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Lorenzo Vincenti

La Vita Di Napoleone Bonaparte© 1985

L'uomo che cambiò il volto dell'Europa

INTRODUZIONE

Napoleone più di qualsiasi altro ha mutato il volto dell'Europa e donato dimensioni di grandezza ai personaggi, agli avvenimenti, alle mode, allo stile di vita dell'epoca dominata dal suo genio. Concepito dai genitori combattenti nell'isola mediterranea durante la guerriglia corsa contro i francesi e morto, probabilmente di veleno, a Sant'Elena, sperduta nell'immensità dell'Atlantico australe. Nell'arco della sua esistenza, durata meno di 52 anni, con la propria spada sorretta da una volontà indomabile ha costruito un impero, sconfitto tutta una serie di eserciti nemici, conquistato città e capitali prestigiose da Milano a Alessandria d'Egitto, da Vienna a Berlino, Varsavia, Mosca, Madrid. Ha inoltre promosso e promulgato quel Codice napoleonico i cui principi ispiratori sono stati ripresi dagli ordinamenti giuridici dei paesi più progrediti, avversari compresi, e ravvivato i sentimenti di nazionalità, indipendenza, in numerosi popoli a cominciare dall'Italia assolvendo il compito internazionalistico che la storia gli aveva affidato: guidare l'Europa nata dal regicidio, dagli entusiasmi e dagli orrori della Rivoluzione francese, verso le nuove frontiere dell'uguaglianza, della libertà.

La sua vita ci dimostra che ciascuno di noi può crearsi con le proprie mani il migliore quanto il peggiore dei destini. Per questo qui si è cercato, tra una bibliografia e una documentazione che non è esagerato definire sterminate, di raccontare soprattutto l'uomo che fu Napoleone. Solitario, squattrinato, intelligentissimo, innamorato, intrigante, eroico,

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rapace, generoso, geloso, perfido, incontentabile. Sublime.L'Autore

CAPITOLO IIL GUERRIERO POVERO

Primavera 1769 tra le montagne, le grotte e i bivacchi della guerriglia in Corsica. I genovesi, dopo secoli di dominazione, non riuscendo a domare l'insurrezione hanno ceduto l'isola alla Francia. Ma i soldati del re allo sbarco vengono accolti a fucilate, i corsi sembrano decisi a conquistarsi l'indipendenza sul campo di battaglia.

La lotta, iniziata nell'estate 1768, viene ripresa con rinnovato vigore in questi mesi che profumano di primavera. A capo dei ribelli è Pasquale Paoli, fisico imponente e parola pronta: un trascinatore. Tra gli intellettuali isolani accorsi al suo fianco è una coppia giovanissima, Maria Letizia Ramolino e Carlo Maria Buonaparte, appartenenti entrambi a distinte famiglie di lontana origine italiana. Lei, diciannovenne appena, bella e fiorente, tiene in braccio il primogenito Giuseppe e porta nel grembo un secondo figlio che avrà nome Napoleone. Lo sposo, di 23 anni, dopo aver studiato diritto a Roma e a Pisa ha risposto all'appello di Paoli diventando il suo aiutante.

Le fucilate sui monti hanno uno schiocco secco, da valle a mezza costa, e si perdono sibilando tra i rami del bosco. Letizia, che appartiene a una dinastia di soldati, non conosce paura. Cavalca ore e ore, pur di stare qualche momento insieme con suo marito, con l'unica compagnia di un pugnale e di una domestica ragazzina. Racconterà: «Non di rado uscendo dal nascondiglio tra i monti mi spingevo sino al luogo della battaglia per avere notizie. Udivo le palle fischiare ma nulla temevo, protetta dalla Madonna».

Una giovane fiera quanto il marito, che assicurava: «Coraggio, Letizia, stiamo vincendo». Invece l'illusione dura poco più di una rosa. I soldati di re Luigi, sbarcati via via a migliaia, non faticano a sbaragliare quei pochi giovani ricchi soltanto di coraggio, di sogni. Paoli anziché diventare il condottiero del popolo corso va esule in Inghilterra, che ha delle mire sull'isola mediterranea; gli altri, i suoi seguaci, sono costretti a venire a patti coi nuovi padroni.

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I Buonaparte tornano nella loro casa di Ajaccio, che diventa la capitale dell'isola. Il 15 agosto, festa pagana1 [1 Ferragosto deriva dal latino feriae augusti, vacanze d'agosto. I romani celebravano la raccolta dei cereali e il riposo seguente alla fatica.] e della cattolicità,2 [2 Festa di Maria, madre di Gesù, assunta in cielo o al termine della sua vita terrena. La credenza dell'Assunzione di Maria è tradizionale nella Chiesa cattolica fin dai primi secoli. Il dogma dell'Assunzione corporea di Maria in cielo è stato definito da Pio XII nel 1950.] Letizia viene colta dalle doglie e con l'aiuto del medico, chiamato dalla cognata Geltrude, mette al mondo un secondo figlio maschio: Napoleone, appunto.

«Il nome di Napoleone», scriverà Stendhal,3 [3 Stendhal, Henri Beyle detto, scrittore francese (Grenoble 1783-Parigi 1842). Prima di scrivere vari capolavori tra cui Il rosso e il nero, La Certosa di Parma, fu al seguito di Napoleone da Milano alla campagna di Russia. Alla morte dell'imperatore gli dedicò una Vita di Napoleone in risposta ai «libelli detrattori».] «è comune in Italia; è uno dei nomi adottati dalla famiglia Orsini e fu introdotto nella famiglia Buonaparte4 [4 Il vero nome della famiglia, d'origine Toscana, è Buonaparte come già detto, da Buona Parte. Nel 1796 Napoleone lo francesizzò in Bonaparte.] con un matrimonio stipulato nel XVI secolo con la casa Lomellini». Il passo seguente, tratto dalla storia della casa Orsini del Sansovino, è abbastanza divertente: «Ma molti più furono i Napoleoni, perché in tutti i tempi gli orecchi italiani, o nella pace, o nella guerra, udirono questa nobilissima voce in uomini segnalati».

Concepito tra un proclama irredentistico e uno scontro a fucilate, allevato al culto dell'indipendenza contro l'invasore straniero (i francesi) Napoleone cresce fiero, sensibile, intelligente. È attaccatissimo alla famiglia ma dimostra subito un carattere ribelle, di chi vuol pensare e agire con la propria testa. Vede aumentare di anno in anno il numero dei fratelli. Infatti Letizia, senza perdere mai né la sua bellezza né il suo temperamento, affronta via via tredici gravidanze: cinque figli muoiono in tenera età. Oltre a Giuseppe e a Napoleone sopravvivono Luciano, Elisa, Luigi, Paolina, Carolina e Gerolamo.

I figli numerosi sono una forza nell'isola in cui c'è la tradizione delle rivalità, delle vendette, ma non bastano a sfamarli i proventi dei campi e dei greggi. Non basta nemmeno l'aiuto dei parenti a cominciare dallo zio Luciano, arciprete della cattedrale in Ajaccio. E poi non c'è soltanto il

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problema del pane ma quello più importante di istruire, di dare un futuro a tanta prole. Quanto a Carlo Maria, il capofamiglia, avvocato come il padre e gli antenati, è più portato alla politica che al faticare quotidiano sui codici.

Letizia non tralascia iniziative per proteggere la sua nidiata. Diventa buona amica - e non mancheranno in proposito i pettegolezzi - del conte di Marbeuf, nominato da re Luigi maresciallo di Corsica e inviato a governare l'isola. La verità è che il vecchio gentiluomo soffre la lontananza da Parigi, la mancanza di persone di rango con le quali trascorrere le ore della conversazione, degli scambi intellettuali. I Buonaparte sono una delle poche famiglie con le quali vale la pena di intrattenere relazione.

Marbeuf procura all'avvocato Buonaparte il posto di sovrintendente in una piantagione modello di gelso, introdotto nell'isola per iniziativa reale. Lo raccomanda all'ufficio di araldica perché confermi, come puntualmente avviene, il brevetto di nobiltà della famiglia. Infine, non senza qualche rischio, definisce «benemerito funzionario regio» questo campione dell'irredentismo corso. E, come benemerito, meritevole di aiuti concreti. Nel 1778 il sovrano si degna di far sapere che accorda tre posti gratuiti nelle scuole di nobili per altrettanti figli del fedele funzionario, due maschi e una femmina. Partono intanto per il «continente» Giuseppe e Napoleone; Elisa, che ha appena un anno, seguirà i fratelli all'età adatta.

Napoleone ha 9 anni quando riceve l'abbraccio del congedo dalla madre che adora e che lo esorta con le solite parole: «Sii forte, bravo». Di là dal mare lo attende un mondo che non conosce, un paese che i corsi seguitano a considerare ostile, persone e abitudini tanto differenti. Durante la navigazione da Bastia a Marsiglia, il bambino ha il cuore in tumulto, dibattuto dal desiderio di restare a scaldarsi nel rifugio ben noto degli affetti familiari quanto dall'intuizione che il suo destino è sulle sponde che ora si stanno avvicinando anziché su quelle lasciate alle spalle.

Giuseppe il primogenito seguendo le orme dello zio prete viene inviato nel seminario di Autun. Napoleone entra nel collegio militare di Brienne o scuola di Minimi perché gestita dai frati di quest'ordine. Questa scuola non ha tradizioni essendo stata fondata soltanto un paio di anni prima con la caratteristica di accogliere, oltre ad allievi provenienti da famiglie facoltose, dei borsisti appartenenti a famiglie benemerite ma povere. La nobiltà delle origini è il denominatore comune.

Brienne-le-Chàteau è un centro dello Champagne noto finora soltanto

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per il castello di un illustre casato. Napoleone non può certo prevedere che proprio qui tra qualcosa come 35 anni egli sconfiggerà uno dei suoi avversari più temibili, il generale prussiano Bluecher. Intanto è costretto a vivere in un collegio-convento retto da religiosi verso i quali non ha particolare simpatia e popolato da coetanei dai quali viene subito preso in antipatia. Perché? È un «diverso»: parla l'italiano più che il francese, non ha un soldo e non può quindi comperare né offrire mai nulla, sostiene di appartenere a un casato nobile ma qui nessuno ne ha mai sentito parlare, infine ha un carattere così scontroso che è impossibile diventargli amico.

Deve sopportare scherni e insulti. Gode di un giorno di popolarità tra i coetanei soltanto d'inverno, allorché guida alla vittoria la sua classe in una battaglia a colpi di palle di neve. Su 110 allievi è il più solitario e scontroso. Non lega con i coetanei, nemmeno con gli insegnanti. È considerato, e si considera, straniero. Sogna a occhi aperti la casa natale, il mare e i monti della sua isola. «Tornerò a riprendere la lotta di mio padre», giura a se stesso. «Tutto quello che imparo qui lo metterò a profitto per liberare la Corsica». Legge con vivo interesse i non molti autori che hanno scritto delle pagine a favore dell'indipendenza della Corsica, da Voltaire e Rousseau a Federico il Grande.

Negli studi riesce bene in matematica, per il resto non va oltre la mediocrità. Scarso in latino e nella danza. In lotta perenne con la corretta pronuncia e la corretta grafia della lingua francese. Si appassiona allo studio della storia e del mondo della classicità greco-romana. Manda a memoria Plutarco e la vita dei grandi. Impara a pensare come loro, a costruire ragionamenti e progetti di ampio respiro. Medita, riflette mentre i compagni passano il tempo cercando di combattere la noia.

Un brutto giorno, dopo un diverbio più accanito del solito con gli allievi più altezzosi, prende penna e calamaio. Scrive a casa: «Venite a prendermi al più presto. Sono stanco di mostrare la mia povertà come una maledizione, di essere preso in giro da ragazzi stranieri che mi sono superiori soltanto per il loro denaro». Suo padre gli risponde: «Devi rimanere. Qui non c'è avvenire per te. Non abbiamo soldi».

Questo ritornello della mancanza di denaro affligge l'adolescenza, la giovinezza di Napoleone alla stregua di una tara ereditaria. E, costretto a trascorrere in questo collegio inospitale oltre cinque anni, i più importanti per la sua formazione. Se non avesse il carattere d'acciaio che ha, potrebbe piegarsi o spezzarsi, diventare una sorta di servo o di giullare dei fanciulli

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ricchi oppure un disadattato irrecuperabile. Invece, rimane se stesso: diverso sì, ma in meglio. Solo e autosufficiente nel suo mondo per ora fatto soltanto di sogni: le battaglie, la vittoria, la gloria. Sogna con tanta intensa partecipazione che a volte, il viso improvvisamente arrossato e gli occhi brillanti, sembra avere la febbre.

Cresce né alto né robusto, con le gambe corte. Il viso, pallido, è interessante: naso pronunciato, occhi mobilissimi, capelli pettinati lisci sulla fronte. L'espressione, che muta di continuo, in genere è scontrosa, diffidente. Sembra debole nel fisico e nel morale invece è tutto volontà. La solitudine di Brienne gli ha giovato.

Il 17 ottobre 1784 lascia Brienne, non rimpianto e senza rimpianti, andando a prendere una lettera pronta per lui. È firmata da re Luigi XVI e controfirmata dal maresciallo de Ségur: questo documento gli schiude la porta della Scuola militare di Parigi nella compagnia dei Cadetti-gentiluomini. I compagni di corso lo descrivono come «un giovane bruno, triste, rabbuiato, severo eppure ragionatore e gran parlatore». Parla perché è stato zitto fin troppo negli anni scorsi. Che sia triste, non c'è da meravigliarsi. Non giungono che brutte notizie: suo padre muore nel 1785 solo un anno dopo la nascita dell'ultimogenito, il fratello Giuseppe vuol lasciare la carriera ecclesiastica per quella militare verso la quale non dimostra alcuna attitudine, la famiglia ad Ajaccio è così indigente che mamma Letizia è costretta a insegnare alla piccola, vivacissima Paolina come sottrarre qualche luigi d'oro dalla borsa dello zio arciprete, don Luciano.

Agli inizi del 1786, a sedici anni e mezzo soltanto, Napoleone riceve la nomina a sottotenente d'artiglieria. Ha una classifica mediocre, quarantaduesimo su cinquantotto cadetti, ma è il più giovane di tutti. Ora finalmente può guadagnare e aiutare il clan di Ajaccio. Cingendo per la prima volta la spada dice a se stesso: «La bandoliera soltanto appartiene alla Francia, la lama è mia». Viene assegnato al reggimento di La Fère, che ha un'ottima tradizione e per di più è di stanza a Valence, sul Rodano, la città di guarnigione più vicina alla Corsica.

Scrive nel diario che di quando in quando aggiorna: «Tutti i miei affanni di famiglia mi hanno rovinato gli anni migliori. Essi hanno influenza sul mio umore. Sono maturato prima dell'età». Scriverà ancora di questo periodo iniziale della sua carriera: «La mia testa cominciava allora a fermentare. Avevo bisogno di imparare e di sapere. Divoravo i libri».

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Fin dal principio, rivela la dote rara di saper trasformare un'avversità in vantaggio. Siccome la vita di guarnigione è noiosa e d'altro canto non ha soldi da spendere in divertimenti perché manda quasi tutto lo stipendio a casa, trascorre le ore libere nella sua stanzetta leggendo avidamente. Riempie di appunti una serie di quaderni pari a 400 pagine di libro stampato. Legge, scrive di tutto e molto non lo scorderà più. Per esempio, questa considerazione illuminante di Guillaume Raynal:1 [1 Guillaume Raynal, storico e filosofo francese (1713-1796). Gesuita, abbandonò dopo trent'anni la vita sacerdotale per dedicarsi interamente agli studi. Il suo nome è legato all'opera Storia filosofica e politica degli stabilimenti e del commercio degli europei nelle due Indie.] «Nell'Egitto che giace tra due mari, cioè tra l'Oriente e l'Occidente, Alessandro Magno concepì il disegno di trasferire la sede principale del suo impero universale facendone il centro del commercio mondiale».

Ammiratore di Raynal, il giovane ufficiale dopo aver scritto una breve storia della Corsica la invia in lettura al celebre storico, che commenta: «Consiglio di stamparla. Quest'opera sopravviverà». Nel 1788, trascorsa una lunga licenza in famiglia, è promosso tenente e mandato di guarnigione a Auxonne, nel dipartimento Còte-d'Or, dove il suo nuovo generale ne nota le particolari capacità affidandogli un incarico importante, che suscita l'invidia dei più anziani capitani.

L'anno appresso, 1789, la storia accelera il suo corso. Preceduta da quella americana (1775-1782), inizia la rivoluzione francese, ossia quel complesso di movimenti politici e sociali che porteranno alla caduta della monarchia assoluta e delle strutture feudali. Contro il monopolio della nobiltà terriera, ecco la borghesia e talvolta il popolo al potere col motto: «Libertà, fraternità, uguaglianza». Si dimostra che re e regine non sono affatto, come pretendono, sovrani per volontà divina. Quindi è possibile, essendo persone uguali a tutte le altre, destituirle e perfino tagliar loro la testa.

Le tappe principali: 14 luglio 1789, il popolo parigino prende la Bastiglia simbolo dell'assolutismo (vi erano rinchiusi senza processo, magari a vita, i nemici del re); giugno 1781: Luigi XVI e la famiglia reale presi a Varennes mentre tentano di fuggire all'estero; 11 luglio 1792: l'Assemblea legislativa proclama «la patria in pericolo» contro l'invasione dell'esercito austro-prussiano inviato a rimettere sul trono il re; 21-22 settembre 1792: la Convenzione nazionale, succeduta alla disciolta

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Assemblea legislativa, dichiara decaduta la monarchia e la Francia diventa Repubblica; 21 gennaio 1793: dopo un processo per alto tradimento, il re viene ghigliottinato; al giugno 1793: il Comitato di salute pubblica, dominato dall'estremista Robespierre, per stroncare i nemici interni ed esterni della Rivoluzione fa «mettere il Terrore all'ordine del giorno»: vengono giustiziati non solo i nobili, i preti, ma chiunque non obbedisca agli ordini del Comitato, la regina Maria Antonietta, i deputati girondini,1

[1 Gruppo politico di ispirazione volteriana, miravano al trionfo della borghesia illuminata. La loro azione, dapprima rivoluzionaria, diviene poi sempre più moderatrice.] gli «indulgenti» Danton e Desmoulins; 28 luglio 1794: Robespierre, Saint-Just e una ventina di sostenitori sono a loro volta giustiziati per iniziativa della coalizione di deputati che essi avevano in precedenza minacciato di morte.

Napoleone vive le prime tappe della Rivoluzione come occasione storica per liberare la patria corsa da ogni dominio. Si unisce in Corsica a Pasquale Paoli, l'amico e capo di suo padre. Il condottiero è stato richiamato dall'esilio e scelto a rappresentare in sede nazionale la Corsica, dichiarata provincia francese con tutti i diritti di parità. L'anziano e il giovane patriota si incontrano, cavalcano a fianco a fianco, fanno conoscenza e non sempre vanno d'accordo. Napoleone vorrebbe tutto e subito; 1792: in gennaio è nominato aiutante maggiore in un battaglione della Guardia nazionale di Ajaccio; in aprile partecipa ai tumulti, in seguito ai quali è costretto ad accorrere a Parigi per discolparsi dall'accusa di essere un sobillatore antirivoluzionario; in ottobre riconduce a casa la sorella Elisa dal collegio di Saint-Cyr, per fanciulle nobili, chiuso dai rivoluzionari.

Quando è in continente indossa la divisa con i gradi di ufficiale dell'esercito ex-regio e ora repubblicano; in Corsica muta uniforme e gradi militando nella «Guardia» di Ajaccio. Nel febbraio 1793 partecipa a un'affrettata spedizione contro le isolette della Maddalena e di Caprera che appartengono al re di Sardegna, Vittorio Amedeo di Savoia, alleato dell'Austria e quindi nemico della Francia. Ma il colpo di mano fallisce. È il primo fatto d'armi di Napoleone, che non si rassegna al rovescio. Scrive al Ministero della Guerra attribuendo le ragioni del fallimento ai marinai ammutinati e ai soldati impreparati. Allega un piano per riparare lo scacco.

Va a finire che Napoleone, accusato dalle sue stesse «guardie» di essere un traditore della patria corsa, minacciato di venire appeso a un lampione

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perché «nobile», è costretto a fuggire dall'isola con tutta la famiglia. I Buonaparte sbarcano a Tolone il 14 giugno e si stabiliscono a Marsiglia al quarto piano di un palazzo che apparteneva a un nobile finito sulla ghigliottina. Qui si tira ancora cinghia ma Giuseppe comincia a far quattrini col commercio della seta: le prospettive nel settore sono così favorevoli che lo zio prete, smessa la tonaca, si mette negli affari col nipote.

Napoleone non dorme. L'ubriacatura della Corsica gli è passata. Il suo avvenire è qui, nella madrepatria, con la rivoluzione che ha tutto livellato. Si riparte da zero a cominciare dal calendario, che non inizia più con la nascita di Cristo ma con la proclamazione della Repubblica di Francia, il giorno 22 settembre 1792. Tutti uguali; ciascuno padrone del proprio destino, chi è più bravo farà una carriera più rapida. Su quale scacchiera vale la pena di sferrare la prima mossa?

Buonaparte, ora capitano dell'esercito repubblicano, voltate le spalle a Paoli che pare trescare con gli inglesi per cedere loro la natia Corsica, segue con crescente interesse la corrente giacobina1 [1 Associazione politica operante durante la Rivoluzione e che dal settembre 1792 ebbe il suo capo in Robespierre con Marat e Saint-Just.] ora al potere dopo la caduta dei girondini. Segue in particolare il suo capo, che insiste sul concetto di «uguaglianza» e quindi sull'implicita meritocrazia: le promozioni ai migliori non ai più ricchi o nobili o raccomandati. Ha l'occasione di conoscere Agostino Robespierre, fratello minore del personaggio più autorevole del Comitato di salute pubblica. Agostino è in missione politica presso l'Armata d'Italia, alle cui dipendenze è ora Napoleone con compiti ispettivi nel Mezzogiorno e lungo le coste.

Agostino Robespierre ha soltanto 6 anni più di Napoleone. I due giovani si stimano e si capiscono, diventano amici. Il capitano ha appena scritto Le souper de Beaucaire o Colazione di tre generali ad Avignone; prendendo a pretesto una notte trascorsa in un albergo vicino ad Avignone ascoltando dei mercanti discutere sull'avvenire della Repubblica come se fossero esperti di politica, critica gli incompetenti, gli arruffoni che esistono anche nei quadri delle forze armate, elogia i competenti e proclama la propria adesione alla tendenza giacobina del rigore contro le improvvisazioni.

Ora c'è il problema di Tolone, la città in cui i realisti hanno preso il potere alla fine di agosto e fatto entrare nel porto una flotta anglospagnola opponendosi alla Repubblica. I repubblicani assediano Tolone ma non

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riescono a conquistarla perché, spiega Napoleone al minore dei Robespierre, sono guidati da ufficiali e da deputati in missione privi di competenza specifica, militare.

Napoleone si assicura l'appoggio dei Robespierre e di Antonio Cristoforo Saliceti, corso, deputato alla Convenzione, nuovo rappresentante in missione presso le truppe a Tolone. Promosso maggiore, viene così nominato comandante dell'artiglieria partecipante all'assedio. Il suo piano è di una semplicità geniale. Conquistare il promontorio dominato dalla collina di Le Caire e che finisce a punta l'Éguilette, piazzarvi i cannoni a portata utile e costringere così la flotta alleata delle truppe realiste ad evacuare la Rada Piccola e la zona dei moli di Tolone. La città, già isolata via terra dagli assedianti, una volta isolata anche via mare sarebbe rimasta priva di rifornimenti, e indotta alla resa.

In parole povere, impiegare pochi cannoni anziché quell'esercito di 150.000 soldati richiesto da uomini politici e da ufficiali per i quali la scienza militare è un enigma. Chiede i cannoni a Marsiglia, ad Avignone, all'armata d'Italia.

Tra il 15 ottobre e il 30 novembre 1792 piazza undici batterie: otto per un totale di trentotto cannoni pesanti destinate a neutralizzare con fuoco incrociato il forte Mulgrave, due dirimpetto al forte Malbousquet sulla spiaggia nord della Rada Piccola, la rimanente a bombardare il centro e le installazioni della città con sei mortai a lunga gittata. Una delle batterie, situata sotto il forte Mulgrave, risulta esposta al fuoco nemico e considerata giustamente "luogo pericoloso". Gli artiglieri non ci vanno volentieri, o non ci vanno affatto.

Napoleone, ottimo psicologo, fa allora affiggere un cartello con la scritta: «Batteria degli uomini senza paura»; e da questo momento i volontari non mancano. Nei giorni successivi il nemico sferra un attacco conquistando sette cannoni, che inchioda. Il generale Dugommier e Napoleone in persona guidano il contrattacco, in seguito al quale il neomaggiore cattura il generale O'Hara, comandante delle truppe britanniche e governatore militare di Tolone.

Napoleone, che si preoccupa di restituire la spada all'illustre prigioniero e di assicurargli dal buon vitto, l'indomani riceve la sua prima menzione pur con nome sbagliato. Scrive infatti a Parigi il generale Dugommier: «Tra quelli che si sono maggiormente distinti e che mi hanno dato il miglior aiuto nel radunare gli uomini e portarli all'attacco, cito i cittadini

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Bonna Parte, comandante dell'artiglieria, Arena e Cervoni, aiutanti generali».

L'attacco decisivo viene sferrato il 17 dicembre. Napoleone si lancia per primo tra gli inglesi e viene ferito da una baionettata a una coscia mentre il suo cavallo rimane ucciso sotto di lui. Intrepido, prosegue l'azione impadronendosi di punta l'Èguilette dove piazza via via dieci cannoni. Questa batteria possente e collocata al posto giusto è in grado di far fuoco contro il porto di Tolone a partire dal pomeriggio del giorno 18. Quando Buonaparte ordina «Fuoco», lord Hood, comandante della flotta anglo-spagnola, ordina l'evacuazione. Gli ultimi reparti inglesi fanno saltare in aria l'arsenale e imbarcano sulle navi da carico tutti gli abitanti di Tolone che riescono a trovare un posto.

All'alba del 19 il tricolore repubblicano viene issato in Tolone al posto della bandiera blu con gigli simbolo della monarchia. Tutta la Repubblica è in festa, Napoleone è il suo eroe.

CAPITOLO IIGENERALE A 24 ANNI

La vittoria ha molti padri, la sconfitta ne ha soltanto uno o nemmeno quello. Nonostante il vecchio adagio, il merito di aver domato la ribelle Tolone viene attribuito in tutto o in gran parte al maggiore corso che ha anche la virtù di essere giovane, quindi non suscettibile di nostalgie monarchiche. Il cittadino Buonaparte viene presentato come un ufficiale della Repubblica, efficiente ed entusiasta. Ha studiato il piano, lo ha difeso contro gli invidiosi, ha trovato i cannoni, ha guidato attacchi fino a piazzare le sue batterie a tiro delle navi nemiche. Napoleone, che fino a pochi mesi fa era un anonimo capitano, viene promosso di colpo generale di brigata, con soldo equivalente a quindicimila lire annuali. A 24 anni da poco compiuti, è il più giovane generale di Francia e tra i più popolari. Il suo nome è citato fin dal 7 dicembre dal Moniteur,1 [1 «Le Moniteur universel» o Gazzetta nazionale, giornale noto semplicemente come «Moniteur». Creato nel 1789 da C.J. Panchoucke con lo scopo principale di pubblicare i dibattiti dell'Assemblea nazionale. Verso la fine del secolo diventa il portavoce ufficiale del regime bonapartista, pubblicando i dispacci del governo e gli articoli firmati da Napoleone stesso.] come Bonaparte, comitive di parigini si recano a trovarlo nella città conquistata

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per farsi raccontare sul posto la storia dell'assedio di Tolone e lieto fine. Una pagina epica nella lotta contro le potenze straniere che circondano da mare e da terra la neonata Repubblica cercando di soffocarla. Si omette di precisare che la felice conclusione è stata offuscata dalla vendetta delle truppe rivoluzionarie nei confronti della città ribelle: massacri, incendi, saccheggi.

Napoleone ha trovato la sua strada e i suoi ammiratori, i primi aiutanti fedelissimi tra cui il fratello Luigi, appena sedicenne. Durante i lavori dell'assedio egli aveva condotto Luigi sul luogo in cui il generale-pittore Carteaux aveva guidato un attacco sconsiderato provocando una strage dei suoi. Buche, fosse colme di cadaveri e rovine testimoniano il dramma. Commento: «Guarda, ragazzo mio, impara da questa scena che per un militare è un affare tanto di coscienza che di prudenza studiare profondamente il proprio mestiere. Se quel miserabile che ha lanciato questi prodi soldati all'attacco avesse conosciuto il suo mestiere, un gran numero di essi godrebbe ancora della vita e potrebbe servire la Repubblica. La sua imperizia li ha fatti morire, loro, e centinaia di altri, nel fiore della giovinezza e nel momento in cui stavano per conquistare gloria e felicità».

Un altro prezioso aiutante è il sergente Jean Andoche Junot, di 22 anni, nativo della Còte-d'Or, che durante un cannoneggiamento stava scrivendo gli ordini sotto dettatura di Napoleone. Una palla cade così vicina che la terra sollevata dall'esplosione finisce fin sul foglio umido d'inchiostro. E questo Junot, senza scomporsi, dice al comandante di battaglione: «Tanto meglio, così non avrò più bisogno di sabbia». Tra il capo e il gregario avviene una sorta di colpo di fulmine, il secondo lega il proprio destino a quello del primo e sarà ricompensato con onori crescenti; fino a generale, fino al titolo di duca. E poi Marmont, altro artigliere pieno di coraggio, adesso sottufficiale e diciannovenne ma destinato a meritare il bastone di maresciallo.

C'è tempo anche per gli affanni di cuore. Napoleone aiuta Giuseppe a far uscire dal carcere Etienne Clary, figlio di un ricco commerciante di Marsiglia. Un fratello di Etienne si è appena ucciso per la vergogna di essere stato gettato in una cella immonda insieme con i nemici della patria. Giuseppe prende per fidanzata e poi per sposa Julie Clary, sorella del suo protetto; e presenta la sorella minore, Désirée, all'austero Napoleone. Désirée, sedicenne, come vuole il suo nome è una ragazza molto desiderabile. Non bellissima ma assai graziosa, spontanea, naturalmente

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elegante. L'eroe di Tolone ne rimane incantato, la corteggia e per la prima volta indulge a dei progetti matrimoniali. Tanto più che la carriera procede bene: ha ricevuto dalla Convenzione l'incarico ufficiale di fortificare la costa da Tolone a Nizza e, sottobanco, il compito ufficioso di prendere contatti con la neutrale Genova cercando di attirarla dalla parte dell'isolata Repubblica, di carpire delle informazioni sul sistema difensivo della riviera e dell'entroterra italiano. Il generale va a Genova nei panni borghesi di commissario del popolo, si improvvisa diplomatico e spia. Scrive a Désirée.

Durante la sua assenza, il panorama politico interno, a lui favorevole, muta profondamente. La gente è nauseata del Terrore, che fa lavorare la ghigliottina a orari fissi tutti i giorni, come un qualunque servizio pubblico: 1200 giustiziati in soli due mesi nel 1794. La monarchia, di stragi, ne aveva fatte di ben peggiori. Ma è la messa in scena che alla fine fa venire il voltastomaco. Le carceri zeppe fino all'inverosimile, ottomila prigionieri tra cui nomi amati: Florian, Parny, Hocke, Kellermann, Antonelle. Processi sommari in tribunale. Ogni mattina nelle varie prigioni si legge l'elenco di coloro ai quali in giornata verrà mozzata la testa. I morituri vengono portati su miserabili carrette attraverso le vie di Parigi sempre affollate («a chi tocca oggi?») sui luoghi delle pubbliche esecuzioni che sono spettacolo: le finestre delle case affittate a caro prezzo. Fouquier-Tinville, che dirige il macabro carosello prigione-patibolo-cimitero, chiede addirittura di piazzare la ghigliottina in tribunale.

I responsabili dei cimiteri parigini si ribellano, non c'è posto per seppellire tante teste e tanti corpi. Non c'è personale. L'igiene pubblica è in pericolo. Per far cessare il Terrore si ricorre all'orrore. Massimiliano Robespierre il 28 luglio (10 termidoro) viene ferito, percosso, insultato, bendato e infine condotto alla ghigliottina insieme con Saint-Just e altri 20 dei suoi mentre il fratello minore, amico di Napoleone, si butta dalla finestra. Una visita ai cimiteri della zona di Parigi offre questo bilancio: a Clamart è sepolto Mirabeau con Madame Roland; alla Madeleine sono stati tumulati il re, la Gironda al completo e Charlotte Corday, che ha ucciso Marat nel bagno; a Picpus, André Chénier e «la nobiltà di Francia»; a Bourg-la-Reine, Concorcet; a Mousseaux, il principale cimitero del Terrore, ci sono Danton, Robespierre, Camille Desmoulins, Saint-Just, Anacharsis Clootz, Lavoisier. Finito il Terrore, si riaprono i salotti e le sale da ballo. La gente smania per divertirsi. Qualcuno pensa anche alle

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vendette. Napoleone viene arrestato al suo ritorno a Nizza sotto l'accusa di essere stato un giacobino, una spada al servizio del tiranno Robespierre. Il 15 agosto, giorno del suo venticinquesimo compleanno, lo trascorre in una cella del Forte Carrée pensando all'iniziativa più efficace per riottenere la libertà. I fratelli e gli amici, temendo per la sua stessa vita, lo incitano a fuggire con l'aiuto dei suoi fidati aiutanti. La fuga? Il generale non vuole compromettere quello che ha cominciato a costruire. Scrive una lettera, una delle 60.000 del suo epistolario in ogni senso eccezionale. Si rivolge alla Convenzione, direttamente, con accenti antichi: «Innocente patriota, calunniato, qualunque siano le misure che il Comitato deciderà, non protesterò. Uditemi, distruggete l'oppressione che mi circonda e rendetemi la stima dei patrioti! Un'ora dopo, se i malvagi esigono la mia vita, la darò volentieri, ben poco la stimo; l'ho tanto spesso disprezzata. Sì, soltanto il pensiero che essa può essere ancora utile alla patria, mi fa sopportare il fardello con coraggio».

Quest'ultima annotazione fa breccia a Parigi. I generali in gamba e non sospetti di nostalgie non sono numerosi. Nel volgere di una quindicina di giorni l'amico dei Robespierre riacquista la libertà tornando nella sua casa di Nizza in rue de Villefranche. Salvo, libero. Non è poco in questo periodo in cui nessuna testa è sicura perché basta l'accusa più assurda, lanciata anche senza basi, a rimettere in moto il diabolico meccanismo tribunale-prigione-ghigliottina-cimitero. Ma dal punto di vista della carriera, adesso sembra esserci il vuoto attorno a lui.

Appreso che Paoli sta cercando di attuare il progetto di richiamare in Corsica gli inglesi, accorre a Parigi sollecitando navi e truppe per una campagna che mantenga l'isola sotto la sovranità francese. Infatti, la campagna di Corsica viene preparata ma l'ispiratore ne è escluso. Che delusione! Sollecita un incarico, tutto quello che gli viene offerto è un comando nella Vandea, la regione della Francia occidentale devastata, dal marzo 1793, da un'insurrezione controrivoluzionaria fomentata da preti e da nobili. I vandeani, o Bianchi, forti di 40.000 uomini, hanno dato e danno filo da torcere alle forze repubblicane (Azzurri) abbandonandosi a eccessi repressi con altrettanta ferocia.

Napoleone non vuole passare alla storia come capo di una guerra civile, fratricida. Rifiuta, viene giudicato «in soprannumero» e trasferito d'autorità in fanteria. Si oppone anche a questa decisione che giudica degradante per un comandante d'artiglieria delle sue qualità e fama.

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Non rimane che andare a Parigi a cercare appoggi, altrimenti bisogna rassegnarsi alla prospettiva di mettersi in pensione dedicandosi a un'attività qualsiasi. Napoleone, seguito come ombre da Junot e da Marmont, si trasferisce nella capitale frequentando i teatri, le feste e i salotti nei quali è possibile incontrare i potenti del momento. Fulgido sopra tutti brilla adesso l'astro di Paul Barras, nobile quarantenne che nonostante le origini (appartiene a un'antica famiglia dell'alta Provenza) è stato tra i primi ad aderire ai moti rivoluzionari. Deputato alla Convenzione, ha tra l'altro partecipato all'assedio di Tolone distinguendosi poi nel dirigere la feroce repressione. C'è chi lo accusa di essersi arricchito con i beni dei realisti perseguitati o uccisi. È certo che ama il lusso, le belle donne, tutti i piaceri della vita.

Barras è un personaggio complesso, dalle molte facce, tipico dei momenti di grande mutamento. Dietro la facciata del divertimento e dei vizi ha un animo determinato, all'occorrenza feroce. È lui che ha provocato la caduta di Robespierre procedendo personalmente all'arresto del temutissimo capo del Terrore con quel colpo di mano detto del 10 termidoro 1 [1 Il calendario repubblicano fa iniziare la nuova èra storica dal giorno della fondazione della Repubblica, il 22 settembre 1792. Perciò il periodo 22 settembre 1792-21 settembre 1973 è considerato l'anno 1 della Repubblica, e via di seguito. I nuovi nomi dei mesi, ciascuno, esattamente, di 30 giorni, sono: per l'autunno, vendemmiaio, brumaio, frimaio; per l'inverno, nevoso, piovoso, ventoso; per la primavera, germinale, fiorile, pratile; per l'estate, messidoro, termidoro, fruttidoro. Ogni mese diviso in tre decadi e i giorni di ogni decade denominato primidì, duodì, tridì eccetera.] (28 luglio) dal giorno del drammatico svolgimento. Barras, che è comunque il più disponibile dei cinque membri del Direttorio che governa il paese, ha anche una particolare responsabilità sulle forze armate. A lui si rivolge appunto il giovane generale disoccupato, che chiede soltanto di poter lavorare come sa.

Barras, che conosce Buonaparte dai mesi di Tolone, lo ascolta con simpatia. Promette di interessarsi del suo caso e mantiene, anche perché spera di trarre vantaggi personali dall'operato dell'eroe di Tolone. Dove mandarlo? La Repubblica ha i nemici peggiori nell'Austria, nello Stato di Piemonte-Sardegna, nel Papa, nel re di Napoli e soprattutto nella Gran Bretagna. Gli inglesi finanziano chiunque sia nemico della Francia, ne impediscono il commercio estero e minacciano le superstiti colonie nelle

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Indie occidentali. Mancano però le navi quindi bisogna che la Repubblica concentri gli sforzi sui rivali continentali. Il progetto è quello di impadronirsi della Lombardia in quanto dominio austriaco per farne poi oggetto di scambio coi territori sulla sinistra del Reno già in parte annessi dalla Repubblica con vari decreti ma mai riconosciuti come francesi dalle potenze ostili. Un altro piano prevede invece di sconfiggere l'Austria attaccandola contemporaneamente dall'Italia e dalla parte della Germania.

Interrogato in proposito dagli alti commissari al Ministero della Guerra, Buonaparte espone seduta stante, in mezz'ora, un piano strategico di ampio respiro con una sicurezza che sbalordisce gli interlocutori. In sintesi, il progetto completo di una campagna nell'alta Italia contro il Piemonte e l'Austria secondo il giovane generale d'artiglieria deve prevedere l'aggiramento delle Alpi in un periodo, per esempio febbraio, in cui questo evento è considerato dal nemico impossibile da attuare. Quindi piombare sulla Lombardia, neutralizzare la munitissima fortezza di Mantova e salire a Nord verso il Tirolo minacciando da qui Vienna: o una pace appagante, per la Repubblica s'intende, o l'invasione.

Intanto, si profila un nuovo sommovimento interno. C'è contrasto tra i deputati, tra le forze politiche sul modo di formare il nuovo Corpo legislativo che, in via di scioglimento la Convenzione, sta per essere suddiviso in due Camere distinte, il Consiglio dei Cinquecento e il Consiglio degli anziani, rinnovabili ogni anno per un terzo. I monarchici tramano con i moderati per conservare gli antichi privilegi. A Parigi essi riescono a mettere in minoranza il governo e organizzano una manifestazione di piazza, col proposito di schiacciare gli avversari, per il 13 vendemmiaio, anno IV (5 ottobre 1795).

C'è il pericolo che una parte almeno della popolazione parigina compia un'altra delle sue inesorabili marce contro il potere. Ci vuole un generale energico e capace, se necessario, di comandare il fuoco contro i dimostranti. Occorre un comandante militare di provata esperienza, di assoluta fedeltà. Nell'aula risuonano vari nomi finché qualcuno propone: «Chiamate Buonaparte, l'eroe di Tolone». Napoleone è naturalmente presente. Accetta quanto ieri aveva negato sia a Robespierre sia in Vandea, cioè di sparare contro la propria gente. Comprende che stavolta è questo l'ostacolo da superare per schiudersi la via che può condurre alla gloria. Del resto, per mentalità e carattere è contrario ai disordini; leggi e regole vanno rispettate.

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Accetta ma pone la condizione di poter agire di propria iniziativa, con la massima libertà, rispondendo soltanto al governo nella persona di Barras. Alla vigilia della marcia preannunciata dispone delle sole forze governative, 5000 uomini più 3000 tra volontari e soldati raccogliticci. Domani la folla sarà quattro, magari cinque volte tanto. I fucili non bastano, ci vogliono i cannoni: dove trovarli? L'artigliere Napoleone rivolge la domanda a chi gli sta intorno.

«So io dove, mio generale». Chi parla così è un giovanottone forte e spavaldo, impalato sull'attenti, con i muscoli che sembrano volere schizzar fuori dall'uniforme attillata. È Gioacchino Murat, pure lui sotto i trent'anni; figlio di un locandiere, destinato al sacerdozio e invece arruolatosi volontario nell'esercito monarchico. Scacciato per insubordinazione (1789), fa il commesso di drogheria prima di trovare addirittura i gradi di ufficiale di cavalleria nell'esercito repubblicano. Ha ambizione e coraggio sconfinati. Il condottiero Napoleone vede in lui, a colpo d'occhio, il guerriero nato. Anche stavolta è un'intesa a prima vista destinata a una reciproca collaborazione di altissima qualità.

Murat si lancia al galoppo nella notte con 200 cavalieri verso la piana di Sablons a una decina di chilometri dalla capitale, mettendo le mani su una decina di cannoni pochi minuti prima dell'arrivo dei realisti, che hanno avuto la sua stessa idea. È quasi l'alba quando Napoleone ode il rumore a lui consueto dei cannoni che si stanno avvicinando. Dispone truppe e armi a difesa delle Tuileries, sede del governo, con una prima barricata attraverso il boulevard dal quale irromperà la folla.

Il «nemico» giunge puntuale, un paio di ore dopo: ci sono esponenti monarchici, guardie repubblicane, popolani e gente qualsiasi; numerose le donne, non mancano i ragazzi e nemmeno i bambini, i curiosi. Non è soltanto una folla rumoreggiante, incontenibile e disordinata; ci sono agguerriti reparti in armi, ordinati e pronti. I due opposti schieramenti si fronteggiano a lungo. Discorsi e richieste da entrambe le parti; altri discorsi si susseguono alla tribuna delle Convenzioni, i cui tremanti deputati sono stati armati da Napoleone.

Passano le ore finché nel pomeriggio, di colpo, i realisti s'avventano contro la prima barricata spazzando tutto compresi i soldati che erano stati posti a difesa.

Napoleone è pronto. «Fuoco», ordina. Scoppia il finimondo. Fiamme e fumo. I cannoni rombano aprendo squarci sempre più vasti tra le file degli

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assalitori. In pochi minuti, il selciato si riempie di centinaia e centinaia di cadaveri, di migliaia di feriti che urlano tutto il dolore delle loro carni squarciate. Il grosso dei realisti indietreggia, si sbanda e disperde.

La legalità repubblicana è salva. «Le nostre perdite», precisa con professionale freddezza il generale dal viso di ragazzo, «ammontano a trenta morti e sessanta feriti. Abbiamo disarmato tutte le centurie di irregolari. La situazione è sotto pieno controllo».

Buonaparte si gode in silenzio gli applausi della Convenzione, i complimenti e le espressioni di riconoscenza dei «padri della patria» che fino a ieri gli si mostravano indifferenti se non ostili. È di nuovo l'uomo del giorno. La ricompensa non tarda a venire. Viene nominato comandante dell'esercito all'interno con le funzioni effettive di generale d'armata, scavalcando gran parte dei 135 generali dai quali era preceduto nella graduatoria dell'anzianità.

L'incarico comporta uno stipendio adeguato, alloggio, personale di servizio, carrozza e tanti altri benefici. Soprattutto, ha implicito il potere del comando. Una moltitudine di ufficiali e di soldati che attende soltanto i suoi ordini. Da questo momento in avanti la famiglia Buonaparte non avrà più problemi economici. Napoleone consegna a sua madre quasi tutto quello che guadagna e studia la sistemazione più opportuna per ogni fratello e per ogni sorella. Si preoccupa alla stessa stregua di migliorare la situazione dei suoi aiutanti, dei primi militari che hanno creduto in lui siano ufficiali, sottufficiali o semplici soldati. Dagli onori alle ricchezze, nessun traguardo è più precluso.

CAPITOLO IIICON LA VEDOVA DEL TERRORE

I1 giovane comandante dell'esercito interno è deciso a mantenere saldamente in pugno l'ordine che ha imposto sparando con i cannoni contro i dimostranti. D'ora in avanti sarà proibito portare con sé o detenere armi in casa senza autorizzazione. Dispone perquisizioni su vasta scala minacciando pene severe ai contravventori.

Ecco che si presenta nel suo ufficio un ragazzo quattordicenne elegante e compito, cortesissimo. Riesce a farsi ascoltare dagli aiutanti perché ha un nome ben noto negli ambienti militari. È Eugenio, figlio di Alexandre visconte di Beauharnais, generale, già deputato della nobiltà e due anni

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addietro comandante dell'esercito del Reno. Personaggio brillante, generale di una certa capacità ma travolto dal nevrotico balletto dei comandi dati e tolti tipico dei periodi di grandi mutamenti. Nel suo incarico erano stati avvicendati otto generali in otto mesi. Ossia, nell'ordine, Custine, Dietmann, Beauharnais, Laudremont, Meunier, Carlenc, Puchegru, Hoche. In simili circostanze non c'erano da attendersi buoni risultati.

Ma Robespierre, scatenato il Terrore, non intende ragioni. Accusa Beauharnais di non aver difeso efficacemente Magonza, città tedesca sulla sinistra del Reno che era stata conquistata da Custine nell'ottobre 1792, assediata dalle truppe prussiane e austriache tra aprile e luglio dell'anno appresso infine perduta dopo eroica resistenza. Beauharnais, né migliore né peggiore di tanti altri colleghi, viene imprigionato e ghigliottinato.

Napoleone potrebbe far ricevere il ragazzo dai suoi collaboratori: che sentano quello che vuole e cerchino, se possibile, di accontentarlo. Invece ha per massima di fare da sé, quando può, e di non trascurare alcuna occasione. È naturalmente tradizionalista per quanto riguarda la famiglia e la gerarchia militare. Ascolta volentieri il ragazzo e ne rimane favorevolmente impressionato. «I vostri soldati», dice Eugenio, «hanno sequestrato la spada di mio padre. È una reliquia, per me. Vorrei riaverla. Giuro che, se la userò, sarà soltanto in favore della Repubblica».

Tra il comandante e il fanciullo s'accende la scintilla della reciproca comprensione. Napoleone, le mani incrociate dietro la schiena, guarda con simpatia Eugenio, che ha l'età dei suoi fratelli minori. Gli rivolge qualche domanda e lo accontenta. Un incontro breve ma gravido di conseguenze. Sembra che nulla sia casuale negli incontri e nelle vicende di Napoleone. Sembra che qualunque persona abbia la sorte di avvicinare sia destinata a servirlo in futuro con la massima lealtà ricevendo in cambio onori adeguati.

Qualche giorno più tardi si presenta a ringraziare per la cortesia usata verso Eugenio e per la spada restituita la vedova del defunto visconte, Giuseppina di Beauharnais nata Tascher de la Pagerie. Stavolta anziché una scintilla divampa subito l'incendio. Giuseppina, che ha sei anni più di Napoleone, è una donna nel fiore della bellezza, elegante ed estremamente disinvolta, abituata ad accentrare gli sguardi maschili. È una creola della Martinica, giunta in Francia col padre che era tenente della fanteria di marina. Sposato il visconte, gli ha dato due figli, Eugenio e Ortensia, ne ha

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condiviso in parte la vita spensierata sia a Parigi sia nella Martinica accettando di lui anche i ripetuti tradimenti. Nel tentativo di sottrarlo alla ghigliottina, ha conosciuto anche lei le prigioni del Terrore, lugubri anticamere della morte.

È stata salvata da Barras di cui ora si dice sia l'amante. È sicuro che il suo salotto risulta il meglio frequentato di Parigi insieme con quello della sua amica Madame Tallien,1 [1 Teresa Cabarrus. Figlia di un finanziere spagnolo, nata a Madrid nel 1773, sposa il marchese di Fontenay e dopo il divorzio viene arrestata a Bordeaux mentre cerca di tornare in Spagna. Liberata da Jean-Lambert Tallien, ne diviene prima l'amante e poi la moglie. Col suo fascino e la sua personalità, lo induce a schierarsi contro l'amico Robespierre che la farà imprigionare.] moglie di uno dei capi della reazione termidoriana. In questi salotti viene subito invitato Napoleone, che dimentica presto la dolce Désirée di Marsiglia per Giuseppina spensierata dama dagli occhi infuocati, esperta dispensatrice di grazie femminili.

Giuseppina di Beauharnais e Teresa Tallien sono il simbolo vivente, spumeggiante, della Francia che vuole dimenticare il Terrore vissuto sulla propria pelle per costruire un nuovo futuro intessuto di divertimenti più che di doveri. Una filosofia completamente diversa da quella che ha finora ispirato la condotta di Napoleone, che proprio per questo rimane colpito, incantato. L'uomo che ha preso Tolone agli inglesi e cannoneggiato la folla parigina senza un attimo d'esitazione si comporta nei confronti di Giuseppina come uno studentello. La vorrebbe soltanto per sé mentre lei è disponibile a qualunque avventura. Il corso geloso e possessivo rimane stordito dallo sconosciuto (finora) profumo del fiore delle Antille.2 [2

Creolo significa in origine individuo di razza bianca nato da genitori spagnoli francesi nelle più antiche colonie d'America (Antille, La Réunion eccetera) in contrapposizione sia agli indigeni sia agli immigrati nati in Europa. Le donne creole godevano fama di grande bellezza e femminilità.] Tutto gli piace di lei, compresi i figli Eugenio e Ortensia che contraccambiano con slancio il suo affetto simile a quello di un padre.

Il generale si impegna nella conquista della reginetta di Parigi gaudente con la determinazione che userebbe nell'assalto di una fortezza. Raggiunto l'obiettivo, non si rende conto che lei gli attribuisce un'importanza molto, molto minore.

Vittorioso, grafomane, non fa in tempo a lasciare la sua conquista che

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già le scrive: «Mi desto pieno di te. Il tuo ritratto e l'inebriante serata di ieri non hanno lasciato riposo ai miei sensi. Dolce e incomparabile Giuseppina, quale singolare influsso avete sul mio cuore. Voi vi adirate; vi vedo triste, siete inquieta. La mia anima è spezzata dal dolore e non vi è riposo per l'amico vostro, ma ve n'è forse di più quando, abbandonandomi al profondo sentimento che mi domina, suggo dalle vostre labbra, dal vostro cuore, una fiamma che m'incendia? Questa notte mi sono ben accorto che il vostro ritratto non basta a sostituirvi. Tu parti a mezzogiorno, fra tre ore ti vedo. Intanto, 'mio dolce amor',1 [1 In italiano nel testo originale.] mille baci, ma tu non darne a me, perché mi bruciano il sangue».

Giuseppina è forse più infastidita che lusingata da questa passione. Non vuole legarsi a un uomo solo tanto più che ha compreso prima di altri, col suo intuito femminile, quanto siano smisurate la volontà e l'ambizione del giovane pretendente. Gli fa paura sentirlo dire: «Con la mia spada andrò lontano» o usare espressioni di scherno nei confronti dei potenti del Direttorio, cioè, oltre a Barras, amico comune, benefattore, Rewbell, La Révellière-Lépeaux, Carnot e Letourneur. Tesse una schermaglia d'amore cercando di evitare di farsi chiedere in moglie. Una relazione sentimentale può essere completa, appagante anche senza il bisogno dell'ufficialità nuziale.

Napoleone è impaziente. Vuole una moglie, una famiglia soltanto sua, degli eredi cui affidare la propria eredità di grandezza. Non c'è tempo da perdere perché il destino incalza. Si confida con sua madre, che non dimostra entusiasmo alcuno per la scelta: figurarsi, una creola spendacciona con la testa piena di futilità, di capricci! E' chiacchierata come una cocotte. La signora Letizia teme che le venga a mancare del tutto l'appoggio economico dell'innamorato figliolo.

Giuseppina chiede consiglio alle amiche: se questo generale della Rivoluzione sia secondo loro l'uomo adatto a sostituire il visconte, sicuro marito per lei e protettore paterno dei suoi figli. La preoccupa anche la differenza di età, uno sposo giovane può risultare difficile da tenere legato a lungo. Insomma, farebbe volentieri a meno di tanti grattacapi.

Gli eventi si incaricano di far maturare le decisioni agli inizi del 1796. Il Direttorio ha bisogno di soldi e di successi, di un minimo di stabilità interna per incanalare i rimanenti sussulti insurrezionali in un grande mare, quello del «dopo-rivoluzione». Si guarda con interesse verso il fronte italiano.

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L'esercito francese d'Italia era da tre anni sulla difensiva. Riconquistati i territori perduti nel 1793 e rioccupata la Savoia, si era attestato sulle Alpi mantenendo il saldo possesso dei passi principali. Bisognava smuoverlo, disincastrarlo dalla posizione di stallo e «produrre» conquiste. Ma si tratta di un'armata col morale a pezzi e con i rifornimenti di continuo negati, i cui soldati si sentono abbandonati dalla madrepatria e gli ufficiali sottovalutati, privi di prospettive.

Ci vuole un generale capace di trasformare questa massa grigia in una macchina bellica efficiente. Chi farà il miracolo? Ciascuno ha dei candidati da proporre, Barras si batte per Buonaparte: ha esperienza, ha già dimostrato di valere ed è autore di un piano brillante per la rapida conquista dell'Italia austriaca. Non mancano le obiezioni: «Comandare un battaglione di artiglieria è molto diverso che guidare un'armata». «Quale esperienza? E chi non è capace di prendere a cannonate la folla inerme?». Ma in fondo, il rischio è minimo perché i «padri della Rivoluzione» sono abituati a sostituire i generali come birilli.

Barras informa via via Napoleone, che al colmo dell'entusiasmo non esita a chiedergli aiuto anche per le sue vicende private: prima di partire vuole la tranquillità sentimentale. Le nozze. E così il potente Barras deve darsi da fare per convincere la sua amante, Giuseppina, a sposare un altro uomo. Il generale cui è destinata l'armata d'Italia. Non è più il momento delle esitazioni.

Il 2 marzo Napoleone riceve il decreto di nomina al comando con l'obiettivo di iniziare al più presto la campagna d'Italia. Una settimana dopo, il 9 marzo, sposa con rito civile Giuseppina donandole un anello nel quale sono incise due parole: «Al destino». La madre, i fratelli e le sorelle di lui, i figli di lei, festeggiano gli sposi. Barras, testimone, appare visibilmente felice. Ha sistemato un'amante e ha accontentato un generale la cui forza può diventare la sua.

La notte stessa delle nozze lo sposo scopre che gli viene imposto di dividere il letto nuziale con un intruso, Fortuné, il cagnolino prediletto della sua bella creola. Se ne lamenterà anche per iscritto, invano. Quarantotto ore più tardi, il congedo. Dopo una luna di miele così breve, semplicissima, lei torna al suo salotto e lui va a fare la conoscenza della sua armata.

Per la verità, l'armata è tale più sulla carta che nella pratica. Inoltre, la campagna d'Italia è considerata tuttora secondaria rispetto a quella della

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Germania nel quadro strategico della guerra per costringere l'Austria a scendere a patti. Questo, almeno, è quanto hanno in mente i «direttori», i commissari del Ministero della Guerra. Ma nessuno di loro conosce per davvero Buonaparte. Non ancora.

Il trasferimento, i primi contatti e le prime ispezioni richiedono un paio di settimane. Napoleone compie il viaggio in undici tappe, da ciascuna delle quali manda una lettera alla sposa. Lettere di fuoco. La passione non gli impedisce di veder chiaro nel mestiere delle armi. Il 27 marzo raduna a Nizza parte delle sue truppe, rivolgendo loro un famoso proclama:1 [1 Si tratterebbe, secondo alcune fonti, del riassunto di frasi, di concetti usati in giorni diversi e circostanze diverse: ma la sostanza è immutata.] «Soldati! Voi siete nudi e malnutriti; la Francia vi deve molto ma non può darvi nulla. La pazienza e il coraggio che avete dimostrato tra queste rocce sono ammirevoli, ma non vi hanno dato gloria: nemmeno un'ombra ricade su di voi. Io vi condurrò nelle più fertili pianure della terra. Province ricche, città opulente, cadranno in vostro potere; vi troverete ricchezze, onori e gloria. Soldati dell'armata d'Italia! Vi lascerete mancare il coraggio e la perseveranza?».

Parole chiare, che anche i più ignoranti possono comprendere. Finora siete stati malguidati, io vi porterò dove potrete avere tutto. È la traduzione del concetto «la guerra pagata con la guerra» ossia con le risorse trovate in campo nemico, che sarà il filo conduttore delle campagne napoleoniche. I soldati valutano in silenzio il nuovo comandante concludendo che non potrà essere peggiore del precedente, il vecchio Schérer dalle concezioni arcaiche. Dapprima diffidenti verso il nuovo capo, giovane e piccolo, gracile all'apparenza, con un'uniforme anonima, anche gli ufficiali si accorgono subito di avere di fronte un personaggio autorevole. La descrizione più efficace è di Massena: «Si mise in testa il cappello da generale e sembrò di colpo cresciuto di oltre mezzo metro».

Napoleone si è portato al seguito un piccolo gruppo di ufficiali legati alla sua persona, dallo spavaldo Murat all'ex-sergente Junot, ora maggiore, al giovane Marmont e al fratello Luigi. Brillanti, coraggiosi, tutti destinati a eccezionali carriere. Ma non hanno ancora l'esperienza del comando di unità. Su 63.000 effettivi dell'armata, sono disponibili per l'impiego immediato soltanto 37.000 uomini con una sessantina di cannoni. I comandanti di divisione più anziani sono tre: l'aristocratico Sérurier, che ha compiuto tutta la sua carriera nell'esercito di sua maestà; il popolano

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Augerau, figlio di un muratore, disertore di tre eserciti e assassino di un ufficiale che lo aveva insultato, reduce da straordinarie avventure in mezza Europa; infine André Massena, nizzardo, mozzo, sergente, contrabbandiere e Dio sa cos'altro prima di diventare un energico ufficiale della Rivoluzione.

L'autentico fiore all'occhiello del nuovo comandante è il suo capo di stato maggiore Alexandre Berthier, di 42 anni, proveniente dal genio, al quale si riconoscono capacità organizzative e direttive fuori del comune. Nel suo lavoro, un rullo compressore instancabile.

Napoleone non progetta di invadere l'Italia seguendo l'esempio classico di Annibale, attraverso i difficili passi del confine sulle Alpi, bensì attraverso le valli e i passi più agevoli della zona montuosa sovrastante la riviera tra Nizza e Genova.

I suoi nemici in campo sono gli austriaci del generale Beaulieu, il comandante in capo, che ha 72 anni e 19.500 uomini ai suoi ordini diretti, e di una seconda armata, altri 15.000 uomini guidati dal generale D'Argenteau; e i 20.000 piemontesi agli ordini di un altro generale pure austriaco, Colli. Ossia, 37.000 francesi validi contro 54.500 tra austriaci e piemontesi. Data l'inferiorità numerica, per vincere occorre affrontare le forze nemiche separate.

Napoleone individua subito il punto debole dello schieramento avversario, che gli può consentire di dividere le truppe austriache da quelle piemontesi, e quindi di affrontare queste ultime col grosso delle proprie forze. Deve spendere alcuni giorni nel riprendere in pugno i reparti che prima del suo arrivo avevano minacciato di ammutinarsi. Procura gli stivali alla sua povera armata per metà scalza, racimola il denaro sufficiente a distribuire la paga arretrata, sposta e riorganizza. Durante questa fase preparatoria emana 123 ordini scritti in modo che niente sia lasciato al caso.

Il 6 aprile, dopo dieci giorni appena dal suo arrivo a Nizza, trasferisce il quartier generale ad Albenga. Progetta di sferrare l'attacco il giorno 15. L'obiettivo principale è Carcare, centro ligure alla sinistra della Bormida di Spigno, in collina, dove sembra possibile separare i piemontesi di Colli dai loro alleati e batterli con il grosso delle truppe lasciando il rimanente a fronteggiare gli austriaci a Dego.

Invece attacca per primo di sorpresa, il 10 aprile, il nemico. Beaulieu, il comandante in capo austriaco, credendo che obiettivo dei francesi sia

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quello di minacciare Genova per costringere i genovesi a concedere un grosso prestito di guerra, sferra una puntata in direzione di Voltri. Contemporaneamente, D'Argentau dovrebbe attaccare Savona: ma quest'ultima mossa avviene con un giorno di ritardo per la mancata trasmissione tempestiva dell'ordine.

Napoleone reagisce prontamente all'imprevisto. Trascura per ora Beaulieu, relativamente lontano, fa attaccare di fronte e sul fianco destro, con forze preponderanti, D'Argentau, che è costretto a ritirarsi per evitare l'annientamento. È Montenotte il luogo della prima vittoria del giovane condottiero, che ora s'affretta a far convergere a ritmo serrato Massena e Augerau su Carcare, secondo il piano iniziale. Con parte di queste truppe fronteggia poi gli austriaci a Dego, con il grosso si scaglia contro i piemontesi verso Ceva. Manda anche il terzo delle truppe agli ordini di Sérurier contro Ceva, per ammassare qui una forza d'urto di 25.000 uomini. L'avanzata di Augerau, dopo un successo iniziale a Millesimo, trova un intoppo inaspettato a Cosseria, nelle rovine del cui castello è attestato un reparto misto austro-piemontese di truppe scelte, granatieri, che oppone una resistenza feroce.

Di imprevisti se ne verificano altri. Massena conquista il villaggio di Dego facendo prigionieri 5000 austriaci ma il sopraggiungere di rinforzi nemici guidati da Vukassovich costringe all'abbandono della posizione il giorno successivo, 15 aprile. C'è il pericolo che gli austriaci riescano ad arrivare in forze, minacciando il fianco destro dello schieramento francese. Invece Beaulieu, battuto per tre volte in pochi giorni, credendo di ricevere adesso l'attacco principale si dispone a difesa nella zona di Acqui. Insomma, i due eserciti alleati combattono ciascuno per conto proprio. Beaulieu a Acqui e Colli a Ceva pensano soltanto alla salvezza dei propri uomini. Preoccupazione del resto naturale perché ciascuno di loro ha un sovrano diverso cui rispondere.

Napoleone non ha re cui rendere conto del suo operato ma soltanto un governo al quale egli ha peraltro richiesto ampia libertà d'azione. Rischia. Lasciato Massena a controllare le mosse austriache, trasferisce il comando da Carcare a Millesimo e concentra i 24.000 uomini di Augerau e di Sérurier contro Ceva, dove Colli, avendo diviso le forze, ha a disposizione soltanto 13.000 dei suoi piemontesi.

Colli non accetta battaglia. Si ritira per due volte consecutive, di notte, fino a Mondovì, dove ha l'ausilio di una guarnigione austriaca con un ben

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fornito arsenale. Ma Napoleone incalza costringendo il nemico a un'ulteriore ritirata. Occupata Mondovì, il 23 aprile ordina l'avanzata verso Torino sicché la sera stessa Colli, pur non essendo stato sconfitto in una battaglia aperta, chiede l'armistizio. Napoleone ne approfitta per occupare sia Alba e Cherasco, completando così la separazione dei due eserciti nemici, sia Fossano, che gli consente di stabilire comunicazioni dirette con Nizza. Traccia un primo bilancio. In un paio di settimane ha vinto 6 battaglie, ha ucciso seimila nemici; conquistati 40 cannoni, 21 bandiere, armi e munizioni, viveri in quantità mentre la pianura piemontese non potrebbe all'occorrenza negargli le sue risorse. Eppure di sera, al momento di ritirarsi nel suo alloggio sbianca in volto. Agli aiutanti che gli chiedono ansiosi che cosa sia mai accaduto di così terribile in quest'ora di vittoria mostra la miniatura del volto di Giuseppina: il vetro che la protegge, e che egli suole coprire di baci, è spezzato. Viene udito mormorare: «Brutto presagio. Giuseppina sta male o mi tradisce».

CAPITOLO IVA LODI NASCE LA SUA LEGGENDA

Napoleone ha compiuto il primo miracolo: trasformare un'armata scalza, di straccioni in procinto di ribellarsi perché lasciati con scarsi viveri e paga arretrata, in una grande unità compatta e agile, pronta ad adattarsi alle situazioni mutevoli della battaglia. I soldati della Rivoluzione guidati da comandanti capaci si battono con l'orgoglio di chi ha degli ideali da proporre e con la determinazione di chi vuole conquistarsi con la baionetta il sognato bottino.

Ricorderà Napoleone: «Fu uno spettacolo sublime l'arrivo dell'armata sulle alture di Montezemolo. Da là, essa scoprì le immense pianure del Piemonte, il Po, il Panaro. Una ragnatela d'altri fiumi serpeggiava lontano. Una cintura bianca di neve e di ghiaccio, di un'altezza prodigiosa, circondava all'orizzonte questo ricco bacino della Terra promessa. Annibale aveva forzato le Alpi, noi le avevamo aggirate».

Prima di riprendere la lotta contro il vero nemico, che sono le truppe austriache dalle uniformi bianche, dalla consolidata reputazione, bisogna strappare al Piemonte delle vantaggiose condizioni di pace. Vittorio Amedeo III di Savoia e la sua corte vivono giornate di ansia a Torino. L'anziano sovrano è di mentalità antiquata, ferma all'epoca in cui le teste

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dei re erano considerate sacre. Accusa gli alleati austriaci di averlo abbandonato sul campo di battaglia ma non è insensibile ai segnali che giungono da Parigi, da emissari, pare, del Direttorio: uscire per sempre dalla contesa senza danni, anzi con la prospettiva di poter essere chiamato al banchetto dei vincitori una volta che la Lombardia verrà sottratta al dominio dell'imperatore absburgico.

Né Parigi né Torino, e tanto meno Vienna hanno ancora compreso chi sia, che cosa voglia il giovane condottiero dell'armata d'Italia; per adesso, lo giudicano fortunato, magari presuntuoso; credono che sia possibile prima o poi neutralizzarlo com'è accaduto con tanti altri generali. Napoleone incontra a Cherasco i plenipotenziari del re piemontese e li affronta col consueto impeto che pone in tutto quello che fa. Dice in sostanza che non ha avuto disposizioni precise dal suo governo per stipulare un accordo definitivo. In via provvisoria, in attesa dell'approvazione di Parigi, fa sapere quali sono le «sue» condizioni. Intanto, assicurare alle sue truppe i rifornimenti («la guerra che paga la guerra nutrendo l'esercito invasore a spese del paese nemico») e consentire il libero passaggio su tutto il territorio del Piemonte degli eserciti francesi. Inoltre, rinunciare formalmente alla Savoia e ai territori di Nizza, Tenda, Bregio; consentire provvisoriamente lo stanziamento di truppe francesi in alcuni forti sardo-piemontesi; vietare alle navi nemiche della Francia l'ingresso nei suoi porti. Eccetera.

Aipleni potenziari del re che lamentano la durezza delle clausole, fa servire dei dolci. Poi guarda l'orologio. «Dobbiamo sbrigarci», dice. «Alle due pomeridiane i miei soldati hanno l'ordine di attaccare se non ricevono conferma che l'accordo è raggiunto». Lo stesso giorno, 28 aprile, Vittorio Amedeo HI accetta senza controproposte. È la resa ufficiale.

Il generale vittorioso manda a Parigi a briglia sciolta il suo aiutante, Murat, con l'armistizio da approvare. Chi lo giudica troppo severo e chi troppo blando. Irrita quel comandante che fa tutto da solo, anche la parte che spetta ai politici. Ma come sconfessarlo se ha raggiunto con inaspettata prontezza il primo risultato della campagna? Il Direttorio non fa altro che mettere in bella copia la minuta del testo del suo generale. E a giro di corriere riceve il seguente messaggio: «Ho avuto il vostro Trattato di pace con la Sardegna. L'esercito lo ha approvato». Firmato: Bonaparte. Un'impudenza sbalorditiva. Si comincia a capire quale personaggio sta comparendo alla ribalta europea.

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Napoleone, attento anche ai dettagli, d'ora in avanti omette la «u» nel suo cognome per francesizzarlo, affinché i compatrioti si abituino a pronunciarlo con maggiore familiarità. Ora deve affrontare la seconda parte del suo compito. Come egli stesso aveva preteso, il Direttorio affidandogli il comando lo aveva autorizzato a occupare Ceva e a portare la sinistra dell'armata nella zona di Cuneo. «Dopo di che dirigerà le sue forze verso il Milanese, sostanzialmente contro gli austriaci. Dovrà respingere il nemico di là dal Po, s'impadronirà dei mezzi per superare questo fiume e cercherà d'impossessarsi delle fortezze di Asti e di Valenza».

Varcare il Po davanti all'armata di Beaulieu non è impresa facile. Consultando le carte, tra varie soluzioni Napoleone sceglie il passaggio anziché nella vicina Valenza, in suo possesso dopo l'armistizio di Cherasco, a Piacenza, che dista un'ottantina di chilometri. Qui non è certo atteso in forze dal nemico; inoltre, una volta passato, non avrà altri ostacoli sulla via di Milano. Il progetto richiede la sorpresa, che si può ottenere soltanto con la velocità di spostamenti.

Scrive a Carnot:1 [1 Lazare Carnot dal 1792 al 1797 membro del Comitato di salute pubblica e poi del Direttorio, creatore delle nuove forze armate col motto «L'entusiasmo popolare dev'essere organizzato». Riesce a fondere i cittadini-soldati della Repubblica con gli anziani soldati monarchici in un esercito nazionale, organizza l'addestramento tecnico degli ufficiali, adatta l'industria e l'agricoltura alle esigenze belliche.] «La mia intenzione è di agganciare gli austriaci e di batterli prima che lei abbia il tempo di rispondere a questa lettera». E va, anzi vola, mentre i soldati brontolano e imprecano nei confronti di questo comandante che non consente loro di godersi il meritato riposo ma in realtà consapevoli che egli sta puntualmente mantenendo le sue promesse.

Il 5 e il 6 maggio Serurier e Massena compiono delle azioni diversive verso Valenza, fingendo che il passaggio avvenga qui come prevede il nemico; contemporaneamente, un contingente di truppe scelte, circa seimila uomini, si dirige su Piacenza impadronendosi di un traghetto e iniziando l'attraversamento del fiume la mattina del 7. Questo contingente, una volta attestato sulla sponda settentrionale mentre via via sopraggiunge il grosso, attacca e conquista una posizione tenuta dal nemico, Fombio. Nel frattempo il comandante austriaco Beaulieu, accortosi delle reali intenzioni di Napoleone, fa retrocedere le sue truppe per evitarne

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l'accerchiamento e ordina il concentramento a Codogno. Queste avanguardie in movimento si scontrano durante la notte con i francesi, che presi alla sprovvista reagiscono disordinatamente. Il generale di divisione Amedeo La Harpe, d'origine svizzera, già distintosi a Loano e a Millesimo, viene ucciso per errore dai suoi uomini. Interviene con prontezza a ristabilire la situazione Berthier, con altri ufficiali dello stato maggiore.

Beaulieu, come prima di lui Colli con i piemontesi, non si fida a dare battaglia in campo aperto. Retrocede dietro l'Adda, per frapporre l'ostacolo di quest'altro fiume tra il suo esercito pressoché intatto e il nemico.

Napoleone può così completare durante il giorno 9 il passaggio del Po indisturbato, anche se le truppe inviate a Valenza per il diversivo devono prima superare a marce forzate qualcosa come cento chilometri. L'indomani è a Lodi, dove 10.000 austriaci presidiano il ponte sull'Adda con il compito di proteggere la ritirata del resto dell'armata. Qualunque altro generale si sentirebbe appagato. Milano è a portata di mano perché Beaulieu ha rinunciato a difenderla e pare piuttosto deciso a rinchiudersi nella fortezza di Mantova in attesa di rinforzi.

Ma Napoleone non è un generale qualunque. Dopo, a cose fatte, dirà: «A Lodi ho capito che il destino mi chiamava a grandi eventi, che non ero un semplice generale ma un uomo dedito a costruire il futuro di un popolo». Schiera gli uomini al riparo dalle mura e, anziché cercare un guado in qualche luogo meno presidiato, indica il ponte. «Passeremo per di qua a dispetto dei cannoni e dei fucili nemici». Ordina l'attacco mentre il grido «Viva la Repubblica» risuona più forte delle cannonate.

Manda all'attacco i granatieri, il cui impeto è bloccato a metà del lungo ponte dal fuoco nemico. L'attacco è subito ripreso, si mettono alla testa Berthier, Massena e gli altri comandanti in grado più elevato. Va lui stesso, ora; va tra i primi e gli aiutanti alla fine devono liberarlo da un viluppo di nemici. Una sequenza memorabile per suggestione e audacia. Rischiare la vita soltanto per dimostrare che non ci sono ostacoli insuperabili per chi sa osare.

È sul ponte di Lodi che nasce la leggenda di Napoleone. Quella sera, preso il ponte e accesi i fuochi dei bivacchi, i soldati completamente conquistati dal suo esempio, dalla sua personalità, decidono di premiarlo con il grado simbolico di «Piccolo caporale». Gli concedono l'onore, che non ha prezzo, di essere uno di loro.

Sul ponte di Lodi, in poche decine di minuti, perdendo soltanto qualche

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centinaio di uomini, ha ottenuto gli stessi risultati pratici di una battaglia sanguinosa ma necessaria a superare l'ostacolo di un fiume. E adesso il Signore della guerra dopo un mese di successi ininterrotti guida i suoi uomini a Milano, ricca e popolosa capitale della Lombardia.

Prima, c'è un altro ostacolo da superare. Il Direttorio, geloso dei suoi successi, gli ordina di dividere il comando con il generale François Kellermann restando entrambi sotto la direzione politica del commissario governativo Saliceti. Kellermann, sessantenne, già ufficiale durante la Guerra dei sette anni,1 [1 Combattuta dal 1756 al 1763 tra Francia, Austria e alleati contro la Gran Bretagna e la Prussia per rivalità economiche e coloniali (gli inglesi opposti ai francesi in Nordamerica e in India). Inoltre Maria Teresa d'Austria voleva rientrare in possesso della Slesia occupata da Federico II di Prussia.] è l'eroe di Valmy. In questa località dello Champagne il 20 settembre di quattro anni fa ha messo in rotta, con Dumouriez, 34.000 prussiani guidati dal duca di Brunswick liberando la Francia rivoluzionaria dall'invasione straniera. Una pagina epica che il poeta Goethe ha definito «inizio di una nuova era nella storia del mondo». Si vorrebbe adesso che l'esperto Kellermann rimanesse a presidiare la vallata del Po e che l'intraprendente Bonaparte si dedicasse a raffrenare le velleità del papa, che impersona l'anti-Rivoluzione.

L'eroe di Lodi non indugia un secondo. Detta la risposta: «Ognuno ha il proprio modo di fare la guerra. Il generale Kellermann ha maggiore esperienza e la farà meglio di me, ma noi due insieme la faremmo certo male... Un cattivo generale da solo può fare meglio di due buoni generali insieme». È una prima elaborazione di quello che sarà il principio napoleonico «L'unità di comando è la cosa più importante in guerra». Addolcisce il «no» annunciando al Direttorio l'invio di un convoglio carico di oro, argento, quadri: un consistente bottino.

A Milano, adesso, capitale di quella terra lombarda che secondo Stendhal «era sempre stata un campo di battaglia», dove i francesi venivano a disputarla ai tedeschi». Gli austriaci se ne sono appena andati lasciando qualche rimpianto per la loro saggia amministrazione e 300 soldati asserragliati dentro il castello Sforzesco, a un tiro di schioppo dal Duomo. La popolazione si riversa per le strade tributando una spontanea, calorosa accoglienza ai soldati che rappresentano la bandiera universale della fratellanza e dell'uguaglianza dei popoli. Malvestiti come sono, stanchi e a ranghi disordinati, questi soldati per ora suscitano simpatia. Si

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fraternizza. È il 14 maggio.Napoleone si fa precedere dai prigionieri come usavano i generali di

Roma antica durante il trionfo. È atteso da un gruppo di autorità: l'arcivescovo vegliardo, i nobili, la municipalità, i maggiorenti. Accetta la chiave della città, risponde con poche parole di circostanza e rimonta a cavallo impaziente di immergersi in un bagno caldo, ristoratore. Né superbo né arrogante; disponibile, ma autoritario. Io decido, voi ubbidite e andremo d'accordo. Così appare al primo impatto.

Di sera, dopo il banchetto che gli è stato offerto, sembra sgelarsi. Pronuncia parole che toccano i cuori dei patrioti e che vengono fraintese suscitando entusiasmi del tutto ingiustificati. Spiega che intende creare una Repubblica con 5 milioni di abitanti di cui Milano sarà la capitale. «Sceglierò tra voi», prosegue, «cinquanta uomini che governeranno questo paese in nome della Francia. Adottate le nostre leggi conformandole ai vostri costumi. Se gli Asburgo dovessero un giorno tornare a impadronirsi della Lombardia, giuro che sarò con voi, che non vi abbandonerò. Se questo paese un giorno cadrà in rovina, io non esisterò più. Del resto, anche Atene e Sparta ebbero la loro fine».

Gli applausi crepitano. Il piccolo generale così diverso da tutti gli altri parla in italiano. Con espressioni, citazioni di quel mondo classico tanto caro agli italiani. C'è chi non vuol vedere in lui il conquistatore ma il rappresentante del popolo che ha abbattuto la tirannia, l'oscurantismo. Paladino delle libertà, promotore dell'indipendenza di tutti i popoli oppressi.

Si installa nel magnifico palazzo Serbelloni, uno dei più sontuosi della città. I milanesi vogliono incontrarlo, riverirlo. Tutti lo cercano tranne l'unica persona al mondo con la quale vorrebbe spartire ogni comodità, dai saloni lustri di specchi e di marmi al grande letto col baldacchino dorato: Giuseppina, naturalmente.

«Vieni subito», le scrive. «Tu devi essere con me, sul mio cuore, tra le mie braccia. Presto, prendi le ali e vieni, vola». E siccome lei non viene e nemmeno risponde, scrive ancora: «Hai forse un amante? Se è vero, temi la furia di Otello». Dei suoi affanni di cuore si lamenta perfino con Carbot nella corrispondenza ufficiale: «Sono disperato, mia moglie non viene. Ha qualche amante che la trattiene a Parigi. Maledico tutte le donne». Scrive anche a suo fratello Giuseppe pregandolo di adoperarsi per convincere Giuseppina a recarsi a Milano «... se sta bene e può viaggiare, bisogna che

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venga: debbo stringerla al mio cuore, l'amo pazzamente e non posso vivere senza di lei. Se essa non mi ama più, non ho più nulla da cercare a questo mondo. Amico mio, non trattenere il corriere più di sei ore a Parigi, rimandamelo con una risposta che mi dia nuova vita».

Una settimana dopo il suo ingresso trionfale, rimette in moto le truppe. A caccia di Beaulieu con trentamila uomini imbaldanziti dai successi e dalle paghe arretrate riscosse fino all'ultimo centesimo come non accadeva da anni. Ma Beaulieu non accetta battaglia. Si ritira dietro la formidabile linea difensiva rappresentata dalla fortezza di Mantova e dalle acque del Mincio, fino a Peschiera dove il lago di Garda rappresenta un imponente baluardo naturale. Commette di nuovo l'errore di disperdere le proprie forze pur di tenere sotto sorveglianza l'intero scacchiere in modo da parare i colpi a sorpresa dell'imprevedibile rivale.

Napoleone, chino sulle carte insieme con Berthier, individua il punto debole dello schieramento nemico nel villaggio di Borghetto, lungo la strada che dal Garda conduce a Mantova. Progetta di fingere un attacco in forze su Peschiera con l'obiettivo di tagliare le vie di comunicazioni col Tirolo e di sfondare invece in massa lo schieramento austriaco al centro, appunto a Borghetto.

Sta per ordinare la ripresa dell'offensiva quando viene informato che alle sue spalle è scoppiata una vasta ribellione. I lombardi hanno capito che i francesi, anziché libertà e indipendenza, portano violenza e Napoleone impone tributi in denaro per pagarsi la guerra, spoglia musei e chiese per tacitare il Direttorio con interi convogli di opere d'arte, non trascura il suo personale tornaconto; sul suo esempio, rubano i generali decisi ad arricchire sulla pelle delle popolazioni invase; rubano gli ufficiali inferiori e i soldati, ognuno bramando un proprio bottino. Sono bottino, in mancanza di meglio, le galline e le uova. Sono bottino le donne. Saccheggi, incendi, uccisioni figurano all'ordine del giorno. Da qui la ribellione, domata con fatica a Milano dalle truppe rimaste (5.000 uomini) mentre Pavia ha addirittura costretto la guarnigione francese alla resa.

Napoleone, furente, controllata Milano piomba su Pavia con 1500 cavalleggeri ai quali lascia per diverse ore la completa libertà di saccheggiare e uccidere. Una lezione che, purtroppo, non servirà a scoraggiare altre sollevazioni a loro volta destinate a provocare repressioni sempre più violente. Il 28 maggio il comandante è di nuovo tra i suoi alla guida delle operazioni, dirette in sua assenza da Berthier. Due giorni dopo

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prende il ponte di Borghetto, il 1 giugno sfugge d'un soffio, nella vicina Valeggio, alla cattura da parte di un reparto di esploratori della divisione Sebottendorf ; nei giorni successivi conquista sia Peschiera con Augerau sia Verona con Massena e invia Sérurier ad assediare Mantova.

Beaulieu pur non avendo mai subito una sconfitta decisiva, sanguinosa, s'accorge di essere incapace di fronteggiare un rivale così fulmineo, che opera al di fuori degli schemi tattici convenzionali. Torna a Vienna rassegnando le dimissioni nelle mani dell'imperatore. Napoleone ne approfitta per dare una poderosa zampata alle forze papaline, come è da tempo nei desideri del Direttorio. Il 23 giugno conquista il forte Urbano a Castelfranco Emilia costringendo Pio VI a chiedere l'armistizio. Fa occupare anche Firenze, Ferrara e la base navale di Livorno utilizzata dalla marina inglese. Prima di inviare a Sérurier, per l'assedio di Mantova, i cannoni conquistati a forte Urbano li mostra alla guarnigione austriaca sempre rinserrata nel castello Sforzesco di Milano, inducendola alla resa.

È il 29 giugno. In questo stesso giorno Giuseppina, finalmente, giunge da Parigi col cagnolino in braccio e la carrozza carica di bauli, vestiti e cappellini in quantità. Napoleone è al colmo della felicità. Palazzo Serbelloni si anima di ospiti illustri, desiderosi di entrare in amicizia con la «generalessa», di cui conoscono la fama di donna elegante, molto emancipata. I saloni si animano di risa, di feste, di musiche. E Giuseppina non tarda a gettare lo scompiglio sia tra i pennacchi e le uniformi del seguito sia tra la nobiltà lombarda, un po' incantata e un po' sconcertata dal suo comportamento disinibito.

Si sussurra che la generalessa apra la porta al proprio spasimante non appena il consorte esce in missione. Il fortunato di turno è Hippolyte Charles, ufficialetto dei cacciatori, gran damerino.

Napoleone non s'accorge delle furtive manovre che avvengono alle sue spalle o finge di non accorgersene, per dedicarsi contemporaneamente - evento raro - alle sue due grandi passioni, la moglie e l'armata. Il 29 giugno, proprio il giorno della resa del castello Sforzesco e dell'arrivo di Giuseppina, la colonna centrale di un nuovo, poderoso esercito austriaco disceso dal Tirolo lungo la valle dell'Adige obbliga Massena ad abbandonare Verona. Il comandante in capo, generale Dagobert von Wurmser, richiamato dal fronte renano, ha ricevuto dall'imperatore l'ordine di liberare i dodicimila uomini assediati a Mantova e quindi di spazzare i francesi dall'Italia settentrionale. La prima parte del piano riesce, la

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seconda no.Wurmser, che ora può contare su 60.000 uomini, ai primi di agosto

viene affrontato a Castiglione da Bonaparte che ha la metà delle sue forze. Questi in otto giorni d'incessanti spostamenti riesce a dividere il nemico mettendo fuori combattimento quasi 20.000 soldati tra morti e feriti, conquistando 60 cannoni e 20 bandiere. Wurmser cerca allora di porre in salvo il resto risalendo la valle dell'Adige ma in settembre viene sconfitto più volte, a Rovereto, a Bassano, e costretto a rinchiudersi in Mantova con 23.000 superstiti.

Se a causa di Castiglione numerosi ufficiali francesi erano caduti malati per la fatica e il generale Sérurier, febbricitante, era stato spedito in Francia a curarsi, in questa seconda fase i soldati di Massena hanno compiuto in dieci giorni 160 chilometri a piedi e quelli di Augerau 180. Marciare di notte con lo zaino carico e combattere, senza riposare, l'indomani. E dopo uno scontro vittorioso, anziché godere il meritato riposo di nuovo marciare per sorprendere il nemico comparendo inaspettati in altri luoghi e di nuovo combattere. Questo vuole, e ottiene, il «Piccolo caporale».

Contro questa armata scatenata, indomabile, Vienna manda ora un terzo esercito al comando del feldmaresciallo Giuseppe Alvinczy, che si era distinto nell'ultima guerra turca e che aveva partecipato con alterne fortune alle guerre austro-francesi del 1792-93. Scende le Alpi con 80.000 uomini per liberare Wurmser a Mantova e annientare insieme con lui il nemico molto inferiore per numero e mezzi.

Infatti, i primi episodi sono sfavorevoli ai francesi. Napoleone, dopo che Massena è stato respinto da Bassano a Verona, guida un contrattacco a Caldiero senza esito. Le sue truppe, che combattono ininterrottamente da sette mesi senza avvicendamenti, sono esauste. Scrive al Direttorio: «Tutti i nostri generali migliori sono fuori combattimento: Joubert, Lannes, Lanusse, Victor, Murat, Charlot, Dupuis, Rampon, Pigeon, Ménard, Chabron sono feriti. L'armata è spossata. Coloro che non sono feriti vedono la morte come la migliore delle loro opportunità se la situazione rimane immutata e con delle forze tanto inferiori. Sta forse per scoccare l'ora del bravo Augerau, dell'intrepido Massena, di Berthier, di tutti noi?»

Sembra sfiduciato, medita una manovra che gli consenta di ristabilire la situazione con le poche forze disponibili. Il 14 novembre, in piena notte, fa evacuare Verona senza combattere, misteriosamente. Pochi chilometri in

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silenzio e, dietrofront: l'armata torna sulle posizioni di Alvinczy aggirandole a sinistra davanti a Ronco, a una quindicina di chilometri dalla città. Minaccia lo schieramento nemico fino a Arcole. Si tratta di attraversare un vasto tratto di terreno paludoso tra il quale la superiorità numerica ha scarsa importanza. Molto dipende dall'energia delle teste di colonne avanzanti.

«La strada tra Ronco e Arcole», annoterà Napoleone, «incontra a metà cammino l'Alpone, e da là segue la riva destra di questo piccolo ruscello fino al punto che gira perpendicolarmente a destra ed entra nel villaggio. I Croati stavano bivaccando tra il villaggio e la riva destra dell'Alpone. Da questo bivacco, essi avevano davanti a loro la strada da Ronco a Arcole dalla quale non erano separati che dal fiume».

Il mattino del 27 brumaio dell'anno V (17 novembre 1796) Napoleone comanda l'attacco a sorpresa lungo tre direttrici, una delle quali passa per il piccolo ponte di Arcole. Ma questa posizione è ottimamente presidiata, i soldati croati concentrano il fuoco sopra il ponte falciando chi tenta di attraversarlo. Le truppe francesi arrestano il loro impeto, si sbandano. Gli ufficiali più elevati in grado vanno in testa cercando di trascinare col loro esempio la truppa, secondo la loro abitudine. Restano feriti i generali Bon, Verne, Verdier, di nuovo Lannes e perfino Augerau. Invano. Non si passa. In fondo, non è una posizione determinante, si può tentare un aggiramento o qualche altra soluzione.

Ma Napoleone capisce, col suo intuito, che il piccolo episodio può diventare determinante. Non si può arretrare. Balza a terra da cavallo, afferra una bandiera e cammina impavido sul ponte gridando ai soldati: «Non siete dunque i vincitori di Lodi?». I più vicini ribattono: «Attento, generale, qui si muore e la vostra vita ci è indispensabile». Infatti una cannonata centra il ponte che crolla, trascinando Napoleone sanguinante. Potrebbe essere la fine. È questione di attimi. Gli aiutanti Marmont e Muiron gli fanno scudo con il proprio corpo: quest'ultimo rimane colpito a morte. I combattimenti si protraggono furiosi nella zona per tre giorni, alla fine Alvinczy decide di ritirarsi in attesa di un'occasione più favorevole ai suoi mezzi: una battaglia in campo aperto.

La leggenda di Napoleone, iniziata sul ponte di Lodi, si alimenta sul ponte di Arcole. Il «Piccolo caporale» diventa l'idolo dei suoi uomini e un simbolo di epico coraggio per tutta la Francia. Mentre il poeta Joseph Chénier dedica un'ode a Muiron caduto per salvare il comandante,

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Stendhal scriverà: «La strana fermezza di carattere di cui Napoleone ha dato prova rifiutando di ritirarsi davanti a Arcole è forse il più bel tratto di genio che presenta la storia moderna. Queste sono cose che l'adulazione stessa non può guastare perché non c'è niente al mondo di più grande».

Un uomo che afferra una bandiera e avanza impassibile sotto il grandinare delle pallottole, delle cannonate. La scena piace anche ai pittori. Napoleone approfitta dell'ondata di popolarità per strappare dei sacrosanti rinforzi al Direttorio; in dicembre può così contare su 34.000 uomini ai suoi ordini diretti oltre a 10.000 dislocati lungo le vie di comunicazione e altrettanti rimasti con Sérurier all'assedio di Mantova. Manovra in modo da decidere lui il teatro di quella battaglia campale che Alvinczy va cercando, convinto di affermarsi con la sua tuttora preponderante superiorità numerica.

Napoleone sceglie la zona di Rivoli, adatta alla difesa perché protetta da numerosi ostacoli naturali: l'Adige, il monte Baldo, il Magnone e altre montagne. Inoltre una sola strada conduce direttamente al paese, un passaggio obbligato che si snoda lungo una gola e un villaggio, Osteria. Non può costringere, è ovvio, il nemico a combattere dove egli vuole. Disloca le sue truppe con Augerau a Legnano, Joubert a Corona e Massena con 17.000 uomini a Verona compresa la zona di Rivoli. E proprio qui va a dar di cozzo, scendendo in forze da Bassano, il feldmaresciallo austriaco, che avanza con 45.000 uomini dislocati su cinque colonne.

Napoleone, avvertito da Messena, accorre dando appuntamento sul campo di battaglia anche a Joubert (altri 10.000 soldati) e a Rey. Giunge a Rivoli alle 2 di notte del 14 gennaio ispezionando di persona, a cavallo, le posizioni: «La scena era illuminata da un magnifico chiaro di luna; superammo le varie alture e osservammo le linee dei fuochi del campo nemico, che riempivano la zona tra l'Adige e il lago di Garda. Ci fu possibile distinguere agevolmente cinque accampamenti, ognuno dei quali corrispondeva a una colonna».

Dopo l'ispezione, un paio d'ore di riposo. All'alba, l'azione, nel gelo. La piana silenziosa di Rivoli risuona di spari e di grida: «All'attacco». L'impeto austriaco sembra dapprima travolgere i francesi, conquista delle posizioni importanti compresa la cima del monte Magnone e aggira lo schieramento nemico a sud di Rivoli. Napoleone accorre a incitare dove più grave è il pericolo, manovra per dividere ulteriormente le forze austriache già frazionate in colonne secondo un piano sin troppo

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complesso.Ma mentre il nemico ha un solo piano, e a quello deve attenersi,

Napoleone sa cambiare, sul posto, immediatamente, spostando e ancora mutando manovre e contromanovre, marce incessanti. La battaglia dura due giorni, però fin dal pomeriggio del primo giorno è evidente che la vittoria non cambia padrone. Alla fine Alvinczy si ritira verso il Tirolo lasciando 12.000 morti, 24.000 prigionieri, 60 cannoni e un mucchio di bandiere. Wurmser si arrende a Mantova.

Napoleone, messo Joubert a guardia del Trentino e del Tirolo, accorre in Romagna a sferrare un'altra zampata contro le truppe di Pio VI costringendolo ad accettare, dopo la Convenzione di Bologna dell'anno precedente, il Trattato di Tolentino, sottoscritto il 19 febbraio. Il papa deve pagare nel complesso trenta milioni di franchi, che consentono al Direttorio di proseguire la guerra contro l'Austria, e a cedere alla Francia 100 opere d'arte e 500 preziosissimi codici della biblioteca vaticana (è la prima volta che viene intaccato il cosiddetto Patrimonio di Pietro).

A questo punto, il Direttorio comprende che il fronte principale per costringere l'Austria alla trattativa non è più sul Reno bensì in Italia, e dispone gli opportuni trasferimenti di truppe da uno scacchiere all'altro. Infatti Vienna, decisa a ogni costo a capovolgere la situazione oltr'Alpe, mette insieme un quarto esercito, di 50.000 uomini, affidandolo all'arciduca Carlo d'Asburgo. Figlio di Leopoldo II, fratello minore dell'imperatore Francesco II, Carlo ha il bastone e la gloria di feldmaresciallo avendo tenuto testa con successo, in Germania, a Jourdan e a Moreau. Diventerà un avversario tradizionale di Napoleone, del quale ha due anni di meno. È, lui, adesso, il più giovane comandante d'eserciti in Europa.

Il «Piccolo caporale», che finora ha avuto ragione di avversari appartenenti al secolo delle parrucche e delle ciprie, adesso ha di fronte un condottiero moderno, dalla mentalità proiettata nell'Ottocento. Non indugia a Bologna, benché Giuseppina sia giunta apposta a trovarlo da Milano, con la sua piccola corte al seguito; non aspetta nemmeno l'arrivo dei massicci rinforzi nel timore che l'arciduca sferri prima l'offensiva.

È il quarto atto della campagna d'Italia, l'ultimo. Napoleone, senza sottovalutare il nuovo generalissimo, come non farà mai con gli avversari che non conosce ancora, s'accorge subito del suo punto debole. Dissanguata dalle prove precedenti, l'Austria non ha potuto dare

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all'Arciduca un esercito altrettanto poderoso dei precedenti e per di più suddiviso in tre armate una soltanto delle quali ai suoi ordini diretti.

Commenta il «Piccolo Caporale» con cesariana sintesi: «Finora abbiamo combattuto degli eserciti senza generali, adesso combatteremo un generale senza esercito». Si comporta di conseguenza. Attacca lui, alla grande, attraverso il Friuli con obiettivo Vienna. Il 20 marzo lascia Bassano con 25.000 uomini, si immette lungo la grande via parallela al mare che da Venezia conduce prima a Gorizia quindi a Klagenfurt e alla capitale austriaca. Massena attraversa il Piave con 10.000 soldati e marcia verso il colle di Tarvisio. Si mettono in movimento con altre truppe anche Sérurier, Guieu, che sostituisce Augerau, e Bernadotte, mandato in rinforzo dal fronte renano. L'arciduca Carlo tenta di sventare l'ardita manovra piazzandosi sul Tagliamento ma viene battuto a Valvasone; quindi cerca di ostacolare in ogni modo, di valle in valle, da un fiume a una città, l'avanzata nemica.

Napoleone, ricongiunte le forze a Klagenfurt, riprende la marcia minacciando il cuore stesso dell'Austria. Il 6 aprile è sulle alture di Semmering, dalle quali intravvede indistintamente Vienna, abbandonata dalla corte imperiale. Ma sa di avere le spalle minacciate dalla sollevazione delle popolazioni del Tirolo e di Venezia mentre Moreau non riesce a effettuare la programmata diversione dall'altro a questo fronte.

Scrive all'arciduca Carlo: «Non abbiamo ucciso abbastanza, causati mali in quantità alla triste umanità? Se l'apertura che io ho l'onore di farvi può salvare la vita a un solo uomo, mi stimerei fiero della corona civica che avrei eventualmente meritato più che della gloria data dai successi militari». Subito un ultimo scacco nelle gole di Unzmark, l'arciduca Carlo invia il suo capo di stato maggiore a discutere la sospensione delle ostilità. Le discussioni si svolgono a Leoben, nel castello di Eckwold, durante sette giorni. I preliminari di pace vengono sottoscritti il 18 aprile, due giorni prima che giunga, da Parigi, Clarke, inviato dal Direttorio con istruzioni e pieni poteri per la pace.

Napoleone, in un anno soltanto, ha fatto tutto da sé. Battuti prima il Piemonte e poi quattro eserciti austriaci dalla riviera ligure alle porte di Vienna. Ha imposto la pace che voleva sia al sacro romano imperatore sia al Direttorio che forse avrebbe voluto altre condizioni. Spiega ai «direttori» di Parigi inviando i suoi Preliminari: «Se non si fosse fatta la pace, gli eserciti nemici mi avrebbero schiacciato. In tali condizioni la

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ritirata sarebbe divenuta difficile, e la perdita dell'esercito d'Italia avrebbe potuto trascinare con sé quella della Repubblica». Non potendo contare sul soccorso dell'esercito francese di Germania «non dovevo più illudermi di entrare a Vienna, non avevo abbastanza cavalleria per discendere nella pianura danubiana».

I termini della pace che verranno sanciti nel successivo Trattato di Campoformio (17 ottobre) sono i seguenti. L'Austria si impegna a rinunciare ai suoi diritti sul Belgio e rinuncia altresì al Milanese; riconosce genericamente alla Francia «i confini decretati dalle leggi della Repubblica francese» (con il che si intende, da parte francese, i paesi tedeschi già occupati sulla sinistra del Reno). L'Austria riceve in cambio il territorio a oriente del fiume Oglio, già appartenente alla Repubblica veneta, compresa Venezia, più l'Istria e la Dalmazia veneta.

I patrioti italiani lamentano che la gloriosa Serenissima sia stata «venduta» all'Austria. La Francia può replicare che è stata però creata (giugno-luglio) la Repubblica Cisalpina, riunendo insieme il Milanese, un tratto dell'antico territorio veneto, le Legazioni pontificie, l'ex-ducato di Reggio e di Modena. In sostanza, Napoleone fa e disfa a suo piacimento. Commenta Stendhal: «Egli era padrone di Venezia perché l'aveva conquistata, e non era suo dovere fare la felicità di Venezia. La patria innanzi tutto».

CAPITOLO VSULLE ORME DI ALESSANDRO MAGNO

Il Signore della guerra non ha fretta di tornare a Parigi. Trascorre gran parte della primavera e dell'estate 1797 a villa Pusterla, specie di castello fuori Milano, a Mombello. Politica estera: riceve ambasciatori e diplomatici come un capo di Stato, fa occupare le isole di Corfù e Zante, manda a dire al papa «non sono un nuovo Attila», rassicura i vescovi «la dottrina del Vangelo si basa sull'uguaglianza come la nostra Repubblica». Politica interna: fa abolire la tortura come metodo di indagine criminale per giungere all'accertamento della verità, assicura i lombardi che le tasse da lui imposte per pagare la guerra sono poca cosa rispetto ai benefici che essi ne traggono.

Ha una corte composta innanzitutto dai suoi alti ufficiali. Berthier, che si è innamorato di una Visconti; Massena, che ruba di continuo donne e

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danaro; Augerau, che racconta storielle sconce in caserma quanto nei salotti; Murat, che cambia un'uniforme al giorno. Ha voluto qui tutta la famiglia. Giuseppina cerca invano di andare d'accordo con la suocera Letizia, che l'accusa di non sapere dare un erede a cotanto marito. Il fratello maggiore Giuseppe, ambasciatore prima a Parma e poi a Roma, deputato, ha con sé la moglie che ricorda a Napoleone la fidanzata d'un tempo, Désirée. Rimasto a Parigi Luciano che a poco più di vent'anni è già un politico brillante, ecco la sorella «anziana» Elisa col marito, il capitano corso Felice Biaciocchi, ingiustamente considerato una mediocre personalità, ci sono Luigi, aiutante fedelissimo, e Paolina, diciassettenne, spiritosa e bellissima, che fa arrabbiare la cognata Giuseppina giocando in cortile a rimpiattino con Hippolyte: sta per sposare, obtorto collo, il generale Leclerc, che seguirà a Santo Domingo. Ci sono Carolina, quindicenne, che sposerà Murat e sarà regina, e Gerolamo, l'ultimo della nidiata, tredicenne, anche lui destinato al trono.

Ci sono in continuo avvicendamento nobili, possidenti, scienziati, poeti, artisti, letterati, ognuno dei quali viene ad abbeverarsi alla fonte del potere aperto e disponibile, che vuole illuminare ma anche essere illuminato. Dedica per esempio un paio d'ore allo scrittore Antoine Vincent Arnault, una lunga intervista in risposta a una serie di domande sulle imprese belliche che dovrebbe servire alla causa delle pubbliche relazioni.

E la Francia? Da qualche settimana a questa parte si è riempita di immagini che resteranno a lungo sopra le mura delle capanne e dei palazzi, delle locande e degli alberghi. Gloria imperitura al conquistatore dell'Italia, al generale che sa unire nella sua persona l'abilità guerriera con la volontà di pace. Il ritratto di Bonaparte campeggia in tutti quei luoghi dove fino a una decina d'anni fa c'era il ritratto di Luigi XVI, il re ghigliottinato. Gli umoristi si sbizzarriscono a creare caricature nelle quali l'Austria è raffigurata come una bella donna che sottoscrive la pace gemendo: «Non ho più soldati». Un nuovo sussulto insurrezionale conquista la maggioranza del Consiglio e due dei cinque membri del Direttorio, Barthélemy e Carnot, e sembra travolgere il regime con intenti vagamente nostalgici, filomonarchici. Napoleone, da lontano, vede e provvede. Manda Augerau al comando di qualche migliaio di baionette consentendo a Barras di attuare il cosiddetto colpo di Stato del fruttidoro anno V (agosto-settembre 1797).

Torna in patria il 5 dicembre. Arriva d'improvviso, Giuseppina fa appena

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in tempo ad avvertire Barras che quella sera non potrà tenergli compagnia a cena. Tutta Parigi vorrebbe invitarlo ma lui si nega ai salotti. Il giorno 10 riceve onori trionfali nel palazzo e nei giardini del Lussemburgo, dimora di sovrani. Con un'uniforme sobria, silenzioso e attento, ascolta il discorso ufficiale pronunciato da Talleyrand, vecchia volpe della Chiesa (vescovo scomunicato dal papa) e della diplomazia, che sta esordendo come ministro degli Esteri.

Talleyrand traccia il ritratto di questo salvatore della patria dalla romana grandezza concludendo con una frase sibillina: «Ora tutta la Francia è davvero libera ma egli forse non lo sarà mai: questo è il suo destino». La risposta del festeggiato è sconcertante. Termina con un concetto che nessuno, lì per lì, comprende: «Quando la sorte del popolo francese sarà basata su leggi organiche, anche l'Europa sarà libera». Gli applausi sono ugualmente fragorosi, dai saloni dilagano nel parco e nelle vie adiacenti dove la folla delle grandi occasioni è impaziente di ammirare il vincitore di due sovrani, del re di Piemonte e dell'imperatore d'Austria.

Napoleone accetta gli omaggi che considera dovuti ma, stranamente, non fa nulla per aumentare la propria popolarità, per radicare maggiormente nel cuore del popolo la propria immagine. Si entusiasma soltanto per Giuseppina, della quale è sempre innamoratissimo, e che a tanta passione preferirebbe un po' di mondanità: vorrebbe portarselo appresso nei salotti e nelle case delle amiche, mostrarlo, godere di questo consenso generale. Macché, lui si nega anche a Madame de Staél, brillante figlia del banchiere ed ex-ministro Jacques Necker, scrittrice, regina della Parigi intellettuale, che si vendicherà organizzando la fronda, descrivendolo a colpi di sciabola più che di penna: «È un grande giocatore di scacchi, per il quale l'avversario è l'umanità cui egli si propone di dare lo scacco matto». «Non ama e non odia, per lui non esiste nessuno al di fuori di se stesso; tutti gli altri sono numeri». Per finire con la stoccata: «In sua presenza non ho mai potuto respirare liberamente».

Che cosa va meditando il Signore della guerra? Parigi, in questo momento, gli va stretta. Anzi, gli va stretta l'Europa intera. Confida ai suoi fidati ufficiali nel gennaio 1798: «Io non voglio restare qui, non c'è niente da fare. Io sono già rimasto senza pelle perché tutto si logora. Non c'è più gloria, la piccola Europa ne ha data abbastanza. L'Europa è una topaia».

Vive nella casa che Giuseppina aveva preso in affitto e che lui ha comperato facendogliene dono. Riceve volentieri scienziati e letterati che

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sono suoi «colleghi» in quanto è stato chiamato a far parte dell'Istituto di Francia, onore, tra i tanti a lui tributati, che apprezza sinceramente. Quanto al suo vero mestiere, che è quello delle armi, ha ricevuto dal Direttorio il comando dell'armata d'Inghilterra, l'unico paese rimasto nemico dichiarato della Repubblica dopo il fallimento della prima coalizione.1 [1 Formata inizialmente da Austria e Prussia che si sentono minacciate sia dalle idee sia dai piani di guerra della Rivoluzione. Aderiscono via via la Gran Bretagna, che vede compromessa la sua sicurezza e i suoi interessi commerciali, la Spagna, il Portogallo, il regno Sardo-Piemontese, lo Stato pontificio, il regno di Napoli, il granducato di Toscana e diversi principati tedeschi.] Si tratta di 120.000 uomini radunati in varie località della costa settentrionale. Ma si accorge, dopo reiterate ispezioni, che c'è scarsità di navi, che ogni progetto d'invasione non può essere seriamente preso in considerazione se non si attua prima il controllo della Manica almeno per i giorni necessari allo sbarco.

Espone un progetto diverso, che gli sta a cuore perché prima di lui ha affascinato i due più grandi condottieri di ogni tempo, Alessandro Magno e Giulio Cesare. Una grandiosa spedizione in Oriente con meta prima l'Egitto. L'Egitto apparso a questi grandi dell'antichità classica come il ponte ideale per congiungere l'Europa sia all'Africa sia all'Asia. E da là minacciare le rotte commerciali con l'Arabia e l'India arrecando alla Gran Bretagna, nemico mortale, un colpo ancora più grave di un'invasione dall'esito incerto. Progetto fin troppo grandioso, forse, ma che lascia largo spazio all'immaginazione e che prevede tanti altri vantaggi a cominciare dalla conquista, strada facendo, di Malta.

Il Direttorio, incerto, è convinto da un giudizio-sentenza del suo ministro degli Esteri. «Stabilendo la Francia in Africa», dice Talleyrand, «ci assicureremo la pace in Europa». Parole che vogliono dire tutto e nulla, comunque il Direttorio è felice di avere un motivo legittimo per sbarazzarsi del generale la cui invadenza non ha limiti, anche se finge di starsene nel buon ritiro della casa della moglie.

Napoleone s'imbarca col grosso a Tolone, in una mattina radiosa di primavera. Maggio 1798. Sul molo c'è l'eccitazione che accompagna le grandi spedizioni. Giuseppina agita le mani, sorride, manda baci con trasporto; accanto al marito c'è suo figlio Eugenio, che inizia la carriera con questa spettacolare avventura. Il Signore della guerra ha riunito una flotta che si va formando, oltre che a Tolone, a Marsiglia, a Genova, a

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Ajaccio, a Civitavecchia; più di trecento velieri scortati da 26 tra fregate e di navi di linea e sui quali sono 37.000 tra ufficiali e soldati, 300 lavandaie e lavoranti dell'esercito ma nessuna sposa o amante (s'imbarca di nascosto Bellitote Fourés, moglie di un tenentino) e 200 sapienti. Sono letterati, poeti, un musicista e molti scienziati dell'Istituto di Francia che daranno un contributo fondamentale all'egittologia. C'è tra l'altro la prospettiva di studiare il taglio dell'istmo di Suez. A bordo dei lenti convogli sono stivati infine 1.200 cavalli, un centinaio di cannoni e viveri per tre mesi.

Il Signore della guerra ha ottenuto tutto quello che voleva ma ora non è tranquillo. Scruta di continuo l'orizzonte nel timore di veder comparire la flotta da guerra di Nelson. L'ammiraglio Horatio Nelson, quarantenne, il più grande marinaio inglese di tutti i tempi, valorosissimo, un occhio e un braccio perduti in battaglia, sta perlustrando il Mediterraneo cercando appunto di intercettare le navi francesi. Napoleone rischia grosso, potrebbe perdere tutto compresa la vita perché la superiorità delle navi britanniche, in velocità e armamento, è indiscussa.

Le ore trascorrono lente, in ozio forzato. Napoleone conversa con i grandi dell'Istituto alla pari, senza il tono secco di comando, di superiorità, che gli è abituale. Serate piacevoli in coperta, a godere il fresco della brezza. Malta viene avvistata il 9 giugno. Il comandante in capo, che ha bisogno di un pretesto per giustificare in qualche modo l'attacco, chiede un rifornimento massiccio d'acqua. Von Hompesch, gran maestro dell'Ordine di S. Giovanni, sovrano nell'isola, risponde che consentirà l'accesso al Porto Grande a più di quattro navi. Conclusione: «Il generale Bonaparte prenderà con la forza quello che avrebbe dovuto essergli accordato spontaneamente». Tuonano i cannoni dell'isola-fortezza, baluardo del Mediterraneo centrale. Potrebbe divampare una battaglia non facile, attirando magari l'attenzione di Nelson. Ma i cavalieri dell'Ordine non hanno più lo spirito combattivo dei secoli scorsi, quando contendevano il possesso del Santo Sepolcro all'Islam o il dominio del mare ai turchi. Alcuni di loro sono stati in precedenza corrotti col profumo del denaro.

Napoleone guida lo sbarco e l'assalto principale, impadronendosi dell'acquedotto, e di tutta l'isola. Con la perdita di tre soli uomini, procura così alla Francia una base navale di primaria importanza, suscitando ripercussioni e allarmi in tutte le Corti d'Europa. «Con me o contro di me», intima in pratica ai cavalieri. Chi non accetta di seguirlo spontaneamente alla spedizione d'Egitto viene deportato. Fa saccheggiare i tesori e le chiese

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dell'Ordine, riforma l'economia e la pubblica istruzione, lascia un presidio di 4.000 soldati al comando del generale Vaubois.

La navigazione riprende cinque giorni più tardi con rotta su Creta. Nelson, nel frattempo avvertito dell'impresa di Malta, credendo che i francesi siano ora diretti ad Alessandria muove velocemente verso questo porto. Nella notte tra il 22 e il 23 giugno i marinai francesi, che navigano a luci spente, in silenzio, odono distintamente un rumore di campane di navi straniere. Le due flotte s'incrociano al buio nella nottata illune, Nelson non s'accorge nemmeno d'avere l'odiato nemico a portata dei suoi cannoni.

Infine, da Creta ad Alessandria. Qui Napoleone arriva per primo con la sua ammiraglia il 29 giugno appena due ore dopo che l'ultima nave di Nelson ha lasciato questo porto. Una fortuna incredibile, che non si ripeterà. Il 2 luglio il condottiero sbarca sulla spiaggia della città costruita da Alessandro il Grande e nella quale ha combattuto anche Cesare. La capitale di quel regno che secondo il sogno ripreso da Cleopatra e da Antonio doveva fondere il mondo occidentale con l'Oriente. Le operazioni di sbarco vengono completate senza incontrare alcuna resistenza. Soltanto pochi beduini vengono durante la notte tra gli avamposi francesi catturando qualche soldato per tagliargli la testa. L'Egitto appartiene all'impero turco che lascia governare da lontano i capi o bey locali, barbari in genere crudelissimi quanto inetti. Dopo un breve cannoneggiamento e l'apertura di una breccia, Alessandria viene presa d'assalto dalle divisioni Menou e Kléber: quest'ultimo generale, ferito durante l'azione, viene lasciato con 9.000 uomini a presidiare la città.

Napoleone, abituato alle calure quanto al gelo dell'isola natale, non attribuisce alcuna importanza al clima. E così trascina il grosso delle sue truppe nella marcia spossante attraverso il deserto di Damanhur sotto il sole terribile dell'estate africana, sino al Cairo. L'acqua è rara, mancano i legumi. Il sole uccide più uomini di un nemico insaziabile. Perfino i veterani della campagna d'Italia, abituati alla vita più dura, perdono il morale nel volgere di pochi giorni. Manca la forza anche di ribellarsi: si moltiplicano i casi di suicidio. Murat e Lannes, temerari quando si tratta di cavalcare contro il nemico, perdono il controllo dei propri nervi e s'abbandonano a delle crisi isteriche in presenza dei loro soldati. Soltanto il generale Desaix, che ha un morale di ferro, aiuta il comandante in capo a rianimare le truppe con la promessa che i «paradisi orientali» sono ormai a portata di mano. L'importante è marciare in fretta.

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Quando il terribile Murad bey viene avvertito che «una grande armata di infedeli» sta sopraggiungendo non s'allarma troppo perché si tratta in gran parte di poveri fantaccini distrutti dal caldo. «Le loro teste sono cocomeri da tagliare», commentano ridendo i mamelucchi, corpo scelto di cavalieri d'antica tradizione, agguerriti e temibili al punto da suscitare periodiche apprensioni nei governanti turchi. Sono da secoli guerrieri di mestiere; hanno due-tre pistole tutte arabeschi infilate nella cintura, la scimitarra scintillante e tempestata di pietre preziose, varie lance; usano selle lavorate come un mobile pregiato. Sono ottomila e rappresentano l'élite del piccolo esercito (24.000 uomini in tutto) che attende l'invasore a el-Giza, vicino alle grandi piramidi.

I francesi giungono in prossimità alle 9 del mattino del 21 luglio, dopo aver marciato per quasi tutta la notte. Napoleone concede un'ora per tirare il fiato e mangiare qualche frutto. Alle 10 passa in rivista le truppe. «Dall'alto di queste piramidi», dice additando i tre immensi colossi di pietra alla cui ombra attende il nemico, «quaranta secoli vi guardano. Soldati! Voi combattete davanti alla storia per portare la civiltà nel barbaro Oriente». Dispone le truppe in quadrato in modo che siano pronte a combattere da ogni lato in caso di tentato aggiramento da parte della cavalleria nemica. Ha il Nilo alla sinistra, colloca Desaix sul fianco destro. Le truppe sono appoggiate dall'artiglieria al seguito e dai cannoni di una flottiglia che ha disceso il Nilo.

L'attacco principale del nemico viene sferrato alle 15,30 quando i mamelucchi piombano sul fianco destro dello schieramento francese urlando selvaggiamente. Sono davvero guerrieri magnifici ma conoscono un solo modo di combattere: caricare e vincere, o fuggire. E stavolta non hanno di fronte un nemico medievale bensì dei soldati esperti e determinati, capaci di sviluppare un uragano di fuoco, consapevoli che la vittoria è l'unica via che hanno sia per salvare le proprie vite sia per conquistare l'agognato bottino. «Viva la Repubblica». Il grido che echeggiava ieri in Italia dai colli lombardi alle vallate venete risuona ora dalle piramidi al Nilo. Ma non c'è storia nella battaglia delle piramidi se non a senso unico.

Dopo aver cozzato invano contro i lati dei quadrati in marcia che eruttano fuoco con incessante regolarità, i mamelucchi decimati cercano scampo verso il Nilo nel tentativo di portarsi sulla riva opposta dove è relegata, semplice comparsa, la fanteria di Ibrahim. Ma vengono aggirati

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da un reparto prontamente inviato e quasi duemila di loro cadono uccisi in questa fase, annegando o centrati dalle fucilate. Murad bey fugge con i cavalieri superstiti e la fanteria verso il Medio Egitto. I mamelucchi usano andare in battaglia con tutto quel che possiedono, danari e oro, con sé o nelle tende: i loro cadaveri e il loro accampamento diventano il primo bottino dei vincitori.

Il Cairo spalanca le porte con i suoi sceicchi e i suoi capi religiosi (imam) a Napoleone, che ha iniziato nel migliore dei modi la campagna d'Egitto perdendo meno di trecento uomini tra morti e feriti. Prosegue in bellezza infliggendo una dura sconfitta a Ibrahim bey, a Salalien, costringendolo a riparare in Siria con i resti delle truppe. Ma d'ora in avanti è atteso da prove sempre più dure. L'Inghilterra padrona dei mari intercetta spesso la corrispondenza da e per la Francia. Ma quel gran chiacchierone di Junot riesce ugualmente a ricevere una lettera con la quale un'amica lo informa dell'ultimo, ghiotto pettegolezzo che sta facendo il giro di Parigi. Giuseppina, la creola tutta pepe, ha ripreso la sua relazione con Hippolyte Charles, benché espulso dall'esercito e allontanato all'epoca della campagna d'Italia. Lo riceve alla Malmaison, una casa con tenuta che ha comperato fuori porta.

Napoleone, mentre passeggia, assorto, sulla spiaggia viene avvicinato da Junot e informato della tresca. Si sente sprofondare dentro la sabbia umida di quel mare di là dal quale c'è la sua «perfida» donna. Si precipita nelle tende investendo il suo segretario, il diplomatico Louis Bourrienne: «Voi non mi siete devoto, non mi informate. Io sono tradito e non lo so. Ah, le donne, che dannazione». Sembra una belva in gabbia. Successi, vittorie, la gloria di Alessandro Magno: tutto inutile, tutto ridicolizzato da questa meschina vicenda. A che cosa serve avere conquistato l'Egitto, dopo l'Italia, essere ammirato o invidiato o odiato da mezzo mondo, ad appena 29 anni di età, se poi viene tradito proprio da chi più gli è caro?

È roso dal tarlo della gelosia tipica dei corsi con l'aggravante di non poter sfogarsi con l'ingannatrice né di persona e nemmeno per lettera poiché potrebbe cadere in preda al nemico e diventare di totale dominio pubblico. Progetta di ritirarsi in campagna, al suo ritorno, da solo, così precocemente nauseato dalla vita. Trascorre una notte insonne tormentandosi. Una notte ricca di stelle e dal profumo intenso, che è caratteristico dell'Africa. Sogna a occhi aperti la moglie tra le braccia del suo frivolo damerino, vede se stesso divenuto zimbello delle malelingue

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parigine.Ma non c'è tempo per assaporare questo dolore fino in fondo, bisogna

fare posto a un altro tormento e a un'altra scena, ben più drammatica e foriera di sventure. L'ammiraglio François Paul Brueys, quarantacinquenne, comandante la flotta che ha trasportato il corpo di spedizione ad Alessandria, si è incredibilmente attardato per un mese con le sue navi nella baia di Abukir. Questa rada, presso Alessandria, ha le acque poco profonde sicché i dodici vascelli di Brueys erano costretti a restare lontano dalla riva, fuori dalla protezione dell'artiglieria costiera.

Ed ecco la scena apocalittica. Nelson piomba ad Abukir il 1° agosto, si colloca con parte della sua squadra tra la riva e la flotta francese prendendola così tra due fuochi. Soltanto tre navi di Brueys riescono a fuggire in mare aperto, le altre sono costrette all'impari combattimento. Alle 11 di sera l'«Orient», la nave ammiraglia sulla quale aveva viaggiato Napoleone, centrata in pieno esplode con un fragore terrificante mentre altissime lingue di fuoco miste a fumo denso e nero si sprigionano nella rada illuminandola a giorno. Muore quasi tutto l'equipaggio compreso l'imprudente ammiraglio. Altre due navi vengono distrutte mentre la guarnigione francese di terra è costretta ad assistere impotente alla strage. Alla fine i rimanenti sei vascelli devono issare la bandiera bianca della resa.

Da quella del comandante in capo fino alle tende estreme dell'accampamento, la notizia si propaga fulminea. Distrutta la flotta, impossibile tornare in Francia. Quale fine attende il Corpo di spedizione? È questo l'interrogativo inchiodato nella mente Napoleone che deve ora fare i conti con la popolazione invasa, che rialza la testa dopo il grave scacco subito dai francesi i quali sono prigionieri dei vinti. Intensifica i rapporti con i capi e le personalità locali, si reca personalmente sulla sommità della piramide di Cheope a rendere grazia ad Allah e si fa chiamare el Kebir, il sultano. Cerca perfino di penetrare il mistero della Sfinge dal volto umano e dal corpo di leone facendola misurare e studiare dagli scienziati che sono al suo seguito.

Il grande chimico Berthollet e l'ingegnere geografo François Jomard riferiscono la loro ammirazione, il loro stupore per la cultura, la vivacità di spirito dimostrati dal generale durante le periodiche assemblee letterarie e scientifiche. «Egli poneva i problemi, sondava il malanno e indicava i rimedi».

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Va particolarmente d'accordo col grande matematico Gaspard Monge conte di Péluse, creatore della geometria descrittiva, membro dell'Accademia delle Scienze, fondatore della Scuola normale. Uno scienziato di valore internazionale che s'intende anche di politica, è stato ministro della Marina e membro del Comitato di salute pubblica. Napoleone lo mette alla presidenza dell'Istituto d'Egitto, che fonda al Cairo. Un giorno si reca insieme con lui lontano, nel deserto dell'istmo di Suez. «Monge», grida d'improvviso, «siamo nel pieno del canale». Vero: si trovano infatti nel mezzo dell'antico letto fatto scavare dal faraone Nechao e di cui comincia a far riconoscere le tracce dai suoi ingegneri. Ordina che sia compiuto uno studio sulla possibilità di stabilire una comunicazione tra il mar Rosso e il Mediterraneo.

Al ritorno di una di queste escursioni ode una risata femminile provenire da una tenda: è Bellitote Fourés, la moglie del tenentino imbarcatasi clandestinamente a Tolone. Giovane e simpatica, piacente. Se la fa presentare e, scordando quanto dolore costi il tradimento al coniuge raggirato, ne diviene l'amante. Vuole avere un figlio da lei, subito. A Eugenio, suo figlioccio e aiutante, che qui rappresenta la famiglia, parla del tradimento di Giuseppina e costringe l'imbarazzato giovanotto a partecipare alle sue passeggiate in carrozza con l'amante.

Si immerge nel lavoro. Fonda un divano o consiglio di notabili della città lasciando intendere che la sua conversione all'Islam sia imminente come la sua decisione di restare in Oriente a capo di un impero. Organizza feste facendosi acclamare dalla popolazione. Legifera tramite editti adottando una serie di misure sociali, finanziarie e giuridiche che possano trarre il paese dall'anarchia nella quale lo mantenevano i bey.La carota e il bastone: usa la stessa crudeltà dei bey e dei sultani per dimostrare che non gli manca nemmeno questo tipo di fermezza. Scriverà al riguardo: «I turchi non si possono guidare che con la più grande severità. Tutti i giorni io facevo tagliare cinque o sei teste nelle vie del Cairo. Bisogna adottare il tono che conviene perché i popoli obbediscano. E per essi obbedire significa temere». Non riesce a farsi amare. Il 21 ottobre, avendo appreso che il sultano sta preparando a Istanbul due armate per riconquistare l'Egitto, i capi religiosi scatenano «la guerra santa contro gli infedeli». La lotta insanguina le strade, i reparti francesi sorpresi isolatamente vengono fatti a pezzi.

Napoleone ristabilisce l'ordine uccidendo duemila «ribelli» e facendo

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scegliere a caso, per fucilarli senza processo, duecento sacerdoti islamici. Agli inizi del 1799, attraverso l'istmo di Suez e con tutte le truppe disponibili, si dirige verso la Palestina. Sconfigge di nuovo i mamelucchi a Beirut, a El Arish, a Gaza. Trascura Gerusalemme, che non lo interessa dal punto di vista strategico, e marcia sulla costa che è sorvegliata dai vascelli inglesi. Dal 4 al 7 marzo assedia Giaffa, solida posizione tenuta dai mamelucchi lungo la via verso la Siria che è il suo obiettivo. La città è conquistata d'assalto.

Non c'è tregua. Un brivido d'orrore scuote le file dei soldati: la peste. L'epidemia falcia subito l'esercito, l'ospedale di Giaffa si riempie di moribondi. Anche chi non è contagiato rimane profondamente scosso, questo è un nemico che non si può sconfiggere sul campo di battaglia. C'è bisogno di un gesto per risollevare il morale dei sani e confortare chi non tornerà più a casa.

Napoleone, accompagnato dal dottor Desgenettes, medico capo dell'armata, visita l'ospedale degli appestati, interroga i malati e tocca più volte gli orrendi bubboni: trasporta tra le sue braccia un cadavere dalla sala operatoria per dimostrare che le possibilità di contagio sono relativamente ridotte. A Giaffa divampa un altro dramma. Tra i soldati turchi che hanno cercato di contrastare l'avanzata francese ci sono numerosi superstiti della guarnigione di El Arish, che quindici giorni prima egli aveva catturato e perdonato purché non riprendessero mai più le armi. E il prigioniero che torna a combattere perde il diritto a ogni tutela.

Berthier e altri comandanti pongono il problema: che cosa fare di questi prigionieri? Portarli al seguito non si può perché non ci sono uomini per sorvegliarli né viveri con cui nutrirli; scambiarli con prigionieri francesi è altrettanto impossibile perché il nemico non risparmia nessuno, ammazza tutti quelli che capitano nelle sue mani. Liberarli? Tornerebbero a combattere; inoltre, i soldati francesi non approverebbero tanta clemenza contro chi è abituato soltanto a uccidere. Napoleone tiene consiglio di guerra nella sua tenda con Berthier, Kléber, Lannes, Bon, Caffarelli e altri generali. Alla fine decide di far fucilare tutti quanti in riva al mare. Un massacro che dura due giorni, un crimine di guerra. Scrive laconicamente al Direttorio: «La guarnigione è stata passata a fil di spada. La guerra non mi è mai parsa così odiosa».

Di nuovo in cammino. La prossima tappa è Akkon o S. Giovanni d'Acri, la città-fortezza dei crociati che blocca l'accesso al nord. Durante le marce

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estenuanti s'abbandona ai sogni, che confida soltanto a pochi intimi: sollevare le popolazioni di tutti questi paesi promettendo la fine della schiavitù, della feudalità; civiltà e benessere sotto la guida del nuovo Alessandro; marciare uniti contro Istanbul, deporre il sultano instaurando un nuovo impero d'Oriente, amico dell'Occidente. E da qui, chissà, muovere verso l'India secondo il progetto iniziale oppure tornare in Francia spazzando strada facendo la casa imperiale di Vienna.

La realtà è molto più banale, e durissima. La fortezza è difesa da 5.000 uomini guidati da Giazzar pascià, nato schiavo e detto «Carnefice» per la sua ferocia; dall'avventuriero inglese Sidney Smith, commodoro di varie marine e pirata; e dal francese Philippeaux, già compagno di Bonaparte alla scuola militare di Brienne. Con i loro cannoni dominano la zona, dall'alto degli spalti. Smith ha armato una flottiglia che impedisce i rifornimenti via mare agli assedianti mantenendoli inoltre sotto il fuoco di altri cannoni.

Napoleone non può ricevere con navi il materiale d'assedio di cui ha bisogno, soprattutto i cannoni pesanti. Dirige di persona il primo assalto, il 28 marzo, senza risultati. Nei giorni successivi è costretto a inviare Junot e Kléber contro un'armata turca comandata da Abdullah, pascià di Damasco, che ha attraversato il Giordano. Junot con 500 uomini appena ferma 5.000 nemici quindi si riunisce a Kléber nella piana attorno al monte Tabor: qui 3.000 francesi vengono circondati da 12.000 turchi e salvati appena in tempo dal comandante in capo accorso in forze il 18 aprile.

Distrutta l'armata di Damasco, Napoleone ritorna all'assedio. In un mese, dal 18 aprile al 18 maggio, scatena cinque attacchi l'ultimo dei quali guida di persona piazzando egli stesso le batterie come a Tolone. Attorno a lui cadono più o meno gravemente feriti numerosi ufficiali superiori tra cui Duroc, al quale è particolarmente affezionato. Non si passa. E allora, bando ai sogni, occorre realisticamente affrontare la ritirata. Fa requisire anche i cavalli degli ufficiali addetti alle salmerie per trasportare i feriti e gli ammalati dell'ospedale da campo. Per i più gravi non esita a suggerire il rimedio estremo dell'eutanasia. La «buona morte» affrettata con sostanze stupefacenti.

Oltre allo sterminio della guarnigione turca di Giaffa, questo è un altro atto d'accusa che gli verrà moralmente contestato dal tribunale dell'opinione pubblica europea. Ecco la sua difesa: «In tutta questa storia c'è un fondo di verità. Alcuni soldati del mio esercito avevano la peste; essi

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non avrebbero potuto vivere più di ventiquattro ore; io stavo per iniziare la marcia; consultai allora Desgenettes circa i mezzi per trasportarli; egli rispose che si correva il rischio di diffondere la peste in tutto l'esercito e che, d'altronde, una simile cura sarebbe stata inutile per i malati che non avrebbero mai potuto guarire. Gli dissi di somministrare loro una dose di oppio e che questa era una soluzione preferibile a quella di lasciarli in mano ai turchi. Egli mi rispose, da uomo onesto, che il suo mestiere era quello di guarire e non di uccidere. Forse aveva ragione, benché chiedessi per loro soltanto ciò che avrei chiesto per me stesso ai miei amici migliori, in una situazione analoga. Ho poi riflettuto spesso su questo punto della morale, ho domandato a molte persone la loro opinione in proposito e credo che in fondo sia preferibile soffrire piuttosto che porre fine al proprio destino qualunque esso sia. Ho agito così alla morte del mio povero amico Duroc, il quale, quando i suoi intestini caddero a terra sotto i miei occhi, mi implorò più volte e con insistenza di por fine alle sue sofferenze; allora, io gli risposi: 'Vi rimpiango amico mio, ma non c'è rimedio, bisogna soffrire sino alla fine'».

Per l'altra accusa: «Quanto ai turchi di Giaffa, è vero che io ne feci fucilare all'incirca duemila. Questo vi sembrerà forse un po' troppo forte, ma io avevo loro accordato una capitolazione a El Arish a condizione che tornassero a Bagdad. Essi ruppero l'accordo, attaccarono Giaffa, e qui li presi d'assalto. Non potevo condurli prigionieri con me perché ero senza pane, ed essi erano troppo pericolosi perché potessero essere abbandonati un'altra volta nel deserto. Non mi restava dunque altra alternativa che ucciderli».

Le grandi decisioni, giuste o sbagliate che siano, appartengono alla vita dei grandi. «Questa bicocca soltanto», commenta Napoleone durante la ritirata da S. Giovanni d'Acri, «mi ha impedito di entrare nelle Indie e di recare un colpo mortale all'Inghilterra». Il sogno d'Oriente svanisce. Al ritorno al Cairo non c'è modo di ristorarsi dalle fatiche, dall'estate torrida perché ad Abukir sotto la protezione delle navi inglesi sta per sbarcare una nuova armata turca, oltre 15.000 uomini, formata a Rodi e guidata da Mustafà pascià. Lo sbarco avviene l'11 luglio. Il giorno 18 Napoleone sopraggiunge con 10.000 uomini e scatena la battaglia il 25. Accerta che il nemico è privo di cavalleria perché le navi con i cavalli non sono ancora giunte in porto, affida a Murat, che guida mille cavalieri, il compito principale di attaccare il centro dello schieramento nemico.

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Murat carica con impeto inarrestabile, duella all'arma bianca con Mustafà rimanendo ferito alla guancia ma, imperterrito, prosegue l'azione catturando l'alto comando nemico al completo e conquistando il villaggio di Abukir. Le truppe turche in ritirata verso la spiaggia e le navi vengono prese d'assalto dalla fanteria e sterminate.

Napoleone scrive un bollettino squillante di vittoria per il Direttorio: «La battaglia di Abukir è una delle più belle che io abbia visto. Dell'armata nemica sbarcata, non un solo uomo ci è sfuggito». Ha così riconsolidata l'occupazione nel basso Egitto e rinverdito il suo blasone di gloria offuscato dalla ritirata di S. Giovanni d'Acri. Ma giungono, stavolta dalla Francia, dal continente europeo, notizie molto allarmanti. Durante la sua assenza, la Gran Bretagna è riuscita a formare una nuova coalizione antifrancese, la seconda, con Austria, Russia, Napoli, Svezia e principi vari. L'Italia, dove contro i francesi combattono 52.000 austro-russi al comando del maresciallo Suvarov, è quasi completamente perduta: di francese non rimangono che le fortezze del Piemonte e la piccola Repubblica ligure. La Svizzera è stata attaccata dall'arciduca Carlo e l'Olanda da un altro esercito austro-russo nonché da una flotta inglese.

La Francia stessa è minacciata d'invasione. Il morale del paese è scosso, l'economia a soqquadro. I grandi ideali della Rivoluzione non bastano più a rimettere in marcia il popolo. Ogni tanto divampano ancora dei moti realisti. Lo stato delle finanze è sempre pessimo Il baratro del disavanzo periodico e quello del debito pubblico appaiono sempre spaventosi. Si prevede a ogni momento la catastrofe e, per non precipitarvi, si ricorre a nuove tasse, si progetta un nuovo prestito forzoso per i ceti agiati. I risparmi sono in pericolo, l'industria non ha la minima certezza dell'avvenire, il commercio dal respiro internazionale risulta bloccato dall'incubo inglese.

Napoleone apprende e s'infuria. «Che cosa hanno fatto delle mie conquiste, dell'ordine e dei traguardi che avevo raggiunto?», chiede retoricamente al suo éntourage alludendo alla politica del Direttorio. Svanito il sogno d'Oriente, non ha più compiti da assolvere qui se non quelli della scienza che non richiedono peraltro la sua presenza. Per quanto possa sembrare paradossale, l'impresa più importante conseguita dalla spedizione in Egitto non è militare o politica, e nemmeno economica, ma scientifica. Si tratta del mistero dei geroglifici dell'era faraonica, che nessuno finora aveva saputo interpretare. Il segreto per vincere l'oscuro di

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questo mistero millenario consiste in una tavola di granito trovata a Rosetta da un ufficiale del genio. Su questa tavola i geroglifici hanno, accanto, il testo tradotto in greco: una scoperta di eccezionale importanza.

Per il resto, conquiste e gloria effimeri, se non altri risultati scientifici a cominciare dallo studio per il taglio dell'istmo di Suez. Napoleone decide di tornare in patria abbandonando l'esercito a Kléber. Abbandona anche i saggi; anche Bellitote, la giovane amante che non ha saputo dargli quel figlio atteso da anni. Porta con sé due scienziati, Berthollet e Monge, e il poeta Grandmaison; pochi generali: Berthier, Lannes, Murat; gli aiutanti, tra cui Eugenio, il segretario Bourrienne e il servo mamelucco Roustam; pochi altri ufficiali guidati da Marmont e duecento uomini scelti. Dagli altri, non si congeda. Parte in segreto per non suscitare l'allarme e la caccia da parte degli inglesi.

CAPITOLO VILA CONQUISTA DEL POTERE

Africa addio. La sera del 17 agosto Napoleone salpa a bordo di una fregata veneziana, preda di guerra, condotta dall'ammiraglio Ganteaume e battezzata Muiron in ricordo del giovane aiutante che gli ha salvato la vita, perdendo la propria, a Arcole. Ha lasciato sulla spiaggia il generale Menou di sasso, con queste parole: «Mio caro, comportatevi bene voialtri qui; se ho la fortuna di mettere piede in Francia, il regno delle chiacchiere sarà finito». A Kléber ha fatto avere il comando, ma dopo la sua partenza.

Sopravviene la bonaccia mentre le coste africane sono ancora vicine e dall'alto degli alberi si possono vedere le navi inglesi nella rada di Abukir. Ganteaume propone di rientrare per aspettare il vento favorevole. Napoleone incita a proseguire, ormai ha deciso e niente potrebbe fargli mutare idea. Affronta il viaggio, lentissimo, trascorrendo le ore del giorno chiuso in cabina a leggere la Bibbia, il Corano e quelle della sera a conversare con i saggi o a giocare a carte con gli ufficiali. Si diverte a barare, scherza per allentare la tensione che attanaglia passeggeri ed equipaggio anche se ciascuno, con gli altri, finge la massima calma. Chiede a Monge: «Sapete che farei se fossimo intercettati dagli inglesi?». Spiega: «Combattere non possiamo, arrenderci nemmeno. Pum! Darei proprio a voi l'ordine di far saltare in aria la nave gettando una torcia nel deposito di munizioni».

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Ignora se la Francia sia stata o meno invasa e nel dubbio, all'approssimarsi dell'Europa, fa mettere la rotta verso Collioure e Port-Vendre, in fondo al golfo del Leone. Ma un colpo di vento respinge la fregata verso la Corsica: laggiù è la sua terra fino, a sei anni fa sognava di diventarne il signore e ora trova angusto l'Egitto. Come sarà l'isola natia: amica, insorta, occupata dagli inglesi?

Che strano viaggio e che strana situazione, un generale torna vittorioso ma senza il suo esercito e non sa nemmeno più dove, quale sia la patria. La Corsica è libera, Ajaccio accoglie questo figlio divenuto così famoso con spontaneo calore. Le strade si riempiono di gente, molti si proclamano «cugini del generale» e vogliono salutarlo. Finalmente si possono avere notizie di prima mano, farsi raccontare con esattezza che cosa è accaduto durante i quattordici mesi di lontananza.

Riprende il viaggio, stavolta con impazienza, non appena informato del quadro degli eventi. Rotta su Tolone con un battello a rimorchio nel caso che brutti incontri consiglino un disperato colpo di mano. Il 9 ottobre si scorge finalmente la costa francese ma la vedetta urla dall'alto che al largo di Tolone ci sono delle navi inglesi. «Avanti, non importa, scapperemo con la barca a remi». È sera. Il buio o la sagoma veneziana della Muiron ingannano i marinai britannici però la nave è fatta segno ugualmente a qualche cannonata. Chi spara? «Sono i nostri, da terra. Ci hanno scambiati per inglesi». E allora via verso Frejus, al sicuro nel porto di Saint-Raphael. La peste, il pericolo del contagio? Non appena si diffonde la novella che Bonaparte è tornato, la sua nave viene circondata da centinaia di barche. Tutta la popolazione sembra essersi concentrata per festeggiarlo al motto: «Meglio la peste che gli Asburgo in casa».

La situazione è meno grave di quello che pareva ieri, gli eserciti nemici sono stati fermati da Massena e da Brune. Ma qualche provincia occidentale vuole rispolverare la bandiera reale, l'economia va a catafascio e i briganti sono padroni delle strade fino alle porte di Parigi. Di città in città, il viaggio di Bonaparte si trasforma in una serie di festeggiamenti con spettacoli creati apposta per lui. I giornali lo salutano con simpatia.

Napoleone, che fino alla vigilia dello sbarco non sapeva se ad attenderlo c'era il trionfo o il patibolo, oppure l'indifferenza, scrive al Direttorio per giustificare l'abbandono dell'armata d'Egitto: «Dopo la mia partenza dalla Francia soltanto una volta ho ricevuto i vostri dispacci. L'Egitto è al riparo da ogni invasione e ci appartiene completamente. Quando ho appreso che

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la patria era in pericolo mi sono deciso a partire sfidando qualunque insidia, a costo di gettarmi in una barca».

Parigi, i boulevards, rue de la Victoire: a casa. È l'alba del 16 ottobre; al rumore della sua carrozza s'affaccia una donna. Non è Giuseppina, è Letizia, la madre. Giuseppina gli è venuta incontro tre giorni fa ma ha sbagliato percorso rimanendo intrappolata tra i cortei. Il guerriero si rinchiude nelle sue stanze dopo aver buttato fuori tutto ciò che appartiene alla moglie infedele. Quando lei torna, verso sera, bussando, supplicando, non risponde e non apre. È deciso a chiedere il divorzio. La notte porta consiglio. In fondo, non solo la moglie lo aveva dimenticato. Molti, a cominciare dai membri del Direttorio, erano ben felici di saperlo relegato in quelle remote, ostili contrade, di non dover spartire il potere con lui. Giuseppina insiste: «Non sapevo dov'eri, non mi hai mai mandato una lettera o io non l'ho avuta. Che cosa facevi in Egitto quando qui tutti abbiamo bisogno di te?». Si uniscono alle suppliche la deliziosa Ortensia e quel caro figliolo di Eugenio. Infine la porta è aperta e la pace fatta.

Adesso, tocca ai nemici. No, non ancora a quelli esterni, agli stranieri; ora bisogna regolare i conti con i rivali della porta accanto e conquistare saldamente, definitivamente, il potere. La confusione è enorme se Stendhal arriverà a scrivere di questi giorni: «Al momento in cui Bonaparte accorreva dall'Egitto in aiuto della patria, un membro del Direttorio, Barras, uomo perfettamente adatto a un colpo di mano, vendeva la Francia alla dinastia esiliata per dodici milioni. Lettere patenti erano già state spedite per questo scopo. Erano due anni che Barras stava lavorando a questo progetto. Sieyès l'aveva scoperto durante la sua ambasciata a Berlino. Nota. Gli intermediari di Barras erano David, Mounier, Tropès de Guérin, il duca di Fleury. Vedere la Biografia moderna del Michaud, rapsodia preziosa per questo genere di confessioni. Il Moniteur illustra molto bene l'avvilimento, il disordine».

Napoleone conta gli alleati. Giuseppe, il fratello maggiore che era a Roma ambasciatore, è qui col generale Bernadotte divenuto suo cognato perché ha sposato Désirée, la non dimenticata fidanzata di Napoleone; Luciano, fratello minore, nonostante la giovane età è a capo dell'opposizione in seno ai Cinquecento; l'abilissimo Talleyrand lo mette in contatto con l'abate Emmanuel Joseph Sieyès, che dopo essere stato uno dei più lucidi teorici della Rivoluzione ha appena sostituito Rewbell al Direttorio e vuole rafforzare l'esecutivo con una nuova Costituzione

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sostenuta da una spada collaudata.Si prepara il colpo di Stato del 18 brumaio (9 novembre). Trasferite le

Assemblee a Saint-Cloud col pretesto di proteggerle meglio. Bonaparte si fa conferire il comando della guarnigione di Parigi mentre Luciano, per questo mese, è in carica come presidente del Consiglio dei Cinquecento: e in tale veste informa segretamente il presidente del Consiglio degli Anziani. Bonaparte neutralizza Barras e gli altri del Direttorio di cui non si fida con la famosa invettiva: «Che avete fatto di questa Francia che io vi avevo lasciato così bella, fiorente? Che avete fatto dei centomila francesi che erano compagni della mia gloria? Sono morti. Ma così non si può continuare. In meno di tre anni ci ricondurreste al dispotismo. La Repubblica è in pericolo e io voglio salvarla».

Molto bene gli va con i deputati, ai quali non sa parlare. Va a finire che viene percosso a sangue in una rissa che non è battaglia e che quindi non sa affrontare. I Cinquecento e gli Anziani, almeno quei settori che gli sono ostili, vedendolo entrare in aula protetto da 4 granatieri in armi, lo aggrediscono con l'invettiva che già ebbe ragione di Robespierre: «Ti sei messo fuori della legge». Salva la situazione Luciano, che fa gettare fuori dalle finestre i deputati dalle truppe guidate da Murat col pretesto che i giacobini vogliono assassinare Bonaparte quindi ne recupera un piccolo numero facendo loro votare la soppressione del Direttorio e la nomina di tre consoli provvisori. Questo esecutivo, più ristretto del precedente, risulta composto naturalmente dal generale reduce dall'Egitto, e da due dei cinque direttori appena deposti, Sieyès e Roger Ducos.

Ma un mese e mezzo più tardi, a Natale, 24 frimaio, il generale batte sul tempo i colleghi politici sul loro stesso terreno facendo promulgare la Costituzione dell'anno VIII, ancora repubblicana in teoria ma che conferisce i poteri più estesi al primo dei tre consoli nominato per dieci anni e rieleggibile senza limite. Ci sono tre Assemblee, il Senato, il Tribunato e il Corpo legislativo, ma tutti capiscono che questa è la Costituzione di Bonaparte primo console.

Eccolo in vetta, in cima a tutti. Inizia il nuovo secolo trasferendosi alle Tuileries,1 [1 Palazzo fatto costruire nel sedicesimo secolo da Caterina de' Medici sulla riva destra della Senna, fra il Louvre e gli Champs-Èlisées, in un luogo in cui si trovavano delle fornaci (tuileries). Ampliato da Luigi XIV, durante la Rivoluzione divenne sede della Corte e dell'Assemblea costituente. Preso d'assalto per due volte dal popolo nelle giornate

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rivoluzionarie del 20 giugno e 10 agosto 1792.] negli appartamenti reali. Indossa una strana uniforme rossa, metà civile e metà militare, di sua invenzione. Mette in divisa tutti i ministri, i consiglieri di Stato, i prefetti che sono una creazione tipica del consolato. Regna senza avere un trono, per ora. Trasforma gli ufficiali subalterni e i soldati, dalle città alle campagne, in pilastri del suo regime.

Regna pur spartendo qualche potere con gli altri due consoli, con i ministri da lui nominati, con il Consiglio di Stato tutto di sua scelta. Lavora con criteri manageriali dal primo mattino a notte inoltrata, quando non è l'alba e gli altri, meno giovani o anziani, cascano dal sonno. Rimprovera: «Sveglia, cittadini, dobbiamo meritarci lo stipendio che ci dà il popolo francese». Produce e fa produrre. In Francia il diritto è incerto perché né i re né i primi dieci anni di Rivoluzione hanno formato un corpo organicamente unito di leggi.

Il primo console fa varare in un anno e mezzo il Codice civile che sarà poi detto napoleonico (2281 articoli) e i cui principi ispiratori saranno adottati in quasi tutti i paesi europei. Abolisce la nobiltà ereditaria, introduce il matrimonio civile e il divorzio, protegge i figli e i minori. Blocca l'inflazione rovinosa, regola le imposte, istituisce la banca di Francia, nomina secondo le capacità indipendentemente dalla nascita.

Regna col pugno duro. Non legato ad alcun partito, si considera svincolato, libero da qualsiasi autorità e influenza. È solito dire ai suoi autorevoli collaboratori: «Voi fate le vostre proposte, io valuterò poi la migliore». Mette la museruola ai giornali, stipendia i senatori purché si guardino bene dal legiferare, mette a capo della polizia il giacobino Fouchè. Soffoca implacabilmente ogni tentativo di reazione, eppure le prigioni sono ora molto meno affollate che con re Luigi.

Scrive dei 27 milioni di francesi che governa: «Essi sono indifferenti alla libertà, non la comprendono né l'amano; la vanità è la sola loro passione, e l'uguaglianza politica, che lascia a tutti la speranza di conquistare qualsiasi carica, è il solo diritto politico al quale sono veramente interessati».

Ascolta il suggerimento del suo ministro degli Esteri, l'aristocratico Talleyrand, e scrive una lettera amabile al re d'Inghilterra, Giorgio III: «La guerra che da otto anni squassa le quattro parti del mondo deve essere eterna? Non c'è dunque alcun mezzo per intenderci? La Francia, l'Inghilterra abusando delle loro forze possono ancora lungamente, per

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sventura dei loro popoli, proseguire l'impoverimento generale. Ma io oso dire che la sorte di tutte le nazioni civili è collegata alla fine di una guerra che abbraccia il mondo intero». L'ottusa risposta del governo inglese compromette ogni possibilità d'intesa: «Faremo la pace quando la Francia rimetterà sul trono i Borboni».

Cerca di intavolare delle trattative con l'Austria, ma anche queste offerte vengono respinte. E guerra sia, allora. Finge di recarsi a ispezionare le truppe interne invece va a raggiungere una nuova armata, di riserva, che ha fatto allestire in gran segreto. Non ripete la scontata manovra della prima campagna, invadere l'Italia dalle Alpi marittime, bensì la storica marcia di Annibale attraverso il Gran San Bernardo. In questo mese di maggio dell'anno 1800 le nevi eterne attendono i 50.000 uomini dell'armata che oggi come quattro anni fa sono stracciati, scalzi, malnutriti perché scarseggiano sempre i quattrini mentre i commissari di guerra seguitano a rubare. Bisogna trascinare a forza un centinaio di carriaggi, 76 pezzi d'artiglieria, una cinquantina d'affusti. Tra tormente di neve e sotto l'incubo delle valanghe. Meglio dei 10.000 cavalli si inerpicano lungo i sentieri i 750 muli al seguito. Difatti non è su di un cavallo focoso, come lo dipingerà David, che il primo console arriva in vetta ma cavalcando un modestissimo mulo. Accetta l'ospitalità dei monaci del convento vicino al passo, che hanno preparato pane e formaggio con un po' di vino aspro. Discende di nuovo le valli che conducono alla pianura opulenta. Torna a Milano, il 2 giugno, non più da generale ma da capo di Stato, con un ingresso spettacolare che la pioggia battente non riesce a rovinare. Trascorre una serata alla Scala ascoltando l'idolo canoro del momento, la giovanissima Giuseppina Grassini, contralto, al cui fascino non rimane insensibile. Dalla platea e dal loggione, ma anche dai palchi dei nobili «gli evviva Bonaparte» si sprecano. Da palazzo Serbelloni scrive alla moglie: «Spero fra dieci giorni di essere nelle braccia della mia Giuseppina, che è sempre tanto buona quando non fa la civetta». Rimane ottimista anche quando Massena è costretto ad arrendersi a Genova.

Studia la disposizione delle truppe nemiche, consulta le carte e decide di sferrare un solo colpo decisivo, a Marengo, villaggio nel comune di Alessandria sulla destra della Bormida. Senonché il barone Friedrich von Melas, generale in capo austriaco, veterano della guerra dei Sette anni, lo previene attaccandolo con forze superiori il 14 giugno. È un mattino di domenica, il cielo è sgombro di nubi e le messi nei campi appaiono

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abbondanti. «La pianura di Marengo», commenta un tecnico, «è forse l'unica in tutta Italia dove masse di cavalleria possono caricare a piena velocità».

Napoleone, che ha qui 23.000 uomini, accortosi che Melas è superiore con i suoi 31.000 soldati manda a dire a Desaix al quale aveva ordinato due giorni prima di marciare sulla strada Genova-Alessandria ritenendo di prendere il nemico alle spalle: «Credevo di attaccare Melas. Egli mi ha attaccato per primo. Per l'amor di Dio, vieni a raggiungermi se ancora puoi». Napoleone getta nella mischia tutte le sue riserve, fa marciare perfino i novecento uomini della sua guardia in formazione quadrata sotto il tambureggiare del fuoco nemico. Si ritira da Marengo verso San Giuliano.

È l'ora di pranzo. Melas, stanchissimo, lievemente ferito, è certo di avere la vittoria in pugno. Ordina al suo capo di stato maggiore, generale Zach, di inseguire il nemico e si concede una pausa per mangiare e mandare all'imperatore un messaggio urgentissimo: «Stiamo vincendo lungo tutto lo schieramento. Bonaparte è nettamente battuto». Un bollettino squillante, che non consente dubbi, al punto che l'imperatore ordina che la cattedrale sia preparata per un Te Deum di ringraziamento: Napoleone, l'«orco», sconfitto!

Nonostante le perdite subite, il primo console, mentre attorno a lui c'è completa sfiducia dopo la ritirata, attende la fine della giornata. Tutto dipende dall'arrivo o meno dei rinforzi. Appare ai suoi, incredibilmente, di ottimo umore. Colpisce col frustino i sassi del campo, gusta un piatto improvvisato dal suo cuoco nel bel mezzo della battaglia, della ritirata. Il cuoco ha arraffato dei polli in una cascina e li ha cotti in padella con l'insaporimento di quel che ha potuto trovare: uova fritte, pomodori, aglio, gamberetti pescati nella Bormida, una spruzzata di cognac.

Il primo console ha perfino l'amabilità di complimentarsi col cuoco tramandando così quel piatto improvvisato al piacere dei posteri col nome di «pollo alla Marengo». Alle due del pomeriggio si vede piombare davanti, trafelato, Desaix, fortunatamente attardato nella marcia di trasferimento progettata verso la strada per Genova dalla piena di un fiume. «Bravo», dice Napoleone. «Che cosa ne pensi?». Desaix, estraendo l'orologio: «Questa battaglia è completamente perduta. Ma c'è tempo per vincerne un'altra». Le sue truppe di rincalzo, circa seimila uomini, seguono nel volgere di un'ora.

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Precedute da venti minuti di intenso cannoneggiamento, queste truppe con Desaix alla testa, suddivise in brigate, si gettano all'attacco degli avanzanti reparti dalle uniformi bianche, che restano completamente sorpresi. E disorientati, un momento appresso, dallo scoppio di un carro di munizioni e dalla carica audacissima di 400 francesi guidati dal figlio del generale Kellermann.

Alle nove di sera Napoleone apprende che Desaix è caduto sul campo mormorando: «Andate a dire al primo console che io muoio col rimpianto di non aver fatto abbastanza per la posterità». Le perdite francesi risultano ingenti ma quelle del nemico ben peggiori: 8.000 prigionieri, 6.000 morti, migliaia di feriti, 40 cannoni e 15 bandiere. Melas in rotta chiede l'armistizio, che viene firmato il giorno appresso ad Alessandria.

Marengo è la svolta della guerra. Altri successi francesi vengono ottenuti sia in Italia, con Brune al Nord e con Murat nel Napoletano, e con Moreau in Germania (novembre-dicembre). Questi successi risultano controbilanciati, in parte, dalla completa sconfitta subita dall'armata d'Oriente, tra il marzo e il settembre 1801, a opera di un Corpo di spedizione inglese guidato da sir Ralph Abercromby. Ucciso Kléber, il suo sostituto Menou firma la resa il 2 settembre ad Alessandria: entro il giorno 15 tutti i francesi superstiti vengono rimpatriati.

La pace di Luneville1 [1Conclusa in Lorena il 9 febbraio 1801.] stabilisce che tutto ciò che appartiene alla Casa d'Austria sulla riva sinistra del Reno, e tutto ciò che un tempo faceva parte dell'impero germanico, e di cui le armi francesi sono in possesso - il Belgio, il Lussemburgo, Liegi, i Principati ecclesiastici - apparterrà d'ora innanzi stabilmente alla Repubblica francese. Inoltre l'Austria rinuncia al Milanese fino all'Adige e alla Toscana, e riconosce ufficialmente le Repubbliche Cisalpina, ligure, elvetica.

CAPITOLO VIILA MACCHINA INFERNALE

Vigilia di Natale, 24 dicembre 1800, verso sera. Le vie di Parigi sono animate di gente che torna dai negozi o sta andando al ballo, a una cena di gala. Il primo console percorre in carrozza con la moglie rue de Saint-Nicaise diretto all'Opera per assistere alla prima rappresentazione di un «Oratorio» di Joseph Haydn, La creazione. Napoleone e Giuseppina, che

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provengono dalle vicine Tuileries, conversano tranquilli; lei è molto elegante, stasera avrà addosso gli occhi di tutta Parigi e vuole essere, in fascino femminile, l'equivalente dell'eroe di Marengo. D'un tratto il cocchiere a cassetta si vede sbarrare metà strada da un carro, stranamente guidato da un ragazzo, che si pone quasi di traverso. D'istinto, anziché fermarsi, frusta i cavalli, che in un attimo raggiungono e superano l'angolo con la via di Malta. In questo preciso momento una terribile esplosione sconvolge rue Saint-Nicaise facendo letteralmente a pezzi il ragazzo col carro e una trentina di passanti. Non c'è dubbio, si tratta di un attentato. Il primo console, impassibile, ordina al cocchiere di proseguire la corsa, rincuora Giuseppina sconvolta e assiste puntualmente insieme con lei, come annunciato, alla rappresentazione dell'«Oratorio».

L'indomani si fa raccontare dal ministro della polizia Josepf Fouché i particolari dell'attentato, almeno quel poco che si sa. Pochi minuti prima dell'esplosione uno sconosciuto, da tempo in attesa, era stato visto affidare al povero ragazzo, che passa casualmente per strada e che si lascia lusingare da una mancia, il carro con sopra un grosso barile evidentemente pieno di esplosivo. E lui, lo sconosciuto, messosi dietro il carro quasi volesse spingerlo, scompare.

Lo svolgersi delle sequenze e l'insolito mezzo usato per l'attentato inducono i giornali a parlare di «macchina infernale». Secondo Napoleone, la «macchina infernale» è stata approntata dagli ultimi oppositori giacobini irrimediabilmente ostili al potere costituito, a un'autorità giudicata dispotica. Decide di toglierli di mezzo destinandoli alla ghigliottina se riconosciuti colpevoli materialmente, oppure alla deportazione quali mandanti ideologici.

La «macchina infernale» rimane, per ora, quanto all'esatta progettazione, un mistero. Ma Fouché si dichiara convinto che siano principalmente esponenti monarchici coloro che hanno giurato di uccidere Napoleone. La stragrande maggioranza dei francesi, è vero, approva l'operato del primo console che ha riportato l'ordine nel paese. I risultati della sua azione instancabile sono sotto gli occhi di tutti e si susseguono con un crescendo meraviglioso, dall'intesa con l'Austria a Lunevilla alla pace di Amiens1 [1

Trattato di pace tra la Francia e la Gran Bretagna concluso il 25 marzo 1802, in base al quale l'Egitto viene evacuato dalle truppe delle due nazioni e restituito alla Turchia. Inoltre l'Inghilterra restituisce alla Francia e ai suoi alleati (Spagna, Olanda) le colonie conquistate, tranne Trinidad e

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Ceylon, e si impegna anche a dare nuovamente Malta ai cavalieri di S. Giovanni. La Francia, dal canto suo, evacua i porti di Taranto, Brindisi e Otranto.] con l'Inghilterra.

Finalmente la Francia, dopo un decennio di guerre sanguinose, è in pace col mondo intero. Finalmente pare possibile costruire quello Stato più giusto e prospero che è nei voti di tutti. L'uomo provvidenziale non può essere che lui, Napoleone. Nominato dagli italiani presidente della Repubblica cisalpina (25 gennaio 1802), viene proclamato dal Senato (2 agosto successivo) primo console a vita col diritto di scegliersi il successore: tre milioni e mezzo di francesi approvano entusiasticamente questa promozione che ritengono ben meritata. Il voto è pubblico, gli elettori si iscrivono su dei registri aperti nel Municipio: 8374 votano no senza persecuzioni.

Napoleone vede tutto, e provvede. Seguita a lavorare alle Tuileries però ha preso l'abitudine di risiedere alla Malmaison, la casa di campagna fuori Parigi che piace a Giuseppina. Favorisce il sorgere di nuove manifatture come a Jouy e a Rouen, o quelle dei fratelli Sevette. Consulta Volta intorno alle sue esperienze sulla pila elettrica e Fulton per gli studi della macchina a vapore. Protegge le lettere, le arti, le scienze. In questo periodo Chateaubriand pubblica Atala, Georges Cuvies le sue Lezioni di anatomia comparata, Laplace prosegue la stesura del Trattato di meccanica celeste e l'abate René-Just Haùy termina il suo monumentale Trattato di mineralogia.

Fa iniziare la costruzione del canale dell'Ourcq e quello da Nantes a Brest. Posa la prima pietra della ricostruzione di Lione. Progetta le grandi vie di comunicazione con la visione dei romani antichi: destina per esempio 30.000 soldati dell'armata d'Italia a lavorare dal 1801 al 1807 alla strada del Sempione, che comprende 613 ponti, 20 rifugi e 8 gallerie. Richiama dal volontario esilio gli emigrati filomonarchici che erano fuggiti all'estero durante il Terrore facendoli convivere pacificamente con i vasti strati della popolazione che hanno approvato il regicidio.

Eppure, non tutti sono d'accordo. La ribellione cova in silenzio. A Londra le immagini celebrative del primo console benefattore dell'umanità con la pace di Amiens nel volgere di un anno lasciano il posto alle caricature, alle satire. Napoleone viene indicato dagli inglesi col soprannome, in senso spregiativo, diminutivo, di «Bonney». Una caricatura del celebre Gillsay mostra «John Bull» (l'Inghilterra) e

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«Bonney» (Napoleone) mentre banchettano spartendosi il mondo: il primo si tiene i mari e il secondo l'Europa.

E proprio in Inghilterra nasce la congiura antinapoleonica più temibile, che trova concordi, nella determinazione di uccidere Bonaparte, sia i repubblicani sia i realisti.

Di questi eventi e di questo periodo c'è la testimonianza resa da Napoleone stesso agli inglesi a Sant'Elena: «Il vostro governo inviò un brigantino comandato dal capitano Wright, il quale sbarcò sulle coste occidentali della Francia assassini e spie. Settanta di loro erano riusciti a raggiungere Parigi e tutto l'affare era stato condotto con una tale accuratezza che quantunque la polizia mi avesse annunciato il loro arrivo nessuno riuscì mai a scoprire il loro rifugio. Io ricevevo tutti i giorni nuovi rapporti da parte dei miei ministri in cui essi mi annunciavano che si attentava alla mia vita e, benché non credessi la cosa così probabile come loro, presi delle precauzioni per la mia sicurezza. Accadde che presso Lorient venne catturato il brigantino del capitano Wright. Si condusse questo ufficiale a Vannes dal prefetto, il generale Julien, che mi aveva seguito in Egitto e che riconobbe immediatamente il capitano Wright. Il generale Julien ricevette l'ordine di far interrogare separatamente ciascun marinaio e ufficiale dell'equipaggio, e di inviare i verbali al ministero della polizia. A tutta prima, questi interrogatori sembrarono assai insignificanti, ma, alla fine, la deposizione di un uomo dell'equipaggio dette quello che si voleva. Costui disse che il brigantino aveva sbarcato numerosi francesi e che fra questi egli si ricordava particolarmente di uno, buon compagno e molto allegro, che si chiamava Pichegru. Furono queste parole che fecero scoprire una congiura che, se fosse riuscita, avrebbe precipitato per la seconda volta la nazione francese in una rivoluzione».

Ancora dalla testimonianza di Napoleone agli inglesi: «A quell'epoca della mia vita così piena di avvenimenti, ero riuscito a ridare ordine e tranquillità a un impero agitato da cima a fondo dalle fazioni e tutto intriso di sangue. Un gran popolo mi aveva messo alla sua testa. Notate bene che non arrivai al trono come il vostro Cromwell1 [1 Oliver Cromwell (1599-1688), lord protettore d'Inghilterra, di Scozia e d'Irlanda. Combatté la monarchia, la chiesa anglicana e l'aristocrazia. Organizzatore nel 1642, quando scoppiò la prima guerra civile, dell'esercito rivoluzionario. Soppressa la camera dei lord, condannato a morte re Carlo I, si trovò a essere il nuovo padrone del paese a regime repubblicano. Rifiutò la

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corona.] e il vostro Riccardo III.2 [2 Re sanguinario e tiranno (1452-1485). Figlio cadetto di Riccardo Plantageneto. Si schiuse la via al trono uccidendo i due nipoti di cui era tutore. Fu ucciso in battaglia a Bosworth da Enrico Tudor, conte di Richmond ed erede dei Lancaster, sbarcato in Inghilterra dalla Francia dove s'era rifugiato. Con questo episodio, che portò al trono il vincitore, Enrico VII, si chiuse la guerra trentennale detta delle Due rose.] Niente di simile: io trovai una corona in un rigagnolo, vi tolsi il fango che la ricopriva e me la misi in testa. La mia vita era indispensabile per la durata dell'ordine così recentemente ristabilito e che io avevo saputo conservare con tanto successo, come in Francia era riconosciuto anche dalle persone che rappresentavano la pubblica opinione. In quell'epoca, ogni notte mi venivano presentati dei rapporti, e questi rapporti annunciavano tutti che si stava tramando un complotto; e che a Parigi avevano luogo riunioni in case private. E d'altra parte, non si riusciva ad avere prove soddisfacenti. Tutta la vigilanza di una polizia instancabile era tenuta in scacco. I miei ministri arrivarono perfino a sospettare del generale Moreau. Essi fecero spesso molte pressioni per indurmi a firmare l'ordine del suo arresto; ma questo generale godeva allora di una reputazione così grande in Francia, che ritenevo avesse tutto da perdere e niente da guadagnare cospirando contro di me. Rifiutai di ordinare il suo arresto e dissi al ministro della polizia: 'Voi mi avete fatto i nomi di Pichegru, di Georges e di Moreau; datemi le prove che il primo è a Parigi e io farò arrestare immediatamente l'ultimo'. Una singolare circostanza portò alla scoperta del complotto.

«Una notte in cui ero agitato e senza sonno, lasciai il letto e mi misi a esaminare la lista dei congiurati. Il caso, che dopo tutto governa il mondo, volle che il mio occhio si fermasse sul nome di un medico rientrato da poco dalle prigioni inglesi. L'età di quest'uomo, la sua educazione, l'esperienza da lui fatta delle cose della vita, mi portarono a credere che la sua condotta aveva un motivo ben diverso da quello di un entusiasmo giovanile per i Borboni. Per quel tanto che le circostanze mi mettevano in grado di giudicare, il denaro doveva essere lo scopo di quest'uomo. Fu arrestato, lo si fece comparire davanti a degli agenti di polizia travestiti da giudici; da costoro egli fu condannato a morte, e gli si annunciò che la sentenza era esecutiva entro il termine di sei ore. Lo stratagemma raggiunse il suo effetto: egli confessò. Si sapeva che Pichegru aveva un fratello, un vecchio frate, che viveva ritirato a Parigi. Il frate venne

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arrestato e, al momento in cui i gendarmi lo stavano portando via, un lamento, che gli scappò di bocca, scoprì finalmente ciò che mi premeva tanto di sapere: 'È perché ho dato asilo a un fratello che ora sono trattato in questa maniera'. Il primo annuncio dell'arrivo di Pichegru a Parigi era stato dato da una spia della polizia, che riferì una curiosa conversazione che aveva avuto luogo fra Moreau, Pichegru e Georges in una casa sul boulevard. Fu deciso che Georges avrebbe ucciso Bonaparte, che Moreau sarebbe stato primo console e Pichegru secondo console. Georges insistette per essere fatto terzo console. Al che gli altri obiettarono che, essendo egli conosciuto come realista, ogni tentativo di associarlo al governo li avrebbe tutti squalificati di fronte all'opinione pubblica. Al che, l'impetuoso Cadoudal gridò: 'Se dunque non è per me, io sono per i Borboni, e se non è né per me né per loro, una cosa vale l'altra, ed io amo Bonaparte quanto voi'. Quando Moreau fu arrestato, rispose dapprima con alterigia, ma quando gli fu presentato il verbale di questa conversazione, svenne. Lo scopo del complotto era la mia morte, e se non fosse stato scoperto sarebbe riuscito. Questo complotto veniva dalla capitale del vostro paese. Il conte d'Angoumois era il maggior responsabile dell'impresa. Egli inviò all'ovest il duca di Borgogna, e all'est il duca d'Enghien. Le vostre navi sbarcarono sulle coste della Francia gli agenti subalterni della cospirazione. Il momento poteva essere decisivo contro di me».

Il capo del complotto è Georges Cadoudal, capo dei realisti, disposto a tutto, fanatico, fornito di soldi dagli inglesi. Torna in Francia di nascosto dalla scogliera di Biville e conta di rimettere in movimento la «macchina infernale» di tre anni prima facendo assassinare il primo console durante il tragitto tra le Tuileries e la Malmaison. Si deve poi formare un governo provvisorio che riunisca gli oppositori giacobini del regime consolare e degli agenti realisti. L'uomo capace di unire gli uni agli altri è il generale Pichegru, per mezzo del quale Cadoudal risale al generale Moreau, il vincitore di Hohenlinden. La polizia fa confessare dei complici secondari sotto tortura e una volta chiarito il piano ha via libera per procedere agli arresti. Vengono presi prima Pichegru, poi Monreau e un mese più tardi, il 9 marzo, Cadoudal, che reagisce uccidendo due poliziotti. Cadoudal finisce sulla ghigliottina, Pichegru viene trovato morto in cella in circostanze misteriose (suicida o eliminato?), Moreau, col suo prestigioso passato, se la cava con l'esilio. Altri venti complici salgono il patibolo. Ma Napoleone vuole dare un monito terribile ai Borboni: «Anche il mio

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sangue è prezioso». Il 10 marzo, giorno seguente all'arresto di Cadoudal, seguendo i consigli di Talleyrand, di Savary e di Murat ordina un'incursione in territorio neutrale. A Ettenheim, non lontano da Strasburgo, nel granducato di Baden. La preda è il giovane Luigi Antonio Enrico di Borbone-Condé, duca d'Enghien. Ultimo discendente della famiglia dei Condé, questo principe di sangue reale aveva combattuto contro la Francia con la piccola «armata degli emigranti». Sorpreso nella notte nel suo letto, mentre credeva che il rifugio in territorio neutrale fosse inviolabile, viene condotto a briglia sciolta, dai granatieri di Caulaincourt, a Vincennes. Nei giorni successivi viene processato da un tribunale composto da alti ufficiali mentre pubblico accusatore è un consigliere di Stato. L'accusa è di alto tradimento, sia per aver partecipato alla congiura tendente a uccidere il capo della Repubblica francese sia per aver combattuto la Francia al soldo dell'Inghilterra.

«Il giovane principe chiedeva grazia per la sua vita», racconterà Napoleone stesso. «Egli diceva che, secondo la sua opinione, la dinastia dei Borboni era finita; che di ciò era fermamente convinto; che considerava la Francia soltanto come la sua patria, e, come tale, egli l'amava con l'ardore del più sincero patriota; ma che tutti i suoi sentimenti erano quelli di un semplice cittadino. La prospettiva della corona non entrava per niente nella sua condotta; essa era perduta per sempre per l'antica dinastia. Domandava, di conseguenza, il permesso di consacrare la sua vita e i suoi servigi alla Francia, unicamente come francese nato nel suo grembo. Si diceva inoltre pronto ad assumere un qualsiasi posto di comando nell'esercito francese, per divenire un bravo e leale soldato, perfettamente sottomesso agli ordini del governo, a chiunque esso potesse essere affidato. Era infine pronto a pronunciare il giuramento di fedeltà. Finiva poi col dire che se gli fosse stata conservata la vita, l'avrebbe consacrata, con coraggio e inviolabile fedeltà, alla difesa della Francia contro i suoi nemici».

Ma i giudici sanno che Napoleone vuole ripagare «con un colpo di folgore» i complotti monarchici contro la sua persona che egli fa risalire alla famiglia reale. Il duca viene processato il 20 marzo e fucilato la sera stessa, sebbene Giuseppina chieda la grazia prosternata ai piedi del marito. «Più che un crimine è una pazzia», commenta Fouché. L'opinione pubblica europea non perdonerà mai questa morte a Napoleone, che peraltro se ne assumerà per intera la responsabilità. È certo che da questo momento la

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«macchina infernale» cessa di funzionare.

CAPITOLO VIIIIMPERATORE DEI FRANCESI

Bonaparte lascia la spada della Rivoluzione, che lo aveva proclamato generale e suo difensore, per impugnare lo scettro. Non ci sono più ostacoli lungo la via tracciata. Vinti o imbavagliati i nemici interni e tacitati quelli esterni, sa di avere con sé la stragrande maggioranza dei francesi stanchi di lotte fratricide, di moti insurrezionali. Il Senato si fa interprete di questi sentimenti e propone al primo console di fondare una nuova dinastia monarchica trasmissibile come tutte le altre ereditariamente, in modo da vanificare qualunque tentativo ulteriore di destabilizzare la Francia uccidendone il capo.

Napoleone ha già un programma preciso. Vuole in qualche modo riallacciarsi al precedente storico di Carlomagno, unto imperatore mille anni fa dal papa. È uno dei motivi per cui, dopo aver imprigionato fino alla morte il pontefice precedente, Pio VI, ha stipulato un Concordato col successore, Pio VII, rimettendo su binari pacifici i rapporti tra il paese della Rivoluzione, del regicidio, e la Chiesa cattolica.

Il 18 maggio 1804 un senato-consulto eleva Napoleone Bonaparte a imperatore dei francesi. Subito dopo i senatori si recano nel gabinetto di lavoro del primo console per salutarlo come Napoleone I: lo trovano in uniforme da colonnello dei cacciatori a cavallo, dignitosamente padrone di se stesso, calmo, solenne e non vinto dall'entusiasmo con al fianco Giuseppina.

Attorniato da un semicerchio di consiglieri di Stato e di generali ascolta l'arringa solenne rivolta da Cambacérès, secondo console con Sieyès e presidente del Senato. «Tutto ciò che può contribuire al bene della patria», risponde, «mi è caro. Accetto il titolo che voi ritenete utile alla gloria della nazione. Desidero sottomettere alla sanzione del popolo la legge dell'ereditarietà. Spero che la Francia non abbia mai da pentirsi degli onori di cui circonda la mia famiglia». Il plebiscito si conclude trionfalmente con oltre tre milioni e mezzo di sì e appena 2579 no.

Pio VII è invitato a venire a Parigi per la cerimonia dell'incoronazione. Papa Gregorio Chiaramonti, nato in una nobile famiglia della Romagna, è un austero benedettino. Si lascia convincere dalla motivazione che la

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presenza del sommo pontefice di Roma «conferisce alla unzione e alla incoronazione del primo imperatore dei francesi la massima consacrazione religiosa». Muove con un seguito imponente di cardinali e di vescovi, uno dei quali cerca di alleviargli il disagio con una «battuta» di gran classe: «In fondo, abbiamo la soddisfazione di vendicarci di fronte ai Galli facendo dominare questi barbari da una famiglia italiana». Mette soltanto una condizione, che prima della cerimonia solenne in Nòtre Dame gli augusti sovrani finora sposati con solo rito civile vengano uniti anche col matrimonio religioso. È ubbidito.

Napoleone va a incontrare il vicario di Cristo nella foresta di Fointanebleau con i dovuti onori anche se non accenna a genuflessione o baciamano. E già prima della cerimonia cominciano a salire verso il trono gli incensi dell'adulazione più diffusa, smaccata. Al punto che Paul-Louis Courier, repubblicano di ferro, prorompe: «Essere Bonaparte e farsi 'Sire': vuol dunque tornare indietro!». Ma da mezza Europa giungono anche attestazioni di stima e riconoscimento: valga per tutti il gesto di Ludwig van Beethoven, re dei compositori musicali classici, che dedica al grand'uomo salito in trono La Sinfonia eroica.

Il mattino del 2 dicembre si riuniscono gli attori dello spettacolo che ha nome «consacrazione imperiale di Napoleone» e che si svolge all'insegna della contraddizione più clamorosa. È una ben strana conseguenza o conclusione che dir si voglia per il grande movimento che dal 1789 al 1793 ha distrutto la nobiltà, abolito i privilegi e reso ai miserabili la speranza del paradiso in terra. Ecco la donna nata Tascher de la Pagerie, piccola nobiltà creola, vedova del Terrore, che si accinge a diventare sua maestà l'imperatrice Giuseppina, mentre viene preparata a vestirsi dalle sorelle dell'imperatore che smaniano per diventare a loro volta principesse e regine. Intanto l'imperatore, abbigliato con il più sontuoso dei costumi in una stanza vicina, si volge verso i fratelli che entro qualche anno saranno re commentando, rivolto verso il maggiore: «Giuseppe, pensa se potesse vederci nostro padre».

È la rivincita di un'oscura famiglia nata in un'isola dimenticata e ora al centro dell'attenzione universale. Un sogno che supera qualunque fantasia e che fa convergere verso Parigi le riflessioni di centinaia di milioni di persone. Una favola vera che appassionerà le generazioni future come il romanzo altrettanto vero di Cesare e Cleopatra.

Da oltre un'ora Pio VII, che indossa i solenni paramenti del papa, attende

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nella cattedrale di Nòtre Dame de Paris. Infine, sotto un pallido sole di fine autunno, arrivano le carrozze del corteo costruite apposta per la circostanza: Napoleone, che ha il culto dei precedenti, e che quando può non trascura mai di prepararsi, ha voluto che la cerimonia ripetesse fin nei dettagli l'incoronazione di Giorgio IV d'Inghilterra nell'abbazia di Westminster.

Il corteo al termine di un tragitto ravvivato da due ali di folla festante giunge alla cattedrale la cui facciata è ricoperta da una specie di decoro teatrale. La cerimonia, interminabile, dura oltre tre ore durante le quali Napoleone, prestando giuramento, cerca di conquistarsi il futuro assicurando «i miei discendenti regneranno a lungo». Anche qui vuole tramandare un gesto simbolico: il generale della Rivoluzione anziché accettare la corona dalle mani del papa, come aveva fatto Carlomagno, si incorona da sé e poi incorona Giuseppina.

David, il grande pittore della Rivoluzione, sta prendendo appunti per tramandare ai posteri la sequenza per mezzo di quattro dipinti come farebbe ai giorni nostri il fotografo col suo obbiettivo. Al termine si riforma un corteo, che somiglia a un ballo in maschera: è aperto da Talleyrand, tutto ori e sete, seguono il papa e il cardinale Fesch, zio còrso di Napoleone (è lui che lo ha appena sposato con rito religioso); quindi la coppia imperiale, le dame d'onore e i generali che non sembrano molto contenti di partecipare a una sorta di processione mescolati a un'infinità di presuli e sacerdoti.

Napoleone I ha fatto inserire l'iniziale del suo nome, una grande «N», al centro dello schienale del suo trono. Lo guarda e commenta a voce alta, affinché tutti possano udirlo: «Che cos'è mai un trono? Quattro pezzi di legno ricoperti di velluto. Tutto dipende da chi lo occupa». Regna, stavolta in ogni senso, con naturale maestà. Sembra che sia stato allevato apposta. Sul trono, che finge di disprezzare, si trova più a suo agio di molti re e regine che ci stanno seduti sopra «per diritto divino» (anziché per volontà della nazione).Tra i suoi primi gesti di sovrano, distribuisce all'esercito gli emblemi militari del nuovo regime: sono le aquile, ciascuna con i distintivi caratteristici di un reggimento, che testimoniano una volontà di egemonia come le aquile dell'antica Roma. Prosegue l'evoluzione monarchica della sua politica, del suo potere, incoronandosi il 26 maggio 1805 re d'Italia nel Duomo di Milano. Mettendo da sé in testa la corona di ferro dei re

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longobardi afferma: «Dio me l'ha data, guai a chi la tocca». È un grido di guerra all'Europa e soprattutto all'Austria, abituata a considerare l'Italia come suo terreno di conquista e dominio. Fa in modo che in non poche chiese dell'impero venga insegnato ai ragazzi un catechismo che assicura: «Coloro che mancheranno ai loro doveri nei confronti dell'imperatore peccheranno come se resistessero all'ordine stabilito da Dio stesso, rendendosi passibili della dannazione eterna».

Proclamato l'impero, moltiplica le iniziative capaci di saziare la gelosia e la sete di potere dei grandi capi militari repubblicani. Già prima della consacrazione ha proclamato un certo numero di essi marescialli di Francia. Un anno dopo, costituisce una nobiltà imperiale esclusivamente per meriti: i marescialli diventano duchi o conti dell'impero (pari) e i loro titoli sono dedicati sia a delle terre italiane assegnate in dotazione sia a delle vittorie alle quali essi abbiano contribuito.

Secondo i suoi reconditi intendimenti, i marescialli sono divisi in tre gruppi. Dapprima i «fedelissimi», sui quali crede di poter contare in qualsiasi circostanza: Gioacchino Murat, marito di sua sorella Carolina, che per cominciare viene creato grande ammiraglio di Francia (proprio lui, insuperabile nelle cariche a cavallo ma negato per la vita del mare!); Soult, duca di Dalmazia; Bessières, duca d'Istria; Lefebvre, duca di Danzica. Quindi i repubblicani, più o meno legati a Moreau e dei quali desidera temperare l'opposizione latente: Jourdan, il vincitore di Fleurus (che non sarà mai duca); Massena, duca di Rivolu; il vecchio giacobino Brune, conte dell'impero. Terzo gruppo: un po' fidati e un po' no, meritevoli di riguardo ma non eccellentissimi: Kellermann, duca di Valmy; Mortier, duca di Treviso; Pérignon, conte dell'impero; Sérurier, pure conte dell'impero.

Sono poi, via via, creati marescialli: Augerau, conte di Castiglione; Bernadotte, principe di Pontecorvo; Berthier, impareggiabile capo di stato maggiore, principe di Neuchàtel, principe di Wagram; Davout, duca d'Auerstaedt, principe di Eckmuhl; Gouvion Saint-Cyr, conte dell'impero; Grouchy conte dell'impero; Lannes, duca di Montebello; Macdonald, duca di Taranto; Marmont, duca di Ragusa; Moncey, duca di Conegliano; Ney, duca d'Elchingen, principe della Moscova; Oudinot, duca di Reggio; Poniatowski, principe; Suchet, duca di Albufera; Victor, duca di Belluno.

Tra tutti questi capi militari, singolare è il suo rapporto con Bernadotte, che egli colma di onori sempre più elevati quasi a voler ricompensare la

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moglie di lui, Désirée, sua exfidanzata, di non averla sposata come in pratica si era impegnato agli inizi della carriera. Bernadotte ricambia tanta attenzione con alterigia, con atteggiamenti spesso scontrosi e alla fine col tradimento.

I grattacapi maggiori, forse, provengono dalla famiglia con l'unica eccezione di Letizia, che avrà il titolo di Madame Mère e che conserverà sempre l'equilibrio commentando laconicamente: «Finché dura». Fratelli e sorelle hanno cessato da tempo di trattarlo col «tu» confidenziale passando istintivamente al «voi», anche nei rapporti privati, fin dall'inizio del periodo consolare. Ma non si stancano di chiedere e chiedere ancora, di pretendere, di voler salire. Napoleone cerca spesso, se non sempre, di accontentarli, ma talvolta perde la pazienza: «Ricordatevi che nostro padre era un oscuro avvocato di provincia e non un re».

Tutti i fratelli maschi sono creati «altezze imperiali» e grandi dignitari con stipendi da nababbi. Giuseppe, il maggiore, è primo principe del sangue con la dignità di grande elettore. Eppure, si mette a fargli la fronda frequentando gli ambienti anti-impero. Finché viene elevato al trono: re di Napoli dal 1806 al 1808, quindi re di Spagna fino al 1813, infine luogotenente generale dell'impero, e comandante della guardia nazionale. Luciano, ministro degli Interni fin dal 1799, riesce ad alienarsi i favori di Napoleone per il suo carattere ribelle, ostinato: si ritira a Roma nel suo feudo di Canino, eretto in principato da Pio VII, e nel 1810 sarà intercettato dagli inglesi mentre naviga alla volta degli Stati Uniti: rilasciato soltanto dopo quattro anni. Luigi1 [1 Ha tre figli l'ultimo dei quali diventerà Napoleone IH e aiuterà l'Italia a conquistare l'indipendenza dall'Austria.] sposa Ortensia, figlia di Giuseppina, viene collocato sul trono d'Olanda ma si trova in perenne contrasto con l'imperatore perché contrario sia a fornirgli soldati sia ad applicare seriamente il blocco continentale contro la Gran Bretagna. Gerolamo, l'ultimogenito, viene creato re di Vestfalia e sposa Caterina del Wuerttemberg: ma si rivela un sovrano inetto e dissipatore, provocando spesso le ire dell'augusto fratello.

Non sono migliori le sorelle. Anna Maria detta Elisa, delle tre, è quella che somiglia di più a Napoleone: energica e intraprendente, molto attiva. Lui la ricompensa affidandole il governo dei dipartimenti toscano annessi all'impero coi titoli di granduchessa di Toscana, principessa di Lucca e di Piombino. Lei lo contraccambia voltandogli le spalle non appena cade in disgrazia e intrigando invano coi nemici per conservare i suoi poteri. Maria

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Paola detta Paolina è tutta un capriccio. Rimasta vedova a Santo Domingo del generale Leclerc, ha sposato nel 1803 il principe Camillo Borghese che lascia presto per condurre un'esistenza dissoluta. Nel 1810 sarà allontanata dalla corte per aver mancato di rispetto all'imperatrice (fin da ragazza era solita definirla «la carcassa»).

Infine Maria Annunziata detta Carolina. Volitiva sin troppo, mette tutta se stessa, compresa la bellezza, al servizio della sua divorante ambizione. Moglie di Murat, dal 1806 è granduchessa di Clèves e di Berg, e dal 1808 regina di Napoli: alla caduta di Napoleone istigherà il marito a passare alla causa del nemico, l'Austria, nell'inutile tentativo di conservare il trono e finirà invece col provocare la morte di lui.

L'imperatore avrà una decina d'anni per fare e disfare a suo piacimento la Francia quanto la mappa dell'Europa. Agli inizi festeggia il 15 luglio, presa della Bastiglia e simbolo dell'inizio della Rivoluzione, ma poi fa scivolare piano piano la ricorrenza nel dimenticatoio. E così fa sparire, senza sopprimerlo ufficialmente, il calendario repubblicano. Destina a cariche e uffici imperiali ben 130 persone che a suo tempo si erano battute per tagliare la testa al re Borbone.

Ripristina l'etichetta di corte e richiama dalla pensione i dignitari che la conoscono alla perfezione. I suoi generalissimi, i marescialli, repubblicani ed eretici, diventano «Monsignori». Gli ex-consoli sono ora uno grande cancelliere e l'altro tesoriere dell'impero. Su tutti s'impone Talleyrand, gran ciambellano, che ricostruisce l'atmosfera della vecchia corte pur nelle mutate circostanze storiche, con personaggi tanto diversi.

L'imperatore dispensa denaro a piene mani a chi gli sta intorno, alla sua corte, appunto; ma tratta se stesso con parsimonia. Dice: «Da giovane ufficiale mi arrangiavo con 90 franchi di stipendio al mese, oggi potrei benissimo sopravvivere con 1200 franchi e un cavallo». Lavora moltissimo, con metodica costanza, inchiodato al tavolino come l'ultimo degli scrivani. Si alza presto e si corica tardi, mangia in venti minuti senza accorgersi dei cibi che gli vengono serviti, indossa abitualmente delle uniformi disadorne, che sembrano sbiadite dall'uso mentre Giuseppina ammucchia in guardaroba 700 abiti di ogni foggia e colore e non meno di 250 cappellini.

«Viva l'imperatore»: il grido si ripete nelle strade e nelle caserme. Tutto ciò che quest'uomo tocca diventa moda e storia. Nascono i mobili e gli abiti stile impero, nasce una nuova classe dirigente e un nuovo modo di

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essere francesi: liberi, aperti, impegnati e spensierati allo stesso tempo.Lavoro e ancora lavoro. È questo il gran segreto che consente a

Napoleone di rifondare le istituzioni, l'economia pubblica, lo Stato devastato dalle ribellioni quanto dai cattivi amministratori. È stato calcolato che dal colpo di mano del 18 brumaio, nel 1799, sino al suo viaggio in Italia nel 1805 egli abbia trascorso lontano dalla sua scrivania soltanto 259 giorni su 1723: mentre da quest'anno in avanti sarà per vari motivi costretto all'estero un giorno su tre.

Crea la Legion d'onore che per i suoi soldati diventa subito un premio ambitissimo, la «crocetta», come la chiamano loro. Rinnova le bandiere: quadrate, ciascun lato di 80 centimetri, con al centro la scritta «L'imperatore dei francesi al reggimento xy». In cima all'asta, un'aquila con le ali spiegate emblema dell'impero (i soldati prendono l'abitudine di definirla «il cucù»). Dichiara durante la solenne cerimonia della consegna: «Soldati, ecco le vostre bandiere. Queste aquile vi serviranno sempre da punto di adunata. Saranno ovunque dove il vostro imperatore lo riterrà necessario per la difesa del suo trono e del suo popolo. Giurate di sacrificare la vostra vita per difenderle e mantenerle sempre, con il vostro coraggio, sul cammino della vittoria?». La risposta è un grido possente: «Lo giuriamo».

Non mancano certo i critici e le critiche. Ha lasciato scritto la contessa Potocka: «Questa corte, tanto magnifica da lontano, non poteva sostenere ispezioni da vicino. Una sorta di confusione e mancanza di armonia erano chiaramente individuabili, influivano sulle impressioni di grandiosità e imponenza che ci si sarebbe aspettati di trovare. Nulla appariva veramente autentico, e si aveva la sensazione di assistere a una rappresentazione in cui gli attori stessero provando i costumi e ripetendo i loro versi». La marchesa di Nadaillac nel 1804 compone dei versi che sembrano frustate e che vengono distribuiti nelle vie di Parigi:

«Vissi molto a lungo di prestiti ed elemosine, di Barras, il vile adulatore, sposai la sgualdrina; strangolai Pichegru, assassinai Enghien, e per tanti misfatti ottenni una corona».

Eppure Napoleone può giustamente vantarsi di restare al potere per volontà generale se non unanime del popolo. Lo vogliono i soldati ai quali procura carriera e gloria, («ognuno di voi ha il bastone di maresciallo nel suo zaino»), lo vogliono i contadini ai quali conserva le terre strappate ai nobili e agli ecclesiastici durante la Rivoluzione, lo vuole una classe media

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che sta emergendo conquistandosi con i meriti, con il lavoro, l'avanzamento sociale. Tra critiche e adulazioni, vilipendi e osanna, resta solo. Perfino i suoi nemici diventano grandi perché hanno di fronte non un uomo «normale» ma Napoleone. Per trovare dei paragoni deve rifarsi ai precedenti storici. Poche ore dopo l'incoronazione commenta: «Io sono venuto al mondo troppo tardi. Adesso gli uomini sono troppo illuminati, non vi sono più cose grandi da compiere. Ammetto di aver fatto una bella strada, ma che differenza in confronto ai tempi antichi. Guardate un po' Alessandro. Dopo aver conquistato l'Asia si dichiara figlio di Giove e tutto l'Oriente gli crede, fuorché sua madre, Aristotele e un paio di pedanti ateniesi. Se io oggi mi dichiarassi figlio del Padre Eterno, l'ultima pescivendola mi fischierebbe. I popoli sono ormai troppo illuminati. Non vi è più nulla di grande da fare». In questo sfogo è racchiuso il segreto delle sue imprese future, una guerra dopo l'altra, una battaglia e un'altra ancora cercando di dare una nuova dimensione alla grandezza per non essere da meno dei giganti della storia. Ma agli inizi del suo regno egli desidera sinceramente la pace e manifesta propositi adeguati scrivendo personalmente, a sei sovrani. «Per la mia larga fama», comunica allo scià di Persia, «avrai saputo chi io sia e che cosa abbia fatto, come abbia elevato la Francia al di sopra di tutti i popoli dell'Occidente, quale interesse io abbia per i principi d'Oriente. Gli orientali sono pieni di coraggio e di genialità, ma l'ignoranza di alcune arti e la trascuratezza della disciplina li pongono in situazione svantaggiosa nella guerra contro gli uomini del Nord e dell'Occidente. Scrivimi i tuoi desideri e noi rinnoveremo i rapporti d'amicizia e di commercio. Scritto nel mio palazzo imperiale delle Tuileries, il 27 piovoso, anno XIII, primo anno del mio governo».

CAPITOLO IXSCONFITTO SUI MARI

Tra la fine del 1804 e l'autunno 1805 l'imperatore è dibattuto da un grave problema squisitamente militare: deve o meno tentare l'invasione dell'Inghilterra, paese irriducibilmente ostile a lui quanto alla Francia contro la quale sta montando una terza coalizione? Gli inglesi, che sono 15 milioni, non sopportano che la nazione francese, la più popolata del continente con i suoi 28 milioni di abitanti, responsabile di aver diffuso

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ovunque gli ideali rivoluzionari, acquisti la supremazia e il rispetto, la sicurezza interna, minacci l'egemonia dei commerci internazionali britannici.

Napoleone già prima di dedicarsi alla spedizione d'Egitto era stato messo a capo dell'allora fantomatica armata d'Inghilterra, preparata dal Direttorio per l'invasione che egli stesso aveva poi sconsigliato ritenendo prima necessario avere il dominio nella Manica. E una volta conquistato il potere, dal 1803 va radunando la Grande Armée (Grande Armata) a Boulogne, vicino a Calais, in faccia all'odiato nemico: nella parte più stretta il Canale, che divide le coste inglesi da quelle francesi, è largo soltanto una trentina di chilometri.

Concentra nel campo di Boulogne oltre 200.000 uomini mentre i cantieri lavorano febbrilmente alla costruzione di battelli a fondo piatto giudicati i più adatti ad attraversare il Canale trasportando le truppe. Ne vengono via via approntati circa 2.000, subito ammassati su una decina di fila, oltre che in quello di Boulogne, nei porti di Calais, Gravelines, Dunkerque, Nieuport, Ostenda, Flessinga, Ètapes, Wimereux, Wissant, Montreuil, Ambleteuse. Vengono costruiti anche i vascelli in grado di proteggere con i loro cannoni le flottiglie da sbarco. La popolazione partecipa a questa gigantesca corsa all'armamento navale attraverso spontanee sottoscrizioni municipali: Parigi si quota l'equivalente di un vascello da 120 cannoni. Napoleone in visita al campo e al porto di Boulogne guarda la riva opposta della Manica, la terra dove egli personalmente è diventato il nemico numero uno. Per tutto il secolo i bambini inglesi udranno ripetere dai «grandi» la terribile minaccia: «Fai il bravo altrimenti viene 'Bonney', l'orco Bonaparte, a rapirti». Gli inglesi si preparano a resistere all'invasione perché capiscono che è questione di vita o di morte per tutto il popolo. È un sogno antico, quello della Francia, di tramutare la «pallida isola» oltre il Canale in uno Stato vassallo.

Anche l'opinione pubblica francese si prepara all'evento, con qualche errore di psicologia e di prospettiva storica. «L'Irlanda oppressa dalla più abominevole e sanguinaria tirannia poteva benissimo, in un momento di disperazione, accogliere lo straniero», scrive Stendhal. «Mettendo piede in Inghilterra avremmo diviso fra i poveri i beni di trecento Pari;1 [1

Denominazione riservata nell'ordinamento feudale ai membri della nobiltà che hanno diritto in quanto tali a essere giudicati non dai magistrati del re ma da una giuria composta di loro pari. Nell'epopea francese é «Pari»

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ciascuno dei dodici paladini, uguali fra loro, che accompagnano Carlomagno formando la sua scorta d'onore. L'Inghilterra è il paese in cui questo ordinamento ha avuto il massimo sviluppo dal 1215 (Magna charta libertatum) con la Camera dei lord o Assemblea dei pari, che ha ancora il diritto di riunirsi in alta corte di giustizia per giudicare un lord.] avremmo proclamato la costituzione degli Stati Uniti d'America, organizzato autorità inglesi, incoraggiato il giacobinismo; avremmo dichiarato di essere stati chiamati dalla parte oppressa della nazione e di aver voluto distruggere solamente una forma di governo nociva tanto alla Francia che alla stessa Inghilterra e che, fatto ciò, eravamo pronti a ritornarcene via. Se contro ogni apparenza un popolo ridotto per un terzo alla mendicità non avesse ascoltato questo linguaggio, in parte sincero, avremmo bruciato le quaranta città più importanti. Molto probabilmente quindici milioni di uomini, un quinto dei quali è disgustato del governo, e i quali tutti hanno soltanto del coraggio senza alcuna esperienza militare, non avrebbe potuto, nel giro di due o tre anni, resistere a trenta milioni di uomini obbedienti, non senza un certo piacere, a un despota geniale».

Napoleone moltiplica le ispezioni, le visite e le parate al campo di Boulogne ma non si decide a scatenare l'invasione sapendo di non avere nella marina dei capi altrettanto agguerriti rispetto all'esercito. Inoltre ascolta le voci di guerra provenire anche dal continente, a cominciare da re Gustavo IV di Svezia che sogna una crociata antinapoleonica. Forse nella sua mente l'invasione è più un sogno che una decisione, comunque appronta un piano navale di grande audacia.

In base a questo piano il duca Decrès, ammiraglio e ministro della marina, trasmette all'ammiraglio Villeneuve l'ordine di dirigere con la sua flotta verso le Antille cercando di attirare in questa direzione Nelson, il padrone del Mediterraneo. Villeneuve è appena riuscito a sfuggire a Nelson che lo teneva bloccato dentro il porto di Tolone. Adesso, dopo le Antille, dovrebbe tornare immediatamente su Brest permettendo all'ammiraglio Ganteaume di uscire da questo porto anch'esso bloccato dagli inglesi. Le squadre francesi così riunite, insieme con l'alleata spagnola, avrebbero infine la comune missione di tenere a bada all'inizio della Manica la marina inglese per i pochi giorni sufficienti allo sbarco, all'invasione.

L'imperatore sulla costa sorveglia i preparativi. Durante una notte di tempesta assiste all'operazione salvataggio di una nave che aveva rotto gli

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ormeggi. «Fu uno spettacolo grandioso», scrive a Giuseppina. «Le cannonate d'allarme, la riva piena di segnalazioni luminose, il mare irato e ruggente; tutta la notte l'ansietà di salvare o perdere quegli infelici. L'anima era sospesa fra l'eternità, l'oceano e la notte. Alle cinque del mattino tutto era rasserenato, erano salvi e io andai a dormire con la sensazione di un sogno epico romantico».

Sogno premonitore? Pochi giorni dopo apprende che Villeneuve, evidentemente non all'altezza delle responsabilità ricevute, anziché recarsi verso Brest si è rifugiato nella rada di Cadice, porto spagnolo sull'Atlantico. Due giorni dopo, con un cambiamento repentino tipico della sua genialità strategica, decide di sospendere l'invasione. Ordina alla Grande Armée di lasciare le coste francesi per puntare, anziché a nord, verso est. La meta non sono più le coste inglesi bensì il cuore della Germania. C'è una terza coalizione contro la Francia, formata, oltre che dall'Inghilterra e dall'Austria, dalla Svezia, dal re di Napoli che è cugino dei Borboni e dalla Russia sul cui trono il giovane zar Alessandro 1 [1

Alessandro I è nato a Pietroburgo nel 1777. Il suo avvento al trono, nel 1801, coincide con un radicale mutamento della politica russa e ciò fa nascere il sospetto che il giovane zar abbia avuto parte nell'assassinio del padre.] ha preso il posto del padre Paolo I, ucciso dalla sua stessa famiglia.

Napoleone raccoglie la sfida confidando ai suoi marescialli: «L'Europa troverà una pace duratura diventando una federazione di Stati ciascuno dei quali prenderà ordini dall'impero centrale». Il suo impero, s'intende. Aggiunge: «La mia giovane dinastia, di cui ora si discorre celiando, sarà fra cinque anni la più antica d'Europa».

Il 20 agosto 1805 fa sfilare davanti a sé la Grande Armée che manovra poi verso una delle marce militari meglio organizzate della storia, con percorsi di 40 chilometri al giorno. Vuole prevenire l'immenso movimento che si va attuando da quando Francesco d'Austria ha fatto invadere la Baviera il cui re, Massimiliano, ha scelto per ora di parteggiare per i francesi. La coalizione russo-anglo-austriaca è risoluta a sottrarre al dominio francese l'Italia, di cui l'«orco» ha nominato vicerè il figliastro Eugenio col compito contingente di bloccare il più a lungo possibile il nemico dentro il Tirolo.

«Conto di passare il Reno il 5 vendemmiaio», scrive nei suoi ordini. «Non mi arresterò che sul fiume Inn, o più lontano. Confido nella vostra bravura e nel vostro talento. Conquistatemi delle vittorie». Lo scontro

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decisivo avrà luogo nella vallata del Danubio. Oltre 100.000 austriaci sono in marcia verso la Francia precedendo due grandi armate russe che discendono dalla Polonia smembrata. Napoleone intende sferrare laggiù il suo contrattacco per mezzo di sette Corpi della Grande Armée che definisce «i miei sette torrenti». Partiti dalla Germania e da tutte le coste francesi, compresa Brest, i «sette torrenti» si raggrupperanno verso Ulma sorprendendo gli austriaci prima che a essi si congiungano i russi, quindi marceranno su Vienna.

I «sette torrenti» sono comandati da Bernadotte, che proviene da Hannover con 30.000 uomini; da Marmont che muove dall'Olanda con altri 20.000; quindi il grosso al comando di Davout, Soult, Lannes, Ney, che marciano da Boulogne, infine Augerau dalla Bretagna. In tutto, oltre duecentomila uomini tra cui 8269 ufficiali di truppa e 108 ufficiali di stato maggiore. È dai tempi di Carlomagno che non si registra un movimento così razionale, compatto.

Due masse di centomila uomini ciascuna rotolano dunque una contro l'altra durante il mese di settembre. Gli austriaci del maresciallo Mack occupano il margine della Foresta Nera e Passau mentre i francesi attraversano il Reno, da una parte e dall'altra di Strasburgo, su dei ponti di barche approntati dagli specialisti del genio. I primi combattimenti si sviluppano il 6 ottobre quando il 4° Corpo del maresciallo Soult cozza contro gli austriaci stupefatti, perché certo non si aspettavano di trovarseli di fronte, conquistando di sorpresa i ponti sul Danubio a Donauwòrth. Tre giorni dopo Ney assalta i tre ponti di Guntzberg, comanda di persona l'attacco in faccia al migliore dei comandanti austriaci, l'arciduca Fernando, che comprende immediatamente la gravità della situazione: se questi ponti cadranno, l'armata principale, quella di Mack, che dovrebbe spingere il cuneo dell'invasione fino a Parigi, sarebbe obbligata a rifugiarsi nella piazzaforte di Ulma.

Napoleone dirige la battaglia. I combattimenti sono aspri, sanguinosi; i ponti vengono conquistati grazie al sacrificio del 59° reggimento di linea il cui comandante, colonnello Lacuée, cade ferito a morte: l'imperatore farà in tempo a rendergli l'estremo omaggio; mentre Murat, a Wertingen, trascina la cavalleria a dei prodigi sbaragliando un gigantesco quadrato formato da nove battaglioni nemici. La partita a scacchi prosegue con i trentamila soldati di Mack bloccati a Ulma, mentre i francesi entrano in Monaco di Baviera accolti come liberatori dai sudditi di re Massimiliano.

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E da questo momento gli Stati e staterelli tedeschi sia dell'est sia del sud ricercano la protezione della Francia.

Ora l'imperatore vuole battere Mack a Ulma, immediatamente, per approfittare dell'effetto sorpresa della sua marcia folgorante. Ha già calcolato fin da agosto che l'armata richiamata dal mare aggiri la Foresta Nera da nord mentre gli austriaci l'attendono al varco a Basilea: sembra, secondo le memorie di Fouché, che delle spie svedesi al soldo dell'imperatore abbiano contribuito a creare questo convincimento nello stato maggiore austriaco. Bisogna espugnare Ulma a qualunque costo e innanzi tutto completare l'accerchiamento della città ripassando il Danubio sotto il fuoco di ventimila austriaci attestati a Elchingen e sulle alture di Michelberg con una formidabile artiglieria. La manovra viene compiuta con metodica, impavida progressione da Ney, che si conquista il titolo di duca d'Elchingen e l'appellativo di «bravo dei bravi».

La sera del 15 ottobre l'aggiramento è concluso. Napoleone ordina un intenso cannoneggiamento seguito da trattative con Mack, alternando come suo costume minacce e gentilezze. Il 19 sera, davanti a un enorme bivacco acceso per il maltempo, riceve l'anziano maresciallo sconfitto. Questi indossa l'alta uniforme che aveva preparato per la presa di Parigi e porgendo la spada esclama teatralmente: «Sire, eccovi lo sventurato Mack». Risposta: «Non so perché noi ci facciamo la guerra. Io non la volevo. Mi accingevo a farla esclusivamente agli inglesi quando il vostro padrone mi ha provocato».

Con la stessa uniforme fradicia entra nella sua tenda dettando ai segretari il 7° bollettino della Grande Armée: «In quindici giorni abbiamo compiuto una campagna: quanto ci eravamo proposti è concluso. Questa armata che con tanta ostentazione quanta imprudenza si era radunata attorno alle nostre frontiere è annientata. Sono caduti in nostro potere 200 pezzi d'artiglieria, 30 bandiere, tutti i generali. Soldati, io vi avevo annunciato una grande battaglia ma, grazie alle pessime decisioni del nemico, io ho potuto ottenere gli stessi successi senza correre alcun rischio; e, ciò che non ha precedenti nella storia delle nazioni, un così grande risultato non ci è costato più di 1500 uomini fuori combattimento».

In realtà, sa di aver vinto una battaglia ma anche che le riserve nemiche non sono affatto spossate. Marcia dunque su Vienna scompigliando lungo il cammino nuove forze austriache e l'avanguardia di un'armata russa al comando di Kutuzov mentre gli altri «torrenti» proseguono i movimenti

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previsti (Davout passa il Traun il 1° novembre e l'Enns il giorno 5 dopo aspri combattimenti). Qualche giorno prima, il 25 ottobre, lo zar Alessandro è stato ricevuto con solennità a Berlino da re Federico Guglielmo di Prussia e della regina Luisa, la vera sovrana che governa il paese. La Prussia ha mantenuto finora una neutralità ambigua, grazie alla sapienza diplomatica di Talleyrand, ma sta evolvendo verso l'ostilità; il suo ravvicinamento alla Russia e all'Austria è una grave minaccia per la Francia. Federico Guglielmo esita ancora, promette al giovane zar di schierarsi al suo fianco dopo che questi avrà inflitto i primi rovesci ai francesi. Alla vigilia di separarsi i due sovrani e la volitiva regina discendono nella cripta della cattedrale di Potsdam dove riposa il sonno eterno Federico il Grande: sulla sua tomba giurano eterna amicizia.

Qualche giorno prima ancora, il 20 ottobre, proprio mentre Ulma sta capitolando, un'altra drammatica pagina della storia europea si va svolgendo nelle acque di Capo Trafalgar, vicino allo Stretto di Gibilterra. L'ammiraglio Villeneuve, che dopo la deplorevole decisione di rifugiarsi a Cadice anziché raggiungere Brest sogna una rivincita, è ora uscito dal porto sicuro al comando della flotta franco-spagnola con 33 vascelli d'alto bordo. È atteso al largo da Nelson, che guida una flotta di consistenza all'incirca uguale. Ma sono diversi gli uomini.

Villeneuve non ha l'aggressività, la volontà di imporsi a qualunque costo, caratteristiche di Murat, di Lannes, di Ney e di tanti altri capi militari che concorrono nelle battaglie di terra a far grande il grande Napoleone. Né ha vicino l'imperatore che possa illuminarlo con le sue intuizioni geniali pur essendo notoriamente incompetente di battaglie sul mare. Non crede in se stesso. Questa sfiducia si è trasmessa ai suoi equipaggi, dai comandanti delle navi, che per questo sfiorano l'insubordinazione, alle ciurme avvilite.

Nelson, al contrario, è un marinaio nato. Mostra il moncherino del suo braccio mutilato e l'orbita vuota dell'occhio perduto contro il nemico con lo stesso orgoglio con cui le dame ostentano le proprie grazie, i più favolosi gioielli. Inoltre deve farsi perdonare con un «colpo grosso» la dissolutezza della sua vita privata (ha un «ménage a tre» con l'amante lady Emma Hamilton e il marito di lei, ambasciatore inglese a Napoli) e il fatto d'aver lasciato scappare più volte Napoleone e le sue flotte dalla maglia della propria rete gettata nel Mediterraneo. Ossia in quello che dopo la vittoria di Abukir è divenuto un mare inglese.

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L'eroe di Abukir è un idolo nazionale in attesa della prova d'appello. I suoi uomini lo adorano e si fidano completamente di lui. Sono più giovani dei francesi e addestrati a una tattica di combattimento rivoluzionaria, tutta impeto e assalti. Sanno che l'orco Napoleone può essere sconfitto soltanto o prevalentemente sul mare, l'elemento che al popolo inglese è familiare quanto la terra. Sanno che l'invasione della patria può essere evitata dominando i mari. Sanno che il comandante nemico non ruggisce. In definitiva, sono migliori dei nemici anche se provengono dalle prigioni o da leve coatte.

Nelson non appena avvistata la flotta franco-spagnola ha fatto suonare la banda sul ponte, terminato il pranzo con molti brindisi con i suoi ufficiali e fatto issare sul pennone della sua ammiraglia, la «Victory», questo segnale: «L'Inghilterra si attende che ogni uomo faccia il proprio dovere». Non c'è bisogno di ordini perché ognuno sa già quello che deve fare per il lungo, comune lavoro di preparazione, per l'esperienza accumulata, per la tradizione.

La flotta inglese anziché attaccare il nemico parallelamente, da fianco a fianco, secondo l'abitudine più diffusa, si dispone perpendicolarmente su due linee con l'intento di sfondare al centro per poi avvolgere i due tronconi separati in due cerchi di fuoco. I francesi ribattono dapprima colpo su colpo, tanto che per ore l'esito della battaglia sembra incerto. Alle 2 del pomeriggio i vascelli «Nettuno» e «Africa» abbordano gli spagnoli «S. Agostino» e «Santissima Trinità»; il «Conqueroro» affronta l'ammiraglia francese «Bucentauro» e il «Royal Sovereign» la «Sant'Anna». Lo scontro decisivo avviene tra i francesi «Forgueux», «Redoutable» e il «Temerary» appoggiato dall'ammiraglia «Victory».

Alle 17 Nelson, colpito da una fucilata che gli spezza la spina dorsale, ordina all'ammiraglio in seconda Collingwood di far allungare non appena possibile la formazione della flotta per prevenire i colpi della tempesta che s'annuncia. Raccomanda alla patria di aver cura «di lady Hamilton e di mia figlia Horatia». Prima di spirare ode l'esplosione assordante provocata da una nave nemica che, centrata in pieno, salta in aria.

L'ammiraglio spagnolo Gravina resta gravemente ferito a bordo della «Principe di Asturias». Alla resa dei conti, 17 vascelli franco-spagnoli vengono catturati e soltanto una decina di unità della possente squadra alleata riescono a tornare indenni a Cadice. Tutte le unità inglesi, più o meno danneggiate, mantengono il mare. Gli inglesi lamentano la perdita di

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450 marinai: non è molto per un trionfo così. La gioia è grandissima per la vittoria che ribadisce la supremazia sui mari e allontana o cancella, la minaccia dell'invasione. Ma il cordoglio per la morte di Nelson è altrettanto profondo, diffuso. «Non sappiamo», scrive il Times, «se dobbiamo dolerci o gioire. Il paese ha conseguito la più splendida e decisiva vittoria mai registrata dagli annali navali della Gran Bretagna, però è stata pagata a caro prezzo. Il grande e coraggioso Nelson non è più».

Pierre Villeneuve, di 41 anni (7 di meno di Nelson) è tra le migliaia di prigionieri trasportati in Inghilterra. L'ammiraglio sconfitto viene liberato sei mesi dopo. Giunto in Francia, anziché tornare a Parigi si ferma in un albergo di Rennes, capitale della Bretagna. «Ho raggiunto un punto nel quale la vita è una disgrazia e la morte un dovere», scrive alla moglie. Poi si uccide stoicamente con la spada che il vincitore gli aveva cavallerescamente restituito.

«Si è risparmiato il disonore della corte marziale» commenta Napoleone. Il progetto di invasione non viene ufficialmente soppresso ma accantonato a tempo indefinito. Commenta Stendhal: «Tutto ciò fallì perché non si trovarono dei Nelson nella nostra marina».

CAPITOLO XNEL PALAZZO IMPERIALE DI VIENNA

L'invasione dell'Inghilterra rimane un sogno per Napoleone come lo era stata la conquista dell'India per Alessandro Magno. L'imperatore tuttavia non perde tempo a piangere sulla sconfitta di Trafalgar. Dal 22 ottobre al 14 novembre discendendo il Danubio trascina i suoi uomini verso Vienna. «Avanti, avanti», ordina incessantemente e il magnifico Murat lo obbedisce sin troppo alla lettera gettandosi «a testa bassa» con la sua cavalleria contro la capitale austriaca mentre il grosso è ancora lontano. Accade così che il generale russo Kutuzov, al quale poco importa di difendere Vienna, faccia in tempo a ritirarsi con i suoi 40.000 uomini evitando una pericolosa battaglia e circondando a Dirstein il maresciallo Mortier, abbandonato con 5.000 soldati sulla riva sinistra del grande fiume. Mortier, impugnata la spada, combatte in prima linea con l'agilità di una recluta. «Non si lasci catturare», esortano i suoi aiutanti. «Si metta in salvo su di una barca». Risposta: «No, signori miei, non si può

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abbandonare gente così brava. Ci salviamo tutti oppure moriremo con loro».

«Impadronitevi a qualunque costo del ponte che attraversa il Danubio sotto le mura di Vienna», ordina Napoleone a Murat. Sono gli ordini prediletti perché il bel cavalleggero non sarà uno stratega geniale ma ama le imprese difficili se non impossibili. La rapida conquista del ponte intatto potrebbe consentire alla Grande Armée di riacchiappare Kutuzov. Ma l'importantissimo obiettivo è presidiato da 8.000 austriaci bene appostati con cannoni e decisi, in caso disperato, a far saltare tutto in aria con le mine.

Murat, spalleggiato da Lannes, altra faccia tosta, s'avvia a piedi verso il ponte con l'aria più pacifica del mondo. I due marescialli, seguiti dai loro generali, hanno i cappelli impennacchiati in mano, le uniformi sgargianti e sorridono con molta cordialità. I comandanti austriaci hanno un attimo d'esitazione nel comandare «Fuoco a volontà» contro i due pari di Francia, contro il disarmato plotone di «pezzi grossi». Murat si inchina e dice, mentendo spudoratamente: «Ma signori, non è più il caso che ci spariamo addosso. L'armistizio è già stato concordato». Ottiene così l'immediata sospensione delle ostilità da parte dei suoi ingenui avversari consentendo ai granatieri di Oudinot di impadronirsi di tutti i ponti di Vienna. La Grande Armée può gettarsi con rinnovato impegno all'inseguimento dei russi.

Napoleone I, imperatore dei francesi per volontà del suo popolo, la sera del 13 novembre dorme nella camera di Francesco II d'Asburgo-Lorena, imperatore del Sacro Romano impero per volontà divina (assicura lui). Dopo avergli portato via la capitale, lo stupendo castello imperiale di Schoenbrùnn («Fonte bella») che è la residenza estiva degli Asburgo e il letto grande come una piazza d'armi, si accinge a levargli per sempre il suo titolone storico facendolo retrocedere a Francesco I, anziché II, «semplice» imperatore ereditario d'Austria. Nei prossimi mesi gli farà perdere la Dalmazia, il Veneto, il Tirolo e altri possedimenti ereditari; e poi qualcosa come centomila chilometri quadrati di territori tedeschi e non tedeschi nonché l'accesso al mare. Infine lo costringerà a diventare suo alleato e suocero accordandogli la mano dell'adorata figlia Maria Luisa.

Nel frattempo Napoleone il persecutore si concede un lungo bagno caldo e qualche ora di sonno ristoratore nelle stanze imperiali che furono della grande Maria Teresa; il mattino dopo di buon'ora passeggia nel parco

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superbo (120 ettari) che si estende nel retro del castello. Al ritorno detta una serie di lettere ai segretari che si alternano 24 ore su 24 a sua disposizione, in qualunque momento e in qualunque luogo compresa la stanza da bagno o la sella del cavallo. A Giuseppina: «Mi sono affaticato più del necessario. Per una settimana sono stato sempre bagnato fino alle ossa e con i piedi gelati». A Talleyrand, l'astuta volpe della diplomazia che sta intessendo la rete delle trattative: «Ho raggiunto il mio scopo, ho annientato l'esercito austriaco semplicemente con le marce. Ora mi rivolgerò contro i russi». Al suo perseguitato, il «povero» imperatore Francesco: «Sua Maestà comprenderà che è giusto ch'io mi valga della fortuna favorevole ed esiga una garanzia contro una quarta coalizione promossa dall'Inghilterra. Sarei sempre felice di poter conciliare la sicurezza dei miei popoli con la Sua amicizia, alla quale, nonostante il numero e la potenza dei miei nemici che la circondano, io chiedo di poter ancora aspirare». La solita doccia scozzese delle minacce e delle adulazioni.

Balza poi a cavallo per andare a prendere, con la spontaneità di un gesto dovuto, le chiavi di Vienna, che l'arcivescovo, la municipalità e tutte le autorità civili sono venute a consegnargli sopra un cuscino di velluto scarlatto. S'accorge che non pochi dei suoi reparti sembrano formati da soldatacci campagnoli, improvvisati perché i fornitori non hanno fatto in tempo a fabbricare le scarpe, le uniformi e l'equipaggiamento completo per tutti i duecentomila soldati della Grande Armée. Marciano a fianco a fianco, lungo le vie della città che prima d'ora non era mai stata violata dallo straniero, dei soldati con le uniformi perfette e dei loro camerati che hanno giacca e cappello da cacciatore, pantaloni pieni di rattoppi e pezze ai piedi al posto degli stivali. Gli uni e gli altri sono carichi di bottiglie di vino, di salumi, di formaggi arraffati nelle campagne prima di Vienna e ora destinati ai festeggiamenti della vittoria.

Napoleone, che non vuole sfigurare, il giorno seguente fa sfilare lungo le vie del centro, fanfare in testa, novemila uomini della sua Guardia tirati a lucido dai baffi alle calzature, galloni e medaglie, tutto un brillìo di else e di bottoni d'ottone, di spalline e di gradi. Vienna è per popolazione la terza città d'Europa con i suoi trecentomila abitanti, dopo Londra (quasi un milione) e Parigi (oltre mezzo). La popolazione viennese, gaudente, un po' cinica, accoglie nel complesso piuttosto bene gli invasori e in qualche caso benissimo: le donne, giovani e meno, prostitute e signore dabbene,

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intrecciano rapidi amori imparando a cantare La marsigliese.Napoleone non partecipa alla generale allegria. Controlla gli eventi

bellici che si susseguono con rapide sequenze sui vari scacchieri. Kutuzov, orbato d'un occhio in battaglia come Nelson, grasso, sessantenne, dietro l'apparenza bonaria è un generale abilissimo. Con veloci manovre riesce a sottrarsi all'inseguimento della scatenata cavalleria di Murat per due volte, a Krems e a Hollabrùnn. Raggiunto dal suo zar, che guida dei rinforzi, rappresenta adesso una grave minaccia a nord.

In Italia l'arciduca Carlo, la cui abilità militare ingelosisce l'imperatore suo fratello, ha conseguito a Caldiero, vicino a Verona, una «quasi» vittoria contro Massena che è riuscito a stento a contenerlo. Ney nel Tirolo ha avuto il suo bel da fare contro l'armata dell'arciduca Giovanni; impadronitosi di Innsbruck, ha ritrovato delle bandiere francesi perdute nel corso delle battaglie precedenti e le ha restituite con grande solennità al 76° reggimento di linea.

Il «Piccolo caporale» di Lodi è al crocevia dei «sette torrenti». Percorre a cavallo la pianura della Moravia alla ricerca del terreno adatto per attirare le forze russe e austriache congiunte in una grande battaglia, per annientare la trappola gigantesca formata dall'Europa intera e le cui fauci spalancate sembrano sul punto di rinchiudersi sopra di lui. Ha trentasei anni, da uno appena è stato consacrato imperatore. Attorno a lui e nei salotti di Parigi si mormora che la corona abbia logorato il suo genio, che Napoleone I non uguaglierà sul campo di battaglia il generale Bonaparte. C'è chi assicura che più di lui saranno bravi gli altri due imperatori, questi per diritto ereditario, che gli sono di fronte. Alla vigilia della battaglia nessuno immagina che egli stia per diventare, con la battaglia di Austerlitz, il più grande comandante d'eserciti della storia.

Gli esperti delle generazioni future gli riconosceranno: come tattico, un contributo originale nell'uso dell'artiglieria davanti e non dietro le proprie truppe; e come stratega, un'insuperabile maestria per la velocità, la vastità e il coordinamento delle sue operazioni. Un carisma personale assolutamente straordinario: la sua presenza sul campo di battaglia equivale a una forza di 40.000 uomini (la definizione è del suo vincitore, Wellington).

CAPITOLO XIIL SOLE DI AUSTERLITZ

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Napoleone ha deciso: si farà attaccare vicino a Austerlitz, villaggio della Moravia sul fiume Littava. È una zona collinosa, striata da piccoli corsi d'acqua e stagni gelati, dominata dall'altopiano di Pratzen. Come uno schermidore che invita l'avversario all'attacco fingendo di avere la guardia abbassata egli sguarnisce l'altopiano offrendo la bella posizione al nemico. Schiera un debole fianco destro nel proprio schieramento. Debole perché il nemico sia indotto a sferrare l'attacco sull'altopiano l'attacco principale sguarnendo gli altri settori e con l'obiettivo di aggirare i francesi sulla loro destra tagliando poi la via della ritirata su Vienna. Se il nemico si lascia attirare dall'esca, l'imperatore ha pronte le truppe, nascoste dietro l'altura chiamata Zurlan, da scagliare contro il centro avversario sguarnito dividendo così l'esercito austro-russo in due tronconi principali, ciascuno dei quali da avvolgere e annientare.

La finta è talmente indovinata da ingannare perfino due marescialli francesi, Lannes e Soult, che litigano e si sfidano a duello dopo aver discusso sulla necessità di consigliare all'imperatore di arretrare il fianco destro troppo allungato, sottile. Napoleone ha 67.000 uomini e attende dalla capitale austriaca il III Corpo di Davout con altri 6.600 soldati. Questi arrivano sfiniti dopo una lunga marcia, con le scarpe a pezzi e i piedi sanguinanti: è il giorno 1° dicembre, vigilia di quella che passerà alla storia come «la battaglia dei tre imperatori» (Napoleone contro lo Zar e Francesco d'Asburgo). Le truppe austro-russe al comando di Kutuzov hanno la superiorità numerica: 85.400 uomini.

I francesi si riparano dal gelo costruendo delle capanne di legno e paglia; tentano di combattere i morsi della fame con delle razzie nelle campagne circostanti. Napoleone mentre ispeziona l'accampamento interviene a sedare una rissa esplosa sotto i suoi occhi tra due reparti di granatieri, uno a piedi e l'altro a cavallo, sul possesso di dodici maiali vivi appena razziati. «Dividete a metà», sentenzia: i maiali vengono uccisi all'istante, appesi a rosolare sul fuoco e mangiati. Si distribuisce, con apprezzata generosità, molta acquavite alla truppa; agli ufficiali, vino tocai da botti enormi. Nonostante i disagi, il morale è alto perché si pensa che quella di domani sarà l'ultima battaglia: dopo la vittoria, si potrà finalmente mangiare i viveri del nemico, riposare e far baldoria.

Napoleone è così sicuro di sé da illustrare il suo piano alla truppa prima del riposo notturno. «Soldati», proclama, «l'esercito russo si erge contro di

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voi per vendicare l'esercito austriaco di Ulma. Sono gli stessi battaglioni che avete schiacciati presso Hollabrùn e che poi avete senza posa inseguiti fin qui. Le posizioni che occupiamo sono formidabili, e mentre essi saliranno per prendere la nostra destra, mi presenteranno il fianco. Soldati! Io stesso guiderò i vostri battaglioni. Mi terrò lontano dal fuoco se voi, col vostro coraggio abituale, porterete nei ranghi del nemico il disordine e lo scompiglio. Ma se la vittoria fosse incerta, non fosse che per un momento, vedreste il vostro imperatore esporsi ai primi colpi del nemico, poiché non può esservi incertezza nella vittoria, specialmente in questo giorno in cui si tratta dell'onore della fanteria francese, così necessario per l'onore della nazione. Non si rompano i ranghi col pretesto di portar via i feriti! Ciascuno sia penetrato dall'idea che bisogna vincere questi mercenari dell'Inghilterra, animati da tanto odio verso la nostra nazione. Questa vittoria porrà fine alla nostra campagna, e noi potremo tornare ai nostri quartieri d'inverno, dove ci aspetteranno le nuove truppe francesi che ora si formano in Francia; e allora la pace che io concluderò sarà degna del mio popolo, di voi e di me».

Vuole recarsi un'altra volta, durante la notte, a osservare l'accampamento nemico per accertarsi che tutto si svolga secondo le sue previsioni. Nel bel mezzo dell'audace ricognizione tra le linee avanzate incappa, nel buio, proprio contro una pattuglia avanzata cosacca, che cerca di bloccarlo, di ucciderlo. Si salva ritirandosi al galoppo sotto la protezione delle poche guide di scorta. Svegliati dalle grida concitate, dai rumori, i soldati francesi più vicini accendono delle torce di paglia per rischiarire l'oscurità e vedere chi sia la causa di tanto fracasso. La nota sagoma che emerge dalla notte al chiarore tremolante delle fiaccole è subito riconosciuta. Sale spontaneo il grido «Viva l'imperatore»: domani è il primo anniversario della sua consacrazione in Nòtre Dame. Di bivacco in bivacco, tutti capiscono. Ora la notte è punteggiata di fuochi levati in alto e di grida «Viva l'imperatore». Un sovrano che è uno di loro, soldato tra i soldati, che veglia e prepara la vittoria.

Nell'accampamento di fronte il nemico ode le grida indistintamente, osserva da lontano i puntini luminosi delle fiaccole e crede che i francesi stiano ritirandosi dopo aver accertato la loro manifestata inferiorità. Qui non vegliano né l'imperatore né lo zar, per i quali la battaglia è un lavoro da lasciar svolgere ai generali e i soldati sono come oggetti da usare quando servono ma che al di fuori della lotta non hanno anima e non

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hanno volto.Qui vegliano fino all'una i generali alleati per ascoltare il piano elaborato

dal capo di stato maggiore austriaco Weyrother. Ecco il racconto di un testimone, il generale Langeron: «Quando finalmente eravamo tutti riuniti, il generale Weyrother arrivò, spiegò su un grande tavolo una grandissima ed accurata carta dei dintorni di Brùnn e Austerlitz, e ci lesse le disposizioni a voce alta con un'aria molto soddisfatta che indicava una profonda convinzione dei suoi meriti personali ed una altrettanto profonda convinzione della nostra incapacità. Assomigliava più a un insegnante di scuola che fa lezione a dei giovani scolari. Kutuzov, seduto e sonnecchiante al nostro arrivo, cadde in un vero e proprio sonnellino prima della nostra partenza. Tra tutti i generali, soltanto Doctorov esaminò le carte con attenzione». Per la verità: Kutuzov sonnecchiava perché era ubriaco.

I movimenti delle truppe russo-austriache cominciano prima dell'alba. Scrive Lev Tolstoi in Guerra e pace: «Alle cinque di mattina era ancora completamente buio. Le truppe del centro, la riserva e l'ala destra di Bagration stavano ancora immobili. Ma all'ala sinistra, le colonne di fanteria, di cavalleria e d'artiglieria, che dovevano scendere per prime dalle posizioni alte per attaccare l'ala destra dei francesi e respingerli, secondo il piano, nelle montagne di Boemia, si agitavano già, e cominciavano i loro preparativi. Il fumo dei fuochi, nei quali avevano buttato tutto quello che era ingombrante, faceva bruciar gli occhi. Faceva freddo ed era buio. Gli ufficiali, in fretta, bevevano il tè e facevano colazione. I soldati masticavano la galletta, battevano le mani per scaldarsi... La nebbia era così fitta che, malgrado il sorgere del giorno, non si vedeva a dieci passi di distanza. I cespugli sembravano alberi enormi, i luoghi in piano, burroni e pendii. Dovunque, da tutte le parti, si poteva urtare contro un nemico invisibile a dieci passi. Le colonne marciarono a lungo, sempre nella stessa nebbia, scendendo e salendo colline, attraversando giardini, orti, in un paese nuovo, sconosciuto, ma senza incontrare mai il nemico. Al contrario, ora avanti, ora dietro, da tutte le parti, i soldati vedevano altre colonne russe che seguivano la stessa direzione».

L'attuazione del piano di Weyrother provoca la suddivisione delle truppe alleate in sette parti: 60.000 uomini partecipano all'attacco principale contro il fianco destro francese al comando del generale Buxhowden sguarnendo il centro del proprio schieramento quasi completamente.

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Napoleone segue l'inizio della battaglia stando sull'altura detta Zurlan. Alle 8 tra la nebbia che un sole rosso non riesce a perforare, intravvede un fiume di baionette russe discendere dall'altopiano di Pratzen. Comanda allora a Soult di iniziare la marcia verso il centro dell'altopiano, in corrispondenza del centro dello schieramento nemico. Quando Kutuzov comprende il significato di questa manovra, arresta le truppe vicine a lui, inverte la direzione di marcia e accorre in aiuto del settore minacciato. Ma ormai è troppo tardi per richiamare qui rinforzi in misura adeguata al pericolo. Gli austro-russi, insomma, non riescono a manovrare con la stessa rapidità con la quale il «Piccolo caporale» è solito far fronte agli imprevisti inevitabili in una battaglia.

Napoleone prosegue la partita a scacchi mandando Bernadotte in appoggio a Soult verso sinistra e più all'estremo Murat, Caffarelli, Lannes, Suchet. Murat trascina tremila cavalieri a inserirsi come un cuneo terribile, vivente, dentro il fianco nemico contribuendo alla manovra complessiva di isolare l'ala destra di Bagration dal resto delle forze. Mentre sulla destra francese 8.000 fanti e 2.800 cavalleggeri sostengono una durissima battaglia difensiva, di logoramento, contro 35.000 soldati alleati.

A mezzogiorno, Soult è in possesso del Pratzen proprio nel cuore dello schieramento nemico; a destra, Davout è riuscito, con l'aiuto di Oudinot, a bloccare la fiumana nemica; a sinistra, si va completando l'azione di isolamento di Bagration. Ora il sole s'innalza sconfiggendo finalmente la nebbia: una nuova massa d'urto travolge l'ormai inesistente centro austro-russo accerchiando da tre direzioni le truppe di Buxhowden.

Alle tre del pomeriggio Bagration si disimpegna e batte in ritirata ordinatamente, con le forze quasi intatte. Rotta clamorosa, invece, per Buxhowden, che ha sopportato il peso maggiore della battaglia dapprima all'attacco e poi, a sua volta attaccato, nell'intento di sfuggire all'accerchiamento. Cinquemila dei suoi uomini cercano di salvarsi fuggendo attraverso gli stagni ghiacciati: Napoleone fa accorrere una batteria, cannoneggia e sfonda il ghiaccio facendo precipitare dentro l'acqua gelata cavalli, cavalieri e artiglieria nemica.

Alle 5, tramontato il sole di Austerlitz, col cessate il fuoco si traccia il bilancio della giornata. Le perdite nemiche: 11.000 russi e 4.000 austriaci uccisi, altri 12.000 soldati alleati catturati insieme con 180 cannoni, 50 bandiere, ingenti depositi di viveri e munizioni. Perdite francesi: 1.305 morti, 6.940 feriti, 573 prigionieri.

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Per la prima volta un cervello unico ha organizzato, pianificato e guidato sul campo una campagna militare che ha la più brillante delle conclusioni in questa giornata indimenticabile. «Ho battuto l'armata austro-russa comandata da due imperatori», scrive Napoleone a Giuseppina. «Sono un po' stanco. Mi sono accampato all'aperto per otto giorni e altrettante fredde notti. Domani potrò riposarmi nel castello del principe Kaunitz, e dovrei poter dormire due o tre ore. L'esercito russo non è soltanto battuto, ma è anche distrutto. Ti abbraccio». Dice ai prigionieri della Guardia dello Zar: «Molte nobili Signore di Pietroburgo piangeranno per questo giorno». Più retorico il messaggio alle truppe: «Soldati, sono contento di voi. ...Date il mio nome ai vostri figli, ve lo permetto; e se uno di loro si dimostrerà degno, gli voglio lasciare la mia eredità e proclamarlo mio successore». Conclusione: «Il mio popolo vi rivedrà con gioia e basterà dire: 'Ero alla battaglia di Austerlitz' perché vi risponda: «Ecco un valoroso». Conclude con un attacco alla Gran Bretagna, il nemico che non vuole venire a patti: «Che tutto il sangue qui sparso, che tutte queste sfortune ricadano sui perfidi isolani che li hanno causati! Che i codardi oligarchi di Londra sopportino le conseguenze di tanti strazi».

Annuncia di adottare formalmente tutti i bambini resi orfani dalla battaglia concedendo loro il permesso di aggiungere Napoleone ai nomi di battesimo. Alle vedove destina delle sostanziose pensioni. Fa distribuire due milioni di franchi oro tra gli ufficiali di grado più elevato.

L'indomani l'imperatore Francesco chiede di parlargli. La richiesta lo raggiunge mentre è già in trasferimento. Napoleone riceve il suo coetaneo Francesco strada facendo, in un mulino a vento. «L'imperatore chiese di parlarmi», riferisce a Talleyrand, «e io lo ricevetti; l'incontro durò dalle 2 alle 4 del pomeriggio. Vi dirò quello che penso di lui quando vi vedrò. Voleva concludere la pace subito. Fece appello ai miei sentimenti. Mi difesi, un tipo di schermaglia che, vi assicuro, non mi riuscì affatto difficile. Mi chiese un armistizio e io glielo accordai... Deve informare gli austriaci che la battaglia ha cambiato la situazione e che ora essi devono attendersi condizioni più dure; dica soprattutto che mi sono lamentato del loro comportamento sleale, giacché mi mandarono negoziati nel giorno in cui intendevano attaccarmi per farmi abbassare la guardia».

Il 26 dicembre con la firma del Trattato di Presburgo l'Austria sparisce dall'Italia e cede al re di Baviera il Tirolo, Voralberg, altri possedimenti alpini; la Svezia, inaudito, viene data al duca di Wuerttemberg.

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CAPITOLO XIIL'AMANTE PREDILETTA

Quella che durante la radiosa giornata di Austerlitz ha dato una dimostrazione molto convincente delle sue sbalorditive capacità è la macchina bellica che Napoleone si è costruito su misura nell'intento di imporre la propria volontà su tutta l'Europa. La Grande Armée fondata ufficialmente a Boulogne nel 1803 è nata in realtà l'anno prima come armata d'Inghilterra e rimane attiva fino al 1815. Ha una consistenza con punte fino a un milione di uomini sotto le armi contemporaneamente, media variabile da 200.000 a 500.000 (campagna di Russia). Viene fatta, decimata o sciolta e rifatta più volte. Nell'arco di tredici anni servono via via sotto le sue bandiere 1.600.000 francesi oltre ai numerosi, nutriti contingenti di alleati stranieri che se agli inizi rappresentano soltanto dal 10 al 20 per cento delle truppe totali col trascorrere del tempo diventano la parte più consistente. I francesi sono tutti soldati di leva di età, stabilita da Carnot, da 20 a 25 anni.

Su un totale di circa tre milioni di uomini, alla fine dei conti i morti o dispersi risulteranno un milione; e i feriti, compresi quelli poi deceduti in seguito alle lesioni riportate in battaglia, circa due milioni. Significa che dei soldati di Napoleone uno su tre era destinato a morire per cause di guerra e appena uno su tre sarebbe tornato a casa incolume.

I dati relativi alla campagna di Russia sono un esempio a questo proposito illuminante: su 450.000 arruolati per questa impresa, di cui appena 125.000 francesi, 400.000 attraversano effettivamente il Niemen diretti a est. Ne torneranno indietro soltanto 20.000, forse meno; 280.000 risultano morti di ferite, di gelo, di malattie varie; 100.000 figurano in mano ai russi, e anche non pochi di costoro non rivedranno mai più le loro famiglie.

Eppure, diventare un veterano della Grande Armée è un sogno per buona parte della migliore gioventù europea. I veterani o grognards, brontoloni, come l'imperatore chiamava i suoi soldati, avevano un prestigio destinato a sopravvivere alla loro morte, fino alle generazioni successive.

Napoleone usa la Grande Armée per i propri fini ma la ama con dedizione e sopporta per lei qualunque sacrificio: marce estenuanti al suo fianco sotto la pioggia, neve, veglie, pericoli mortali. Più che uno

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strumento, la considera un'amante per la quale nessuna attenzione è eccessiva.

La Grande Armée nasce a Boulogne durante il periodo consolare alloggiata dapprima nelle tende, come avveniva fin dai tempi antichi per ogni campo militare, e poi in baracche costruite apposta dimezzando boschi e foreste. Quattro chilometri di costruzioni con viali dedicati ai nomi delle vittorie, con prati, fontane e, ai margini, le osterie in cui trascorrere allegramente le ore di libera uscita. Ogni baracca accoglie una quindicina di soldati, che dormono uno accanto all'altro sopra il tavolaccio rialzato verso la testa e ricoperto da un soffice strato di paglia. Pulizia accurata dentro e fuori. Molti soldati sono analfabeti, provengono da famiglie di contadini o di lavoratori urbani miserabili e hanno più comodità qui che a casa loro.

Riferiscono i giornalisti del Moniteur dopo le prime visite: «Viali alberati, cespugli di verde, tappeti di prato, magnifici giardini, aiuole accuratamente tenute aggiungevano un grazioso aspetto ai campi. Sorgenti di acqua limpida procuravano una bevanda sana ai soldati e servivano allo stesso tempo all'irrigazione dei giardini. Le abitazioni dei comandanti rivaleggiavano in eleganza con le case di categorie sociali ben più ricche». Rancio tre volte al giorno: alle 7, alle 11,30 e alle 18. Carne quattro volte alla settimana, alternata con formaggi e verdure; di sera, riso o fagioli, verdure; 180 grammi di biscotti e 250 di pane ogni giorno. Birra leggera, un litro di acquavite ogni baracca (ma non sempre). Soldo giornaliero: da 0,45 a 0,62 centesimi per la recluta, fino a 0,96 per il caporale; da 0,87 a 1,23 per il sergente. Stipendio mensile per gli ufficiali: subalterni: 125 franchi al sottotenente, 233 al capitano; superiori: da 300 franchi per i maggiori a 562 per i colonnelli; generali: 833 di brigata, 1.250 di divisione, 3.000 per l'intendente e il comandante in capo dell'Armée; 3.333 per i marescialli di Francia.

Soprassoldi, premi, compensi speciali durante le campagne e soprattutto in occasione di qualche brillante vittoria. Spesso, dopo la battaglia, l'imperatore in persona senza attendere i rapporti dei generali passa rapidamente in rassegna i reparti. «Quali sono i soldati più valorosi della giornata?», chiede ai Comandanti di reggimento. I prescelti fanno un passo avanti ricevendo all'istante le Legioni d'onore e talvolta anche la promozione a ufficiale.

Sia al campo sia durante le campagne l'Armée ha al seguito migliaia di

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donne, anche oneste, come inservienti e vivandiere, e un numero molto più elevato di prostitute: queste ultime, unite a quelle trovate nei paesi conquistati, formano un autentico esercito che falcidia l'Armée talvolta più del nemico arrecando il contagio delle malattie veneree e l'indisciplina. Nemmeno Napoleone riesce a contenere questo flagello. Del resto, le donne sono non di rado protagoniste di episodi eroici andando spontaneamente in soccorso dei feriti, dei malati, dei combattenti rimasti senza viveri o con le scorte di munizioni esaurite.

La fanteria, che rappresenta il grosso, combatte col fucile d'ordinanza a pietra focaia modello 1777 (e successive modifiche), lungo un metro e mezzo, pesante oltre quattro chili; calibro 17,5 millimetri. Spara palle di piombo pesanti ognuna 29 grammi; tiro preciso: fino a 200 metri, utile: fino a 500. Il fante per caricare l'arma deve compiere una serie di operazioni che richiedono circa 2 minuti. Durante il combattimento i reparti sono divisi su tre righe: la prima spara stando in ginocchio, la seconda in piedi, la terza riceve i fucili che hanno appena sparato, per ricaricarli, dando intanto ai compagni i propri già pronti. Si avanza non in formazione di parata o a intervalli regolari secondo le rigide formazioni prussiane ma sfruttando il terreno per proteggersi. L'assalto finale avviene spesso con la baionetta, lunga 56 centimetri e con lama triangolare, inastata alla sommità della canna.

I cavalleggeri caricano a velocità non elevate (17 chilometri all'ora) ma con molta determinazione sull'esempio di splendidi comandanti da Murat a Lannes. Caricano tenendo in avanti le sciabole dalle lame diritte o ricurve, secondo i reparti, e hanno tutti delle armi da fuoco, due pistole oppure il moschetto o la carabina.

L'artiglieria è suddivisa principalmente nelle specialità a piedi e a cavallo. Cannoni da 4 da 8 e da 12 libbre (una libbra: chilogrammi 0,409), secondo il peso del proietto lanciato: una palla piena di ghisa; contro il nemico a distanza ravvicinata si ordina il tiro a mitraglia (lancio di scatole di latta o di cartone, a forma cilindrica, contenenti piccole palle di piombo frammiste a rottami di ferro). L'artiglieria pesante ha in dotazione anche gli obici da 24 libbre, che sparano granate (pallette di piombo e polvere da sparo).

Ecco l'opinione di Napoleone sulla sua arma di provenienza (dall'opera Le memorial de Sainte Helene di Las Cases): «L'imperatore ha parlato a lungo sull'artiglieria. Avrebbe desiderato maggiore uniformità nei pezzi e

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una minore suddivisione. Il generale era sovente incapace di giudicare del loro migliore impiego, e nulla poteva superare i vantaggi dell'uniformità in tutti gli strumenti e in tutti gli accessori. A suo avviso, il difetto è che, generalmente, l'artiglieria non spara abbastanza in una battaglia. Per principio, in guerra non si deve fare risparmio di munizioni: se esse scarseggiano, è un'eccezione; ma all'infuori di questo caso si deve sempre sparare. Egli, che ha sovente rischiato di morire a causa di un proiettile sperduto, che sapeva quali conseguenze questo avrebbe potuto avere per la sorte di una battaglia e di una campagna, era del parere di tirare sempre, senza posa, senza calcolare la spesa dei proiettili. Inoltre, diceva che se avesse voluto tenersi lontano dalla zona del pericolo, si sarebbe messo a trecento tese1 [1 Una tesa corrisponde a metri 1,949.] anziché a ottocento: alla prima distanza i proiettili passano spesso al di sopra delle teste; alla seconda, tutti devono per forza cadere da qualche parte. Ha detto che non si poteva mai persuadere gli artiglieri a tirare sul grosso della fanteria se essi stessi si trovavano attaccati dalla batteria avversaria. Ciò proveniva, ha detto scherzando, da una viltà naturale, da un violento istinto della propria conservazione. Un artigliere che erra fra noi, ha protestato a una simile affermazione. «Tuttavia è proprio così», ha continuato l'imperatore, «voi vi mettete subito in guardia contro chi vi attacca, e cercate di distruggerlo perché non sia lui a distruggere voi. Sovente cessate il fuoco perché egli a sua volta vi lasci in pace, e torni alle masse della fanteria, che, fra l'altro hanno ben poco peso nella battaglia». L'imperatore ricordava spesso il corpo dell'artiglieria della sua infanzia, che diceva essere il migliore e il meglio assortito d'Europa; un insieme familiare comandato da capi assolutamente paterni, i più coraggiosi, i più degni soldati del mondo, puri come l'oro; troppo vecchi forse perché la pace era stata lunga. I giovani ne ridevano per la sola ragione che il sarcasmo e l'ironia erano di moda in quel tempo; ma li adoravano per i loro meriti».

A una signora che gli chiede un giorno quali sono le truppe migliori, Napoleone risponde: «Quelle che vincono le battaglie. Le truppe sono capricciose e mutevoli come voi, signore. I migliori soldati sono stati i cartaginesi sotto Annibale, i romani sotto gli Scipioni, i macedoni sotto Alessandro, i prussiani sotto Federico. Tuttavia posso affermare che i francesi sono i soldati più facili da far diventare e mantenere migliori. Con la mia Guardia completa di quaranta o cinquantamila uomini mi sarei sentito tanto forte da attraversare tutta l'Europa».

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La Guardia è infatti la passione di Napoleone. Creata nel periodo del Direttorio, questo Corpo diventa consolare e poi imperiale. All'epoca di Austerlitz è composto di 7500 uomini di ogni specialità: fanti con il berretto di pelo, cacciatori a piedi, granatieri a cavallo, artiglieri a cavallo, genieri, cavalleggeri, perfino un battaglione di marinai e una compagnia di mamelucchi arruolati al Cairo. L'élite di questo Corpo speciale è rappresentata dai granatieri, che devono essere alti non meno di metri 1,80; avere dieci anni di servizio già prestato e note caratteristiche eccellenti; tutti con basette tagliate in avanti, baffi lunghi, capelli legati a coda. Essere granatiere equivale al grado e alla paga del sergente.

La divisa della Guardia: giacca blu con risvolti sulle code scarlatti, panciotto e pantaloni bianchi, buffetterie di bufalo bianco, fucile di modello particolare con incastonature di ottone. Gli ufficiali indossano uniformi di gala dai risvolti ricamati con fili d'oro. «La Guardia muore e non si arrende»: è la sua filosofia. In realtà, è a disposizione dell'imperatore che la usa soltanto durante imprevisti o se le cose si mettono male. Quando il bollettino riferisce che in occasione di una battaglia la Guardia non è intervenuta, significa che tutto è andato secondo i piani, senza intoppi. I suoi soldati per tanti privilegi sono odiati dai camerati, dai quali vengono definiti «Immortali»: non è un elogio ma il desiderio... di vederne morire un numero superiore a quanto in realtà avviene.

Secondo la definizione classica di von Clausewitz, la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi; ossia, quando i rapporti tra Stati si guastano e non sono più sufficienti le arti della diplomazia. E le guerre sono fatte di battaglie ciascuna delle quali «è un'azione drammatica che ha il suo inizio, il suo svolgimento e la sua fine», dice Napoleone. «L'ordine per la battaglia che prendono le due armate e i primi movimenti fatti per scontrarsi costituiscono l'esposizione, i contromovimenti che l'armata attaccata fa prendono il nome di nodo; quest'ultimo obbliga a nuove disposizioni e porta alla crisi da cui nasce il risultato o la conclusione».

La battaglia è un'azione drammatica: Napoleone premia o punisce gli attori teatralmente. Dopo il cessate il fuoco può dire a un soldato che ha visto distinguersi o del cui eroismo è stato informato: «Ti nomino tenente, barone dell'impero con un appannaggio di quattromila franchi di rendita». Può essere la fortuna, l'avanzamento sociale di un'intera famiglia e dei

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discendenti.Le punizioni. Ad Austerlitz il 4° reggimento di fanteria di linea della

divisione Vandamme, travolto, atterrito nel bel mezzo della battaglia da una carica irresistibile della Guardia dello zar, si è sbandato, si è lasciato strappare un'insegna dai terribili nemici, è fuggito a rotta di collo senza capire più nulla rischiando di travolgere Napoleone stesso sull'alto del suo osservatorio. Uno stato collettivo di choc.

Napoleone non dimentica l'episodio, forse l'unico neo tra tanto splendore. Al ritorno a Vienna passando in rivista il Corpo di Soult spinge il cavallo tra questi soldati e urla: «Dov'è la vostra aquila? Siete il solo reggimento dell'armata francese al quale posso fare questa domanda. Preferirei aver perduto il mio braccio sinistro che una delle mie aquile. Verrà portata in trionfo a Pietroburgo e fra cento anni i russi la mostreranno con orgoglio». I soldati del 4°, strapazzati al cospetto dei Camerati, impietriscono. Chi ha le lacrime agli occhi, chi inizia a disperarsi. «Bisogna che alla prima occasione», conclude Napoleone con voce ritornata normale, «mi portiate almeno quattro bandiere nemiche. E allora vedrò se ridare al vostro reggimento la sua aquila».

Il dramma della battaglia coinvolge, oltre a chi la combatte, le popolazioni inermi. È il caso, per esempio, dei saccheggi. L'imperatore parla un giorno del sacco di Pavia da lui stesso ordinato contro la città ribelle: «Avevo soltanto mille e duecento uomini, e le grida della popolazione che giungevano fino a me ebbero il sopravvento. Feci cessare il saccheggio dopo appena tre delle ventiquattro ore che avevo previsto per punizione. Se i soldati fossero stati ventimila, il loro numero, al contrario, avrebbe soffocato i lamenti della popolazione e nulla sarebbe giunto al mio orecchio. Del resto, la politica per buona parte va perfettamente d'accordo con la morale quando condanna il saccheggio. Ho molto meditato su questo argomento; sono stato messo sovente nella necessità di gratificare i miei soldati; e l'avrei fatto se vi avessi trovato dei vantaggi. Ma nulla serve maggiormente a disorganizzare e a rovinare completamente un esercito. Un soldato non sente più disciplina se può darsi al saccheggio: e se saccheggiando si arricchisce, diventa subito un cattivo soldato e rifiuta di combattere. D'altra parte, il saccheggio non è nel costume francese; il cuore dei nostri uomini non è malvagio; passato il primo momento di furore, egli ritorna in sé. Sarebbe impossibile per un soldato francese saccheggiare per ventiquattro ore di seguito; molti di essi impiegherebbero

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gli ultimi istanti a riparare il male commesso prima. Nelle loro camerate, spesso si rimproverano vicendevolmente gli eccessi compiuti, rimproverano e disprezzano quelli di loro le cui azioni sono state troppo infami».

Napoleone non trascura il grave problema del soccorso ai feriti. Prima della battaglia di Austerlitz vieta ai soldati di fermarsi durante l'attacco per aiutare chi cade e si lamenta. Dopo il cessate il fuoco, percorrendo il teatro dell'«azione drammatica» raccomanda agli ufficiali del seguito di conservare il silenzio «affinché sia possibile udire meglio il lamento dei feriti» per individuarli e prestare loro, finalmente, qualche cura.

Sui campi di battaglia non ci sono in genere portaferiti. I feriti devono trascinarsi da soli, quando e se possono, verso il luogo di soccorso più vicino (ambulanza o casa privata che sia) oppure attendere la pietà dei compagni. Non pochi muoiono proprio per la mancanza o la non tempestività dei soccorsi e quindi delle cure ricevute. Ci sono delle «ambulanze d'avanguardia» con materiale per medicazioni e con una cassa di ferri per amputare o trapanare. Ma questo materiale è del tutto insufficiente quando lo scontro è cruento.

I capi chirurghi della Grande Armée sono Dominique Larrey, che segue Napoleone fin dai tempi delle avventure in Corsica e della spedizione in Egitto, e Pierre-François Percy, abituato a esporsi al fuoco al punto da restare a sua volta ferito per tre volte. Questi ha adattato dei carri portamunizioni, grossi e lenti, a «ambulanze volanti» (in realtà lentissime ma preziose lo stesso) in grado di trasportare ciascuna fino a 8 chirurghi con 8 aiutanti e materiale sanitario. Ha anche l'idea di apporre dei contrassegni, uguali per tutti i combattenti, sugli ospedali e sulle ambulanze dei soldati malati o feriti. Vorrebbe renderli neutrali. Ma il suo progetto, per ora, rimane tale: soltanto tra mezzo secolo sorgerà un movimento organico per la creazione di un organismo internazionale detto Croce rossa.

Napoleone dal suo quartier generale in perenne movimento durante le campagne militari deve governare non soltanto la Grande Armée, come qualunque altro condottiero, ma anche la Francia e l'impero. Ha qui con sé 400 ufficiali e 5.000 soldati suddivisi in tre settori: la Maison, la Casa, ossia il suo stato maggiore personale; lo stato maggiore generale dell'armata al comando diretto di Berthier e il comando del commissariato per i rifornimenti dell'esercito (acquisto, trasporto, distribuzione dei

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rifornimenti di ogni tipo).Alla Maison l'imperatore ha i suoi collaboratori più diretti in Berthier

per i compiti strettamente militari, in Duroc per l'amministrazione della famiglia imperiale (compresa la ricerca di donnine in caso di capriccio imperiale) e della Maison stessa e in Caulaincourt per i servizi di scuderia (paggi, messaggeri, scorte imperiali). Quest'ultimo segue ovunque Napoleone portando immancabilmente con sé una grande carta della regione per consultazioni immediate.

Napoleone dorme avendo steso sulla soglia della camera o della sua tenda il mamelucco Roustam, che lo aiuta a calzare gli stivali ogni mattina. Nel suo gabinetto di lavoro opera con cinque segretari e il fidatissimo Bacler d'Albe capo dell'ufficio topografico personale dell'imperatore. Bacler d'Albe è responsabile «della esecuzione di tutti i compiti di stato maggiore derivanti dai piani formulati dall'imperatore»; ha l'incarico importantissimo «di correggere le carte e di tenere aggiornata una grande carta della situazione giornaliera sulla quale ogni unità è indicata con spilli di diversi colori».

Non è raro il caso, per chi è ammesso in questo «santuario», di entrare e scorgere Napoleone carponi sopra la carta stesa per terra intento ad appuntare spilli magari battendo la testa contro quella del prezioso Bacler.

Quando va ad assumere il comando in battaglia o in altri luoghi, monta cavalli arabi addestrati apposta; è preceduto da tre ufficiali con 12 cavalleggeri, accompagnato da un piccolo entourage col capo di stato maggiore e seguito dalla scorta formata da quattro squadroni di cavalleria della Guardia. Durante gli spostamenti più lunghi se deve dare l'esempio marcia o cavalca coi soldati, oppure sale su di un calesse. Di notte o se deve superare grandi distanze usa una grande vettura da posta creata appositamente col necessario per dormire o lavorare al lume di una grande lanterna appesa nella parte posteriore.

Lavora 18 ore su 24 con un ritmo capace di stroncare qualunque altra persona. Interrompe la notte per leggere gli ultimi rapporti inviati dai comandanti di unità in modo da poter mutare tempestivamente i piani se riscontra delle novità tra il nemico. Si concede un'altra ora di sonno ma alle 6, vestito e fatta colazione, è pronto a iniziare il lavoro. Studia con Bacler d'Albe i prossimi spostamenti dell'Armée, riceve i ministri e i personaggi più importanti che hanno chiesto udienza, si sposta nel suo gabinetto per la normale amministrazione (pile di documenti da esaminare

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o compilare). Ispezione alle truppe, con pranzo volante, a cavallo; di nuovo allo scrittoio a dettare lettere. Cena con Berthier o con altri collaboratori, altro lavoro urgente o una conversazione, riposo per quattro-cinque ore, consecutivamente, meno in caso di necessità.

Se la Grande Armée è una macchina bellica, il suo creatore e padrone è egli stesso una macchina: da lavoro.

CAPITOLO XIIIDA BERLINO A VARSAVIA

Le bandiere nemiche catturate a Ulma e a Austerlitz vengono portate al Senato mentre la pace di Presburgo fa nascere nei francesi la speranza che il sesto nevoso dell'anno XIV testimoni l'inizio di un'epoca migliore. Nonostante la vittoria di Trafalgar, la Gran Bretagna sembra risentire i rovesci dei suoi alleati anche per la morte di William Pitt, il premier che era stato l'anima della lunga guerra ideologico-nazionale contro il paese della Rivoluzione e l'artefice delle coalizioni antifrancesi.

Napoleone ora cita con più frequenza Carlomagno, conferma la volontà di costruire un impero universale con al centro la sua persona e la Francia. Annuncia con grande sicurezza: «La dinastia di Napoli ha cessato di regnare», e invia 45.000 uomini ad abbattere i Borboni dell'Italia meridionale. Re Ferdinando è trascinato nella caduta dalla sua terribile moglie, Maria Carolina, sorella della decapitata Maria Antonietta: la loro corte è un focolaio di ostilità perpetua, il loro porto è stato aperto ai russi e agli inglesi anche durante la recente campagna d'Austria. La coppia regale e i fedeli si rifugiano in Sicilia, sotto la protezione britannica, mentre i borghesi, accolgono Massena con un ballo di gala in suo onore al teatro S. Carlo. Si alienerà invece le simpatie dei ceti poveri combattendo con troppa energia il banditismo calabrese e impiccando il popolarissimo Fra Diavolo.1 [1 Soprannome del bandito Michele Pezza (1771-1806). Entrato nell'esercito borbonico dopo aver commesso due omicidi, si oppose all'avanzata dei francesi guidando delle bande contadine. Fu nominato colonnello da Ferdinando IV re di Napoli e ostacolò le operazioni di Massena con la guerriglia in Calabria, in Campania, negli Abruzzi.]

L'imperatore inizia a distribuire le corone nell'ambito familiare: insedia Giuseppe sul trono di Napoli, Luigi e la moglie Ortensia sul trono d'Olanda, la sorella Elisa sul granducato di Toscana. Il 12 luglio dello

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stesso anno, 1806, si fa proclamare Protettore della neonata Confederazione del Reno, a Francoforte, dove sedici piccoli principi tedeschi si separano «ufficialmente» dal Sacro romano impero germanico formando una specie di materasso intermedio, docile alla Francia, tra questo paese e i due principali Stati di lingua tedesca, l'Austria e la Prussia.

Luisa di Prussia, regina terribile quanto la «napoletana» Maria Carolina, forte del giuramento pronunciato insieme con lo zar e col marito Federico Guglielmo convince quest'ultimo ad ascoltare «la marea che monta». L'opinione pubblica prussiana è convinta di possedere ancora l'esercito di Federico il Grande. Luisa attizza il fuoco organizzando frequenti parate delle truppe che, soprattutto a Berlino, vengono applaudite con slancio quotidiano. I soldati si sentono investiti della missione «santa» di «battere» il generale giacobino che si crede un imperatore». Si richiama in servizio Carlo duca di Brunswick, generale ultra settantenne che era stato tra i migliori durante la guerra dei Sette anni, quando si combatteva con le parrucche e in formazioni di parata. Una vecchia conoscenza dei francesi: il duca nel 1792, impadronitosi di Verdun, aveva lanciato ai parigini l'ultimatum arrogante noto come Manifesto di Brunswick con il bel risultato di provocare la presa delle Tuileries da parte del popolo. Il vegliardo viene convinto a rispolverare l'uniforme, a preparare il suo ingresso trionfale in Parigi alla testa delle truppe prussiane «liberatrici».

Napoleone finge per mesi di non dare importanza alla «marea che monta» in Prussia. È occupato fino al mese di settembre nei negoziati di pace con l'Inghilterra di Fox, succeduto a Pitt e pacifista convinto, e con la Russia dello zar Alessandro. Ma Fox muore improvvisamente e il giovane zar, ascoltando le vane declamazioni libertarie della regina Luisa, rifiuta di ratificare una pace che sarebbe vantaggiosa per entrambe le parti. Il 1° d'ottobre Brunswick emana un ultimatum (ancora!) esigendo l'immediato ritiro delle truppe napoleoniche, lasciate a presidiare la Germania. È l'attestato di nascita della quarta coalizione antifrancese, tra Prussia, Russia e Inghilterra.

Il «Piccolo caporale» stavolta non aveva alcuna intenzione di riprendere a guerreggiare: tanto è vero che la Grande Armée si mette in movimento senza calzature di ricambio e con una qualità di biscotti limitata a pochi giorni. Ma certo non teme, né esita. L'8 ottobre scrive al re di Prussia: «Ho ricevuto soltanto ieri la lettera di Vostra Maestà. Sono offeso che gli si sia fatto scrivere questa specie di libello. Ella mi ha dato appuntamento per il

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giorno 8. Da buon cavaliere, io mantengo la parola: sono nel centro della Sassonia».

L'imperatore, messi in movimento 160.000 fanti e 40.000 cavalleggeri, ha già concertato la sua manovra secondo i consueti criteri: attaccare le forze nemiche separatamente. Del resto i prussiani avanzano senza attendere l'arrivo dei russi. Ci sono tre armate distinte. Napoleone dirige sull'Elba contro un'armata prussiana di pari entità. Il giorno 9 a Saalfeld la sinistra francese condotta dai soliti Lannes e Augerau incontra l'avanguardia nemica comandata dal principe Luigi Ferdinando, uno dei più energici partigiani della guerra: questi viene ucciso e il suo Corpo d'armata disperso.

Le forze prussiane tentano allora di raggrupparsi per attaccare unite i francesi; troppo tardi. Si formano due masse compatte ma distinte, che prendono contatto con l'avversario nella vasta zona compresa tra Erfurt, Weimar, Iena e Naumburg.

Il duca di Brunswick, che comanda 70.000 uomini in presenza del re, si dirige verso Naumburg per riguadagnare l'Elba. Più a sud, vicino a Weimar, il principe di Hohenlohe con la seconda massa, di 50.000 soldati, si tiene sulla riva sinistra del fiume Saale e occupa il pianoro stretto, scosceso sopra Iena. Napoleone arrivando il 12 ottobre di fronte, sulla riva destra, si lascia trarre in inganno (succede anche a lui) dalla vivacità delle prime cannonate attorno a Iena e crede di avere contro tutta l'armata prussiana. Quindi mantiene con sé il grosso delle forze mandando verso Naumburg il maresciallo Davout con le sole divisioni dei generali Friant, Morand, Gudin per sbarrare il passo a quella che ritiene essere una debole avanguardia prussiana.

Stanno per scatenarsi due combattimenti distinti e distanti, uno dall'altro, una trentina di chilometri: a Iena, Napoleone con 56.000 uomini contro i 50.000 di Hohenlohe; ad Auerstaedt, Davout con soli 26.000 soldati contro i 70.000 di Brunswick.

L'imperatore, sempre convinto di avere davanti a sé un nemico superiore per numero d'uomini, durante la notte fra il 13 e il 14 ottobre ha fatto radunare le sue truppe ai piedi dell'altopiano, roccioso e nudo come una scogliera. Ordina di scalarlo prima che sorga il sole per poi disporsi in battaglia per un attacco frontale. L'Armée, docile, ha attraversato Iena senza vederla perché non c'è un solo lume acceso dentro o fuori le case e in silenzio assoluto per non insospettire il nemico. Durante l'ascesa verso

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la sommità, poiché l'artiglieria non ha spazio sufficiente, per salire occorre allargare il cammino, spaccare in qualche punto le rocce. Il «Piccolo caporale» afferra una torcia e illumina egli stesso i genieri incaricati di questo febbrile lavoro che va svolto peraltro provocando il meno rumore possibile. S'allontana soltanto allorché vede il primo cannone giungere sulla sommità.

Quando sorge il sole è sopra l'altopiano di Iena con la sua Guardia schierata al completo. La passa in rassegna e rimprovera un granatiere che l'acclama tempestivamente. Poi ordina l'assalto con Augerau al comando della sua sinistra, Lannes al centro e Ney alla destra. All'inizio del pomeriggio le truppe di Hohenlohe sono messe in rotta. I fuggiaschi vanno a cozzare contro un'altra ondata di prussiani in ripiegamento, in senso opposto, da Naumburg verso Iena. È accaduto che Davout, nonostante il mancato intervento di Bernadotte dislocato nelle vicinanze con 10.000 uomini, ha deciso di dare lo stesso battaglia pur essendo nella proporzione di uno contro tre. Davout un po' a causa della sua accentuata miopia (ma non vuole portare gli occhiali) e un po' per il suo coraggio enorme, dopo aver scrutato le prime linee nemiche ha fatto disporre i suoi reggimenti in quadrato gridando: «Il Grande Federico sosteneva che sono i grandi battaglioni che riportano la vittoria. Mentiva: vincono i più cocciuti». Contro queste fortezze viventi che sono le tre divisioni di Davout si infrangono le cariche ripetute dei prussiani. Una massa di 10.000 cavalieri non riesce a far breccia nella divisione Morand. Prova a guidare l'assalto Brunswick in persona, come faceva ai tempi della guerra dei Sette anni. Spada in avanti e via. Ma l'anziano generale de colpito mortalmente e il suo re ha un cavallo ucciso otto di lui.

Davout a questo punto ordina a sua volta l'attacco e respinge l'armata del duca morente contro l'armata in rotta "i Hohenlohe. È lui, Davout, il vero vincitore della giornata: viene elogiato dal suo imperatore, premiato col titolo di duca d'Auerstaedt, con castelli e terreni, con rendite fino a recentomila franchi all'anno. Ma in fondo Napoleone non li perdonerà mai di essergli debitore di questa vittoria. I francesi entrano in Lipsia il 20 ottobre. I resti dell'armata prussiana vengono braccati dalla cavalleria di Murat, che trasforma la ritirata in rotta. La più orgogliosa delle monarchie militari subisce un'umiliazione profonda. La Prussia si dissolve. A Iena e a Auerstaedt ha perduto 70.000 soldati, metà dei quali fatti prigionieri; ne perderà il doppio il mese prossimo. Quella di Napoleone diventa una

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cavalcata di giganti attraverso un paese stupefatto, colpito nel vivo. Le piazzaforti in riva al mare giudicate imprendibili, con truppe fresche e munizioni abbondanti, si arrendono una dopo l'altra al semplice suono delle trombe di qualche squadrone dello scatenato Murat. È il caso di Stettino, che capitola il 31 ottobre. Murat con 200 uomini e l'arma della sua incommensurabile sfacciataggine convince 10.000 prussiani ad arrendersi senza aver sparato una cannonata o un solo proiettile di fucile.

Bluecher, l'unico dei generali prussiani che non abbia perduto la testa, viene inseguito di città in città finché è a sua volta costretto a capitolare, a Lubecca. Davout ha l'onore di occupare Berlino dove Napoleone entra trionfalmente il 28 ottobre attraverso la famosa porta di Brandeburgo.

«Evento senza precedenti nella storia», annota Stendhal, «una sola battaglia annientò un esercito di duecentomila uomini e dette un gran regno al vincitore... Napoleone entrò a Berlino. Con nostro grande stupore la musica suonava l'inno repubblicano Allons, enfants de la patrie. Napoleone, per la prima volta in uniforme da generale e cappello ricamato, marciò a cavallo venti passi davanti alle sue truppe, nel mezzo della folla. Niente di più facile che tirargli una fucilata da una finestra sull'Unter den Linden. Bisogna aggiungere anche una cosa ben triste: la folla silenziosa l'accolse senza un grido. Per la prima volta l'imperatore tornò con del denaro dalle sue conquiste. Oltre al mantenimento e all'equipaggiamento dell'esercito, l'Austria e la Prussia pagarono cento milioni ciascuna. L'imperatore fu severo verso la Prussia. Nei tedeschi trovò il popolo più facilmente conquistabile di ogni altro. Cento tedeschi cadono sempre in ginocchio davanti a un'uniforme. Ecco come il dispotismo meschino di quattrocento principi ha ridotto i discendenti di Arminio e di Vitichingo».

Il «Piccolo caporale» fa collezione di regge e di storici souvenir in mezza Europa. Passa in rassegna la sua Guardia nei giardini di Potsdam, la Versailles prussiana. Dorme nel letto di Federico il Grande, si impadronisce della sua spada leggendaria e la invia a Parigi col bottino di guerra. È furibondo contro i reali che lo hanno costretto alla campagna non prevista anche se così fruttuosa. Re Federico Guglielmo si è rifugiato a Koenigsberg con 15.000 soldati e invia dei negoziatori a saggiare le intenzioni del vincitore. Viene intercettata una lettera inviata al sovrano dal governatore civile di Berlino, principe Hatzfeld, che comunica delle notizie sulla consistenza e sui movimenti delle truppe d'invasione.

Napoleone, deciso a dare un esempio e a convincere il re alla

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sottomissione, fa arrestare il principe, che viene processato e condannato a morte. Due ore prima dell'esecuzione la principessa Hatzfeld chiede udienza e si getta ai piedi dell'imperatore supplicando di risparmiare la vita al marito. Il sovrano, glaciale, le mostra la lettera che prova il tradimento, lo spionaggio. L'ospite piange e lui cede. Getta il documento sul caminetto acceso, osservando: «Madame, niente più condanna vostro marito».

Da Berlino il 21 novembre emana il decreto che ordina il blocco continentale e prescrive la chiusura di tutti i porti d'Europa sia alle navi sia ai mercanti inglesi. Non riuscendo a folgorare la Gran Bretagna con uno sbarco, tenta di asfissiarla economicamente.

Intanto il 16 novembre il re di Prussia, reso ostinato dalla cocciutaggine della moglie, interrompe di nuovo i negoziati per interposta persona col suo vincitore avendo appreso che è giunta in Polonia un'armata di 60.000 russi comandata dal generale Levin Benningsen. Sessantenne d'origine tedesca, al servizio della Russia dal 1773, Benningsen è uno dei membri della congiura che ha rovesciato e ucciso lo zar Paolo I. Gode la fiducia del giovane zar Alessandro, che preferisce i comandanti militari di formazione occidentale a quelli tipo «vecchia Russia» di cui Kutuzov è il principale esponente. Benningsen ha il compito di bloccare e possibilmente battere Napoleone.

L'imperatore deve pertanto rassegnarsi a rinviare la pace affrontando una campagna d'inverno per la quale non ha preparato né i piani né i rifornimenti. La Polonia è povera e preda dei suoi secolari nemici, i due giganteschi blocchi di popoli di lingua tedesca e russa che la stringono in una morsa fatale da est e da ovest. Napoleone, costretto controvoglia a riprendere le armi, lusinga i polacchi con la prospettiva di liberarli dai nemici portando loro l'indipendenza secondo gli ideali internazionalistici della Rivoluzione. È il vecchio trucco, sperimentato con successo anche in Italia, che serve a essere ben accolto in terra straniera.

Investe Varsavia, possedimento prussiano dall'ultima spartizione,1 [1 Dal 1785 l'ex-regno polacco è stato diviso, per la terza volta, tra Russia, Prussia e Austria. Il povero Stato-cuscinetto è stato privato perfino della capitale, soppressa come tale e inglobata nei territori sotto sovranità prussiana.] ora occupata da Benningsen, ne caccia i russi il 27 novembre. Entra in quella che fu la capitale ricevendo le accoglienze del liberatore. Murat sogna di diventare il nuovo re di questo sventurato popolo. Riferisce il bollettino della Grande Armée: «È difficile descrivere l'entusiasmo dei

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polacchi. Il nostro arrivo in questa città è stato un trionfo e i sentimenti che i polacchi di tutti i ceti mostrano da tempo erano chiusi nel cuore del popolo ed erano stati sommersi dalla cattiva sorte. Il primo impulso, il primo desiderio è di tornare a essere una nazione. I più ricchi escono dai loro castelli per venire a chiedere a gran voce di ricostituire la nazione, vengono a offrire i loro figli, la loro fortuna, la loro influenza. Questo spettacolo è davvero commovente.

Ovunque hanno già ripreso i loro vecchi costumi, le loro antiche abitudini». Napoleone si installa nell'antico castello reale di Varsavia organizzando da qui la Maison e lo stato maggiore. Verso la fine dell'anno le condizioni delle truppe sono pietose: neve, gelo, malattie, combattimenti disperati. Mancano i viveri e perfino il pane, le scarpe, le munizioni, le medicine: tutto. D'altro canto il paese è troppo povero e spremuto per assecondare la legge della «guerra pagata con la guerra». I suicidi tra soldati registrano le percentuali altissime lamentate a suo tempo in Egitto, un altro paese dal clima micidiale.

«Siamo in mezzo alla neve e al fango», scrive Napoleone a Giuseppe che sta imparando a conoscere il mite inverno napoletano. «Siamo senza vino, senza acquavite, senza pane, mangiando patate e carne, facendo lunghe marce e contromarce senza un attimo di riposo e attacchiamo alla baionetta e sotto il fuoco della mitraglia. Siamo obbligati a trasportare i feriti su slitte aperte per cinquanta leghe. Dopo aver distrutto la monarchia prussiana, ci battiamo contro il resto della Prussia, contro i russi, i calmucchi, i cosacchi e le popolazioni del Nord che una volta invasero l'impero romano. Facciamo la guerra con tutta la sua violenza e con tutto il suo orrore».

Trascorre la mattina di Capodanno in viaggio tra Pultusk e Varsavia: a Bronie, fermata per il cambio di cavalli. Subito riconosciuto, viene circondato dalla folla entusiasta che la scorta a stento trattiene. Si fanno largo due signore impellicciate. La più giovane, il viso rosso dall'emozione si vede appena tra il berretto e il bavero della pelliccia, giunta davanti all'imperatore gli snocciola un discorsetto preparato in un francese non fluente ma comprensibile: «Siate il benvenuto, mille volte il benvenuto nella nostra terra. Niente di quello che faremo vi manifesterà in modo abbastanza chiaro i sentimenti che sentiamo per voi, né il piacere che proviamo nel vedervi calpestare il suolo di questa patria che vi aspetta per sollevarsi».

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Il primo giorno dell'anno, la festa spontanea di tanti sconosciuti, la giovane che sembra in adorazione con gli occhioni azzurri spalancati. L'imperatore afferra un mazzo di fiori che ha casualmente nella sua carrozza e li porge alla sua interlocutrice dicendo: «Conservateli come garanzia dei miei buoni sentimenti. Ci rivedremo a Varsavia, spero, e reclamerò un bacio dalla vostra bocca». Una galanteria insolita per il «Piccolo caporale».

La scena cambia. Qualche tempo dopo, nei saloni del castello reale di Varsavia. Prima che si aprano le danze viene presentato all'imperatore il fior fiore della nobiltà polacca. Tra tante dame altolocate, in alcune delle quali scorre sangue regale, Napoleone sceglie per il ballo d'inizio una giovane che ha subito riconosciuto tra tanti: è la sconosciuta incontrata alla stazione di posta di Bronie. La invitano, conversa. Lei è Maria Walewska, sposa diciannovenne, da due anni, del conte Walewski. Timida e dolce, non bellissima ma adorabile.

Il Signore della guerra al quale nessuno può resistere, né re né eserciti, prega Maria di tornare a trovarlo al castello. Le invia messaggeri a cavallo con fiori. Lei trova il coraggio di rifiutare. Acconsente a un primo incontro ma evita gli «attacchi frontali». Viene quasi sempre costretta dalla famiglia, dagli amici, dai compatrioti a cedere all'imperatore pur di perorare al suo cospetto la causa dell'indipendenza della patria.

In seguito Napoleone sposta il quartier generale nel castello di Finkenstein per essere più vicino alla linea del fronte. Qui riceve gli ambasciatori dello scià di Persia e di altri sovrani, passa in rivista la Guardia, assiste ai concerti, invita avendo al proprio fianco i marescialli e gli alti dignitari. Tra tutti gli invitati, accuratamente selezionati dal gran ciambellano Duroc, la più assidua è la contessina Walewska. Silenziosa, appartata, non chiede mai nulla per sé mentre tutti gli altri fanno a gara nel pretendere sempre di più. Innamorata, adesso. A lui non par vero di concedersi qualche cena a tu per tu con questa creatura così rara che ama l'uomo per quello che è ma non aspira a dividerne i beni e il lusso, il potere e gli oneri.

Subito informata da qualche «spia», Giuseppina scrive più volte da Parigi. Vuol venire in Polonia per stare accanto al marito dal quale si sente per la prima volta trascurata. «Conosco molte belle signore», risponde Napoleone, «ma nessuna può gareggiare con te in fascino ed eleganza. Qui non è posto per te. Troppi disagi, ti annoieresti. Amo la mia piccola

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Giuseppina, buona, imbronciata e capricciosa, che sa litigare con la sua solita grazia, eccetto quando è gelosa: in tal caso diventa una diavolessa».

Ora, le parti si sono invertite. Lei è gelosa, lui vuole tenerla lontana.

CAPITOLO XIVPADRONE DELL'EUROPA

M aria Walewska somiglia a Désirée, dolce e riservata, donne abituate a dare più che a chiedere. Ma il romanzo d'amore è soltanto una pagina nel diario giornaliero dell'imperatore fitto d'appuntamenti. Bernadotte manda a dire che gli avvenimenti al nord non vanno bene. Ney si è mosso di sua iniziativa verso settentrione, con le proprie truppe, in cerca di viveri, contravvenendo gli ordini della tregua invernale; Benningsen ha attaccato in forze Bernadotte, costretto così a ritirarsi per non finire stritolato.

Napoleone impreca contro il disubbidiente ma, chino sulla carta, trova un rimedio tattico alle difficoltà del momento. Bernadotte deve continuare a ritirarsi, mentre tutte le truppe francesi raggiungono a marce forzate l'armata del nord, per attirare il nemico in una trappola gigantesca: verrà circondato, attaccato da più parti, privato delle linee di comunicazione alle spalle. Gli ordini scritti vengono consegnati a Berthier che per recapitarli ai comandanti di grandi unità li affida al primo ufficiale di belle speranze entrato nel suo ufficio: uno sbarbatello giunto direttamente dall'accademia al fronte, spaesato in un ambiente tanto lontano, difficile. Si smarrisce, incappa in una pattuglia di cosacchi e non fa in tempo, oppure non ci pensa, a distruggere il prezioso documento magari inghiottendolo. Benningsen, informato, si blocca evitando d'un soffio quella sconfitta irreparabile verso la quale era incamminato.

L'epicentro della battaglia imminente è Eylau,1 [1 Già conglobato alla Prussia orientale, oggi appartiene all'Unione Sovietica col nome di Bagratronovsk. Città di 7500 abitanti con numerose industrie metallurgiche.] villaggio di 1500 abitanti che rientra nei possedimenti prussiani. Giunto a ridosso delle prime linee la sera del 7 febbraio, a tarda ora, Napoleone viene convinto a non esporsi in ricognizione come vorrebbe. Troppo pericoloso. Viene condotto a riposare per qualche ora nell'unico edificio disponibile, una stazione di posta devastata dai saccheggiatori russi e situata all'ingresso di Eylau. Una cena più frugale del consueto, qualche ora di sonno, la sveglia forzata all'alba con

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l'annuncio: «I russi stanno attaccando». Il cielo è ricoperto da nuvole gonfie e basse, nere; la neve, che cade incessante penetrando fino nella gola e dentro gli stivali, ha ricoperto i boschi e le case. Un paesaggio spettrale, così diverso dalla Francia che dista 1200 chilometri. Napoleone ha con sé per cominciare la battaglia 45.000 uomini oltre alla Guardia tenuta di riserva più una seconda riserva di 10.000 cavalleggeri al comando di Murat, che ha l'ordine di intervenire con Augerau quando sarà il momento di scagliare una massa d'urto decisiva; Davout con 15.000, alla destra francese, ha ordine di isolare i russi partendo dalla riva orientale del fiume Alle e chiudendo loro la ritirata verso Koenigsberg. Si spera che Ney arrivi in tempo dal nord con i suoi 14.000 uomini per ristabilire l'equilibrio delle forze in campo. Benningsen ha infatti a disposizione 90.000 uomini, 8.000 dei quali prussiani: è in ogni caso superiore come artiglieria.

I cannoni tuonano subito da entrambi gli schieramenti aprendo vaste falle. Le fanterie iniziano il concerto della fucileria. La Guardia è concentrata nel cimitero del villaggio: se qualche granatiere udendo il sibilo delle pallottole abbassa d'istinto la testa viene rimproverato dagli ufficiali. La Guardia muore ma impassibile, a testa alta. Il nemico accenna a sfondare al centro e ad attaccare Davout prima che questi possa iniziare la prevista manovra di aggiramento. Bisogna distogliere da qui l'attenzione di Benningsen e delle sue truppe contrattaccando il centro.

Napoleone manda Augerau, manda i cacciatori a cavallo e i dragoni della sua preziosissima Guardia, manda anche Murat spronandolo: «Ci lascerai divorare da quella gente?» Murat, che sembra una statua di neve carica con 80 squadroni. L'imperatore mentre segue lo svolgimento della battaglia dall'altura della chiesa, col campanile usato da osservatorio per lo stato maggiore, sta per venire catturato o ucciso da una puntata dei fanti russi, che hanno sfondato il centro penetrando in paese: è salvato dal sacrificio delle sue guardie personali fino all'arrivo di due battaglioni della Guardia. È informato che vengono via via feriti vari generali dallo stesso Augerau a Lavai, Hendeley, Dahlmann, Cornineau, D'Hautpoul.

Ma adesso, alle 11,30, con la carica di Murat assiste a quello che appare uno spettacolo magnifico per chiunque eserciti il mestiere delle armi. Murat travolge i fanti che erano giunti fino al villaggio quindi divide la cavalleria in due gruppi: uno assalta il fianco della cavalleria nemica, l'altro sgomina i fanti che hanno appena decimato il 14° reggimento di

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linea francese strappandogli l'aquila.. Murat vola sfondando il centro dello schieramento avversario, fa ricongiungere i suoi due gruppi alle spalle dei russi ripercorrendo quindi il cammino in senso inverso per decimare a colpi di sciabola, dopo i fanti, gli artiglieri nemici.

L'azione della cavalleria ristabilisce le sorti della battaglia che stava per essere perduta. Tra mezzogiorno e le una pomeridiane Davout può completare lo schieramento e iniziare la prevista manovra. Si combatte con pari accanimenti da entrambi gli schieramenti per tutto il pomeriggio, prima di sera giunge finalmente anche Ney, che ha ricevuto gli ordini con molto ritardo. L'arrivo di queste truppe fresche convince Bennigsen, non vinto ma stremato fisicamente, ad abbandonare il campo in piena notte contro il parere dei subalterni, che avevano visto la vittoria alla loro portata.

Napoleone si addormenta all'incirca alla stessa ora senza sapere se la giornata, lunga 14 ore di furiosi combattimenti, gli sia stata o meno favorevole. All'alba è svegliato con la notizia: «Maestà, il nemico batte in ritirata. Il maresciallo chiede istruzioni». Neanche la Grande Armée, stremata, affamata, potrebbe adesso compiere il miracolo di riprendersi per inseguire, annientare completamente l'armata Benningsen.

L'imperatore cavalca lungo il campo di battaglia cosparso di cadaveri di soldati e di cavalli mentre la neve è per vasti tratti sporca di sangue. Ha avuto 3.000 soldati uccisi e 7.000 feriti, altri 10.000 sono assiderati o malati a causa del freddo, venti dei suoi generosi ufficiali sono a letto feriti oppure giacciono privi di vita. «Amica mia», scrive a Giuseppina, «ieri c'è stata una grande battaglia, ma ho perduto tanti uomini; le perdite del nemico sono più considerevoli, ma ciò non mi consola». Da Eylau ricava due constatazioni su cui riflettere a lungo: primo, ogni battaglia, vinta o perduta che sia, richiede un massacro; ne vale la pena? secondo, l'arma della cavalleria, se impiegata con accortatezza tattica, può risultare risolutiva.

Vuole la pace, la «sua» pace, s'intende; ma per ottenerla, deve continuare la guerra perché il nemico non si dichiara sconfitto: non i russi, che considerano Eylau una mezza vittoria; e nemmeno i prussiani, che, oltre a Koenigsberg hanno ancora la piazzaforte di Danzica intatta dopo sei mesi d'assedio. C'è bisogno di altri uomini per rinvigorire la Grande Armée dissanguata ma le leve in Francia non danno buoni risultati. Le diserzioni si moltiplicano con l'aumentare delle brutte notizie che

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giungono dal fronte orientale: la fame, il gelo, un nemico capace di resistere, terre e popoli sconosciuti. La prima campagna di Russia - tale è infatti diventata anche se combattuta su terre prussiane e polacche - allarma il paese. Bisogna ricorrere alle truppe del «grande impero»: vengono arruolati 100.000 tra tedeschi, olandesi e italiani. Le reclute francesi e straniere vengono impiegate senza un'istruzione adeguata. Non c'è tempo. Imperano dai veterani, dai «grognards».

In primavera, la Grande Armée così ricostituita ammonta a 400.000 soldati, 100.000 dei quali agli ordini diretti dell'imperatore e altri 40.000 all'assedio di Danzica guidato dal maresciallo Lefebvre, che si conquista il titolo di duca. La guarnigione prussiana, guidata con determinazione dal generale Kalkreuth, tenta di rompere l'assedio con varie sortite e aspetta di ricongiungersi da un momento all'altra con delle forze russe promesse in suo soccorso. Invano. Il 26 maggio è costretta a capitolare.

Napoleone s'interroga davanti a Varsavia: se i russi rimarranno nelle loro grandi pianure di là dal fiume Niemen,1 [1 Neman in russo e Memel in tedesco. Scorre nella Russia Bianca e nella Lituania.] come sarebbe possibile batterli e giungere alla pace? I suoi soldati non sono equipaggiati per una campagna lontana dalle linee di rifornimento mentre l'Austria potrebbe rivoltarsi pugnalandolo alla schiena. Ma lo zar è impaziente di vendicare Austerlitz e di disimpegnare Koenigsberg per cortesia verso i sovrani suoi alleati. Ordina a Benningsen, al quale ha dato una nuova armata di 100.000 uomini, di riprendere le ostilità.

Benningsen attacca verso ovest agli inizi di giugno, assalendo il Corpo di Ney, che pur essendo stato colto di sorpresa reagisce riuscendo a contenere con meno di 15.000 uomini ben 50.000 nemici. Benningsen ripiega allora sul suo campo trincerato di Heilsberg, nella direzione di Friedland, accampandosi sulle due rive del fiume Alle e sulle alture fortificate. Contro di lui muove risolutamente Napoleone con le sue truppe, la cui avanguardia è comandata da Murat. Murat, anziché tenere impegnato il nemico sino all'arrivo del grosso, attacca con quello che ha, cavalleria contro forti, 30.000 contro 90.000 uomini, rimettendoci 9.000 tra morti e feriti.

Ora le truppe russe e francesi convergono su Friedland1 [1 Oggi città di Pravdinsk, nell'Unione Sovietica, con 18.000 abitanti. Nell'Ottocento era un grazioso borgo contadino in un'ansa del fiume Alle, sulla riva sinistra, a 25 chilometri da Eylau.] da opposte direzioni. Napoleone ha infatti

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compreso che Benningsen è ossessionato dall'idea di difendere a qualunque costo l'ultima città prussiana non invasa. Quest'ultimo discende rapidamente lungo la riva destra dell'Alle mentre Lannes e Morthier avanzano parallelamente lungo la sinistra.

Benningsen arriva per primo a Friedland, si impadronisce dei ponti della città e cerca di passare in forza sulla riva opposta. Lannes e Morthier, con forze molto inferiori, trattengono per dodici ore il nemico perché ci sia il tempo di avvertire l'imperatore, che accorre con tre Corpi d'armata. È il 14 giugno 1807, settimo anniversario della splendida vittoria di Marengo.

Benningsen è sempre convinto che l'obiettivo principale di Napoleone sia Koenigsberg2 [2 Koenigsberg, oggi Kaliningrad, è stata la capitale della Prussia orientale fino al 1945. Sviluppatasi attorno al famoso castello dei cavalieri dell'Ordine Teutonico, nell'Ottocento prosperava con i suoi commerci con la Russia.] per una questione morale: togliere ai prussiani la loro ultima città, dalla tradizione guerriera. Perciò vuole sbaragliare le forze francesi disunite, prima a Friedland e poi nella città dei cavalieri teutonici.

Napoleone invece non ha remore di tradizioni o di prestigio. Vuole vincere e basta. Arriva soltanto a mezzogiorno sul campo di battaglia, avendo ai lati Oudinot e Nansouty. La giornata è lunga, c'è tempo di rimediare: proprio come a Marengo. Capisce presto che i russi sono andati a cacciarsi dentro una rete che li ingabbia: hanno il fiume alle spalle quindi non possono indietreggiare velocemente in caso di bisogno, hanno il nemico in faccia quindi dovrebbero vincerlo prima di poter avanzare.

Manda l'artiglieria davanti alla fanteria ad aprire la strada verso il centro dello schieramento nemico, ordina a Ney alla destra di entrare in Friedland e di conquistare i ponti. Una volta riuscita questa manovra, scatenerà anche l'ala sinistra. In poche ore il nemico è in rotta inseguito, sciabola alle reni, dalla cavalleria. Napoleone stesso si mette a inseguire i fuggiaschi. Per un'ora intera è visto aiutare i genieri, ascia la mano, a ricostruire il ponte di Wehlau distrutto e insieme con loro mangiare un pezzo di pane gustando un bicchiere di vino rosso. Scrive a Giuseppina: «Tutta l'armata russa batte in ritirata; 80 pezzi d'artiglieria, 30.000 uomini catturati o uccisi, 25 generali russi uccisi, feriti o fatti prigionieri; la Guardia russa schiacciata. È una degna sorella di Marengo, Austerlitz, Iena. Le mie perdite non sono gravi; ho manovrato il nemico con successo. Non essere inquieta e sii contenta. Addio, amica mia, monto a cavallo. Napoleone».

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Benningsen e gli altri capi militari stavolta consigliano concordemente lo zar di chiedere un armistizio. Alessandro il 24 giugno scrive in questo senso a Napoleone, precisando: «L'alleanza tra la Francia e la Russia è sempre stata l'oggetto dei miei desideri».

Murat accusa Koenigsberg senza colpo ferire e vi si installa con la sua aria da «sovrano in attesa di un trono». Napoleone è al culmine della felicità per quanto possa esserlo un uomo che si considera superiore a tutti gli altri mortali, un gigante destinato a rimanere nella storia nei secoli a venire e le cui azioni saranno studiate, descritte in centinaia di migliaia di volumi. Vuole conquistare, o «mettersi in tasca», il giovane sovrano per trasformarlo in prezioso alleato della propria strategia politica. Pedina importantissima nel chiudere la cerniera del blocco continentale contro l'odiata Inghilterra.

Passeggia in riva al Niemen, calpesta il suolo della santa madre Russia convinto di dare inizio a un'epoca di pace, di collaborazione internazionale. Di fronte a Tilsit fa preparare, al centro del grande fiume, dove la corrente fluisce placida e solenne, una chiatta addobbata e sormontata da un padiglione. Qui riceve con premura, con affetto quasi, Alessandro I al quale stringe con calore la mano. Poi lo abbraccia, dichiarando: «Non sia mai più guerra tra noi, c'è abbastanza spazio per la potenza e la gloria d'entrambi». È il 25 giugno, giornata memorabile. Lo capiscono anche i soldati dei rispettivi eserciti, che fraternizzano scambiandosi attestazioni di stima per il valore dimostrato quando si combattevano. I granatieri della Guardia imperiale invitano a banchetto i bellissimi cavalleggeri della Guardia dello zar, il vino e la vodka scorrono più impetuosi delle acque del Niemen.

Lo zar, trentenne, biondo e occhi azzurri, indossa l'uniforme delle guardie: giacca nera con paramani rossi bordati d'oro, pantaloni bianchi, cappello piumato. Dice: «Sire, odio gli inglesi quanto voi». L'intesa sembra immediata, completa.

Dopo i convenevoli, entrano nel padiglione restando in colloquio loro due soli per circa un'ora e mezza. L'indomani, secondo colloquio al quale partecipa come invitato assai meno gradito, da parte di Napoleone, re Federico Guglielmo di Prussia: legnoso, taciturno, più imbarazzato che diffidente. Nei giorni successivi gli incontri si susseguono a Tilsit, dichiarata neutrale. Napoleone e Alessandro si scambiano inviti a pranzo e al tè nei rispettivi alloggi, sembrano una coppia di innamorati intenti a

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gustare la luna di miele, mentre i rispettivi marescialli e generali fanno corona con le loro uniformi rilucenti.

Ormai è chiaro che Napoleone intende largheggiare con Alessandro ponendogli in pratica l'unica condizione di essergli alleato e aderire al blocco anti-inglese. Ma si dimostra inflessibile nei riguardi del re di Prussia: questo deve cedere tutte le province polacche per formare il granducato di Varsavia e rinunciare anche al regno di Vestfalia, oltre a condizioni e clausole di minore importanza ma nel complesso umilianti.

I prussiani cercano di addolcire il tiranno facendo intervenire quale ambasciatrice d'eccezione la loro sovrana, Luisa. Luisa di Meclemburgo-Strelitz, figlia del duca Carlo, ha 31 anni e nasconde il suo carattere di ferro sotto un'apparenza radiosa. È una gran bella donna, intelligente, raffinata come ci si aspetta che sia una «altezza» nata e allevata per diventare sovrana. Per il suo primo incontro con l'orco indossa un abito di crespo bianco che le lascia scoperte le spalle e l'attaccatura del seno, mostrando una pelle candida come le perle del diadema che ha in testa.

Napoleone le si fa incontro, la ossequia. Ma quando lei comincia a illustrare le miserevoli condizioni della Prussia, lui la interrompe bruscamente: «Come avete osato dichiararmi guerra?». Lo chiede proprio a lei non al re suo marito. La sovrana risponde con un'espressione vivace, che non dispiace al genio delle battaglie: «La gloria del grande Federico ci ha ingannati. Era così grande che questo errore ci è consentito».

La regina indossa per l'incontro successivo un abito rosso e oro con turbante. All'orco, che la fa sedere alla propria destra, offre una rosa dello stesso colore del suo vestito quasi supplicando: «Il mio fiore in cambio di Magdeburgo». Al momento del congedo definitivo, secondo alcune testimonianze, la sovrana avrebbe detto: «È possibile che avendo avuto la fortuna di vedere così da vicino l'uomo del secolo e della storia, egli non mi lasci la libertà e la soddisfazione di dirgli che mi ha legato a lui per la vita?».

Legata lo resta per davvero. Napoleone «per riguardo a Sua Maestà l'imperatore di tutte le Russie» restituisce al re di Prussia il regno com'era nel 1772 ma non la città di Magdeburgo (in tutto: quattro province con 5 milioni di abitanti) né la Vestfalia sul cui trono installa il fratello minore Gerolamo. Le ambizioni dei sovrani sono frustrate. L'umiliazione per la bella regina, che ha supplicato invano, è profonda. C'è chi sostiene che questa sia una delle cause, non secondaria, della sua grave malattia che nel

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volgere di tre anni la porterà alla morte.Un quadro di Gosse, in mancanza dell'immagine fotografica all'epoca

impensabile, ci tramanda il significato degli incontri di Tilsit. Luisa è tra il marito, rigido, aggrondato, e lo zar dal volto di fanciullo; lei tiene gli occhi abbassati, affida non la mano destra ma la punta di qualche dito a Napoleone, leggermente più piccolo. Lo sguardo del Signore della guerra sembra dire: «Ringraziami, ti consento di portare ancora la corona: se è più piccola di prima, la colpa è soltanto tua».

A conclusione degli incontri con lo zar Napoleone decora con la propria croce il granatiere russo Lazaref, eroe di Friedland, che gli bacia la mano. Tutto intorno, i soldati dei due eserciti gridano «Viva l'imperatore», «Viva lo zar».

Chiede Alessandro: «Ho notato che in questi giorni avete usato un particolare riguardo verso il generale Benningsen. Perché?». Risposta: «Francamente, è per farvi la corte. Gli avete affidato il vostro esercito. È sufficiente che egli abbia la vostra fiducia per ispirarvi sentimenti di rispetto, di amicizia».

Riferirà Napoleone: «Durante i quindici giorni che passammo a Tilsit, pranzammo insieme quasi tutti i giorni; lasciavamo la tavola di buon'ora per liberarci del re di Prussia, che ci annoiava. Alle nove, l'imperatore veniva a farmi visita in abiti borghesi, per prendere il té. Stavamo insieme conversando indifferentemente su diversi argomenti fino alle due o alle tre del mattino; in generale parlavamo di politica e di filosofia. Egli è molto colto e pieno di opinioni liberali; deve tutto ciò al colonnello Laharpe, suo istitutore. Talvolta non riuscivo a capire se i sentimenti che egli esprimeva erano le sue opinioni vere o l'effetto di quella specie di vanità, così comune in Francia, di mettersi in polemica con la propria posizione».

Napoleone ha vinto sia con le armi sia con la diplomazia. Per ora, almeno. Parigi non ha mai conosciuto qualcuno che lo possa uguagliare. Ma ogni medaglia ha il suo rovescio. La pace di Tilsit e l'alleanza franco-russa fanno perdere all'imperatore la simpatia del sultano, che teme per Costantinopoli, eterna meta dell'espansione russa. Il mondo tedesco resta atrocemente offeso dalle mutilazioni subite dalla Prussia e dal capriccioso assestamento dei suoi popoli a cominciare dalla Vestfalia. D'altronde l'adesione della Russia al blocco continentale accresce il numero degli interessi gravemente lesi. Gli inglesi compravano in Russia enormi quantità di granaglie, pesce, lana, tè, pagando un giusto prezzo e in

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contanti. Il mercato russo resta profondamente turbato dalla scomparsa d'un cliente così generoso.

Proteste, lamentele vivaci giungono fino allo zar al suo rientro a Pietroburgo. Napoleone, in genere buon conoscitore d'uomini, si è ingannato non poco nei confronti di Alessandro I. Lo ha giudicato un sognatore, romantico e piuttosto debole. Invece è incostante, sfuggente, malfido. Ha pianto la morte del padre per poi elevare ai massimi onori i suoi assassini. Appena conciliato con Napoleone, è portato a schierarsi con i nemici di lui: e così tra qualche anno, dopo aver contribuito più di ogni altro alla rovina dell'imperatore, si dichiarerà suo amico e protettore.

Napoleone è forte, grandioso anche negli slanci di generosità, costante negli affetti, realizzatore, pieno di fantasia e lampi di genialità. Alessandro, è volubile, incostante, con una sensibilità quasi femminile e, insieme, la fredda crudeltà dei despoti asiatici.

Estate 1807: l'apogeo. «In questo momento», scriverà lo storico sovietico Tarlé, «Napoleone si era innalzato a un grado di potenza al quale non era mai giunto alcun altro sovrano conosciuto nella storia. Imperatore autocrate dell'immenso impero francese che comprendeva il Belgio, la Germania occidentale, il Piemonte e Genova; re d'Italia, protettore della Confederazione del Reno alla quale si accingeva ad aderire anche la Sassonia, padrone della Svizzera, che dominava assolutisticamente anche sui regni di Napoli, Olanda e Vestfalia sui cui troni aveva messo i fratelli Giuseppe, Luigi, Gerolamo». Quest'ultimo appena 23enne, capriccioso, già maritato negli Stati Uniti con la sconosciuta Elisa Patterson e ora costretto a sposare in gran fretta la figlia del re del Wuerttemberg. In questa stessa estate aggiunge un altro «pezzo» al suo impero dando ai notabili polacchi la Costituzione del Granducato di Varsavia, la cui corona conferisce, chissà perché, al re di Sassonia.

Tornato a Parigi dopo un'assenza di dieci mesi, il sovrano è ricevuto solennemente in Nòtre Dame dall'arcivescovo; visita le ragazze allevate nella Casa della Legion d'onore, a Saint-Denis, che l'accolgono come un dio più che come un padre; fa erigere in Place Vendòme il monumento della Grande Armée: una colonna di bronzo fusa coi cannoni conquistati al nemico e modellata sullo stile della colonna Traiana di Roma. Non accetta più alcun genere di critiche, nemmeno contraddizioni. Comanda e vuole essere ubbidito, sempre, incondizionatamente. Perciò ritira il portafoglio degli Esteri a Talleyrand dandolo all'incapace Champagny, duca del

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Cadore. Eleva un oscuro, servile funzionario, Maret, al rango di duca (di Bassano) creandolo segretario di Stato ossia coinvolto in tutti gli affari dell'impero. Un imbecille che si impone pubblicamente questa massima: «La volontà dell'imperatore è una carreggiata di marmo dalla quale non saprei concepire che ci si possa discostare».

Se Cesare vantava la discendenza divina da Venere tramite Jiulo (Ascanio) figlio di Enea, Napoleone si è messo decisamente al di sopra di qualunque altro essere vivente. Viene preso da una collera spaventosa quando apprende che l'Inghilterra è disposta anche a commettere dei crimini internazionali pur di punire chi aderisce al blocco continentale contro di lei: il 2 settembre una flotta britannica cannoneggia e incendia Copenaghen uccidendo duemila abitanti e obbligando il principe reale di Danimarca a consegnare la propria flotta. Subito dopo questa spaventosa prova di forza, si fa aprire i porti dal Portogallo.

L'imperatore si rivolge pertanto a Occidente, dove nasce la nuova minaccia. Intimato al governo portoghese di ricacciare in mare gli inglesi, alla prima esitazione manda un Corpo di spedizione che attraverso i Pirenei e la Spagna occupa il paese fino a Lisbona (30 novembre) costringendo la famiglia reale a imbarcarsi col governo per il Brasile. L'armata francese fa all'inizio 25.000 uomini al comando del mediocre Junot, fedelissimo dai tempi dell'assedio di Tolone, di cui tutta Parigi parla scandalizzata per il legame sentimentale con una sorella dell'imperatore, Carolina Murat.

Sul trono di Spagna c'è un Borbone, Carlo IV, che ha disgustato il suo popolo elevando agli onori più alti e al potere l'amante, il favorito della moglie, Manuel Godoy. Il paese sta vivendo un lungo periodo di decadenza come la Casa reale. La Spagna è molto diversa dall'epoca dei conquistadores degli imperi americani, quando l'imperatore absburgico Carlo V (Carlo I per gli spagnoli) poteva dichiarare orgogliosamente: «Sui miei regni il sole non tramonta mai».

Carlo IV, accortosi che l'occupazione francese da provvisoria, di passaggio, minaccia di diventare definitiva, abdica in favore del figlio Ferdinando VII, che viene convocato da Napoleone a Bayonne alla guisa di un signorotto medievale davanti al suo imperatore. L'agnello tra gli artigli dell'aquila. Dal 15 aprile al 5 maggio Napoleone tratta con Ferdinando, con suo padre, con la moglie di quest'ultimo Maria-Luisa, vecchia megera, e con l'amante di lei, il «caro Manuel», Godov. Alla fine

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costringe il debole Ferdinando ad abdicare in suo favore: può così dichiarare decaduta la dinastia borbonica e far nominare, da una Giunta prezzolata di nobili spagnoli, Giuseppe nuovo re di Spagna sgomberando Napoli che passa a Murat e a Carolina.

Nel frattempo il popolo spagnolo, dimostrando di essere migliore dei suoi (ex) sovrani quanto della nobiltà, il 2 maggio è insorto a Madrid contro le truppe d'invasione ancora al comando di Murat. Questi reprime le sommosse con implacabile brutalità, con i plotoni d'esecuzione che il pittore Goya ricostruisce col suo magico pennello consegnandoli alla storia dell'arte, che è più duratura della storia delle conquiste.

Il 20 luglio Giuseppe fa il suo ingresso in Madrid e siede sul trono di Carlo V dichiarando fieramente: «Io, il re». Ma regna molto poco. Può restare soltanto dieci giorni perché il paese prende fuoco. Mentre il giovane ed energico generale inglese sir Arthur Wellesley, futuro duca di Wellington, sbarca in Portogallo (1° agosto) dando inizio alla campagna contro le truppe francesi d'occupazione, il popolo spagnolo insorge in massa contro gli usurpatori. Napoleone credendo di poter domare facilmente la sommossa manda via via nuove truppe, fino a centomila uomini. Ma un'«armata» di 160.000 frati e preti spagnoli sostiene nell'ombra l'insurrezione popolare, che inventa la guerriglia falcidiando gli invasori sia alle spalle sia di fronte.

Il Signore della guerra, che ha sbaragliato l'élite dei generali europei, non riesce a dominare una rivolta di popolo. Assume personalmente la direzione della campagna di Spagna destinandovi i suoi migliori generali, da Soult a Lefebvre, Lannes, Victor, Saint-Cyr. Ordina di riconquistare Madrid, in mano agli insorti dall'inizio di agosto. La resistenza continua ovunque perché gli spagnoli, ora aiutati dagli inglesi di Blake, non sono animati soltanto da motivazioni ideali ma anche dalla consapevolezza che la Francia vuole conservare il dominio del paese per assicurarsi il monopolio della lana e del panno. Intanto Junot capitola a Cintra ottenendo di poter tornare in patria con le sue truppe ma deve abbandonare Lisbona agli inglesi, che mandano in Portogallo una seconda armata.

Napoleone ha appena organizzato il convegno di Erfurt per rinfrescare il suo idillio con lo zar Alessandro presenti re, sovrani e principi di ogni genere. Agli inizi di novembre giunge in Spagna, il giorno 30 guida le truppe alla riconquista di Madrid ma trova il cammino sbarrato sugli impervi sentieri della Sierra da una divisione spagnola munita di

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artiglieria. Comanda allora la carica ai cavalieri polacchi, arruolati l'anno precedente, il fior fiore della nobiltà di quel paese, per provare il loro valore e la fedeltà alla sua persona. I polacchi s'avventano, lance contro cannoni, mettendo in rotta gli insorti. Patrioti sinceri di una Polonia solo formalmente indipendente, combattono, in nome del despota militare, un esercito di liberazione nazionale.

Il 1 dicembre l'imperatore installa il suo campo a Champartin, alle porte di Madrid, dirigendo il cannoneggiamento della capitale nelle cui strade la popolazione va erigendo in fretta delle barricate. Riceve una deputazione di notabili, ansiosi che vengano risparmiati i bellissimi palazzi del centro. Dopo averli ascoltati, tremanti, ai suoi piedi, indica Duroc che, alla sua destra, ha in mano l'orologio. Tuona: «Se entro un'ora non mi avrete portato la sottomissione del popolo, vi passerò tutti per le armi quando conquisterò la città».

È una delle scene che ama recitare sul palcoscenico di quella «azione drammatica» che è la guerra. Il 4 dicembre, ottenuta la capitolazione, si installa nello splendido palazzo reale cominciando a legiferare senza nemmeno interpellare re Giuseppe. Con pochi documenti e con la sua firma fa fare alla Spagna un balzo in avanti di secoli abolendo l'Inquisizione, i diritti feudali, due terzi degli ordini religiosi.

Prima di andarsene rimette il fratello sul trono dicendogli graziosamente: «Giuseppe, vi invidio questa reggia: voi siete meglio alloggiato di me». Si allontana con la consueta rapidità e la certezza che il suo potere o la sua influenza si estendano su tutto e su tutti da Madrid a Pietroburgo. È il padrone dell'Europa da Siviglia a Varsavia, da Napoli al Baltico.

CAPITOLO XVCARCERIERE DEL PAPA

Il 20 dicembre 1808 il Signore della guerra attraversa la Sierra de Guadarrama sotto una tempesta di neve cercando di prendere alle spalle un'armata anglo-spagnola in marcia verso Burgo al comando di John Moore e del marchese della Romana. Deve marciare sovente a piedi appoggiando il braccio su quello di Duroc. Fa cambiare direzione una decina di volte al Corpo principale, avendo Soult e Ney all'avanguardia. Il giorno 28 apprende che il nemico è riuscito a evitare l'accerchiamento ritirandosi a La Coruna, verso la frontiera portoghese. «Gli inglesi», scrive

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a Giuseppe, «devono ringraziare le difficoltà opposte dalla montagna e dal fango infame».

Il 1° gennaio, ad Astorga, antica città fondata dai romani che tra un paio d'anni diventerà famosa come «tomba dei francesi», apprende da un corriere giunto da Parigi che si stanno preparando nuove insidie. L'Austria si è riarmata, prepara un'aggressione. Il desiderio di rivincita degli Asburgo è stato ravvivato a Erfurt dal comportamento di Talleyrand, che non ha esitato a porre in cattiva luce «questo imperatore straniero» (Napoleone) di cui egli vede prossima la caduta. Talleyrand, pare, si è venduto allo zar e a Metternich, che inizia a Parigi una brillante carriera d'ambasciatore accingendosi a diventare intimo consigliere di re Francesco e ministro onnipotente.

Dopo qualche giorno di meditazione Napoleone lascia 200.000 uomini in una terra completamente ostile, nemmeno lontanamente domata. Tornato nella capitale, investe Talleyrand e anche Fouché, della cui fedeltà ha motivi di dubitare, con frasi ingiuriose che vengono udite attraverso le porte dell'anticamera da una folla di ciambellani e di alti militari. «Talleyrand, non siete che una merda». I due ministri escono con l'aria atterrita di chi si attende di finire in prigione o al patibolo. Invece vengono perdonati, anche se la volpe Talleyrand deve lasciare il governo. Commenta la famiglia Bonaparte: «Egli offende troppo e non punisce abbastanza». Quel vecchio repubblicano di Carnot, in fondo più devoto di tanti altri, osserva a sua volta: «Minacciare senza colpire, lasciare il potere di nuocere nelle mani di coloro che ha insultati, è un errore ch'egli ripete spesso».

L'Austria suona la diana. Ha messo insieme un migliaio di cannoni e 300.000 uomini, di cui il grosso, 200.000, affidati al comando dell'arciduca Carlo, che nel marzo 1809 si mette in marcia sulla riva destra del Danubio per occupare l'altopiano bavarese. La Francia attaccata dovrebbe essere aiutata dalla Russia secondo gli accordi di Tilsit. Ma lo zar, col pretesto di doversi salvaguardare dalle mire di Svezia e Turchia, si guarda bene dall'intervenire. Napoleone accorre e appena sceso dalla carrozza domanda: «Dov'è il nemico?». Appreso che l'arciduca sta ora marciando verso Ratisbona, contando di investire in aprile Strasburgo, replica vivacemente: «Li tengo, dunque. Questa è un'armata perduta. Tra un mese saremo a Vienna».

Riesce a compiere miracoli con la Grande Armée riunita chiamando

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uomini da vari settori, mettendo insieme veterani stanchi e reclute mediocremente istruite. Si apre la strada faticosamente, combattendo a Abensberg, Eckmuehl, Ebersberg. Di nuovo conquista Vienna, di nuovo dorme nella reggia di Schoenbrunn dove fa venire da Varsavia la non dimenticata amante Maria Valewska, che stavolta rimane incinta. Ma ad Aspern-Essling, praticamente alle porte della capitale, perde Lannes, uno dei migliori marescialli dell'impero, perde il valorosissimo generale Saint-Hilaire e 6.000 uomini uccisi sul campo (21-22 maggio). Lannes ha entrambe le gambe fracassate da una cannonata mentre si sposta da un reparto all'altro per incoraggiare le truppe esauste, in difficoltà: trasportato su di un'ambulanza, agonizza per otto ore con Napoleone che piange al suo fianco mentre il capochirurgo barone generale Larrey tenta invano la doppia amputazione.

Occorre una rivincita per ribadire davanti alla ribalta continentale la superiorità del Signore della guerra. Bisogna sferrare un colpo irreparabile all'arciduca Carlo, che ha ancora con sé 150.000 uomini agguerriti anche moralmente. Dopo 48 ore di stupefatta inazione, dovuta all'insolita stanchezza, Napoleone si immerge nello studio delle carte topografiche, organizza e riordina, trasferisce. Il 1° luglio è pronto: operazione Wagram. Attende l'arrivo, il giorno 5, dei rinforzi chiesti a Marmont e al principe Eugenio, che giunge a marce forzate dalle Alpi tirolesi con la sua armata d'Italia. Lo schieramento complessivo è di 188.000 uomini.

Napoleone è attestato in Lobau, isola formata dal Danubio a una dozzina di chilometri da Vienna. Appena arrivati i rinforzi, per evitare che il nemico riceva a sua volta altre truppe con l'arciduca Giovanni in marcia di avvicinamento da Presburgo con 12.500 uomini, nella stessa notte sul 5 luglio fa uscire tutte le divisioni dall'isola schierandole nella pianura del Marchfeld. Conta di sfondare qui lo schieramento nemico per dividerlo in due tronconi da isolare e battere separatamente.

Alla puntata su Wagram, la sera del 5 gli austriaci rispondono la mattina del 6 facendo avanzare contro il Corpo di Davout l'ala sinistra, che viene peraltro respinta oltre il torrente Russbach; contemporaneamente, tentano con l'ala destra di aggirare i francesi staccandoli dal Danubio. Qui, sulla sinistra francese, c'è Massena, che con 27.000 uomini deve affrontare l'urto di una massa più che doppia, 60.000. Massena, ferito in precedenza, non può ancora montare a cavallo e si è fatto portare in calesse in prima linea da dove dirige lo scontro. Più volte circondato dagli austriaci, è stato

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liberato a sciabolate dagli ufficiali del suo stato maggiore, che per un terzo rimangono inchiodati accanto a lui, morti o feriti.

Arriva Napoleone, che monta un cavallo bianco per essere riconoscibile dai suoi quanto dal nemico. Tra il grandinare delle cannonate, della mitraglia, della fucileria osserva il cocchiere e il postiglione di Massena, entrambi domestici civili, che resistono impavidi al loro posto. Dice a Massena: «Ci sono trecentomila soldati sul campo di battaglia, ma questi due civili sono più coraggiosi di tutti. Noi siamo qui per fare il nostro dovere, loro si espongono alla morte senza esservi costretti». Dice ai domestici: «Siete dei valorosi».

L'accanita resistenza di Massena costringe gli austriaci a tenere qui impegnate a lungo molte forze sulla loro destra sguarnendo il centro. È proprio qui che l'imperatore sferra l'attacco decisivo spostando in zona 100 cannoni davanti alla fanteria (la tecnica usata a Friedland). Concluso l'improvviso, terrificante bombardamento, Eugenio di Beaurhanais ha l'onore di guidare l'attacco principale con i suoi 20.000 uomini tra cui la Guardia reale italiana comandata dal bravo generale Teodoro Lechi. E dietro a loro il Signore della guerra manda i corazzieri di Bessières, manda la sua stessa Guardia perché è il momento di vincere. Prima di sera l'arciduca Carlo è costretto a ritirarsi per evitare l'accerchiamento lasciando sul campo 40.000 tra morti, feriti e prigionieri. L'11 luglio chiede l'armistizio.

Napoleone non ha inseguito in forze il nemico in fuga nonostante gli incitamenti in questo senso dei suoi comandanti riuniti sotto la sua tenda. Ha visto sul terreno una distesa di cadaveri senza fine. Deve fronteggiare tanti altri problemi. Roma è insorta contro i francesi. Stavolta l'imperatore si accanisce contro il papa accusandolo di sobillare le ostilità contro di lui, dopo aver rifiutato, fin dal 1806, di aderire al blocco continentale. Lo spoglia dell'autorità temporale annettendo gli Stati pontifici all'impero.

Il motivo principale della discordia tra Pio VII e l'imperatore che egli aveva unto in Nótre Dame appena 5 anni fa deriva dalla pretesa di Napoleone di subordinare la Chiesa allo Stato francese nominando egli stesso i nuovi vescovi. Pio VII ha reagito con la bolla Quum memoranda, che scomunica tutti coloro che hanno perpetrato violenza.

La stessa persona che aveva concluso il concordato tra la Chiesa cattolica e la Francia adesso ordina che il vicario di Cristo in terra sia arrestato e rinchiuso nel palazzo vescovile di Savona. L'imperatore è

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convinto che l'anziano (69 anni) prigioniero rimanendo a lungo isolato dal resto del mondo, privo di notizie e di alleati, finisca col cedere alle sue pretese concedendo l'investitura canonica ai nuovi vescovi. Ha in serbo per lui un'altra pretesa: ottenere lo scioglimento del matrimonio con Giuseppina contratto anche con rito religioso prima della consacrazione a imperatore.

Napoleone ha infatti capito, dopo la rivolta di Spagna e dopo Wagram, che la sua potenza militare, per quanto gloriosa e trionfante, non è sufficiente a consentirgli di consolidare il suo potere, a garantirgli la tranquillità. Cerca alleati e, dopo la defezione dello zar, vuole ottenerli per mezzo di un matrimonio regale. Sposare una giovane principessa del sangue per avere l'incondizionato appoggio di una dinastia e anche quel figlio1 [1 Napoleone ha avuto due figli non in costanza di matrimonio: uno da una dama della sorella Paolina e l'altro dalla contessa polacca Maria Walewska. Perdute le tracce del primo, del secondo si sa tutto: Alexandre Walewski, nato nel 1810, nel 1831 dopo la caduta di Varsavia ripara in Francia dove ottiene la naturalizzazione. Abbraccia la carriera diplomatica, è senatore sotto il secondo impero e dal 1855 ministro degli Esteri.] legittimo che Giuseppina non è riuscita a mettere al mondo. Le alleanze e l'erede: ecco il problema numero uno di questa seconda metà dell'anno 1809.

Al ritorno a Parigi esita per due mesi - mai era accaduto prima d'ora - prima di affrontare lo scontro che pure non è possibile evitare. Teme le lacrime di Giuseppina più delle pallottole nemiche alle quali ha fatto l'abitudine. La storia registra che la spiegazione avviene la sera del 30 novembre nei saloni delle Tuileries. Giuseppina, era facile prevederlo, usa tutte le armi femminili per convincere lo sposo quarantenne a desistere dall'idea del divorzio: piange, supplica, urla, prega, perde i sensi. L'imperatore, sinceramente affranto, mantiene la decisione. Il 15 dicembre si riunisce il consiglio di famiglia: Madame Mère, Letizia, che non ha mai avuto simpatia per la creola; i fratelli e le sorelle, che in fondo hanno sempre considerata la «carcassa» o la «vecchia» alla stregua di un'intrusa; i cognati e le cognate; Ortenaia ed Eugenio. Giuseppina, impietrita, ode Napoleone dichiarare: «Dio solo sa quanto mi costi un simile passo. Ma non c'è sacrificio troppo grande per il bene della Francia. L'imperatrice ha abbellito la mia vita per quindici anni. Voglio che sia la mia migliore amica per gli anni a venire. Voglio che conservi il grado, il titolo, il

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rispetto e gli appannaggi di imperatrice».Alla fine della scena patetica, quasi tragica, firma tutti i documenti che

lui le mette davanti. Lo lascia libero. Torna «da signorina», sola, alla Malmaison, che non ha mai lasciato completamente. Poco dopo riceve una lunga visita dal suo «ex», che la trova debole e provata. «Non devi abbandonarti alla malinconia funerea», le dice. «Cura la tua salute che tanto mi sta a cuore e, se mi ami, mostrati forte».

Giuseppina manda all'imperatore una lista di conti da pagare: milioni e milioni, tanti (miliardi di oggi). Lui paga, poi se ne sta tre giorni senza lavorare e senza vedere nessuno, fino a strapparsi dal cuore il ricordo dell'unica donna che abbia amato con travolgente passione, simile a un qualunque ufficialetto alle prime armi.

Ma con il papa non la spunta. Deve rivolgersi ai suoi vescovi di fiducia per trovare chi lo liberi con un pretesto dal legame religioso per sua natura indissolubile. Il Signore della guerra non perdonerà mai Pio VII: fra tre anni lo farà venire, stanco e malato, sempre prigioniero, a Parigi, e lo costringerà con la forza, dopo mesi e mesi di minacce, a sottoscrivere un diverso concordato. È diventato un carceriere.

CAPITOLO XVISPOSA UNA ABSBURGO

«I matrimoni dei sovrani non sono affari di sentimento ma di politica. Il mio non ha motivi di politica interna. Io desidero invece assicurare la mia autorità all'estero e ingrandirla per mezzo di un'alleanza con qualche potente vicino. Il mio matrimonio me ne offre i mezzi». La notizia si sparge rapida come il lampo in tutte le Corti d'Europa. Non è difficile comprenderne il significato. Napoleone I, imperatore dei francesi, re d'Italia, quarantenne appena, diventa un marito «possibile» per tutte le principesse nubili d'Europa. O meglio, per tutte no. Non va scordato che due suoi fratelli, Luigi e Gerolamo, hanno sposato le figlie di principi tedeschi; lui non può quindi accontentarsi di una «altezza reale» uscita da una piccola Corte. Mira più in alto altrimenti i fini politici del nuovo matrimonio verrebbero a mancare.

La prima idea è quella di trattare con lo zar Alessandro per farsi dare in moglie la sorella minore Anna, che peraltro ha soltanto 15 anni. La troppo giovane età della principessina unita alla riluttanza della madre Sofia

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Dorotea di Wuerttemberg (Maria Fedorovna) ad accasare Anna con l'orco rallentano le trattative. Eppure queste nozze imperiali potrebbero assicurare, assai più del traballante accordo di Tilsit, l'alleanza perpetua tra occidente e oriente, l'unione dei due maggiori Stati dell'Europa continentale.

Alla fine il vincitore si accorge che il vinto di Friedland tira le cose in lungo e si rivolge altrove: a Vienna, presso l'antica, potentissima dinastia imperiale degli Absburgo, che sono imparentati con tutte o quasi le Corti europee e da dove proveniva anche l'ultima regina «legittima» di Francia, Maria Antonietta. Il sovrano austriaco attuale, Francesco, nipote di Maria Antonietta (è figlio del fratello di lei Leopoldo II), ha la figlia primogenita, Maria Luisa, in età da marito.

Dunque: Maria Luisa ha 22 anni meno di Napoleone, è parente della regina decapita e figlia di quel sovrano che è stato privato di possedimenti e di potere dal despota francese. Ma la ragion di Stato non conosce ostacoli di questo genere. Come nasce l'idillio? Secondo una versione particolarmente gradita nel secolo del romanticismo, Napoleone avrebbe avanzato la prima proposta in occasione di un ballo mascherato danzando con la moglie del cancelliere austriaco, principessa di Metternich: «Accettereste voi, al posto di un'arciduchessa, la mia mano?»

Secondo una versione più verosimile, la prima idea è proprio di Metternich, ansioso di imbrigliare il despota che ha già sconfitto l'Austria per quattro volte. Fatto sta che un bel giorno Napoleone manda a Maria Luisa una missiva di questo tenore: «Le doti brillanti che distinguono la Vostra persona hanno suscitato in noi il desiderio di onorarvi e di servirvi. Mentre rivolgiamo all'Imperatore Vostro Padre la preghiera di affidarci la felicità di Vostra Altezza imperiale, possiamo sperare che Voi accoglierete benignamente i sentimenti che ci hanno spinto a questo passo? Possiamo lusingarci che Voi non Vi deciderete a un tal passo soltanto per dovere ed obbedienza filiale? Se i sentimenti di Vostra Altezza Imperiale avranno soltanto un poco di parzialità per noi, noi ci proponiamo di coltivare tali sensi e di proporci quale compito supremo di tornarvi in ogni cosa gradito, e ci lusinghiamo di riuscire: tale è lo scopo cui tendiamo e al cui conseguimento chiediamo il favore dell'Altezza Vostra». Uno stile tortuoso, insolito in Bonaparte.

Il cancelliere Metternich commenterà: «Abbiamo dato la ragazza all'orco per avere un momento di riposo che ci permettesse di rifarci». Povera

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Maria Luisa, trattata come una donna-oggetto!Ma anche Napoleone ha motivo di considerare un successo questa

unione. Intanto, da avventuriero del trono diventa genero dell'imperatore d'Austria, ossia di uno dei più antichi sovrani d'Europa. Entra cioè nella famiglia dei re coronati non soltanto per la forza delle armi ma per pacifico riconoscimento. Inoltre può con molte probabilità attendersi di avere un erede sposando una donna così giovane e appartenente a una famiglia assai prolifica.

Avere un erede significa la continuità, la conservazione del potere. Nell'anno di grazia 1810 Napoleone è finalmente appagato. Vuole convivere in pace con l'imperatore di Vienna e, attraverso di lui, con quello di Pietroburgo. Non pensa a nuove conquiste se non a domare l'irriducibile Inghilterra. Intanto studia l'etichetta, la prassi seguita in occasione delle nozze di Maria Antonietta, della quale si accinge a diventare... pronipote. Manda anzitutto alla fidanzata, tramite il suo braccio destro Berthier, il proprio ritratto con cornice tempestata di brillanti e guarnizione di gioielli. In occasione del matrimonio civile, celebrato a Vienna, si fa rappresentare dall'arciduca Carlo, zio della sposa e avversario del «Piccolo Caporale» in tante battaglie.

Si dimostra impaziente proprio come un innamorato. Compare d'improvviso davanti a lei prima di Compiègne, ove era stabilito il primo incontro, mentre si stanno cambiando i cavalli del corteo della sposa sotto la pioggia battente. Sale in carrozza, bacia Maria Luisa sotto gli occhi esterrefatti di una dama di compagnia e la notte stessa esercita i propri diritti coniugali. «Amici miei», mormora l'indomani agli altri dignitari del seguito, «sposate una tedesca: sono donne fresche, dolci e docili».

Il 2 aprile il cardinale Joseph Fesch, zio di Napoleone, per parte di madre, lo stesso che lo aveva unito in matrimonio religioso con Giuseppina prima dell'incoronazione, celebra le nozze religiose. Napoleone e Maria Luisa attraversano la grande galleria del Louvre davanti alla Corte al gran completo (mancano però il papa, sempre prigioniero a Savona, e ben tredici cardinali invitati invano). I festeggiamenti durano settimane, durante le quali vengono profusi franchi a milioni. C'è chi rimpiange la grazia, il sorriso di Giuseppina: la nuova imperatrice viene giudicata fredda e insipida da più parti, un'Absburgo dalla testa ai piedi. Ma non lo sposo, che sembra davvero innamorato. Viene visto perfino salire in barchetta, nello stagno di Fontainebleau, con

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la giovane mogliettina, e remare con grazia al suo fianco.Napoleone scrive ora al suocero chiamandolo «caro papà Francesco».

Lo ringrazia del bellissimo dono (la figlia), apprezza altamente il suo consigliere e cancelliere, Metternich, che conduce egli stesso in presenza di Maria Luisa: ma non altri uomini, di cui è geloso. Un sinistro presagio getta sulla parentesi serena un'ombra tragica. Il 1° luglio l'ambasciata d'Austria a Parigi offre un ballo di gala in onore della nuova imperatrice. Divampa, repentino, un incendio, che si propaga di colpo alle tende, ai mobili, ai lunghi e sottili abiti delle dame. Maria Luisa, protetta dall'imperatore, fa in tempo a fuggire ma bruciano vivi non pochi dei presenti tra cui la principessa di Schwarzenberg, cognata dell'ambasciatore.

Maria Walewska, giunta a Parigi per mostrare il figlio all'imperatore, si stabilisce per qualche tempo alla Malmaison con Giuseppina. Napoleone è tutto preso dal suo nuovo amore, non ha tempo da dedicare né all'amante né all'ex-moglie. Freme dall'impazienza di avere un erede legittimo: e già durante l'estate Maria Luisa annuncia puntualmente di essere «in attesa». Attesa che l'imperatore, dal canto suo, inganna dedicandosi ai lavori pubblici, che sono un'altra delle sue passioni. Fa costruire archi, edifici pubblici, porte, palazzi e strade in una ventina di città da Parigi a Milano e a Roma. Inizia a far scavare in fianco alle pareti rocciose la magnifica via da Nizza verso Genova.

Nel corso di un grande viaggio in Belgio e in Olanda, per mostrare l'imperatrice alle popolazioni fino a ieri sottomesse all'Austria, i sovrani inaugurano nel porto di Anversa uno dei nuovi, grandi vascelli da 80 cannoni. Sempre ad Anversa, sulla pubblica piazza, davanti a una folla silenziosa ma visibilmente contrariata, fa bruciare le merci sequestrate dai suoi doganieri: pezze di tessuti, barili di zucchero, casse di tè, balle di cotone e altri prodotti contrabbandati con gli inglesi. Nonostante il blocco continentale, infatti, la borghesia industriale e commerciale ha bisogno delle mercanzie britanniche.

Maria Luisa si dimostra una moglie di buon carattere. Ha ingegno mediocre ma possiede un senso di equilibrio, quel certo «non so che» di veramente regale che si può ereditare col sangue o acquisire vivendo fin da piccoli nelle Corti. Aiuta sinceramente l'uomo che, prima di essere scelto quale suo marito dal fido ministro di suo padre, le veniva descritto come un malfattore, nemico di Dio e dell'umanità. Per amor suo o per senso di

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dovere accetta i generali e i marescialli di umile origine, regine e re improvvisati, dame di nobiltà almeno dubbia. Commenterà Napoleone: «Le due persone con le quali mia moglie ha giocato a carte la prima volta a Parigi erano due regicidi, Cambacérès e Fouché».

Napoleone ingrassa, mette su un inizio di pancetta. Discute con filosofi e con artisti, che in questo periodo riceve, insieme con gli ingegneri e gli architetti, più di frequente dei generali. Scherza con i figli dei suoi funzionari e, se richiesto, si interessa dei matrimoni delle ragazze. Attribuisce una grandissima importanza alla maternità o all'educazione dei ragazzi. «Gli uomini», assicura, «si formano sulle ginocchia della madre». Sembrano lontani i tempi in cui le sue occupazioni principali erano consultare le carte topografiche, studiare col binocolo l'andamento della battaglia, guidare eserciti lungo le infuocate sabbie africane, sulle Alpi innevate, tra le foreste germaniche o sino nelle steppe polacche. Mangiare a cavallo e dormire sotto la tenda.

Le preoccupazioni, è ovvio, non mancano nemmeno in questo periodo. Luigi è dibattuto in Olanda tra il desiderio di obbedire al fratello col blocco anti-inglese e quello di fare gli interessi del «suo popolo», che vive in prevalenza commerciando con la Gran Bretagna. Cerca di praticare una politica indipendente, apre le spiagge olandesi al contrabbando. Finché Napoleone, al colmo dell'ira, lo spazza dal trono mandando i soldati di Oudinot a occupare Amsterdam, che diviene il capoluogo del dipartimento francese dello Zuyderzee. Per ragioni analoghe le città anseatiche sono riunite al «grande impero» che comprende adesso più di cento dipartimenti tra cui quelli delle Bocche dell'Elba, capoluogo Amburgo, e del Tevere, con capoluogo Roma.

Anche la Svezia sembra disposta ad avvicinarsi alla politica napoleonica. Poiché il re Carlo XIII non ha figli né eredi, il Riksdag (parlamento) designa quale principe ereditario il maresciallo Bernadotte. Questi nel periodo (1807-1808) in cui era stato governatore delle città anseatiche si era acquistato numerose simpatie per la sua saggia amministrazione e per l'umano trattamento riservato ai prigionieri svedesi. Napoleone sa di non potersi fidare incondizionatamente della lealtà di Bernadotte, ma non può nemmeno ostacolarlo, disapprovarlo apertamente: anche perché è sempre il marito della dolce Désirée Clary. Ecco quindi un altro dei suoi marescialli diventare principe reale e futuro (dal 1918) re col nome di Carlo XIV.

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Mattino del 20 marzo 1811, a Parigi romba il cannone. Napoleone ne riconosce il calibro ma segue soprattutto il numero dei colpi, centouno: è nato il re di Roma, conferma che l'impero ha un erede e, contemporaneamente, che l'eredità del Sacro Romano Impero è passata alla Francia. «I grandi destini di mio figlio si compiranno», annuncia orgoglioso al Senato. E il 10 giugno successivo, durante la cerimonia del battesimo in Nòtre Dame, mostra il piccolo alla folla radunata in chiesa. La sua è la gioia di tutta la nazione, che impara a seguire i bollettini redatti sulla salute dell'erede con la puntualità con la quale ieri seguiva i bollettini della Grande Armée. Attorno a questa culla si crea un ambiente di sfarzo quale non si era mai visto per i Delfini di Francia.

L'apogeo, il culmine del potere e della felicità sono appena velati dalle notizie poco rassicuranti che giungono a proposito del blocco continentale e dell'interminabile guerra di Spagna. Il blocco, per essere veramente efficace, per costringere l'Inghilterra a venire a patti nel timore di assistere altrimenti alla rovina dei propri commerci, dovrebbe essere completo. Invece le mercanzie inglesi entrano in Europa da varie parti: dai porti turchi invadono i Balcani, dalla Svezia e dall'Olanda penetrano in Germania e da Napoli nel resto dell'Italia.

Napoleone, costretto Luigi a lasciare il trono d'Olanda (un altro fratello ribelle dopo Luciano) adesso se la prende con Murat bersagliandolo di lettere di protesta: in tutti i porti del regno napoletano si fa contrabbando a favore degli inglesi. Questi rimbrotti dimostrano chiaramente che Murat è un re fantoccio, legato non agli interessi del suo trono ma a quelli della Francia. Questi è allora portato a intavolare trattative sottobanco con la Gran Bretagna e con l'Austria nell'intento di conservare il trono all'infuori della tutela imperiale.

Quanto alla guerriglia spagnola, nemmeno Massena, il «figlio prediletto della vittoria», riesce a venirne a capo. E nel vicino Portogallo comincia a brillare l'astro di sir Arthur Wellesley, che ha la stessa età di Napoleone e che si è fatto le ossa come comandante militare in India. Forte, intelligente, volontà d'acciaio, mostra indipendenza dal proprio governo e un'alterigia a volte insopportabile nei riguardi degli inferiori. Attacca Soult, al quale riprende Oporto, costringendolo a ritirarsi sulla montagna abbandonando la propria artiglieria; quindi attacca Victor, che indietreggia verso Madrid. In premio per il duplice successo viene elevato alla dignità di duca. È così che lord Wellington entra nella storia tra le cui pagine sarà conosciuto

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come «Duca di ferro».Il duca di Wellington respinge invece l'invito che alla fine del 1809 gli

viene rivolto dalla giunta centrale degli insorti spagnoli di andare a combattere in questo paese il comune nemico. L'armata d'Andalusia marcia su Madrid ma viene messa in rotta a Oscana, il 19 novembre, da uno dei Corpi di Soult, comandato da Sebastiani. Kellermann sconfigge l'armata d'Estremadura e Soult agli inizi del 1910 conquista, in parte, l'Andalusia disponendosi infine all'assedio di Cadice. Le armate spagnole non reggono la potenza di fuoco di quelle francesi ma si riformano dopo ogni sconfitta.

Intanto Massena compie il terzo tentativo di conquistare il Portogallo. Ma viene arrestato prima di poter giungere a Lisbona da una serie di tre linee fortificate predisposte da Wellington, che ha anche un numero doppio di soldati (33.000 inglesi, 30.000 portoghesi, 6.000 spagnoli). Dopo aver atteso invano rinforzi adeguati per tutto l'inverno, il 5 marzo 1911 Massena deve risolversi alla ritirata. Il 5 maggio sarà battuto di nuovo da Wellington ad Almeida. Nel caos generale delle operazioni in Spagna si afferma Gabriel Suchet, che conquista via via Lerida, Tortosa e dopo 54 giorni d'assedio Tarragona. Preso anche il monastero fortificato di Montserrat, vicino a Barcellona, passa a sud dell'Ebre, respinge l'armata di Blake in Valenza costringendola a capitolare dopo 12 giorni di assedio. Governa poi l'Aragona con giustizia riuscendo a farsi accettare dalla popolazione come non accade agli avidi Massena, Soult, Kellermann e Sebastiani.

Abbandonato per sempre il progetto di impadronirsi del Portogallo, i francesi pur tra alti e bassi non hanno ancora perduto la guerra in Spagna, dove hanno complessivamente 300.000 uomini. Ma Napoleone commette l'errore di non recarsi di persona a dirigere le operazioni né nel 1810 né durante l'anno successivo. Giuseppe non ha certo il suo colpo d'occhio, il suo senso strategico globale, la sua autorità. Gli invasori sono logorati dalle imboscate dei guerriglieri, che intercettano i corrieri e i convogli di rifornimento. Capita così che l'imperatore rimanga a lungo privo di notizie esatte degli avvenimenti in questo scacchiere mentre le truppe devono patire la fame e la sete, sopportare l'assalto, oltre che del nemico, delle malattie.

Né si sa bene dove e chi sia, questo nemico. I preti e i frati possono nascondere il fucile sotto la tonaca quanto le donne sotto le sottane. È una

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lotta sordida, senza quartiere. I massacri si susseguono ai massacri da entrambe le parti, come gli episodi di eroismo. La penisola iberica diventa un enorme «pontone da sbarco» per gli inglesi. Quando Napoleone riesce a comprendere la situazione nelle sue esatte proporzioni, è troppo tardi: una nuova, lontana campagna militare giunge a distogliere tutte le sue forze, tutta la sua attenzione.

CAPITOLO XVIITRA I FANTASMI DI MOSCA

«Ciò che i popoli della Germania desiderano con impazienza», dice Napoleone al fratello Gerolamo re di Vestfalia, «è che i non nobili e quelli che posseggono della capacità abbiano un diritto uguale alla Vostra considerazione e agli uffici pubblici, e che ogni specie di servaggio e i legami intermedi fra il sovrano e l'ultima classe del popolo siano interamente soppressi. Bisogna che i Vostri popoli godano di libertà e di uguaglianza, che questo governo liberale generi cambiamenti più salutari. Siate re costituzionale! Questa maniera di governare sarà una barriera più efficace di fronte alla Prussia che non l'Elba e le fortezze più possenti. Quale popolo potrebbe ritornare sotto l'arbitrario governo prussiano, dopo che avrà goduto i benefici di una amministrazione saggia e liberale?».

Però via via che l'impero si ingrandisce tanta buona volontà e tante promesse finiscono disperse come foglie morte. Non sono i propositi dispotici dell'imperatore a ingenerare il maleficio bensì le necessità ferree della gigantesca politica estera in cui egli si è impegolato a trascinarlo nel vortice, a imporre a tutta la sua amministrazione un ritmo di guerra. Preso nell'ingranaggio del suo stesso meccanismo, egli finisce con l'irrigidirsi in questo concetto schematico: siccome i popoli sono stati affrancati dalla tirannia dei vecchi re e governi assolutistici, e hanno ricevuto, come in dono, una Costituzione, l'abolizione delle servitù feudali ed ecclesiastiche, l'uguaglianza dei diritti, il Codice civile, essi non devono chiedere niente altro. Se oltre a quello che hanno ricevuto accarezzano sogni di indipendenza, di restaurazione del loro passato più o meno glorioso, di «risorgimento nazionale» come spesso amano fare italiani, polacchi, tedeschi, spagnoli e così via, queste sono «ubbie pericolose» che essi hanno il torto di continuare a scaldare nel loro seno, e nelle quali «non c'è una sola parola che abbia senso». Potrà a intervalli il governo imperiale

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ripigliare a manovrare tante illusioni ma il suo frasario stereotipo celerà sempre un significato diverso da quello che le parole avrebbero naturalmente.

Il pensiero segreto dell'imperatore, o quello cui lo forzano le tragiche, contrastanti necessità della sua politica estera, è un altro. Dai paesi alleati o vassalli non vuole che due cose: uomini e denaro. Denaro non per costruire strade o scavare canali bensì per nutrire il suo esercito, accrescerne gli effettivi. Denaro e ancora denaro. Così i popoli devono guardarsi dal discutere gli ordini o dall'interpretare i loro interessi in maniera differente da come egli li interpreta; soprattutto dal fare «calcoli indipendenti da quelli della prosperità della Francia». Già l'ordinamento politico di ciascun popolo deve essere regolato da lui perché «essendo stati liberati dai vecchi regimi per via di conquista essi non possono pretendere di darsi un re o delle leggi». Solo il governo imperiale può stabilire i loro diritti e i loro doveri; esso solo può sapere come vadano ripartiti tra le varie categorie sociali. Dietro gli Statuti scritti e giurati deve rimanere sempre vigile e attiva un'autorità costituente, che potrà, quando voglia, interpretarli, ossia modificarli, e magari travisarli: l'onnipossente volere dell'imperatore.

«È nei miei principi», scrive per esempio Napoleone al presidente del Corpo legislativo del Regno d'Italia, «servirmi di tutti i corpi intermedi - o consiglio dei consultori o consiglio legislativo o corpo legislativo - tutte le volte che essi avranno le stesse intenzioni e seguiranno le mie stesse direttive. Ma ogni volta che porteranno nelle loro deliberazioni dei disegni contrari a quelli che io posso aver meditato, i loro sforzi saranno impotenti, la vergogna ricadrà tutta su di essi. E loro malgrado io attuerò tutto quello che avrò reputato necessario. Questi principi trasmetterò ai miei discendenti, ed essi apprenderanno da me che un principe non deve mai tollerare che un universale spirito di leggerezza o di opposizione discrediti quell'autorità, primo fondamento dell'ordine sociale, vera fonte di tutti i beni dei popoli».

Intanto l'insurrezione spagnola ha dimostrato alla ribalta europea che cosa possa compiere un paese che abbia forza e coraggio. Adesso tocca allo zar di tutte le Russie ascoltare le proteste, l'animosità antifrancese che proviene da larghi strati dell'opinione pubblica, nobili e agricoltori. La politica napoleonica del blocco continentale squassa l'economia russa. La chiusura del Mar Nero rovina i produttori di cereali, di canapa e di legname, gli allevatori di suini, tutti «beni» che fino a ieri gli inglesi

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venivano a caricare in grandissima quantità sui loro navigli per poi distribuirli in ogni contrada d'Europa. I proprietari non sono più in grado di pagare le imposte: il rublo che nel 1807 valeva 67 copechi nel 1810 ne vale soltanto 25. Dal canto suo lo zar è irritato anche per la creazione del granducato di Varsavia nel quale vede la resurrezione della vecchia Polonia, che solleva ondate di irredentismo nei vicini territori polacchi soggetti alla Russia. Teme che un altro Stato vicino, la Svezia di Bernadotte, finisca nel gran calderone dell'impero in funzione antirussa. Ha paura che anche l'Austria gli diventi ostile.

Lo zar Alessandro, che si considera (quasi) circondato di nemici, assediato in casa propria, anziché far rispettare il blocco contro l'Inghilterra finisce col creare un suo blocco contro la Francia; vieta l'importazione dei vini, dei liquori e di ogni oggetto di lusso di fabbricazione francese. Licenzia il primo ministro Speranskij, accusandolo di essere filonapoleonico, apre le porte, al pari dell'Inghilterra, ai patrioti europei, che la tirannide costringe a fuggire dai rispettivi paesi. Mentre sorgono ovunque società segrete decise di instaurare regimi nazionali e liberali.

Napoleone, sposo e padre felice, ha rinunciato da tempo alla prospettiva di avere nello zar un passivo alleato. Nemico per nemico, decide di assestargli un gran colpo sbarazzandosi di un rivale nell'egemonia continentale. Una campagna a est per togliere all'Inghilterra, irriducibile nemico numero uno il suo migliore «strumento» continentale. Una nuova, poderosa impresa militare nonostante la ribellione che infuoca la Spagna e le sommosse latenti in tanti paesi dell'impero. Lo stesso errore che sarà ripetuto nel secolo successivo da Adolf Hitler, il Signore della guerra di ceppo teutonico.

Inoltre accarezza in segreto il vecchio sogno, rinverdito, di conquistare un impero a oriente passando stavolta, anziché dall'Egitto, attraverso gli spazi sconfinati della Russia asiatica. Di questa seconda parte del suo progetto non parla con i ministri e con i marescialli ai quali presenta via via i particolari dell'impresa. Ma anche nella misura più ridotta, il progetto non è bene accolto dai suoi consiglieri. Pare a molti che il comportamento dello zar, per quanto ostile, non giustifichi una guerra. Guerra che il popolo non può sentire, come dimostra anche il rinnovato scandalo delle numerose renitenze alle leve ordinate dall'imperatore.

Napoleone, che ha già tutto deciso, recluta truppe in tutto il suo

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eterogeneo impero. Ne chiede anche all'Austria e alla Prussia ritenendo che questo sia il modo migliore di interessarle al buon esito dell'impresa, di impedire che passino nel campo avversario. Ottiene dall'Austria 30.000 soldati al comando del principe di Schwarzenberg, dalla Prussia 20.000 al comando del generale York, dal regno d'Italia 25.000 uomini guidati dal vicerè Eugenio, dal regno di Napoli 15.000 condotti dal re Gioacchino Murat: altri 40.000 tra piemontesi, toscani, liguri, emiliani sono sparsi negli eserciti di Oudinot, di Saint Cyr, di Macdonald.

Prevede che la Russia possa schierare 300.000 uomini e ne mette insieme il doppio, di cui soltanto una parte francesi e gli altri tedeschi, italiani, olandesi, polacchi, belgi, dalmati. Ma 200.000 devono rimanere al di qua del Niemen per assicurare il servizio delle retrovie. In conclusione, passano il fiume da ovest verso est 400.000 soldati con 130.000 cavalli, 8.000 carri e oltre 1.000 cannoni. Dopo aver superato il Niemen divide la Grande Armée in tre Corpi di importanza all'incirca uguale: Macdonald al nord, lui al centro e Gerolamo Bonaparte a sud.

Ha intenzione di bloccare le armate nemiche con un attacco in massa di sorpresa (non c'è nemmeno stata dichiarazione di guerra) per costringerle a una battaglia decisiva, fatale. Ma lo zar oltre ai suoi generali ha dei preziosi consiglieri che conoscono perfettamente la strategia e la mentalità di Napoleone: sono Moreau, antico rivale delle campagne di Francia, compagno di Cadoudal nella famigerata congiura, e Bernadotte ora principe di Svezia, al quale il sovrano russo ha promesso la corona della Norvegia attirandolo così dalla propria parte. Pur non essendo presente di persona, Bernadotte invia indicazioni e suggerimenti che risultano preziosi.

Sia i generali russi sia i consiglieri stranieri concordano nell'indicare con quale tattica conviene affrontare Napoleone: attirarlo il più possibile nell'interno del paese distruggendo davanti e intorno all'invasore tutto quanto possa servire al suo sostentamento e non consentendogli così di sfruttare le risorse locali, di «pagare la guerra con la guerra». Si può accettare battaglia soltanto con la certezza di vincerla, in condizioni ideali. Il sistema di Fabio il Temporeggiatore applicato contro il moderno Annibale.

Eppure il «Piccolo caporale», superato il Niemen il 24 giugno 1812 a Covno, è veramente sul punto di schiacciare le due più grosse armate russe contro l'impervia regione del Poliessie, paludosa e deserta, in cui sarebbero

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immancabilmente perite. La bella manovra non riesce per difetto d'esecuzione. I suoi marescialli cominciano subito a rivelarsi in non pochi casi inferiori ai loro compiti. Sono troppo ricchi, potenti, decorati e titolati: due re, un vicerè, tutti gli altri sono principi e duchi. Sono avidi ma non vogliono sacrificarsi per conquistare nuovi allori. Più che combattere il nemico passano il tempo a litigare uno contro l'altro, a contendersi i favori dell'imperatore, che riesce a farli andare d'accordo soltanto con la sua presenza. Ma non può essere ovunque data l'immensità dell'esercito e delle distanze. Particolarmente grave risulta il dissenso tra il maresciallo Davout, principe di Eckmuehl, principale organizzatore della grande spedizione, e Gioacchino Murat, re di Napoli, che si considera il più importante dei capi della Grande Armée dopo l'imperatore. Davout e Murat si insultano pesantemente, come due sergenti, e sembrano più volte sul punto di sfidarsi a duello. A questo grave inconveniente di natura disciplinare si aggiungono le difficoltà dovute al clima e alla natura stessa del paese. Il pesante calore estivo fiacca le gambe dei soldati mentre i cavalli, non abituati a nutrirsi esclusivamente di foraggio fresco, ancora bagnato, si ammalano e muoiono in massa: diecimila in pochi giorni, sicché molti carri rimangono abbandonati e migliaia di cavalleggeri risultano appiedati.

Le due principali armate russe sono comandate da un generale del «clan dei tedeschi», Barclay de Tolly, dietro il Niemen con 120.000 uomini, e da Bagration più a sud con 50.000. Quest'ultimo viene fronteggiato da re Gerolamo, che ha 76.000 soldati e il compito di impedire il congiungimento delle due armate in modo da poterle battere separatamente. Gerolamo, inetto, incapace, fallisce mandando all'aria il piano di Napoleone. Viene destituito e rimpiazzato con Davout. La marcia verso oriente prosegue tra tante difficoltà, con tappe forzate, mentre il nemico seguita a ritirarsi lasciando alle proprie spalle terra bruciata. Si ritira anche oltre Vienna, la bella capitale della Lituania, la prima grande città incontrata dagli invasori.

Il 30 giugno Napoleone scrive a Maria Luisa: «Mia cara amica, sono a Vienna molto occupato. I miei affari vanno benissimo, il nemico è sbaragliato. Io sto a meraviglia e penso a te. Sono alloggiato in una bella casa dove è stato, fino a pochi giorni fa, l'imperatore Alessandro, lontano dal credere che presto sarei entrato io qui».

Si presenta al bivacco del maresciallo Davout, con una proposta dello

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zar per l'imperatore, il generale Balachof, ministro della polizia. Davout fa attendere Balachof per tre giorni prima di ammetterlo alla presenza di Napoleone. La proposta è la seguente: non c'è motivo di fare la guerra tra Francia e Russia; che gli invasori ritornino al Niemen, si inizieranno subito delle trattative di pace.

Napoleone risponde con una lettera sibillina nella quale tra l'altro afferma che «... quella Provvidenza invisibile, di cui io riconosco il potere e il dominio, dovrà decidere di questa come di molte altre cose». Poi chiede a Balachof: «Qual è la strada che conduce più rapidamente a Mosca?». Risposta: «Tutte le strade conducono a Roma, Sire, e qui diciamo che tutte le strade conducono anche a Mosca. Si può arrivarci come si vuole. Carlo XII è passato per Poltava». È una stoccata storica: Carlo XII è il re svedese che avendo invaso la Russia nel 1707 deciso a marciare su Mosca, ebbe l'esercito decimato dal gelo, dalla mancanza di viveri, dalle malattie e infine da una terribile sconfitta nella battaglia di Poltava (1709).

La situazione per ora non consente soluzioni. I francesi, senza gioia, sono condannati a invadere la Russia in profondità. I russi, pure senza gioia, sono condannati a lasciarli avanzare tutto distruggendo, tentando soltanto delle operazioni di retroguardia. La marcia riprende il 7 luglio con la comparsa della cavalleria cosacca, che disturba i francesi come un nugolo di moscerini: attacca di sorpresa alle spalle i ritardatari, gli sbandati, i disertori, le reclute che si lasciano cadere a terra vinte dalla stanchezza, dal caldo, dalla dissenteria. Centinaia di giovani pongono fine alle loro sofferenze sparandosi una fucilata in bocca.

Una guerra strana, per niente combattuta, ma non per questo meno popolata di cadaveri. Avanti, dunque. Per più di un mese la campagna di Russia si riduce a un vasto inseguimento senza risultati: le armate di Napoleone e di Davout tallonano quelle di Barclay e di Bagration, che si ritirano peraltro in buon ordine rifiutando la grande battaglia cercata, sperata dai francesi. Si scatenano soltanto degli scontri di retroguardia. Il 25 e 26 luglio a Ostrowno il conte Ostermann-Tolstoi, comandante la retroguardia russa, resiste così vivacemente che Napoleone accorre per incoraggiare di persona i suoi uomini e tenersi pronto in caso di uno scontro di vaste proporzioni. I lancieri polacchi mostrano una gagliardia particolare durante questa carica condotta attraverso una foresta profonda tre chilometri.

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Napoleone è felice: crede di dover affrontare, l'indomani, l'armata di Barclay al completo. Ecco la città di Vitebsk, piattaforma tra la Lituania e la vecchia Russia. Il 27 luglio occupa le alture che circondano la città, protetta dal fiume Dvina. Divampa uno scontro durante il quale 200 giovani reclute parigine del 16° reggimento cacciatori rimangono isolate nel bel mezzo della cavalleria nemica e spinte verso il fiume. Questo reparto, ottimamente comandato, combatte con calma respingendo i lancieri russi mentre il resto dell'armata può attestarsi sulla riva opposta.

Napoleone, che ha seguito lo scontro, comanda al suo aiutante di campo Narbonne: «Andate a dire a questi ragazzi di Parigi che regalo a tutti loro la legion d'onore». Il 28 luglio occupa Vitebsk abbandonata in piena notte da Barclay. Deve fermarsi diversi giorni per far riposare gli uomini provati dalle marce forzate e dalla calura. Duroc e altri marescialli lo esortano ad arrestare l'avanzata, a non inoltrarsi dentro le sconfinate pianure russe. Ma nel frattempo lo zar, sollecitato dai cortigiani che giudicano disonorevole la ritirata continua, ha ordinato a Barclay di contendere al nemico con le armi il suolo della patria. Barclay, raggiunto da Bagration, si attesta nella zona di Smolensk.

È forse arrivata l'ora della battaglia? Napoleone supera il 14 agosto il Dniepr e all'alba del 16 ordina l'attacco generale a Smolensk rinserrata dentro le sue mura tutte merli e feritoie. Il combattimento, feroce, dura tutta la giornata. Il principe polacco Poniatowski, divenuto luogotenente di Napoleone, occupa due quartieri espugnando casa per casa. L'indomani gli scontri continuano violenti. Nella notte tra il 17 e il 18 agosto la città viene bombardata pesantemente dall'artiglieria francese; alla fine i russi fanno esplodere le riserve di munizione e si ritirano nuovamente, disobbedendo allo zar.

Napoleone e i suoi aiutanti contemplano questa nuova forma di resistenza alla loro conquista dell'universo. «Bene, Caulaincourt», chiede l'imperatore, osservando dall'alto il rogo immane, «come trovate questo spettacolo?». «Orribile, Sire». «No, è superbo. Caulaincourt, ricordate sempre questa massima di un imperatore romano: «Il cadavere del nemico puzza sempre di buono». Manda Ney e Davout alla caccia dei russi, per riagganciarli, ma l'inazione di Junot, che ha i nervi a pezzi, impedisce alla battaglia di svilupparsi.

Annota Lefebvre: «La strategia napoleonica è stata colta in fallo: il nemico arretra senza vergogna; nessun ostacolo naturale permette di

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bloccarlo, non si può sorprenderlo perché la cavalleria si fiacca senza riuscire a impegnarsi mentre le continue marce spossanti debilitano la fanteria oltre ogni ragionevole prova. A Smolensk la massa di manovra risulta ridotta a 160.000 uomini: che cosa accadrà una volta giunti a Mosca?».

Napoleone esita. Attorno a lui cresce l'inquietudine. Perfino il docile Berthier insiste perché ci si fermi a Smolensk. Infine: «Sempre avanti», ordina. Si lascia irretire dall'amor proprio, da un senso di fatalismo finora sconosciuto, dall'ottimismo di Murat che ha soffiato a Davout il comando dell'avanguardia e che si diverte a incrociare la spada con la cavalleria cosacca del generale Platof in scaramucce di scarsissima importanza. Sempre avanti, dal 20 agosto, verso la strada di Mosca, mentre il nemico abbandona via via Dorogobuie, Viazma, Ghiats.

Ma ecco che qualcosa muta: finalmente i russi si attestano, decisi allo scontro frontale, ai bordi della Moscova. Barclay è stato rimpiazzato da Kutuzov, che ha l'ordine di contendere «la città santa all'Anticristo». Kutuzov sa perfettamente che la battaglia risulterà inutile. Ma sa anche che non si può non ascoltare il partito preso degli «ultrapatrioti» di Pietroburgo, in questo momento il più ascoltato dallo zar.

Il 4 settembre i due eserciti sono a faccia a faccia presso Borodino. Si prepara la battaglia di Mosca. Alla vigilia, i russi portano in processione le loro sacre icone mentre Napoleone fa mostrare il ritratto del re di Roma, appena portato da Parigi da Beausset, prefetto del palazzo reale. «Eppure è ancora troppo giovane per vedere la guerra», mormora osservando l'immagine del figlio che conosce così poco.

Il vecchio Kutuzov, già battuto ad Austerlitz, dispone di 120.000 uomini bene appostati tra i boschi che circondano Borodino e nelle robuste trincee a cavallo della grande rotabile per Mosca. Napoleone ha 130.000 soldati. La sua superiorità numerica è pertanto minima, inoltre il luogo non si presta a manovre sapienti: occorre espugnare le posizioni nemiche attaccandole direttamente una per una. La battaglia dura l'intera giornata con gravi perdite da entrambe le parti; francesi: 10.000 morti, 14.000 feriti; russi: 45.000 tra morti, feriti, prigionieri.

Kutuzov si ritira verso sera battuto ma in ordine, senza abbandonare materiale bellico. Napoleone potrebbe trasformare questa ritirata in rotta se gettasse nella mischia la Guardia, intatta. Invece commenta: «Non posso rischiare le ultime riserve a 3200 chilometri dalla Francia».

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La via di Mosca, comunque, è libera. Napoleone fa il suo ingresso il giorno 14 settembre tra l'entusiasmo dei soldati. La misteriosa città orientale appare in tutta la sua «barbarica» bellezza alle truppe che vengono dal lontano occidente: francesi, italiani, tedeschi, polacchi, dalmati. I vincitori hanno le divise lacere e le scarpe a brandelli. Da 400.000 che erano, sono ridotte in 90.000. Gli altri, morti per le ferite e le malattie; oppure dispersi o abbandonati negli ospedali delle retrovie. Insieme con i vincitori entrano a migliaia i predoni e i saccheggiatori, le prostitute, gente di ogni razza che vuole soltanto rubare, trafficare, massa disordinata che complica i già complessi problemi dei rifornimenti, Napoleone durante l'avanzata, avendo compreso che non avrebbe potuto prostrare la resistenza russa prima dell'autunno, aveva già ventilato il proposito di fermarsi: a Vilna, a Vitebsk, a Smolensk. Adesso, a Mosca, non può più decidere. La decisione non gli compete più. La sera stessa dell'arrivo anziché trovare la municipalità con le chiavi di Mosca, come sempre è accaduto nelle capitali conquistate, anziché trovare un nemico vinto, disposto alla resa o almeno alla trattativa, alla collaborazione, non vede che incendi. Dai quartieri periferici le fiamme giungono fino in centro, fino al Cremlino, l'enorme complesso di chiese, di caserme, di palazzi che forma il centro imperiale. Mosca brucia. Si dice che il governatore Rostoptscin prima di evacuare abbia fatto sgomberare la popolazione e disposte le micce, le sostanze incendiarie per distruggere tutto.

Sicché invece di una grande, popolosa città ricca di vivere, di comodi alloggi, di prede, gli invasori trovano fuoco e cenere. Una città popolata di fantasmi e di predoni. Bruciano le capanne dei poveri e le splendide ville disabitate dei boiari. Chiese, magazzini, ospedale, caserme: tutto brucia.

La seconda capitale dopo Pietroburgo, l'orgoglio della Russia, con le sue cento cupole variopinte, coi suoi parchi, con i suoi mercati dove fino a ieri si incontravano tutti i popoli d'Europa e dell'Asia, sembra ridursi in pochi giorni in un cumulo immane di macerie fumanti contese tra torme di soldati privi di disciplina e orde di predoni che instaurano la legge del disordine.

Secondo alcuni storici l'incendio di Mosca appartiene a quella serie di azioni feroci e disperate che sfuggono al giudizio morale della civiltà: militarmente, un atto di barbarie inutile perché Napoleone non avrebbe potuto sostenersi a lungo nella capitale nemica anche se intatta. Eppure

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quella fuga volontaria di 350.000 abitanti, quel fuoco divoratore appiccato dalle loro stesse mani alla città, lo spettacolo indescrivibile d'una capitale distrutta in pochi giorni sotto gli occhi del conquistatore impotente, suscitano profonda impressione.

Di diverso avviso è Tolstoi, che scrive in Guerra e pace: «Per quanto lusinghiero sia per i francesi accusare la ferocia di Rostoptscin e per i russi la barbarie di Bonaparte e mettere una fiaccola eroica in mano al suo popolo, non ci si può esimere dal vedere che una simile causa immediata d'incendio non poteva esistere, poiché Mosca doveva bruciare, come devono bruciare tutte le città, le fabbriche o le case dalle quali i padroni sono partiti e in cui si sono introdotte, per viverci, persone straniere. Mosca fu bruciata dagli abitanti, è vero, ma da quelli che se n'erano andati, non da quelli che erano rimasti. Mosca, ceduta al nemico non è rimasta intatta come Berlino, Vienna ecc. per il solo fatto che i suoi abitanti non diedero il pane, il sale e le chiavi ai francesi, ma abbandonarono la città».

Napoleone, comunque, agli inizi non dispera. Spenti gli incendi si insedia di nuovo nelle sale del Cremlino e cerca di riorganizzare l'esercito facendo arrivare rinforzi, ristabilendo i vincoli della disciplina, assegnando nuovi compiti ai collaboratori. Si preoccupa del governo della città e fa affiggere per le strade il seguente appello: «Abitanti di Mosca, le vostre sventure sono crudeli ma Sua Maestà l'Imperatore e Re vuole fermarne il corso. Esempi terribili vi hanno detto come egli sappia punire la disobbedienza e il delitto. Misure severe sono prese per frenare il disordine e ripristinare la sicurezza pubblica. Un'amministrazione paterna, i cui membri saranno scelti da voi, formerà il vostro Municipio; cioè l'amministrazione della città, che avrà per missione di vegliare su di voi, di provvedere ai vostri bisogni e ai vostri interessi. I suoi membri si distingueranno da un nastro rosso a tracolla, e il sindaco della città si cingerà inoltre di una sciarpa bianca. Fuori delle ore consacrate alla sua carica, non porterà che un nastro rosso attorno al braccio sinistro. La polizia della città è costituita sulle sue antiche basi e, grazie alla sua attività, l'ordine sarà presto ristabilito. Il governo ha nominato due commissari generali e venti commissari di polizia dipartimentale per i quartieri della città. Li riconoscerete dal nastro bianco annodato sul braccio sinistro. Alcune chiese di vario culto sono aperte e vi si officia senza impedimenti. I vostri concittadini ritornano alle loro dimore, e è dato ordine perché vi trovino il soccorso e la protezione dovuti alla sventura.

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Sono questi i mezzi adoprati sinora dal governo per ristabilire l'ordine e alleggerire le vostre condizioni; ma per riuscirvi, bisogna che voi uniate i vostri sforzi ai suoi, che dimentichiate, se è possibile, le vostre sofferenze passate, che accarezziate la speranza di una sorte meno crudele, che siate sicuri che una morte inevitabile e vergognosa attende tutti coloro che attenteranno alle vostre persone, ai vostri beni, e che questi beni vi saranno conservati, perché questa è la volontà del più grande e del più giusto dei sovrani. Soldati e abitanti di qualunque nazione voi siate, ristabilite la fiducia pubblica, sorgente della fortuna degli Stati, fraternizzate, aiutatevi e proteggetevi a vicenda, unitevi per annientare i disegni dei malintenzionati, obbedite alle autorità militari e civili, e allora, le vostre lacrime non tarderanno a cessare».

Scrive allo zar: «Io ho fatto la guerra a Vostra Maestà senza malanimo. Un vostro messaggio mi avrebbe fermato in qualunque punto della mia marcia... Se Vostra Maestà conserva per me almeno una traccia dei suoi antichi sentimenti, prenderà nel suo giusto senso questa mia lettera». Vuole una pace che lo riconosca vincitore e lo tolga dall'imbarazzo di una vittoria militare riportata così lontano dalla patria e in un paese che rimane ferocemente ostile. Lo zar, nel comodo rifugio dell'Ermitage, a Pietroburgo, legge e non risponde. Attende che il tempo decida in suo favore questa terribile contesa giocata sulla pelle di milioni di persone.

Napoleone ostenta una calma olimpica. Si compiace di redigere il regolamento della Comédie Francaise, il grande centro drammatico parigino; invita a Mosca col miraggio di facili guadagni, per risollevare il morale delle truppe in ozio, vari artisti francesi che giungono puntualmente frammisti a cortigiani e ad avventurieri assetati di novità; gran parte di costoro non tornerà mai più in patria: li attende la morte.

Passano i giorni e le settimane. Si snoda l'ottobre russo, con i suoi freddi precoci e con la sua desolazione. La cavalleria cosacca giunge a molestare i sobborghi di Mosca. Kutuzov è in vista con una nuova e più potente armata mentre si avvicinano dal sud altre forze lasciate libere dalla pace firmato con la Turchia. Anche da Parigi giungono cattive notizie. L'impero ha bisogno di essere governato dal suo Signore, altrimenti può capitare di tutto. Perfino che un generale pazzo, Malet, fuggito da una casa di cura, occupi per una notte caserme e comandi diffondendo la notizia che Napoleone è morto e nominando un governo provvisorio repubblicano!

Napoleone progetta di proseguire la campagna puntando stavolta su

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Pietroburgo ma l'inverno russo ormai è alle porte. Il 19 ottobre ordina alla Grande Armée di ripercorrere in senso inverso il lungo cammino dell'andata contando di trovare strada facendo depositi, rifornimenti, soldati già ammalati o feriti e adesso ristabiliti. Partono 80.000 combattenti seguiti da una massa enorme di fuggiaschi (avventurieri, donne, «collaborazionisti») con migliaia di carri carichi di bottino. Bottino che viene abbandonato tutto, di giorno in giorno, perché il gelo uccide uomini e cavalli: già il 24 ottobre la temperatura scende a 4 gradi sotto lo zero, il 2 novembre comincia a imperversare una tormenta di neve e il 15 novembre il termometro registra 30 gradi sotto lo zero.

Talvolta bisogna farsi largo con le armi in pugno e più spesso affrontare degli scontri di retroguardia per bloccare i cosacchi che sterminano i ritardatari e i reparti rimasti isolati. I soldati un tempo definiti invincibili, suddivisi in quattro scaglioni, procedono estenuati affondando nella neve, scivolando sui ghiacci, percossi dal vento gelido della steppa e senza possibilità di riparo durante le lunghe notti nordiche. L'esodo, dolorosissimo, dura parecchie settimane. I feriti, i malati, i più deboli si lasciano cadere ai margini della strada diventando delle gelide statue di ghiaccio.

Napoleone marcia spesso a piedi in mezzo alla Guardia, rincuorando gli affranti: «Coraggio, anche i russi soffrono come noi». È vero. I soldati dello zar subiscono pure in questa fase delle gravi perdite, che inducono Kutuzov a sorvegliare la ritirata del nemico da lontano. Il 23 novembre i francesi sono ridotti a 45.000 uomini disperati che vedono cadere di ora in ora gli amici, i compagni al proprio fianco e per i quali le possibilità di scampare all'«inferno bianco» si vanno via via facendo più esili.

La resa dei conti avviene al passaggio, obbligato, della Beresina. Per tre interminabili giorni e altrettante notti i resti della Grande Armée, non più soldati ma profughi rivestiti di stracci, tappeti, pellicce e mantelli femminili, si accalcano lungo due ponti improvvisati che alla fine vengono incendiati dalle cannonate nemiche. I russi attaccano mentre il freddo raggiunge temperature mai registrate a memoria d'uomo in questa stagione. Un intero squadrone di lancieri, dopo aver accompagnato di notte la slitta dell'imperatore, mentre sosta sfinito passa dalla vita alla morte. Migliaia di soldati lasciano cadere i fucili che sembrano scottare tra le mani congelate. Cavalli non ce ne sono quasi più: uccisi dal gelo o dai soldati affranti. Non ci sono più carri. Non ci sono più cannoni.

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Napoleone ordina di bruciare le bandiere perché non finiscano in mano nemica. Di nuovo avanti, verso occidente. Ecco, finalmente, il Niemen, ecco le frontiere polacche. Le truppe francesi e alleate rimaste a Vilna non credono ai loro occhi nel vedere i superstiti che non hanno più nulla di militaresco e che non sembrano più nemmeno uomini. Tornano sì e no in ventimila da 400.000 che erano. Una catastrofe che non ha precedenti. Gli italiani sopravvissuti non sono più di un migliaio su 80.000.

Il 3 dicembre l'imperatore dirama il bollettino n. 29 col quale informa la Francia dell'andamento infausto della campagna, lascia intuire la gravità delle perdite e conclude con una frase a sorpresa: «La salute dell'Imperatore non è mai stata migliore». Vuole spaventare i nemici sia interni sia esterni e rassicurare gli amici, i fedelissimi. Il disordine è enorme. Murat ha riunito il consiglio di guerra accusando Napoleone di aver mandato le truppe allo sbaraglio. Poi cede il comando generale dell'armata, avuto da Napoleone, a Eugenio, e parte alla volta di Napoli senza attendere il consenso del Signore della guerra.

Napoleone attraversa la Polonia e la Prussia sopra una semplice slitta con tre soli compagni, privo di scorta, esposto a tutti i pericoli delle strade. Durante il percorso conversa tranquillamente con Caulaincourt e con i due segretari, esaminando con incredibile freddezza la situazione; parlando di se stesso e della sua sorte con distacco; criticando per primo i propri errori e cercandone la spiegazione; giustificandosi di fronte a questi modesti testimoni come se fosse già davanti al tribunale della posterità. «Ho sbagliato», assicura, «non già nel fare la guerra alla Russia ma nella maniera in cui l'ho condotta. Dovevo restare fermo a Vitebsk, a quest'ora lo zar sarebbe ai miei piedi».

Commentando la grottesca avventura del generale Malet ammette con sorprendente franchezza: «Credo davvero che tutto quanto ho costruito finora sia poco solido».

A Varsavia si ferma per qualche ora a riposare in un albergo dicendo a due esterrefatti nobili polacchi che ha fatto accorrere dall'ambasciata: «L'esercito ha subito gravi perdite, ma soltanto a causa del precoce inizio dell'inverno... Il re di Napoli non è stato in grado di mantenere il comando, dopo la mia partenza ha perduto la testa. Tuttavia ho ancora trecento battaglioni senza bisogno di togliere un uomo solo alla Spagna». Di nuovo in viaggio, ancora nove giorni prima di giungere a Parigi. Intanto, riflette: che fare?

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CAPITOLO XVIIISOLO CONTRO TUTTI

Napoleone torna il 18 dicembre 1812 a Parigi, che è immersa nello stupore e nel lutto avendo appreso soltanto due giorni prima la notizia della disfatta illustrata dal 29° bollettino. «Dove hai lasciato i nostri figli?», chiedono con angoscia tante madri. Uno stupore pressoché analogo pervade tutti i paesi dell'Europa occidentale perché sembra impossibile che un esercito tanto possente, guidato da un condottiero geniale, possa scomparire in pochi mesi. Si interrogano i superstiti nell'intento di chiarire, e di capire, sia le cause sia la portata dell'immane catastrofe. I nemici rialzano prontamente la testa. Il conte York, generale prussiano, senza chiedere permessi prende l'iniziativa di sottoscrivere un armistizio con lo zar passando poi alla Russia.

Ma è tutto il popolo di Prussia che spinge l'incerto re Federico Guglielmo, scomparsa da poco l'energica regina Luisa, a ribellarsi all'imperatore. Gli ufficiali ma anche gli artisti e i poeti, gli studenti, gli intellettuali come il filosofo Fichte, manifestano la volontà di riscossa. Il barone von Luetzov fonda il primo Corpo franco prussiano i cui ufficiali prestano solenne giuramento nella chiesa di Rogan, i cacciatori volontari acclamano il sovrano a Breslau.

Il Signore della guerra non indugia a meditare sui suoi errori, a rimpiangere i compagni d'armi rimasti per sempre nella distesa senza fine di neve. Si considera sempre il padrone dell'occidente, vuol riprendere la spada al più presto per punire chi osa opporsi. Dalla sua scrivania alle Tuileries prepara una serie di provvedimenti con i quali intende fronteggiare gli eventi. Con una solenne cerimonia all'Eliseo, presenti i ministri e le alte cariche della Corte, delega a Maria Luisa la reggenza dell'impero. «Ancora una volta», dichiara, «faccio appello alle nostre armi sempre vittoriose per salvare l'Europa dall'anarchia e per confondere i nemici della Francia». Vuole costringere il suocero a non schierarsi con gli avversari. Poi ottiene dal Senato la leva dei ragazzi della classe 1813, che vengono soprannominati «i Maria Luisa» e che completano l'addestramento direttamente sul campo di battaglia, a fianco dei veterani.

Il 15 aprile 1813 l'imperatore lascia Parigi alla testa della nuova armata, ragazzi e «grognards» in marcia a fianco a fianco, e appare sull'Elba con

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forze preponderanti. Ha infatti a disposizione 150.000 uomini inquadrati in 150 reggimenti di nuova formazione, con 100 batterie, contro 58.000 russi e 43.000 prussiani. Manca però di cavalleria per la ricognizione e gli inseguimenti, inoltre ha perduto in Russia un gran numero di ufficiali superiori e i sostituti sono mediocri oppure inesperti. Appare rinvigorito, si sposta dovunque spronando e incitando perché «la patria stessa è in pericolo». Si rinnova lo spirito di solidarietà nazionale che era stato caratteristico nel periodo rivoluzionario. I «Maria Luisa», consapevoli della gravità del momento, si mostrano all'altezza delle migliori tradizioni della Grande Armée. A Weissenfelds respingono con le baionette la carica della cavalleria prussiana incoraggiandosi l'un l'altro: «Attenti, l'imperatore ha l'occhio su di noi».

Il 2 maggio, deciso a marciare nuovamente su Berlino, il rinvigorito Signore della guerra dirige positivamente l'attacco contro Lipsia. Apprende durante lo scontro che il bravo Ney, che in Russia si era dimostrato molto risoluto, stavolta si è lasciato sorprendere dalla riunione dei nemici. I prussiani guidati dal vecchio feldmaresciallo Bluscher, generale di scuola fredericiana, si sono infatti congiunti con i russi di Tomasof presso la città di Luetzen. Napoleone accorre con la consueta tempestività alla testa dei Corpi di Eugenio e di Macdonald. Ingaggia uno scontro possente attendendo l'arrivo del Corpo della Guardia imperiale e soltanto l'impiego giudizioso dell'artiglieria da parte di Drouot decide della vittoria.

A Luetzen, Bluecher batte in ritirata dopo aver perduto 20.000 uomini ed evita la rotta soltanto perché i francesi sono ancora privi di cavalleria. Il giorno 20 Napoleone rinnova il successo sconfiggendo a Bautzen 170.000 russo-prussiani, l'indomani avrebbe l'occasione di sferrare un colpo decisivo ma Ney indugia a inseguire il nemico nonostante le pressioni di Jomini e del suo stato maggiore. «Come», si stupisce l'imperatore, «dopo una simile carneficina non abbiamo alcun risultato?». È una vittoria di Pirro, un colpo di spada infisso nell'acqua. Esita a imboccare la via di Berlino, aperta, mentre il nemico crede di trovarsi alla vigilia di una nuova Austerlitz. A entrambi i contendenti fa comodo la mediazione di Metternich, che porta il 4 giugno alla stipulazione di un armistizio provvisorio, a Pleswitz. Sconfitto risulta in questa circostanza il vincitore, perché a furia di combattere contro di lui i nemici vanno imparando a fargli la guerra.

Il 28 giugno nei saloni del palazzo reale di Dresda, dove è ospite del

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vacillante re di Sassonia, Napoleone cerca di scuotere Metternich apostrofandolo bruscamente: «Ebbene, quanto vi ha dato l'Inghilterra per mettervi contro di me?». Capisce che il cancelliere medita di tornare a schierarsi con gli antichi alleati formando una nuova coalizione, formidabile. L'abile statista risponde con un interrogativo: «Sire, vengo dall'aver attraversato i vostri reggimenti: i vostri soldati sono dei ragazzi; quando questa generazione sarà a sua volta distrutta, ne chiamerete alle armi di più giovani ancora?».

Il dialogo diventa serrato. «Voi non siete un militare, Metternich. Voi non avete, come me, l'anima di un soldato. Non avete imparato a disprezzare la vita altrui. Che m'importa di duecentomila morti in più o in meno?».

«Che Vostra Maestà si degni di aprire la finestra e che l'Europa ascolti queste parole».

Non vale nasconderlo: Napoleone in questa estate non è più quello di ieri, primavera brillante. Oggi è psichicamente scosso, nervoso e abulico come durante i quaranta giorni di Mosca. Non riesce a dimenticare le amare parole pronunciate nei confronti di Calaincourt, pochi minuti prima di essere colpito a morte al suo fianco, a Bautzen, dall'eccellente Duroc: «Amico mio, state osservando l'imperatore? Egli sta per avere delle vittorie dopo dei rovesci e questo sarebbe il momento di ricavare la lezione dalla sfortuna. Ma egli non è cambiato: è insaziabile di combattimenti. La fine di tutto ciò non potrà essere felice».

Ha appena ricevuto notizie disastrose dalla Spagna, dove l'incoerenza della sua politica militare e l'abbandono nel quale ha lasciato le truppe affidate a Soult stanno per dare i loro frutti. L'insurrezione ha fatto nuovi progressi in Biscaglia e nella Navarra. Re Giuseppe, che ha soltanto 75.000 uomini nei dintorni di Madrid, deve evacuare la capitale. Wellington, dopo aver rastrellato tutta la costa nord, il 21 giugno alla testa di 80.000 anglo-spagnoli attacca e sbaraglia sotto la città di Vittoria i resti dell'ultima armata francese in terra di Spagna. La Spagna è perduta per sempre.

Napoleone potrebbe raggiungere una pace onorevole, conservando i territori alla sinistra del Reno e l'Italia settentrionale. Ma non si rassegna a non essere il primo, seguita a giocare d'azzardo: o tutto oppure niente. Il 13 agosto l'armistizio è rotto. L'Austria dichiara guerra alla Francia senza che il destino di Maria Luisa, la povera «giovenca imperiale», pesi sulla

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bilancia della decisione più di un capello. La coalizione stavolta ha 550.000 uomini. È più forte di quella sconfitta ad Austerlitz, a Jena, a Friedland. Agli austriaci guidati dal principe Schwarzenberg, ai prussiani e ai russi si sono aggiunti gli svedesi (23.000) comandati dal «traditore» Bernadotte, che consiglia agli alleati «Ritiratevi davanti a lui, attaccate ovunque egli non sia».

Infatti Napoleone, che ha poco più di 400.000 soldati, vince al centro dello schieramento a Dresda, il 27 agosto; ma i suoi generali si fanno battere: Davout e Oudinot a Grossberen; Vandamme a Kulm; Macdonald sul Kaltzbach.

La battaglia decisiva si svolge attorno a Lipsia e dura ben quattro giorni. Sarà chiamata battaglia delle nazioni perché c'è in pratica quasi tutta l'Europa schierata contro l'orco. Stavolta non c'è scampo, l'invincibile è in trappola. Congiurano contro di lui la lezione imparata a loro spese dai nemici, la riunione di questi nemici, la loro superiorità numerica, il tradimento. In piena battaglia un intero Corpo d'armata, il VI, composto esclusivamente di tedeschi, rivolta i cannoni contro i francesi. Alla sera del 19 ottobre i resti della Grande Armée ripiegano in disordine verso il Reno dopo aver avuto 110.000 tra morti, feriti, prigionieri. Il principe di Schwarzenberg ha l'onore di annunciare la vittoria a tre sovrani, lo zar Alessandro, Francesco II e Federico Guglielmo, che una stampa popolare ci mostra inginocchiati a ringraziare Dio: la Santa Alleanza ha finalmente sconfitto la Francia rivoluzionaria, l'ordine «è ristabilito» in Europa.

Napoleone adesso è veramente solo contro tutti. Deve perfino tenere prigioniero a Fontainebleau Pio VII, che agli inizi dell'anno egli ha costretto a firmare un nuovo concordato di ispirazione gallicana (prevede infatti l'istituzione canonica dei vescovi a opera dei metropolitani qualora non venga concessa dal papa entro sei mesi). Concordato peraltro sconfessato qualche mese più tardi dal pontefice nonostante le ricorrenti minacce dell'orco.

Solo contro tutti inizia il 1814 e la campagna di Francia, che risulta tra tutte la più stupefacente facendo brillare le risorse del suo genio e della sua indomita energia. Già a Capodanno, Bluecher, il vecchio capo brutale e coraggioso, attraversa il Reno a Taub, tra Manheim e Coblenza, alla testa dell'armata della Slesia. È giunta l'ora della vendetta da tanto tempo attesa dalla vecchia aristocrazia europea contro la Rivoluzione. Il piccolo ufficiale còrso ha invano imbrogliato le carte mettendosi sul trono del re e

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prendendo nel suo letto un'arciduchessa: i nobili della Santa Alleanza non si sono mai lasciati ingannare, anche se poteva sembrarlo, e si apprestano a rammentargli che è il figlioccio politico di Robespierre. Ed è proprio questa la ragione per la quale se i borghesi e gli uomini d'affari stanno per tradire Napoleone, questi non subirà mai una sola ribellione da parte dei contadini e dei provinciali, di cui ha fatto massacrare i figli, né da parte degli operai, rinchiusi nei sobborghi di Parigi e di Lione e bistrattati dalla sua polizia alla stregua di ragazze da strada.

Napoleone se ne accorge quando litiga con Augerau che sta per abbandonarlo: «Quale povere ragioni mi date, Augerau! Io ho distrutto migliaia di nemici con dei battaglioni formati da coscritti privi di giberne e senza scarpe, vestiti in qualche modo. Se i vostri sessant'anni vi pesano, lasciate il comando. È giunto il tempo di calzare gli stivali del 93». È proprio un sopravvissuto del Comitato di salute pubblica da lungo tempo caduto in disgrazia, Carnot, «l'organizzatore della vittoria» del 1893, che gli dimostra un'insospettata lealtà. «Sire», scrive Carnot, «quando il successo coronava le vostre imprese mi sono sempre astenuto dall'offrire alla Maestà Vostra quei servigi che credevo non giungergli graditi. Oggi che la cattiva sorte mette la vostra costanza a grande prova io non esito più a offrirvi i deboli mezzi che mi restano. È poco, senza dubbio, perché lo offre un braccio sessagenario. Ma io credo che l'esempio di un soldato i cui sentimenti politici sono conosciuti potrebbe radunare sotto le vostre aquile molta gente incerta».

Per due lunghi mesi Napoleone ha lavorato accanitamente alla sua scrivania ammettendo alla propria presenza soltanto un bambino, il re di Roma. Adesso, 25 gennaio 1814, affida agli ufficiali della Guardia nazionale di Parigi l'imperatrice Maria Luisa e questo figlio, che non rivedrà mai più. Va a raggiungere i suoi soldati, tra cui sono 100.000 coscritti della nuova leva concessa dal servile Senato. Scuote e fulmina con una celebra arringa le timide opposizioni dei Corpi legislativi.

Ma non s'illude sul fatto che i pericoli più gravi provengano dal suo seguito più ristretto: l'imperatrice reggente è incurabilmente sempliciotta, i dignitari disamorati, i marescialli assetati di piaceri. Mentre Talleyrand tesse le sue trame nell'ombra. Nei palazzi torna a circolare il nome di grandi dimenticati, i Borboni, si ricorda che esiste da qualche parte in Europa un vecchio egoista, obeso e gottoso, che pretende di regnare dopo vent'anni per diritto divino. Sarà Luigi XVIII, sessantenne, secondogenito

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del Delfino Luigi (figlio di Luigi XV). Una caricatura bonapartista ce lo mostrerà mentre chiede in posa supplicante Il giornale dell'impero a Napoleone, che lo rifiuta mostrando il re di Roma: «Non posso, dopo di me se l'è tenuto il bambino».

Napoleone è di nuovo in marcia alla testa di 100.000 uomini, atteso da un nemico quattro volte superiore. Ha infine compreso che in ogni caso dovrà fare delle concessioni, intuisce che Metternich è disposto a trattare perché teme la potenza crescente della Prussia e della Russia. Trattare su quali basi? La conservazione per la Francia delle «frontiere naturali» già acquisite nel 1892, ossia il Belgio e la riva sinistra del Reno. Abbandonare l'Italia e la Spagna. In questo senso dà istruzioni a Calaincourt nominato plenipotenziario a un congresso in programma a Chàtillon con la partecipazione, anche, dell'Inghilterra.

Comincia bene. Batte i russi a Montmirail (10 febbraio) e a Champaubert (11); arresta i prussiani di Bluecher a Laon (7 marzo); il 17 muove su Arcis sur Auben provocando l'immediata ritirata degli austriaci di Schwarzenberg. I soldati diciottenni, i «Maria Luisa», si battono magnificamente spronati dal suo esempio. Il «Piccolo caporale» rischia infinite volte la vita, combatte in prima linea e spara il cannone con le proprie mani come ai tempi dell'assedio di Tolone.

Ma dove non c'è lui, è la diserzione. Città e fortezze si arrendono, marescialli e generali fanno ritirare le proprie truppe. Il nemico avanza sul suolo patrio. I cosacchi russi, gli ulani prussiani e austriaci trattano la comunità delle terre invase con tanta violenza da suscitare l'insurrezione tra il popolo. Progetta allora di aggirare il nemico lasciandolo nella tenaglia rappresentata da Parigi, alla cui difesa è un esercito guidato da Marmont, e le proprie forze come esercito mobile in grado di tagliare le vie di comunicazione e rifornimenti tra gli invasori e i rispettivi paesi.

Alla fine di marzo schiera la Guardia e illustra il suo progetto, riscuotendo applausi vibranti. Ritorna verso Parigi nell'intento di concordare il piano. Ma prima ancora di giungere a Fontainebleau apprende che Marmout si è arreso ai sovrani alleati senza combattere. I cosacchi e gli ulani sono entrati tranquillamente nella capitale intatta: i parigini non si sono comportati come i moscoviti disposti a sacrificare alle fiamme la loro bella città pur di danneggiare il nemico. Nelle sale di Fontainebleau mentre ancora s'illude di poter rovesciare con un colpo a sorpresa le forze coalizzate rimane a sua volta sorpreso dalla rivolta dei

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marescialli. Berthier, Ney, Udinot, Lefebvre, Macdonald, Moncey con i rispettivi stati maggiori si ribellano. I semplici cittadini che erano stati da lui innalzati alle vette del potere, del comando, della nobiltà dicono chiaramente che la guerra è perduta e che bisogna salvare il paese. Come? Abdicando.

L'imperatore parla con calma inconsueta e grande dignità al consesso dei marescialli piumati che gli rumoreggia intorno. Tenta di persuaderli che la situazione non è così disperata. «Basta con le chiacchiere», taglia corto, bruscamente, Macdonald, «bisogna decidere». Il Signore della guerra si guarda intorno, interroga con lo sguardo i vari principi e duchi alla ricerca di qualche assenso e non trovando ciò che desidera conclude la scena penosa: «Ebbene, signori, poiché è necessario, abdicherò».

Intanto Talleyrand, accordatosi col Borbone, ha radunato a casa propria parte di quei senatori disposti in passato ad avallare qualunque richiesta e pretesa del despota. Il 2 aprile il feldmaresciallo Bluecher fa affiggere per le vie della capitale un proclama in cui afferma: «Il Senato francese riunito a Parigi il 31 marzo sotto la presidenza del signor de Talleyrand ha dichiarato Napoleone decaduto dal suo trono e ha nominato come re Luigi XVIII». Un governo provvisorio guidato dallo stesso Talleyrand spalanca le porte di Parigi al conte d'Artois, terzo fratello di Luigi XVI, che giunge «dentro le carrozze dello straniero» insieme con qualcuno degli emigrati del 1789.

Il corteo dei vincitori entra poi nella capitale con alla testa il re di Prussia seguito dallo zar e dal principe di Schwarzenberg perché re Francesco preferisce rinviare il suo ingresso a più tardi: unico riguardo usato nei confronti della figlia imperatrice. «Viva il re» urlano i nobili e i realisti sbucati dai loro nascondigli mentre le dame festeggiano i soldati alleati e i cosacchi accendono i bivacchi nei giardini degli Champs-Elysées. Intanto i notabili di Bordeaux hanno aperto le porte della città agli inglesi di Wellington sopraggiunti dalla Spagna e al duca d'Angoulème, nipote di Luigi XVIII; e Augerau, primo maresciallo a tradire, proclama da Lione la sua adesione ai Borboni.

Napoleone, dopo le scenate dei marescialli, la sera del 4 aprile si lascia convincere a sottoscrivere un documento di abdicazione «condizionale» in favore del figlio. Subito dopo, si pente. S'illude ancora di rovesciare la situazione con un colpo a sorpresa richiamando l'armata della Loira di Eugenio e le truppe al comando di Suchet e Soult nel Sud-Ovest. Ma viene

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abbandonato da tutti. Se ne vanno uno alla volta, alla chetichella, simili a ladri, i vari marescialli a cominciare da Berthier. Se ne vanno i dignitari, i camerieri, il mamelucco Roustan che lo aveva seguito dall'Egitto a Mosca. Il grande astro tramonta in una nube di malinconia, di abbandono.

Giorni che sembrano anni nei saloni vuoti, deserti. Non rivede la moglie, che sarà «compensata» dai suoi nemici con un piccolo regno in Italia, a Parma. Non rivede suo figlio, che cade in potere degli Absburgo e sarà trattato alla stregua di un prigioniero. Malato, con i nervi a pezzi, pressato dalle richieste dei vincitori, il giorno 6 aprile sottoscrive un atto di abdicazione stavolta «pura e semplice», per sé e per tutta la famiglia. Nella notte tra il 12 e il 13 aprile ingerisce del veleno che portava sempre con sé dal fallimento della campagna di Russia. Ma la quantità non è sufficiente a provocare la morte. Bisogna sopravvivere, dunque, trangugiare sino alla fine l'amaro calice della sconfitta. Il potere conquistato sulla punta delle baionette si è sfaldato con la comparsa di queste baionette. I suoi vincitori gli concedono, dopo essere stati obbediti, la sovranità della minuscola isola d'Elba. È tutto quanto gli rimane dopo aver costruito un nuovo impero d'Occidente.

Il 20 aprile passa in rassegna i soldati dai quali non è stato tradito né abbandonato, i reparti della sua amatissima Guardia. Sono schierati nel cortile del Cavallo bianco con alla testa la loro bandiera e il loro generale, Petit. Napoleone abbraccia l'unico dei suoi generali rimasto al suo fianco fino all'ultimo e l'unico dignitario dimostratosi fedele, Maret, duca di Bassano. «Soldati», dice col cuore gonfio di commozione, «mi sono rassegnato a vivere solo per servire ancora alla vostra gloria. Voglio scrivere tutte le grandi cose che abbiamo fatto insieme». Inizia il giorno stesso il suo viaggio verso l'Elba. In Provenza, le folle eccitate dai realisti cercano più volte di assalire la sua carrozza e gli alberghi dove trascorre la notte: viene salvato, umiliazione estrema, dagli ufficiali e dai funzionari tutti stranieri che hanno l'incarico di accompagnarlo.

Nel resto d'Europa fioriscono satire e vignette anti-Bonaparte in quantità prodigiosa. Irriverente ma in fondo innocua vendetta nei confronti dell'orco le cui armate hanno invaso quindici paesi, occupato numerose capitali di Vienna, a Berlino, Mosca, Madrid (oltre al Cairo); razziato tesori e capolavori d'arte a tonnellate, provocato montagne di rovine fumanti, fucilato migliaia di civili e provocato la morte di milioni di soldati: la migliore gioventù europea. La stessa Inghilterra, pur non

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essendo mai stata violata, è in preda alla fame e alla più dura crisi economica per le conseguenze del blocco.

La bandiera inglese sventola sulla fregata che trasporta «Boney» sull'Elba. Napoleone sbarca a Portoferraio il 4 maggio, accolto da una piccola folla stupefatta e commossa. Questi toscani sono i primi visi gentili che vede dopo tanti giorni di atroci delusioni: il sindaco e il parroco gli consegnano con solennità le chiavi della città. La sua nuova capitale!

La reggia è un modesto palazzo, sulla collina che domina Portoferraio. La nuova Fontainebleau è una piccola casa di campagna seminascosta tra i vigneti dolci dell'isola. I suoi sudditi, poche migliaia di contadini e di pescatori. Ma è gente sana, gentile, non inquinata dalla vita dei palazzi nei quali s'annida il potere. I pochi notabili si stringono attorno al sovrano con cortesie costanti, perfino con affetto. Sono contraccambiati dalla conoscenza che egli dimostra della loro isola e delle loro usanze, perché prima di mettersi in viaggio aveva letto tutti i libri e i documenti che aveva potuto far rintracciare sull'Elba.

È perfettamente al corrente delle condizioni dell'isola, delle sue risorse e dei suoi bisogni. Passano pochi giorni e già si mette in moto per abbellire, per trasformare, perfezionare, dare nuovo impulso al tran tran di quel lembo di terra bagnata da un mare tranquillo.

CAPITOLO XIXCENTO GIORNI D'ILLUSIONE

Pensionato a 45 anni dopo essere stato il Signore della guerra e il moderno successore di Carlo Magno. Può durare? Si è ricostituita attorno a lui una piccola Corte: Bertrand maresciallo di palazzo, Drouot esperto generale d'artiglieria e un altro generale, Cambronne, valorosissimo, al comando di una minuscola Guardia imperiale, di 400 uomini. Si avvicendano alcuni membri della famiglia, dalla saggia Letizia alla capricciosa Paolina, sempre simpatica e immancabilmente pettegola, informata di tutto. Una nota d'allegria in tanto grigiore.

Napoleone, che è incapace di oziare, fa costruire fortificazioni, caserme, strade, magazzini, migliorie di vario genere. Potenzia le miniere di ferro aumentandone la produttività, migliora le finanze locali, studia i possibili rapporti commerciali con Genova e con la Toscana. Ma per il suo genio, per le sue ambizioni tutto questo è ben poca cosa. «La mia isola è molto

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piccina», si lamenta. S'annoia. È a corto di denaro perché la promessa di una pensione di due milioni di franchi all'anno non viene mantenuta. Ha diritto al titolo onorifico di imperatore ma regna soltanto su un nido di talpe. Scrive ai pochi parenti e amici che non lo hanno dimenticato. Apprende che Giuseppina, la moglie ripudiata, è morta due settimane dopo la sua partenza lasciandogli, anziché un ricordo scritto, debiti per tre milioni da onorare.

Molto gradita è la visita, durante la bella estate, di Maria Walewska, che gli porta anche il loro figlioletto. Si intrattiene con lei nelle tende che ha fatto erigere sotto gli antichi castani mentre il bambino, che ha adesso quattro anni e indossa il costume nazionale polacco, gioca sui prati con i vecchi granatieri. Ecco, potrebbe ricostituire una famiglia insieme con la dolce Maria e col bambino, ma rifiuta nel timore di vedere compromesso il desiderio di ricongiungersi con Maria Luisa e col re di Roma. Rinuncia a una gioia sicura in previsione di una felicità forse maggiore.

Apprende che il re di Roma, dopo aver conosciuto il nonno Francesco, ha confidato a un cuginetto: «Ho veduto l'imperatore d'Austria. Non è bello». Si adira contro chi gli impedisce di riabbracciare il proprio erede. Dice con la voce vibrante dei tempi migliori: «Questi sovrani, che mi mandavano solenni ambascerie, che accompagnarono al mio letto una delle loro figlie e mi chiamarono fratello, maledicono oggi l'usurpatore e si sputano in faccia cercando di sputare su di me. Tutti costoro hanno ricoperto di fango la maestà regale. Cosa è mai un titolo imperiale? Se io avessi altro nome con cui mostrarmi alla posterità, questa riderebbe di me. Si comportano nei miei confronti come gli antichi, che rubavano al vinto i figli perché ornassero il trionfo del conquistatore». Scrive: «Io lavoro molto nel mio gabinetto e quando esco ho momenti felici vedendo i miei vecchi granatieri. I re per nascita devono soffrire terribilmente se vengono detronizzati: la pompa e l'etichetta fanno parte della loro esistenza. Per me, che sono sempre stato soldato e solo per caso fortuito sovrano, le pompe sono sempre state un peso, la guerra e la vita del campo mi convengono molto di più. Rimpiango soltanto i miei soldati. Dei miei tesori e delle mie corone mi rimangono, preziosissimo bene, un paio di uniformi francesi che mi hanno lasciato».

Quali notizie giungono da Parigi? Brutte, quindi buone. Gli raccontano che Luigi XVIII «è molto grasso e in certo modo privo dell'uso delle gambe. Calzato di stivali di velluto nero, viene sostenuto da ambedue i lati

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e potrebbe inciampare in un fuscello. Indossa una specie di giubba azzurra con colletto rosso rovesciato, ha grandi e vecchie spalline d'oro». Una caricatura di sovrano, insomma. Pare che sia una sorta di burattino strumentalizzato dal conte di Artois, attorno al quale si sono coagulati con sete di vendetta gli emigrati che pretendono quei possessi che sono già garantiti ai successori dei loro diritti. Il re paga alte rendite per questi perditempo che vanno smantellando tutti gli avanzi del regime giacobino come di quello napoleonico. Pesa il mantenimento dei liberatori stranieri, non è gradita la vista del duca di Wellington che passeggia per le vie di Parigi dove svolge adesso la missione di ambasciatore di sua maestà. L'esercito è stato ridotto, molti ufficiali sono stati mandati in pensione in età ancor giovane con mezza paga. Si progetta di togliere ai contadini le terre che essi aveva avuto durante la Rivoluzione per restituirle ai vecchi feudatari. Nei rapporti sociali si è ripristinato l'antico cerimoniale che contrasta con l'uguaglianza dei cittadini. Il vessillo bianco dei Borboni ha sostituito il glorioso tricolore, è proibito cantare la Marsigliese. Vietato ogni ricordo di un ventennio esaltante, che si pretende di cancellare dalle memorie come si cancellano dai monumenti pubblici eretti durante l'impero le grandi N dell'usurpatore.

Tanti malcontenti attendono solo un capo per diventare un movimento organico di riscossa contro l'ottusa reazione borbonica. D'altro canto i rappresentanti degli Stati vincitori, riuniti nel Congresso di Vienna per decidere il futuro assetto dell'Europa, si confidano l'un l'altro che la presenza di Napoleone così vicino all'Italia e alla Francia è un pericolo alla stabilità della pace. C'è chi vorrebbe relegarlo lontano, alle Antille; e c'è chi vorrebbe toglierlo di mezzo definitivamente dando incarico a un sicario di ucciderlo.

Napoleone sa che all'Elba si è insediato un agente inglese mentre una squadra navale pure inglese muove di continuo da Livorno per sorvegliare le coste dell'isola. Non si sente sicuro, teme per la propria vita che tanti considerano ancora preziosa invitandolo a tornare a riprendersi il suo «posto». Trascorre l'ultima parte dell'anno ricevendo visite sempre più frequenti di nobili, di poeti italiani e anche di altri paesi, perfino inglesi.

Con l'inizio del nuovo anno giungono dalla Francia inviti sempre più frequenti, allettanti, a cercare la rivincita. A tornare. La sera del 25 febbraio 1815 annuncia in segreto le proprie intenzioni alla madre, che conviene: meglio tentare quest'ultima carta che invecchiare imprigionato in

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un regno minuscolo «indegno di un Napoleone». L'indomani tenta il colpo di mano, imbarcandosi su di un brigantino dal nome poco adatto alla circostanza, Incostante. Invece il viaggio si rivela fortunato. Come al ritorno dell'Egitto, riesce anche stavolta a eludere la sorveglianza della marina inglese sbarcando il 1° marzo a Cannes. Ha con sè soltanto un migliaio di soldati e qualche cannone. È accolto con calore dalla popolazione, anche se il sindaco commenta non senza ragioni: «Si cominciava a star tranquilli appena adesso, voi scombussolerete tutto».

Il 2 marzo è a Grasse e il giorno 8 in vista di Grenoble. Al suo passaggio, le truppe di guarnigione comandate d'arrestarlo si pongono via via ai suoi ordini. A Grenoble, appena fuori le mura, un battaglione regio marcia risoluto contro i soldati di Napoleone, che non ha mai cercato di versare sangue fraterno. Scende da cavallo, si avvia da solo. Giunto a pochi passi dal battaglione regio apre il cappotto grigio mostrando il petto indifeso. «Soldati del 5° Corpo», tuona, «non mi riconoscete? Se vi è tra di voi qualcuno che voglia uccidere il proprio imperatore, ebbene, lo faccia». Cala un silenzio glaciale. Il comandante guarda gli altri ufficiali, i soldati regi si interrogano muti finché qualcuno urla: «Viva l'imperatore». Il grido che risuonava abituale sui campi di battaglia viene ripetuto in coro dalla Guardia: «Viva l'imperatore». Scambio di abbracci, la marcia prosegue trionfalmente sino nel centro della città. Il fuggiasco adesso può contare su un numero doppio di soldati disposti a seguirlo sino alla morte.

Da Grenoble lancia i primi proclami e firma i primi documenti usando l'antica firma: Napoleone I Imperatore dei Francesi: «Dopo la caduta di Parigi il mio cuore era straziato ma il mio spirito rimase imperturbabile. Francesi, la mia vita appartiene a voi e doveva esservi utile ancora una volta. Nel mio esilio udii i vostri lamenti e le vostre invocazioni. Voi accusavate il mio lungo sonno, quasi io sacrificassi gli interessi della patria al mio riposo. Circondato da pericoli, ho varcato il mare. Ora sono tra voi a esigere i miei diritti che sono anche i vostri. Soldati! Noi non fummo vinti. Il tradimento di Marmont diede la capitale in mano al nemico e squassò il nostro esercito. Ora sono qui io, ora è restituito a voi il vostro generale, chiamato sul trono per elezione del popolo, innalzato da voi sugli scudi. Raccoglietevi intorno a lui. Tornate ad appuntare la coccarda tricolore dei nostri giorni di vittoria. Tornate ad afferrare le aquile che avete tenute alte a Ulma, ad Austerlitz, a Jena, a Eylau, a Friedland, a Schkmuehle, a Wagram, a Smolensk, sulla Moscova, a Luetzen e a

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Montmirail! I vostri beni, la vostra gloria, lo stato vostro e dei vostri figli non hanno nemici peggiori di questi principi imposti dagli stranieri. La vittoria procederà a passo di carica, le aquile voleranno di campanile in campanile fino a quello di Nòtre Dame».

È sempre lui, col suo stile inimitabile, magari retorico ma indubbiamente efficace. Quando giunge a Lione, il 10 marzo, guida 7.000 uomini. Gli viene incontro, proveniente da Marsiglia, Massena, che ha servito Luigi XVIII ma che vuole ugualmente rendere omaggio all'imperatore. Napoleone lo abbraccia chiedendo: «Dov'è Ney?». Nessuna risposta. Tutta la guarnigione lionese inalbera le bandiere imperiali. L'esule ritornato promulga una serie di decreti: le Camere sono sciolte, gli aristocratici tornati dall'estero sono di nuovo espulsi dalla Francia; tutte le nomine fatte da Luigi XVIII devono considerarsi nulle.

«Non mi muoverò di qui, voglio guardare in faccia l'uomo che pretende di salire sul mio trono»: le parole sono risolute, i propositi assai meno. Chi parla così, nei saloni delle Tuileries, è il re Borbone. Accanto a lui è il maresciallo Ney, che comanda il suo esercito con pieni poteri. È proprio a lui che Luigi XVIII ordina di arrestare l'usurpatore. Ney, smoccolando, giura che schiaccerà l'uomo dal quale era pur stato elevato ai massimi onori. Invece un paio di giorni più tardi il sovrano gottoso fugge mentre Ney, in marcia col suo Corpo d'armata contro Napoleone, giunto nei pressi di Besancon s'accorge che i suoi soldati vanno appuntando sull'uniforme la coccarda tricolore. Sicché nell'imminenza dell'incontro manda a dire al «Piccolo caporale» che desidererebbe, prima, potersi giustificare per iscritto. La risposta è abilissima: «Ditegli che lo amo ancora e che domani lo abbraccerò». L'indomani Ney, più che abbracciarlo, gli si butta ai piedi. Voltagabbana anche il Moniteur, che scrive di giorno in giorno: «Il tiranno è fuggito dall'Elba». «L'usurpatore è arrivato a Grenoble». «Napoleone entra in Lione». «L'imperatore giunge questa sera a Parigi». La capitale accoglie il suo beniamino con un'esplosione di gioia popolare, canti e balli. C'è la convinzione che le grandi potenze non si opporranno al ristabilimento dell'impero nei confini territoriali già accettati dalla Francia.

Napoleone si comporta con saggia cautela. Indice una grande assemblea popolare detta del Campo di maggio per farsi confermare dal popolo l'investitura imperiale. Istituisce due Camere, una di pari e l'altra di deputati. Perdona varie personalità dalle quali era stato abbandonato richiamandole ai vertici del potere. Dichiara pubblicamente di accettare il

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Trattato di pace sottoscritto da Luigi XVIII rinunciando a ogni conquista fatta al di fuori degli antichi confini francesi. Propositi pacifici che comunica per iscritto ai vari sovrani e governi europei. Scrive anche a Maria Luisa, invitandola a riprendere il suo posto di moglie e di sovrana.

Ma nessuno risponde. Le potenze riunite nel Congresso di Vienna emettono una dichiarazione comune con la quale dichiarano Napoleone «fuori della legge» impegnandosi a unire le forze «per ridurre all'impotenza il Bonaparte e la sua fazione» in modo che non turbino mai più la pace d'Europa. Per questa guerra, l'ultima, mobilitano 800.000 soldati.

Napoleone raduna 250.000 uomini. Mancano tra i capi militari Berthier, il suo braccio destro, che si è ucciso gettandosi dalla finestra in un accesso di follia; Murat, che l'imperatore rifiuta di ricevere da quando aveva abbandonato di propria iniziativa i resti della Grande Armée al ritorno dalla campagna di Russia (Murat sarà fucilato dai Borboni di Napoli e Ney, il suo grande collega-rivale, dai Borboni di Francia); mancano Morthier, ammalato, i filomonarchici Macdonald, Augerau, Victor, Oudinot. Mancano Massena, che è stanco di combattere, e Bernadotte, che era stato il primo a passare con le forze della coalizione.

Nomina Soult al posto di Berthier quale capo di stato maggiore, Davout ministro della guerra, Suchet al comando dell'armata delle Alpi, Brune alla guida dell'esercito del Varo. Richiama Grouchy. Promuove in prima fila generali che prima erano stati in secondo piano, come Erlon, Vandamme, Reille, Gérard, Lobau. Sa perfettamente che non può fidarsi di tutti. Anzi. «Signor duca d'Otranto», dice a Fouché in pieno Consiglio dei ministri, «voi mi tradite. State trattando di nascosto coi Borboni. Dovrei farvi fucilare». E alla vigilia della battaglia decisiva dovrà apprendere che il generale Bourmont, caso forse unico nella storia della milizia europea, è passato al nemico con tutto il suo stato maggiore. Ma questi sono gli uomini e questi sono i tempi, bisogna prendere quel che c'è, ribattere al tradimento con l'illusione.

Alla fine, bene o male il suo nuovo esercito è pronto. Tolte le guarnigioni e le unità d'osservazione nel Mezzogiorno della Francia, gli rimangono 125.000 coi quali intende affrontare, manovrando per separarli, Wellington che ha 100.000 soldati e Bluecher con 120.000. E poi? Poi, se vincerà, dovrà vedersela con i russi e con gli austriaci. Magari si potrà trattare: chissà.

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Il 10 giugno, ossia 100 giorni circa dopo la romanzesca fuga dall'Elba, ascolta la messa nella cappella delle Tuileries. Tiene le ultime udienze disponendo perché il governo del paese non rimanga inceppato durante la sua assenza, che prevede lunga. Accomiatandosi dal fedele Bertrand e dalla moglie, che lo avevano seguito nell'esilio durato dieci mesi, si lascia sfuggire un triste presagio: «Purché non dobbiamo rimpiangere l'isola d'Elba».

Invece comincia bene la sua ennesima campagna. Giunge sui confini del Belgio molto prima del previsto attaccando con violenza a Ligny, il 16 giugno, Bluecher, che rimane prima disorientato e poi battuto insieme con Gneisenau. Ma Ney e Napoleone stesso esitano a gettare nella mischia tutte le forze di cui dispongono rendendo così la vittoria non decisiva. I prussiani non inseguiti dalla cavalleria (qui Murat sarebbe risultato prezioso) hanno il tempo di riorganizzarsi più indietro.

Wellington, che si è insediato a Bruxelles, ode il cannone tuonare vicino mentre i suoi ufficiali trascorrono la serata, come al solito, ballando nel palazzo del governo. Si affretta a tirar fuori le sue truppe per cercare di non subire quello che il grande stratega nemico vorrebbe infiggergli: combattere prima del congiungimento con i prussiani.

Il 17 giugno, all'indomani della sconfitta di Bluecher, Wellington rinuncia alla posizione detta dei Quatre Bras e si stabilisce a Monte S. Giovanni, importante crocevia di strade che vanno da Bruxelles a Charleroi e a Nivelles. Questa posizione avanzata copre il villaggio di Waterloo, più a nord, dove Wellington stabilisce il suo quartier generale, dietro la foresta di Soignes. Come a Talavera e a Fuentes de Onoro egli sceglierebbe di difendersi su un altopiano in modo di nascondere al nemico la visione complessiva delle sue truppe. Ma non dispone per ritirarsi che di una gola stretta. Ha forse deciso di vincere o di morire sul posto?

Napoleone durante la stessa giornata incarica Grouchy, che ha appena nominato maresciallo, di contenere i prussiani finché egli stesso marcia contro gli inglesi con Ney e Drouet. Il mattino del 18 giugno, dopo una notte di violento temporale che ha reso il terreno fangoso e disagevole per la cavalleria, i francesi si trovano dunque di fronte agli inglesi. È la prima volta che Napoleone e Wellington s'affrontano direttamente. Hanno, ciascuno, 70.000 uomini (circa). Il centro dello schieramento inglese è situato alla fattoria della Haie Sainte, la destra s'appoggia sul castello di

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Hougoumont, che Napoleone fa attaccare molto tardi, verso le 11, perché il terreno possa seccarsi. Nella sua intenzione si tratta di una manovra diversiva perché lo sforzo di rottura dovrebbe essere prodotto contro la sinistra dello schieramento nemico.

Ma il combattimento diventa ben presto violento. Tre divisioni francesi si dissolvono letteralmente nel crogiolo di Hougoumont. Ney riceve l'ordine di impadronirsi, costi quello che costi, della Haie Sainte; ci riesce verso le 3 pomeridiane, dopo un duro combattimento tra i suoi lancieri e corazzieri e i dragoni nemici. Cariche e controcariche si susseguono incessantemente in questo settore del campo di battaglia. Una volta conquistata la posizione della Haie Sainte, Napoleone ordina a Ney di cacciare gli inglesi dal pianoro appena ondulato detto Monte S. Giovanni. Getta nella mischia anche la cavalleria della Guardia e di Kellermann, le cui cariche si infrangono contro i quadrati formati da Wellington, saldo come una roccia. È qui che Wellington si merita il soprannome di duca di ferro. Attorno a lui cadono molti ufficiali e uno dei suoi aiutanti urla nella mischia: «Signore, che cosa dobbiamo fare se sarete ucciso anche voi?». Risposta laconica: «Imitatemi, signori».

Wellington sa che Bluecher è in marcia per attaccare i francesi sul fianco. Già a mezzogiorno l'avanguardia prussiana, comandata da Bùlov, è entrata in contatto con le retroguardie nemiche e il Corpo del generale Mouton ha faticato a contenere gli assalti ripetuti del reggimento di Nassau. È l'ora della verità. Ney si impadronisce di parte dell'artiglieria nemica e con una poderosa carica di 10.000 cavalieri fa vacillare l'intero dispositivo inglese. Se la fanteria seguisse, in questo preciso momento, la battaglia potrebbe essere vinta. Manda a chiedere i preziosissimi fanti a Napoleone, che risponde: «Dove volete che li prenda, devo fabbricarli?». Non ci sono più riserve.

Verso sera una colonna si profila all'orizzonte dietro lo schieramento francese. Napoleone spera per un istante che sia il Corpo del maresciallo Grouchy, i cui ufficiali, infatti, andavano insistendo dal mattino perché marciasse verso il tuono dei cannoni accorrendo in aiuto dell'imperatore. Ma Grouchy è paralizzato dalla consegna di cercare Bluecher, che invece è riuscito a infilarsi e ora accorre in aiuto dell'alleato. Alle 7 di sera il feldmaresciallo ordina l'assalto generale tra Planchenois e la fattoria della Belle Alliance, dove Napoleone stesso si trovava questa mattina.

I francesi sono presi tra due fuochi. Per la prima volta la teoria militare

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di Napoleone si rivolge contro di lui, ecco il vero dramma di Waterloo, che d'ora in avanti per il mondo intero significherà: sconfitta irreparabile. Il Signore della guerra abituato a dividere gli eserciti nemici per batterli separatamente stavolta è stato separato da parte delle sue truppe, quelle di Grouchy, e ora viene rinserrato nella tenaglia dei due schieramenti avversari. L'ultima speranza: riuscire finalmente a sfondare le linee inglesi cercando per quella via una ritirata non disastrosa. L'imperatore manda qui il resto della sua Guardia, i veterani di cento battaglie che avanzano contro il fuoco nemico con la tranquillità delle truppe in parata. Gli uomini di Wellington sembrano davvero sul punto di cedere, alcuni corrieri cavalcano a rotta di collo verso Bruxelles annunciando la disfatta e re Luigi XVIII prepara i bagagli.

Ma un secondo Corpo prussiano muove alle spalle dei francesi in avanzata provocando la rotta definitiva. Ney occupa per un istante la posizione detta Monte S. Giovanni, però non può mantenerla. Allora Ney, che oggi ha avuto quattro cavalli uccisi sotto di lui, cerca invano la morte. L'impavido Cambronne, circondato con i superstiti della Guardia, al nemico che lo invita ad arrendersi prima di ordinare il cannoneggiamento da distanza ravvicinatissima risponde sprezzante: «Merde!». Napoleone cerca di gettarsi contro le baionette inglesi sicché Soult deve afferrare le briglie del suo cavallo esclamando: «No, Sire, il nemico è già stato troppo fortunato, oggi». Così finisce la campagna dei Cento giorni.

Il 21 giugno, l'imperatore ricompare a Parigi. Di nuovo la Francia è invasa dal nemico e di nuovo si fa il vuoto attorno a lui. Ha però il conforto di veder comparire al proprio fianco due fratelli. Luciano si fa vivo dopo 15 anni per spronarlo: «Licenzia le Camere, decreta lo stato d'assedio. Resisti, Osa». Giuseppe lo supplica di mettersi in salvo a Bordeaux dove ha noleggiato una nave danese che potrebbe far vela verso i porti sicuri, ospitali degli Stati Uniti.

Ma il Signore della guerra stavolta è stanco davvero. Non vuole più sfidare la sorte. Abdica di nuovo. Si arrende. Scrive al principe reggente d'Inghilterra una lettera dagli accenti classici: «Vengo, come Temistocle,1

[1 Uomo politico e generale ateniese (528-462 a.C). Capo del partito democratico, trasformò Atene in una potenza marinara e ottenne a Salamina (480) la vittoria dei greci contro gli invasori persiani. Accusato in seguito di peculato e di tradimento per approcci con la Persia in funzione anti-Sparta, fuggì in Asia chiedendo e trovando ospitalità onorata

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presso la corte persiana di Artaserse I.] a sedermi al focolare del popolo britannico. Mi metto sotto la protezione delle sue leggi, che reclamo da Vostra Altezza come dal più potente, dal più costante e dal più generoso dei nemici». Il 15 luglio si imbarca sul brigantino Lo Sparviero andando incontro alla flotta inglese che incrocia dinanzi all'isola d'Aix. Il capitano Maitland, comandante del vascello Bellerofonte, vede arrivare a bordo il grande avversario del suo paese vestito della famosa uniforme: abito verde dei cacciatori della Guardia, col piccolo bicorno nero sul capo, calzoni bianchi, stivali, la corta spada al fianco e sul petto la decorazione della Legion d'onore.

Napoleone si attende probabilmente di essere segregato in qualche comoda residenza inglese, magari considerato più ospite che prigioniero. Invece il governo inglese, consultati gli alleati, decide di relegarlo a Sant'Elena. Il 10 agosto, nonostante le sue vibrate proteste, l'illustre «passeggero» senza aver toccato il suolo inglese viene imbarcato sul vascello Northumberland che dirige verso l'Atlantico meridionale al comando dell'ammiraglio Cockburn. L'ex-imperatore può portare con sé nell'esilio definitivo soltanto pochi fedelissimi: i coniugi Bertrand, l'antico ciambellano conte di Las Cases destinato a diventare il suo biografo ufficiale, gli aiutanti di campo Montholon e Gourgaud, il medico irlandese O'Meara, alcuni valletti di camera e qualche altra persona. Il lungo viaggio, in parte tormentato da forti burrasche, dura 68 giorni. Soltanto il 17 ottobre l'approdo definitivo appare alla linea dell'orizzonte. Napoleone, che ha già protestato vigorosamente presso tutti i governi europei per la sorte inflittagli, prova una stretta al cuore: comprende che a 46 anni di età la sua esistenza attiva sta per concludersi, che la sua figura è già entrata nella storia quanto nella leggenda.

Bonaparte, l'aquila nata in Corsica per i più alati destini, ha concluso il suo volo a Waterloo. Adesso non c'è più futuro ma soltanto passato.

CAPITOLO XXSEI ANNI D'AGONIA

Sant'Elena è un minuscolo puntino sulla carta geografica: piccola isola vulcanica dell'Atlantico meridionale a 7.000 chilometri dall'Europa e a 2.000 dall'Africa, lunga 18 chilometri e larga 13. Area complessiva: 120 chilometri quadrati. Coste dirupate e flagellate incessantemente dal mare

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nel quale sprofondano, poche migliaia di abitanti e una capitale, Jamestown, che è poco più di un miserabile villaggio. Clima mite, refrigerato ma umido, panorami selvaggi e desolati. Scoperta attorno al 1500, disabitata, è stata popolata per la prima volta nel 1513 dai disertori della spedizione di Albuquerque. Conquistata nel secolo successivo dagli olandesi e quindi dagli inglesi. In questo periodo serve da porto di fermata perché le navi possano trovare acqua, frutta, verdure, carne. La popolazione comprende elementi europei, indiani e alcuni schiavi africani liberati.

Napoleone viene alloggiato per qualche tempo in un padiglione appartenente alla famiglia Belcombe in attesa che gli venga preparata, sull'altipiano di Longwood, una casa più comoda. Le prime settimane trascorrono veloci e nemmeno tanto tristi, il prigioniero è distratto dalla novità dell'ambiente e dalla sua naturale curiosità. È circondato da rispetto perché l'ammiraglio Cockburn non ha certo l'animo del carceriere mentre i membri della comunità inglese - ufficiali, funzionari, mogli e figli - pur avendo Londra espressamente vietato di rivolgersi a Napoleone col titolo di imperatore, dimostrano deferenza e comprensione nei confronti del grande personaggio, del dramma umano che sta affrontando.

La situazione muta radicalmente con l'arrivo nell'isola del governatore Hudson Lowe, generale della riserva, di mentalità gretta, scrupoloso sino alla mania. Ha ricevuto ordine dal suo governo di sorvegliare con la massima attenzione perché il prigioniero non riesca a ripetere la fuga come all'Elba. Bisogna sorvegliarlo a vista giorno e notte, impedirgli di aggirarsi per l'isola «troppo liberamente», controllare le sue lettere e i suoi visitatori. Consegne cui il governatore si attiene con tanto zelo da diventare il cerceriere di Napoleone, o forse il suo carnefice: né la scienza né la storia hanno mai potuto fugare il sospetto che egli abbia avvelenato il prigioniero una goccia dopo l'altra, lentamente, freddamente, su ordini segreti.

Napoleone, vessato dal governatore, angustiato dalla forzata inattività, detta i ricordi della sua straordinaria avventura a Las Cases ma non potendo avere a disposizione un archivio, nemmeno un documento, è costretto a confidare esclusivamente nella sua memoria pur prodigiosa. Questo racconto rende però con viva immediatezza la dimensione umana del personaggio e dell'ambiente.

Scrive dunque Las Cases nell'opera Il memoriale di Sant'Elena: «Verso le otto l'Imperatore è uscito a cavallo; non lo fa da parecchio tempo.

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Risalendo la valle del giardino della Compagnia delle Indie, è entrato in casa di un aiutante di campo, che ha la moglie cattolica; c'è rimasto qualche momento ed è stato molto allegro. Di là ci siamo diretti verso l'abitazione di madame Bertrand, dove l'Imperatore è sceso e si è fermato parecchio tempo. Lì ha descritto con molta energia e con molto spirito i nostri rapporti col Governatore, i suoi provvedimenti da subalterno, i suoi pochi riguardi, la grettezza della sua polizia, la ridicola amministrazione, la sua ignoranza nei rapporti sociali e nei modi. «Avevamo da lamentarci senza dubbio», diceva, «dell'Ammiraglio, ma almeno era un inglese; questo è soltanto un pessimo sbirro... Non abbiamo la stessa educazione, non potremmo intenderci; non abbiamo gli stessi sentimenti; egli non suppone che cumuli di diamanti non potrebbero cancellare l'arresto di un nostro domestico che è stato preso quasi sotto i miei occhi. Da allora egli ha steso il gelo su tutta la mia casa». Al ritorno abbiamo fatto una colazione in giardino. La sera, durante un doppio giro in calesse, abbiamo passato il tempo a fare il bilancio di uno che possieda, a Parigi, centocinquantamila franchi di rendita: l'Imperatore diceva che un sesto doveva andare alla scuderia, un quarto alla dispensa... La conversazione è finita sui più curiosi particolari della lista civile e sulle spese della Casa imperiale. Ecco i miei appunti: per il vitto un milione; e tuttavia il pranzo personale dell'Imperatore incideva soltanto per cento franchi al giorno. Non erano mai riusciti a fargli mangiare le pientanze calde, perché quando lavorava non sapevano mai il momento in cui avrebbe smesso; così, all'ora del pranzo, ogni mezz'ora gli mettevano un pollo allo spiedo; capitava di arrostirne delle dozzine prima di giungere a quello che gli sarebbe stato portato... L'Imperatore diceva di aver avuto nelle cantine delle Tuileries circa 400 milioni in oro, completamente in suo possesso, al punto che ce n'era traccia soltanto in un libretto custodito dal suo tesoriere privato. Sono sfumati a poco a poco, soprattutto in occasione dei rovesci, per le spese di Stato. Come avrebbe potuto, diceva, pensare e tenersene un po'; si era identificato del tutto con la nazione. Diceva poi di aver fatto entrare in Francia oltre due miliardi liquidi, senza considerare ciò che i privati potevano aver portato per loro conto. L'Imperatore diceva di essere stato molto colpito dal fatto che de La Bouillerie, nel 1814, trovandosi ad Orléans con decine di milioni, appartenenti a lui, Napoleone, di sua proprietà, li portò al conte d'Artois a Parigi invece che a Fontainebleau, come il dovere e la coscienza gli prescrivevano».

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Da un'altra pagina del Memoriale in data giovedì 27: «Abbiamo corso il pericolo di non avere di che far colazione: una irruzione di topi sbucati da vari punti della cucina durante la notte ci ha privato di ogni cosa. Ne siamo letteralmente infestati; sono enormi, feroci e perfino audaci; hanno impiegato ben poco tempo per forare i nostri muri e i nostri pavimenti. È sufficiente la durata dei nostri pasti, per loro, per penetrare nel salone, dove sono richiamati dalla presenza dei cibi. Ci è accaduto più di una volta di dover dare loro battaglia alla fine del pranzo; e una sera, allorché l'Imperatore stava ritirandosi, quello che di noi gli porse il cappello, ne fece sbucar fuori uno dei più grossi. I nostri domestici avevano preso ad allevare dei polli: dovettero ben presto rinunciarvi perché i topi li divoravano tutti, arrivando perfino ad assalirli, di notte, sui rami degli alberi. Oggi l'Imperatore traduceva una specie di rivista, o giornale, nel quale era riportato che lord Castlereagh, in una grande assemblea pubblica, aveva affermato che Napoleone, perfino dopo la sua caduta, non aveva esitato a dichiarare che, fino a quando avesse regnato, non avrebbe mai desistito dalla guerra contro l'Inghilterra, non avendo mai avuto altro scopo che la distruzione di quella nazione. L'Imperatore non ha potuto evitare di sentirsi colpito da quelle parole. «Bisogna», ha detto, con indignazione, «che lord Castlereagh abbia familiarità con la menzogna e che conti molto sulla ingenuità del suo uditorio. Com'è dunque possibile che il buonsenso permetta loro di credere che avrei detto una tale sciocchezza, quand'anche l'avessi pensata realmente così?». Più oltre si leggeva come lord Castlereagh avesse detto in pieno parlamento che se l'armata francese appariva così fortemente legata a Napoleone era perché egli faceva una specie di coscrizione di tutte le ereditiere dell'Impero per distribuirle quindi ai suoi generali. «Qui», ha ripreso ancora l'Imperatore, «lord Castlereagh mente di nuovo a se stesso. Egli è venuto tra di noi; ha visto i nostri costumi, le nostre leggi, la verità; è certamente persuaso dell'impossibilità di una cosa simile, assolutamente superiore al mio potere. Per che cosa prende dunque la nostra nazione? I francesi sarebbero incapaci di tollerare una tirannia del genere. Senza dubbio, ho favorito molti matrimoni e migliaia di altri avrei dovuto farne: era uno dei grandi mezzi per amalgamare e fondere in una sola famiglia fazioni inconciliabili. Se avessi avuto più tempo a disposizione, mi sarei occupato di estendere queste unioni alle province riunite, perfino alla Confederazione del Reno, allo scopo di avvicinare maggiormente tra loro queste entità separate; ma

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in tutto ciò io non ho mai impiegato altro che la mia influenza, mai la mia autorità».

Las Cases è un perfetto gentiluomo, scrittore bravo, ma un anno e mezzo più tardi, raccolto il suo prezioso materiale di confidenze e d'impressioni, lascia Sant'Elena. Napoleone è ancora più solo con i suoi ricordi di grandezza, che, paragonati alla meschinità presente, rendono il forzato isolamento una condanna atroce. Non gli è concesso riabbracciare nessun membro della famiglia: né Maria Luisa, la moglie che regna a Parma, né il figlio destinato a morire ventenne sempre prigioniero degli austriaci, né la madre, la povera Letizia che supplica invano re e governi, il papa.

È costretto a vendere l'argenteria da tavola per i minuti bisogni, perché Hudson Lowe gli nega tutto. Sicché al quinto incontro, esasperato dalle maniere grette e altezzose del suo guardiano, Napoleone rifiuta di rivederlo minacciando di sparargli addosso con le pistole se volesse penetrare a forza nelle sue stanze.

Nel 1818 se ne va anche il medico 0' Meara, rimpiazzato soltanto un anno più tardi da Antonmarchi, un medico mandato dalla famiglia Bonaparte: lo zio, cardinale Fesch, gli manda due preti, Bonavita e Vignali, sacerdoti di scarsa levatura ma capaci di richiamare l'attenzione del prigioniero su quei problemi religiosi e morali che la sua vita turbinosa gli aveva fatto trascurare.

Nel 1821 apprende la notizia della morte della sorella Elisa Baciocchi, ancor giovane: rimane sconvolto, la generazione dei Bonaparte comincia a disfarsi. Inizia il 1820 col riacutizzarsi del male allo stomaco, che cerca di lenire con sciroppi a base di oppio e di etere. Il 17 marzo esce in carrozzina, ma torna subito, stanchissimo. È l'ultima escursione. C'è un'intossicazione che giunge lentamente al cervello minando mente e fisico, psiche: tutto. Infine sospetta d'essere avvelenato, rifiuta ogni medicina e si chiude nel suo spasimo sordo a ogni conforto che non sia quello della religione. L'abate Vignali riceve le ultime confidenze del grande uomo tornato tardivamente alla fede della prima infanzia. Quella fede cui si vantava spesso d'aver restituito libertà e onore nella Francia scossa dalla Rivoluzione.

Il 1° maggio comincia l'agonia, penosissima, tra l'alternarsi dello stato di coma e di terribili convulsioni. Vegliano poche persone; nell'anticamera, si susseguono gli ufficiali inglesi ansiosi di notizie. Nella notte tra il 4 e il 5 maggio un uragano di violenza insolita si scatena sull'isola squassando le

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piantagioni, le case. Il morente nel delirio mormora: «Massena... Desaix... Testa d'armata». Poi, un lungo silenzio. Spira alle 17,49 del 5 giugno 1821 mentre un vento di burrasca scuote le fragili mura di Longwood. Il fedele Marchand avvolge la salma nel mantello che Bonaparte primo console aveva portato a Marengo. La salma, rinchiusa in una bara di legno grezzo, viene calata nella fossa scavata sotto un salice piangente: soltanto fra diciannove anni potrà lasciare questi scogli remoti e trovare una sepoltura più conveniente a Parigi, in un grande sarcofago marmoreo sotto la cupola degli Invalidi.

Napoleone: fu vera gloria? Se lo chiede subito dopo la morte, nell'Ode, celeberrima, Alessandro Manzoni. La domanda è retorica e la risposta facile. Gloriose, geniali furono le sue vittorie tanto che ancora oggi non può esistere una cultura militare che trascuri lo studio delle sue campagne di guerra. Vittorie e imprese effimere eppure così necessarie per conciliare il vecchio mondo spazzato dalla Rivoluzione con nuovi bisogni e nuovi ideali. Benché della sua costruzione imperiale non restasse, apparentemente nulla, e certo che il mondo di qua e di là dall'Atlantico uscì dall'epoca napoleonica trasformato. Gli stessi suoi nemici dovettero seguire i suoi sistemi; adottare spesso il suo linguaggio; promettere ai popoli quell'indipendenza e quella libertà di cui egli aveva inculcato loro il desiderio sia pure con la punta della spada. Il secolo XIX, che è quello delle libertà nazionali, si apre con lui.

Il mondo, dopo Napoleone, non sarà più quello di prima.

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