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Periodico di ricerche e di temi turistici, culturali, politici e sportiviDir. responsabile Raffaele Castagna

Anno XXIVN. 3/4

Agosto/Settembre 2003

Euro 2,00

Pagine di Autore Testimonianze epigrafiche

Rassegna Mostre - Rassegna Libri

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Le opinioni espresse dagli autori non impe-gnano la rivista - La collaborazione ospitata s’intende offerta gratuitamente - Manoscritti, fotografie e disegni (anche se non pubblica-ti), libri e giornali non si restituiscono - La Direzione ha facoltà di condensare, secondo le esigenze di impaginazione e di spazio e senza alterarne la sostanza, gli scritti a di-sposizione. Per eventuali recensioni inviare i volumi.

Periodico di ricerche e di temi turistici, culturali, politici e sportivi

Editore e direttore responsabile Raffaele Castagna

La Rassegna d’Ischia Via IV novembre 25 - 80076 Lacco Ameno (NA) Registrazione Tribunale di Napoli al n. 2907 del 16.2.1980Iscritto al Registro degli Operatori di Comunicazionecon n. 8661.Stampa Tipolito Epomeo - Forio

www.larassegnadischia.itE-mail: [email protected]

Anno XXIV- N. 3/4 - Agosto/Settembre 2003 - Euro 2,00

5 Un’estate a Ischia tanti anni fa....

7 La perla del Tirreno

9 Ischia die Barocke

10 Ischia barocca 15 Ischia e Lipari Due isole accomunate dalla storia 19 Alfonso d’Avalos

21 Rassegna Premi 23 Testimonianze epigrafiche I rilievi votivi con dedica ad Apollo e alle Ninfe Nitrodi

38 Personaggi ischitani

39 Capeiattë e il francese

41 Arnaldo Pomodoro alla Torre Guevara di Ischia

44 Salvatore Basile alla Galleria Eloart di Forio

46 Liselotte Wahl al Parco Termale Castiglione

50 Aniellantonio Mascolo / centenario della nascita

54 Alvim: atmosfere ubertose

55 Rassegna Libri

La Rassegna d’Ischia

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La Rassegna d’Ischia 3-4/03 3

M O T I V I Raffaele Castagna

Oggi non si fa altro che parla-re di immagine da lanciare nel mondo attraverso i vari canali di comunicazione, ed allora fa tanto chic sentire un nome, una cita-zione pronunciati in televisione o riportati sui giornali; di con-seguenza si attribuiscono lodi e riconoscenza a coloro che o vo-lutamente o per circostanze for-tuite sono stati autori di quei ri-ferimenti. Se poi ci passa davanti agli occhi anche qualche scorcio panoramico, il compiacimento aumenta in proporzione. Il fatto in sé veramente ed effettivamen-te risulta positivo in tutti i sensi, ma si presenta riduttivo quando si considerano altre situazioni complementari e forse essenzia-li che concorrono a determinare la qualità di una stazione turisti-ca, ma prima ancora la vivibilità generale di un paese. Ci riferia-mo alla evidente constatazione che spesso ci si cura troppo ed esclusivamente per un aspetto di facciata e poco per cercare di mi-gliorare i servizi con i quali dob-biamo convivere giorno per gior-no. Le perplessità sorgono allora, quando si affaccia prepotente l’interrogativo se per valorizza-re sempre più il nostro turismo, invertendo le preferenze di inter-vento, non valga maggiormente avere la percezione e sentir dire che i frequentatori dell’isola si distaccano da questa terra felici di avervi trascorso giorni sereni e tranquilli in un soggiorno ac-cogliente e logisticamente soddi-sfacente. Più che di propaganda pura e semplice, a volte ricono-sciuta non rispondente al vero, qui si tratta di realtà vissuta e quindi con grandi riflessi positivi per il futuro.

Or non è cosa difficile rendersi conto che l’isola d’Ischia, soprat-tutto nei mesi di piena estate,

deve far fronte a numerosi pro-blemi legati anche alla enorme crescita che ha subito negli anni, senza un adeguato riscontro nei servizi generali, così come al fatto che la loro soluzione viene sempre rimandata nel tempo. Tale crescita in effetti non ha mai avuto un indirizzo preciso e volu-to, sicché si vuole tutto circoscri-vere in questo piccolo territorio. Eppure molte volte certe carat-teristiche si trovano in contrasto tra loro.

***L’esigenza che maggiormente

si avverte sembra che sia quella di assicurare un controllo co-stante sul territorio, di giorno e di notte, al centro come in periferia, per assicurare che tutti rispettino certe norme, per evitare atti di vandalismo e far sì che le strade non diventino un deposito di ri-fiuti, per il mancato rispetto de-gli orari, piste da corsa nelle ore notturne. I Comuni potrebbero cominciare ad utilizzare in tal senso quei fondi che spesso sono rivolti a favorire manifestazioni varie nelle piazze o comunque al-tre iniziative che coinvolgono un ristretto numero di persone. Sol-tanto così può essere garantita la continuità di una funzione turi-stica che costituisce sempre più la principale risorsa economica dell’isola. D’altra parte lavorare ed impegnarsi per una adeguata vivibilità sul territorio è un do-vere che spetta anche ai cittadini tutti ed agli stessi frequentatori dell’isola, in quanto ad esempio siamo convinti che, di fronte ad uno scarso senso civico, neppure il miglior servizio di raccolta dei rifiuti possa assicurare strade e centri urbani puliti.

***

Non bisogna dimenticare che, al di là del sole, del mare e delle spiagge, alla base della frequen-tazione dell’isola d’Ischia c’è il fattore termale, il quale permette di prolungare enormemente, ben oltre i mesi di luglio e di agosto, il turismo locale con conseguenti possibilità di maggiore occupa-zione. Il che comporterebbe cre-are appunto le premesse per un sempre maggiore sviluppo con una “immagine” che si qualifichi soprattutto attraverso servizi ef-ficienti, garanzia di serenità e di tranquillità.

***

Mentre si portano avanti, con maggior convinzione rispetto al passato, il discorso e il proget-to per la creazione del comune unico sull’isola d’Ischia, biso-gna constatare sempre più che in effetti manca in tutti i sensi una vera mentalità unitaria. E ne sono conferma gli ultimi atti assunti da certe amministrazio-ni comunali nell’adozione del-le “combattute” strisce blu, che distingue tra cittadini dell’uno e degli altri Comuni, senza con-siderare che in alcuni settori la dislocazione dei rispettivi servi-zi è regolata su base territoriale unica, con prevalente inclinazio-ne verso Ischia, il maggior centro isolano. E non dovreebbe essere possibile ora stabilire differenti comportamenti tra gli isolani dei vari Comuni. D’altra parte que-sti atteggiamenti contribuisco-no insenso negativo sulla strada dell’unificazione, anche perché si dovrebbe procedere per elimi-nare e non per riproporre quei tratti caratteriali che ci portano ad essere, prima cche isolano, fforiani, lcchesi...

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4 La Rassegna d’Ischia 3-4/03

Il Centro di Ricerche Storiche d’Ambraha festeggiato il 26° anno della sua fondazione.

All’insegna della fratellanza e della tolleranza, beni fondamentali dell’Umanità, il Centro di Ricerche Storiche d’Ambra ha festeggiato il 26° anniversario della sua fon-dazione con un incontro culturale articolato in prevalenza su ricordi storici legati alle note attività del Centro stesso, sempre orientate nello sforzo di rendere la cultura una com-ponente ordinaria e non straordinaria dell’esistenza. Presso la Sede del Centro in Forio d’Ischia, le Poste Italiane hanno allestito per l’occasione un ufficio postale mobile per un servizio di annullo filatelico figurato, recante la dicitura “80075 Forio (NA) 23.5.2003 - Centro di Ricerche Storiche d’Ambra - 26° anniversario dalla fondazione”. La presenza è stata molto numerosa. Un ringraziamento particolare e grato è stato rivolto dall’avv. Nino d’Ambra, coordinatore dell’incontro, a tutti coloro che sono stati abituali frequentatori e/o protagonisti, in questi ultimi anni, delle serate e attività culturali varie organizzate dal Centro, dando con la loro presenza, con il loro entusiasmo, con i loro interventi e con la loro competenza, una completezza culturale originale e mai di routine. Oltre all’avv. d’Ambra, che ha riassunto i risultati più significativi di tanti anni di ricerche storiche, sono intervenuti con un proprio qualificato contributo il preside Nunzio Albarelli, i professori Pasquale Balestriere, Maria Masella, Tonia d’Ambra e il dr. Nicolino Barbieri. È intervenuto il gruppo musicale del prof. Carmine Pacera. Al pianoforte gli avvocati Alfredo Baggio e Gaetano Regine. Poiché è stata una serata dedicata principalmente agli anniversari, Nino d’Ambra ha ricordato alcuni dei tragici fatti del 1943 e le bombe su Forio, l’affondamento della nave Santa Lucia al largo di Ventotene il 27 luglio 1943 (76

morti, di cui cinque ischitani con Ettore Albanelli, padre del Preside), gli eroi del passato e di oggi a cominciare da San Vito che, giovanetto, affrontò la morte per non rinunziare ai suoi ideali, ai repubblicani del 1799 giustiziati con processo sommario, Giuseppe Pezzillo e Aniello d’Ambra martiri del 1848, il 25° anniversario dell’assassinio di Aldo Moro, la rivolta del ghetto di Varsavia soffocata nel sangue il 16 maggio 1943, ai giudici Giovanni Falcone e Borsellino con le rispettive scorte, al generale Carlo Alberto Dalla Chiesa assassinato dalla mafia. Ai gentili ospiti è stata offerta in dono una cartolina ripro-ducente il logo marmoreo del Centro con le date storiche più significative del cammino della Libertà meridionale. Come è noto, il Centro è stato fondato nel 1977 e da allora non esclude alcuna iniziativa culturale, purché non abbia scopo di lucro o mero interesse di parte. Uno dei fini principali è quello di stimolare il gusto per la ricerca storica, per il reperimento e la interpretazione dei documenti e delle testimonianze del passato, nell’orientamento prevalente del metodo storiografico dello studioso francese Fernand Braudel. Ricostruire momenti storici (e biografie) attraverso il ritrovamento in Italia e all’estero, di documenti e testi-monianze contemporanei ad avvenimenti o a personaggi individuati. Le ricerche solitamente vengono pubblicate. Fino ad oggi il Centro ha infatti edito 12 volumi. Ha una biblioteca (“Biblioteca 1799”) di oltre diecimila volumi ed una collezione di documenti mirati di circa 8.000 unità (in fotoriproduzione per la quasi totalità), oltre ad una sezione periodici ed una videoteca.

Caterina Mazzella

Musica Ischia 2003Direttore artistico: Paolo Ponziano Ciardi

Museo Archeologico di Pithecusae

Giovedì 4 settembre ore 21.00Marco Fornaciari violinoAdriano Sebastiani chitarraMusiche di Paganni

Giovedì 11 settembre ore 21.00Duo pianistico Tufano-CiulloMusiche di Brahms, Dvorak, Poulenc

Giovedì 18 settembre ore 21.00Selezione da La Vedova allegra di F. LeharPaola Francesca NataleBarbara Salles

Francesco GiannelliGianni Timpani vociSergio Gragnani narratoreSynthorchestra

Giovedì 25 settembre ore 21.00The Bass Gang quartetto di contrabbassi

Giovedì 2 ottobre ore 21.000Quintetto di fiati “L. Janacek”Musiche di Fauré, Debussy, Bozza, Ibert

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La Rassegna d’Ischia 3-4/03 5

Pagine di autore

di Mario Stefanile

Un’estate a Ischia tanti anni fa...

(Lettera da Ischia - anno I, n. 1/1957)

Tanti anni fa tanti che ormai le date più non conta-no, il tempo è una pianura che s’allontana verso l’ul-timo orizzonte e laggiù stanno i miei ricordi migliori, non so più se sulla terra o già in cielo tanti anni fa, dunque, mio padre marinaio mi bisbigliò in un orec-chio, baciandomi fra nuca e collo, che ci saremmo im-barcati, che avremmo traversato il mare, per andare a Ischia.

Allora Ischia per me non fu che un nome, strano nome sibilante, come una frusta improvvisa snodata in aria dalla promessa di mio padre, un luogo certo mira-bolante e prodigioso come quelli di cui egli talvolta mi narrava, quando tornava in terraferma dalle sue Indie, (falle sue Americhe. Pensai certo ora non so più bene, ma chi può sapere che cosa nasce e che cosa muore nel-la mente di un bambino? che Ischia fosse un posto lontanissimo, al di là dell’orizzonte, al di là del Vesuvio, oltre quella striscia di nebbia più a7zurra che talvolta mia madre mi mostrava coi dito, sussurrando «Sor-rento» oppure «Capri», un posto di là del Golfo, di là da Gibilterra, di là dalle Canarie...

Di quanto disse mio padre intorno a Ischia non ricor-do più nulla, se la disegnasse in aria con le sue parole colorate o se la insinuasse dentro la mia fantasia con arcani riferimenti: so soltanto che a poco a poco Ischia fu uno scoglio sempre più grande, quadrato e a picco nel mare, alto fino a toccare il grembo delle nuvole con la punta di una sua montagna, un’Isola beata, dun-que, nata un giorno nelle acque più azzurre così come nascono le meduse e i coralli, i coralli che mio padre portava a rametti rossi e bianchi a mia madre da ogni viaggio in Oriente.

Era d’estate, lo ricordo dai miei vestitini di tela az-zurra, dalla larga paglia sul capo, dai merletti bianchi di mia madre sorridente sotto un suo ombrellino, dalla giacca di alpagas nera di mio padre che sventolava tal-

volta un fazzoletto di lino sul suo volto bruno. 1 colori erano i colori dell’estate di tanti anni fa, un’estate felice certamente se io potevo stare fra mio padre e mia ma-dre e con loro due ridere di sgomento percorrendo la breve asse che portava dal molo di Pozzuoli alla poppa di un bianco vaporetto.

Ormai la traversata è sparita, resta soltanto a galla dell’anima una sciarpa di fumo nero, il fischio lungo della sirena di bordo, il gioco del vento di mare nei ca-pelli di mia madre: e mia madre si lisciava i suoi fini capelli, guardava verso prua, là dove le gomene tese tremavano all’aria come corde di uno strumento mu-sicale. Mio padre andò a parlare nella cabina di co-mando col pilota del vaporetto, cominciò a narrare a lui avventure di viaggi tropicali, del Golfo del Leone o del Golfo di Biscaglia quando s’incattivano e fanno tre-mare i poveri marinai e il comandante del vaporetto gli rimbalzava altri racconti di perigliose traversate: io in mezzo a loro dite, il mento appoggiato sul bastin-gaggio, a sentire la brezza sulle labbra e i loro racconti pieni di onde e di scogli, di risacche e di burrasche,

Mettemmo piede a Ischia, accolti dal grido festoso dei venditori di limoni che venivano fin sotto lo scalan-drone di poppa a salutarci con la loro merce odorosa e acre, ma io noti avevo occhi che per la barchetta di un piccolo saraceno quasi nudo che se la stringeva al pet-to, correndo scalzo sulla pietra rovente, inseguito da una torma di suoi piccoli amici. Mia madre colse nei niei occhi la smania e a una botteguccia infestonata di reti e di cestini di vimini comprò per me una barchetta bianca, con le due vele, la bandierina, la chiglia piom-bata e perfino il timone e io, come il piccolo saraceno, la strinsi al mio petto, felice.

Ischia era dunque questo: un desiderio subito appa-gato, una felicità di bambini, innocente e azzurra come era il cielo, come il fiocco del cavallo, come la tenda della carrozzella nella quale montammo per andare non so più dove, se a Casamicciola o a Barano, se a Lac-co o al Castello o a Forio. Sì, era Forio mi pare, dove stava un amico di mio padre, marinaio anche lui, che ci attendeva nella sua casa bianca, con l’arco, la loggia con i gerani e i grappoli di sorbe, sul vocio quieto di una piazzetta minuscola.

Entrammo nell’onibra dal sole che ci abbacinava, l’ombra era azzurra, di un azzurro violaceo come nei grappoli delle glicinie. L’amico di mio padre cominciò a gridare, a ridere, ad allargare le braccia, a chianiarsi intorno la moglie e i figli e una vecchissima zia, vestita di nero e grassa e forse anche i vicini che sbucavano (la azzurre porte nel cortile, venivano a guardarci, tocca-vano i merletti di mia madre e il bavero del mio vesti-tino alla marinara.

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6 La Rassegna d’Ischia 3-4/03

Pagine di autore

Sant’Angelo dall’Epomeo

Ricordo ancora la grandissima stanza imbiancata di calcina, il pavimento di pietra viva, una stanza piena di finestre ad archi e un balcone che dava su una vasta terrazza in braccio al mare; ricordo una tavola lunga e piena di gente, io in fondo fra gli altri ragazzi che mi domandavano i segreti delle scuole napoletane, ai qua-li domandavo i segreti del mare di Ischia.

Dopo pranzo ci mandarono a giocare, c’era an-che una bambina dalle trecce lunghe fermate da due fiocchetti rosa, gli occhi così azzurri che non potevo guardarli: e mi teneva la mano, me la stringeva, sen-za parlare, subito compagna. Il pomeriggio era al suo culmine, con un frinire disperato di cicale nel fogliame dell’orto, liti riverbero accecante dai muri. Il mare si sentiva vicino, pur senza scorgerlo, di là dagli alberi d’agrumi. Qualcuno propose di entrare nel fresco della cantina, a giocare non so più a che cosa e penetrammo nel buio (Itiasi gelato di quella cavità che s’apriva sotto la casa, fra enormi botti e damigiane e mastelli e tavole. C’era un odore acuto, di vino in fermentazione: vino della passata stagione che fra poco avrebbe fatto luogo al mosto novello e qualcuno propose d’assaggiare da una enorme bottiglia il vino bianco passito che a tavola

noti avevano voluto (fare a noi ragazzi. La bambina la-sciò per un momento la mia mano, scappò fuori, tornò di lì a poco tenendo il grembiule alzato per le cocche e rigonfio (11 mille fichi secchi, fichi bianchi impolverati del loro stesso zucchero che depose sii] piano di una grossa botte.

Cominciammo a divorare i fichi secchi, a bere il vino bianco e dolce che aveva il sapore dell’uva passa, nar-randoci storie inverosimili, accoccolati in quel buio fresco mentre fuori il cortile era una grande macchia abbacinante di sole. Questa era dunque Ischia, dopo la felicità della barchetta, la scoperta di una liber-tà, mangiare fichi secchi, bere vino Passito, ascoltare il rumore del inondo lontanissimo, le risate eli quelli che stavano sopra e noi bambini sciolti a un’ebbrezza che ormai cresceva, ci stordiva, ci buttava all’aperto, a inseguirci, a correre lungo la spiaggia: e uno propose di far’navigare la mia barchetta, salì a prenderla senza che lo scorgessero, la varammo nel mare limpido e az-zurro, ubriachi di fichi secchi e di vino, ubriachi di sole e di libertà la seguimmo mentre lentamente muoveva verso gli scogli.

La bambina dalle treccine aveva ripreso la mia mano, con lei entrai anche io nell’acqua, dopo d’essermi scal-zato, il mare imnse le mie gambe, le mie ginocchia, ormai nulla più ci tratteneva, quel dolce vino passito muoveva farfalle nel nostro capo, seguivamo le farfalle che si mutavano in scroscianti risate e così, tornati a riva, infagottati in costumi da bagno che uno andò a prendere in una vicina capanna, cominciammo a fare il bagno, dimentichi della barchetta che veleggiava per suo conto lontano.

Fu forse mia madre, alla finestra, a scorgerla: perché ebbe un grido al quale altri seguirono e scoppi di voce severa e sulla spiaggia giunsero tutti corre per assistere a un naufragio, mio padre e il suo amico in testa, (la bravi marinai, seguiti dagli altri a braccia alzate. Ma non c’era stato naufragio eravamo sani e vispi nell’ac-qua, bambini felici e indocili, anche se ubriachi di fichi e di vino passito e allora mio padre scrollò le spalle, accese una sigaretta, l’amico sedette su una pietra, noi uscimmo dall’acqua mogi e bagnati come cani e furono le donne ad asciugarci con coperte e lenzuola.

Mia madre mi asciugava sempre più teneramente, quasi mi carezzava, senza tuttavia mostrare d’avermi perdonato, ma io lo sapevo dall’indugio delle sue dita fra i miei capelli e allora cominciai furiosamente a desi-derare d’essere nato a Ischia o almeno di poterci vivere se Ischia era questo, anche un perdono discreto, senza umiliazione.

L’ho saputo dopo, tanto tempo dopo, lo so adesso che Ischia è appunto questo, una smania di desiderio che si appaga, una libertà e un perdono.

Mario Stefanile

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La Rassegna d’Ischia 3-4/03 7

(Lettera da Ischia - anno I, n. 1/1957)

La perla del Tirreno di Elena Canino

Pagine di autore

La casa tra la pineta e il mare offriva una pronta consolazione al mio corredo estivo. Era un corredo da forzato, scelto dalle autorità familiari secondo criteri di durata. Le ruvide tele di Procida mi si gonfiavano in-torno, i solidi sandali del calzaturificio di Varese, trafo-rati da un disegno a grattugia, mi adornavano il piede. Dimenticavo la delusione, la mattina stessa che mi sve-gliavo nel nuovo letto. In accappatoio correvo sulla ter-razza, camminando scalza sull’asfalto bollente, mi pa-reva di camminare sui bei nomi sonori dei mesi estivi: agosto gonfio come un’onda, settembre spiaggia lunga, dorata su cui distendersi. L’accappatoio, oltre ingoffar-mi, mi pesava addosso, munito da tanto di cappuccio, lungo alle caviglie e i maniconi fino al polso, ma io ne ero orgogliosa, odorava di biancheria nuova, di cloro.

Ischia in quegli anni era un’isola ancora poco fre-quentata dalla folla estiva, le famiglie villeggianti si potevano contare sulle dita, nessun giornale ne faceva l’elenco, eppure erano nomi da figurare in capo ad ogni lista. C’erano i ragazzi a sbandierarli, non era venuta la moda di ignorare i parenti e ognuno di essi alla provo-cazione presentava fieramente le proprie credenziali: Mio padre è ammiraglio, il mio è deputato, il mio è Ec-cellenza.

L’Eccellenza era Nitti e sua era l’unica cabina appog-giata agli scogli della Punta del Mulino, punto d’avvio ai grandi archi di spiaggia scintillante che accompa-gnavano il mare aperto fino al riparo del Porto. Nitti usava la cabina come studio oltre che come spogliato-io; si sedeva sul limitare e, tiratasi avanti la panca di legno, là sopra sbrigava la corrispondenza che verso le undici gli portava il postino Liberato. L’uomo arrivava annunziandosi con un fischietto, camminando sugli ultimi ricami dell’onda fino a che era possibile e poi affondando le grosse scarpe nella sabbia per arrivare da Sua Eccellenza. Quel suo fischietto ci dava allegria, eravamo in una età felice che dalla posta non si aspet-tava nulla, né ci peritavamo di spruzzare d’acqua quel modesto Mercurio.

A mezzogiorno preciso, Nitti scendeva in mare come la palla di Sant’Ignazio a Roma nella stessa ora; il co-stume di maglia nera gli metteva in rilievo tutte le pro-

minenze. Grosso com’era riusciva a sbaragliarci tutti, o forse noi ci prestavamo alla sconfitta per deferenza; donna Antonia si teneva lontana dalle battaglie acqua-tiche, aveva la specialità di nuotare come se cammi-nasse, mantenendosi a galla con piccole bracciate pla-cide, un gran pagliettone come una cuffia legato sotto il mento.

Il mare si stendeva davanti a noi offrendoci approdi facili, illusori, ma noi non lo capivamo e... ciò aumen-tava la confidenza in esso, come se il Castello fosse uno scoglio da scalare e Vivara un comodo cuscino sull’on-da.

Quando oggi vedo tutte le «parafernalia» che servo-no ai ragazzi per divertirsi a mare, ricordo come ci an-davamo noi, già in costume, i sandali dentro un asciu-gamano ché l’accappatoio non serviva più quando la pelle si era abbastanza indurita al sole.

Maestosamente, a mezzogiorno passato, arrivava la... Marina. Precedeva la moglie dell’ammiraglio B. un marinaio in divisa candida, sul nastro del berretto in lettere d’oro c’era scritto: Dante Alighieri. Quel riverito ma temuto nome vederlo militarizzato era una soddi-sfazione, la scuola appariva anche più lontana, oltre le coste chiuse intorno come un anello di protezione. Il marinaio portava una sedia a sdraio, diceva ai ragazzi: La mamma è venuta a sorvegliarvi. Ma anche se essi, e noi con loro, fossimo tutti annegati, lei certo avrebbe dovuto assistere impotente alla catastrofe: era vestita di tutto punto, uno spolverino di seta cruda con tante mantelline sovrapposte, alla postiglione, un largo cap-pello avvolto in veli, scarpe e calze grigie. Intorno a lei subito si faceva circolo, bella ed intelligente com’era. Nitti in suo onore si paludava in un accappatoio, sem-brava un grosso frate, rapato e il viso rubicondo.

Stranieri ad Ischia ce ne arrivavano di rado, ma quei pochi eccentrici anche allora. Per una settimana la familiare Punta del Mulino vide arrivare sempre alla stessa ora, una donna bionda. Non aveva addosso che un costumino di lana celeste, ma portava sempre i guanti. Si sdraiava su uno scoglio, si scioglieva i lun-ghi capelli; in quel punto dove arrivava l’ombra della pineta l’acqua era verde, con riflessi cangianti come le squame dei pesci. Non dava confidenza a nessuno, ma accettava i ricci del vecchio pescatore che passava tutta la mattina a snidarli di sotto gli scogli; egli apriva con un coltello i gusci spinosi, le porgeva il frutto carnoso e giallo in una specie di naturale scodellina e lei, sol-levandosi un poco sui gomiti, apriva la bocca, li sorbi-va con delizia. Con voce aspra di altro paese e suono ripeteva una parola, sempre la stessa, i capelli biondi nell’atto scendevano a lambire l’acqua, pareva una si-rena. Tutti la guardavano affascinati, Sua Eccellenza compreso, quella figura era come una spiegazione del paesaggio, lo riportava ad un’origine mitica. Nella pau-

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8 La Rassegna d’Ischia 3-4/03

Pagine di autore

Cartaromana dal Castello

sa che interveniva nei discorsi dei grandi e nei nostri stessi giochi, si sentiva il frinire frenetico delle cicale, come la voce piena dell’estate, dell’ozio, di un invito al sonno dopo il bagno.

I ragazzi cominciano a farsi grandi dicevano le mamme. Certo fu opera loro e non del ministro, se un giorno asciugandosi il viso sudato, con un fazzoletto bianco tra berretto e collo come uno della legione stra-niera, arrivò sulla spiaggia il Commissario.

Quei capelli non sono mica naturali disse mia ma¬dre ch’era la più puritana. Donna più di mondo, la moglie dell’ammiraglio spiegò che per farli così biondi bisognava lavarli con il rosso d’uovo. Approfittai subito di quel suggerimento, ormai avevo quasi quindici anni, la vanità cominciava a spuntare timidamente ed ine-sperta. M’impiastricciai le chiome e un gran dubbio mi venne al momento di risciacquarle: Se ora ci metto l’acqua perdo tutto l’effetto...

Era di pomeriggio, mia madre riposava ed io stavo sdraiata al sole sperando prima di sera di essere tut-ta dorata. Sulla terrazza circondata tutto intorno dal

giardino veniva l’odore di certi gigli rosa che ad Ischia nascono anche sulla sabbia. Per le poche letture dan-nunziane che avevo, sapevo che si chiamavano Ama-rillis e dentro « gl’insetti vi morivano di dolcezza ». Ma nemmeno il loro mortale profumo riusciva a vincere quello di frittata che si sprigionava dai miei capelli. Mentre con tanta pervicacia stavo covando la mia bel-lezza, di tra gli alberi mi appariva quella così spontanea e riposata del tratto di mare che incorniciavano, dentro vi stava Vivara, con quell’assalto continuo dell’onda sui suoi fianchi, con il cielo di cristallo che vi si curvava sopra, solitaria misteriosa come la sirena che un po’ a tutti, a chi per una ragione a chi per un’altra, aveva mu-tato impercettibilmente la vita mattutina.

Solo il pomeriggio del sabato eravamo condotti in massa a prendere una ghiacciata di amarene da An-garella al Porto. Era un gran bicchiere di ghiaccio, triturato con «gratta chepca» debolmente colorato di roseo. La pagoda sull’altro lato del porto, con i suoi spioventi di legno sotto la cupola sfrangiata di un pino marittimo, metteva una nota esotica contro l’orizzonte pallido come la seta; respiravamo avventura ed orien-te, sognavamo d’imbarcarci per la Cina sul vaporetto della Cumana che approdava alla banchina.

Eccellenza dicevano le signore perché non fa ri-pristinare l’uso della banda su quell’isolotto? Ma Sua Eccellenza reputava ch’esso era troppo stretto e il « trombone », in uno sforzo, sarebbe caduto nell’acqua.

Solo alla fine della stagione qualche famiglia isolana riusciva a penetrare nella nostra cerchia, c’invitavano a mangiar l’uva in quei loro vigneti che crescevano con le case, serrati tra alte mura, dove il sole non riesce a penetrare. Conoscevamo ragazze della nostra età, ma già mature con i seni sviluppati su cui sempre appun-tavano, quando aspettavano visite, tralci di edera arti-sticamente intrecciati a gelsomini. Avevano carnagioni bianche e delicate, capelli tutti arricciolati.

In uno di quegli autunni scoppiò un grande tempo-rale, acqua venendo giù a «lava» dal Montagnone fece sprofondare un tratto di strada verso la spiaggia dei pescatori e scorreva in quell’improvvisato letto come un fiume. Vi galleggiavano talponi morti, pietre e ce-spugli, non vi furono altri guai. Ma la notte fummo svegliati, noi primi di tutti nelle nostre villette sulla spiaggia, dagli urli eccitati d’una sirena, ma questa vol-ta la sirena seria di una nave da guerra. L’aveva messa a disposizione dell’ammiraglio B., Sua Eccellenza, per portare i primi soccorsi alla sua famiglia, alle nostre, alla popolazione intera. Sul giornale infatti quella mat-tina a grandi caratteri era comparsa la notizia: La Perla del Tirreno, sommersa...

Elena Canino

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La Rassegna d’Ischia 3-4/03 9

Der runde Mond ging damals nicht anders auf als heute: ohne Glanz, vielmehr im stumpfen Rot einer geschälten Tomate, samten weich und unergründlich, den Menschen und das Meer leidenschaftlich bewegend. Unter diesem Mond, der langsam in die Höhe steigt, er-bleicht und das Meer in einen silbertropfenden Schuppenleib verzaubert, hier auf diesem Kastell schrieb Vittoria Colonna ihre unvergeblichen und unvergänglichen Sonette. Der Held ihrer Strophen, die ihren Ruhm durch ganz Italien trugen, war Ferrante Francesco d’Avalos, der Marchese von Pe-scara, aus dem Geschlechte spanischer Granden, die mehr als zweihundert Jahre Vizekönige von Neapel und der Insel waren. Hier auf diesem Kastell wur den sie beide in einer Hochzeit von unvorstellbarer Festlichkeit getraut, und der Marchese von Pescara wurde der ruhmreichste Held seines Jahrhunderts. Der Marchese von Pescara starb jung an den Wunden, die er in der Schlacht von Pavia gegen Franz I, von Frankreich empfangen hatte. Zehn Jahre trauerte Vittoria auf diesem Kastell, ehe sie, fürstlich in Rom empfangen, die Freun-dschaft Michelangelos erwarb. Seine Sonette und Gedichte für sie machten Vittoria Colonna unsterblich, und auf immer schwebt dieser Glanz über dem Kastell und über Ischia, das vorher schon Bernardo Tasso, Torquatos Vater, in einem Gedicht für Vittoria verherrlicht hatte. Der Mond ist der gleiche geblieben. Der Blick auf den Vesuv und seine Wolkenkrone, der Epomeo, in den dieses ganze Eiland hinaufzuströmen, scheint, und dieser Trachyt-Felsen der eigens dafür geschaffen schien, das Kastell zu tragen, dies alles ist unverändert, nur nicht das Kastell, das ein Mittelpunkt war von Schönheit, Geist und Macht. Das Kastell ist heute nur noch Herberge für Regen und Sturm, erbarmungslose Sonne, Unkraut und Melancholie, ein Grabmal der Vergänglichkeit. Auch die Kathedrale ist der Zerstörung preisgegeben; wenige Stuckreste, Blumenorna-mente, ein Engelskopf mit Flügeln träumen noch den Traum von einstiger barocker Schönheit. Das Barock kleid war ihr letztes. In dieser Kirche hatte man zweihundert Jahre zuvor, als sie fast noch Kinder waren, Italiens grösste Dichterin mit dem grössten Helden ihrer Zeit vermählt. Erinne-rungsstätten, die man hüten sollte! Jetzt hortet man Trauben in den Ruinen, und Kinder stampfen sie aus und singen. Goldbraune Ziegen grasen hier und sehen dich sprachlos an mit grünem Blick. Früher, ehe die Agonie langsam begann, wohnten zweitausend Familien in dieser Stadt am Berg. Doch noch immer schaut man hinauf zu dem vieltürmigen Aragonesen-Schloss, zu dieser Fortifikation von Macht und Herrlichkeit mit Gärten und Feigenbäumen, wie auf eine mit

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di Lore Enderle-Mollier

Ischia barocca (In Lüdecke Barbara: Glückliche Inseln, Stuttgart, 1958. Riportato in Ischia Oggi, Rassegna turistica, 1964)

Traduzione di Nicola Luongo

La luna rotonda non si muoveva allora diversamen-te da oggi: quasi adulatoria, senza splendore, anzi nel rosso opaco di un pomodoro sbucciato, morbido e mi-sterioso velluto, rendendo felici l’uomo e il mare.

Sotto questa luna, che lentamente si porta in alto, impallidisce e muta il mare in un corpo squamoso stil-lante argento, qui su questo Castello Vittoria Colonna scrisse i suoi Sonetti indimenticabili ed immortali. L’e-roe dei suoi versi, che hanno diffuso la sua gloria attra-verso l’Italia tutta, era Ferrante Francesco d’Avalos, il Marchese di Pescara, della stirpe dei Grandi di Spagna, che furono per più di 200 anni viceré di Napoli e dell’i-sola. Qui su questo Castello si unirono in matrimonio con grande festosità e il Marchese di Pescara divenne l’eroe più famoso del suo secolo.

Il Marchese di Pescara morì in giovane età per le fe-rite riportate nella battaglia di Pavia contro Francesco I di Francia. Per dieci anni Vittoria è rimasta chiusa nel suo dolore in questo Castello, prima di ottenere princi-pesca accoglienza a Roma e l’amicizia di Michelangelo. I suoi sonetti e le sue poesie per loro hanno reso Vit-toria Colonna immortale e per sempre aleggia questo splendore sul Castello che Bernardo Tasso, padre di Torquato, aveva già prima celebrato in una poesia per Vittoria.

La luna è restata uguale. La vista sul Vesuvio e la sua corona di nuvole, l’Epomeo, in cui tutta questa isola sembra venir su, e questa roccia trachitica che splen-de fatta proprio allo scopo di reggere il Castello, tutto è rimasto immutato, ma non il Castello che fu centro di bellezza, di ingegno e di potere. Il Castello accoglie oggi soltanto pioggia e tempesta, sole rovente, erbac-cia, malinconia, un monumento dell’effimero. Anche la Cattedrale è lasciata all’abbandono e alla rovina: pochi avanzi di stucchi, ornamenti floreali, una te-sta angelica con ali sognano ancora il sogno dell’an-tica bellezza barocca. Quello barocco è l’ultimo suo aspetto. In questa chiesa più di 200 anni addietro si sposarono, quando erano ancora quasi ragazzi, la più grande poetessa d’Italia e il più grande eroe del tempo. Luoghi di rimembranze che avrebbero dovuto essere protetti! Ora tra le rovine crescono le uve e i ragazzi le calpestano e cantano. Qui pascolano le bionde capre e ti guardano senza parole con i loro occhi verdi. Pri-ma che cominciasse la lenta agonia, duemila famiglie abitavano in questa Città e su questo scoglio. Ancora e sempre si guarda in alto al turrito Maschio Aragone-

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10 La Rassegna d’Ischia 3-4/03

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Edelsteinen gezierte Krone zwischen Himmel und Meer. Mit einem über zweihundert Meter langem Steindamm ist diese glanzvolle, wehmütigste aller Inseln, Kastell genannt, auf der die spanisch-aragonesischen Könige ihre Banner wehen liessen mit Ischia verbunden. Auf dieser Brücke flicken jetzt die Fischer ihre Netze, die sie zum Trocknen, ausgebreitet haben. Diese Zeilen, lieber Freund, seien allem vorausgestellt. Du wirst letzten Endes das Meer und den Strand ohne Begleitung finden und den Wein, das Essen und die Her-berge, doch nicht die Vergangenheit: du siehst nur, was du weisst. Und du sollst wissen, dass diese in der Erdgeschichte junge Insel, von deren vulkanischer Geburt, Untergang und Wiedergeburt die Menschen Zeugen waren, Liebling der Götter und Genien geworden ist. Zeus kam hier des Weges, hatte Ärger mit einem Sohne Gäas, dem Gigantem, erschlug iln und begrub den noch Zappelnden, noch Warmen unter Ischia. Circe war die Königin dieser Insel, und als Odysseus schiffbrüchig und der Hilfe bedürftig landete, pflegte sie ihn. Aeneas, der Sohn der Aphrodite und Ahnherr Roms, setzte seinen Fuss auf diese Insel, später gefolgt von griechischen Siedlern, die seinerzeit noch nicht den Mut oder die Lust verführten, das italische Festland zu betreten. Die Gedanken Homers und Vergils trafen sich auf dieser Insel, die damals vielleicht Citarea hiess oder Enaria oder Pythekusa. So zahlreich wie die Liebhaber waren die Namen, mit denen man sie schmückte, ehe man sie Ischia nannte, was, aus dem Griechischen abgeleitet, soviel wie Insel der Fischer heissen mag. «Nur hier lebt man wirklich», sagte König Ludwig I. von Bayern und etwas Ähnliches die berühmte Porträt-malerin der europäischen Höfe, Madame Vigée-Le Brun. Heute zieht Ischia die bekannten Maler Gilles, Purmann und Bargheer immer wieder und unwiderstehlich an. Auf diesem in der Entstellung und seiner Geschiclite bewegten Eiland scheint sich die menschliche Anima heftiger der Weltscheele zu vermählen als anderwärts. In zwei Stunden fährt man von Neapel aus - an ihrer Vor-botin, der zierlichen Insel Procida vöruber - nach Ischia. So wirst da sie erleben: von Himmel und Meer dazu lichtblau umrahmt, vom Berge Epomeo gekrönt, von Weinbergen und Kastanienwäldern lieblich überzogen, von Pinien überragt, von dunkelgrünen Hainen reich gezhert, in denen golden und rot die kleinen Monde der Orangen längen, die Häuser von weitem heiter und leicht, als seien sie Biskuit, hellblau, rosa, weiB und gelb, mit ihren vicien Bögen, Loggien und gerundeten Fernstern mehr ein zaubrisch-süsses Bild als Wirklichkeit; in der Nähe wie immer bröckelude Mauer, verblichene Farbe, doch das erhöht wahrscheinlich nur den Reiz. Dann der kleine, kreisrunde Hafen, ein Kratersee. Die Mole tastet sich einer Schnecke gleich mit leicht ge-strecktem Bagen vor ins Ungewisse. Du kannst gleich hier an Ort und Stelle bleiben, wenn du willst, manche sagen, Porto d’Ischia sei der schönste Platz. Grosse und kleine Alberghi zum Aussuchen, sauber und modern, du kannst dich in den terme comunali der Heilkräfte der beiden Quellen, der Fontana und Fornello, erfreuen. Zu beiden Seiten des Hafens erheben sich zwei Hügel, die alten Kraterränder.

se, a questa fortificazione di potere e di grandezza con giardini e alberi di fico, come ad una corona ornata con pietre preziose tra cielo e mare. Il cosiddetto Castel-lo, splendido e il più malinconico di tutte le isole, dal quale gli Staufer e i re ispano-aragonesi vollero issare i loro vessilli, è legato ad Ischia con un ponte di pietra lungo quasi 200 metri. Su questo ponte i pescatori ora rattoppano le loro reti che hanno steso ad asciugare.

Queste righe, caro amico, ho voluto premettere.Tu troverai peraltro il mare e la spiaggia senza alcu-

na guida, come il vino, il ristorante, l’alloggio, ma non il passato: tu vedi solo quello che conosci. E dovresti sapere che questa isola, geologicamente giovane, della cui nascita vulcanica, della cui fine e della cui rinascita gli uomini sono stati testimoni, divenne la prediletta dagli Dei e dai Geni: qui venne Zeus, era adirato con un figlio di Gea, il Gigante, lo uccise e lo seppellì sotto Ischia, dove ancora si agita ed emana vapori. Circe era la regina di quest’isola e accolse Ulisse, quando vi fece naufragio e vi approdò bisognoso di aiuto. Enea, figlio di Afrodite e antenato di Roma, si fermò in quest’isola e successivamente vennero coloni greci, i quali a quel tempo non avevano il coraggio o la voglia di penetrare all’interno del continente italico. Concordano i riferi-menti di Omero e di Virgilio sull’isola, che forse una volta si chiamò Citarea, Enaria o Pitecusa. Molteplici furono i nomi con cui la denominarono i suoi amanti, prima di chiamarsi Ischia, con origine dal greco, per quanto volle chiamarsi come l’isola dei pesci. “Solo qui si vive realmente”, disse il re Ludwig I di Bavie-ra e qualcosa di simile scrisse la ritrattista dei cortili europei, Madame Vigée-Le Brun. Oggi Ischia ospita frequentemente e piacevolmente i noti pittori Gilles, Purmann e Bargheer.

Su questa isola travagliata tra la sua trasformazione e la sua storia sembra che l’anima dell’uomo si unisca all’anima dell’universo in maniera più intensa che al-trove.

In due ore si giunge da Napoli a Ischia, preannun-ciata già quando si passa davanti alla graziosa isola di Procida. Così puoi riconoscerla: il cielo e il mare la incorniciano d’azzurro, il monte Epomeo la incorona, le vigne e i castagneti la rivestono, i pini la sovrasta-no, i boschi verde-scuri la adornano riccamente, in cui crescono i dorati e rossi globi delle arance, le case di lontano allegre e piccole, come se fossero un biscotto, azzurro-chiare, rosa, bianche e gialle, con i loro nume-rosi archi, le logge e le finestre arrotondate, un’imma-gine più di dolce magia che di realtà; nelle vicinanze come sempre muri che si sfaldano, colori sbiaditi, ma forse ciò ne aumenta il fascino. Poi il piccolo, circolare porto, di origine vulcanica.

Il molo come una lumaca dalle antenne tese sembra spingersi verso l’incerto. Puoi ben restare in questo luogo, se vuoi, alcuni dicono che Porto d’Ischia è il po-sto più bello. Una scelta tra grandi e piccoli alberghi, confortevoli e moderni, tu puoi godere nelle terme co-

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La Rassegna d’Ischia 3-4/03 11

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Auf dem San Alessandro steht weiss und leuchtend über hohen Felsen ein maurisches Schloss, mit Kuppel und Zin-nen weithin zu erkennen. An das steile Riff zu seinen Füssen schlägt das Meer. Maisfelder bewegen sich in der leichten Brise, und Tamarisken verströmen ihren kaum wahrnehmba-ren Duft. Hier oben beginnt die Pineta, ein Wald edelgewa-chsener Pinien. Gegen Abend schweben ihre Kronen dunklen Traumbooten gleich vor dem verdämmernden Himmel. Die schwingende Zartheit und Schwerelosigkeit der frühen Lyrik Lamartines fand hier ihr Ebenbild. Von San Pietro aus, dem Hügel San Alessandro gegenüber, sieht man das Kastell Vittoria Colonnas schöner als von jedem anderen Platz, als wäre es allein für diesen Ausblick hingesetzt. Dunkelblau sind die grossen Blüten der Winden, die die rosa Kirche von San Pietro überwuchern. Angesichts des Kastells denke ich mit heftiger Sehnsucht an das glühende Sant’Angelo im Süden, das mit seiner Torre, seinem wie ein Wehrturm ins Meer gesetzten Berg so sehr and das Kastell erinnert. Mit einer der zierlichen Carrozzelle, die, von federgeschmückten Pferden gezogen, leichtfüssig durch die Strassen rollen, kann man es auf einer Fahrt um die halbe Insel erreichen. Rechter Hand die jäh abfallende Küste, linker Hand die aufsteigenden Weinberge, und dazwischen liegen immer wieder Orte, die zum Verweilen locken: Casamicciola mit seinen Thermal - und Schlammbädern, den heissen Grot-ten und dem hübschen Strand, Lacco Ameno mit den stark radioaktiven Quellen und dem grossen Tuffelsen nahe der Badebucht, der wie ein Riesenpilz aus dem Wasser ragt und Fungo heisst. Den mit Reben überzogenen Monte di Vico lassen wir rechts zurück, ebenso das Tal San Montano; auf einer in den Fels geschlagenen Strasse erreichen wir Forio. Uberall ist der Duft des Meeres nahe, und immer wieder, wie mit weiten Armen ausgestreut, leuchtet Bougainvillea, die sich in dunklem Violett üppig über die weissen Häuser zieht. Serrara - Fontana am Südabhang des Epomeo und Ba-rano, beide von der Küste etwas zurückgenommen, höher gelegen, hätten wir noch vor uns, dann wären wir mit un-serer Carrozzella nach vier Stunden Fahrt wieder in Porto d’Ischia. Das letzte Stück in das kleine Fischerdorf Sant’Angelo geht man zu Fuss. Wie aus dem Boden gestampft, quirlen Knaben herbei in jeder Grösse, um einem alles Traghare abzunehmen und es nach alter Sitte auf dem Kopfe balan-cierend in den Ort zu bringen. Die Winzigkeit der Knaben und die Grösse der Gepäckstücke stehen häufig in einem er-staunlichen Verhältnis. Der Wein der Insel schmeckt köstlich, doch der Weinbau auf schmalen Terrassen die Hügel hinauf ist mühsam; auch das reichste Meer hat noch keinen Fischer reicht gemacht - so sind alle froh, wenn sie an den Fremden etwas verdienen können, selbst die kleinstein Knaben. Hier im Süden, wo im hohen Sommer die Sonne er-barmungslos herunterbrennt, wo die steile Küste über das freie Meer hinaus den Blick nach Afrika gewendet hält, erscheint die Natur am stärksten und am reinsten.

munali della cura di due sorgenti, Fontana e Fornello. Ad entrambi i lati del porto si innalzano due colline, gli antichi margini del cratere. A Sant’Alessandro si vede bianco e splendente su alte rocce un palazzo moresco, riconoscibile di lontano dalla cupola e dalla merlatura. Ai suoi piedi il mare batte contro gli scogli. Qui inizia la Pineta, un bosco di pini nobilmente cresciuti. Verso sera le loro corone pendono sopra le scure barche pro-prio sotto il cielo che imbruna.

La tenerezza vibrante e la leggerezza della prima li-rica di Lamartine trovarono qui la loro immagine. Da San Pietro, di fronte alla collina di Sant’Alessandro, si vede il Castello di Vittoria Colonna, luogo più bello di qualsiasi altro, come se fosse stato posto là soltanto per questa visione.

Blu scuri sono i grossi fiori del convolvolo che rico-prono la chiesa rosa di San Pietro.

A fronte del Castello penso con nostalgia appassio-nata all’incandescente S. Angelo del Sud, che con la sua Torre, la sua collina posta come una vedetta nel mare, tanto ricorda il Castello. Con una delle graziose Carroz-zelle, che, tirate da cavalli ornati di piuma, a passo leg-gero si muovono attraverso le strade, vi si può arrivare in un viaggio intorno a mezza isola.

A destra le coste si elevano ripide, a sinistra s’in-nalzano le vigne e in mezzo si trovano sempre ancora luoghi che ti allettano a sostare: Casamicciola con le sue acque termali e i bagni di fango, le calde grotte e la meravigliosa spiaggia; Lacco Ameno con le fonti molto radioattive e il grosso masso tufaceo presso la baia, che si erge come un gigantesco fungo dall’acqua e perciò viene chiamato il Fungo.

Lasciamo sulla destra Monte di Vico rivestito di viti, come la valle di San Montano; per una strada aperta nella roccia raggiungiamo Forio. Dappertutto si sente l’odore del mare vicino, e ancora, come estesa con lar-ghe braccia, brilla la buganvillea, che si trova rigogliosa in violetto scuro sulle bianche case.

Avremmo ancora davanti a noi Serrara Fontana sul pendio meridionale dell’Epomeo e Barano, entram-be situate lontano dalla costa, in alto, e poi saremmo con la nostra carrozzella dopo quattro ore di viaggio di nuovo a Porto d’Ischia.

Si percorre a piedi l’ultimo tratto di Sant’Angelo, piccolo paese di pescatori. Come sbucati dal nulla, ragazzi di ogni statura ci girano attorno per afferrare tutto quanto sia possibile e trasportarlo a destinazio-ne, tenendolo sulla testa in equilibrio secondo l’antico costume. La piccolezza dei ragazzi e la grandezza dei bagagli sono spesso in un sorprendente rapporto. Il vino dell’isola è ottimo, ma la viticultura sugli stretti terrazzamenti collinari è faticosa; anche il mare più ricco non ha reso ricco finora alcun pescatore, così tut-ti sono contenti quando possono guadagnare qualcosa con i forestieri, anche i ragazzini.

Qui a Sud dove in piena estate il sole brucia sen-

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12 La Rassegna d’Ischia 3-4/03

Cavascura

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Die flachen Häuser steigen kreuz und quer die felsige Anhöhe empor. Wie der Trachytfels, das Kastell, vor Ponte d’Ischia, steht hier die Torre vor Sant’Angelo. Ein schmaler Sanddamm bindet sie an an die Insel, rechts und links das Meer mit seinen wechselnden Farben; oft ist es grün wie ein Katzenauge. Links der neu entstandene Damm schützt bei Wellen und Sturm die Boote am Strand, das kleine Schiff im Hafen. In einer halben Stunde ist man um die felsige und grot-tenreiche Südküste herum in Ponte d’Ischia. Von Sant’Angelo durch Klippen getrennt, dehnt sich gegen Osten unter der Steilküste bis schier ins Unermessli-che der breite Strand, die spiaggia dei Maronti. Am frühen Morgen ist er verlassen und unberührt, und das Licht rie-selt herab, gleissend und in überwältigender Fülle. Trotz der frühen Stunde ist der Strand warm, er ist warm von innen heraus, vor allem hier in dieser ersten Bucht, wo die schwefligen Rauchfähnchen aus dem Boden steigen. Es gibt immer wieder Menschen, die sich an dieser Stelle ein Ei im Sande kochen. Die Temperatur des heilkräftigen Sandes, die Fumarolen, die warmen oder heissen Quellen unter Wasser, auf die man tritt, wenn man am Meerstrand spazierengeht, dies alles sind Zeichen, dass das feuerspe-iende Herz dieser Erde noch nicht erkältet ist. Langsam beginnt der Strand sich zu bevölkern. Immer öfter begegnet man Männern und Frauen, die sich von bagnini im Sand begraben lassen. Nur der Kopf blickt,

za pietà, dove la ripida costa sul libero mare tiene lo sguardo rivolto verso l’Africa, la natura si manifesta in tutta la sua forza e la sua purezza. Le case piatte si arrampicano in lungo e in largo sulle alture pietrose. Come lo scoglio trachitico, il Castello, davanti a Ischia Ponte, qui la Torre si erge davanti a Sant’Angelo. Una striscia di sabbia la lega all’isola, a destra e a sinistra il mare coi suoi colori cangianti; spesso esso è verde come l’occhio di un gatto. A sinistra l’argine da poco innalzato protegge dalle onde e dalle tempeste le bar-che sulla spiaggia, la piccola nave nel porto. In mezzora girando attorno alla costa meridionale piena di scogli e di grotte si è a Ischia Ponte.

Separata da Sant’Angelo da scogli l’ampia spiaggia dei Maronti, si estende a dismisura a Est sotto la costa scoscesa. Di prima mattina essa è abbandonata e de-serta e la luce cade giù abbagliante e con un’intensità senza pari. Nonostante la buonora, la spiaggia è calda, emana calore, soprattutto qui in questa prima insena-tura, dove esalano dal suolo i vapori solforosi.

C’è sempre gente che in questo posto cuoce nella sab-bia un uovo. La temperatura della sabbia terapeutica, le fumarole, le sorgenti calde o bollenti sotto l’acqua, dovunque si vada durante una passeggiata in riva al mare, tutto ciò è segno che il cuore infuocato di questa terra non si è ancora raffreddato.

Lentamente la spiaggia ricomincia a popolarsi. Sem-

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La Rassegna d’Ischia 3-4/03 13

auf einem Kissen von Sand gebettet, aus dem Hügelgrab heraus. Man sei hinterher wie neugeboren, sagte eine der Eingegrabenen, matt lächend, denn sie schwitzte sehr unter dem Gewicht des warmen Sandes. Man muss allerdings mit seinem Arzt sprechen, ehe man sich diesen belebenden und bei arthritischen und rheumaschen Leiden heilsamen Kuren unterzieht. Vor allem aber soll man das, wenn man weiter östlich in die wilde Schlucht der Cava scura hinaufsteigt und dort in einer der Felswannen ein Thermalbad nimmt. Díe Felskabinen werden von der Bademeisterin, der dicken Angelina, mürrisch und genial mit einem Leintuch vor neugierigen Blicken geschützt. Mit fünfundsechzig, achtun-dsechzig Grad entströmen die Thermalquellen dem Boden, ehe sie in den Leitungen aufgefangen werden. Sie sind seit langer Zeit sehr beliebt, ihre Heilkraft erkannten schon die Römer; sie machen sogar fruchtbar, sagt man ihnen nach. Manche Strandgänger verschreiben sich ganz und gar der Sonne und dem Meer, und sie kehren diesem fast afrikani-schen Lichtgetümmel erst den Rücken, wenn es Abend wird. In zwei drei kleinen Ristoranti kann man en plein air, luftig und schattig, einen kleinen Imbiss und Getränke aller Art zu sich nehmen. Frisch gefangene Fische in der Grösse von Heringen werden von einem Knaben geschuppt und ausge-nommen. Hin und wieder schreiten Frauen und Mädchen mit der stolzen Haltung von Römerinnen am Strand entlang, einen grossen Korb auf dem Kopfe balancierend. Uva? rufen sie und sehen dich aus abgrundtiefen Augen fragend an. Die Trauben sind billig und von grosser Süsse. Auch der Wein, den man auf Ischia trinkt, der einfache Landwein. Epomeo genNant, trocken und süss, ist billig. Es gehört zu den unvergesslichen Stunden, bei einem Glas Moscato unter dem Gipfel der Torre zu sitzen, auf eben jenem ganz in Grün gehülten Felsen, mit dem Sant’Angelo kräftig und kühn mitten ins Meer hineinstösst. Man sieht die Sonne wie einen roten Luftballon am azurnen Himmel schweben und dann schnell und entschieden im Ozean Versinken. Hinter sich lässt sie den flammenden Horizont. Das ist die Stunde, in der die Farben dieser Insel wie eine Rose blühen. Die Steilküste leuchtet. Alles ist noch gelber, noch blauer, noch roter, noch wilder und angefüllt von Leben. Die Fledermäu-se beginnen ihre abendlichen Kapriolen, und die Zikaden singen schrill. Man versteht in einer solchen Stunde nichts besser als die Genügsamkeit all dieser Menschen hier, die hilfsbereit und freundlich sind. Schliesslich trennt man sich von der Torre, um auf der Terrasse des Albergo eine bestellte frische Languste, von Schafs-oder Büffelkäse gefolgt, zu einfachem Landwein zu verspeisen. Das Meer schlägt an die Klippen unter uns, die Lichter von Capri glänzen weit in der Ferne wie eine Per-lenkette. Über dem nachtschwarzen Meer steht der Himmel überwältigend und weit. Am Ende der Bucht schaukeln, vom Bauch der Finsternis noch nicht verschluckt, die Lampen der Fischerboote auf und ab. Irgendwo am Ende der Welt blinkt ein Leuchtturm, vielleicht der von Sorrento. Der Scirocco legt sich mit zärtlicher Gebärde um Hals und Arme und auf das Gemüt, das dieser hohen Sommernacht weit geöffnet ist.

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pre più s’incontrano uomini e donne vengono “sepol-ti” nella sabbia dai bagnini. Solo la testa appoggiata su un cuscino di rena, esce fuori dal tumulo “sepolcrale”. Dopo ci si sente come rinati, disse una delle sotterrate, sorridendo stancamente poiché sudava molto sotto il peso della sabbia caldissima. Si deve comunque con-sultare il proprio medico prima di sottoporsi a queste cure energiche ed efficaci contro dolori artritici e reu-matici. Bisogna fare ciò soprattutto se si sale a est nella selvaggia forra di Cavascura e si prende un bagno ter-male in una delle vasche di pietra. Le cabine vengono protette da sguardi indiscreti dalla bagnina, la grassa Angelina, in maniera scorbutica e geniale con un len-zuolo. Le sorgenti termali sgorgano dal suolo a 65/68 gradi, prima di essere convogliate nelle condutture. Dai tempi antichi esse sono molto amate; già i Roma-ni riconoscevano la loro efficacia terapeutica; rendono persino fertili, si dice. Alcuni bagnanti si affidano com-pletamente al sole e al mare e voltano la schiena a que-sta esplosione di luce africana solo al tramonto.

In due/tre piccoli ristoranti si possono consumare en plein air, al fresco e all’ombra, un piccolo spuntino o bevande di ogni genere. Pesci grossi come aringhe da poco pescati vengono squamati e ripuliti da un ragaz-zo. Donne e ragazze vanno avanti e indietro con an-datura altera di romane lungo la spiaggia, tenendo in equilibrio sulla testa un grande canestro. “Uva!” grida-no e ti guardano con aria interrogativa con i loro occhi profondi. L’uva molto dolce è a basso costo. Anche il vino che si beve a Ischia, schietto vino locale, chiama-to Epomeo, secco e dolce, è economico. Si trascorre un’ora indimenticabile quando ci si siede bevendo un moscato sotto la cima della Torre, su quello scoglio co-perto di verde con cui Sant’Angelo si staglia poderoso e ardito in mezzo al mare. Si vede il sole librarsi come un palloncino nel cielo azzurro ed affondare veloce e deciso nell’Oceano, scomparendo all’orizzonte infuo-cato. Questa è l’ora in cui i colori di quest’isola brillano come una rosa. La costa ripida splende. Tutto è ancora più giallo, ancora più blu, ancora più rosso, ancora più selvaggio e pieno di vita. I pipistrelli iniziano le loro gi-ravolte serali e le cicale friniscono stridule. In una tale ora niente si capisce meglio della frugalità di questa gente disponibile e cortese.

Infine ci si allontana dalla Torre per degustare sulla terrazza dell’albergo un’aragosta già ordinata prima, seguita da mozzarella di pecora o di bufala, con un vino locale. Il mare picchia sugli scogli sotto di noi, le luci di Capri brillano in lontananza come una collana di perle. Sul mare nero come la notte si apre il cielo immenso e maestoso. All’estremità dell’insenatura ondeggiano, non ancora inghiottite dal ventre di tenebre, le lampa-re delle barche dei pescatori. Da qualche parte alla fine del mondo brilla un faro, forse quello di Sorrento. Lo scirocco sfiora con tenero tocco il collo, le braccia e lo spirito, schiuso del tutto a questa notte di piena estate.

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14 La Rassegna d’Ischia 3-4/03

Mat hat, sagen manche, die Insel Ischia nicht gesehen, wem man den Epomeo nicht bestiegen hat. Man muss dazu kein Bergsteiger sein. Während bei Barano im Innern der Insel die Erde terra rossa heisst wegen ihres feuerroten Felsens, ist sie bei Serrara-Fontana malachitgrün. Hier von Fontana aus ist der Aufstieg am leichtesten, vor allem, wenn man die gleichen Schuhe wie die Eingeborenen trägt. Man begegnet Männern, die im Weingarten arbeiten, Mauleseln, beladen mit den Früchten des Landes - den sonnenroten, länglichen Tomaten, frischen Feigen, blauen und grünen, den Melanzane, Zucchine und Peperoni. Der Weg verändert sich ununterbrochen, und immer wieder geben die tiefeingerissenen Schluchten die Sicht auf das Meer überraschend und beglückend frei. Viele der Bergbezwinger reiten das letzte Stück zum Gipfel auf dem Maulesel, das gehört fast schon zur Tradition. Die Mühe wird belohnt. Man sieht die Weite des Meeres und die Unendlichkeit des Himmels in einem überwältingenden Zusammenklang. Man sieht im Nordwestern die beiden Hal-binseln als einen grossen und gerahmten Vulkan, der bis hier herauf wie aus einem Guss erscheint. Man sieht im Western Forio, das so lieblich ist mit seinen malerischen Gassen, versponnen Höfen und seiner kachelgeschmückten Chiesa del Soccorso. Man sieht im Nordwesten die beiden Halbin-seln als einen grossen und kleinen Katzenkopf mit spitzen Ohren ins Meer hineinragen, der kleine mit dem Monte di Vico, der das denkwürdige Ereignis erster griechischer Besiedlung erleben durfte. Man sieht zwischen beiden weit ins Land stossend die Bucht von San Montano. Man sieht im

Pagine di autore

Osten das Kastell der Vittoria Colonna als kleinen Fingerhut. Man sieht im Nordosten Proci-da heiter und zierlich wie ein Blumenbeet, man sieht das Festland mit seinem verwegen geschtungenen Cap Miseno, den grosszügigen Buchten, man sieht Neapel, wie in Perl-muttduft gebettet, endlich als letztes den Vesuv, das Haupt verhüllt, streng, abweisend und grossartig. Himmel und Meer tragen die rote Bahn der Son-ne. Bald wird sie untergehen. In der Ferne zieht langsam wie im Traum ein schönes Schiff.

Spiaggia dei Maronti

Non si è vista l’isola d’Ischia, dicono alcuni, se non si sale sull’Epomeo. A tale scopo non occorre essere un alpinista. Mentre a Barano, all’interno dell’isola, la terra si chiama “Terrarossa”, a causa delle sue rocce rosso-fuoco, essa a Fontana è verde malachite. Qui da Fontana la salita è la più facile, soprattutto se s’indos-sano le stesse scarpe degli abitanti del luogo.

S’incontrano uomini che lavorano nelle vigne, muli carichi dei frutti del posto, i pomodori rossi, lunghi, fichi freschi, blu e verdi, le melanzane, le zucchine, i peperoni.

La strada cambia aspetto di continuo e i burroni pro-fondi offrono la vista sul mare sorprendentemente e fortunatamente libero. Molti degli scalatori s’inerpica-no sui muli per l’ultimo tratto verso la vetta, cosa che fa parte già della tradizione. La fatica viene ripagata. Si vede l’ampiezza del mare e l’immensità del cielo in una maestosa consonanza. Si vedono a NordOvest le due penisole di un vulcano grande e incorniciato che appare fin quassù come di getto. Si vede a Ovest Forio, così ridente con le sue caratteristiche viuzze e i cortili bizzarri e la sua Chiesa del Soccorso rivestita di matto-nelle. Si vedono a Nordovest le due penisole come una testa di gatto grande e piccola sporgere nel mare con le orecchie appuntite, la piccola col Monte Vico, che visse per prima il memorabile evento del primo insediamen-to greco. A Est si vede il Castello di Vittoria Colonna come un piccolo ditale. A Nordest si vede Procida, se-rena e graziosa come un’aiuola di fiori; si vede il con-

tinente con Capo Miseno arditamente arcuato, le insenature generose; si vede Napoli adagiata come in una madreperla; infine per ultimo il Vesu-vio, il capo coperto, seve-ro, scontroso e magnifico. Cielo e mare regalano la rossa orbita del sole. Tra poco tramonta. In lonta-nanza passa lenta come in sogno una bella nave.

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La Rassegna d’Ischia 3-4/03 15

Ischia e Liparidue isole accomunate nella storia (*)

di Gina Algranati

(*) Comunicazione presentata al Centro Studi su l’isola d’Ischia nell’adunanza del 7 maggio 1954 e riportata in Ricerche Contributi e Memorie, atti relativi al periodo 1944-1979, a cura dell’Ente Valorizzazione Isola d’Ischia, maggio 1971.

Il 14 gennaio del 1571 Filippo Il chiedeva da Ma-drid con sua lettera, diretta al duca d’Alcalà, notizie intorno alle ragioni per le quali l’isola di Ischia era stata esentata dal pagamento di contributi e donati-vi e intorno alla vexata quaestio della proibizione di esportar vini dall’isola per Roma.

La lettera è riportata in un documento della Came-ra della Sommaria (1), un fascicolo di viva e partico-lare importanza per la storia dell’isola nel secolo XVI.

Il sovrano, che poneva la sua firma, con la consueta formola « Yo il rey » voleva ora esser bene informato di este negocio. Chiedeva che si esaminassero i libri dei mastri portolani, quelli delle gabelle, i documenti delle Percettorie ed ogni altro atto amministrativo, nonché le numerazioni, da cui risultava diminuzio-ne di popolazione a causa di ratti, rapine, incendi ad opera dei corsari, voleva inoltre notizie intorno alle torri marittime di guardia, la cui spesa gravava sul dissestato bilancio dell’isola.

Cinque anni buoni trascorsero prima che fosse spedita la relazione, firmata il 25 giugno del 1576 dal Presidente della Camera della Sommaria.

Essa è contenuta nel fascicolo, che abbiamo citato, e che ci pone sott’occhio le condizioni di vita dell’iso-la e dei suoi abitanti, nel XVI secolo, ci dà elementi statistici sicuri ed importanti, tratti da libri e registri intorno alle proprietà immobiliari, ai prodotti del la-voro agricolo, alle condizioni economiche degli inde-bitati casali isolani, alla grave sventura delle incur-sioni piratesche.

Dai libri dei ministri del tempo risultava come già la Camera della Sommaria avesse il 26 marzo del 1544 dichiarato attraverso la consulta che per rispet-to ai privilegi di cui Ischia godeva, dovesse l’isola essere considerata libera e franca da tutte le impo-sizioni ordinarie e straordinarie, ed altre consulte si erano dichiarate nello stesso senso, anche quella del 13 gennaio 1561.

Si possono a queste aggiungere, traendole dalla re-lazione, l’esenzione del 1563, che le computava im-

munità dai donativi per cinque anni, cioè dal 25 gen-naio 1563 al gennaio 1568, e, ultima, l’esenzione dal donativo imposto nel 1568 e fino al 1574.

Si decise dunque di inviare «in loco» un ispettore e precisamente uno dei presidenti della regia Camera, il magnifico Antonio Stinca.

E prima ancora si fece il conto di quello che avrebbe l’isola dovuto pagare al governo della Cattolica Ma-està in tasse e in donativi dall’anno 1552 al 1574, se non fosse stata esentata. Da conti fatti sui registri dei Percettori della Provincia di Terra di Lavoro appare come l’isola avrebbe dovuto versare a partire dal 1552 un totale di ducati 13803, tarì 4, grana 1113.

Il governo viceregnale applicando probabilmente il nemine exempto deve esser riuscito a strappare all’isola, sotto uno od altro nome, un contributo, che sottratto dal totale ridurrebbe il debito d’Ischia a du-cati 12672, tarì 4 e grana 91/3 (3).

Perché l’isola fosse stata esonerata non risulta chia-ramente documentato dai libri delle consulte, né si trova sotto la data del 26 marzo 1544 traccia di voto o discussione; e non resta testimonianza alcuna, sal-vo quella del Magnifico Francesco Alvarez de Ribera, che un tempo era Presidente della Camera della Som-maria, e che «non sa che altro motivo potesse avere indotto la Camera a consultare in favore di detta città de Ischia se non vedere che il privilegio dice ad istar liparensium, li quali liparoti non pagano donativi, et cossì questi de Ischia che sono adeguati a quelli per privilegio doveriano ancor esser franchi».

Istar liparensium, dice il documento; o instar li-parensium. Ed ecco apparire sulla scena della storia questa isola, accomunata ad Ischia nei mali e nei pri-vilegi, nella nobiltà e nella miseria. La nobiltà fu esal-tata dalla leggenda e cantata dalla antica poesia; la miseria attestata dalle documentazioni ufficiali.

Ischia e Lipari (4); la natura le aveva già fatte simili, facendole erompere ed emergere attraverso successi-ve eruzioni, disseminandole di crateri (possono en-trambe considerarsi dei crateri), coprendole di lave, di ceneri, di pomici, costruendole con basalti, tufi, ossidiane, irrorandole, fra le rocce tormentate con sorgive minerali e termominerali, note e cantate ad Ischia fin dall’antichità, vantate, con le terme, a Lipa-ri da Diodoro Siculo.

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16 La Rassegna d’Ischia 3-4/03

Ischia e Lipari due isole accomunate nella storia

Il mito vide sotto le cime d’Ischia la prigione del ti-tano Tifeo, spiegando coi fremiti di lui, col suo alito infocato i fenomeni vulcanici e in Lipari pose la fuci-na d’Efesto e la sede di Eolo.

Il tratto di mare fra il golfo campano e la Trinacria salutò molte vele di navigatori esperti e di migratori, che cercavano terre assolate, su cui piantare le loro sedi, o di mercanti attenti agli scambi o di avventu-rieri randagi.

E nelle due isole la natura fece simili in parte l’a-spetto e il clima dolce, fu avara di piogge e prodiga di venti, e di rugiade. Ornò le rocce d’agavi, di fichi d’India, di capperi e permise all’olivo e alla vite d’al-lignare.

La posizione delle due isole è, se non identica, si-mile; son esse come due sentinelle se non a difesa, a guardia della costa, esposte agli attacchi spesso im-provvisi, sempre disastrosi dei corsari. E le due isole vantano una lunga e costante fedeltà alle dinastie, che con l’Italia meridionale, se le son passate di mano in mano.

Ma non seguiremo le due terre attraverso la storia antica e medioevale, le guarderemo quali erano nel secolo XVI, ciascuna col suo castello, prevalentemen-te aragonese in Ischia, normanno a Lipari, coi loro cittadini intenti a lottare contro la miseria e un po’ rassegnati ad essa.

In fatto di disavventure i Liparoti facevano testo; tanto vero che gli isolani d’Ischia volendo conservare privilegi ed esenzioni s’appigliavano a quelli concessi ai Liparoti.

La città et insula d’Ischia non si stava dall’accresce-re con esposti e documenti le pratiche nell’archivio della Regia Camera della Sommaria.

Aveva già dichiarato nel 1544 che, godendo di pri-vilegi, si considerava libera e franca da contributi e donativi. E la Regia Camera della Sommaria aveva ri-scontrato i privilegi concessi da Alfonso 1 d’Aragona, che aveva prediletto l’isola, fortificato e reso dimora degna d’un re il Castello e la costa isolana Aveva ri-conosciuto quelli dettati « in civitate Yscle 27 aprelis 1433 » confermati poi da Re Ferrante in Capua il 10 luglio del 1458.

Allo stesso Consalvo Ferrante di Cordova Gran Ca-pitano e Luogotenente Generale del Regno, gli isolani ricordarono nel 1503 i benefici goduti e a cui credeva-no di aver diritto chiedendo « privilegi, gratie, fran-chitie, immunitate et liberate, quale haveno liparoti... » (5).

Ne avevano o no goduto i Liparoti, nonostante la clausola nemine exempto?

Erano stati trattati «franchi» anche dai donativi? E perché non doveva Ischia godere dello stesso trat-tamento?

Sono tanto simili! Aggiungiamo noi fuorché nel temperamento; ché, nonostante le intrusioni di san-gue orientale, comuni ad entrambe, gli Ischitani si son dimostrati assai più contemplativi degli attivi e tenaci Liparoti.

Non che non vi siano differenze fra le due isole; Li-pari è meglio adatta alla coltivazione; oltre gli alberi fruttiferi vi alligna il cotone e bene si sfruttano i giaci-menti di zolfo, di pietre pomici, d’allume, di nitro, di bitume, di cinabro; Ischia è forse più povera, per sua natura; non meno ridente e sognante.

In fatto di documentazioni, a parte le distruzioni belliche, prodotte negli archivi, Ischia non vanta una raccolta importante come il Libro dei privilegi della città di Lipari; ove tra gli altri si legge quello del 2 settembre 1400, che esentava i Liparoti dal pagare qualunque dazio o diritto per tutto il regno di Napoli, quello di Giovanna Il che lo confermava il 15 genna-io del 1420 e che Alfonso d’Aragona rinnovò da Na-poli un anno dopo, il 18 luglio del 1421 ammettendo anche, tre mesi dopo, i Liparoti a tutte le franchigie godute dai Messinesi, i quali erano i privilegiati per eccellenza nel Regno di Napoli.

Si continuano i privilegi, confermati, arricchiti, a distanza di pochi anni un dall’altro, anche quando, tolta alle dipendenze della Sicilia, l’isola eolia pas-sò nuovamente sotto la giurisdizione del Regno di Napoli; essi riguardano esenzioni da gabelle, tributi vari; riguardano diritti relativi a cause civili e pena-li ed alla stessa navigazione e nemmeno l’accennata clausola nemini exempto è stata applicata ai Liparoti, che non hanno pagato.

Ma il periodo nel quale i privilegi furono un’aspra e inderogabile necessità, fu il secolo dodicesimo, in cui le due isole si trovarono a patire i danni delle scorre-rie piratesche.

Quando con la morte di Ferdinando il Cattolico, Carlo V nel 1516 ne ereditò il trono e s’iniziò la guer-ra franco ispana, durata un ventennio, sulle due isole sorelle s’abbatté il flagello terribile della pirateria, o meglio s’intensificò in modo veramente spaventoso, giacché esso s’inserì nel quadro della lotta tra Carlo V e Francesco 1, quando il re cristianissimo si alleò con Solimano Il detto il magnifico, guerriero, legislatore e mecenate e di Kair ed din, il pirata dalla barba rossa, cristiano rinnegato e terrore del Mediterraneo, fon-datore dello stato d’Algeria, fece il suo ammiraglio, dopo avergli dato il titolo di pascià e averlo nominato emiro degli emiri.

Nel 1544 alla fine di giugno la flotta del Barbarossa attaccò Lipari; Lipari era stata avvertita e si era pre-parata; non cedette, fu assediata. La lotta si conchiu-se con la quasi totale distruzione dell’isola.

Dopo aver saccheggiata ed incendiata tutta la cit-

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La Rassegna d’Ischia 3-4/03 17

tà ed averla ridotta nella più squallida desolazione, il corsaro si partì da Lipari con un ingente bottino, e più di ottomila prigionieri di ogni sesso ed età e lasciando la città completamente spopolata. Il 14 luglio i corsari saccheggiarono Milazzo e si avvicinarono a Reggio, e precisamente a Catona, ove molti dei Cristiani che erano stati fatti prigionieri nelle varie incursioni di Barbarossa furono, specie ad opera dei Messinesi, ri-scattati, e fra questi molti Liparesi. Grave era la con-dizione dei prigionieri, i quali non convenientemente nutriti, venivano lasciati morire di fame, di stenti e poi gettati come funesto ingombro nel mare.

L’impresa di Barbarossa contro i Liparoti è descrit-ta molto dettagliatamente in una cronaca del secolo XVI, che fu popolarissima negli antichi tempi, ma che oggi è dimenticata.

Di essa ci parla Salomone Marino, nelle Spigolatu-re storiche siciliane, che egli andò pubblicando e ne mette in evidenza il grande valore storico (7).

È stata data alla stampa col titolo: La destruttione de Lipari. Per Barbarossa. La verità di parli sic) in cbe modo lo prisi, con lo ritorno di faro. Composta per Giovanni Andria Di Simon (detto lo Poeta). Con gra-tia, e privilegio. Stampata in Venezia et ristampata in Messina per Piero Brea 1594.

Il poeta, angosciato per la grande sventura provo-cata dal Barbarossa, chiude la sua cronaca imprecan-do al pirata.

PARTIU, CHI DIU LU POZZA PROFUNDARI!

Ogni sforzo fu compiuto per fare ritornare Lipari all’antica importanza, e il Vicerè di Napoli, don Pietro di Toledo, sotto la cui giurisdizione l’isola trovavasi, a nome del re Carlo V, il 21 gennaio 1564 confermò a tutti coloro che fossero andati ad abitare in Lipari le grazie, i privilegi, le franchigie e le immunità con-cesse dai vari regnanti agli abitanti di Lipari. Queste agevolazioni spinsero molte genti della Sicilia e della Calabria a trasferirsi nell’isola, di modo che essa pre-sto tornò ad essere notevolmente popolata.

Per quel che riguarda Ischia diremo che quando il Presidente, il Magnifico Antonio Stinca, in obbedien-za agli ordini di Filippo Il e relative decisioni della Ca-mera della Sommaria si recò nell’isola, prese visione d’ogni cosa « minutamente et diligentemente », non solo, ma esaminò particolarmente i libri degli esatto-ri delle gabelle ed altri; e potè constatare come gran parte delle case di detta città « fossero dishabitate et dirute, né si potevano riedificare per l’estrema pover-tà dei cittadini (8).

D’altra parte nell’isola trovò esservi aree coperte da pietre arse e boschi d’arboscelli inutilizzabili; in un casale detto Lacco trovò scarsa popolazione, a cau-sa degli assalti dell’armata turchesca, che l’aveva di-strutto e bruciato.

Trovò invece abitato il casale di Forio («de grande babitatione») ch’era loco aperto (e però molto espo-sto) e ivi pure vide case e magazzini bruciati e distrut-ti «et modernamente fabricatone altre di nuovo».

Questo casale è in parte ricco d’alberi e frutti e viti che rendono vino e in parte petroso e si fa fatica a ri-durlo a coltura specie nella località detta Pansa, dove sono ancora case distrutte e disfatte.

Ivi, alle falde dei monti, in terreni aridi, bianchi, a furia di zappe si seminano «alcune poche victuaglie». Di fronte a Forio, sopra il borgo detto Celso c’è un promontorio lungo un miglio e largo mezzo miglio, coltivato a vigneti, dove «se fa la magior parte de li vini de detta insula e tutti i territori di detto luogo son redditizi (al vescovo, ad altri beneficiati et mona-steri)... Et in lo sopradicto Casale de Forio se vedeno edificate sette torre de particolari citatini, ben munite d’arme, ne le quale se ponno salvare la gente de detto Casale, quando è correria de Turchi».

Ora anche su questo capitolo il re Filippo vuole es-sere informato. E infatti nel secolo XVI mai la Regia Corte ha costruito torri nell’isola (9).

Ciò dev’essere accaduto circa un secolo più tardi, se d’una ci dà notizia il Pasanisi, ma senza darcene né il luogo, né il nome, citando bensì la fonte: Consultatio-num, S. vol. TV, pag. 11 e seg. (10).

Ho però sott’occhio altro documento dell’Archivio di Stato (11), che pone fra le torri da riparare in Terra di Lavoro quella della « Cornacchia » in Ischia, che deve essere stata costruita, se già abbisogna di ripa-razioni, almeno un secolo prima. E che sia regia torre risulta infine da un elenco di torri in Terra di Lavoro.

Il nome della torre risponde al Capo Cornacchia, sulla costa foriana presso il Capo Caruso.

Ma possiamo aggiungere alla torre della Cornac-chia, un’altra regia torre: quella di «S. Angiolo» in Ischia (12).

Ritornando ora alle richieste di Filippo Il, la regia Camera, provveduta di tutta la documentazione, di cui abbiamo dato notizia, non può che ripetere il voto del 1561; e cioè «ad instar liparentium» a conferma dei privilegi goduti siano gli isolani esenti da impo-ste, non compresi però i donativi, dei quali non si è fatta espressa menzione, «etiam che li liparoti goda-no tal franchitia de donativi, poiché è prestatione che sponte se fa...».

L’esenzione è ben giustificata e documentata dalla « impotentia e povertà di detta università.... la steri-lità del loco, li pochi frutti che percepeno con li quali non bastano substentarsi, il caro prezzio che è delle cose del vitto » (13).

«Che se poi si ratizzasse parte del debito che l’isola ha verso il governo, le somme raccolte in anni succes-sivi si potrebbero spendere in benefizio dei cittadini per la «defensione della città».

Infatti l’ingegner Benvenuto Tortelli, reputato tra i migliori fra quelli addetti alla progettazione, co-

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18 La Rassegna d’Ischia 3-4/03

Ischia e Lipari due isole accomunate nella storia

struzione e riparazione di torri, mandato nell’isola, ha fatto anche egli la sua relazione, assicurando che occorre restaurare parte delle mura e provvedere al Torrione; e però diroccare alcune case, per costrui-re terrapieni, con una spesa preventivata in «ducati duecento vinti nove et tarì uno».

D’una questione interessante è fatta nei nostri do-cumenti cenno fugace; l’isola sottostava alla proibi-zione di estrarre (esportare) vini per Roma; e ciò do-veva nuocere evidentemente all’economia locale. Ci spiace non poter seguire le vicende della proibizione e stabilire con sicurezza se fu tolta in seguito dal go-verno del vicerè.

NOTE

I. Archivio di Stato di Napoli Sommaria. Consultationum, vol. 4 cc. 121 136. 2. Come chiede la lettera regia: « se vea particolarmente lo que lo dicha Isla dove por razon delo cor-rido delos dechos donate vos hasta al dia de oy. E dettaglia-tamente si espone ... havemo calculato quello che importa et haveria possuto competere a detta Università de Ycha per li donativi fatti a Sua Maestà Cattolica per questo Regno dal anno 1552 per tutto lo presente anno 20 indicationis 1573 et 1574...

« ... per tutto l’anno VIII indictionis 1550 et 1551, la rata de detta Università è andata ripartita a carrico del Regno a ri-spetto de Sua Maestà, veri vero che detta Università quando non sia francha resterà debetrice ale Universitate del Regno, o a un peso serà de giustitia. Et ritrovamo che ascende ala summa de ducati tridicimilia ottocento et tretanquattro et grana Il 1/13 non compresi però li cinque anni per li quali fo concessa immunità de donativi per Sua Cattolica Maestà e detta Università per oportuno privilegio sub datum die 13 januarij 1563 et lictere de Sua Excellentia deli 18 de febraro 1564, computati dali 23 de Gennaro 1563 per tutto li 22 de Gennaro 1568, videlicct: del donativo deli docati 800 mila dal 3 de Augusto X indictionis 1552 insino al donativo del milione imposto neli anni VI et VlI indictionis per tutto li 22 de Gennaro 1563 docati 8640.2.0 1/4, et dal donativo del mi-lione et 200 mila docati imposti neli anni X et XI indictionis, calculando dali 23 de Gennari XI 1568 per tutto lo presen-te donativo imposto neli anni prime et s ecunde indictionis per tutto Augusto futuro 1574; altri docati 5163.2.11 1112 che gionti insieme fanno la summa de docati 13803.4.11 1/3, de quali per li conti deli Perceptori dela Provintia de Terra de Lavoro in quale è situata detta Città et Insula de Yscha ap-pare essernoli stati exacti ducati mille cento trenta uno et grana XI, videlicet, nel donativo deli docati 150 mila fatto in anno 14,15555 et 1556; ducati 131.10 nel donativo del milione exacto in doi anni, videlicct dal 30 de Augusto 14 indictionis 1556 per tutto lo 3 de Pasca prime 1558; altri docati novecen-tonovantanove, tarì quattro e grana XII, che deducendo detti docati 1131. 2 dali sopradetti docati 13803 tarì 4 e grana Il 1/3 resta che importerìa detto debito per D. 12672.4.9 1/3. Dela quale summa ne è stato significato per questa Regia Camera le precettore de detta Provintia in ducati tremilia cinquecen-to ottantanove e grana VIIII 1/4, videlicet per lo donativo deli docati 800 mila in lo 30 de Augusto 14 D. 151.4 ; per lo dona-tivo deli docati 300 mila in anno XI 1552 et 1553 D. 425.3.13 per lo mancamento dele monete nel monte; del donativo de docati 300 mila in l’anno XIII indictionis 1554 et 1555 do-cati 41.4.11 3/4; per lo supradetto donativo deli D. 150 mila ad complimento de D. 197.1.14 fra magior summa D, 66.1.4; per lo donativo predetto del milione exatto per tutto lo 30 de

Pasca prime ad complimento de D. 1484.0.19 per detti dui anni D. 484.1.7.; per lo donativo deli dui milioni in li anni XV et prime indictionis dela summa de docati 3916.2.4 che competeva a detta Università D. 1958.1.2; et per lo donativo del milione et 200 mila ducati in li anni 4 et 5 indictionis dela summa de D. 1377.1.4. che competeva ut supra D. 460.4.12 ».

3. Et sogionse che poi che si è visto che neli parlamenti se dice nemini exempto par che la Camera babia ritornato a volere exigere da detta città.

4. Dobbiamo al Senatore Leopoldo Zagami un’opera di no-tevole importanza: Le isole Eolie nella storia e nella leggen-da, Messina, 1941, 2• edizione, 1950. Egli cita le note fonti: PIRRO, Sicilia Sacra; DORIA D’ANTONIO, Compendio delle cose occorse al mondo nel tempo dello imperatore Carlo V, Genova, 1571; LEVA (DE) GIUSEPPE Storta, documentata di Carlo V in correlazione all’Italia, Venezia, 1863, ma soprat-tutto si vale di CAMPIS: Disegno storico ossiano le abbozza-te historie della nobile e fidelissima città di Lipari, ms. 1694 Bib. Naz. di Palermo; e del Libro dei privilegi della città di Lipari, che si conserva manoscritto nell’Archivio municipale della città stessa, e che è stato pubblicato in opere varie.

5. Docum. citato.6. Dal Libro dei privilegi della città di Lipari.7. Cfr. «Archivio Storico Siciliano», N.S., anno XXI, fasc.

III IV, Palermo, 1897, pagg. 364 371.8. Doc. citato.9. Dopo l’invio dell’ing. Tortelli in Terra di Lavoro fu rico-

nosciuta la necessità di costruire quattro torri, ma di nessuna in Ischia si parla.

10. PASANISI 0., La costruzione delle torri marittime, ecc, in « Studi in onore di Michelangelo Schipa», 1926, pag. 444 in nota.

11. Camera Sommaria, Consultationum, vol. 189, c. 120 125 lettera del 13 febbraio 1741 (torri da riparare in Terra di Lavoro).

12. Arch. Stato di Napoli. Sommaria, Diversi, 1^ numera-zione, vol. 104 che

dà notizie relative alle torri marittime per gli anni 1776 1794 c. 150 151 (Terra di Lavoro, Pozzuoli ed Ischia).

Segnala: Torre di s. Angelo in Ischia, Torre della Cornacchia in Forio d’Ischia, aggiunge che altra del Casale del Lacco in Ischia è, come una del Monte Miseno di Pozzuo-li, custodita da individui paesani.

18 Doc. cit.

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La Rassegna d’Ischia 3-4/03 19

Il Castello d’Ischia, la sua storia, i suoi personaggi

Alfonso d’Avalosdi Domenico Di Spigna

Nel bruno Castello d’Ischia nacque Alfonso d’Ava-los, marchese di Pescara e del Vasto, l’anno 1502 da Innaco e Laura Sanseverino. Dopo pochi dalla sua venuta al mondo, rimase orfano del padre e nella pri-ma giovinezza, al pari di suo cugino Ferrante d’Avalos (marito della poetessa Vittoria Colonna), evidenziò note d’inclinazione per le armi e le azioni dinamiche. Era di virile bellezza e d’aspetto da uomo di potere, non evidenziando tendenze al gusto dell’arte, ma gra-zie alla disponibilità della poetessa, oramai residente sulla rocca isolana dopo il matrimonio con Francesco Ferrante, avvenuto a fine dicembre 1509, fu tratto sul-la via della cultura e dell’arte tanto da divenirne un mecenate ed allo stesso tempo autore di un poemetto, con reminiscenze autobiografiche (1), nonché di so-netti, in uno dei quali così poetizza:

In mezzo a l’onde salse in fragil legnoun pescator vid’io d’età novella,a cui il fior novo per la guancia bellatratto ancor non avea pur picciol segno.

Egli adoprava ogni sua forza e ingegnoPer gire in porto, e fuggir la procellaChe dietro lo seguia con questa e quellaOnda, mostrando ognor più fiero sdegno.

Ecco i pesi ch’io tolsi, ti ritorno:la rete mia ti donò, e non m’è grave:così con umil voce al mar dicea.

Allor allor si fè sereno il giorno,l’onde tranquille, e il vento aura soavee in braccio nel raccolse Galatea.

Ebbe in amicizia Ludovico Ariosto, poeta e autore dell’immortale Orlando Furioso, opera in cui a lui fa spesso riferimento:

Un cavaliero, a cui sarà secondoOgn’altro, che sin qui sia stato al mondo

Veggio Prosper Colonna e di PescaraVeggio un Marchese e veggio dopo loroUn giovine del Vasto, che fan caraParer la bella Italia ai gigli d’oro:Veggio che entrar innanzi si preparaQuel terzo agli altri a guadagnar l’alloro.

……………………………….Veggio tanto il valor, veggio la fedeTanta d’Alfonso (ché il suo nome è questo),Che il vigesimo anno ancora il sesto,L’Imperator l’esercito gli crede,Il qual salvando, salvar non che il resto,Ma farsi tutto il mondo ubbidienteCon questo Capitan sarà possente (2)

Protesse il noto dipintore Giovanni Francesco Pen-ni che seco trasse a Ischia e, secondo quanto scrive il Buonocore, gli commise parecchi dipinti per chiese di Napoli e la dimora sua d’Ischia. Per vario tempo si è attribuita appunto al Penni una tavola presente nella Cattedrale isclana e ritraente S. Tommaso d’Aquino in adorazione dinanzi al Crocifisso. Poi gli studiosi hanno rivisto tale attribuzione. Giuseppe Alparone avanzò il nome del pittore Silvestro Falanga (3).

Alfonso seguì giovanissimo il già famoso cugino, che lo precedeva in anni, durante le battaglie nel nord dell’Italia, incoraggiato da Vittoria, ricca in ideali, che per l’occasione gli apprestò il corredo, vincendo le in-certezze e i giustificati timori che sorgevano nell’am-bito della famiglia. Cresciuto negli anni e nell’arte bel-lica, divenne sui campi di guerra il continuatore delle gesta del suo consanguineo. Tra gli eventi storici e mi-litari lo troviamo presente al sacco di Roma del 1527, ma anche prigioniero l’anno appresso a Capo d’Orso; si consacra poi vincitore storico della nota battaglia

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20 La Rassegna d’Ischia 3-4/03

1) Esso fu stampato a Verona il 1542. O. Buonocore. ”Storia di uno Scoglio”.2) L’Ariosto allude qui al comando degli eserciti italo-ispani con-ferito ad Alfonso d’Avalos dall’imperatore Carlo V nel 1532, per la spedizione contro Solimano.3) Cfr. Giuseppe Alparone - Maestro del S. Tommaso nel duomo d’Ischia: Pedro de Aponte, Simone da Firenze o Silvestro Falanga? In La Rassegna d’Ischia, anno VII n. 5/agosto 1986.4) Era costui un barbaro italiano che aveva abbracciato la fede musulmana e fu ammiraglio di Solimano.5) Magnifica espressione dell’arte rinascimentale a Napoli, realiz-zata nel 1490 da Giuliano da Maiano, scultore e architetto.6) Come dal suo decreto “De Annata Erigendi” (M. D. X. L. I.) e “Costituzioni del Dominio di Milano” ( M. D. X. L. I.)7) Pronostico satirico, pag. 53.8) Fu battuto e fatto prigioniero nel 1528, sconfitto l’anno dopo a Monopoli, fallì la presa di Volterra e l’assalto di Cortona.9) Gian Battista Castaldo servo fedele di F. F. d’Avalos, fu da questi mandato ambasciatore a Carlo V per svelargli la congiura del Morone.10) L. Contile, Lettere, Pavia, Batoli, 1564. vol. I., pp. 69.11) Lettere all’Aretino vol. II, pag. 88-89.12) Giuseppina Sassi “Figure e figuri del ‘500”. Estratto dalla rivista storica. Anno XII Fasc. V- VI. Società Editrice Dante Alighieri 1928.

di Tunisi, contro il pirata Ariadeno Barbarossa (4), il dì 23 luglio 1535 in modo che può trionfare, accanto all’imperatore Carlo V, entrando a Napoli per la Porta Capuana (4) e riceverne il tripudio.

L’anno seguente, a nome della Spagna, fu gover-natore di Milano (5) sino alla sua dipartita da questo mondo avvenuta il trentuno marzo 1546, nel castello di Vigevano.

Il nostro degno rappresentante della casa d’Avalos, venuta al seguito di Alfonso d’Aragona, alla conquista del regno di Napoli, si era unito in matrimonio con Maria d’Aragona, figlia naturale di re Ferdinando I, la quale, dopo la morte del marito, stabilì la sua dimora sul Castello d’Ischia, tutta intenta all’educazione dei suoi cinque figli: Don Francesco Ferrante (marito di Isabella Gonzaga) che succedette al padre quale go-vernatore di Milano e dell’isola d’Ischia; Don Cesare, che prese parte alla battaglia di Lepanto (1571) e fu cancelliere del regno; Donna Beatrice che sposò il conte di Potenza; Donna Antonia che andò in sposa a Francesco Trivulzio; Don Inaco secondogenito, che fu cardinale.

Viveva in quel periodo il letterato Pietro Aretino, cui tutto il “Cinquecento” s’inchinò iptonizzato dalla paura o dal fascino della sua penna satirica alla quale non poté sfuggire nemmeno Vittoria Colonna; causa di tanto la materna benevolenza di quest’ultima per il giovane cugino di suo marito. Come altri personaggi dell’epoca, Alfonso fu vittima di numerosi libelli da parte del toscano col quale stava in una simulata ami-cizia per reciproco interesse, perché l’Aretino poteva spargere del ridicolo sul Del Vasto “effeminato e am-bizioso”.

Usciva dalle stampe nel 1534 “Pronostico satirico”, feroce contro il d’Avalos: “Il Marchese del Vasto….. non mi vuol rendere 100 scudi che ho dato in Vine-gia per i suoi bisogni a quel venerabile et truffatore et ladro di Giorgio, olim suo favorito (6). E poi…… se Venere sforza a imbellettarsi il marchese del Vasto, che ne posso far io?” Ed infine mette in cattiva luce i dissidi fra lui e Don Pedro di Toledo viceré a Napoli. Il Marchese ch’era uomo saggio, valoroso e ben educa-to, più incline a procacciarsi fama che alla propria ge-nerosità, aveva pur paura di lui, specialmente quando per qualche insuccesso militare (7) poteva maggior-mente temere i libelli dell’Aretino, nella contingenza ancor più pungenti.

Ma ecco che si viene ad un accordo, che ricuce l’a-micizia tra lo sfrontato libellista ed il “pauroso” mar-chese; perché all’uno rendeva denaro per procurarsi lusso e amore, all’altro la lode della gente; il tutto per mezzo di Vittoria Colonna, intermediaria dall’alto del-la sua gentile e affettuosa autorità. Non è improbabile un incontro tra la poetessa, suo marito Ferrante e l’A-retino, con pensione a quest’ultimo, come si evince da una lettera datata 15 maggio 1534, del Castaldo (8) al poeta toscano che forse sollecitava a distanza di anni l’invio della somma; “non voglio lassar di dirvi che la

signora marchesa di Pescara attenderà quanto v’ha promesso”. Tra le tante accuse, in pubblico e in priva-to, dovevano nelle intenzioni del delatore, screditare il marchese presso l’imperatore Carlo V, ma così non fu perché quest’ultimo pietoso verso il suo generale e timoroso dello stesso Aretino, così scrisse al lettera-to: “io voglio essere mezzano a rendervi amici”. Ci fu d’altra parte ancora una mediazione tramite il fedele segretario di Alfonso, Luca Contile (9) nel settembre 1545 per riappacificarli, esprimendosi in tali termini nella sua epistola: “non v’offerisco quel poco che pos-so appresso di S. Eccellenza, perché quei principi che non si muovono al bellissimo grido de la fama vostra, meno potrà muovergli la qualità d’un servidore loro” (10).

Ci furono risposte del poeta toscano, ma oramai a nulla più servivano, perché Alfonso vinto dalle scia-gure, angherie e mali di salute, si spegneva di podagra in Vigevano il trentuno di marzo 1546; il giorno pre-cedente il Contile così scriveva all’Aretino: “ma piace a Dio averlo tirato quasi fuori di questa vita et oggi s’appressa all’ultimo passo, di sorte che speranza na-turale consolar corpo è universalmente e con gravis-simo cordoglio pianto”. E l’Aretino che ne avvertiva il Tiziano così s’esprimeva “il Marchese del Vasto è morto non di flusso, o di vomito, imperochè dalla fe-rita che la giornata di Carignano gli diede nell’animo è nato il suo fine” (10).

Domenico Di Spigna

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La Rassegna d’Ischia 3-4/03 21

rassegna Premi

Premio di Poesia Nazionale “Termopili dʼitalia”

I Edizione 2003 Castel Morrone

Una sezione dedicata al Card. Luigi Lavitrano

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Card. Luigi Lavitrano

di Alessandro Marra

Nato a Forio il 7 marzo 1874 da Leonardo, un modesto fabbro, e da Giuseppina Musella, una venditrice ambulante originaria di Ventotene, Luigi Lavitrano con la sorella Fran-cesca restava orfano del padre ad appena otto anni. Dopo il disastroso terremoto del 28 luglio 1883 la vita di questa già povera famiglia dive-niva ancora più incerta e difficile. All’indomani del terremoto giunge-va a Forio per aiutare la popolazione isolana, suor Antonietta Westho-wen, superiora dell’istituto delle Fi-glie della Carità di Castel Morrone, piccolo centro agricolo presso Ca-serta, che in questa occasione cono-

sceva, tra gli altri, anche Giuseppina Musella, i suoi figli e prestava loro ogni possibile soccorso spirituale e materiale. In accordo con la ma-dre, la religiosa di origine fiammin-ga strappava dalla cruda miseria il piccolo Luigi e lo portava con se a Castel Morrone presso la casa reli-giosa delle Figlie della Carità, dove questo ragazzo dinamico ed intelli-gente, ma totalmente privo di mezzi economici, poteva completare con profitto la istruzione elementare. Terminato il corso di studi primari, la religiosa affidava Luigi Lavitrano a padre Filippo Valentini, che aveva aperto una scuola della Congrega-zione della Missione a Patrica, pres-so Roma, dove il giovane compiva

brillantemente gli studi liceali, pri-ma di conseguire nel 1897 la laurea in teologia. Il 26 marzo 1898 Luigi Lavitrano veniva ordinato sacerdote a Roma nella basilica di S. Giovan-ni in Laterano e poi, su disposizione del vescovo di Ischia, faceva ritorno a Forio per insegnare nel seminario dell’isola.

Ritornato a Roma, ricopriva incari-chi di crescente responsabilità, pri-ma l’ufficio di vice-rettore presso la Scuola Apostolica, poi di direttore della prestigiosa rivista <<Il Moni-tore ecclesiastico>> (1910 – 1914), infine, di rettore del Collegio Apo-stolico Leoniano, di procuratore della S. Congregazione dei Riti, di ponente in varie cause di beatifica-zione, di consultore della S. Roma-na Rota e di vari dicasteri vaticani. Il 25 marzo 1914 veniva nominato vescovo di Cava e Sarno ed il 16 lu-

La Giuria del Premio, composta dagli alunni della terza media della Scuola Media “Giovanni XXIII” di Castel Morrone, dopo aver selezionato una rosa di 25 poesie finaliste, sulle 249 perve-nute, ha stilato la seguente classifica finale rela-tivamente alle prime dieci posizioni con diritto ai premi messi in palio dall’organizzazione (Prof. Alessandro Marra, avv. Michele Marra, prof. Giu-seppe Pepe, segretaria Francesca Prata):

1) L’amore è un clik di Antonio Pisano di Fucecchio (Fi-renze);

2) Sogno d’estate di Poscia Augusto da Cassino;3) Buio spinato di Esposito Mario da Caivano (Na);4) Parlami d’amore di Giovanni Pizzuttelli da Frosinone ;5) Per te di Giardini Giulia Maria da Roma;6) Adolescenze di Marilina Frasci da Cesenatico ;7) La stella di Guido Torre di Torino;8) Il cieco di Angelo Di Fazio da Genzano di Roma;9) Nel tuo cuore di Ivana Federici da Pianello Vallesina,

Ancona ;10) Alle mie piccole donne di Sabato Bufano Eboli.

La giuria tecnica, composta dai critici Ing. Giorgio Agnisola, Dr. Vincenzo Battarra, Prof. Aldo Cervo, ha provveduto ad assegnare il Premio “ CARDINALE LU-IGI LAVITRANO “ alla poesia “Terra mia” di Naro Maria Concetta .

Un premio ,infine, è stato conferito alla poesia “Ven-demmia” del poeta Nicola Serra, che ha partecipato, unica lirica alla selezione finale sia del Premio “Termo-pili d’Italia” che “Cardinale Lavitrano” essendo stata scelta sia dagli alunni della scuola media che dalla giu-ria tecnica.

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22 La Rassegna d’Ischia 3-4/03

Premio Ischia Internazionale di Giornalismo

Organizzato dall’Associazione “Premio Ischia”Alto Patronato del Presidente della Repubblica

Patrocinio Ordine Nazionale dei Giornalisti

Spazio Donna 2004

Il Centro Culturale del Mezzogiorno Presenza, col patrocinio dell’Am-ministrazione Comunale di Striano indice ed organizza l’VIII edizione del Premio Nazionale di Poesia e Narrativa Spazio Donna 2004 con lo scopo di porre in rilievo, diffondere e valorizzare le molteplici tematiche del mondo femmninile.Il Premio si articola nelle sezioni di Poesia inedita e Poesia edita, Narrativa edita e Narrativa inedita. Scadenza per l’invio dei lavori: 30 novembre 2003. Per informazioni Redazione di Presenza, Sez. Concor-si, Via Palma 89, 80040 Striano (Na).

glio 1924 promosso arcivescovo di Benevento. Durante la permanenza alla guida delle due diocesi campa-ne, Luigi Lavitrano profuse tutte le sue forze per la cura delle anime, per prestare ogni soccorso possibile, in particolare, ai tanti orfani di guerra del primo conflitto mondiale; apriva asili infantili presso le parrocchie, teneva nel 1921 a Cava e Sarno il Si-nodo e nel 1927 a Benevento il Con-cilio plenario regionale. Nel conci-storo pubblico del 19 dicembre 1922 Pio XI nominava sei nuovi cardinali, tra essi Luigi Lavitrano ed Eugenio Pacelli (1876 – 1958), il futuro papa Pio XII (1939). Il 29 settembre 1928 mons. Luigi Lavitrano veniva nomi-nato arcivescovo di Palermo. Il 13 settembre 1930 questo figlio di un umile operaio di Forio, ritornava da arcivescovo di Palermo e da car-dinale nell’isola natia, accolto con

grande entusiasmo popolare e con ogni riguardo. Nel suo paese natale di Forio faceva ritorno più volte, in forma solenne ancora nel 1948 per il 50° anniversario di sacerdozio. Nel 1933 ritornava per una breve visita anche a Castel Morrone, dove visita-va i luoghi della prima formazione a lui così cari. Nel capoluogo siciliano il nuovo vescovo teneva in quello stesso anno il Sinodo diocesano, eri-geva poi nuove parrocchie, la chiesa Rigina Pacis, favoriva il movimento unionistico con le Chiese separate d’Oriente, cercando di superare le divergenze storiche e dogmatiche attraverso l’attività dell’associazione “Pro Oriente Cristiano”, si adope-rava per istituire una diocesi di rito greco, che sorgeva nel 1937 a Piana degli Albanesi. Durante la seconda guerra mondiale il card. Lavitrano restava al fianco e portava conforto

alla popolazione siciliana afflitta da-gli scontri, dalla fame e dai bombar-damenti, ed in segno di gratitudine civile la città di Palermo gli decreta-va la cittadinanza onoraria. Passata la tempesta della guerra, il 6 agosto 1945 Luigi Lavitrano lasciava la ca-rica di arcivescovo di Palermo, de-tenuta per circa 17 anni, e ritornava a Roma, dove il 14 maggio di quello stesso anno Pio XII lo aveva nomi-nato prefetto della Sacra Congrega-zione dei Religiosi, dicastero ponti-ficio delegato a trattare e coordinare l’attività di tutte le famiglie religiose nel mondo. Il 2 agosto 1950 il cardi-nale moriva a Castelgandolfo. I suoi resti mortali riposano nella basili-ca di Santa Maria di Loreto a Forio d’Ischia; sulla tomba una semplice scritta: labor et dolor vita mea fuit

*

Il 12 luglio scorso si è tenuta la XXIV edizione del Premio Ischia vinta da Ferruccio De Bortoli, già direttore de “Il Corriere della Sera”, cui è stato assegnato il Premio Ischia Internazionale di Giornalismo.

La giuria, presieduta da Biagio Agnes, e composta da Valentina Alazraki, Giulio Anselmi, Antonio Bassolino, Antonio Bernardi, Loren-zo Del Boca, Paolo Gambescia, Al-berto Giordano, Gianni Letta, Mario Orfeo, Pierluigi Magnaschi, Pasqua-le Nonno, Mario Pirani, ha nomina-to giornalisti dell’anno per la sezione carta stampata Mario Cervi, per la TV Alessandro Cecchi Paone, per la radio Ferdinando Pellegrino, per le agenzie di stampa Piercarlo Presutti.

Per la foto dell’anno è stato invece scelto uno scatto di Anja Niedring-haus di A.P.

Premio speciale alle giornaliste della RAI, di Mediaset e de La 7 che

hanno onorato in maniera straor-dinaria la professione, assicurando un servizio tempestivo sulle azioni di guerra in Iraq e mettendo in luce doti di competenza, coraggio e dedi-zione: per la RAI Giovanna Botteri, Maria Cuffaro, Tiziana Ferrario, Lilli Gruber, Monica Maggioni. Per MEDIASET Vera Baldini, Mimosa Martini, Anna Migotto, Gabriella Si-moni. Per LA7 Gabriella Caimi.

Il premio speciale alla carriera è andato invece a Antonio Ghirelli. Un targa è stata consegnata a Elio Spa-rano in occasione del cinquantesimo anniversario del primo telegiornale italiano.

I vincitori del Premio Ischia in ri-cordo di Angelo Rizzoli, riservato ai professionisti under 35, sono invece stati scelti in base ad un sondaggio tra i direttori della testate italiane. Il premio è andato a Anais Ginori (la Repubblica) per la carta stampata,

Veronica Gervaso (TG5) per la se-zione TV, Dario Maltese (TGcom) per la sezione nuovi media.

La borsa di studio della Regione Campania intitolata al giornalista dell’ANSA Marco Suraci, e riservata al neo professionista con il miglior punteggio all’esame di idoneità è stata vinta da Mario Portanova.

L’appuntamento è per luglio 2004 al piazzale del Soccorso a Forio per festeggiare i 25 anni del premio.

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La Rassegna d’Ischia 3-4/03 23

Testimonianze epigrafiche - Fonte di Nitrodi (Buonopane)

I rilievi votivi con dedica ad Apollo

e alle Ninfe Nitrodidi Stefania Iapino *

* Questo articolo fa parte della Tesina didattica in Epigrafia latina, presentata alla Scuola di Specializ-zazione in Archeologia Classica e Medievale presso l’Università degli Studi di Salerno.

La fonte di Nitrodi (in Ischia di Gina Algranati)

Una testimonianza più antica dell’utilizzo dei Bagni che allora reca-vano il nome di “Nitroli” e sicuramente la prima per quanto concer-ne il rinvenimento di bassorilievi marmorei con dedica, ci è offerta da un’aggiunta del Dottor Filosofo Giovanni Pistoja, riportata dal medico napoletano Giulio Jasolino nel suo scritto De’ rimedj naturali che sono sull’isola di Pithecusa, oggi detta Ischia, Napoli 1685, pp.3 ss.

Il Dottor Pistoja, riferendosi all’anno 1588, scriveva a proposito di det-to “Bagno”: “Sta situato sopra la montagna di Barano dove da certi sassi sgorga un’acqua limpida, senza sapore veruno e calda, benché si raffred-di senza molta industria, quale si univa, e formava un certo laghetto ivi vicino. Di quest’acqua come che leggerissima se ne serve tutto il vicina-

to, si per bere, come per preparare le vivande e nettare i panni” poi prendeva a parlare del rin-venimento delle due prime, e più antiche, la-stre votive che, fin dalla fine del ‘500, andarono smarrite. “Poco lungi stavano alcuni figliuoli a sbarbicare il terreno, mentre era stato solito ri-trovarvisi, sotto alcune pietre dirute, certe mo-nete d’ottone: e con quest’occasione avevano dissotterrati due marmi antichi de’quali a uno, che aveva forma di parallelogrammo di due palmi di lunghezza e uno di larghezza, stavano scolpiti due alberi, e sottovi un puttino guidato per le mani da due donne, con questa iscrizio-ne VOTO; a l’altro, che era in forma quadrata di un palmo e mezzo per faccia, vi erano im-pressi nell’angoli quattro vasi da portar acqua col motto, (che per essere il marmo rotto era diminuito) che diceva LINFA VMBR...Da tut-to ciò si può scorgere l’efficacia meravigliosa di cotal acqua, quale sicome stimo non era credu-ta inferiore a quella tanto, e da tanti rinomata di Umbria. Questi marmi volendo io portarli qui in Napoli li feci tragittare fino alla marina, e poi o per incuria o per malizia dei marinai si lasciarono nell’imbarco”.

La presenza di monete “d’ottone”, ma evi-dentemente di bronzo, cui faceva riferimento il filosofo, nei pressi della sorgiva, deve essere, a

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24 La Rassegna d’Ischia 3-4/03

I rilievi votivi con dedica ad Apollo e alle Ninfe Nitrodi

1 Agostino Lauro (cfr. A proposito di un manoscritto della Biblioteca Nazionale di Napoli, in Archivio storico per le Province Napoletane, Napoli 1970, p.339-347) ha rac-colto una serie di prove allo scopo di svelarne l’identità, giungendo, infine, alla conclusione che si tratta del canonico Vincenzo Onorato, cui, tra l’altro, farebbe esplicito riferimento J.E. Chevalley De Rivaz nel suo scritto De-scription des eaux minéro-thermales et des étuves de l’île d’Ischia.

mio avviso, messa in relazione alla natura del culto: anche esse proba-bilmente figuravano quali ex-voto posti nell’area sacra allo scopo di omaggiare le divinità titolari, di-spensatrici, attraverso le acque, di miracolose guarigioni. Purtroppo la perdita di esse non ci consente di avallare tale ipotesi.

Il passo si conclude con una testi-monianza sulle proprietà diuretiche e purificanti dell’acqua, se bevuta con regolarità. Riportando ancora una volta le parole del Pistoja: “Di detta acqua se ne servono ad ogni loro uso i Paesani di detto luogo di Barano con mantenimento del-la salute stimandola balsamo per nettare e conservare le viscere. Io ancora servendomene a tutto pasto ne sentij giovamento notabile per farmi abbondantemente orinare, e ciò giudico sia per qualche miniera di Nitro, che vi si trovi, donde avrà possuto pigliare il nome di Nitroli”.

Il medico Jasolino, nell’opera so-pra indicata, scritta sul finire del ‘600, descriveva appunto la natura delle acque di Nitroli (tale deno-minazione resterà in uso fino alla prima metà del XX secolo, poi so-stituita dalla più recente Nitrodi), riferendosi anch’egli alle proprietà digestivo-diuretiche di essa, alla sua calda scaturigine ed in generale un po’ a tutte le sue qualità.

Ma, dato interessante è il riferi-mento alle donne del posto “...sono di buona abitudine di corpo, e belle, perché ogni dì stanno in quell’acqua per lavare i panni e ogni dì l’usano. Questa è più utile a figliuole e a put-ti, che all’altre nature bevendola e usandola in bagno” ed alla longevi-tà degli uomini che ne fanno uso “Il Casale è piccolo, pure parte per l’a-menità del luogo, e dell’aria, e parte ancora per le acque, a molti uomini vecchi, che passano novanta anni”.

Ecco così fatto rimando ad un tipo di impiego dell’acqua anche nella toilette femminile, con con-seguente giovamento per l’aspetto fisico, risultante, grazie ad essa, più gradevole.

Seguitando nel vaglio bibliografi-co, quella che senza dubbio può es-sere definita la prima attestazione della scoperta delle tavole fino ad oggi conservate, si riscontra in un passo di un manoscritto adespoto (conservato nella Biblioteca Nazio-nale di Napoli), dal titolo Raggua-glio Historico Topografico dell’Isola di Ischia, datato alla metà del XIX secolo.

L’anonimo autore scriveva a pro-posito dell’acqua di Nitroli che essa esce “calorosa” e “che serve per uso di bagni, e di salutare via più per be-verla, e per tutte le occorrenze della famiglia, e contiene del molto puri-ficante nitro”.

Poi, dopo aver riportato la notizia della scoperta nel 1588 delle due se-gnalate tavole, ripresa interamente dallo scritto del Pistoja, si dilunga nella narrazione del rinvenimento delle restanti che egli fa risalire al XVIII sec. e precisamente all’anno 1757.

In occasione della realizzazione di alcuni fossati nei pressi della Rupe di Nitroli riferisce l’Anonimo: “...ta-luni scavatori scovrirono un gruppo di belle e bentirate tavole di mar-mo”. Saputa la notizia il Signor Del-la Guardia del Castello (suppongo il Maschio Angioino di Napoli) fece proseguire gli scavi, ottenendo di conservare per sé nel castello stes-so tutti i rilievi ritrovati. Ma, di lì a poco, la notizia giunse alle orecchie del Sovrano che intimò di deporle nel Real Museo, divenuto poi il Mu-seo Archeologico di Napoli, dove ancora oggi sono esposte nella sala dedicata a Pithecusa.

L’Anonimo ne riporta la lunghez-

za in palmi e ne descrive accurata-mente una, evidentemente quella che lo aveva affascinato maggior-mente “Le stesse erano di lunghez-za circa palmi quattro e di larghezza palmo uno e mezzo, con belle iscri-zioni incise in lingua pura latina, e greca; dedicate alla Ninfa Nirolide. In una di esse si osservava scolpita una donna co’capelli sciolti; un’al-tra donna con un vaso nelle mani, la quale dinosacra bagnava e poscia la testa di quella donna stava scarmi-gliata. La stessa ricevutane la sani-tà, dové dedicare alla ridetta Ninfa Nitrolide quel bel gruppo di tavole marmoree fornite d’iscrizioni, e di figure sculpite, che poi o dalle vul-caniche eruzioni dell’isola istessa, e dalle ceneri sramandate o pure dallo sbocco del Vesuvio vennero sotterrate. Le medesime dovevano essere fatte nel tempo che la lingua latina e greca erano nella di loro au-rea purizia”.

Il rilievo cui si riferisce l’autore è uno dei più conosciuti del gruppo; esso riporta la dedica alle Ninfe di una tale CAPELLINA ed è stato so-pra descritto ed analizzato.

Orbene, questa testimonianza così antica si conclude con una sor-ta di rammarico espresso dal più volte richiamato Anonimo, non solo perché non gli fu concesso di “tirare la copia dell’iscrizioni”, ma anche e soprattutto perché nessun cittadino o ecclesiastico si diede cura di conservare le monete e le medaglie rinvenute nel sito verso il XV e XVI secolo.

Ecco, così, un ulteriore riferimen-to al recupero di ex-voto monetali, e per di più, di medaglie nei pressi della sorgente.

Nel 1835 J.E. Chevalley De Rivaz, occupandosi delle acque termali dell’isola d’Ischia , accennava alla scoperta dei rilievi presso la sorgen-te di Nitrodi e riportava l’iscrizione ed una breve descrizione di nove di essi, senza, tuttavia, dilungarsi mol-to sull’argomento.

Una trattazione più approfondita si riscontra nella Storia delle Due

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La Rassegna d’Ischia 3-4/03 25

a) Nell’isola d’Ischia nel luogo già detto Nitroli, nella valle di Forio, presso Serrara, dove sono i bagni, fu scavato un sacrario di Apollo e delle Ninfe Nitrodi, con tredici bassorilievi poi portati nel Museo pubblico di Napoli.2 Mommsen, CIL, X, pp.679-680, nr.6786, 6787, 6788, 6789, 6790, 6791, 6792, 6793, 6795, 6796, 6797, 6798, 6799.3 Lidia Forti, Rilievi dedicati alle Ninfe Nitrodi, in Rendiconti della Accademia di Archeologia Lettere e Belle Arti, vol.XXVI, Napoli 1951,

b) Il culto delle Ninfe era comune in Campa-nia, specialmente lungo le coste dove erano abbondanti le sorgenti termali. Un altro luogo del loro culto era sulle rive del Lago di Bracciano nel territorio che appartenne anticamente all’Etruria.4 Cfr. Peterson R.M., The cults of Campania, vol.1, Roma 1919, pp.220 ss.5 Mommsen, C.I.L. X, 6791: A. AVIANIVS CILO LYMPHIS V.S.L.M.6 Mommsen, C.I.L. X, 2133.

Sicilie redatta da Nicola Corcia nel 1845.

Anche quest’autore, come il pre-cedente, trattando della ricchezza delle acque termali isolane, addu-ceva quale testimonianza della loro antichità i rilievi stessi, che chiama-va erroneamente “are votive” , de-scrivendoli sommariamente e rife-rendone alcune iscrizioni.

Che non si tratti di altari votivi si comprende chiaramente osservan-do il retro di essi che, nella maggior parte, presentano degli incassi e, in alcuni casi tracce di piccole “mani-glie”, o anse che dir si voglia, facen-do così supporre una loro specifica collocazione nelle pareti rocciose adiacenti la sorgente in questione. Si fa, tuttavia, eccezione per un ri-lievo strutturato palesemente come un’arula, recante una duplice iscri-zione votiva in lingua greca e latina .

Di lì a poco, nel 1867, Giusep-pe D’Ascia, ripercorrendo le tappe storiche dell’isola d’Ischia, nella sezione dedicata ai culti, riferiva la particolare venerazione dei Roma-ni, antichi abitatori dell’isola, per Apollo “per la virtù delle acque”, come testimonierebbero, a detta dell’autore, e le tante monete “...le quali avevano, molte fra esse, nel diritto una testa imberbe galeata, e nel rovescio una capra col piè drit-to chi alla radice di un lauro, chi a sostegno di un corvo, tutti emblemi di Apollo”, ed ancora i basso rilie-vi: “In tutti i bassi-rilievi ritrovati in quest’isola, si scorge non mancarvi mai Apollo, coronato di lauro fre-quentemente, o vestito, o ignudo, or colla lira, or presso ad un lauro, or col corno vicino, or col grifone a piedi, uccello dedicato ad Apollo”.

Egli faceva in seguito accenno all’associazione del culto del dio con quello delle Ninfe Nitrodi, identificando erroneamente il rilie-vo raffigurante una “donna coi ca-pelli sparsi, con una serva occupata a versarle dell’acqua sulla testa” (il cui ritrovamento, a detta dell’A-nonimo del Manoscritto , si pone verso la metà del ‘700), con uno dei due rilievi di cui parlava il Dottor Pistoja , rinvenuti all’incirca due se-coli prima.

Il rilievo in questione con dedica a CAPELLINA (e non Cappellina come si riporta), secondo quanto scriveva il D’Ascia fu “scavato alla spiaggia di Citara”. Ebbene, siffatta notizia non trova riscontro in nes-sun altra documentazione di epoca precedente a tale testo, infatti, l’A-nonimo stesso, come da me sopra informato, lo diceva rinvenuto pro-prio nei pressi della fonte Nitrodi, che sgorga nella parte meridionale dell’isola, mentre la spiaggia di Ci-tara, cui fa riferimento l’autore, si trova, tutt’oggi, sul versante oppo-sto, quello nord-occidentale.

Di tutto quanto esposto, la cosa interessante è la descrizione tipo-logica delle monete, giustamente associate al culto di Apollo, sul cui contesto di rinvenimento l’autore, purtroppo, non fa alcun cenno spe-cifico e che, pertanto, potrebbe col-locarsi in qualsiasi altro sito dell’i-sola.

Verso la fine dell’800 il Mommsen , nel decimo volume del Corpus In-scrizionum Latinarum, nella sezio-ne dedicata alle epigrafi campane sotto la voce Aenaria Insvla, così riferiva “in insula Ischia in loco adhuc dicto Nitroli in valle Foriae prope Serraram, ubi thermae sunt, sacrarium Apollinis et Nympha-rum Nitrodarum eruderatum esse et tredecim inde anaglypha illata in museum publicum Neapolitanum”, dimostrando di non conoscere l’e-satta topografia del sito. Infatti il luogo da lui detto “valle Foriae” è l’attuale Forio, uno dei sei Comuni dell’isola d’Ischia posto quasi agli antipodi del Comune di Barano ospitante il fonte di Nitrodi.

Egli comunica il ritrovamento di tredici anaglipha (rilievi) offerti

ad Apollo ed alle Ninfe Nitrodi ri-portando, per ognuno di essi, una breve descrizione, l’iscrizione e dei riferimenti bibliografici.

Tuttavia di uno di essi, quel-lo contrassegnato dal n°6795, nel 1965, anno in cui la studiosa Lidia Forti pubblicava l’articolo frutto del suo studio , non si aveva più alcuna notizia supponendo che esso fosse stato smarrito o con più probabilità dato in dono o venduto.

In realtà esso è ad oggi esposto nel Museo Archeologico di Napoli tra gli altri rilievi ed anche il cal-co che vi si trasse (in epoca molto antica, stando al parere di alcuni studiosi) è custodito nella sezione romana del Museo Archeologico di Pithecusae in Lacco Ameno insieme con gli altri.

Al contrario risulta non rintrac-ciabile quello indicato con il n°6786 , pur essendo visibilmente presen-te in testi pubblicati abbastanza di recente; secondo le notizie d’archi-vio raccolte, esso è stato rubato nel 1989, durante i lavori di sistemazio-ne di alcune sale del museo.

Il secolo XX risulta di gran lunga più interessante dei precedenti per quanto concerne gli approfondi-menti dell’argomento ad oggetto: si cercava di far luce sul culto delle Ninfe e di Apollo e, nel contempo, si stilavano commenti più accurati delle tavole epigrafiche.

Uno dei primi ad approfondi-re l’aspetto sacrale legato a queste ultime, fu l’americano Roy Marle Peterson , il quale nel 1919, rife-rendosi alle Ninfe, scriveva in nota : “The worship of the Nymphis was common in Campania especially along the coast where springs were abundant. Another important seat of their cult was on the shore of Lake Bracciano at Vicarello in the

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26 La Rassegna d’Ischia 3-4/03

I rilievi votivi con dedica ad Apollo e alle Ninfe Nitrodi

7 Cfr. Ruesch A., Guida illustrata del Museo di Napoli, I, 1911, nr.674, 676, 678, 682, 684, 687, 689, 694, 696, 698, 700.8 Cfr. Algranati G., Ischia, Bergamo 1931, pp.46-52.9 Forti L., op. cit.10 Colgo l’occasione, in questa sede, per ringraziare il caro Padre per la sua cortese dispo-nibilità e sempre pronta partecipazione ai miei progetti culturali.11 Detti ex-voto sono attualmente custoditi nel “Museo di S.Restituta” in Lacco Ameno e sono datati al III secolo a.C. circa.12 A tal proposito il sacerdote mi raccontava della difficoltà da lui incontrata nel riprodurre in fotografia dette lastre, in quanto esse erano esposte all’aperto e, pertanto, si presentavano in un pessimo stato di conservazione.

Buonopane - La fonte di Nitroli con carabinieri in perlustra-zione; si notino sulla destra le donne intente a lavare i panni.

territory that belonged in ancient times to Etruria”.

Ancor più interessante, per la vi-cinanza geografica, è il riscontro di tale culto nella città di Puteoli, sulla base di un’iscrizione, assegnata dal Mommsen ad Ischia ma dal Beloch alla sopra citata città, in cui si fa ri-ferimento a queste divinità con la denominazione di Lymphae . L’au-tore sembra condividere l’opinione del Beloch per il fatto che il dedi-cante A. AVIANIVS CILO è menzio-nato anche in un’altra epigrafe che proviene certamente da Puteoli .

Ancor prima del Peterson mi è doveroso ricordare la rassegna di queste iscrizioni riportata nella Guida illustrata del Museo di Napo-li , redatta da A.Ruesch e che ancora oggi costituisce una valida fonte di ragguagli sulle opere conservate nel Museo stesso.

Gina Algranati , nel 1931, scri-vendo a proposito delle divinità tutelari degli isolani, nel periodo in cui Ischia cadde sotto il dominio di Roma, riferiva: “Aveva allora l’isola a maggior nume Apollo, come Dio della salute, e accanto a lui erano le Ninfe nitrodiche che proteggevano le sorgenti salutifere, la cui diffu-sione è largamente dimostrata dal-le numerose iscrizioni in onore di Apollo e delle Ninfe, che si leggono sui bassorilievi votivi rinvenuti in prossimità delle sorgive”.

L’autrice faceva poi cenno al mar-mo di CAPELLINA adottando chia-

ramente come punto di riferimento bibliografico lo scritto del D’Ascia, infatti scriveva: “...graziosissimo è il marmo di Capellina, che qui vien ri-prodotto, e in cui si vede che l’acqua di Citara in Forio, presso la quale fu ritrovato, tra l’altre virtù ha quella di rendere opime le chiome”.

Per quanto concerne una simile attestazione, confermo quanto det-to in precedenza: proprio il D’Ascia ha dato inizio ad un filone di tradi-zione diverso circa la provenienza del rilievo in questione.

Ancora la Algranati cadeva nell’errore già commesso qualche anno prima da Nicola Corcia di definire le tavole iscritte “altarini” mentre, come ho già specificato, esse figuravano appese alle pareti rocciose e solo in un unico caso si può parlare di altare votivo.

Il più ampio resoconto intitolato ai nostri rilievi si deve all’archeolo-ga Lidia Forti la quale, intorno alla metà del secolo scorso, analizzan-doli singolarmente si soffermava molto sull’aspetto iconografico, cer-

cando dei paralleli o, in gene-rale, dei possibili confronti con statue, rilievi ed altre sculture a noi giunte dal mondo greco-romano.

Il sacerdote Don Pietro Monti , nel volume “Ischia Al-tomedioevale” pubblicato nel 1991, al capitolo XII dedicato alla località di “Murupano” e alla sorgente di Nitrodi, oltre a presentare delle brevi sche-

de di undici dei tredici rilievi votivi, forniva importanti notizie circa il ri-trovamento di statuine fittili dona-te, quali ex-voto, ad Apollo ed alle Ninfe.

Si tratta per la maggior parte di immagini frammentarie, due testi-ne e quattro busti, evidentemente riproducenti gli stessi offerenti; nelle due testine si riescono ad indi-viduare una figura maschile ricciuta ed una femminile con copricapo lu-nato e lunga capigliatura .

Come ho avuto modo di appren-dere dallo studioso in persona, al-cune genti del posto le custodivano con molta cura, indicando, appun-to, i pressi della sorgente come il sicuro luogo di rinvenimento.

Inoltre, fatto interessante è nota-re che una delle lastre, di cui ho già fatto cenno e che attualmente non figura tra le altre nell’esposizione museale, era stata fotografata ed inserita nella breve rassegna dello studioso, quindi ancora visibile ai principi degli anni ’90 del secolo scorso.

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La Rassegna d’Ischia 3-4/03 27

I rilievi votivi I rilievi sono qui di seguito analizzati seguendo la numerazione con cui essi sono esposti nella sala intitolata a Pithecusa nel Museo Archeologico di Napoli (1). I calchi di detti rilievi sono anche esposti al Museo Archeologico Pithecusae di Villa Arbusto in Lacco Ameno.

(Fig. 1) Descrizione - Rilievo in marmo grechetto (2), alto 29 cm e lungo 52 cm circa, privo di cornice e rotto negli angoli, in alto a sinistra e in basso a destra (3). Esso raffigura Apollo e tre Ninfe ed è anepigrafo. La superficie molto corrosa non consente di avere un’imma-gine chiara dei volti dei soggetti, tuttavia, si riconoscono: il dio, vestito di lungo chitone cintato, che regge la lira con la mano sinistra e con la destra il plettro, nell’atto di volgere il capo verso destra ove compaiono tre Ninfe in rapido movimento verso di lui. Queste ultime, pur essendo tutte seminude (cinte nella sola parte inferiore del corpo da un leggero manto pieghettato), hanno ciascuna una individualità iconografica, ben resa dalla differenziazione di gesti e di attributi che le caratterizzano. La prima delle tre regge un’hydria ed il suo movimento quasi “di corsa” è arrestato da un movimento di torsione del busto a destra, verso la seconda Ninfa che sembra immobile al centro della scena. Di essa che sostiene una conchiglia, attributo ricorrente anche negli altri rilievi del gruppo, si riesce a vedere solo la parte superiore del corpo. A concludere la scena è l’ultima dea impegnata, come la prima, e come questa reggente un vaso per l’acqua, in un movimento concitato verso sinistra, senza alcun rallentamento.Commento - Apollo presentato alla maniera ellenistica,

il braccio sinistro (ora in parte spezzato) la cetra posata su di un uccello, privo del collo, che sembra un cigno (6), accovacciato su di un’ara triangolare ornata di ghirlande. Il dio, seminudo, è cinto nella parte inferiore del corpo da un mantello pieghettato ed il suo braccio destro, intera-mente perduto, è rivolto verso l’alto (la mano poggia sul capo). Ai suoi lati vi sono due Ninfe, nude a metà (vestite nella parte inferiore del corpo da un manto drappeggiato), che sorreggono centralmente una conchiglia ed hanno il capo rivolto al centro, verso Apollo; la resa iconografica è quasi identica, tuttavia lo schema è ribaltato. Commento - Il dio è rappresentato secondo il tipo detto di Cirene; la Forti, inoltre, nota dei paralleli con l’Apollo di Tymarchides (7), ripreso con altre varianti nell’arte

con calmo fluire delle linee, è stato comparato dalla studiosa Lidia Forti all’Apollo del Basamento Borghese (4). Per le Ninfe l’artigiano si è ispirato a raffigurazioni greco-ellenistiche di Menadi e Korai, colte in naturalistici atteggiamenti di danza, con morbido fluire delle vesti che scoprono i corpi sottolineandone la grazia. Detta lastra è stata datata, dalla maggior parte degli studiosi, tra la fine del I sec. a.C. e l’inizio del I sec. d.C., sulla base dei confronti con i rilievi neo-attici.

1 Tale criterio è stato adottato per una lettura preliminare delle tavole, che prescinda da una loro classificazione stilistica, nonché cronologica. 2 Denominazione data ad un marmo bianco a grana fine, molto tenace, di probabile provenienza greca.3 Inv. n.6709; n.676 nella Guida Ruesch (cfr. Ruesch A., Guida illustrata del Museo di Napoli, vol.I, Napoli 1911). Tuttavia in tale testo l’autore commetteva un errore descrittivo, parlando di una prima Ninfa con la conchiglia: «a destra sono tre Ninfe: la prima con la conchiglia, le altre due coll’idria, corrono verso Apollo», mentre, seguendo l’ordine di rap-presentazione, essa figura come seconda delle tre.4 cfr. Lidia Forti, Rilievi dedicati alle Ninfe Nitrodi, in Rendiconti della Accademia di Archeologia Lettere e Belle Arti, vol.XXVI, Napoli 1951, pp.161-191.5 Inv. n.6710; n.674 nella Guida Ruesch; Mommsen, CIL X, n.6787.6 Cfr. Guida Ruesch, n.674: «...e sotto il corvo».

(Fig. 2) Descrizione - Rilievo in marmo grechetto alto 40 cm e lungo 62 cm circa, circondato da una cornice con doppia modanatura (spezzata nell’angolo superiore de-stro), si presenta come una tabula ansata, priva dell’ansa destra (5). Nella parte inferiore della cornice è iscritta la dedica:

ARGENNE POPPAEAE AVGVSTAE AVGVSTI LIBERTA APOLLINI ET NYMPHIS VOTVM L. D.

(Argenna liberta di Poppea Augusta moglie di Augusto offre in voto ad Apollo e alle Ninfe con animo grato).

Al centro della raffigurazione è Apollo che sorregge con

Fig. 2

Fig. 1

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28 La Rassegna d’Ischia 3-4/03

romana (8). Alcuni elementi oltretutto sembrano avvici-narlo al versante prassitelico (gamba portante sinistra e movimento morbido del corpo). Particolarità di questo rilievo è la resa delle immagini isolate e distaccate dal fondo, con maggiore rotondità delle forme che non sono state, tuttavia, ben proporzionate dallo scultore (troppo grandi le teste delle Ninfe rispetto ai loro corpi, così an-che la mano di Apollo, poggiata sul capo). L’intera scena non presenta ambientazione. Il contenuto dell’iscrizione, con riferimento a Poppea Augusta, ci offre un importante elemento cronologico: essa deve essere posteriore al 63 d.C., anno in cui all’imperatrice fu conferito il titolo di Augusta.

(Fig. 3) Descrizione - Rilievo in marmo grechetto alto 59 cm e lungo 40 cm circa , circondato da una sem-plice cornice e delimitato al di sopra e al di sotto da una fascia piatta, si presenta incompleto e spezzato in due a due terzi dell’altezza (9). Nella fascia superiore si legge l’iscrizione:

CAPELLINA V. S. L. NYMPHIS(Capellina scioglie (sciolse) il voto grata alle Ninfe)

Vi sono raffigurati Apollo e tre figure femminili: la prima a sinistra sembra lavare la capigliatura in una conca retta da una Ninfa centrale, mentre la terza, evidente-mente Ninfa anch’ella, versa dell’acqua da una hidrya nella stessa conca. Mentre le due ultime figure descritte sono rappresentate, nel modo consueto, con il manto avvolto intorno alla parte inferiore del corpo, la prima è completamente nuda (il suo mantello è appoggiato sul

tronco dell’albero che le sta alle spalle). Anche Apollo è ignudo, stante ritto col capo rivolto a destra a mirare la scena di lavacro; la cetra ed il corvo, uccello a lui sacro, sono poggiati all’albero di cui sopra che serve a dare un’ambientazione, chiaramente all’aperto, dell’intero quadretto. Commento - Molto si è discusso su tale rilievo che costituisce, a tutt’oggi, uno dei più famosi del gruppo ed è stato interpretato come il frutto di un beneficio speciale ricevuto per la salute dei capelli o del capo in generale (10). Infatti, la donna completamente nuda, stando al parere degli studiosi, dovrebbe essere proprio la dedicante nell’atto di immergere nelle acque medicinali, affidan-dosi alla protezione delle Ninfe e di Apollo, la sua lunga chioma (11). Da un punto di vista stilistico, è interessante l’effetto pittorico con cui l’artista ha voluto riprodurre le figure i cui contorni sono ben definiti, allo scopo di inserirle nello spazio (sempre per creare una spazialità prospettica gli elementi che si trovano in un piano più lontano sono segnati con un rilievo molto più basso). Sulla base di alcuni confronti, l’espediente qui messo in atto ha consentito di far datare la lastra in età flavia.

(Fig. 4) Descrizione - Rilievo in marmo grechetto alto 42 cm e lungo 28 cm circa, purtroppo privo di tutta la parte sinistra (12). Molto ben lavorata si presenta la cornice che racchiude la scena figurata, con i tre motivi della spirale, dei fiori di loto e, nella parte più interna, degli ovoli. Si riescono a scorgere solo due Ninfe, entrambe seminude, accanto alle quali, come conclusione di un’ambientazione di tipo naturalistico, figura l’albero. Partendo da sinistra, la prima delle due dee regge con entrambe le mani un’hydria (dalla quale probabilmente sgorga dell’acqua), ha il busto di prospetto e la testa rivolta verso destra (a guardare qualche scena o qualche figura -Apollo/una terza Ninfa/un offerente?-, manca tutta questa parte). La seconda Ninfa, analoga alla prima nella resa iconografica, reca, invece, come attributo la conchiglia. Nella parte inferiore della lastra si legge:

[VOTO S] VSCEPTO [N] YMPHABVS [R] IS. L. A. D. D.

(Sciolto il voto alle Ninfe... diede come dono con animo grato)

7 Becatti, Attikà, in Riv.Ist.Ital.di Archeol. VII, 1940, pp.33 ss.8 Becatti, in Bull.Com.1935, pp.111 ss.9 Inv. n.6751; n.687 nella Guida Ruesch.10 Il Ruesch, ma anche altri, vedevano nella scena un’allusione al nome della dedicante , Capellina; a mio avviso, tale interpretazione deve essere respinta in quanto la radice del nome proprio cape- è diversa da quella del termine “capelli”, in latino capilli ( con radice capi-) che è invece collegabile al termine “capretta”, in latino capella (con radice cape-).11 Non condivideva tale ipotesi Lidia Forti (cfr. Rilievi dedicati alle Ninfe Nitrodi, in Rendiconti della Accademia di Archeologia Lettere e Belle Arti, vol.XXVI, Napoli 1951, pp.161-191) che vedeva, piuttosto, una comune scena di Ninfe al bagno, là dove le proporzioni ridotte della figura nuda non servirebbero a distinguerla dalle divinità, ma sarebbero da imputare ad un tentativo di resa “prospettica” esperito dall’autore del rilievo stesso.12 Inv. n.6735; n.682 nella Guida Ruesch; CIL, X, n.6799.

Fig. 3

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La Rassegna d’Ischia 3-4/03 29

Fig. 4

Tale iscrizione è delimitata da una linea incisa, in modo da creare la forma di una tabula ansata. Commento - Un’armonia pervade il rilievo, il panneggio delle Ninfe è reso con grazioso intento pittorico ed i volti, sebbene corrosi, fanno trasparire una certa cura e ricerca nella resa. Gli elementi costituenti la cornice sono stati scavati al fine di ottenere un effetto chiaroscurale. I caratteri epigrafici dell’iscrizione, unitamente ad alcu-ni tratti stilistici - ad es. la particolare resa della cornice -, consentono di datarlo tra la fine del I e gli inizi del II sec. d. C.

(Fig. 5) Descrizione - Rilievo in marmo grechetto alto 30 cm e lungo 40 cm circa, rotto nella parte superiore, centralmente e a destra, nonché nell’angolo inferiore a sinistra (13). Circondata da una semplice cornice, la scena rappresenta Apollo e tre Ninfe. Il dio, seduto su delle roc-ce con il torso nudo e la parte inferiore del corpo avvolta in un manto pieghettato, è intento a suonare la lyra; reca sul capo una sorta di corona, a destra sono le tre dee. La prima, conforme allo schema solito, è coperta, solo nella parte inferiore del corpo, da un manto pieghettato; versa l’acqua da una hydria in una conchiglia retta, all’altezza del ventre, dalla Ninfa centrale. La terza dea osserva in disparte le altre due, in chiaro atteggiamento di stasi, di riposo (ben reso dalla variante della gamba sinistra piegata dinanzi alla destra); la mano destra è poggiata su un’hydria che, a sua volta, poggia su di un pilastrino, la sinistra, invece, è adagiata sulla piega centrale del drappo che le avvolge la parte inferiore del corpo. L’iscrizione,

posta sulla parte inferiore della cornice, recita:

APOLLINI ET NYMPHIS NITRODIBVSC. METILIVS ALCIMVS V. S. L. A.

(Ad Apollo e alle Ninfe Nitrodi, Caio Metilio Alcimo scioglie il voto con animo grato)

Commento - Il dio, nella variante seduto con cetra, è rapportabile all’Apollo Aziaco di un rilievo conservato

Fig. 5

a Budapest (14), tuttavia, la ripresa modesta di questo modello si evince dall’atteggiamento, quasi goffo, attri-buito ad Apollo, nel gesto della gamba sinistra sollevata, alla quale non corrisponde una buona resa nelle pieghe del mantello. Inoltre, stando al parere della Forti (15), il tentativo di fondere i due motivi iconografici - Ninfa che versa e Ninfa stante -, non è ben riuscito; infatti la composizione sembra essere disarmonica, priva di fusione e con una resa spesso piatta (ad es. il panneggio sulla gamba della Ninfa a destra); sgraziate sono le stesse figure femminili (seni piccoli e acerbi, teste troppo grandi). Gli elementi stilistici ed i caratteri epigrafici ci con-sentono di datar la lastra alla prima metà del II sec. a.C. Da notare i tria nomina (figura anche il cognomen “Al-cimus”).

13 Inv. n.6707; n.700 nella Guida Ruesch; CIL, X, n.6786.14 Strong E., L’arte in Roma Antica, fig.7, p.14.15 Cfr. op. cit.16 Varietà di marmo chiaro, privo di inclusi, estratto dalle cave di Carrara (città di Luni) e diffuso a partire dalla prima età imperiale, utilizzato so-prattutto per rilievi e decorazioni architettoniche.17 Inv. n.6720; n.698 nella Guida Ruesch; CIL, X, n.6798.

(Fig. 6) Descrizione - Rilievo in marmo lunense (16) alto 30 cm e lungo 51 cm circa , pervenuto senza rotture rilevanti, leggermente scheggiato e lievemente consunto (17). Si presenta circondato in tre parti da una cornice con doppia modanatura, mentre nella parte inferiore una fascia più ampia contiene la dedica. Nel riquadro figurato, a sinistra, vi è Apollo, completamente nudo, ad eccezione di un lembo del mantello che gli circonda il collo e della correggia per sostenere la lyra che porta a tracolla. È

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30 La Rassegna d’Ischia 3-4/03

18 Cfr. Robert, Antik.Sarkophagrel,III, 64, p.198.19 Inv. n.6752; n.694 nella Guida Ruesch; CIL, X, n.6788.

stante (gamba sinistra di appoggio), nell’atto di volgere il capo coronato verso la sua destra; con la mano destra regge il plettro, mentre l’altra è portata al capo; alla sua sinistra vi è il tripode con su posta la cetra. Segue, poi, la rappresentazione delle tre Ninfe, separate da due pila-strini che scandiscono lo spazio in modo da inquadrare e separare le figure. Le due dee laterali, in modo quasi speculare e secondo la solita iconografia (nude con manto nella parte inferiore del corpo), tengono una posizione di riposo, con bracci rispettivamente sinistro e destro adagiati sulle hydrie poste, a loro volta, sui pilastrini e gambe, sinistra e destra, incrociate. Non segue lo stesso schema la Ninfa centrale, immobile al centro delle altre, nell’atto di reggere la conchiglia all’altezza del ventre, il capo è rivolto alla sua destra. Nella parte della cornice si legge la dedica:

T. TVRRANIVS. DIONVSIVSNVMPHIS DONVM DEDIT

(Tito Turranio Dionisio diede in dono alle Ninfe)

Commento - Lo stesso tipo di Apollo si ritrova su un sarcofago col tipo di Marsia (18), non spiegabile è la torsione del capo verso destra, che lo rende quasi estraneo all’intera scena. Le Ninfe, invece, nei gesti studiati ed alternati, formano un gruppo unitario e sono rese con im-

Fig. 6

magini proporzionate e con linee armoniche, il panneggio è morbido. Lo spazio è scandito e suddiviso dal tripode e dai pilastrini centrali, quasi a formare delle nicchie in cui ogni figura sembra essere inserita. Da sottolineare la notevole altezza delle figure (soprattutto delle prime due dee), le cui teste raggiungono la parte superiore della cornice, essendo quasi costrette nello spazio centrale. I caratteri epigrafici classicistici sembrano riportare alla prima metà del II sec. a.C.; anche gli elementi stilistici confermano tale datazione.

Fig. 7

(Fig. 7) Descrizione - Rilievo in marmo grechetto alto cm 45 e lungo 59 cm circa; non reca rotture rilevanti e, nel complesso, si presenta in uno stato abbastanza buono di conservazione (19). Circondato da una semplice cornice sottile che termina, nella parte inferiore, in una fascia con su incisa l’epigrafe, esso rappresenta Apollo a sinistra, un albero, su cui tiene poggiata la lyra, e tre Ninfe nella parte destra. Il dio, posto quasi di profilo, regge con la mano destra la cetra, adagiata sull’albero, mentre con la sinistra tocca le corde. É interamente nudo, ad eccezio-ne del mantello che, fermato da una fibula sulla spalla destra, discende lungo la schiena in piccole pieghe. Ai suoi piedi, rivolto dalla parte opposta, si scorge un uccel-

lo, identificabile con un grifo. Le dee, con modulo ben studiato dall’artigiano, sono raffigurate:le due laterali in senso speculare, entrambe con la conchiglia, seminude e con capo rivolto verso il centro; la dea centrale anch’essa seminuda, invece regge una hydria e si differenzia dalle altre per alcuni particolari dell’acconciatura. Sono visibili alcune piccole tracce di colore rosso che, evidentemente, rivestiva la lastra. Nella fascia inferiore si legge:

VOTO SVSCEPTO APOLLINI ET NYMPHIS M. VERRIVS CRATERVS SOLVIT (Avendo fatto un voto ad Apollo e alle Ninfe, Marco

Varreio Cratero lo scioglie)

Commento - Curata è la resa anatomica delle figure, soprattutto del dio, nonché i particolari dell’acconciatura (per Apollo la “cresta iliaca”), ricercato è anche il panneg-gio che, tuttavia, sembra alquanto appesantito da pieghe scavate come solchi, simmetriche e senza alcuna inter-ruzione nella loro andatura. L’intera scena fa trasparire una classica compostezza, ma un po’ fredda. Per quanto concerne la datazione, alcuni elementi di natura stilistica (ad es. i particolari nella resa della chioma dell’albero) ed epigrafica, ci consentono di datare questo rilievo al II sec. d.C.

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La Rassegna d’Ischia 3-4/03 31

20 Inv. n.6708; n.678 nella Guida Ruesch; CIL, X, n.6789.21 Dessau, Prosopographia Imp.Rom., s.v. Leitus, n.89.22 Forti L, op. cit.23 Pausania, VI, 23, 5.24 Cfr. in Bull. Corr. Hell., 1897, XXI, p.126, fig.7.25 Giustamente la Forti faceva notare che l’iscrizione è stata inserita quasi con una forzatura, ciò indicherebbe che essa, nel momento della lavorazione della lastra, non era stata prevista.26 Inv. n.6709; n.689 nella Guida Ruesch; CIL, X, n.6796.

Fig. 8

(Fig. 8) Descrizione - Rilievo in marmo grechetto alto cm 38 e lungo 47 cm circa , spezzato ai sinistra, nei due angoli, con superficie totale alquanto deteriorata (20). Singolare risulta la scena figurata: non compaiono né Apollo né le Ninfe, ma due fanciulli alati che si conten-dono una pianta (probabilmente una palma). Entrambi gli “amorini” sono nudi, il primo si presenta di profilo, con gamba sinistra protesa in avanti come in uno slancio, il secondo, quasi frontale, pondera la forza su entrambi gli arti inferiori mentre cerca, con visibile sforzo, di tirare a sé il ramo con ambo le mani. Al di sopra della scena, tra le teste delle due figure, si legge:

[FVL] VIVS LEITVS NYMPHIS NITRODIS VOT. SOL. L. ANI

(Fulvio Leito sciolse il voto alle Ninfe Nitrodi con animo grato)

Da notare che la dedica non fa menzione di Apollo, ma esclusivamente delle divinità femminili. Per quanto concerne il dedicante, un’altra iscrizione riporta un tale Fulvio Leito che, secondo il Dessau (21), sarebbe da identificarsi con il liberto che, per ordine di Domiziano, fece sedere a teatro in posti differenti cavalieri e plebe (costui sarà poi attaccato da Marziale in un componimen-to satirico). Non si può, tuttavia, confermare l’ipotesi dello studioso per la mancanza di dati certi in proposito, oltretutto, il Leitus del rilievo non è presentato come un liberto.

Commento - Le due figure sono state interpretate dalla Forti (22) e, ancor prima di lei, da altri come Eros e An-teros (questi chiaramente distinguibile per le ali ricurve verso la punta) nell’atto di contendersi una palma con

su appesa una vitta. Tale schema iconografico, singolare per i nostri rilievi, compariva, a detta di Pausania, su un altare di Elide. Difficile è stabilire il nesso tra Eros qui rappresentato e le Ninfe o, in generale, le acque termali; a tal proposito si potrebbero citare alcuni rilievi di Sa-ladinuovo con Ninfe ed Eros, tuttavia, in quest’ultimo caso, le dee si presentano nude e simili a Grazie (23). Potrebbe trattarsi di una lastra scolpita già in possesso del dedicante, adattata, per la circostanza, a dono alle Ninfe, apponendovi l’iscrizione (24). Comunque, da essa traspare una cura nella resa anatomica, una freschezza di esecuzione ed una grazia con echi classicheggianti. Que-sti elementi avevano fatto supporre per la datazione il I sec. d.C., tuttavia, dall’analisi epigrafica si può scendere all’età antoniniana in cui, tra l’altro, fu forte l’influsso classico.

Fig. 9

(Fig. 9) Descrizione - Rilievo in marmo grechetto alto 37 cm e lungo cm 52 circa ; non presenta rotture rilevanti, tuttavia in alcuni punti risulta un po’ consunto (26). L’intera scena è circondata da una semplice cornice che, nella parte superiore ed inferiore, contiene il testo epigrafico. Partendo da sinistra: si riconosce Apollo se-

minudo (secondo lo schema solito) con la destra poggiata sulla testa e sorreggente, con la sinistra, la lyra; compare ai suoi piedi il grifo. Caratteristica è la capigliatura del dio: divisa in grosse ciocche, segnate quasi a fiamma, e riportate all’indietro. Alla sua sinistra le tre Ninfe: due col piede, rispettivamente destro e sinistro, poggiato su di un rialzo roccioso, versano dalle hydrie acqua su quelle che sembrano piante palustri, irrorate, inoltre, dal contenuto di un’altra hydria rovesciata e posizionata al di sotto della terza Ninfa. Questa è semisdraiata, la parte inferiore del corpo nascosta dietro una compagna, regge una cornucopia con il braccio sinistro, mentre il destro è adagiato sul capo. La parte superiore del corpo, secondo

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32 La Rassegna d’Ischia 3-4/03

lo schema solito, è nuda a differenza delle altre due dee che indossano, invece, un chitone fermato sulle spalle l’iscrizione è presente nella parte superiore ed inferiore della cornice e dice:

LVMPHIS V. S. L. M.M. OCTAVIVS ALEXANDER

(Alle Ninfe scioglie il voto grato per il favore Marco Ottavio Alessandro)

Commento - Come faceva notare la Forti (27), l’inci-sore, nella resa di Apollo, si è ispirato ad una nota statua del dio rinvenuta a Mileto: faccia molto larga, naso un po’ grosso, bocca piccola, naturalmente traducendo tutti

questi caratteri in un linguaggio artistico di tipo “pro-vinciale”. Due nuovi elementi caratterizzano la scena: la cornucopia, attributo di una delle Ninfe (non riscontrato negli altri rilievi ischitani) ed il serpente, comunemente legato ad Apollo, che si snoda sotto il rialzo roccioso a destra. Un richiamo all’arte greco-ellenistica è il lungo chitone indossato da due delle Ninfe (riscontrato anche in un altro rilievo), secondo un’iconografia estranea all’arte romana. È presente, inoltre, una ricerca di forti contrasti tra luci ed ombre, ottenuta con lo scavare molto il mar-mo. L’esame dei caratteri epigrafici, insieme ad alcuni elementi stilistici (appiattimento delle figure, trattamento del panneggio ispirandosi quasi a motivi geometrici), consente di datare la lastra intorno al III sec. d. C.

Fig. 10

(Fig. 10) Descrizione: Rilievo in marmo lunense alto 43 cm e lungo 59 cm circa ; si presenta consunto in vari punti, in particolare i volti delle figure non presentano tutti i tratti chiaramente leggibili (28). Circondato da una cornice non lavorata, esso è diviso in sei riquadri da due listelli verticali ed uno orizzontale. Nei primi tre riquadri compaiono rispettivamente: ai lati due figure maschili, al centro, invece, la scena è occupata da tre Ninfe. In un secondo livello, al di sotto del primo, si legge, nei riquadri laterali, l’iscrizione (essa risulta così divisa), mentre al centro una figura barbuta distesa occupa la scena. Inso-litamente insieme alla Ninfe non compare Apollo, ma vi sono i Dioscuri, riconoscibili dall’attributo della lancia e dal cavallo trattenuto per il morso (seguendo uno schema iconografico abbastanza diffuso); essi sono resi in senso speculare, vestiti soltanto da un mantello che circonda le spalle. Al centro, con una variante non riscontrata negli altri rilievi esaminati, le dee sono rappresentate:

le due laterali, seminude, nell’atto di reggere, secondo uno schema solito, la conchiglia all’altezza del ventre, la centrale, invece, dà le spalle allo spettatore, vestita solo di un manto che le copre il retro delle gambe. Nella fascia inferiore la figura distesa, con l’attributo della canna, sembra essere una tipica divinità fluviale. I due riquadri laterali contengono rispettivamente il testo:

AVR. MONNVSCVM·SVIS

e NVM. FABVS

D. D. CVM SVIS ALVMNIS

(Aurelio Monno con i suoi e Numerio Fabio con i suoi “alumnis” diede come dono)

27 Cfr. Forti L., op. cit.28 Inv. n.6732; n.684 nella Guida Ruesch; CIL, X, n.6792.

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La Rassegna d’Ischia 3-4/03 33

Il testo fa riferimento a due persone, Aurelius Monnus e Numerius Fabius che, stando al parere di alcuni stu-diosi, sarebbero dei medici; di conseguenza, il termine “alumni” sarebbe da intendersi come “adepti”, scolari, che seguivano i loro maestri nelle visite agli ammalati. Ma, a mio parere, il vocabolo più consono per rendere questa accezione sarebbe stato discipuli anziché alumni.

Commento - È chiaro il carattere del tutto singolare di questa lastra che, già a detta del Mommsen (29), risul-tava fortasse ischitana. In realtà, la rappresentazione dei

(Fig. 11) Descrizione - Piccolo altare in marmo gre-chetto, poggiante su quattro piedi (di cui solo due sono rimasti) e leggermente rastremato verso l’alto, tagliato presso a poco a metà nel senso della profondità, ha, sia alla base che sopra, una cornice a più modanature (30). Sul lato principale, centralmente, vi è un busto a rilievo, tagliato all’altezza delle spalle; il volto della figura (un fanciullo, il dedicante?), paffuto, con naso largo ed occhi incavati, è incorniciato da una chioma mista a foglioline di edera, quasi a formare una corona; si intravede la sola mano destra nella quale, nonostante essa sia molto corrosa, si riescono ad intravedere dei pomi; un mantello sembra, poi, ricoprire le spalle. Al di sopra del busto, nella parte anteriore dell’arula, si legge l’iscrizione in latino:

L. RANTIVS L. F. LVMPHIEIS(Lucio Rantio, figlio di Lucio, della tribù Tromentina

(dedicò) alle Lynfe (Ninfe)

Sotto il busto si legge lo stesso testo tradotto in greco:

LEUKIOS RANTIOS LEUKIOU UIOS NUMFAISSul lato destro dell’altare si riesce a leggere solamente:

LUM

Particolarità del testo è quella di presentare la tribù di appartenenza del dedicante (Tromentina). Altra singola-rità è il termine con cui sono indicate le Ninfe, lymphieis, utilizzato chiaramente come un sinonimo, infatti, nel testo greco si legge “alle Ninfe”.

Commento - Risulta difficile, anche sulla base di raffronti iconografici, identificare la figura scolpita. Si potrebbe pensare ad un Bacco, ma le foglie di edera, al posto delle foglie di vite, farebbero escludere, a priori, tale ipotesi. I tratti somatici sembrano quelli propri di un fanciullo; la Forti ha pensato che potrebbe trattarsi dello stesso dedicante Lucio Rantio, che reca un dono per le dee, o, addirittura, proprio di una Ninfa dato che l’edera ed il pomo possono anche essere attributi di questa divinità (31). L’analisi stilistica dei caratteri consente di datare l’iscrizione alla fine del I sec. a.C., oltretutto, ad avvalo-rare tale ipotesi contribuisce la mancanza del cognomen.

Fig. 11

(Fig. 12) Descrizione - Rilievo in marmo , molto dete-riorato, circondato da una semplice cornice non lavorata che ospita, nel riquadro inferiore, l’iscrizione, anch’essa di difficile lettura (32). Si riesce ad intravedere partendo da sinistra: una figura maschile che regge per le briglie un cavallo, un altro uomo che regge un qualcosa e, dietro di lui un uomo più alto; vi è poi una Ninfa di profilo (alla maniera solita seminuda, vestita solo del drappo). Prose-guendo ancora verso destra, una figura completamente nuda (un’altra Ninfa?), più piccola, porge un vaso ad un uomo (forse un vecchio) con bastone, vestito con chitone e cappello da viandante, che conclude l’intera scena.Il testo epigrafico recita:

SEX. FABIVS C. F. VOL. GEMELLVS NYM(Sesto Fabio Gemello, figlio di Caio, della tribù Voltum-

nia (diede) alle Ninfe)

Dioscuri, come anche della divinità fluviale, difficilmente si sposa con l’isolano contesto di rinvenimento, facendo così dubitare circa l’originale provenienza. Da un punto di vista stilistico, nel complesso ci sono una certa ricercatez-za ed un effetto coloristico, ottenuto attraverso l’impiego del trapano, allo scopo di dare rilievo alle ciocche nella chioma delle Ninfe, nonché alla barba ed ai capelli della figura distesa. La resa frontale delle figure, unitamente ai caratteri epigrafici, ci consentono di datare il rilievo intorno al III sec. d.C..

29 Cfr. nota precedente.30 CIL, X, n.6797. 31 Cfr. Parbieni E., Ninfe, Charites e Muse su rilievi neo-attici, in Boll. D’Arte, 1951, 2, pp.106, fig.1 ss.32 CIL, X, n.6797.

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34 La Rassegna d’Ischia 3-4/03

essere intesa come lo stesso dedicante, là dove l’intera scena farebbe riferimento al lungo viaggio da lui intra-preso per raggiungere la sorgente Nitrodi. C’è da dire, tuttavia, che già il Mommsen scriveva: “fortasse non recte ad Ischiam refertur”, evidentemente per la singolarità e non pertinenza con gli altri rilievi rinvenuti sull’isola. Osservazioni - L’attributo della conchiglia retta

Fig. 12

Commento - Molto complessa è la rappresentazione, la cui decifrazione è resa ancor più difficile dal pessimo stato di conservazione. Per tipologia il rilievo non sembra essere molto pertinente, non solo perché non compare lo schema iconografico solito, ma anche per la presenza di un cavallo e di un “viandante” che rievocano un viaggio attraverso la terraferma. L’ultima figura potrebbe anche

con ambo le mani in modo da coprire il ventre, sembra molto presente nella statuaria classica. Infatti una rassegna iconografica condotta in tal senso, ha portato all’individuazione di alcune statue effigianti Ninfe, nella stessa tipologia di quella raffigurata sui nostri rilievi: busto nudo, parte inferiore del corpo coperta da un drappo pieghettato, conchiglia sorretta centralmente con entrambe le mani (33). L’atto invece di versare acqua da una hydria sembra, stranamente, meno frequente nel panorama iconografico avente come soggetto tali divinità, infatti lo si riscontra soprattutto nel mondo greco, nell’ambito di pitture vascolari, con pochi paralleli anche nel mondo romano. Per quanto concerne Apollo, la varietà tipologica che contraddistingue la sua immagine nei rilievi in questione, trova riscontro nell’iconografia classica, sia per l’immagine con lungo chitone e cetra, sia per il tipo con braccio sul capo (Cizico), nonché per la variante che lo presenta seduto con cetra (34).

33 Cfr. s.v. Nymphae, in LIMC. 34 Cfr. s.v. Apollo, in LIMC.

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La Rassegna d’Ischia 3-4/03 35

La fonte Nitrodi

Fonte di Nitrodi1 Cfr. Mancioli M., Le proprietà terapeutiche delle acque di Nitrodi e Olmitello, Napoli 1995, pp.3 ss.

La possibile interpretazione o “decifrazione” che si voglia di dette lastre marmoree scolpite, si arricchisce di un fascino ancora maggiore se si pensa alla continuità di frequentazione dal perio-do greco, romano, fino ai nostri giorni della sor-gente naturale, alle cui acque si attribuiscono da sempre proprietà terapeutico-medicamentose.

Che la greca Pithecusa, divenuta Aenaria per i Romani, per la sua particolare conformazione geologica, essendo un’isola di natura vulcanica, fosse ricca di acque termo-minerali, già ne erano a conoscenza gli autori antichi -Strabone V, 49 e Plinio N.H. XXXI, 2, 106 ss.- che ne celebravano le proprietà.

Se questi passi fanno riferimento, in generale, a tutte le acque termali isolane, una specifica atte-stazione, tuttavia, dell’empirica tradizione curati-va della sorgente di Nitrodi, trova riscontro nelle lastre ad oggetto, per il periodo romano, ma, an-cor prima, nei frammenti di vasi greci, databili al IV sec. a.C., rinvenuti nei dintorni di essa.

Sembra chiaro, pertanto, che anche i Greci, an-tichissimi abitatori dell’isola, frequentassero la fonte, fermo restante la difficoltà, allo stato at-tuale delle nostre conoscenze, di retrodatare fino al IV sec. a.C. il culto tributato ad Apollo ed alle “Ninfe Nitrodiae” attestato dai rilievi.

Un’altra importante questione concerne la de-nominazione del luogo ospitante le bocche sor-give, “Nitrodi”, chiaro e leggibile attributo anche delle Ninfe e la cui etimologia sembrerebbe chia-mare in causa ancora una volta i Greci (da νιτρον, soda, sodio o, più in generale, sale), i quali già in-tuitivamente, con tale termine, riassumevano la consistenza altamente salina delle acque.

Le analisi condotte verso la fine degli anni ’60 del 1900 dal prof. M.Talenti , dell’Istituto di Igie-ne dell’Università di Roma, mostravano dei dati interessanti per quanto concerneva le determina-zioni chimico-fisiche di detta acqua; essa si faceva rientrare nella categoria delle acque medio-mine-rali, di natura essenzialmente bicarbonato-solfa-to-alcalina ed alcalino-terrosa, ipotermale (cioè ricca di ioni di sodio, potassio, calcio ed altri sali disciolti e sgorgante ad una temperatura di circa 28°, con rapido raffreddamento).

Queste indagini preliminari avevano lo scopo di chiarire, in via clinica e sperimentale, le possibili-tà terapeutiche attribuibili alle acque, prendendo in esame il settore della diuresi.

I risultati delle prove esperite su vari soggetti-campione appositamente selezionati manifesta-vano l’azione altamente diuretica delle acque di Nitrodi rispetto a quelle di una normale fonte o acquedotto e, ancora, l’influenza positiva eserci-tata da questa vera e propria “soluzione salina na-turale” sul chimismo gastrico, in particolare nella cura di ulcere gastriche e duodenali e, più in ge-nerale, di varici e piaghe cutanee, in virtù di una intrinseca azione riparatrice e cicatrizzante. Per-tanto essa veniva, ed è tuttora, impiegata sia per ingestione che per applicazioni balneo-terapiche, nonché trattamenti idropinici.

Alla luce di simili risultati scientifici, risulta più agevole capire di che natura siano state “le grazie” ricevute da CAPELLINA, POPPEA LIBERTA e dagli altri dedicanti, i quali vollero ringraziare le divinità tutelari della sorgente con dei VOTA so-lenni e perpetui.

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36 La Rassegna d’Ischia 3-4/03

Il culto delle Ninfe e di Apollo associato alle sorgenti

1) Dal Dizionario di Mitologia greca e latina di Anna Ferrari, s. v. Ninfe, Torino 1999, p. 499: Divinità femminili della mitologia classica con le quali i Greci prima e i Latini successivamente popolarono ogni parte del mondo naturale, dal mare alle sorgenti, dai fiumi alle grotte, dagli alberi alle montagne. Le Ninfe erano divise in svariate classi, a seconda delle diverse parti della natura di cui erano le rappresentanti. Si distinguevano così quelle del mare, delle acque, delle montagne e delle grotte, delle gole e degli alberi. Molte di esse presiedevano a sorgenti che si riteneva avessero il potere di ispirare e guarire coloro che si bagnavano alle loro acque. Esistevano poi altre Ninfe collegate a località specifiche e usualmente chiamate con nomi derivati dai luoghi a cui erano associate: Acheloidi, Nisiadi, Dodonidi, Lemnie,...2) Cfr. AriAs P. E., La fonte sacra di Locri dedicata alle Ninfe, in Le Arti, feb-mar 1941, pp.179 ss.3) Cfr. AriAs P. E., Il culto delle Ninfe a Siracusa, Roma 1936.4)CIL XI, nn.3285-3294.5) CIL XI, nn.3285: APOLLINI �SANCTO� CL. �SEVERIANVS �D. �D.6) CIL XI, nn.3286: APOLLINI �ET NYMPHIS�DOMOTIANIS/Q �CASSIVS� IANVARIVS �D. �D.7) CIL XI, nn.3288: APOLLIN ET/NYMPHIS/SANCTIS/NAEVIA BASILLA D�D.8) CIL XI, nn.3289: APOLLINI� SILVANO �NYMPHIS� Q. �LICINIVS �NEPOS� D. D.9) CIL XI, nn.3290: NYM� PHA� BVS� MI� NV� CI� A� ZO� SI� ME �D. �D.10) Cfr. CIL XI, nn.3295.11) CIL XI, nn.4487, 4488, 4489. N.4489 : APOLLINI / SANCTO / L. VIBIVS / ALCIONVS.12) Cfr. L’Année Epigraphique, 1969-1970, nn.277-278 (sono definiti autel, cioè altari), n.277 (altare in marmo bianco): Ninphis Paulina Horti f(ilia) v(otum) s(oluit) l(ibens) m(erito); 1977, n.493 (blocco di pietra in calcare): Claudia A(n)/na pro salu(te)/Claudi Liceri/ci uiri sui/Nymphis v(otum) s(oluit) l(ibens) m(erito).13) Cfr. L’Année Epigraphique, 1978, nn.555†: Nimphis et A(p)/ollini sacr(u)m, Iunius Ela(...)/us, (centurio) coh(ortis) I ci(uium)/Romanor(u)m, u(otum) s(oluit) l(ibens) m(erito).†14) Cfr. CIL, XIII, n.7691: Apollini et Nimp(h)is Volpinis.15) Cfr. L’Année Epigraphique, 1972, nn.390.†

La povertà di notizie sul culto delle Ninfe in Italia è estrema; un accenno di uno scolio teocriteo fa riferimento ad un culto di Ninfe presso Sibari, un altro in terra messapica, un terzo a Cuma, un quarto ad Ischia.

Importante è, a tutt’oggi, lo stu-dio condotto da P.E.Arias per l’ambito magno-greco e siceliota. Questi, infatti, riferiva la notizia del ritrovamento, nei pressi di una fonte definita “sacra”, nel territorio di Locri, di tre testine fittili, effigianti con probabili-tà le stesse Ninfe. L’analisi dei materiali votivi, pertinenti alla ricchissima stipe locrese, con-sentiva all’Arias non solo di rico-noscervi un culto per le dee, ma anche di interpretarne il caratte-re: erotico, panico e dionisiaco .

Per quanto attiene, invece, Sira-cusa ed in generale la Sicilia, due rilievi dal carattere di ex-voto lo supportano. Essi, tuttavia, non sono provvisti di iscrizione e nel-la resa stessa delle dee si avverte un maggiore influsso ellenizzan-te (vestite di chitone ed in atteg-giamento di Menadi danzanti), pur essendo databili al periodo romano .

Spostandoci geograficamente, un’associazione sacra delle Ninfe e di Apollo, supportata da testi epigrafici, è rintracciabile nella località di Vicarello, nei pressi del lago Sabatino. Infatti ivi, secon-do quanto scriveva il Mommsen , nei pressi di una sorgente terma-le (ex aquis calidis, come scriveva lo studioso, evidentemente pro-prie di questo sito) furono rinve-nuti dei vasi d’argento recanti le dediche al solo Apollo , ad Apollo e alle Ninfe dette Domitianae , ad Apollo ed alle Ninfe (senza attri-buti) , ad Apollo Silvani Nymphis ed alle sole Ninfe .

Sempre da analoga località, su di un frammento di marmo si leggevano le lettere OLL, in-terpretate da Mommsen come relative al dativo Ap)oll(ini (ad Apollo).

Nella località di Acquae Cali-dae, nella Gallia Tarraconese, ancora oggi conosciuta per i be-nefici delle sorgenti termali da cui deriva anche il nome al sito, si riscontra, dai rilievi votivi con dedica ivi ritrovati e catalogati dal Mommsen , una particolare venerazione per Apollo, nelle sue qualità di protettore e garante dei benefici scaturenti da dette acque. Non si fa tuttavia accenno alle Ninfe.

Sempre dalla Tarraconese pro-vengono rilievi con iscrizioni dedicatorie, in questo caso alle sole dee , per il loro benefico in-

tervento sulla salute dei fedeli, come si legge chiaramente su uno di essi: Nimphis pro salute Lexieiae v(otum) s(oluit) l(ibens) m(erito).

Interessante risulta un’iscrizio-ne rinvenuta in Germania in cui le Ninfe sono associate ad Apollo . Essa è incisa su di un rilievo, o meglio altare, ritrovato nel 1957 nei pressi di una sorgente terma-le nel distretto di Ahrweiler; dal-la stessa sorgente proviene un’e-pigrafe in cui le Ninfe, sempre associate ad Apollo, sono dette “Volpinis” .

In Pannonia è stato invece rin-tracciato un altare in calcare, significativo per la rappresenta-zione similare a quella dei rilievi ischitani : su una faccia due figu-re femminili, su un’altra faccia una donna nuda, tutte slanciate e con le braccia poggiate su di un vaso. L’iscrizione reca la dedica: Nymphis / V.

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La Rassegna d’Ischia 3-4/03 37

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Conclusione

Volendo trarre alcune considerazioni da quanto finora detto, premettendo che la ricerca è suscet-tibile di ulteriori approfondimenti : fatto interes-sante concerne in primo luogo la realizzazione di detti rilievi che, pur essendo “provinciali”, ri-chiamano una iconografia che potremmo definire “classica”, laddove i modi di rappresentare Apollo e le Ninfe sembrano ben noti agli artigiani locali e, con probabilità, ai dedicanti che sceglievano, evi-dentemente tra vari modelli, e commissionavano il lavoro.

Degna di attenzione è altresì l’associazione di Apollo, nelle sue qualità di nume che tutela la sa-lute, e delle Ninfe che, in un certo senso, incarna-no il “mezzo” attraverso il quale ottenere e mante-nere tali benefici, cioè la sorgiva stessa.

Oltretutto le testine fittili rintracciate dal Monti e le “monete o medaglie” cui fanno riferimento le fonti sono pertinenti, a mio avviso, proprio alla stipe votiva di questo santuario all’aperto immer-so in un caratteristico quanto suggestivo paesag-gio naturale.

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38 La Rassegna d’Ischia 3-4/03

Personaggi ischitani

di Giulia Colomba SanniaIl venditore di graffen

Ha il passo elastico, l’andatura elegante, lo sguardo puntato all’o-rizzonte, come un guerriero di altri tempi. Percorre lungo la battigia la curvatura dei Maronti in tutta la sua lunghezza, ogni giorno d’esta-te, avanti e indietro, senza mostrare mai segni di cedimento o di stan-chezza, nemmeno quando il sole in-fuocato e il caldo torrido stremano i bagnanti. Nessuno conosce il suo nome, ma tutti i frequentatori dei Maronti, specialmente i bambini, lo conoscono bene: lui vende le “graf-fen”.

Il braccio sinistro piegato ad an-golo, con la mano appoggiata sulla schiena, crea il supporto per regge-re il vassoio delle “graffen”, il brac-cio destro, libero, appena appena lo sfiora o accompagna il movimento delle gambe. “Graffen” annuncia baldanzoso, con cadenzata regola-rità. Ma non si guarda in giro, non invita all’acquisto come tutti gli altri venditori che affollano la spiaggia, non si sofferma mai ad offrire il te-pore profumato del suo prodotto. C’è un distacco superbo e disincan-tato nella sua operazione commer-ciale. Soltanto quando lo si chiama, si scuote allíimprovviso dalla sua solitudine altera e si dirige con pro-fessionalità di venditore accanto al bambino o all’adulto, ugualmente irretiti dal profumo di zucchero e di fragrante frittura, rassicurati dal rituale ripetitivo della graffe consu-mata sotto il sole afoso.

Per dare la graffe finalmente si ferma, ma non resta in piedi: pog-gia un solo ginocchio a terra e, con la gestualità solenne di un cavaliere medioevale, abbassa il vassoio delle graffen e offre in bustina il suo pro-dotto, quasi fosse un omaggio, un dono prezioso, un atto di deferenza. Pagarlo sembra offensivo, superfluo e lascia un poco stupiti. Ma lui ri-prende subito il suo cammino, non-curante degli sguardi, indifferente al caldo, al vocio, al mondo. Alla tarda mattinata o al pomeriggio scompare misteriosamente, cosÏ come era ve-

nuto, senza che mai qualcuno riesca a vederlo percorrere le scalette di accesso alla spiaggia. Resta un mi-raggio che si ripeterà ogni giorno, raggrumato in un grido, graffen in una scia di profumo che arriveranno puntuali a tentare líignaro bagnante.

La venditrice di frutta ai Maronti

Parla tedesco la venditrice di frut-ta: “obst, wollen sie obst ?” E poi concede ai locali: “Frutta, frutta fre-sca e lavata”. La cesta che porta sul capo sopra un fazzoletto arrotolato a crocchia trabocca di uva, di fichi, di pesché, ogni tipo di frutta stagionale , oppure golose primizie. La bilancia garantisce l’onestà del peso, ma non difende dal prezzo. Eppure quella frutta fredda e pulita, che dà l’illu-sione di comprare in essa giovinez-za e salute, finisce subito e il cesto vuoto che, allegra, la donna riporta molto presto dopo il suo giro, attesta un successo sicuro che si ripete ogni giorno per tutta la stagione estiva. Non è mai stanca o sudata o affran-ta la venditrice di frutta fino quan-do è sulla spiaggia; ma se capita di vederla mentre sale in uníauto che líaspetta alla curva alta della strada dei Maronti, quasi non la si ricono-sce tanto appare mutata. È diversa, è una contadina bruna, affaticata, come tante altre che abitano l’isola: lontano dai Maronti ha perduto la sua magia misteriosa.

Il venditore di parei e asciugamani

Abdullah o Mohammed: non si sa bene come si chiami, ma è bion-do come un occidentale e allegro e festoso. Ogni anno si sofferma a sa-lutare i clienti dei Maronti, come un amico ritrovato e si informa premu-roso sul loro benessere. Curvo sotto un peso improponibile di vestiti, av-volto nella sua gamma coloratissima

di asciugamani caldi caldi, non dà segno di sofferenza. Si muove a vol-te burlone saltellando, a volte lento e appena stanco, a volte veloce tra gli ombrelloni e offre alle signore la sua merce con generosa pazienza di orientale. Attende che le signore provino i suoi parei, indossino i suoi vestiti, che scelgano, con esitazione da calura, il colore dei suoi asciu-gamani. Lui non dà mai segno di fastidio o di fretta. Sta lì, sorridente e aspetta: prima o poi tutti compre-ranno.

Líinsalata dei Maronti

La sua insalata Ë nota in tutta líisola díIschia: Ë líinsalata dei Ma-ronti. Ogni stabilimento balneare della spiaggia offre insalate miste nel proprio menu, ma nessuna può gareggiare con la sua. Gerardo, con distaccata sicurezza non mette in discussione la assoluta superiorità della propria insalata: è lui - dice - che l’ha inventata, che l’ha creata per primo. È un misto di pomodorini, di cipolle, di insalatina, di peperonci-no, patate, conditi sapientemente con olio particolare, mescolati con le sue mani abili e veloci, come fan-no i cuochi perfetti. Tutti i prodot-ti, però, sono rigorosamente della sua terra, alimentati dal sole e dal calore dei Maronti, curati dal suo amore puntiglioso e testardo, nella convinzione che quellíinsalata Ë la quintessenza della salute, una sorta di privilegio riservato ai suoi clienti affezionati che ogni anno tornano fedeli a trovarlo. Nell’eleganza del-la particolare struttura lignea, per chi siede ai tavoli lucenti, costruiti con blocchi di legno rustico, nel ri-storo dalla brezza leggera che si alza all’ora di pranzo, il bicchiere divino bianco ghiacciato, il profumo del pane cafone, a volte perfino, con un sottofondo tenue di musica , men-tre lo spettacolo di S. Angelo in lontananza si profila sullíorizzonte abbagliante di luce e di mare, forse qualunque insalata apparirebbe un cibo paradisiaco consumato in un momento di magia

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La Rassegna d’Ischia 3-4/03 39

Personaggi ischitani

Capeiattë e il francese (*)

di Giuseppe Silvestri

(*) Da una conversazione con Pietro Calise, agosto 2002.

L’amica di tutti

Ogni anno l’aspettano gli amici e soprattutto le amiche, curiose di ve-rificare se riuscirà ancora ad esibire baldanzosa il suo fisico adolescen-ziale, ben tagliato, ma anche frutto di sacrifici e di cure inimmaginabili. I lunghi capelli biondi lisci le danza-no intorno alle spalle e lei a volte li raccoglie con gesto frettoloso e sa-piente in una rapida crocchia per di-

fendersi dalla calura, mentre avanza caracollando sugli zoccoli altissimi. Non si tuffa, non nuota, non gioca con líacqua, non “usa” il mare, ma prende il sole a lungo con un libro colto tra le mani, finché non decide di fare conversazione. Allora si acco-sta cordiale agli ombrelloni, scherza allegra con qualcuno, apostrofa i più riottosi, offre il caffè e coinvolge tutti in una grande rete di amicizia, in cui è molto brava a mostrare affettuosa

compiacenza per le signore stremate dallíinevitabile confronto. Sarebbe perfetta se non creasse suo malgra-do sensi di colpa in tutti: negli uomi-ni che restano imbarazzati, incerti, e nelle donne che appena la vedono arrivare cercano disperatamente il pareo per nascondere inestetismi e rotolini di carne di cui fino a quel momento si erano tranquillamente dimenticate.

Giulia Colomba Sannia

Un grande masso di tufo verde staccatosi dall’Epo-meo o emerso dalle profondità del Tirreno, sporgen-dosi dalla collina della Cesa, sovrasta Lacco Ameno. Da esso è possibile spaziare con lo sguardo sul golfo di Napoli e ad ovest verso Ventotene e Ponza.

Questo masso è detto la Pietra di Casamonte, e vi si accede tramite un viottolo e una scalinata tutta rica-vata nel tufo che porta ad un’abitazione costituita da un’ampia stanza con altri comodi, tra cui una cisterna per la raccolta dell’acqua piovana, piccole vasche per lavare i panni (lavatoi) all’esterno. All’interno della stanza, sulla sinistra, un lungo focolare con una grande fornace su cui era poggiato un pentolone di rame anne-rito dall’uso, ed in ordine decrescente quattro fornelli con altrettante pentole di varie misure.

Una cappa in muratura poggiante su una trave di ca-stagno copriva il focolare in tutta la sua lunghezza.

Entrando nella stanza si rimaneva colpiti dai mazzetti di erba, di arbusti e di piante varie che in ordine pre-fissato, attaccato ognuno ad un chiodo, si succedevano in lunghi filari sulla stessa cappa e sulle pareti della stanza, al centro della quale un tavolo quadrato con accanto un tronco di quercia che fungeva da tagliere, infatti vi erano poggiati su una roncola alla quale era stata tagliata la punta e coltelli di diverse misure.

Si notava ancora a destra, addossato alla parete, un comò, di quelli ai cinque tiretti, a bombé e con gli spi-goli anteriori abbelliti dalla sovrapposizione di ricami intarsiati nel legno. Un letto ben ordinato ed infine un armadio di metri 1,20 circa di una sola anta costituita da un grande specchio.

Qualche sedia, una poltrona, ancora coltelli ed attrez-zi vari alle pareti. Su un piccolo tavolo cinque lumi a petrolio e in uno scaffale attaccato al muro al disopra del letto una quindicina di grossi volumi e due racco-glitori di carta fermati da uno spago.

Vi abitava Capeiattë, così era detto un uomo di una sessantina d’anni, di statura media, due occhi scuri vi-vacissimi, un perenne berretto in testa per nascondere la calvizie. Era considerato un mago, ma non adopera-va formule magiche per guarire, bensì intrusi di erbe, foglie, rami, piante che lui stesso preparava e molte delle quali direttamente coltivava. Vasi di creta terra-cotta, infatti, erano allineati lungo il muretto di pro-tezione che si reggeva intorno all’orlo della Pietra. Si notavano: la salvia, il rosmarino, la maggiorana, aloe di diverse specie, mirto, timo, basilico.

Il noce, il sorbo, il castagno, l’albicocco, e il pruno erano nel terreno a terrazze dietro la casa ad est della Pietra dove Capeiattë coltivava anche la vite.

Bisognava recarsi da lui di pomeriggio dopo le 15.00, perché il mago dedicava buona parte della mattinata ai suoi lavori. Non accettava per le sue prestazioni dena-ro, ma volentieri in regalo utensili vari ed arnesi per la coltivazione del terreno, per la cantina e la casa. Aveva roncole di diverse misure, seghe, zappe, picconi e gli piacevano i vasi di terracotta che utilizzava per le sue piante.

Un giorno si presentò a Capeiattë un noto maestro d’ascia di Fiaiano, lo seguivano tre muli carichi di ta-vole di castagno e di cerchi di ferro. Gli disse che aveva avuto l’incarico da un ricco signore di Forio di costru-irgli una botte di 2000 litri. In pochi giorni il maestro d’ascia la realizzò nl cortile davanti alla porta della can-tina, anche questa autentico capolavoro tutta scavata nel tufo. Con grande gioia di Capeiattë fu poi impostata nella cantina e pronta per essere utilizzata dopo i pre-visti necessari trattamenti.

Un giorno del mese di giugno del 1907 si recò a casa di Capeiattë un noto personaggio detto “il francese” che con il suo bastimento veniva ogni anno a Lacco una o due volte per il commercio del vino. Quella volta vi giunse che aveva forti dolori addominali che si era-no manifestati durante la navigazione e, nonostante i medicinali a disposizione sulla nave, non era riuscito a

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La Rassegna d’Ischia

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placarli. Appena ne venne a conoscenze l’imprenditore di Lacco gli suggerì di rivolgersi a Capeiattë, il mago della Pietra.

Anche se alquanto scettico, il francese si recò a casa di costui e, quando vi arrivò, il mago stava potando una pianta di limone con il “roncillo”.

- Da noi, disse il francese, adesso si usano delle forbici particolari per potare le piante ed anche le viti. Con-sentono di lavorare con minore fatica, più in fretta e con assoluta precisione. Capeiattë se ne mostrò stupi-to, ma ritenne la cosa interessante. Il francese rispose poi alle tante domande che Capeiattë gli rivolse sul suo malanno. Poi gli disse di aspettare che avrebbe avuto bisogno di alcuni minuti. Così, mentre il francese se ne stava seduto sotto il pergolato di viti che copriva l’ingresso, lamentandosi di tanto in tanto per il dolo-re, Capeiattë si dava da fare nel suo laboratorio. Infine uscì e gli porse da bere un bicchiere di liquido verde ed alquanto denso. Puah! disse il francese, ma conti-nuò a berne tutto il contenuto. Poi Capeiattë gli diede due bottiglie, di un litro ciascuna, ognuna avvolta in un pezzo di stoffa scura fermato al collo con uno spago ben stretto. Gli disse di berne un cucchiaino al mattino ed uno alla sera, alternando le due bottiglie su cui era stato posto un segno ben evidente.

Il francese ringraziò e chiese a Capeiattë quanto gli doveva. Questi gli rispose che non voleva soldi, era molto interessato alle forbici per potare che si usavano in Francia come gli aveva detto. Il francese si dimostrò subito disponibile e disse che nel successivo viaggio gliene avrebbe portato più di un paio di varie misure. Infine si congedò e mentre scendeva per il viottolo che lo conduceva alla strada per la Marina si rese conto che il solito fastidio all’addome si era affievolito. Provava

quasi un senso di benessere come non gli capitava da tanto tempo.

Pensò: - Sta a vedere che funziona! Prenderò questa robaccia con la massima puntualità e ripeterò la cura ogni anno, come Capeiattë mi ha detto - .

L’anno seguente ritornò a Lacco, i dolori gli erano ri-tornati ma molto attenuati. Appieno ormeggiò il suo veliero tra il Fungo e la spiaggia, dopo le dovute di-sposizioni al nostromo si recò da Capeiattë che si mise subito a disposizione e dopo alcune informazioni sulla sua salute si adoperò per preparare le medicine ed in-tanto aspettava con una certa impazienza le forbici, cu-rioso di provarle, anche perché sarebbe stata una novi-tà assoluta. Ne aveva parlato con i suoi amici all’uscita della messa domenicale alla Congrega dell’Assunta!

Ma il francese disse: - Mon dieu, ho dimenticato le forbici! sarà per il prossimo viaggio! - In verità con-tinuò a dimenticarle anche nei due viaggi successivi, ricevendo però sempre da Capeiattë la medicina.

Nell’ultimo viaggio però, quando il veliero era ad una mezza giornata di navigazione da Lacco al francese si ripresentarono in forma più acuta i soliti disturbi e perciò, appena arrivato, si recò subito da Capeiattë ed ancora senza le forbici tante volte promesse. Capeiattë lo accolse con una certa freddezza e gli disse che al mo-mento non si trovava in casa gli arbusti che facevano al suo caso, perché per tagliarli e prepararli con la ronco-la ci voleva molto tempo e lui aveva dovuto soddisfare altre esigenze.

Le forbici francesi sarebbero state utilissime, disse con disappunto

Il francese aprì ed imprecò contro se stesso. Il giorno seguente caricate le botti di vino, il bastimento partì. Quello fu l’ultimo viaggio.

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La Rassegna d’Ischia 3-4/03 41

rassegna mostre

ArnAldo Pomodoroalla Torre Guevara di ischia

Sotto l’Alto Patronato del Presidente della RepubblicaComune di Ischia - Circolo G. Sadoul - Istituto Italiano per gli Studi Filosofici

A. Pomodoro - Rive dei mari, 1987-88 - alluminio, 252 x 95 x 29 cm

Materia abitata dallʼUniversodi Massimo Bignardi (*)

* Catalogo della Mostra alla Torre Guevara di Ischia (Catalogo della Mostra alla Torre Gue-vara di Ischia)

Non è facile riassumere in un’im-magine “chiave” l’intero lavoro di Arnaldo Pomodoro, il suo muover-si collocato lucidamente da Argan attorno “alle idee di spazio e tempo, di concetto ed esistente, di totalità e frammento”. Sintetizzare, cioè, quel suo essere nel dibattito della scul-tura moderna che, nel corpo dilata-to e “dilaniato” della seconda metà del secolo Ventesimo, ha accelerato il rapporto di filiazione e di scontro dialettico della natura (a volte della sua memoria) con l’uomo., ovvero il desiderio di testimoniare la profon-da frattura che si è prodotta. L’ar-tista ha scelto, per questa mostra ischitana, quale immagine simbolo, se si vuole come una sorta di cifra poetica da proporre per la coperti-na e dunque di primo incontro con il pubblico, quella di un’opera, Rive dei mari, che penso sveli l’origine cosmogonica della sua riflessione di scultore del nostro tempo. Aprire l’articolato tracciato disegnato dal-la sua esperienza, che si fonda e si serve di forme geometriche solide. Sono la sfera, la colonna, il prisma, la piramide, poste in relazione, in osmosi, con la superficie, metafora del piano esistenziale, e al tempo stesso fenomenico, sul quale corre l’intensità di uno sguardo che en-tra, scava, scandisce le ombre e gli aggetti, trascrive i segni e li eleva ad architetture di pieni e di vuoti, di impronta e di calco, altresì svela (testimonia) i tormenti, le fratture, insomma il travaglio dell’uomo del-la società tecnologizzata. Attingendo

all’analisi dell’Hildebrand, agli studi sulla forma avanzati all’interno della critica del puro visibilismo, potrem-mo dire che l’opera di Pomodoro si concentra sulla natura, su un suo valore più ampio, inteso, cioè, non come celebrazione di essa, della sua dimensione di orizzonte cristallizza-to e, quindi, immutabile, bensì quale corpo che si muove., muta, in prati-ca che “produce nell’apparenza delle alterazioni che noi riteniamo come segni indicativi” un processo che coinvolge la visione.

Rive dei mari,, un grande mitilo in alluminio, adagiato al fondo, sul pia-no degli abissi marini, sul territorio misterioso degli archetipi, ci guida nella geografia di questa mostra. È una scultura di forte suggestio-ne, evocativa di un’idea del cosmo (amalgama di materia, pensiero e spazio) sulla quale Pomodoro ha in-sistito, ritrovando un’unità di archi-tettura e di scultura. Un’unità che connota le esperienze della secon-da metà degli anni Ottanta, ripre-

sa. nella sua valenza di archetipo, in altre opere successive, guardo in primo luogo alla volta che struttura la nuova Sala d’armi del Museo Pol-di Pezzoli di Milano, realizzata nel 2000. La forma oblunga del mitilo, con la superficie esterna della con-chiglia che accoglie i segni della cre-scita, richiama quella di un’architet-tura, di una struttura primigenia del mondo o, meglio, quella che lo abi-tava al suo nascere. Sono segni della sua evoluzione e, dunque, del tempo che hanno ispirato, fra l’altro, quella serie d’incisioni eseguite nel 1998 e raccolte con il titolo di Tracce. L’e-sterno è la conchiglia, la materia costruttiva, lo “scudo” con le nerva-ture madreperlacee disposte come decori ma aventi una precisa fun-zione strutturale, al suo interno v’è il pulsante organismo, l’altra parte del corpo, quella che alimenta, ossia dà la vita alle sue funzioni. La forma struttura e l’organismo, l’architettu-ra e il suo corpo mutante – l’umano , trovano un’appropriatissima defi-

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42 La Rassegna d’Ischia 3-4/03

A. Pomodoro Scettro I e Scettro II (particolari)

rassegna mostre Arnaldo Pomodoro

nizione, evidenziando i contorni di quel simbolico che pervade l’intera opera di Pomodoro. Un richiamo al simbolo guardato da una giusta mi-sura, avvertiva Sinisgalli già nel 1955 che ha una sua origine lontana, il cui respiro attraversa a ritroso il pensie-ro sul quale si fonda la cultura oc-cidentale, fino al senso classico, ad una radice antropologicamente for-te alla quale l’artista si sente legato. Credo che a sorreggere

il telaio del suo immaginario sia sostanzialmente, più che l’immagine simbolo, l’idea del simbolico, avan-zata non solo come relazione ad una forma che sollecita la cucitura con la sfera del magico, bensì come di-mensione di un tempo interiore del presente.

Per gli spazi della Torre di Gue-vara., lo scultore ha voluto “segna-re” proprio come fa il navigatore, i punti del suo viaggio, lungo quasi cinquant’anni, nei “tempi” e nelle “forme” della contemporaneità. An-che se segnano “punti” provvisori (si deve al desiderio di dare a questa mostra il carattere di piccolo trac-ciato antologico) le opere proposte, scelte in un arco di tempo che, dal 1960, giunge ad oggi., esplicano, chiaramente, i nodi problematici che l’artista ha man mano incontra-to o posto al suo lavoro. Un “nnio-versi” (un mutare) che non è stato, e non è, dare risposta all’effetto. alla bellezza o alla uovita di risoluzioni forinali. quanto la convinta verifica del passaggio. del transito. dell’inco-niro con un ulteriore inonieuto che è, anclie. scoperta di uno spazio per la fornia. di una nuova “figura” per lo sguardo, ossia di una scultura viva nei luoghi, ora dell’urbano, ora della natura.

Pomodoro cerca un’ulteriore veri-fica all’insinuante tarlo che sin dal-le primissime esperienze, spese nei laboratori artigianali della vec¬chia Pesaro, accompagna il suo lavoro. È quella domanda che il pensie-ro consegna alle mani, che l’animo suggerisce all’artificio; è il fil rouge che dalla Colorina del viaggiatore,

del 1961, va alle monu-mentali sculture per le metropoli statuniten-si ed europee o che dai segni che improntano la superficie pulsante dell’argilla giunge alla “trasparente” materia della croce per la chiesa nuova di San Giovanni Rotondo.

L’artista ha tracciato, in modo autobiografico, una rotta movendosi tra le forme che non testi-moniano solo per quan-to grande una specifica indagine nell’evoluzio-ne di solidi geometrici, quanto la relazione che esse di volta in volta instaurano con lo spazio che le accoglie. Nel caso specifico la Tor-re di Guevara e dei giardini che l’in-corniciano, affacciati su uno degli angoli più belli al mondo, uno spec-chio di mare abitato da racconti, da leggende, da storie del mare, da fi-gure, fantasmi che così come, nei primi anni del secolo scorso, li vide Nolde balzano dalle architetture del Castello Aragonese. Pomodoro, com’è nella sua prassi, ha studiato lo Spazio tessendo un gioco fra interni ed esterni nel desiderio di “cattura-re” sulla superficie speculare delle sue sfere, sui piani diversamente inclinati degli Scettri, o sugli anelli cardanici del Giroscopio della luce mediterranea, di quel medium che plasma, model¬la, accende e contra-sta la realtà. Una luce che ammanta di memoria la visione: lo spazio e gli oggetti, le figure e i corpi acquistano qualcosa parafrasando quanto scri-veva Kracauer a proposito delle città mediterranee del sogno, cioè di un processo che “allinea le immagini secondo regole estranee a come esse abitualmente appaiono”.

Esemplificando, è la luce zenitale che incide i segni e i rilievi ritmati dalle piastre del mirabile arco di ter-racotta invetriata che s’incastra e si slancia, proprio come fa un arco per dare spinta al dardo, nella baia ischi-tana del Negombo a Lacco Ameno,

fra le opere sono certo di non ec-cedere più significative di arte am-bientale. Bella non per l’equilibrata stesura della forma, il suo richiamo simbolico alla porta, al varco inizia-tico o, se si vuole (parlando di un luo-go termale), dell’ingresso al giardino delle acque lustrali. Bella perché profondamente dentro la “materia” antropologica della natura, nelle vi-scere di una tradizione viva, nell’an-tica e laica liturgia che impone il processo della ceramica, con i suoi colori, le ossidature o le irregolarità dettate dal fuoco. Indagare, anco-ra una volta, come dato emotivo, il riflesso e la sua capacità di svelare la forma e, al contempo, di mostra-re la materia, agguantandola come immagine sia di uno stupore (pro-dotto da quell’azione che l’artista, in un’intervista a Sam Hunter del 1974, chiama “distruzione”), sia d’un tem-po, che non è quello dello scorre-re rettilineo della caducità, quanto quello circolare dell’anima. L’artista ha collocato nello spazio interno di un’architettura, nell’ “organismo” della Torre di Guevara, sia la vitali-tà della materia, sia le immagini che essa cattura per poter essere parte del mondo: lo ha fatto con la stessa consapevolezza, con l’identico slan-cio di quando ha collocato la scultu-ra Colpo d’ala – 0maggio a Boccioni, realizzata fra il 1981 e il 1984, sul piano d’acqua antistante il Water

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La Rassegna d’Ischia 3-4/03 43

rassegna mostre Arnaldo Pomodoro

A. Pomodoro - Pagina solare, 2002bronzo, 50 x 35 cm

and Power Building di Los Angeles., o quando ha “sospeso”, sul tetto del Padiglione italiano all’Esposizione Internazionale di Montreal del 1966, la Sfera grande i cui sensibilissimi e specchianti frammenti di “calotte” accolgono, oggi, l’allungata facciata del Palazzo della Farnesina a Roma. Voglio dire che non v’è nessuna di-gressione progettuale; l’intento di relazione fra spazio e corpo o fra realtà ed immagine resta immutato in qualsiasi situazione. Il punto cen-trale resta il valore che Pomodoro dà alla scultura azzardando su un concetto espresso per la pittura da Merleau Ponty di essere “spazio” che manca al mondo per essere for-ma. In un ulteriore passo della citata intervista rilasciata a Sam Hunter, l’artista, infatti, dichiara: “Gli effetti specchianti includono ciò che vi sta attorno, lo spettatore. In una sfera ci si può riflettere, avere la propria immagine distorta. Questo rende la scultura viva, una parte di noi, della natura, in qualsiasi luogo si trovi, in un parco, in un giardino, in città”. Viva, pulsante, un corpo che forni-sce una “parte di noi”, insomma che completa l’unità di spirito e materia.

L’opera di Arnaldo Pomodoro, certamente fra le più significative espressioni del nostro tempo, testi-monia, in fondo, l’ancestrale neces-

sità che l’uomo ha di avere al suo fianco un “altro”, una presenza che lo sollecita, l’interroga e, al tempo stesso, gli fornisce l’anima della sto-ria, la sua identità di tempo, inteso come passato, presente e futuro, essere, cioè, lo sguardo cosciente dell’uomo della sua specie, ma an-che della grande sfera che ruota nel-lo spazio infinito dell’Universo.

Trasgredendo l’invito che lo stes-so artista sollecita, cioè a guardare di giorno le sue sfere, le colonne, gli ondulati fogli dei papiri, le piramidi, i coni a spirali delle sue recenti torri, in pratica a lasciare libero lo sguar-do in cerca delle immagini catturate dalle specchianti superfici, sugge-rirei, invece, di ammirarle di notte. Immagino un cielo buio, privo della luminosità lunare e del brulicare in-tenso delle stelle che si riflette sulla superficie speculare di una sua ope-ra: di colpo sarà la materia corrosa, quella che esplode dall’interno, a ricondurci al terreno, a strapparci dallo stato di surrealtà nel quale il nostro essere sprofonda. La materia corrosa, quella urlante, esistenzia-le, è il dato che ci àncora al piano, ad uno spazio che sentiamo essere terreno. L’esercizio ci offre un’al-tra prospettiva o, meglio, un nuovo punto dal quale porre in prospet-tiva l’opera di Pomodoro. Si pensi ad esempio alla sfera che s’incastra nella materia di un’altra più grande, come nella scultura che campeggia il Cortile della Pigna dei Musei Va-ticani, oppure alle dentature minac-ciose della Sfera di San Leo, com-pletata nel 2000, all’insondabile scrittura, quell’abbecedario di segni incisi sulla superficie ondeggiante della monumentale opera, intitola-ta Papyrus, realizzata fra il 1990 e il 1992, installata di fronte al Nuovo Palazzo delle Poste e Telecomunica-zioni di Darmstadt.

Sui piani lucidi delle punte, dei corpi arrotondati, acuminati, cor-rosi, specchianti, ritrove¬remmo frammenti, spicchi, piccoli squarci del misterioso spazio dell’universo, così nascosto e profondo, lontano,

proprio come si pre¬senta ai no-stri occhi di notte. L’Universo entra nella materia, in una parte, se pur infinitesima, di mondo, ovvero la materia ritrova la sua origine attra-verso l’arte, il gesto che la strappa al peso della sua “terrestrità” per farla pensiero – restituendole, in pratica, quel¬la leggerezza della quale parla Calvino. Il mio volto, che si specchia sulla convessa superficie della Sfera n. 5, diviene un punto bian¬co nello spazio sconfinato dell’Universo che lo accoglie.

Nello “spavento” che mi fa spro-fondare nel riflesso del buio, mi soc-corre la materia scura, corrosa, che si allunga dalle crepe, dalle fratture. Essa mi fa partecipe della vita, della sua storia. Per un istante, per quel gioco sottile che l’immaginario ori-gina nella nostra mente, mi sento nello sguardo di un Universo crea-tore, di un Dio che guarda, ossia di un sentimento forte che mi lega è l’artificio che iscrive Pomodoro e il suo linguaggio di “espressionista astratto” nella tradizione classica alla storia dell’umanità. L’artificio di Pomodoro, lo testimoniano le lettu-re che Argan e Zeri hanno fatto della sua opera, è la capacità di accordare “nel senso della misura e della sug-gestione stilistica” le sue forme allo “spazio” costruito dalla storia che è, insieme, evidenza dello spirito e del-la materia. Un pensiero che l’artista confida a Francesco Leonetti, in una conversazione sugli ultimi lavori. A proposito del progetto per la por-ta maggiore del Duomo di Cefalù, dichiara: “Ho realizzato il cielo o l’aldilà in una sfera d’oro. Nella Tra-sfigurazione ho voluto che il magma terrestre si diffondesse attorno alla base come alone, nella presenza alta della ‘nube luminosa’ con la voce del Padre”.

Massimo Bignardi

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44 La Rassegna d’Ischia 3-4/03

rassegna mostre

Ragnateledi Marco Lorandi

Alle origini di queste immagini fotografiche di Salvatore Basile, autodidatta che tuttavia proviene da un ambito familiare in cui le arti sono state largamente praticate, c’è una grande struttura, un macrocosmo architet-tonico di roccia stratificata nelle sue forme e trasformazioni plurisecolari petrose; essa si erge verticalmente in un’ascesa svettante dilatandosi fino ad annettere ed occupare l’intero isolotto primigenio nelle sue modi-ficazioni funzionali che la storia umana gli ha imposto, un castello, anzi il castello per eccellenza dell’isola d’Ischia, noto univer-salmente come “castillo de Aragona” dal nome del suo committente, Alfonso d’Ara-gona, che lo fece erigere nel 1438. Ma non è tanto il complesso dell’edificio nella sua massività fortificata esteriormente, turrifor-me a guisa di tornanti che si avvolgono fino al Maschio della cima, bensì le sue viscere, le sue interiora, i suoi abissi noscosti, le sue membra ed i suoi percorsi interni, misteriosi di caverne e passaggi sotterranei, di secre-te, di cunicoli, di camere buie ravvivate da fioca luce, luoghi di meditazione e di ascesi e di dolore, patiboli di prigionie e di torture, anfratti di preghiera e di violenza, ma anche di gioia come forse dovette essere il legame nuziale celebrato tra la poetessa Vittoria Colonna e Ferrante d’Avalos. In tali caverne e spazi bui vivono le ombre dense di polveri scure, sedimentate, di ragnatele, oggetto dell’indagine fotografica di Basile, impiglia-te, pendenti o tese quali tessiture sfilacciate, slabbrate o raggomitolate in crisalidi vuote dove il ragno, l’aracne antica, non fila più la sua bava di vita, il suo strumento di linfa organica, ma permangono attive le sue “co-struzioni” come una sorta di archeologia di stagnamento, dove le sue strutture filate ora frantumate in glomeruli ora in velari logora-ti, si intrecciano, si intersecano attirando a sé le polveri nere e tali da offrire la visione di un microcosmo che sa di lutto e di morte; ma nello stesso tempo queste ragnatele si trasformano in metamorfosi disegnative, in arabeschi anche spugnosi, come cristallizza-ti e necrotici. (...)

Galleria ELOART - Forio

Salvatore BasileFotografie

S. Basile - Trittico

“Datemi un muro scalcinato per incuria dell’uomo, un an-golo nel buio della solitudine, una crepa craccata nella pe-nombra incerta, appena visitata dall’afrore umidoso nel trasudo ammuffito; datemi il silenzio compagno di attesa, paziente e

Il canto di Aracnedi Pietro Paolo Zivelli

laborioso, di chi conosce l’attesa consumata tra le dita sull’ordito; datemi una finestra muta nella luce, sigillata nel chiuso dei giorni, datemi un pomo che stia zitto nella serratura arruginita; datemi il frullo di un venticello favente, il chiacchiericcio sommesso di una pioggerellina primaverile; datemi la trama del racconto che nel tempo si fa mito; datemi ancor questo e di nuovo, meravigliosa la tela, farà incollerire la dea dagli occhi azzurri”.

Salvatore Basile va a caccia di ragnatele e riempie, in più incur-sioni, il suo carniere di caricatori fotografici. Spara cliccando: un otturatore si apre, così impressionando il suo occhio e la pellicola. Di questo lavoro, durato quasi due anni, con centinaia di istan-tanee scattate, antologizza, per esporle, 20 immagini; preziosa sinossi di un lungo meti¬coloso escavo nell’intricato, misterioso, fuligginoso scotorama delle ragnatele. La ragnatelo è segno di

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La Rassegna d’Ischia 3-4/03 45

rassegna mostre Salvatore Basile

oblio, più o meno diluito nel tempo, ma è sopratutto un segnale, una bandiera che delimita il territorio di cac-cia del ragno; il quale si attiva in un veloce sferruzzare di zampette, nel lavorio, pazientio infaticabile mentre intesse il filamento coassiale, serico, salivato, sbavato, vomitato dalle sue filiere addominali, a costruire una geniale, micidiale trappola per catturare prede, lascia-te poi lì a dibattersi in spasmi agonici di sopravvivenza, a frollare per diventare pasto, predigerito nell’appicci-coso amnio. La mirabilla è tutta in quella tela, nelle sue geometrie concentriche, triangolari; amebe po-limorfe che blobbano, collassano poi in veri e propri velari che carezzano, tappezzano, involucrano tutto ciò che incontrano nella loro tesa e nella loro caduta. Ba-sile ci propone, nelle sue immagini fotografiche, que-sti preziosi reliquari: veroniche di sudori attaccaticci, sindoni fotoimpressionate, esfogliazioni e slabbrature, quando ancora crateriche implosioni. Immagini tutte che promanano una forte suggestione, a tratti accat-tivante, coinvolgente per come diventa “evento” nella fruizione dell’immagine concupita nella provocazione misura¬ta, nella reiterata riproposizione, pur diversi-ficato, del tema.

Le ragnatele, deprivate di tutto il materico ed il lette¬rario che le accompagna nell’ immaginario col-lettivo, esposte, attaccate a pareti lisce, bianche, asetti-che, illumi¬nate a giorno, diventano radiografia di un fenomeno che possiamo tranquillamente avvicinare senza provare fastidio, pulsioni o repulsioni; offerte come sono ai nostri occhi per letture più o meno sem-plici, più o meno com¬plesse. La storia racconta, in questo libro, di creature nate prima dell’uomo ed è una storia in bianco e nero. La luce ed il suo doppio: la sua negazione, la sua degenerazione. Il buio ed il suo dop-pio: la sua positività, la sua ango¬scia e poi via via tut-te quelle diacronie cromatiche che è possibile scandire tra i due estremi, con una variega¬ta teoria di grigi: azzurro, acciaio, ferro, piombo, perla (nuvola, nebbia, vapore, fumo, ragnatela).

Magici i neri che è riuscito a tirar fuori Basile, in quelle geometrie bloccate da assi inchiavardate (mor-tasa e tenone); telai di porte e finestre destrutturati nel taglio fotografico, perché comunichino una più forte potenza espressiva, scenografica.

Questi squadri rappresentano un vero e proprio ri-ferimento spaziale; delimitano il campo ed informano di sculto¬reo l’intera inquadratura, sottesa sempre dai ricami serici, delicati, evanescenti di Aracne. Tessere giganti cam¬peggiano nell’economia degli incastri, dei vuoti e dei pieni, dei chiari e degli scuri. Una tabula di-visa, taroccata, a scacchi, da 7° sigillo: il Cavaliere e.... le Parche intente a filare il senso della vita. Venti istan-tanee assemblate in sequenze narrative a proporre un tracciato fotografico, con una propria giustificazione intertestuale, tutto gioca¬to tra immagine, sua decli-

nazione, sua lettura. Ed è proprio in questa ottica che viene fuori il lavorio ostinato di una ricerca, “legendo” nella scelta, nella periodizzazione, nella proposizione, nel progetto espositivo.

Del perché Basile privilegi ora un momento frag-mento, ancora un altro fragmentato, è tutto all’interno della camera oscura. È lì che la creatività, in perfetta simbiosi, interagisce con la tecnica; la sensibilità con la fabrilità. Le mani di Basile concor¬rono complice il reagente chimico, i tempi della fotoimpressione,della esposizione (iper-iper) alla risoluzione della immagi-ne che, unica tra le tante, è come l’occhio obiettivo l’ha informata al momento dello scatto.

Nei processi di stampa, certi neri sono diventati gri-gi, certi bianchi sono diventati pur essi grigi, attenuan-do o accentuando il fuoco di talune immagini dilatate nell’ingrandimento, particolareggiate nella scansione. Demiurgo dell’intero ciclo: la tecnica, il mestiere, si-curamente il sentire di Salvatore Basile. I filtri, le ve-lature; le mani che giocano nel chiudere, restringere, catturare la luce per costringerla su un punto in par-ticolare. Aprirle, le mani, in un magico abracadabra, nella definizione ultima della immagine. Questi intrec-ci, queste danze delle mani-dita, ombrate, soffiate dal-la unica fioca fonte di luce in camera oscura, sono le movenze del ragno che rivivono, complice l’artista, nel gioco della luce e dell’ombra; tracciano un saliscendi di estrema leggerezza, improntato nell’ordito per poi diventare fotogramma.

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46 La Rassegna d’Ischia 3-4/03

I testi sono tratti dal Catalogo della mostra

rassegna mostre

Parco Termale Castiglione - Casamicciola

Mostra permanente di

Liselotte Wahl (1909 - 1996) *

* A cura della Fondazione Lilo Wahl - Ideazione: Berthold von Stohrer - Progetto ed allestimento: Angelo Bucarelli

Ed è la leggerezza della ragnatela, ormai diserta, ne-crotica. Ciò che resta fluttua nel preagonico momento dell’abbandono: si aggrappa, ultima spiaggia, ad una filiforme, segmentata trasparenza che ostinatamente collutta con una virtuale obsolescenza.

Grumi di polvere precipitano a dare nuova voce a quelle che furono le tele del ragno; ne ribaltano i termi-ni per cui, paradossalmente, è l’inorganico a dar “vita” all’orgnaico; dandogli una consistenza materica, un calco dell’essere una volta bstato una ragnatela.

E come non ricordare la silhouette del ragnetto, rin-secchito, irretito nel suo stesso filo?

Nella iperlettura del contesto si appalesa come un fe-

nomeno di tanatosi, di morte apparente, cui molti pic-coli insetti ricorrono per sfuggire ad un reale pericolo. Il nostro, vuole certamente sfuggire alla cattura di un obiettivo e di un clic! Ci piace pensarlo!

Mai immaginando di dover far da logo per una espo-sizione di foto di Salvatore Basile.

Pietro Paolo Zivelli

VIAGGIO AL SUDdi Lucia Annunziata

La terrazza è curata nei minimi particolari: tende, sedie, muri imbiancati di fresco. Dentro, domina il se-gno di una ristrutturazione intelligente, alternanza di materiali freddi e caldi, cotto e ferro, mattoni e legno, che costituisce la idea attuale di comfort.

Della casa originaria, dello spirito che la scelse e la costruì pezzo per pezzo tirandola fuori dalle sue cu-pezze di casa povera di un centro storico isolano, ri-mane forse solo la vista: un mare tra i tetti bianchi e una montagna che giganteggia sulle quattro case, erosa, in bilico e tralucente di vegetazione.

È una vista riconoscibilissima, fissata, nei suoi ele-menti, come un architrave della definizione dell’ani-ma degli ultimi due secoli: la innocenza, la semplicità del villaggio biancheggiante; la passione, l’abbando-no, la sensualità cui allude il mare e la forza corrugata, minacciosa, protettiva del monte. È il Sud del Grand Tour, del Viaggio Italiano di Goethe, è il mondo pa-gano e innocente che ha attirato nella modernità ro-mantica e, prima ancora, nel razionalismo avido di scientifiche inchieste naturalistiche migliaia di pelle-grini verso il nostro paese e queste isole mediterranee.

Scrittori, guerrieri, giovani inquieti, ricchi in crisi e poveri in cerca di fortuna, belle, bellissime, o vec-chiette, omosessuali ed eterosessuali, gente di talento e senza talento: ma quasi tutti in fuga dalle nebbie, dalle inquietudini politiche e culturali di una Europa anglo franco tedesca dominante e dannata, negli ulti-mi due secoli, nel suo ruolo guida del mondo.

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La Rassegna d’Ischia 3-4/03 47

rassegna mostre Lilo Wahl

Liloval - Acquarello, 41 x 32 cm

Liloval - Terracotta, 26 cm

Il 6 maggio del 1945, Lilo Wahl, la donna sulle cui tracce siamo arrivati in questa casa ischitana, anno-tava sul suo diario, nella fredda Austria, allora sotto il dominio delle truppe del suo paese, la Germania: “La guerra è quasi finita. Hitler è morto. Ora che si ha una visione del tutto si viene presi dall’orrore. Si era pre-fissato di essere il salvatore del Reich e lo ha condotto alla caduta. ‘La responsabilità me la assumo io’, ripe-teva e ora che sta crollando tutto lui semplicemente è morto, e nemmeno la Provvidenza, che sempre ha un ruolo, sembra abbia avuto nulla in contrario. ‘La responsabilità sono io’, e sono rimasti milioni di infe-lici che accusano. La guerra volge alla fine. Ora si tira un sospiro di sollievo e non si deve avere più paura, la Gestapo non esiste più. Ancora non si capisce del tutto che tutto è passato. Personalmente, non soffro per la disfatta. Il mio sentimento per la Germania non esiste più da quando mi hanno torturata in car-cere. Sono passati da allora due anni. Innnsbruck è così vicina. Sui monti nevica ancora, ma già si sa che l’occupazione da queste parti sarà pacifica. Il destino mi ha portata nel miglior posto all’interno della Ger-mania visto che non potevo restare a Roma. La guerra è passata accanto a me delicatamente. Solo due anni ma fin dal primo si è cristallizzata la scultura. Solo due anni sono stata molto fortunata senza paura, solo con la preoccupazione della famiglia. Presto ar-riveranno gli Americani. Sono contenta. Dio, sarà la pace e io sono ancora viva, sopravvissuta e in salute, senza grandi perdite.

Ma sono stanca stanchissima. Voglio il sole voglio andare al Sud e allora lì salteranno gli anelli di ferro che, come nella fiaba, si sono saldati intorno al cuore perché non scoppiasse....”.

In Italia, dunque. Al Sud. Bionda, alta, sofisticata, nulla tenente, artistica, Lilo Wahl, si mosse anche lei su questo itinerario percorso da centinaia prima di lei. Sostenuta dagli stessi sogni, da uguali infatuazio-ni, dallo stesso irragionevole impulso.

Il nove maggio del 1909 Lilo nasce a Colonia. Le sue prime foto già raccontano della futura bellezza che la sosterrà per tutta la vita. Le foto della giovinetta sono, poi, testimoni di un certo stile gonne sotto il ginoc-chio, caviglie inappuntabili, vita sottile, guanti, cap-pelli che segna la nuova frontiera, negli anni tren-ta, dell’indipendenza femminile. È la “sophisticated lady” di sapore internazionale nettamente lontana dai modelli popolar nazionalistici (bellezze solide, terranee, sportive dal sorriso largo, le trecce e le scar-pe comode) che abbondano nei manifesti degli inizi dei regimi dell’epoca.

Questa distinzione, apparentemente solo stilisti-ca, è in realtà differenza abissale: è una separatezza di modelli di riferimento, e allude dunque a diversi mondi culturali e politici. Della giovinezza di Lilo di

cui i suoi amici sanno poco o nulla questa è forse la traccia più significativa. Nella sua biografia e nelle sue foto non appare mai nessuna passione “ariana”, in una epoca in cui, pure, il bombardamento culturale su una adolescente deve essere stato notevole. Lei si presenta già così, con un’aria “di mondo”, che sarebbe interessante capire da dove proviene.

Non certo dalla politica. Gli amici raccontano che a Lilo della politica proprio non interessava nulla. “Le interessava la vita”. E perché no? Anche l’inseguire la vita è un antitodo alla (cattiva) politica.

Giovane, di bell’aspetto, innamorata dunque della vita, Lilo approda a Berlino per l’unico serio sboc-co che all’epoca veniva dato alle ambizioni di quelle come lei: il cinema. Il grande cinema Tedesco, dalle cui menti sono state partoriti le glorie e i mostri dello straordinario potere del nuovo mezzo. Le glorie dei “Nosferatu”, le intuizioni degli incubi della moderni-tà, e i mostri delle immagini al servizio della persua-sione di massa, i regimi che nascono dalla manipola-zione.

Supponiamo che questa Berlino fosse piena di ra-gazze belle, vivaci, piene di vita. E di aspiranti boss e gerarchi. Probabilmente troppo delle une e degli altri, se è vero che, senza molto pensarci, la Lilo abbraccia la vita della vagabonda: su navi per il Sud America,

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48 La Rassegna d’Ischia 3-4/03

rassegna mostre Lilo Wahl

Liloval - Isabella Gerro-Cebrian, terracotta dipinta 14 cm

Liloval - Maria Gabriella di Savo-ia, terracotta 23 cm

su treni in Europa, in quello svagato movi-mento che riempì la vigilia della Secon-da Guerra mondiale. Lilo è solo intorno ai ventanni: è modella, amante occasionale, aspirante artista.

Nessun moralismo frena il suo vitalismo sessuale e creativo che per lei sono una sola pulsione. Ne è prova una singolare (quasi blasfema) preghiera con cui, nel suo diario, si rivolge a Dio negli anni duri della guerra: “Ti prego, Dio, fammi diventare vecchissima piena di vigore, restando giovane. Così come da quattordi-cenne ti ho chiesto ‘dammi un bellissimo corpo’ e tu per gioia mia e di molti hai esaudito il mio desiderio. Lasciamelo questo piacere fisico fino a quando devo perire”.

L’amore, inteso come l’abbraccio panteistico fra es-senza umana e sogno, comunione di esseri e natura, il punto più privato del corpo e insieme il più pubblico della mente, è la bussola di questa giovane donna, il segno su cui guida la sua vita.

Anche in questo Lilo Wahl non è originale: questa illusione creativa ha in sè la speranza dell’allontana-mento dalla realtà più banale, una speranza di “am-nesia” rispetto alla brutalità del secolo. Una illusione che una intera generazione di intellettuali e artisti già coltiva prima del “diluvio” della Grande Guerra.

Sul filo dell’amore la giovane Lilo si ritrova a Vene-zia, legata a uno scultore italiano, che le offre le prime vere lezioni di arte. È il matrimonio fra arte e natura che lei insegue in Italia. Ci sono foto da Grand Tour nel suo album di allora: sempre con cappellini leggiadri, sempre con guanti, sempre con inimitabile sorriso.

Nessuna ombra, nessuna traccia della grande Storia disturba il suo girovagare, fino al 5 maggio del 1943, quando questa Storia bussa alla sua porta, nella sgra-devole forma di un gruppo di soldati della Gestapo che la arrestano, la accusano di essere una spia per gli Ita-liani, a causa del suo passaporto scaduto, la infilano senza sentire spiegazioni in un treno e la trasportano, come molti, in un carcere austriaco. Ha solo 34 anni, e in quel carcere resterà solo 26 giorni. Ma sarà forse la più realistica irruzione della Vita nella sua immagi-nazione di vita.

***

A Vienna, il 24 lu-glio 1943 scrive nel suo diario: “Tra la mia partenza da Roma il 5 Maggio e la giornata odierna sono successe tante cose. Un gior-no metterò tutto per iscritto. Per ora non posso. Sono stata 26 giorni in carcere. Cioè 5 giorni a Innsbruck, poi mi hanno spedi-to con un trasporto. Perché? Perché??? Ho sofferto molto, tanto da essere diventata un essere umano del tutto diverso. Resta molto

da dire. Ma non ora. Non dimentico nulla. La vita la mostruosa vita. Fino a quando mi sarà concesso di goderla? Quando tornerò a Roma? La povera Roma bombardata”. Queste note sono forse la sua più chia-ra intuizione di quello che sarà questo periodo: è nei due anni successivi all’imprigionamento, infatti che la ragazzina “svagata” è obbligata a mettere in ordine le proprie idee.

E i propri miti: Roma e l’Italia diverranno proprio in questo periodo, nella sua mente, da meta turistica a luogo elettivo di una seconda patria dello spirito.

La traccia del periodo di guerra è anche l’unica che possiamo seguire perché la ragazza, finalmente obbli-gata a fermare quel suo perpetuo moto da vagabonda di lusso, affida a un diario i suoi pensieri.

E, stando a questo diario, si forma in questi anni, in tutti i sensi, la Lilo che gli amici italiani ricordano ancora oggi. L’una donna spaventata, soprattutto dal-la solitudine; affannata dalla insicurezza economica. Cerca la soluzione alle sue paure in colossali bevute e innumerevoli amanti. Bevute e amori puntualmente seguiti da terribili delusioni.

Contemporaneamente, sotto questa apparenza “ba-nale” covano in lei però slanci generosi, sogni di ca-tarsi, afflati artistici, e, infine, la piena consapevolezza di essere, e voler lavorare ad essere, un’artista.

Con un interessante processo di identificazione del-le sue due realtà: il nord è il freddo, il sud è il caldo; l’essere tedesca è una prigionia, l’essere a Roma la ca-tarsi.

La serie amori e alcol fanno capolino quasi sempre insieme. Gli amori sono spesso poi triangoli e confu-sioni fra passato e passati.

Ma è la paura e la solitudine il male: “Nevica, c’è ghiaccio. Mi ubriaco e visto che l’alcol intristisce mi viene da piangere. Sono sola. Cammino per strade

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La Rassegna d’Ischia 3-4/03 49

rassegna mostre Lilo Wahl

fredde e nebbiose e piango”. Gli uomini, in questo pa-norama, sono in realtà solo dei passeggeri su un treno che va chissà dove. Oppure sono delle pure domande: “io amo l’amore per sé stesso. 0 amo davvero questo Roderich così tanto?”. Sempre, l’amore è veicolo di avventure e viaggi. Si scopre, così, nel diario, verso la fine della guerra, anche un passaggio “partigiano” di Lilo, a seguito, naturalmente, di un uomo “Felix, ufficiale di collegamento con gli americani”. “Lilo la sposa partigiana con le armi nel letto, e un meravi-glioso cane pastore, Dingo. Felix lo ha adottato a mia protezione. Ci ama molto il più bel cane del Tirolo. Sui monti sparano ancora le SS...”.

Ne bel mezzo di tutto questo è sempre l’Italia il faro: Bombe su Roma, ripetutamente. Attacco terroristico su Roma. Santissima Madre, dal tuo matrimonio col santissimo padre sono nati tutti gli artisti, l’arte è nata in questa atmosfera romana, questa miscela con l’an-tico di secoli. La città Eterna, Dio, chi ti difende, non c’è nessuno che ti protegga?”.

“Roma. Ho nostalgia, mi strazia, e nessuna notizia. Oh Dio romano, quando potrò tornare?” Intorno al sogno italiano si raccoglie la riflessione su sé stessa come artista. A partire dal riconoscimento di una sua nuova sensibilità: “Nostalgia. Non ho mai saputo cosa fosse la nostalgia, ma da quando conosco il Sud so an-che questo. Roma, quando ti rivedrò di nuovo?”

Dalle molte sbornie emerge piano questo senso di ridefinizione: “Lavoro: raffinamento. Perfezionamen-to senza decadenza”. “Mi occupo incessantemente del mio sviluppo e della mia educazione perché questa è la base del mio creare. Sto iniziando ora. Che fortu-na l’aver scoperto il senso della mia esistenza in tutto quello che è successo finora... Morte, miseria. tortura, spavento, paura, ostinazione, perplessità, tormento, preoccupazioni. Fioritura della Rivoluzione”.

La fine della guerra la coglie cosi in piena “matura-zione” per certi versi: “La guerra è finita vero? Cosa significa? Quanta povera gente è davanti al nulla. Ma per me la vita comincia ora. E ora fanne qualcosa! E non averne più paura!”

La fine della Guerra è la fine della sua cittadinanza di origine per sempre: “È finita e ora inizia una vita. Dovrei vergognarmi di essere tedesca. Ma due anni fa ho dichiarato guerra alla Germania”.

La purificazione dal passato diventa il tanto ago-gnato ritorno: “Oh, questo mese pieno di cadaveri. E tutto quello schifo spirituale che si è ammassato e fino ad ora non è stato del tutto rimosso. Solo a Roma tor-nerò pulita, quando andrò a riprendere il mio cuore a Fontana di Trevi. E non dò pace. Voglio che sia così. Perché deve essere così”.

Il desiderio si avvera. Lilo resterà in Italia fino alla fine della sua vita. Dopo anni di vagabondaggi fra cit-tà, isole, sceglierà alla fine Ischia e questa casa con la

terrazza dove siamo. È una casa solare, aperta al fuo-ri, che lei costruirà pezzo per pezzo, strappandola al buio e alla cupezza di un soffocato centro storico. Ne farà il centro della sua vita sociale, la perfetta cornice per le sue opere d’arte. Soprattutto per le varie teste di persone modellate in materiale sempre grezzo. In questa Ischia vivrà fino a diventare insieme una leg-genda e un vezzo locale: molti, nelle vie del centro, ricordano ancora questa signora vestita sempre come una diva di Hollywood, con caftani colorati e turban-ti, alla guida di una piccola Ape da trasporto. Molti ricordano i suoi cani. Altri ricordano la sua gentilezza. Quasi tutti, alla fine della sua vita la giudicavano un po’ “l’eccentrica”, e se al Bar del centro qualcuno dice anche “pazza” non c’è da meravigliarsi.

La vita che ha fatto in questa Italia dove è arrivata con tanto impeto, non è stata poi diversa da quella che già aveva definito negli anni di guerra: ci sono stati nella sua vita molti amori, quasi tutti infelici. C’è stato molto alcol. E molte preoccupazioni economiche. Ma nulla di tutto questo ha mai bloccato quella determi-nazione a vivere e creare cui si era aggrappata nei mo-menti di difficoltà.

Di questo suo stabilizzarsi definitivo così parlava: “Io ho forza, come poche donne, senza essere masco-lina, dato che il polo opposto al “femminilissima” è proprio quello. Lentamente sto raggiungendo il mio equilibrio per questo mi sono permessa molti errori”.

E il suo punto più debole e più forte insieme la ca-pacità artistica aveva trovato in questo equilibrio una forma: le mie sculture ci deve andare dentro tutto; tutta la meravigliosa e delicata vita, piena di forza e di dolcezza, tutto deve entrarci fino a quando le teste non bastano più e il nuovo si fa avanti”. Forse non è un caso che proprio le teste sono il segno più specia-le del suo lavoro: piccoli memento di essere umani fermati nella pietra e nell’argilla in uno straordinario momento di vitalità. Vitalità. Lo stato naturale da lei più ammirato e perseguito.

Gli amici la ricordano fino alla fine della sua vita in-castonata in questa aura di affascinante “imperfezio-ne”. Un po lady, un po’ povera, un po’ artista, un po’ fragile. Ma sempre, sempre, sorridente, accogliente, pronta a darsi, nel perseguire imperterrita fino all’ul-timo, la vita stessa, come nella preghiera di anni pri-ma, “Dio, fammi diventare vecchissima ma piena di vigore”. I segni che questa vita ha lasciato dietro di sé sono solo tracce lievi: il ricordo vivissimo tra la gente che l’ha conosciuta e un’opera creativa più affascinan-te che definibile. Ma del resto non c’è da meravigliarsi. Come molti viaggiatori artisti avventurieri - uomini e donne liberi, Lilo Wahl ha in realtà creato una sola e unica opera d’arte: il suo viaggio umano.

Lucia Annunziata(Catalogo dell’Artemide Ed., luglio 2003)

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50 La Rassegna d’Ischia 3-4/03

Il 6 gennaio 2003 è ricorso il centenario della nascita dell’artista isolano Aniel-lantonio Mascolo. Per ricordarne la figura e l’ope-ra riportiamo due articoli di Gabriele Mattera e Pietro Paolo Zivelli. Per l’occasio-ne in settembre/ottobre p. v. la Galleria delle Stampe Antche di Massimo Ielasi ricorderà con una mostra l’artista.

Aniellantonio Mascolo

Aniellantonio Mascolo è nato ad Ischia, dove tuttora vive, il 6 gennaio 1903.“Verso i vent’anni, facevo il falegname, andai a Siena per studiare gli intagli delle cattedrali, era il 1928 29. Sora

Rita, una donna da cui ero ospite, mi disse: Perché non si scrive alle Belle Arti? Allora ignoravo che con la creta si facessero le statue, andai all’Accademia e mi iscrissi in plastica ornamentale e disegno.

La plastica mi appassionò, decisi di fare lo scultore”.Nell’essenzialità del racconto, nella funzionalità delle linee, la produzione di Aniellantonio Mascolo, al di là del

mezzo tecnico espressivo di cui si serve, resta profondamente legato al plasticismo non necessariamente informa-to in senso figurativo. Mascolo racconta la storia della sua gente con immediatezza ed efficacia e nel suo discorso non c’è compiacimento, vedutismo, paesaggismo ma documentazione e denuncia. Un discorso culturale dunque; quando recupera, certamente, il passato, storico.

La lettura dei suoi lavori è immediata, perché testimonia le occupazioni della gente dell’isola nel lavoro atavico ed esistenziale dei pescatori e dei contadini; degli artigiani del ferro, del legno; dei maniscalchi, dei maestri bottai e dei maestri carpentieri; dei maest muratori come dei musici di banda.

Il paesaggio è quello non ancora contaminato dalla speculazione edilizia, non appesantito dal cemento; sem-plice nella linearità dell’architettura mediterranea, piena di luce nel bianco della narrazione, piena di movimento nella costruzione.

Piazze dove riti antichi e fascinosi sì ripetono in processioni, in feste paesane dal sapore ancestrale e primitivo. Nelle sue silografie c’è una geometria religiosa, una compostezza ieratica, una teoria delle arti e dei mestieri tra balconate, archi, bellissime scale con ballatoi, porticati: Ischia Ponte.

Figure bianche campeggiano quadrati neri. Nelle “piazze” di Mascolo non c’è consumo, c’è lavoro, pratica reli-giosa, folklore.

La xilografia è tecnica antichissima, naturale espressione della stampa popolare; nata nel cuore dell’Europa durante il XV secolo, informava di sé la sfera del sacro magico, tendeva al propiziatorio; pratica usata per le carte da gioco ed ancora per carte geografiche; iconografica dei fatti religiosi. Mascolo, soprattutto nei suoi più recenti lavori, affronta il tema sacro, sviluppandolo in motivi e momenti di gioiosa coralità: il Presepe, Cristo che evangelizza, Francesco che rende mansueto il lupo. Le terrecotte sviluppano, in parte, gli stessi temi. La tecnica è coscientemente arcaica; la materia è trattata con amore, le forme sono accarezzate e non violentate conservando così la propria fisicità.

Ritorna qui l’uomo sensibile ai materiali, l’uomo che conosce il legno (faceva il falegname), carezza l’argilla assecondandone con le mani la rotondità delle forme.

“Io ho sempre amato la terracotta, il legno. Forse avendo la possibilità, avrei fatto delle opere in bronzo, mai in marmo, è troppo freddo”.

Nel 1948 espone alla XXIV Biennale Internazionale di Venezia ed a questa prestigiosa manifestazione viene nuovamente invitato nell’anno 1952 (XXVI). Molte sue opere si trovano in gallerie e musei italiani e stranieri.

Pietro Paolo Zivelli

rassegna arte Centenario

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«Quando scolpisco, il mio soggetto

è il popolo»

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La Rassegna d’Ischia 3-4/03 51

rassegna arte Centenario

Mascolo: la ieraticità del gesto

di Gabriele Mattera

A. Mascolo - Pesca miracolosa

“L’occasione di questo omaggio ad Aniellantonio Mascolo ci fa sperare che una più vasta attenzione induca ad osservare la sua umanità, popolata di figure con la stessa forza buona, simile al suo sorriso largo e disponibile, gli uomini e gli animali del pari arguti, come nel raglio dell’asino (n.d.r. “Il ra-glio dell’asino” è il titolo di un bassorilievo ligneo).

“Occorre disporsi a guardare la sua opera e la vita come i suoi occhi pro-mettono: vivi di intelligenza e curiosi di annotazioni...”. Con queste parole Ercole Camurani conclude il suo scritto di presentazione al catalogo della mostra tenuta nel Castello d’Ischia nel 1985.

Ecco dunque un’altra occasione che ci viene dalla mostra organizzata da Massimo Ielasi nella sua Galleria delle Stampe Antiche ad Ischia Pon-te. Un’occasione particolarmente in-teressante, per il taglio dato alla mo-stra e per la rigorosa selezione delle opere esposte.

L’opera dell’artista ischitano, e, in special modo la grafica, ha cono-sciuto momenti di vera gloria con riconoscimenti prestigiosi, tra cui il I premio degli incisori d’Italia e la partecipazione a diverse Biennali di Venezia, Quadriennali di Roma e altre numerose rassegne di grande rilievo internazionale. In quegli anni Mascolo veniva riconosciuto dalla

critica come uno dei più grandi in-cisori italiani per la originalità della sua opera.

Anche il critico Paolo Ricci, fre-quentatore della nostra Isola e amico ed estimatore di molti artisti locali, individuava in Mascolo e in Luigi De Angelis i due esponenti più importanti di quella che egli defi-niva addirittura “scuola ischitana”. Difatti i due artisti, l’uno scultore ed incisore, l’altro pittore, furono non soltanto presenti in importanti rassegne internazionali, ma godette-ro di larga stima da parte di famo-sissimi artisti tedeschi che scelsero Ischia come loro dimora e non sol-tanto per le bellezze del paesaggio,

ma per la grande e stimolante pre-senza appunto di alcuni artisti locali, dai quali, non è esagerato affermare, presero più che stimoli e ispirazioni.

Tuttavia, i mercanti del conti-nente, forse per ignoranza, forse per miopia, non si accorsero di lui e l’opera del nostro geniale e origi-nalissimo artista è rimasta fuori dal circolo del grande collezionismo con la conseguenza che il suo nome oggi, è pressoché sconosciuto.

Il debito che tutti noi abbiamo nei suoi confronti è grande e non si estinguerà con l’allestimento di qualche mostra delle sue opere, sia pure organizzata con intelligenza come questa curata da Massimo Ie-lasi.

Occorre, una volta per tutte, che i collezionisti, le autorità e gli eredi riuniscano le forze per la creazione di una struttura stabile dove esporre permanentemente tutta l’opera, gra-fica, plastica e ceramica, corredan-dola di uno studio serio e approfon-dito, per definirne la catalogazione e la giusta collocazione nell’ambito del panorama dell’arte italiana del 900.

La totale inesistenza di una poli-tica culturale nella nostra isola, non ha consentito a molti ischitani di ca-pire appieno l’importanza dell’ope-ra e il livello raggiunto da Mascolo artista. Infatti la grafica a carattere popolare viene ancora utilizzata come testimonianza di una situa-zione paesaggistica e ambientale dell’isola d’Ischia, e di confronto con situazioni del passato, sottraendone il vero significato artistico e riducen-dola così a documentazione di storia locale. Mascolo per quella naturale riservatezza che ha caratterizzato l’intera sua vita, non ha mai voluto vestire i panni dell’artista e tanto meno dell’uomo con meriti e qualità particolari. La sua semplicità e il suo candore sono state le colpe della sua non storia che, infine, gli ha molto nuociuto.

L’incapacità di concedersi come uomo pubblico è stata intesa come orgogliosa e sprezzante superiori-tà, togliendogli il diritto di godere

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52 La Rassegna d’Ischia 3-4/03

rassegna arte Aniellantonio Mascolo

A. Mascolo - (da sinistra in alto) Vendemmia - Donne e pescatori - Entrata nel porto - Festa in piazza

dei benefici concessi dalla società del potere. Ma chi lo ha conosciu-to, sa bene quanto egli fosse restio a far vita sociale, non per civetteria snobbistica o per superbia, ma per semplice e naturale umiltà. E per la stessa umiltà che non si curò affatto di preparare le basi per una siste-mazione della sua produzione, forse perché, ingenuamente convinto che la sola forza delle sue opere sarebbe valsa a garantirne l’immortalità.

Vivendo in una sorta di ascetismo e in una speciale condizione di be-atitudine, non pensò mai di acqui-sire il superfluo né la gloria. Stoico nel sopportare le sofferenze fisiche, che le condizioni di salute gli pro-curavano, specie negli ultimi anni della propria esistenza, rassegnato e composto nella sua grande dignità di uomo, seppe sconfiggere perfino

la paura della morte, non perché ne ignorasse l’irrimediabilità, ma per-ché seppe superarla, riconoscendo-la come naturale conseguenza della vita, che, nonostante tutto, egli visse con allegria e fecondo operare.

Uomo dalle poche esigenze, lega-to a pochissimi amici e alla famiglia da sentimenti antichi, divideva il proprio tempo tra il lavoro, la mag-gior parte, e le rituali passeggiate sul Pontile e nel Viale dei Bambini in Pineta. Una vita vissuta si può dire in pochi metri quadrati, tra le case di Ponte d’Ischia con la sorella Nina e i nipoti, ai quali dedicava tutte le sue attenzioni e il suo affetto. I modelli del suo lavoro erano sempre scelti tra gli stessi suoi familiari, forse per una sorte di pudore o per il timore di intrusioni nella propria intimità, forse per la consuetudine che i suoi

familiari avevano con il suo lavo-ro. Egli era per tutti non il maestro o il professore, ma semplicemente Aniellantonio e mai mancava di iro-nizzare se a qualcuno veniva in men-te di apostrofarlo con qualche titolo accademico. Venendo dal popolo si sentiva del popolo e l’uomo umile era per lui il vero compagno di vita al quale dedicava tutto il suo interes-se di artista e di uomo. I personaggi delle sue linoleografie anche quelle a carattere religioso sono gli stessi umili che egli incontrava ogni giorno per le strade di Ponte.

La religiosità delle sue opere non va dunque ricercata in un oleografia rituale e convenzionale, ma piutto-sto nel legame che i personaggi han-no con la vita terrestre fortemente ancorato alla realtà. Lo stesso Paolo Ricci, grandissimo conoscitore ed

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La Rassegna d’Ischia 3-4/03 53

rassegna arte Aniellantonio Mascolo

A. Mascolo - Il buon pastore

(In Catalogo Mostra 1991 alla Gal-leria di M. Ielasi)

estimatore dell’opera di Mascolo, parla spesso della presenza dell’ele-mento umano e terrestre nelle scene del Vangelo.

L’opera di Aniellantonio non co-nosce scarti o salti stilistici; non si divide in periodi e tematiche, ne contiene implicazioni letterarie. La sottile differenza tra l’opera grafica a carattere popolare e quella religio-sa, è da cercare più nel rapporto che egli aveva con la sua stessa vocazio-ne, che non in una vera differenza di linguaggio.

Quella a carattere popolare scatu-risce da una osservazione attenta ed ironica della realtà, la religiosa dal sentimento profondo e segreto della propria creatività.

Non bisogna dimenticare che l’i-nizio della attività grafica nasce ap-punto con una linoleografia dedica-ta alla vita di S. Francesco. Quel S. Francesco che egli prese a modello per tutta la vita con fede profonda e rigorosissima osservanza.

Le scene del Vecchio Testamento, La Creazione, la vita di S. Francesco, la Via Crucis, sono opere scandite in ritmi spaziali di grandissima monu-mentalità. Il modo di accampare le figure dei Santi, di Gesù, di Maria, degli Apostoli, su fondali di nero, intatto e profondissimo, fissate nel privilegio dei bianchi sui neri, sen-za alcuna gerarchia di piani, di mo-dernissima concezione, avviene non tanto per una necessità di racconto, quanto e solo per una esigenza com-positiva. La grande maestria nella ripartizione dello spazio, l’intensità e la tensione della contrapposizione tra i bianchi e il nero, fanno di Ma-scolo uno degli artisti italiani che, a pieno titolo, si colloca a fianco dei protagonisti dell’arte europea dei primi di questo secolo.

Più volte si è parlato di Mascolo come di un artista primitivo, forse per le sue figure vagamente arcai-che. In realtà Mascolo si è sempre ispirato alle genti semplici, alle quali ha dato espressioni, a volte, un po’ ironiche, ma questo non vuol dire che sia stato un artista primitivo.

Semplice sì, ma non incolto, anzi il suo candore gli ha consentito di in-dagare e scoprire realtà oltre ogni apparenza. Il linguaggio essenzial-mente scarno, privo di citazioni e di facili virtuosismi tecnici, appartiene agli artisti di grande cultura e sen-sibilità, come è stato Mascolo. Egli ha sempre lavorato in sintonia con la sua vocazione, senza bisogno di forzare la sua “ispirazione”, ricchis-simo com’era d’inventiva e, nello stesso tempo di esperienze di vita; egli ha semplicemente seguito la strada tracciata dalla sua autentica vocazione e dal suo talento artistico.

Nella serie delle opere religiose, selezionate da Massimo Ielasi, per questa mostra, si legge con tutta chiarezza la grandiosa capacità di Mascolo nel rappresentare, con un minimo di mezzi, tutta una vasta gamma di situazioni, di sentimenti e di emozioni. Il suo non è un linguag-gio di finzione o di imitazione, ma autentica creazione, espressa con semplicità ed immediatezza e sfron-data da quella retorica parrocchiale e di sacrestia, tanto cara ai ministri della nostra chiesa, che più di altri sono colpevoli di averne osteggiato la collocazione nelle strutture eccle-

siastiche, preferendo ad essi oggetti di dubbio gusto e privi di qualunque senso religioso. Oggi Ischia patisce le conseguenze di questa politica del “Forestiero” ed è privata di opere che avrebbero dato lustro alla no-stra Isola e godimento spirituale ai fedeli.

Un’occasione irripetibile che evi-denzia ancora una volta la povertà di serie iniziative sul piano civile e culturale delle amministrazioni fin qui succedutesi. Ma la presenza di Mascolo resta viva e significante per alcuni pochi, non solo per l’attualità della sua arte, ma per la profonda umanità del suo messaggio.

Guardare oggi alle sue opere, esposte in questa bellissima mostra, ricca di stile, di qualità e di elegan-za, significa riscoprire il valore di un autentico messaggio artistico che ci spinge a disporci, come scriveva l’amico Ercole Camurani, con gli oc-chi della mente e dell’intelligenza, a guardare oltre il contingente e a ri-conoscere ed apprezzare la fortuna, se non il privilegio di essere nati sul-la stessa terra di uno degli artisti più significativi del nostro tempo.

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54 La Rassegna d’Ischia 3-4/03

rassegna arte

Atmosfere ubertose

nella pittura di Alvim *

di Bruno Gallo

Mario Alvi - Figure al tramonto, olio su tela, cm 60 x 80

Mario Alvi - Pescatori che tirano la rete, 1998, olio su tela, cm 60 x 80

L’ansia di voler visualizza-re quei particolari aspetti, i più inusuali e di per sé caratteristici, della lussureggiante terra acca-rezzata o percorsa dal pescoso e placido o impetuoso mare, perva-de l’artista ischitano che si serve della consunta tavolozza su cui stempera, con la rudezza tipica marinaresca, le forti o delicate, spesso materiche, miscele amal-gamando i pigmenti cromatici in grado di riprodurre sulle tele quelle impressioni colte, fatte proprie e conservate nel grande “armadio” della psiche, dalla pro-pria sensibilità.

Intense ed ampie le sue stesse stesure fanno rivivere, con i par-ticolari di alcune località ritenute interessanti, le situazioni ripe-scate dal ricordo, personalizzate dalla fantasia, vivacizzate dai ri-verberati colori.

La paesaggistica di Alvim vi-

sualizza così quelle particolarità, che la sua sensibilità riesce a co-gliere, di un paesaggio assolato e ubertose, mediterraneo, anche nelle sue diversificate entità, ca-ratterizzate da variegate cromie, e disseminato dalla presenza del-

la figura umana, delle barche, dei cavalli, delle case marine atte-stante la vitalità del passato.

E con i luoghi illustrati eviden-zia anche le tipiche atmosfere: i meriggi di intensa calura con-traddistinti dagli infuocati tra-monti, le organizzate uscite per le “battute” di pesca, le assolate distese delle campagne irrorate dalla fatica dell’uomo, le lande punteggiate dalle sparse casu-pole rurali. Le raffigurazioni ri-specchiano, con le peculiarità dei luoghi rappresentati, anche quei reconditi aspetti interiori che sono tipici della cultura ischita-na, antica e moderna, retaggio delle pregnanti tradizioni che ne hanno contrassegnato l’antica civiltà e ne determinano quella moderna.

L’atmosfera, a volte idilliaca, diventa greve, corposa e densa, tipica di un impressionismo che rimane nei tratti sintetici, quan-do delinea l’essenza della fem-minilità di cui fa intravedere, in alcune volute, malcelate e afrodi-siache movenze che concorrono al pathos di una complice e com-battuta vogliosità esistenziale.

Parvenze o realtà? È il piacevo-le dubbio che alletta la fruizione.

* Mario Alvi ha tenuto una mostra personale nel mese di giugno c. a. presso le sale della Torre del Molino d’Ischia con il patrocinio del Comune di Ischia.Mario Alvi (Alvim) è nato a Lacco Ameno il 28 febbraio 1945; è stato allievo dei grandi pittori napoleta-ni Franco Gironi e Carlo Verdecchia. Professore di Educazione artistica, partecipa a mostre collettive e per-sonali in Italia e all’estero. Nel 1978 l’Istituot superiore internazionale di Studi Umanistici per la pace nel mon-do gli ha conferito il premio “San Luca d’Argento” per la pittura.

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La Rassegna d’Ischia 3-4/03 55

rassegna Libri

Ischia nella tradizione greca e latina di Raffaele Castagna

Imagaenaria Edizioni Ischia, luglio 2003. Impaginazio-ne Enzo Migliaccio. In copertina: Enzo Rando: L’isola d’Ischia vista da Vivara, fotografia 1993 (elaborazione grafica). Pagine 352

Ischia l’isola dimenticatadi Edgar Kupfer-KoberwitzTraduzione dal tedesco di Nicola Luongo

Imagaenaria Edizioni Ischia, luglio 2003. Impagina-zione Enzo Migliaccio. In copertina: Mario Mazzella: Chiesa di S. Micheliello, olio a spatola su tela, 1990. Pagine 432

L’isola d’Ischia, che accoglie Edgar Kupfer-Koberwitz tra il 1939 e il 1940, è un variegato microcosmo che ri-flette una realtà incontaminata e rousseauniamente pura e primigenia, è ancora quell’ambiente che aveva attirato tanti artisti, scrittori, poeti che considerarono l’isola come un’utopica Arcadia o un Eden di benessere. Ma soprattutto una caratteristica distingue Kupfer da molti altri viaggiatori stranieri: la curiosità di conoscere la mentalità degli ischitani e il rispetto genuino per i loro usi e costumi, senza ergersi a censore dei comportamenti altrui. L’autore non si è chiuso in una torre d’avorio, ma è anda-to alla ricerca del contatto con pescatori, contadini, artisti geniali e squattrinati, soprattutto con vetturini, dai quali si fa trasportare nei luoghi più reconditi e suggestivi, sempre

Ischia attraverso i testi greci e latini (pre-sentati sia in originale che in versione ita-liana) dall’età omerica all’Ottocento: questo potrebbe essere considerato sostanzialmen-te l’obiettivo di lettura della presente raccol-ta con pagine di favole, di vicende storiche, di distruzioni e ricostruzioni, di poetici richiami. Il tutto a testimonianza di un’isola quale punto di incontro di mitici narratori, di poeti, di storici, di artisti, e di un rappor-to sempre intenso col mondo culturale, che è continuato e continua sino ai nostri giorni. Peraltro questo lavoro non si presenta come una rigida antologia di passi in versi o in prosa, ma cerca anche di porre in stretta relazione e su una linea di continuità fatti, eventi e fenomeni.

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56 La Rassegna d’Ischia 3-4/03

rassegna Libri

ponendo domande per soddisfare la sua sete di conoscere non solo gli aspetti paesaggistici, ma soprattutto le vicende umane, a volte commoventi, a volte briose e divertenti, della povera gente, dalla quale viene ripagato con sinceri sentimenti di stima. Raccogliendo in forma romanzesca le testimonianze de-gli isolani sinceri e ospitali sulla storia, sulle leggende, sulle tradizioni in un caleidoscopio di immagini e di avveni-menti, lo scrittore offre una narrazione non convenzionale, ma rispettosa della vera identità dell’isola e fonte di prezio-se informazioni e di ragguagli etnici e culturali. Edgar Kupfer-Koberwitz nasce nel 1906 nei pressi di Breslavia. Nella prefazione dei suoi Diari di Dachau. Appunti del prigioniero 24814, Barbara Distel così descrive alcune vicende della vita di Edgar: «Nel 1937 Edgar Kupfer, per incarico di un’agenzia tedesca, si trasferì da Parigi sull’isola d’Ischia, allora ancora sconosciuta. Voleva, grazie allo svilup-po del movimento turistico, migliorare la situazione della povera popolazione dell’isola. E s’innamorò perdutamente del Meridione assolato, del paesaggio fiorente e della gente così cordiale. In un libro scritto nel 1940, ma pubblicato solo nel 1948, “L’isola dimenticata” che lui chiamò anche “Libro sull’isola vulcanica”, descrisse un mondo nel frattempo scomparso, pieno di miti e di abitudini di vita arcaiche, che lo entu-siasmavano e in cui si sentiva protetto. Il 1° settembre 1940 lo raggiunse però il lungo braccio del potere nazionalso-cialista e la sua vita idillica sull’isola fu interrotta bruscamente. Motivo della sua espulsione dall’Italia fu un accordo tra la polizia italiana e tedesca esistente già dal 1936, contenente una clausola introdotta in seguito su suggerimento di Heinrich Himmler che recitava: “In caso di fondato sospetto la polizia tedesca e quella italiana si consegnano vicendevolmente i criminali politici sen-za ricorrere a trattative diplomatiche, purché a questo atto non si opponga un interesse di stato”. Fino all’inizio della guerra comunque si erano verificate pochissime possibi-lità per espellere avversari politici del

sistema nazionalsocialista e fascista. L’ampia cronaca dettagliata del suo calvario Edgar Kupfer la iniziò con la descrizione di uno splendido giorno del settembre del 1940, in cui le guardie co-munali dell’isola d’Ischia gli consegna-rono il telegramma con l’ingiunzione di presentarsi presso la questura di Napoli. Presumibilmente ci fu una delazione. “Lei si è espresso in maniera sprez-zante contro il regime italiano e quello tedesco” gli venne così notificata al consolato tedesco a Napoli la sua espul-sione. Non se n’è saputo mai niente di più. Gli abitanti dell’isola gli erano tutti affezionati ed egli non riusciva a capire quali esternazioni avventate avesse fatto ai pochi conterranei che dopo l’inizio della guerra venivano ancora sull’isola e che poi le avevano comunicate alle autorità tedesche. Poliziotti italiani lo scortarono sino a Bolzano e di là fu trasportato dalla Gestapo nella prigio-ne di Innsbruck, dove trascorse alcune settimane e fu più volte interrogato dagli sgherri della Gestapo. Su fogli tagliuz-zati a strisce raccolse nella sua cella le sue prime esperienze con la vita dei reclusi. Come innumerevoli prigionieri del regime, arbitrariamente arrestati, sperava sempre che il caso si sarebbe risolto in poco tempo e che sarebbe stato liberato. Poiché a lui, come a tanti che improvvisamente erano stati dichiarati nemici dello Stato, non era concepibile la completa abrogazione delle istituzioni e delle strutture legali. L’11 novembre 1940 dovette salire sul treno in direzione Dachau per scom-parire quattro anni e mezzo dietro le mura e il filo spinato. Due anni dopo la reclusione nel campo di concentramen-to, da novembre 1942 ebbe l’occasione di iniziare le sue annotazioni. In circa 1300 pagine descrisse in modo detta-gliato e con meticolosa precisione il corso della sua vita da recluso durante il primo anno della sua prigionia fino a novembre 1941. Tra novembre del 1942 sino alla liberazione del Lager il 29 aprile 1945 tenne con sé inoltre un diario segreto composto da più di 560 pagine, in cui egli, accanto agli avve-nimenti nel campo di concentramento offre ampio spazio alle notizie e alle voci sul corso della guerra che lo coinvolse».

Perché “isola dimenticata”? Ecco quanto scrive l’autore nell’ultimo capi-tolo: «Quando questo libro fu scritto, Ischia iniziava gradualmente a diventare nota. Dalla fine del secolo scorso era rimasta immersa in una sorta di letargo, tanto che ancora prima della seconda guerra mondiale persino la maggior parte degli italiani non sapeva niente dell’isola, che dopo il terremoto di Casamicciola era lentamente precipitata nell’oblio. Se in Italia settentrionale, a Firenze o a Vene-zia, si menzionava il nome “Ischia”, si andava incontro a sguardi attoniti, anzi persino a Roma la maggior parte delle persone non domandava “dove” fosse, ma “che cosa” fosse. A tal punto l’isola era sconosciuta, mentre la sua sorella vicina Capri da tempo brillava di fama mondiale. Il nome Ischia veramente era fami-liare soltanto ai Napoletani. La consi-stente nobiltà decaduta di Napoli se ne giovava nei mesi estivi come località di villeggiatura, dal momento che l’isola sconosciuta era incredibilmente conve-niente, mentre Capri era proibitiva per quei nobili caduti in miseria. Il merito di aver reso Ischia accessi-bile ad un più ampio strato di viaggia-tori, di averla “scoperta” per il traffico vacanziero, spetta a una compagnia turistica tedesca di Stoccarda, che per la prima volta aprì l’isola ai suoi clienti. Entusiasti e diffondendo la fama d’Ischia, i primi viaggiatori ritornarono dall’isola. Fu così destato l’interesse per Ischia: altre agenzie di viaggi portarono gruppi sull’isola; apparvero viaggiatori solitari e iniziarono a venire anche italiani che prima erano andati solo a Capri. La guerra interruppe tutto questo, ma l’isola riscoperta era sotto una buona stella; superò bene la guerra. In seguito giunsero a Ischia soldati bisognosi di riposo, poi gente danarosa dall’Italia settentrionale che fuggivano dal caos del periodo postbellico, portavano ca-pitali sull’isola e li investivano in parte in acquisti di case o di terreni. Anche Donna Rachele, la mai odiata vedova di Mussolini, trovò sull’isola un rifugio nel comune di Forio. Da allora in poi “l’isola dimenticata”

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La Rassegna d’Ischia 3-4/03 57

rassegna Libri

è diventata “l’isola che mai più si dimentica”; ogni anno visitata da migliaia e migliaia di entusiasti turisti. Il numero degli alberghi è incredibilmente aumentato da allora (o da un giorno all’altro) e i posti di svago sono spuntati dal suolo come funghi. Ischia si è fatto un nome europeo. Perché allora ancora oggi Ischia “l’isola dimenticata”? La vita qui non è molto diversa dal tempo in cui questo libro fu scritto; i nuovi alberghi in fondo non hanno cambiato niente, la bellezza dell’isola e il carattere dei suoi abitanti sono rimasti i medesimi: Ischia, oasi nel grigiore della vita quotidiana, isola della dimenticanza».

Nicola Luongo

Vittoria Colonna e il suo mistero di Nunzio Albanelli

Valentino Editore, giugno 2003. Prefazione di Giovanni Castagna

Al pari di molti altri personaggi, a Vittoria Colonna è toccato un destino particolare “post mortem”, in quanto è scomparsa di lei ogni traccia. Intanto quanti hanno trattato della poetessa o si sono limitati a pochi cenni o hanno pre-sentato le varie questioni in modo chiaramente disarticolato. Noi, per l’amore che portiamo alla poetessa, sia perché è stata un punto di riferimento nella letteratura del ‘500, sia perché ha avuto continui rapporti con l’isola d’Ischia, abbiamo voluto affrontare il problema che conserva una buona dose di mistero. Abbiamo innanzitutto approfondito le varie vicende “post mortem” della poetessa, raccogliendo le testimonianze che ci sono pervenute. Abbiamo condotto lunghe ricerche sulla scorta di documenti e di supposizioni non lontane dalla realtà. Abbiamo avanzato anche un’ipotesi che avrebbe avuto possibilità di riscontro, se fosse stata con-fermata dai risultati delle ricerche finalmente completate a S. Domenico Maggiore di Napoli. Abbiamo trascorso, in breve, oltre vent’anni tra speranze e delusioni accarezzando a lungo il sogno di ritrovare le venerate spoglie della poetessa e un giorno di accoglierle con il dovuto tributo di lode insieme con quelle del consorte, Ferrante d’Avalos, sul Castello Aragonese. Qui appunto il 27 dicembre del 1509 Vittoria e Ferrante avevano celebrato splendide nozze. Tuttavia, anche se non possiamo sostenere che il mistero sia stato risolto, abbiamo la presunzione di poter dichiarare che abbiamo fatto il punto sul problema, coordinando i risultati delle varie ricerche condotte finora, eliminando errori, precisando taluni aspetti non secondari e soprattutto indicando agli studiosi, che vorranno proseguire la ricerca, il punto d’arrivo di questa, donde bisogna partire per mettere la parola fine ad una questione che ci sta molto a cuore.

Nunzio Albanelli

I Marinai di Celsa e la loro Chiesa dello Spirito Santo di Agostino Di Lustro

Maggio 2003, Tip. Punto Stampa di Forio. Illustrato. Pagine 532. Prefazione di Ilia Delizia e Presentazione di Antonio De Luca.

L’affermazione sociale dei marinai ubicati sulla piccola striscia di terra baciata dal sole nascente, dispiegata ai piedi del Castello d’Ischia, è occasione per disegnare l’identità di quanti, nel borgo di Celsa, vivevano ed operavano “dell’arte del mare” ma consente, nello stesso tempo, di tracciare connessioni utili a configurare un habitat umano nella specificità della sua articolazione funzionale e urbana. La richiesta e la riattazione, nell’ultimo quarto del Cinquecento, da parte dei marinai, della piccola cappel-la sconsacrata della famiglia Cossa e la sua successiva trasformazione seicentesca in chiesa dello Spirito Santo, di più ampio respiro e con spiccate prerogative in campo sociale rappresentano, infatti, i momenti significativi e de-terminanti di un processo di ri-configurazione ambientale che non solo assume caratteristiche proprie sul piano del disegno dello spazio urbano ma è anche espressione di un ri-modellamento delle gerarchie e degli assetti funzionali già costituiti, con conseguenti ed inevitabili frizioni tra le parti sociali in campo che travalicano gli aspetti religioso-devozionali per cui tali strutture pure erano nate e si erano costituite. Infatti, le vicende che qui si narrano si ripro-pongono per una riflessione antropologica che alimenta la stessa ricerca storica relativa alla nascita e alle finalità delle confraternite laicali, nella fattispecie quella dello Spirito Santo di Ischia Ponte, di cui l’edificio chiesastico è stato la naturale manifestazione e il tramite indispensabile per un messaggio sociale forte ed inequivocabile. Si tratta di sistemi ideologici del passato le cui tracce si configurano come culture, visto che “le culture non sono entità astratte, vivono solo in quanto sono opera ed espressione di gruppi umani che si sono adattati a un ambiente geografico e sono impegnati in una storia” (Nathan Wachtel). Né, in questa linea, vanno trascurate le ripercussioni che tali aspetti fanno avvertire sulla longue durée. Il lavoro che qui si presenta, pur collocandosi all’interno di un filone di ricerca da me perseguito e teso a recuperare, attraverso il costituirsi delle architetture, la dimensione specifica dell’ambiente di cui sono parte, - il saggio su L’antico borgo marinaro di Ischia Ponte in una pianta inedita del 1616, del 1980, è in questo caso l’antefatto più diretto, va ben oltre: infatti non solo aggiunge una preziosa documentazione sulla ricostruzione seicentesca della chiesa dello Spirito Santo secondo la direzione di sviluppo e la configurazione che ancora oggi vediamo, con tutto quanto ne consegue in opere di arredo e di abbellimento interni, ma dà voce e consistenza al vissuto religioso e sociale di un

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58 La Rassegna d’Ischia 3-4/03

gruppo deliberatamente costituitosi in confraternita laicale di tipo corporativo, i cui intenti non sono solo quelli devo-zionali ma l’affermazione sociale, la difesa della propria economia, la ricerca di autonomia da ogni tipo di ingerenza, la promozione della solidarietà umana. In questa direzione assumono importanza tutti i momenti decisionali vissuti dagli uomini di Celsa per costituirsi, prima, in confraternita e, poi, come “compadroni”, in una configurazione allargata delle rappresentanze sociali pre-senti nel borgo, non più esclusiva del ceto dei marinai. Nel dare senso e logica ai provvedimenti volta a volta adottati ed alle norme sancite per questo scopo, l’autore accompagna il processo fino al costituirsi dell’organismo in collegiata, nel 1786, quando, per disposizione regia, si definì la fisio-nomia del clero della chiesa e il suo funzionamento. Ma, questo approdo non è privo di ulteriori sviluppi se, proprio a partire dagli stessi anni, la comunità dello Spirito Santo, si fece promotrice del culto di un proprio figlio, San Giovan Giuseppe della Croce, che costituisce uno degli aspetti più aggreganti dell’azione promozionale del sodalizio oggi. Il percorso della ricerca privilegia come termine a quo, ma anche come punto centrale della narrazione, la seconda metà del XVI secolo quando, sospese le scorrerie piratesche sulle nostre coste, l’attività peschereccia e mercantile visse una rapida ripresa con un considerevole sviluppo dei traffici marittimi e dell’economia relativa, come emerge anche dall’appendice di questo studio dedicata, appunto, agli esiti della marineria tra ‘500 e ‘800. Ma la felice congiuntura si scontrò in fretta, sul territorio di Celsa, con l’avanzata dei “cittadini”, qui discesi dal Castello perché costretti da uno spazio troppo ristretto, i quali non solo vennero ad occupare aree libere del piccolo contesto marinaro, ma andarono a raf-forzare con la loro presenza la supremazia degli Agostiniani, ivi già dal Duecento con chiesa, convento e beni: infatti, nella graduatoria della ricchezza delle chiese dell’intera isola, questi ultimi occupavano il primo posto. Forti del sostegno dei ceti più abbienti, gli Agostiniani erano divenuti sempre meno disponibili verso il popolo, cui addirittura non offrivano “l’opportuno comodo” quanto a servizi di culto. Questo fatto, se fu occasione per condurre i marinai alla determinazione di dotarsi di una struttura di culto propria, fu motivo di aspre controversie tra le parti contrapposte. Si-gnificativa è la vertenza presentata dagli Agostiniani presso la Gran Corte della Vicaria contro i responsabili del governo

della chiesa dello Spirito Santo i quali avevano iniziato, nel 1614, la costruzione di un campanile a dotazione della cappella avuta in dono dai Cossa. Questo nuovo corpo di fabbrica, addossato, in parte, all’abside della preesistente cappella e affacciato sulla via pubblica, di cui delimitava i confini, era stato ritenuto pregiudizievole di introspezioni negli spazi conventuali. Come pure va ricordata l’azione di disturbo, compiuta più tardi sempre dagli Agostiniani, per impedire ai marinai dello Spirito Santo l’apertura dell’in-gresso principale della nuova chiesa, sulla via principale del borgo. Sicché, riuniti in confraternita laicale i pescatori, i mer-canti e i naviganti di Celsa non lasciarono passare occasione senza difendere le proprie posizioni, rivendicando la propria identità sociale e culturale per cui assistiamo a una difesa strenua della propria autonomia che si manifestò con vio-lenti contrasti non solo con gli Agostiniani, ma anche con il clero della propria chiesa, col parroco e con il vescovo, e di cui queste pagine danno ampie e documentate testimo-nianze, dimostrando come le ragioni del contendere vadano ben al di là dello specifico degli accadimenti. Esse infatti affondando le proprie radici nella insoddisfazione del ceto popolare il quale, sentendosi escluso dalle prerogative so-ciali, si adopera con ogni mezzo per rivendicare un proprio spazio nel governo materiale della loro chiesa e nella scelta del personale ecclesiastico che in essa deve operare. Il merito del lavoro sta nello sforzo profuso per ricostruire il mosaico degli avvenimenti, anche se a questo mosaico mancano inevitabilmente delle tessere, vuoi per le vicissi-tudini dei nostri archivi vuoi per la frammentarietà con cui le informazioni sono state spesso consegnate alla storia. Questa situazione ha comportato, per l’autore, un duplice impegno: tenere conto di tutto quanto era stato scritto nel merito, anche solo per analogia di situazione storica, senza per questo trarne dei pregiudizi, e, soprattutto, compiere una ricerca archivistica assai puntuale e minuziosa che conferisce al lavoro il pregio di una recherche patiente, di cui non sarà possibile fare a meno nel futuro delle ricerche sull’isola.

Ilia Delizia

rassegna Libri

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Il “gioiello” del Castello (Foto F. Ferrucci)

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«Non senza un sicuro compiacimento ho più volte letto l’opera che si intitola Inarime o i ba-gni di Pithecusa lib. VI di Camillo Eucherio de Quintiis della Compagnia di Gesù. Penso che il nostro Eucherio abbia raggiunto felicemente un duplice fine: di insegnare e di dilettare: molto utile lo scopo didattico, notevoli e di diverso genere l’erudizione, la varietà e l’abbondanza di argomenti; purezza della lingua latina, uno stile ricercato, tutta la bellezza dell’arte poeti-ca» (P. Giovanni Battista Botti).

«Da quando Camillo Eucherio Quinzi ha dato alla letteratura latina Inarime, importante per l’argomento, classico per la forma, ricco per la lingua, armonioso per la struttura del verso eroico latino, vasto per le proporzioni, Ischia, la gemma del Golfo di Napoli, preziosa e deliziosa, vanta un poema scritto nella lingua di Cicerone e di Virgilio quale solo Roma Impe-riale con l’Eneide può vantare» (P. Gennaro Gamboni).

Inarime o i Bagni di PitecusaLibri VI dedicati a Giovanni V re di Lusitaniadi Camillo Eucherio de Quintiis

Traduzione dal latino di Raffaele Castagna

Camilli Eucherii de Quintiise Soc. Jesu

Inarime seu de Balneis PithecusarumLibri VI Sereniss. Lusitaniae Regi

Joanni V dicati

1726