituisse, nellasua sigla di atemporalità, un presenti-mento della morte cui l’arte era desti-nata nella società borghese.

Ma nel medesimo catalogo il sag-gio di Susinno, co-firmato con la pre-ziosa sodale Elena di Majo, segnavaun felice snodo storiografico, rites-sendo attorno al «Prometeo danese»una trama di persone, accadimenti,luoghi, opere, che discioglievano lealgide concatenazioni arganiane nel-la ricchezza palpitante della Storia. Ea seguire, contributi di studiosi del-

l’Ottocento che precisavano questio-ni e aspetti particolari: la biografia, lefonti archeologiche, i committenti e icollezionisti, il restauro degli egineti,il ritorno in patria e la celebrazionenel museo di Copenhagen.

Due tempi e due modi di leggereuno scultore, cui oggi si aggiungequella che potremmo chiamare unaterza via, grazie a Stefano Grandessoche di Susinno fu allievo, e che ora af-fronta, con indubbia generosità, unamonografia – Bertel Thorvaldsen 17701844 (Silvana Editoriale, pp. 304, €38,00) – nella quale squaderna in mo-do puntuale e sistematico notizie pre-ziose per la comunità scientifica, rior-dinandole da una vasta bibliografia,non sempre facilmente accessibile.

Quasi disposte in una ordinatamappa di navigazione, le questionirelative alla produzione thorvaldse-niana si susseguono in un ordinatopalinsesto tra cronologie e iconogra-fie, e consentono piani di lettura efruizione su livelli diversi. Se il regi-stro di scrittura – che ipotizzo consa-pevolmente adottato dall’autore – co-stituisce quasi una scelta analogicadella narrazione thorvaldseniana neibassorilievi, e soddisfa pienamente,col ritmo quieto e suadente, il lettoreamateur appassionato d’arte e di sto-ria; la completezza delle informazio-ni e la complessità dell’orizzonte rico-struito da Grandesso si pongono co-me strumenti preziosi per lo studio-so che voglia disporre di una voce bi-bliografica scientificamente accredi-tata, con la quale procedere a rifles-sioni non consuete sulla scultura del-l’Ottocento, un territorio che nono-stante molti studi – e non pochi lidobbiamo proprio a Stefano Gran-desso – continua a sollecitare indagi-ni e problemi. La centralità di Romaper la scultura ottocentesca e la mo-dernità del laboratorio thorvaldsenia-no sono temi che già Susinno avevamagistralmente analizzato; ma riper-corsi organicamente in questa mono-grafia consentono di cogliere con vi-vida definizione alcuni aspetti chemeriterebbero ulteriori indagini; edunque, se misura di un buon libro èla sollecitazione di idee e percorsi diricerca, quello di Stefano Grandessoè un buon libro.

Le numerose testimonianze d’epo-ca che percorrono le pagine sonoesemplari a questo riguardo: dallostupore dell’antiquario Zoega di fron-te all’ignoranza del giovane danesegiunto a Roma nel 1797 per diventa-re uno scultore e che egli definisce in-vece «una persona così incolta» chenon possedeva «neppure qualche va-ga idea sul nome e sul significato del-le cose che vede»; si giunge fino al ri-conoscimento tributatogli da AngeloMaria Ricci per i bassorilievi anacre-ontici come compiuta traduzionedelle liriche greche; e così potrem-mo, ad esempio, attraversare il librodi Grandesso per ricostruire il ruolodel codice mitologico nella scultura,dalle asseverative corrispondenzewinckelmanniane fino alle affettuosemetafore che Thorvaldsen dissemi-

na nelle proprie opere. E non credosia soltanto una suggestione del ric-co apparato illustrativo la possibilitàdi isolare l’iconografia della libagio-ne come tema ricorrente della produ-zione del «Fidia nordico», tanto daipotizzare tra la ritualità del gesto e lepossibili declinazioni formali un lega-me particolarmente consentaneo al-lo spirito dello scultore, che si porreb-be in tal caso oltre l’esteriore richia-mo alla mitologia.

E anche il topos del confronto/scontro con Canova risulta, dalla let-tura della monografia di Grandesso,puntualmente illustrato da convin-centi testimonianze, come il ricor-do della poetessa Friederike Brunche raccoglie nel 1808 le lodi del ve-neto sull’Adone cui si contrapponel’ammirazione per Thorvaldsen diGrillparzer che nel 1819 giudica ilGanimede superiore a ogni opera ca-noviana. La possibilità di disporredi questi materiali consente di apri-re una riflessione su quanto l’anta-gonismo reciproco dei due scultorisi debba a una tradizione di pubbli-co e fruitori divergenti nel gusto enella formazione intellettuale. Lo ri-conosceva già, d’altro canto, il bio-grafo Thiele, che nel 1832 scriveva:«Se solo questi due grandi artistinon avessero avuto degli ammirato-ri ciechi, diciamo pure dei partigia-ni, difficilmente quello che è un no-bile torneo avrebbe assunto con tan-ta facilità le parvenze della recipro-ca invidia». E allora di più vorrem-mo sapere su quel divieto fatto dal-lo scultore al Ricci contro un possi-bile riferimento a Canova nella pre-fazione del volumetto dedicato pro-prio a L’Anacreonte di Thorvaldsen,cui Grandesso allude nel suo testo:ombroso vezzo d’artista? o piutto-sto desiderio di sottrarre ogni spun-to di polemica alle due schiere di«partigiani»?

Piuttosto che ripercorrere l’anticalettura di Fernow, che vedeva nelloscultore danese il solo interprete del-lo spirito autentico della Grecia clas-sica non inquinato come in Canovadalla categoria del «grazioso», que-sta monografia ci suggerisce di utiliz-zare riferimenti tratti dalla biografiaintellettuale dell’artista come stru-menti più appropriati per recupera-re la dimensione del suo immagina-rio, e dunque dei temi e delle formecon le quali allestisce il suo ‘teatro fi-gurato’. E dunque molto opportuna-mente la nostra attenzione viene ri-chiamata sulle letture delle Georgi-che di Virgilio e delle composizionipoetiche di Ovidio, sulla collezionedi gemme antiche e sugli acquisti diartisti contemporanei; mentre losguardo sui marmi greci poteva in-crociarsi sulle tesimonianze dellascultura romana di età imperiale co-me la Colonna Traiana (e l’Arco diCostantino?), per configurare quello«scorrere parallelo e contiguo» di cuigià parlava Susinno, e che testimo-nia nello scultore danese una dispo-sizione libera e inventiva nei con-fronti delle proprie fonti. Questo sì,davvero, il discrimine con Canova,al di là di ogni pretestuosa contrap-posizione tra le categorie del «bello»e del «piacevole».

SETTECENTO 1

Liliana Barroerodecostruisceil concettodi Neoclassicoa partiredai Lumi

SETTECENTO 2

Vedutistao caravaggesco?Bellottoa Coneglianocon i suoi«ritratti» di città

Qui sotto, Bertel Thorvaldsen ritrattoda Christoff Wilhelm Eckersberg (part.);in grande, Thorvaldsen, «Giasone», part.,Copenaghen, Thorvaldsens Museum

Costruttori ticinesi nella Russia neoclassicaNel 1702 il neoambasciatore di Pietro il Grande in Danimarca ingaggia a Copenaghen,per imbarcarlo alla volta della Russia, un drappello di tecnici, architetti e ingegneri, daimpiegare nel grande progetto urbanistico di San Pietroburgo. Tra di essi un giovanecostruttore ticinese: Domenico Trezzini, come racconta Nicola Navone in Costruireper gli zar Architetti ticinesi in Russia 1700-1850 (Casagrande, pp. 163, € 21,00), che ci farivivere i fasti dell’architettura italiana sulla Neva.

UNA MONOGRAFIA SULL’ARTISTA NEOCLASSICO DANESE «RIVALE» DI CANOVA

THORVALDSENSulla tracciadi Argane di Susinno,Stefano Grandessoricostruisceimpeccabilmenteil profilo stilisticoe culturaledel «Fidia nordico»

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(8) ALIAS DOMENICA22 GENNAIO 2012

ARCHITETTURA / ALLENE-MCQUADE

La Megaforma estesa in orizzontale,una variante ibrida del gigantismo edilizio

Megastrutture erettesu una fragile utopia

ARCHITETTURA / ANNI SESSANTA

L’utopia critica di Superstudioin mostra al Pecci di Prato

di MAURIZIO GIUFRÈ

●●●È da almeno quindici anni, daquando scrisse Bigness, che Rem Ko-olhaas si interroga sull’«architetturaestrema», quella delle mega-dimen-sioni. La grande scala lo affascina enon solo per ciò che riguarda l’altez-za – già ammirata e compresa nelsuo Delirious New York – ma ancheper ciò che investe la sua forma piùdilatata e estesa: un’altra «specie» ar-chitettonica, come l’ha definita, an-cora da venire, anche se da altri pri-ma di lui prevista o addirittura pro-grammata. Per Koolhaas il «GrandeEdificio» è il solo in grado di ricon-durre all’ordine la frammentazioneurbana (sprawl) coesistendo con lacittà nel suo assoluto gigantismo.

L’architetto olandese, nel segnosalvifico della teoria del Bigness,che ingloba e neutralizza la realtà,ha dichiarato che solo nella grandescala «l’architettura può dissociarsidagli esausti movimenti ideologicie artistici del modernismo e del for-malismo, per riacquistare la suastrumentalità come veicolo di mo-dernizzazione». È noto come la re-torica astratta del conciso manife-sto di Koolhaas trovi i suoi precisi ri-ferimenti in Asia: così, nello scrittoSingapore Songlines spiega quali si-ano le vicende dalle quali derivanole sue tesi. Che non hanno nulla diutopico poiché si fondano sul pro-gramma edilizio messo in atto nel-l’isola asiatica: tra i più pragmaticie cinici della modernità e di tuttol’Oriente.

Quantità e efficienzaKoolhaas ci ha spiegato come,

dalla metà degli anni sessanta, que-sta importante regione geograficasia stata sconvolta attraverso la pra-tica autoritaria della tabula rasa. Inpochi decenni ne è stato consuma-to il suolo, pronto per essere densifi-cato con edifici alti e compatti, nel-l’incessante e meccanico processodi distruzione e ricostruzione diogni preesistenza. Diverse newtown sono sorte nelle aree libere eurbanizzate, distribuite ad anello in-torno a Singapore: il fulcro delle mo-dificazioni più radicali. Questo mo-dello, eretto sulla base dell’autorita-rismo ideologico, nel rifiuto dei va-lori della storia, ha misurato le tra-sformazioni urbane solo nei termi-ni di quantità e efficienza. Se è inuti-le negare che Singapore sia stata ilmodello dell’espansione urbana del-le città cinesi è altresì vero che, dalpunto di vista teorico e del linguag-gio architettonico, è stato il Giappo-ne il paese che più ha influenzatol’Asia. In particolare, con il movi-mento dei Metabolisti, che negli an-ni sessanta si è imposto sulla scenainternazionale grazie alle sue propo-ste utopistiche volte a risolvere i gra-vi problemi causati dalla congestio-ne urbana di Tokyo.

Rem Koolhaas, ha voluto ricostrui-re, insieme a Hans Ulrich Obrist, lastoria del Metabolismo attraversol’incontro con i suoi protagonisti. Ilvolume Project Japan. MetabolismTalks (Taschen, pp. 719, € 39,99)non si risolve, però, in un omaggio al-l’«ultimo movimento che ha cambia-to l’architettura», ma in qualche mo-do è l’occasione per riproporne alcu-ni temi e comportamenti, visto cheoggi come allora la burocrazia, gli af-fari e i media continuano a proporsicome i poteri dominanti. Già il titolo«Progetto Giappone», non nascondela sua vocazione «operativa».

Più che dedicarsi a una «attenta fi-lologia», Koolhaas è interessato auna pragmatica attualizzazione del-la storia, deformandola e strumenta-lizzandola. In questo senso la storianon è, contrariamente a quanto di-mostrò Manfredo Tafuri, «una insta-bile dialettica, una compresenzacontinua di positività e negatività,una non componibile molteplicitàdi sensi e direzioni». Per l’autoreolandese l’architettura è abitata dadue tipologie umane: i «costruttori»e i «pensatori», uniti entrambi da un«reciproco disprezzo». Districarsi al-l’interno dei loro conflitti è l’impe-

gno quotidiano che Koolhaas si è as-sunto e che immagina simile a quel-lo di Kenzo Tange, l’architetto ante-signano del Metabolismo, come luialle prese con la città del futuro, an-che se cinquanta anni prima. Tuttele interviste ruotano intorno a Tan-ge, un infaticabile «coltivatore» di ta-lenti, senza il quale, secondo Ko-olhaas, il Metabolismo non sarebbemai nato.

Il suo Centro della Pace nel parcodi Hiroshima, inaugurato nel 1955,il municipio di Kurashiki, del ’60, gliimpianti per le Olimpiadi e il Centrotelevisivo Yamanashi a Tokyo, di unlustro dopo, furono di una tale di-rompente novità espressiva da rap-presentare una violenta rottura conla tradizione e il simbolo della rina-scita democratica del dopoguerragiapponese. È al suo piano di Tokyoper quindici milioni di abitanti cheguarderanno, con ammirazione, iMetabolisti Junzo Sakakura, KunioMaekawa, Sarchio Otani e KiyonoriKikutake, Fumihiko Maki. Immagi-nato da Tange come disteso all’in-terno della baia della capitale giap-ponese, il piano è una griglia ortogo-nale di strade sovrapposte e pontisulla quale si incastrano monumen-tali edifici a forma di pagoda. Unasoluzione radicale, che accenderàl’utopia dei metabolisti. La loro tesiera semplice e coerente con le coe-ve sperimentazioni «neofuturiste»europee – dagli Archigram a YonaFriedman – e con quelle americanedi Buckminster Fuller.

Eccessi di ottimismoA una società condizionata grave-mente dalla crescita demografica edallo squilibrio ambientale dovevacorrispondere una nuova idea di cit-tà: compatta e verticale, estensibilee stardardizzata, galleggiante sulmare e interconnessa nella profon-dità del suolo. Solo le megastrutturepotevano assolvere a questi compi-ti: edifici e infrastrutture a scala me-tropolitana che, per analogia, dove-vano seguire le stesse leggi organi-che della natura vivente, quindi, cre-scere e trasformarsi come accadenei processi metabolici. Nonostantela sua ambivalente relazione con ilMetabolismo, Arata Isozaki ricono-sce, con ragione, l’eccesso di ottimi-smo che contraddistingue l’utopiadel movimento. Nelle foto di Char-lie Koolhaas che corredano il sag-gio, le centinaia di «capsule» inca-strate e sovrapposte a formare laNakagin Capsule Tower di Kisho Ku-rokawa rivelano un degrado che èuna eloquente dimostrazione dellafragile e incondizionata fiducia ripo-sta dal Metabolismo nella tecnolo-gia. La torre è una delle poche archi-tetture sopravvissute a memoria del-l’Expo di Osaka del ’70: l’apoteosidel Metabolismo.

Nell’area espositiva – ancora pri-ma che fosse gridato l’«ultimo hur-rah» quindici anni dopo con l’Expodi Tsukuba – i Metabolisti comprese-ro come la pianificazione a grandescala fosse condizionata dall’econo-mia e dalla politica. La crisi petrolife-ra, la guerra nel sud-est asiatico, l’or-ganizzazione neoliberista del capita-le che per la prima volta dal ’45 co-nobbe una contrazione, misero incrisi i sogni e le ambizioni del movi-mento. Tuttavia, l’idea di diffonderela Metabolic City nel resto del mon-do – soprattutto in Asia e in Africa –dimostra ancora un entusiasmo dicui oggi restano solo frammenti.

Project Japan si conclude conuno scatto fotografico che ritraeToyo Ito mentre guarda la tabularasa che lo tsumani ha causato aTohoku. Koolhaas, in un breve po-scritto, annota la «preziosa occasio-ne» per riprendere il cammino in-terrotto dei Metabolisti, declinan-dolo in una versione che mantengala sua visionarietà: azzerando ogniresiduo di «norma del moderni-smo» e disinteressandosi a qualsia-si condizionamento. Se questa ri-cerca di un diverso «rapporto conla natura» sarà capace di non misti-ficare il proprio anacronismo è tut-to da verificare.

Colin Davies, demistificare l’architetturaCos’è l’architettura? Cosa distingue – si chiedeva Nikolaus Pevsner –la cattedrale di Lincoln da una rimessa per le biciclette? Domandebasiche, il cui spirito però consente a uno storico e critico inglese,Colin Davies, di compilare una «demistificante» guida che ambisce arendere accessibile una delle discipline più teoricamente instabili (eastruse): Il primo libro di archiettura (Einaudi «Pbe», pp. X-273,€ 28,00), aggiornato e illustratissimo, con accostamenti quantomenoarditi come il manierismo di Palazzo Te (Giulio Romano) e quellodella Maison à Bordeaux progettata da Koolhas nei Novanta.

●●●La megalopoli differisce sostanzialmente dalla cittàtradizionale per la sua assenza di punti di riferimentosignificativi. Così afferma Kenneth Frampton in Landform Building(Lars Müller, pp. 478, € 43,74), saggio collettaneo a cura di StanAllene e Marc McQuade intorno all’aspirazionedell’architettura a rappresentarsi come paesaggio, geologia,terreno artificiale sotto le sembianze della «Megaforma».Quando la sub-urbanizzazione senza limiti riduce l’architetturaa semplice «design urbano», quindi a un discorso del tuttoaccademico, si annuncia l’egemonia di infrastrutture e edifici digrandi dimensioni: aerostazioni, centri commerciali, ospedali,reti autostradali e ferroviarie. Questo gigantismo edilizio ecostruttivo non conserva più l’«espressione» della grandescala, nel significato che ne diede Reyner Banham inMegastructure: Urban Future of the Recent Past (1976). La«Megaforma», termine sfuggente dal programma ibrido, sidistingue essenzialmente per la topografia: la sua orizzontalitàsi integra nel paesaggio oppure è così invadente da assumere lafunzione di landmark. Sarà lo stratagemma per arrestare laframmentazione e la cacofonia delle nostre metropoli? (m.g.)

METABOLISMO

●●●A metà degli anni sessanta anche l’architettura italianaproduce esperimenti e ricerche in sintonia con le coevetendenze asiatiche del Metabolism e con quelle europeedell’Archigram. Guidati dall’idea per cui solo nella quantità èpossibile immaginare la metropoli del futuro, due gruppifiorentini, Archizoom e Superstudio, portarono ai limitiestremi l’utopia modernista, in particolare quella di LeCorbusier. Nei loro progetti – una fusione di artifici tra arte eletteratura – negavano che l’architettura nell’«età dellamacchina» potesse ancora legittimarsi nei modelli, nelletecniche e nei linguaggi del Movimento Moderno, quindi, nellalogica e nella razionalità del progresso industriale. All’«utopiacritica» di Superstudio è dedicata la mostra al Centro perl’Arte Contemporanea Luigi Pecci di Prato (fino al 26febbraio), curata da Stefano Pezzato e Cristiano Toraldo diFrancia che ne è stato il fondatore nel 1966 con AdolfoNatalini: la ricostruzione del «microambiente» esposto allamostra newyorkese Italy: The New Domestic Landscape (MoMa,1972) e la ricostruzione di Supersuperficie, uno dei tre progetti diSuperstudio sui conflitti della città contemporanea. (m.g.)

Kenzo Tange,grande«coltivatore»di talenti,è il faro che guidaRem Koolhaase Hans U. Obristnelle intervistesull’architetturaanni ’60, raccoltein «Project Japan.Metabolism Talks»

Il Mori Art Museumdi Tokyo, disegnato

da Kohn Pedersen Fox,è un esempio

di megastruttura odiernache occhieggia

al Movimento Metabolista:qui si è tenuta,

recentemente, la mostraa questo movimentodedicata. In piccolo,

Kenzo Tange,padre putativodei metabolisti.

In alto, un dettaglio(una finestra) della Maison

à Bordeauxdi Rem Koolhaas

IL MOVIMENTO CHE NEGLI ANNI SESSANTA IMPOSE I SUOI AZZARDI PER RISOLVERE LA CONGESTIONE URBANA DI TOKYO