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ECC.MO TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE

PER IL LAZIO - ROMA

Ricorso

Nell’interesse del Consiglio Nazionale Forense (C.F.

80409200583), con sede legale in Roma, Via Arenula, 71,CAP 00186, in

persona del Presidente e legale rappresentante pro tempore, Prof. Avv.

Guido Alpa, rappresentata e difesa, in virtù della procura apposta a margine

del presente atto e della deliberazione del […] n. […] del Consiglio (che si

deposita agli atti del giudizio), dagli Avv.ti Proff. Angelo Clarizia (C.F.

CLRNGL48P06H703Z), Vincenzo Cerulli Irelli (C.F.

CRLVCN47C28H501X), Giuseppe Colavitti (C.F. CLVGPP70L27B354I),

Guido Greco (C.F. GRCGDU46S18 C351B), Roberto Mastroianni (C.F.

MSTRRT64M03D086J), Giuseppe Morbidelli (C.F.

MRBGPP44S16A390N) e Federico Tedeschini (C.F.

TDSFRC48A24H501P), e presso il primo elettivamente domiciliato in

Roma, alla Via Principessa Clotilde, n.2, ove chiede riceversi ogni

eventuale notifica e/o comunicazione, anche a mezzo telefax al numero

06/32609846, oppure al seguente indirizzo di posta elettronica certificata:

[email protected];

contro

il Ministero della Giustizia, in persona del Ministro e legale

rappresentante pro tempore;

per l’annullamento , previa, se del caso, sottoposizione alla Corte

Costituzionale della questione di legittimità costituzionale dell’art. 9 del

d.l. n. 1/2012

del Decreto del Ministero della Giustizia del 20 luglio 2012, n.

140, pubblicato in Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana n. 195 del

22 agosto 2012, Regolamento recante la determinazione dei parametri per

la liquidazione da parte di un organo giurisdizionale dei compensi per le

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professioni regolamentate vigilate dal Ministero della Giustizia, ai sensi

dell’art. 9 del decreto legge 24 gennaio 2012, n. 1, nella parte in cui

disciplina i parametri per la liquidazione giurisdizionale dei compensi degli

avvocati;

di ogni altro provvedimento presupposto, connesso e/o

consequenziale ancorché non conosciuto dalla ricorrente, ove lesivo, con

riserva di motivi aggiunti.

FATTO

Con l’articolo 9 del decreto legge n. 1 del 24 gennaio 2012,

Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la

competitività, parzialmente emendato dalla legge di conversione n. 27 del

24 marzo 2012 il governo ha “abrogato le tariffe delle professioni

regolamentate nel sistema ordinistico” (comma 1) e tutte “le disposizioni

vigenti che, per la determinazione del compenso del professionista,

rinvia[va]no alle tariffe”.

L’abrogazione delle tariffe professionali, annunciata come la

maggiore innovazione introdotta dalla disposizione in esame, ha una mera

valenza simbolica, in quanto, come riconosciuto dal Governo nella

relazione illustrativa, lo scardinamento del sistema tariffario era già stato

realizzato con l’abolizione dell’obbligatorietà dei minimi tariffari introdotta

oltre cinque anni fa con il d.l. c.d. Bersani del 4 luglio 2006, n. 223,

convertito in l. 4 agosto 2006, n. 248.

La predetta disposizione ha determinato esclusivamente l’abolizione

anche dei vincoli massimi determinando, dunque, soltanto conseguenze

negative sui consumatori e sui privati dal momento che il professionista

potrà pattuire qualunque compenso con il cliente.

Il quarto comma della predetta disposizione introduce l’obbligo di

pattuizione per iscritto del compenso al momento del conferimento

dell’incarico professionale, stabilendo che il professionista è tenuto ad

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illustrare al cliente il grado di complessità dell'incarico, le informazioni utili

circa gli oneri ipotizzabili dal momento del conferimento fino alla

conclusione dell'incarico, nonché i dati della polizza assicurativa per i danni

provocati nell'esercizio dell'attività professionale.

La legge di conversione ha inoltre introdotto al medesimo comma

l’obbligo di rendere nota al cliente la misura del compenso con un

preventivo di massima, che deve essere adeguata all'importanza dell'opera,

indicando per le singole prestazioni tutte le voci di costo, comprensive di

spese, oneri e contributi.

Il secondo comma dell’art. 9, in evidente contraddizione con quanto

stabilito dal primo comma, reintroduce la predeterminazione di griglie

liquidatorie stabilendo che, “nel caso di liquidazione da parte di un organo

giurisdizionale, il compenso del professionista è determinato con

riferimento a parametri stabiliti con decreto del Ministro vigilante”. In tale

prospettiva, il legislatore dell’emergenza reintroduce le tariffe abrogate,

eliminando l’intervento necessario del Consiglio Nazionale Forense dal

procedimento di determinazione delle tariffe.

Tale mortificazione dell’autonomia del Consiglio Nazionale Forense

risulta incompatibile sia con l’art. 33, comma 5, Cost. (come si vedrà in

seguito), sia con il principio di sussidiarietà orizzontale enunciato all’art.

118, comma 4, della Costituzione, essendo tale organo per la propria

composizione in grado di determinare efficacemente ed autonomamente le

regole di dettaglio della riforma delle professioni.

Il prefato art. 9, oltre ad essere irragionevole ed inconferente rispetto

alle finalità di liberalizzazione e d’incentivazione dell’economia oggetto del

decreto legge, non ha tenuto in alcuna considerazione la

specificità/peculiarità della professione forense rispetto alle altre

professioni liberali, riconosciuta sia a livello europeo che nazionale, come

si vedrà in dettaglio più avanti.

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La giurisprudenza sovranazionale, infatti, ha ritenuto che in virtù

dell’esigenza imperativa della buona amministrazione della giustizia è

giustificato un trattamento diverso degli avvocati rispetto ad altri

professionisti (Corte Giust. U.E., 12.07.1984, causa 107/83, Klopp, Racc.

1611).

In particolare la Corte di Giustizia, ha considerato compatibile con il

Trattato l’imposizione di specifici requisiti al prestatore in forza di norme

sull’esercizio della professione, in tema di organizzazione, qualificazione,

deontologia, controllo e responsabilità (Corte Giust. U.E., 3.12.1974, causa

33/74, Van Binsbergen, Racc. 1299; 27.06.2006, causa C-305/05, Ordre

des barreaux francophones et germanophones, Racc. 5305 ; 3.02.2011,

causa C-359/09, Ebert).

In tale prospettiva, con riferimento alla specifica situazione italiana

e, in particolare, alle tariffe professionali, i Giudici di Lussemburgo hanno

affermato che la fissazione di onorari (anche minimi) consente di evitare

che gli avvocati svolgano - in un contesto come quello del mercato italiano,

caratterizzato dalla presenza di un numero estremamente elevato di

avvocati – una concorrenza che si traduca nell’offerta di prestazioni al

ribasso, con il rischio conseguente di un peggioramento della qualità dei

servizi forniti (Corte Giust. U.E., 5.12.2006, Cause riunite C-94/04 e C-

202/04, Cipolla, Racc. 11421), considerando, dunque, legittima la

normativa la previgente normativa italiana sugli onorari (Corte Giust. U.E.,

29.03.2011, causa C-565/08, Repubblica Italiana;19 febbraio 2002, causa

C-35/99, Arduino).

Del resto tali considerazioni sono state ribadite anche dal legislatore

europeo.

In tema di tariffe professionali obbligatorie, il Parlamento, anche

alla luce della giurisprudenza comunitaria, si è dichiarato favorevole ad una

conciliazione della concorrenza con un certo livello di regolamentazione,

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da modularsi in riferimento alle specificità delle diverse professioni: più

precisamente, ha ritenuto gli Stati membri autorizzati a stabilire tariffe

obbligatorie, purché queste siano poste a tutela dell’interesse generale e non

di quello della professione (Risoluzione sulle tabelle degli onorari e le

tariffe obbligatorie per talune libere professioni, in particolare per gli

avvocati, e sulla particolarità del ruolo e della posizione delle libere

professioni nella società moderna del 5 aprile 2001).

Recentemente con la Risoluzione del Parlamento europeo sulle

professioni legali e l'interesse generale nel funzionamento dei sistemi

giuridici del 23 marzo 2006, sulla base del presupposto che la concorrenza

dei prezzi non regolamentata tra i professionisti legali conduce a una

riduzione della qualità del servizio prestato, a detrimento dei consumatori,

ha invitato “la Commissione a non applicare le norme sulla concorrenza

dell'Unione europea in materie che, nel quadro costituzionale dell'UE,

sono lasciate alla competenza degli Stati membri, quali l'accesso alla

giustizia, che include questioni quali le tabelle degli onorari che i tribunali

applicano per pagare gli onorari agli avvocati”, ritenendo che “le tabelle

degli onorari o altre tariffe obbligatorie per avvocati e professionisti legali,

anche per prestazioni stragiudiziali, non violino gli articoli 10 e 81 del

trattato, purché la loro adozione sia giustificata dal perseguimento di un

legittimo interesse pubblico e gli Stati membri controllino attivamente

l'intervento di operatori privati nel processo decisionale”.

In tale prospettiva è evidente che l’ordinamento sovranazionale non

considera con disvalore la fissazione di onorari. Anzi, in base alle predette

considerazioni la determinazione degli onorari degli avvocati è considerato

uno strumento utile per evitare la riduzione della qualità dei servizi legali

prestati a detrimento dei consumatori.

Le specificità e le peculiarità della professione è riconosciuta anche

dal testo fondamentale che disciplina l’ordinamento forense, il Regio

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Decreto Legge 27 novembre 1933, n. 1578, convertito in legge 22 gennaio

1934, n. 36.

In particolare, l’art. 57 del regio decreto legge, in virtù della

particolarità della professione forense, prevede che i criteri per la

determinazione degli onorari e delle indennità dovuti agli avvocati e ai

procuratori siano stabiliti ogni biennio con deliberazione del Consiglio

Nazionale Forense, organo rappresentativo della categoria degli avvocati, e

successivamente approvati dal Ministero della Giustizia, previa

consultazione obbligatoria del Consiglio di Stato.

La particolarità della professione forense rispetto alle altre

professioni rispetto alle altre professioni liberali trova del resto conferma

anche nel fatto che è all’esame del Parlamento un’iniziativa di riforma – in

fase molto avanzata giacché approvata alla Camera dei Deputati il

31.10.2012 ed attualmente all’esame del Senato – contenuta nel p.d.l. C-

3900, a firma del Sen. Giuliano e altri, recante “Nuova disciplina

dell’ordinamento della professione forense”, dichiaratamente conforme ai

principi europei di liberalizzazione e semplificazione di una professione

regolamentata.

Detta riforma evidenzia anzitutto la particolarità dell'ordinamento

forense rispetto alle altre professioni regolamentate, sottolineando la

"specificità della funzione difensiva" e la "primaria rilevanza giuridica e

sociale dei diritti alla cui tutela essa è preposta" (art. 1, comma 2, lett. a) e

prescrivendo "l'obbligo della correttezza dei comportamenti e la cura della

qualità ed efficacia della prestazione professionale" (art. 1, comma 2).

Quanto al compenso professionale, ne stabilisce la determinazione

mediante accordo pattuito per iscritto con il cliente all’atto del

conferimento dell’incarico e pone a carico del difensore l’obbligo di

rendere noto “il livello della complessità dell'incarico, fornendo tutte le

informazioni utili circa gli oneri ipotizzabili dal momento del conferimento

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alla conclusione dell’incarico”, e prevedendo che, “quando all’atto

dell’incarico o successivamente il compenso non sia stato determinato in

forma scritta, in ogni caso di mancata determinazione consensuale, in caso

di liquidazione giudiziale dei compensi, e nei casi in cui la prestazione

professionale è resa nell’interesse dei terzi o per prestazioni officiose

previste dalla legge”, si applicano i parametri indicati ogni due anni con

decreto del Ministero della Giustizia su proposta del CNF di cui all’art. 1,

comma 3 (art. 13, comma 6).

La modifica introdotta con il prefato articolo 9 risulta, dunque,

illogica, irragionevole e priva di giustificazione poiché da un lato, non

sussistano ragioni perché tale riforma sia stata prevista dal legislatore

dell’emergenza, in assenza della necessaria sistematicità ed organicità che

dovrebbe caratterizzare una modifica così radicale, mentre, dall’altro, è

stata violata, in assenza di alcuna ragione giustificatrice, l’autonomia della

professione forense.

Le gravi criticità finora sollevate caratterizzano anche il decreto

ministeriale adottato in attuazione dell’art. 9 del d.l. n. 1/2012, che è

invalido sia per illegittimità derivata dall’incostituzionalità della norma di

riferimento, sia in via diretta per vizi propri.

Con il D.P.R. del 20 luglio 2012, n. 140, pubblicato sulla G.U.R.I.

in data 22 agosto 2012, il governo ha dettato, infatti, i parametri relativi alla

liquidazione giurisdizionale del compenso del professionista.

Tuttavia, la disciplina regolamentare adottata è disancorata dalle

disposizioni di legge di cui dovrebbe rappresentare la diretta attuazione,

mortificando l’autonomia costituzionale riconosciuta agli ordini

professionali ed introducendo disposizioni ultra vires rispetto a quanto

previsto dal prefato art. 9.

La disciplina normativa introdotta dall’articolo 9, commi 1 e 2 del

decreto legge n. 1 del 2012 convertito in legge, con modificazioni, dall'art.

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1, comma 1, L. 24 marzo 2012, n. 27 e le disposizioni contenute nel decreto

del Ministro della Giustizia del 20 luglio 2012, n. 140 appaiono, la prima,

manifestamente incostituzionale e, la seconda, palesemente illegittima

sotto diversi profili in quanto lesiva degli interessi del Consiglio Nazionale

Forense che rappresenta tutti gli avvocati italiani, e dunque per legge e per

statuto ne difende la professione e con essa il decoro, la dignità, la funzione

istituzionale e costituzionale. Pertanto il prefato decreto è impugnato per i

seguenti motivi di

DIRITTO

***

I. Illegittimità derivata dall’illegittimità costituzionale dell’art. 9

del d.l. n. 1/2012 – Violazione dell’art. 77, comma 2, della Costituzione

Preliminarmente all’analisi dei vizi “interni” di legittimità del

decreto impugnato, appare opportuno rilevare che l’art. 9, comma 2, del d.l.

n. 1/2012, in base al quale è stato adottato l’impugnato Decreto del

Ministero della Giustizia, è palesemente incostituzionale e la sua

applicazione risulta, dunque, gravemente illegittima e ingiusta.

Segnatamente, la predetta disposizione è incostituzionale in quanto

adottata in assenza dei presupposti di straordinaria necessità e urgenza

prescritti dall’art. 77, comma secondo, della Costituzione della Repubblica

italiana per derogare alla regola generale secondo cui il potere normativo

spetta in via generale al Parlamento.

La Corte Costituzionale, infatti, fin dalla pronuncia n. 29/1995, ha

ammesso la possibilità di scrutinare il vizio dei presupposti costituzionali

del decreto legge anche dopo la conversione in legge (n. 29/1995; n.

330/1996; n. 398/1998, cons. dir. n. 3; n. 341/2003; n. 6,178,196, 285 e 299

del 2004; n. 2, 62, 272 del 2005), ritenendo che la mancanza dei requisiti

della necessità ed urgenza concreta una vera e propria carenza di potere.

In particolare, con la pronuncia del 23 maggio 2007, n. 171, la Corte

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ha annullato la disposizione di un decreto legge, in quanto “l’utilizzazione

del decreto legge – e l’assunzione di responsabilità che ne consegue per il

governo secondo l’art. 77 della Costituzione – non può essere sostenuta

dall’apodittica enunciazione dell’esistenza delle ragioni di necessità e di

urgenza”. Le attribuzioni di poteri normativi al Governo “hanno carattere

derogatorio rispetto all’essenziale attribuzione al Parlamento della

funzione di porre norme primarie nell’ambito delle competenze dello Stato

centrale”(cons. dir. parr. 6 e 3).

Alla luce di tale pronuncia appare, pertanto, evidente che il decreto

legge n. 1 del 2012, ed in particolare l’art. 9 del predetto decreto, viola l’art.

77 della Costituzione per la chiara e manifesta mancanza dei presupposti

della necessità ed urgenza.

L’indicazione nel preambolo del richiamato decreto (“Ritenuta la

straordinarietà ed urgenza di emanare disposizioni per favorire la crescita

economica e la competitività del Paese, al fine di allinearla a quella dei

maggiori partner europei ed internazionali, anche attraverso l'introduzione

di misure volte alla modernizzazione ed allo sviluppo delle infrastrutture

nazionali, all'implementazione della concorrenza dei mercati, nonché alla

facilitazione dell'accesso dei giovani nel mondo dell'impresa”) si riduce ad

una mera clausola di stile, priva di alcuna efficacia legittimante la disciplina

imposta dalla prefata disposizione, in relazione alla liquidazione giudiziale

dei compensi del professionista.

La Corte costituzionale afferma costantemente che il sindacato sulla

legittimità dell'adozione, da parte del Governo, di un decreto-legge deve

limitarsi alla «evidente mancanza» dei presupposti di straordinaria necessità

e urgenza richiesti dal secondo comma dell'art. 77 Cost., rimanendo invece

la valutazione del merito delle situazioni di urgenza nell'ambito della

responsabilità politica del Governo nei confronti delle Camere, chiamate a

decidere sulla conversione in legge del decreto (ex plurimis, tra le più

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recenti, sentenze n. 83 del 2010, n. 128 del 2008, n. 171 del 2007, n. 285

del 2004). Non è dato comprendere, sotto il profilo della razionalità e

ragionevolezza delle scelte politiche, per quale motivo sia stata assoggettata

a decretazione d’urgenza una materia che – come esposto in narrativa – è da

anni totalmente liberalizzata e quindi, per definizione, non prevede alcuna

limitazione all’accesso dei giovani al mondo dell’impresa (si pensi alla

abolizione dei minimi tariffari introdotta dal d.l. 226/2006; quella sì con

comprensibile decretazione d’urgenza).

Inoltre, è evidente che la disposizione de qua non concerne in alcun

modo la crescita economica e la competitività del paese, dal momento che

si limita da un lato ad abolire le previgenti tariffe professionali – che, com’è

stato già ribadito, in seguito al decreto Bersani non erano più vincolanti –

sostituendole con parametri elaborati sempre dal medesimo Ministero della

Giustizia, e, dall’altro, a stabilire la rilevanza primaria dell’accordo tra

libero professionista e cliente, già prevista all’art. 2233 del Codice Civile.

L’unica differenza, dal punto di vista normativo, risiede nella

mancata partecipazione al procedimento di adozione dei parametri del

Consiglio nazionale forense che in base alla previgente disciplina,

deliberava i criteri per la determinazione degli onorari e delle indennità

dovute agli avvocati e ai procuratori in materia giudiziale e stragiudiziale,

successivamente approvati dal Ministero della Giustizia (si cfr. il

combinato disposto dell’art. 1, della legge 7 novembre 1957, n. 1051 e

dell’art. 1 della legge 3 agosto 1949, n. 536).

Ictu oculi, dunque, la prefata disposizione non presenta alcuna

esigenza particolare di straordinaria necessità ed urgenza né è volta a

favorire né la crescita economica né la competitività del paese.

Ma vi è di più. La norma de qua rappresenta anche una c.d. norma

intrusa, in quanto introduce una “nuova” disciplina in materia di

liquidazione dei compensi professionali in un decreto legge relativo a

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misure volte alla modernizzazione ed allo sviluppo delle infrastrutture

nazionali, all'implementazione della concorrenza dei mercati, nonché alla

facilitazione dell'accesso dei giovani nel mondo dell'impresa.

I nuovi parametri, invero, non concernono né le infrastrutture

nazionali, né la concorrenza dei mercati, né la facilitazione dell’accesso dei

giovani nel mondo dell’impresa, ma si limitano a prevedere che il potere di

regolamentazione degli onorari degli avvocati sia esercitato dal Ministero

esautorando il ruolo dei Consigli nazionali delle diverse libere professioni.

Del resto l’estraneità della norma censurata rispetto alla materia

disciplinata nel testo in cui è inserita, risulta evidente dalla mancanza di

ogni motivazione in merito alle ragioni di necessità ed urgenza poste alla

sua base, sia nel preambolo del decreto legge, sia nella relazione

governativa al c.d. decreto liberalizzazioni.

In merito alla disposizione de qua, infatti, nella relazione illustrativa

governativa non è possibile desumere alcuna indicazione in merito alle

ragioni di necessità ed urgenza poste a fondamento dell’art. 9, comma 2, né

esplicitamente (nella descrizione relativa alla specifica disposizione), né

implicitamente (nella lunga introduzione della relazione governativa),

Le uniche considerazioni che riguardano i servizi professionali – e

nella specie la professione forense – chiariscono, infatti, che, a partire dal

2006, e in particolare dall’abolizione delle tariffe minime, vi è stata una

flessione degli aumenti degli onorari.

In realtà, le uniche criticità sollevate nella medesima relazione che,

seppur latamente, possono riguardare gli avvocati concernono la lentezza

della giustizia civile, considerata un ostacolo al funzionamento dei mercati

ed indice negativo per l’iniziativa economica privata.

Tuttavia, è evidente, la norma de qua non interviene sulla

velocizzazione o la semplificazione della giustizia civile, ma unicamente

sugli onorari dei professionisti che, tra l’altro, erano già stati liberalizzati

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con il d.l. n. 223/2006. Né del resto le misure introdotte con i commi primo

e secondo dell’art. 9 “rientrano nella complessiva e generalizzata opera di

revisione del quadro normativo e regolamentare che, ai diversi livelli di

governo e di competenza e senza distinzione tra categorie, interessi e

settori economici, elimini le molte e ingiustificate situazioni di barriere

all’accesso e le rendite di posizione ancora esistenti”.

In tale prospettiva la disposizione de qua è incostituzionale, anche,

perché estranea ed eterogenea rispetto all’oggetto e alle finalità del decreto

legge, in quanto si tratta di una norma che disciplina il potere di adottare i

parametri di riferimento per le liquidazioni giudiziali dei compensi degli

avvocati e non concerne la liberalizzazione della professione forense.

La Corte Costituzionale, con la recente pronuncia n.22 del 2012, “ha

individuato, tra gli indici alla stregua dei quali verificare «se risulti

evidente o meno la carenza del requisito della straordinarietà del caso di

necessità e d’urgenza di provvedere» la «evidente estraneità» della norma

censurata rispetto alla materia disciplinata da altre disposizioni del

decreto legge in cui è inserita (sentenza n. 171 del 2007; in conformità

sentenza n. 128 del 2008). La giurisprudenza sopra richiamata collega il

riconoscimento dell'esistenza dei presupposti fattuali, di cui all'art. 77,

secondo comma, Cost., ad una intrinseca coerenza delle norme contenute

in un decreto-legge, o dal punto di vista oggettivo e materiale, o dal punto

di vista funzionale e finalistico. La urgente necessità del provvedere può

riguardare una pluralità di norme accomunate dalla natura unitaria delle

fattispecie disciplinate, ovvero anche dall'intento di fronteggiare situazioni

straordinarie complesse e variegate, che richiedono interventi

oggettivamente eterogenei, afferenti quindi a materie diverse, ma

indirizzati all'unico scopo di approntare rimedi urgenti a situazioni

straordinarie venutesi a determinare.

Da quanto detto si trae la conclusione che la semplice immissione di

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una disposizione nel corpo di un decreto-legge oggettivamente o

teleologicamente unitario non vale a trasmettere, per ciò solo, alla stessa il

carattere di urgenza proprio delle altre disposizioni, legate tra loro dalla

comunanza di oggetto o di finalità. Ai sensi del secondo comma dell'art. 77

Cost., i presupposti per l'esercizio senza delega della potestà legislativa da

parte del Governo riguardano il decreto-legge nella sua interezza, inteso

come insieme di disposizioni omogenee per la materia o per lo scopo.

L'inserimento di norme eterogenee all'oggetto o alla finalità del

decreto spezza il legame logico-giuridico tra la valutazione fatta dal

Governo dell'urgenza del provvedere ed «i provvedimenti provvisori con

forza di legge», di cui alla norma costituzionale citata. Il presupposto del

«caso» straordinario di necessità e urgenza inerisce sempre e soltanto al

provvedimento inteso come un tutto unitario, atto normativo fornito di

intrinseca coerenza, anche se articolato e differenziato al suo interno. La

scomposizione atomistica della condizione di validità prescritta dalla

Costituzione si pone in contrasto con il necessario legame tra il

provvedimento legislativo urgente ed il «caso» che lo ha reso necessario,

trasformando il decreto-legge in una congerie di norme assemblate

soltanto da mera casualità temporale.

L'art. 15, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400 (Disciplina

dell'attività di Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei

Ministri) - là dove prescrive che il contenuto del decreto-legge «deve essere

specifico, omogeneo e corrispondente al titolo» - pur non avendo, in sé e

per sé, rango costituzionale, e non potendo quindi assurgere a parametro

di legittimità in un giudizio davanti a questa Corte, costituisce

esplicitazione della ratio implicita nel secondo comma dell'art. 77 Cost., il

quale impone il collegamento dell'intero decreto-legge al caso

straordinario di necessità e urgenza, che ha indotto il Governo ad avvalersi

dell'eccezionale potere di esercitare la funzione legislativa senza previa

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delegazione da parte del Parlamento” (Corte Cost., 16.02.2012, n. 22).

Alla luce dei richiamati principi risulta, dunque, in contrasto con

l’art. 77 della Costituzione la commistione e la sovrapposizione, nel decreto

legge, di oggetti e finalità eterogenei in ragione di presupposti diversi. Le

disposizioni estranee alla ratio unitaria del decreto che presentano profili

autonomi di necessità ed urgenza dovrebbero essere, dunque, contenuti in

atti normativi urgenti del potere esecutivo distinti e separati, al fine di

preservare la necessaria omogeneità e coerenza del decreto legge.

In tale prospettiva, nessun dubbio residua in merito all’illegittimità

dell’art. 9, commi 1 e 2, del d.l. n. 1/2012, laddove si prevedono la

abrogazione della tariffa professionale degli avvocati e l’attribuzione al

Ministero della Giustizia della potestà regolamentare in materia di

determinazione dei parametri relativi alla liquidazione giudiziale dei

compensi degli avvocati, in quanto non corrispondono né all’oggetto né alle

finalità del decreto legge di liberalizzazione dei mercati ed incentivazione

della crescita dell’economia italiana.

Ma vi è di più. Anche in base alla ricostruzione del Governo, la

predetta misura non sarebbe in grado di avere effetti positivi se non “nel

lungo periodo”, ossia “nell’arco di vent’anni”, “attraverso un intervento a

largo spettro sui settori interessati” (così recita la relazione illustrativa

governativa).

In tale prospettiva è evidente che difettano i presupposti della

necessità e dell’urgenza, trattandosi di disposizioni volte a porre rimedio a

“mali antichi del nostro sistema economico” a medio-lungo termine (così si

legge nell’introduzione della relazione illustrativa governativa del decreto

legge).

Del resto l’assoluta insussistenza dei predetti presupposti si desume

anche da due ulteriori considerazioni.

Innanzitutto, lo stesso art. 9 prevede che la nuova disciplina sarà

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efficace soltanto dalla data di entrata in vigore dei decreti ministeriali di cui

al comma 2 o, comunque, dopo il centoventesimo giorno dalla data di

entrata in vigore della legge di conversione del decreto.

Tale ritardo nell’entrata in vigore della novella - oltre a costituire

una violazione dell’art. 15 della legge n. 400 del 1988 - in base alla quale i

decreti legge devono contenere norme d’immediata applicazione, conferma

ancora una volta l’assenza di alcuna ipotesi straordinaria di necessità o

urgenza alla quale porre rimedio nell’immediatezza.

In secondo luogo, presso le Camere sono in corso di trattazione

molteplici progetti di legge dell’ordinamento della professione forense, tra i

quali il testo A.C.3900-A già approvato dalla Camera e in corso di

trattazione innanzi al Senato (testo che prevede, oltre ad una disciplina

organica della professione, la introduzione di parametri applicabili in caso

di liquidazione giudiziale dei compensi adottati dal Ministero della

Giustizia, previo parere del Consiglio Nazionale Forense e delle

Commissioni parlamentari competenti).

In conclusione, nessun dubbio residua in merito alla circostanza che

la previsione dell’abolizione delle tariffe professionali e l’attribuzione al

Ministero della Giustizia della potestà regolamentare in materia di

determinazione dei parametri relativi alla liquidazione giudiziale dei

compensi professionali, previste ai commi primo e secondo dell’art. 9 del

d.l. n. 1 del 2012, sono costituzionalmente illegittime in quanto adottate in

chiara e manifesta mancanza dei presupposti di necessità ed urgenza

prescritti dall’art. 77 della Costituzione della Repubblica italiana.

Né del resto la circostanza che il Parlamento abbia convertito il

decreto legge può sanare la predetta illegittimità costituzionale. Secondo gli

insegnamenti della Corte, infatti, la legge di conversione non ha efficacia

sanante, poiché il difetto dei presupposti della straordinaria necessità ed

urgenza configurano un vizio formale del procedimento normativo, nella

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forma della carenza di potere, trasmissibile alla legge di conversione.

Nella pronuncia n. 171 del 2007, infatti, la Consulta ha escluso

l’efficacia sanante della conversione, in quanto ammettere che la legge di

conversione sani in ogni caso i vizi dei presupposti del decreto legge

comporterebbe uno stravolgimento del sistema costituzionale delle fonti e

di produzione normativa attribuendo al legislatore ordinario il potere di

alterare il riparto costituzionale delle competenze del Parlamento e del

Governo quanto all’adozione delle fonti primarie.

A nulla varrebbe eccepire l’introduzione delle modifiche al testo

dell’art. 9 del d.l. n. 1/2012 in sede di conversione. La Corte costituzionale,

infatti, con la recente sentenza n. 355 del 2010, si è riservata lo scrutinio in

merito alla sussistenza dei presupposti di necessità e urgenza anche sugli

emendamenti “aggiunti” in sede di conversione dal Parlamento purché

omogenei rispetto al contenuto del decreto legge. In tale prospettiva,

dunque, pretestuose e prive di fondamento sono le eccezioni in merito alle

irrilevanti modifiche introdotte in sede di conversione.

Per tali motivi, si chiede, dunque, a codesto Ecc.mo T.a.r., ritenuta

la rilevanza e non manifesta infondatezza della questione di costituzionalità

dell’art. 9 del d.l. n. 1/2012 per violazione del riparto costituzionale della

competenza normativa, e segnatamente per l’assenza dei presupposti

prescritti dall’art. 72 Cost. per l’esercizio della decretazione d’urgenza, di

sospendere il presente giudizio e rimettere gli atti alla Corte costituzionale.

***

II. Illegittimità derivata per ulteriori profili di illegittimità

costituzionale dell’art. 9, comma 2, del d.l. n. 1/2012 – Violazione del

principio di legalità ex art. 97 Costituzione – Violazione dell’art. 17 della

l. 400 del 1988

Il Decreto del Ministero della Giustizia n. 140/2012 è illegittimo in

via derivata per illegittimità costituzionale dell’art. 9 del d.l. n. 1 del 2012

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che, nell’attribuire al Ministero della Giustizia il potere di determinare i

parametri per la liquidazione giudiziale del compenso del professionista, ha

omesso di stabilire i limiti, i parametri o quanto meno i principi ai quali la

potestà regolamentare avrebbe dovuto conformarsi.

L’esercizio della potestà regolamentare, infatti, deve essere

preceduto dall’indicazione legislativa dei criteri e dei limiti per il suo

esercizio.

Tuttavia, nel decreto de quo mancano i parametri normativi di

riferimento, segnatamente nell’art. 9 del decreto legge n. 1 del 2012.

La normativa di rango primario si è limitata ad attribuire al

Ministero della Giustizia la potestà di determinare i parametri per la

liquidazione giudiziale dei compensi degli avvocati senza illustrare neppure

sommariamente o genericamente i criteri ed i limiti che avrebbero dovuto

guidare l’esercizio di tale potestà.

Secondo la consolidata giurisprudenza amministrativa “nell’ipotesi

di regolamenti di esecuzione o di attuazione, dove una previgente disciplina

legislativa non può non esservi, occorre osservare che senza dubbio

l’ordinata attuazione del sistema delle fonti auspica che tale esercizio

venga espressamente previsto da legge, nonché attraverso l’indicazione di

criteri e limiti” (Cons. St., IV, 28 febbraio 2012 n. 120).

L’indicazione a livello primario dei criteri e dei limiti dell’esercizio

regolamentare è, dunque, necessaria al fine di conformare l’azione

amministrativa e di consentire il sindacato giurisdizionale.

Altrimenti quando – come nel caso di specie – non è possibile

desumere i suddetti criteri e limiti all’esercizio della potestà regolamentare

dalle norme primarie, risulta impedito il sindacato giurisdizionale sull’atto

amministrativo.

Ne consegue, dunque, anche sotto tale profilo, l’illegittimità

costituzionale dell’art. 9, commi 1 e 2, del decreto legge n. 1 del 2012 nella

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parte in cui ha omesso di individuare in modo puntuali i criteri, i principi ed

i limiti che vincolano l’esercizio della potestà attribuita al Ministero della

Giustizia di determinazione dei parametri per la liquidazione giudiziale dei

compensi degli avvocati.

***

III. Illegittimità derivata per ulteriori profili di illegittimità

costituzionale dell’art. 9 del d.l. n. 1/2012 – Violazione del principio di

sussidiarietà; Violazione degli artt. 33, comma 5, e 118, comma 4, della

Costituzione

L’art. 9, commi 1 e 2, del d.l. n. 1/2012 ed il d.m. n. 140/2012 in

quanto attuativo della predetta disposizione, appaiono altresì illegittimi per

violazione del principio di sussidiarietà costituzionalmente imposto e

garantito dall’art. 118, comma 4 laddove, con riferimento alla professione

forense, vanificano le prerogative e l’autonomia dei Consigli degli Ordini

professionali e del Consiglio Nazionale Forense attribuendo al Ministero

della Giustizia il potere d’imporre unilateralmente i parametri per la

remunerazione dell’attività professionale.

Gli ordini professionali – e, in particolare, gli ordini degli avvocati –

sono enti autonomi a carattere associativo, com’è stato espressamente

riconosciuto, in relazione agli ordini degli avvocati, sia dalla giurisprudenza

ordinaria (Cass. SS.UU., 26 maggio 2004, n. 10137) che amministrativa

(T.a.r. Lazio, Roma, Sez. I, 19 novembre 2004, n. 13554).

Il Consiglio Nazionale Forense, “tutela un interesse pubblicistico” e

svolge altresì “un ruolo di rappresentanza […] delle diverse articolazioni

associative” (Corte Cost., 27 maggio 1996, n. 171).

Alla luce del riconoscimento della natura di ente associativo

autonomo dei Consigli dei rispettivi ordini, nonché dell’attribuzione ad essi

di funzioni pubblicistiche, l’unilaterale imposizione da parte del Ministero,

stabilita all’art. 9, commi 1 e 2, dei parametri di remunerazione, senza che

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sia stata garantita l’adeguata partecipazione degli enti rappresentativi della

categoria professionale appare in contrasto con il principio di c.d.

sussidiarietà orizzontale e con l’art. 97 Cost., posto a presidio del principio

del giusto procedimento. È evidente, infatti che i Consigli degli Ordini ed i

Collegi professionali, per la loro natura e composizione, avrebbero dovuto

essere posti in condizione di partecipare adeguatamente alla fissazione delle

regole per la determinazione giudiziale delle rispettive attività professionali.

Partecipazione che, del resto, era espressamente garantita nella

normativa previgente, in base alla quale “i criteri per la determinazione

degli onorari e delle indennità dovute agli avvocati [erano] stabiliti ogni

biennio con deliberazione del Consiglio nazionale forense”

successivamente oggetto di approvazione da parte del Ministero della

Giustizia (art. 1 della legge del 3 agosto 1949 n. 536; art. 57 del Regio

decreto legge del 27 novembre 1933, n. 1578).

La potestà normativa statale trova, dunque, un indubbio limite nel

rispetto del principio di sussidiarietà orizzontale, ed anche nel principio di

buon andamento, che presuppone la congruità e l’efficacia dell’azione

amministrativa mercé la partecipazione di ogni centro

istituzionalerappresnetativo di interessi qualificato ad interloquire in seno

alla procedura.

Né può escludersi l’applicazione dell’art. 118, comma 4, della

Costituzione per la mera circostanza che in questo caso si tratta di enti

pubblici e non di associazioni private.

Sempre la richiamata pronuncia n. 171 del 1996 della Corte

Costituzionale accomuna gli uni e le altre nel quadro del “pieno

riconoscimento della libertà di associazione […], che è oggetto di

salvaguardia costituzionale”: sicché davvero non sussistono ragioni per

escludere gli ordini professionali (“enti autonomi associativi”) dalla

garanzia del principio di sussidiarietà orizzontale.

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Principio che risulta nella specie violato per mancanza della benché

minima necessarietà, proporzionalità e ragionevolezza dell’intervento

governativo.

La natura autonoma e rappresentativa degli ordini professionali

comporta che tali enti sono gli unici in grado di assicurare una conoscenza

delle problematiche e delle esigenze connesse alla determinazione dei

compensi professionali idonea ad assicurare la migliore ponderazione degli

interessi da regolare con atto normativo da emanarsi a cura del Ministero.

In tale prospettiva, dunque, l’imposizione unilaterale da parte del

Ministero dei parametri di retribuzione degli avvocati, in assenza della

necessaria partecipazione degli Ordini professionali e del Consiglio

Nazionale Forense nel procedimento di determinazione degli stessi, risulta

irragionevole oltre che lesivo del principio di sussidiarietà orizzontale e del

principio di buon andamento.

***

IV. Illegittimità derivata per ulteriori profili di illegittimità

costituzionale dell’art. 9 del d.l. n. 1/2012 – Violazione del principio di

irretroattività; Violazione degli artt. 3 e 24 ;

L’art. 41 del Decreto Ministeriale contiene una espressa norma di

diritto intertemporale, in base alla quale “le disposizioni di cui al presente

decreto si applicano alle liquidazioni successive alla sua entrata in vigore”,

ossia il giorno successivo alla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della

Repubblica Italiana, id est: il 23 agosto 2012.

La relazione ministeriale nulla aggiunge in merito alla corretta

interpretazione della disposizione.

Tuttavia, alla luce del chiaro disposto normativo, appare evidente

che il regolamento, ai fini dell’applicabilità ai giudizi pendenti, indica quale

parametro di riferimento non il momento in cui è stata effettivamente posto

in essere ciascun atto da parte del professionista, ovvero la data in cui

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l’attività difensiva è terminata, ma il momento in cui il giudice deve

provvedere a liquidare il compenso per la prestazione di assistenza

giudiziale svolta.

Ciò determina l’applicazione retroattiva della disciplina introdotta

con il D.M. n. 140/2012 ai giudizi instaurati ed alle attività svolte nel vigore

delle precedenti tariffe professionali, essendo irrilevante il referente

temporale dell’attività compiuta. Ai sensi del Regolamento, infatti, rileva

esclusivamente la data della quantificazione giudiziale del compenso

spettante al professionista.

L’effetto retroattivo dell’abrogazione delle tariffe professionali e

dell’applicazione del nuovo regime in materia di liquidazione giudiziale dei

compensi degli avvocati si desume senza possibilità di differenti

interpretazioni dall’art. 9, commi primo, secondo e quinto dell’art. 9 del

D.L. n. 1/2012.

Il primo comma della disposizione in esame ha espressamente

abrogato “le tariffe delle professioni regolamentate nel sistema

ordinistico”.

Il secondo comma stabilisce che, “nel caso di liquidazione da parte

di un organo giurisdizionale, il compenso del professionista è determinato

con riferimento a parametri stabiliti con decreto del Ministro vigilante”.

Al quinto comma, si afferma che “sono abrogate le disposizioni

vigenti che, per la determinazione del compenso del professionista,

rinviano alle tariffe”.

L’effetto retroattivo dell’abrogazione delle tariffe e l’applicazione

del nuovo regime della liquidazione giudiziale dei compensi degli avvocati

anche ai processi in corso ed all’attività già svolta ed esaurita prima della

sua entrata in vigore sono illegittimi per violazione dei principi di

irretroattività, di certezza del diritto e del legittimo affidamento dei

cittadini.

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La Corte costituzionale, con sentenza n78 del 2012, ha riconosciuto

al divieto di retroattività della legge valore fondamentale di civiltà

giuridica, stabilendo che il legislatore possa emanare norme retroattive

soltanto laddove “la retroattività trovi adeguata giustificazione

nell’esigenza di tutelare principi, diritti e beni di rilievo costituzionale, che

costituiscono altrettanti “motivi imperativi di interesse generale”, ai seni

della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà

fondamentali (CEDU)”.

La Consulta, oltre a tale presupposto, ha individuato ulteriori “limiti

generali all’efficacia retroattiva delle leggi attinenti alla salvaguardia,

oltre che dei principi costituzionali, di altri fondamentali valori di civiltà

giuridica, posti a tutela dei destinatari della norma e dello stesso

ordinamento, tra i quali vanno ricompresi il rispetto del principio generale

di ragionevolezza, che si riflette nel divieto d’introdurre ingiustificate

parità di trattamento; la tutela dell’affidamento legittimamente sorto nei

soggetti quale principio connaturato allo Stato di diritto; la coerenza e la

certezza dell’ordinamento giuridico; il rispetto delle funzioni

costituzionalmente riservate al potere giudiziario (sentenza n. 209 del

2010, citata, punto 5.1., del Considerato in diritto)” (così, recentemente,

Corte cost., 2 aprile 2012, 78).

Secondo il Giudice delle leggi, dunque, l’art. 3 della Costituzione,

nello stabilire il principio di uguaglianza e, quindi, di ragionevolezza delle

scelte del legislatore impone di salvaguardare la certezza dell’ordinamento,

in funzione dell’affidamento dei privati, che devono poter orientare le

proprie condotte, confidando che ad esse non saranno applicate norme non

vigenti e, quindi, non conoscibili al momento in cui hanno agito.

Alla luce di tali principi è evidente che le norme legislative e

regolamentari censurate, con la loro efficacia retroattiva, ledono sia il

canone generale di ragionevolezza, soprattutto tra avvocati che hanno

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svolto le medesime prestazioni nello stesso arco temporale, in quanto

introducono un’ingiustificata disparità di trattamento, sia la tutela

dell’affidamento legittimo degli avvocati che, quando hanno accettato

l’incarico ed hanno effettuato la relativa attività difensiva, hanno confidato

di ottenere un compenso superiore sulla base delle tariffe professionali

vigenti.

Rispetto alla delineata finalità di garantire la liberalizzazione del

mercato delle professioni, è evidente che la retroattività dell’abrogazione

delle tariffe e dell’applicazione del nuovo regime non ha alcuna utilità,

rappresentando un mezzo inadeguato e sproporzionato rispetto allo scopo,

dal momento che i principi del nuovo regime basato sull’autonomia

negoziale del rapporto tra professionista e cliente non risultano neppure

applicabili ai giudizi pendenti (potendo trovare attuazione esclusivamente

prima della proposizione della domanda giudiziale, anteriormente

all’instaurazione del giudizio).

In tale prospettiva, risulta irragionevole la scelta del legislatore di

applicare retroattivamente il nuovo regime basato sull’autonomia negoziale

in relazione ad azioni già proposte ed in corso di esecuzione rispetto alle

quali oramai non è più possibile stipulare alcun accordo. Le parti, infatti,

non sono poste in una posizione di parità dal momento che i clienti, nel

caso non si dovesse raggiungere l’accordo, sanno che il compenso verrà

liquidato in base al nuovo regime.

La disciplina de qua, oltre ad essere irragionevole, viola anche il

principio di eguaglianza e parità di trattamento.

A causa dell’applicazione retroattiva del nuovo regime, infatti, a

due avvocati che hanno posto in essere le medesime attività nello stesso

periodo, potrebbero essere applicati due regimi differenti soltanto perché

uno è stato più solerte dell’altro nel richiedere il pagamento, ovvero perché

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la pronuncia relativa al giudizio seguito da uno dei due è stata pubblicata

prima dell’entrata in vigore della nuova disciplina.

In ultimo, appare evidente che la violazione del principio della

certezza del diritto e del legittimo affidamento dei privati dal momento che

l’efficacia retroattiva dell’abrogazione e, in particolare, l’applicazione del

nuovo regime della liquidazione giudiziale dei compensi degli avvocati ai

giudizi in corso ed alle attività difensive pregresse (anche se già concluse),

rendono asimmetrico il rapporto contrattuale tra il professionista ed il

cliente in quanto, determinando la diminuzione del corrispettivo,

modificano l’equilibrio economico del sinallagma contrattuale.

Tra l’altro l’applicazione retroattiva della disciplina sopravvenuta ai

giudizi incardinati prima dell’entrata in vigore del D.M. comporta una

riduzione dei compensi degli avvocati, a fronte di incarichi già espletati, o,

comunque, accettati prima della modifica legislativa, pregiudicando la

posizione economica e l’affidamento dei professionisti.

Tale mutamento dei compensi in corso d’opera comporta un

mutamento dell’equilibrio contrattuale precedentemente concordato tra le

parti, a dispetto delle valutazioni effettuate dalle parti al momento della

proposizione della domanda, mentre in passato é sempre stato pacifico che

ogni innovazione tariffaria trova applicazione esclusivamente agli

adempimenti successivi all’entrata in vigore della stessa.

Del resto, il diritto e la misura del compenso del professionista

sorgono e si determinano al momento dell’accettazione dell’incarico o al

più tardi al momento stesso del compimento delle singole attività.

Intervenire retroattivamente su tale compenso significa non solo incidere su

un diritto quesito, ma anche alterare arbitrariamente gli effetti di un

rapporto esaurito a danno, nel caso di specie, degli avvocati, poiché il

nuovo regime prevede compensi assai più bassi rispetto alle tariffe stabilite

dal D.M. dell’8 aprile 2004.

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Tale alterazione alla stregua della giurisprudenza costituzionale e

comunitaria viola il principio fondamentale dell’affidamento.

Sul piano del diritto interno, infatti la Corte Costituzionale ha

chiarito sin dalla sentenza n. 349 del 1985 che il principio della certezza del

diritto e il connesso principio della tutela dell’affidamento del cittadino

costituiscono “valori” riconosciuti dalla Costituzione, che il legislatore è

tenuto a rispettare (si cfr. anche nn. 882 del 1988; 155 del 1990; 390 del

1995; 211 del 1997; 229 del 1999; 416 del 1999, nonché gli spunti

contenuti nelle sent. nn. 210 del 1971 e 36 del 1985).

Il Giudice delle Leggi ha così chiarito che l’affidamento del

cittadino nella sicurezza giuridica costituisce “elemento fondamentale e

indispensabile dello Stato di diritto” (n. 349/1985); ha qualificato tale

affidamento come “principio che, quale elemento essenziale dello Stato di

diritto, non può essere leso da norme con effetti retroattivi che indicano

irragionevolmente su situazioni regolate da leggi precedenti” (n. 555/2000);

ha confermato che, in linea generale, “l’affidamento del cittadino nella

sicurezza giuridica – essenziale elemento dello Stato di diritto – non può

essere leso da disposizioni retroattive, che trasmodino in regolamento

irrazionale di situazioni sostanziali fondate su leggi anteriori” (così n.

446/2002).

Sul piano del diritto comunitario la Corte di Lussemburgo ha

chiarito che il principio del legittimo affidamento si sostanzia nella

legittima aspettativa, riconosciuta a ciascun soggetto operante in tale

ordinamento, a che non si realizzi un’irragionevole modificazione del

quadro giuridico (ex multis, Cort. Giust. U.E., 14 settembre 2006, cause c-

181/04 e 183/04, Elmeka NE).

In conclusione, appare evidente la violazione dell’art. 3 della

Costituzione, poiché la norma censurata, facendo retroagire la disciplina,

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non rispetta i principi generali di eguaglianza, di ragionevolezza e del

legittimo affidamento.

***

V. Illegittimità derivata dall’illegittimità costituzionale dell’art. 9

del d.l. n. 1/2012 – Violazione del principio di irretroattività; Violazione

dell’art. 117 della Costituzione – Violazione dell’art. 6 della CEDU

L’art. 9, commi 1, 2 e 5, del D.L. n. 1/2012 e l’art. 41 del D.M. n.

140/2012 sono costituzionalmente illegittimi anche per contrasto con l’art.

117, primo comma, della Costituzione e, in particolare, all’art. 6 della

Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo come interpretato dalla Corte

Europea dei Diritti dell’Uomo.

Invero, la giurisprudenza della Corte costituzionale è oramai

costante nel ritenere che le norme della CEDU, nel significato loro

attribuito dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, integrino, quali norme

interposte, il parametro costituzionale espresso dall’art. 117, comma 1,

Cost, nella parte in cui impone la conformazione della legislazione interna

ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali (a partire dalle pronunce

della Corte cost., nn. 348 e 349 del 2007; recentemente ex plurimis, Id., 1

del 2011, nn. 138, 187 e 196 del 2010).

La Corte europea dei diritti dell’Uomo ha più volte affermato che il

principio della preminenza del diritto e il concetto di processo equo sanciti

dall’art. 6 della CEDU ostano al potere legislativo di regolamentare con

nuove disposizioni dalla portata retroattiva diritti risultanti da leggi in

vigore, salvo che per imperative ragioni d’interesse generale (Cfr. Corte

Europea dei Diritti dell’Uomo, Sez. II, 7 giugno 2011, Agrati vs Italia; Sez.

II, 31 maggio 2011, Maggio vs Italia; Sez. V, 11 febbraio 2010, Javaugue

vs. Francia; Sez. II, 10 giugno 2008, Bortesi vs Italia).

L’intervento del legislatore con efficacia retroattiva, in quanto

interferisce con l’amministrazione della giustizia ovvero pregiudica

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l’affidamento dei cittadini deve essere, quindi, giustificato da motivi

imperativi d’interesse generale.

Con riferimento alla disciplina in esame non è dato ravvisare alcun

motivo imperativo d’interesse generale idoneo a giustificare l’effetto

retroattivo del nuovo regime della liquidazione giudiziale dei compensi

degli avvocati.

Ne consegue, dunque, che l’art. 9, commi 1, 2 e 5 del D.L. n. 1/2012

e l’art. 41 del D.M. n. 140/2012 violano l’art. 117, primo comma, della

Costituzione, in relazione all’art. 6 della Convenzione europea, come

interpretata dalla Corte di Strasburgo.

L’applicazione retroattiva dei nuovi parametri alle prestazioni

professionali effettuate prima dell’entrata in vigore del predetto decreto non

viola esclusivamente l’art. 6 della CEDU, ma anche il principio del

“rispetto dei beni” stabilito all’art. 1, comma 1, del protocollo Addizionale

n. 1 alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.

In base a quanto dichiarato dalla Corte di Strasburgo nel giudizio

Pressos Compania Naviera S.A. (sentenza del 20 novembre 1995, ricorso n.

17849/91) la decurtazione di diritti di credito già sorti nella sfera giuridica

dei danneggiati (nel caso di specie si trattava dell’illegittimità di una legge

che disponeva la decurtazione dei risarcimenti dovuti a terzi per incidenti

verificatisi anteriormente all’entrata in vigore della medesima legge)

costituisce un’indebita ingerenza nel diritto al “rispetto dei beni”,

equivalendo in sostanza ad una confisca senza indennizzo del bene

costituito dalla quota, così decurtata, del credito stesso.

Alla luce di tale principio, risulta evidente che la decurtazione dei

compensi per le prestazioni professionali già effettuate disposta dal Decreto

impugnato risulta in contrasto con il principio del “rispetto dei beni”

enucleato dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.

***

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VI. Violazione dell’art. 2233 del Codice Civile – Violazione de i

principi generali di proporzionalità ed adeguatezza degli onorari di

avvocato nell'opera professionale – Eccesso di potere per sviamento di

potere, irragionevolezza manifesta e illogicità, nonché per disparità di

trattamento

Ferme le predette, assorbenti censure di illegittimità costituzionale,

che si confida codesto ecc.mo Tribunale vorrà sollevare dinanzi alla

Consulta, il regolamento in epigrafe presenta numerosi vizi di legittimità

anche in via autonoma.

In via preliminare si deduce l’illegittimità del predetto decreto per

sviamento di potere, in quanto risulta ictu oculi evidente che l’operazione

complessiva compiuta dal Ministero ha avuto come unico obiettivo

l’abbattimento sistematico dei valori di cui alla precedente tariffa forense

del 2004.

Un abbattimento di più del 35% dei compensi degli avvocati

immotivato, ingiustificato e del tutto incoerente con le finalità della norma

attributiva della potestà regolamentare, che avrebbero dovuto limitarsi a

favorire la liberalizzazione delle professioni ed una semplificazione del

sistema dei compensi in funzione di una maggiore trasparenza.

Del resto, la circostanza che il Ministero abbia perseguito tale

obbiettivo in violazione della funzione di liberalizzazione del mercato delle

libere professioni per la quale era stata attribuita la potestà regolamentare ai

sensi dell’art.9 del d.l. n. 1 del 2012 emerge, con tutta evidenza, dalla stessa

relazione ministeriale, laddove è stato specificatamente chiarito che i

parametri sono stati “adattati” in considerazione “del problema

dell’aumento dei costi legali anche sotto l’aspetto dell’incidenza degli

stessi sul reddito medio reale degli utenti, e, dunque, pure in rapporto al

valore, e cioè al costo di acquisto, dei beni della vita contesi, così da

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evitare che, in frizione con i principi costituzionali, «il ricorso alla giustizia

possa diventare privilegio per pochi»”.

In tale prospettiva, è evidente lo sviamento di potere in cui è incorso

il Ministero che dietro l’apparente schermo della liberalizzazione, ha

imposto l’abbassamento delle tariffe di oltre il 35% come emerge dalle

tabelle allegate.

La nuova disciplina regolamentare delle tariffe è orientata, infatti, da

esigenze di mero risparmio di spesa, anziché dalla finalità di garantire al

cittadino la migliore risposta in termini di funzionalità del sistema

giudiziario e della professione forense per soddisfare le esigenze di

efficienza della giustizia.

Ma vi è di più. L’introduzione di parametri estremamente bassi

contraddice sia l’art. 2233 c.c., secondo cui il compenso deve essere

adeguato all’importanza dell’opera ed al decoro della professione, sia lo

stesso art. 9 D.L. 1/2012, che richiama anch’esso l’importanza

dell’impegno profuso.

Del resto, la riduzione immotivata e inusitata dei parametri di

riferimento della liquidazione giudiziale contraddice non soltanto i predetti

riferimenti normativi, ma la stessa relazione ministeriale illustrativa redatta

dal Ministero della giustizia ed allegata all’impugnato decreto, in base alla

quale “i punti di riferimento [per la liquidazione] in sede giudiziale

divengono quindi: importanza e complessità dell’opera e, implementando

la chiave sistemica dell’art. 9 rispetto all’ultimo inciso del secondo comma

dell’art. 2233 c.c., il pregio della stessa, che riflette in termini giustificativi

il razionale rilievo del decoro della professione” (pag. 2).

Tuttavia è evidente che il decoro della professione non è garantito

con tariffe eccessivamente basse che non valorizzano né l’importanza, né la

complessità dell’assistenza legale.

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Tale riduzione comporta la violazione non solo dell’art. 4 della

Costituzione, che tutela il diritto al lavoro, ma anche la violazione del

principio della retribuzione sufficiente di cui all’art. 36 della Costituzione.

***

VII. Violazione de i principi generali di proporzionalità ed

adeguatezza degli onorari di avvocato nell'opera professionale – Eccesso

di potere per sviamento, irragionevolezza manifesta e illogicità, nonché

per disparità di trattamento

Non si può fare a meno di rilevare che i parametri tariffari introdotti

non rispettano neppure i sistemi di calcolo degli stessi descritti nella

relazione illustrativa.

Applicando, infatti, le modalità di determinazione di tali parametri

indicati nella relazione illustrativa, gli importi avrebbero dovuto essere

maggiori rispetto a quelli determinati nel Decreto ministeriale.

Nella relazione illustrativa al decreto si legge: di “prendere le mosse

dalla precedente tariffa quale orientamento razionale rispetto all’attività

forense e, al contempo, quale momento di raccordo tra il precedente

sistema e quello nuovo nella lata chiave degli usi finora invalsi” (pag.6).

In particolare, si dichiara di aver “proceduto innanzi tutto ad

aggiornare la precedente tariffa del 2004 – quale mero termine di

riferimento nei sensi sopra illustrati – tenendo conto degli indici ISTAT dei

prezzi al consumo per l’intera collettività, e in specie, della componente

Professioni liberali, con un aumento del 24,1%”.

Nel dettaglio la relazione illustrativa, puntualizza che

l’adeguamento ISTAT:

“a) non è stato operato per intero, posto che, come rilevabile già da

quanto prima specificato, l’indice ISTAT (componente professioni liberali)

aprile 2009-aprile2012 è del 29,3% (contro il 24,1% applicato) con una

differenza di oltre il 5% (cfr., sempre, in www.istat.it);

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b) è stato contenuto, come pure già illustrato, proprio in funzione

dei criteri di ragionevolezza e proporzionalità sopra spiegati, in ragione

della tutela dei valori, storicamente contestualizzati sul piano economico,

inerenti all’accesso alla giustizia;

c) è stato contenuto (anche in questo caso si tratta di un tema già

affrontato nella iniziale relazione) dalla fusione tra diritti, onorari e

indennità, sia pure parzialmente bilanciata dalla considerazione che questa

fusione ha avuto nella determinazione del valore medio di liquidazione (su

cui vedi infra);

d) è stato poi ulteriormente contenuto dall’assorbimento della voce

propria delle precedenti tariffe, data dalle spese forfettarie (mentre si è

visto che ora le spese saranno liquidate giudizialmente, in difetto

d’accordo, solo in quanto attestate).

Da ultimo si deve notare come nella determinazione degli importi si

è mirato a contenere l’attuale rapporto medio ponderale tra costi legali

concretamente sostenuti e valore del bene oggetto della lite giudiziaria,

rilevato secondo gli indici doing business della Banca Mondiale” (v. infra).

È evidente, dunque, che secondo quanto illustrato nella relazione

ministeriale il compenso degli avvocati previsto dai nuovi “parametri”

avrebbe dovuto essere maggiore del compenso determinato sulla base delle

vecchie tariffe (D.M. 8 maggio 2004), in quanto si basava su tali importi

maggiorati dell’indice ISTAT (seppur non operato per intero).

Ma così non è.

I valori medi dei parametri sono, infatti, di molto inferiori rispetto

agli importi medi determinati in base al combinato disposto degli artt. 1 e

14, del Capitolo I, del D.M. 8 maggio 2004, secondo il quale il compenso

degli avvocati era costituito dagli onorari e dai diritti, oltre ad un rimborso

forfettario delle spese generali in ragione del 12,5 per cento sull'importo

degli onorari e dei diritti ripetibile dal soccombente.

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Come emerge dalle tabelle allegate i compensi medi previsti dal

nuovo Regolamento sono di almeno un terzo più bassi rispetto agli importi

medi determinati in base al vecchio regime.

Tale decurtazione dei compensi liquidati in sede giudiziale in favore

del difensore della parte vincitrice, oltre ad essere illegittima per violazione

di legge e per contraddittorietà, è altresì illogica ed irragionevole, in quanto

anziché garantire che tutti possano agire in giudizio per la tutela dei propri

diritti e interessi legittimi, rende più difficoltoso l’esercizio dell’azione

giudiziale ai piccoli consumatori ed ai privati cittadini in evidente

violazione degli artt. 24 e 113 della Costituzione.

Con la liquidazione d’importi irrisori a favore del professionista,

infatti, l’unica conseguenza che si è determinata è di scoraggiare ogni

iniziativa volta a tutelare i diritti dei consumatori, degli utenti e dei privati

meno abbienti favorendo obiettivamente, al contrario, le grandi imprese e le

pubbliche amministrazioni.

È innegabile, infatti, che tali categorie svantaggiate spesso agivano a

tutela delle proprie azioni, anche per importi di dimensioni non notevoli,

garantendo al professionista che li assisteva il compenso unicamente

attraverso la liquidazione giudiziale delle spese e degli onorari.

Tale prassi risultava particolarmente consolidata nell’ambito dei

giudizi avverso le contravvenzioni al Codice della Strada, nelle opposizioni

ai procedimenti esecutivi proposti dalle società che garantiscono

l’erogazione dei servizi essenziali, ovvero in relazione alle questioni

relative a richieste pretestuose di soggetti privati.

Tuttavia, alla luce della decurtazione dei compensi e delle spese

giudiziali liquidati da parte degli organi giudiziali in base ai nuovi

parametri introdotti dal decreto impugnato tale prassi non potrà più essere

proseguita e i consumatori saranno svantaggiati in quanto il proprio diritto

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di difesa e di tutela della propria posizione giuridica soggettiva sarà

estremamente oneroso.

***

VIII. Violazione e falsa applicazione dell’art. 9, d.l. n. 1/2012.

Violazione dell’art. 23 Cost. Eccesso di potere per irragionevolezza ed

illogicità. Violazione dei principi di irretroattività, della certezza del diritto

e del legittimo affidamento.

L’art. 41 del decreto impugnato contrasta ulteriormente con il

principio di irretroattività – e, più in generale di ragionevolezza, di certezza

del diritto e di legittimo affidamento – in quanto si limita ad abrogare le

tariffe professionali senza distinguere tra quanto dovuto per onorari

professionali e quanto dovuto per diritti.

Secondo la consolidata giurisprudenza della Cassazione, “Il giudice,

quando liquida le spese processuali e, in particolare, i diritti di procuratore e

gli onorari dell'avvocato, deve tenere conto che i primi sono regolati dalla

tariffa in vigore al momento del compimento dei singoli atti, mentre per i

secondi vige la tariffa in vigore al momento in cui l'opera è portata a

termine e, conseguentemente, nel caso di successione di tariffe, deve

applicare quella sotto la cui vigenza la prestazione o l'attività difensiva si è

esaurita” (Cass., II, 15 giugno 2001, n. 8160).

Come emerge dalla relazione illustrativa al provvedimento

impugnato, i diritti non sono stati resi oggetto di abrogazione, ma

uniformati agli onorari sotto la medesima logica della liquidazione del

compenso.

Come già visto, l’art. 41 del Decreto Ministeriale contiene una

espressa norma di diritto intertemporale, in base alla quale “le disposizioni

di cui al presente decreto si applicano alle liquidazioni successive alla sua

entrata in vigore”. In tal modo la disciplina del compenso, comprensiva di

onorari, diritti e spese generali, trova una indistinta applicazione retroattiva,

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privando i professionisti di un vero e proprio diritto acquisito al momento

della prestazione del singolo atto, in palese contrasto con la citata

giurisprudenza della Cassazione e, quindi, con il consolidato diritto vivente.

Poiché la pretesa ai diritti matura istantaneamente in correlazione

con il compimento delle singole attività svolte in esecuzione del mandato

professionale, tale diritto risulta inciso e sostanzialmente vanificato in virtù

della retroazione degli effetti del regolamento che detto diritto estingue, in

assenza di alcuna norma di rango primario che ciò consenta, e quindi in

palese violazione dei surrichiamati principi di irretroattività e certezza dei

rapporti giuridici, nonché del divieto sancito dall’art. 23 Cost. che stabilisce

la regola ineludibile secondo cui ogni onere personale o patrimoniale non

può essere che imposto in base ad una esplicita disposizione di legge

ordinaria.

***

IX. Violazione e falsa applicazione dell’art. 9 del d.l. n. 1/2012;

Eccesso di potere per irragionevolezza, illogicità, carenza e/o erroneità

dei presupposti, difetto d’istruttoria, travisamento di fatti,

contraddittorietà ed arbitrarietà; Violazione del principio di

soccombenza;

Il decreto de quo risulta altresì illegittimo in quanto introduce,

mediante la fonte regolamentare, nuove figure di sanzione pecuniaria e/o

disciplinare, in assenza di alcuna base legislativa.

In particolare, il decreto impugnato stabilisce, all’art. 1, comma 6,

che “l’assenza di prova del preventivo di massima di cui all. art. 9, d.l. n.

1/2012 costituisce elemento di valutazione negativa da parte dell’organo

giurisdizionale per la liquidazione del compenso”.

Analogamente l’art. 4, comma 6, stabilisce che “costituisce

valutazione negativa, in sede di liquidazione giudiziale del compenso,

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l’adozione di condotte abusive tali da ostacolare la definizione dei

procedimenti in tempi ragionevoli”.

Parimenti , l’art. 10 del medesimo decreto prevede che, “nel caso di

responsabilità processuale ai sensi dell'articolo 96 del codice di procedura

civile, ovvero, comunque, nei casi d'inammissibilità o improponibilità o

improcedibilità della domanda, il compenso dovuto all'avvocato del

soccombente è ridotto, di regola, del 50 per cento rispetto a quello

liquidabile a norma dell'articolo 11”.

Come è noto, la previsione di singole fattispecie di illeciti

disciplinari è demandata alla legge e ai codici deontologici (recanti per gli

avvocati “norme giuridiche vincolanti nell’ambito dell’ordinamento di

categoria”: cfr. Cass. Sez. Un., 6 giugno 2002, n. 8225). Occorre precisare,

al riguardo, che, con riferimento alla disciplina relativa agli avvocati – ai

quali è affidato dalla legge il compito dell’assistenza tecnica necessaria

all’espletamento della funzione giurisdizionale, sul regolare esercizio della

quale possono incidere, in certa misura, alcuni provvedimenti disciplinari,

quali la sospensione o la radiazione – la Corte costituzionale ha ribadito

“che l’esercizio della funzione disciplinare nell’ambito del pubblico

impiego, della magistratura e delle libere professioni si esprime con

modalità diverse, che caratterizzano i relativi procedimenti a volte come

amministrativi, altre volte come giurisdizionali, in relazione alle predette

peculiarità – derivanti anche da ragioni storiche – proprie dei diversi

settori ovvero in rispondenza a scelte del legislatore, la cui discrezionalità

in materia di responsabilità disciplinare spazia entro un ambito molto

ampio” (cfr. sentenza n. 505/1995). Allo stesso modo la Cassazione ha

avuto modo di chiarire che, nel caso dell’ordinamento forense, le previsioni

legislative possono essere integrate e precisate da fonti di rango

infralegislativo, individuate nelle regole di deontologia dettate dai singoli

ordinamenti professionali, vincolanti per i propri iscritti, quale espressione

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di autogoverno della professione e di autodisciplina dei comportamenti dei

professionisti (cfr. Cass. Sez. Un. n. 12723/1995).

Dunque, individuato nel principio di legalità e nell’autonomia dei

singoli ordinamenti professionali il limite entro cui possono essere istituite

nuove figure di sanzione disciplinare, la scelta del Governo di introdurre

con norma secondaria dette sanzioni rappresenta il primo e radicale vizio di

cui risultano inficiate le disposizioni regolamentari in commento.

Ma – come già anticipato – l’istituzione di nuove figure di sanzione

disciplinare risulta addirittura priva di base legislativa autorizzante.

Ed invero, nel caso di specie la potestà regolamentare de qua è stata

conferita al Ministero della Giustizia solo per determinare i parametri per la

liquidazione dei compensi, senza alcun riferimento alla introduzione di

nuove fattispecie di rilevanza disciplinare.

Pertanto, la mancata previsione di un’espressa autorizzazione

all’istituzione di nuove figure di sanzione disciplinare, comuni a tutte le

professioni, consente di ritenere gli artt. 1, comma 6, 4, comma 6, e 10 del

Decreto gravemente illegittimi poiché esorbitanti le disposizioni della base

legislativa su sui è fondato.

Ma vi è di più. Anche laddove, infatti, Codesto Ecc.mo Tribunale

ritenesse che tali disposizioni non configurano nuove figure di sanzione

disciplinare, ma esclusivamente una mera potestà attribuita al Giudice di

liquidare un importo “punitivo” al fine di sanzionare la mancata

presentazione del preventivo, o l’adozione di condotte abusive tali da

ostacolare la definizione dei procedimenti in tempi ragionevoli, o la

proposizione di una domanda inammissibile o improponibile o

improcedibile, esse risultano comunque illegittime in quanto prive di alcuna

base legislativa.

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È evidente, infatti, che con tali previsioni il Ministero ha introdotto,

senza alcuna copertura da parte della norma attributiva della potestà

regolamentare, nuove sanzioni nei confronti degli avvocati soccombenti.

Nessun dubbio del resto residua in merito alla volontà punitiva delle

previsioni de quibus, dal momento che nella relazione illustrativa il

Ministero espressamente individua la ratio nella ragione di evitare

“l’esercizio professionalmente inappropriato dei diritti processuali”.

Tuttavia, tale finalità sanzionatoria non poteva essere perseguita

attraverso il regolamento de quo, in quanto essa non è contemplata tra i

poteri attribuiti al Ministero della Giustizia dall’art. 9 del d.l. n. 1/2012.

Le previsioni de quibus risultano, inoltre, non soltanto prive di alcun

fondamento normativo, ma anche in contrasto con le norme che

stabiliscono il principio di soccombenza, in quanto prevedono la

diminuzione della liquidazione dei compensi da parte della parte

soccombente al difensore della parte vittoriosa.

Del resto tali disposizioni appaiono in contrasto con le indicazioni

fornite dal d.l. n. 1/2012 in quanto, introducendo elementi di valutazione ex

post, rischiano di vanificare l’esigenza che informa l’operazione di

revisione dei criteri di remunerazione di “rendere chiaro fin dall’inizio nel

rapporto tra professionista e cliente il corrispettivo per l’attività da

svolgere”.

Ma vi sono ulteriori specifici profili di illegittimità che riguardano le

predette disposizioni.

Innanzitutto, l’art. 4, comma 6, del D.M. 140/2012 è illegittimo in

quanto, nell’attribuire al giudice il potere sanzionatorio di diminuire la

liquidazione del difensore, non chiarisce l’incidenza della valutazione

negativa dell’omessa prova del preventivo sulla liquidazione del compenso.

La predetta previsione attribuisce, infatti, al giudice della

liquidazione un potere assolutamente discrezionale senza stabilire i

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parametri ed i limiti in base ai quali esercitare tale potestà di determinare la

diminuzione dei compensi.

In secondo luogo, l’art. 10 del D.M. 140/2012 è viziato da ulteriori

illegittimità sia nella parte in cui disciplina i compensi in relazione alla

responsabilità processuale aggravata, sia nella parte in cui si riferisce alle

c.d. pronunce di rito.

Con riferimento alla prima ipotesi la disciplina de qua è, infatti,

illogica, irragionevole e non proporzionata, poiché la previsione della

riduzione del 50% non è connessa alla sussistenza di un’effettiva

responsabilità in capo al professionista, ma semplicemente all’ipotesi in cui

la parte soccombente abbia agito o resistito in giudizio con mala fede o

colpa grave, anche quando tale condotta non sia in alcun modo

riconducibile a responsabilità del difensore.

Parimenti illegittima è anche l’applicazione della predetta

decurtazione dei compensi nell’ipotesi di pronunce di rito, in quanto la

previsione non tiene in alcuna considerazione che possono verificarsi, e

frequentemente si verificano nella prassi, pronunce d’inammissibilità

od’improcedibilità che possono rivelarsi per il cliente ancor più satisfattive

di una pronuncia di accoglimento (ad esempio, nel processo

amministrativo, per l’impugnazione di un provvedimento del quale sia

riconosciuta e accertata la non lesività per il ricorrente, eventualmente

prospettata in via subordinata negli scritti difensivi, oppure qualora nel

corso di un giudizio relativo all’impugnazione di un provvedimento

amministrativo ovvero alla proposizione di un’azione avverso l’inerzia

della p.a. quest’ultima elimini gli effetti dell’atto impugnato in autotutela,

ovvero adotti l’atto richiesto o, ancora, allorché sia cessata la materia del

contendere).

Del resto le pronunce di rito possono dipendere anche da

réevirements giurisprudenziali, dall’introduzione di riforme normative,

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ovvero dall’adozione di un nuovo atto amministrativo da parte

dell’amministrazione.

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X. Violazione degli artt. 10 e 14 del Codice di Procedura Civile;

Violazione dell’art. 2233 del Codice Civile; Violazione de i principi

generali di proporzionalità ed adeguatezza degli onorari di avvocato

nell'opera professionale; Eccesso di potere per irragionevolezza

manifesta e illogicità.

Ai sensi dell’art 5 del Decreto impugnato, “ai fini della liquidazione

del compenso, il valore della controversia è determinato a norma del

codice di procedura civile avendo riguardo […] nei giudizi per pagamento

di somme di denaro, anche a titolo di danno, alla somma attribuita alla

parte vincitrice e non alla somma domandata”.

Quindi, nei giudizi per il pagamento di somme, il valore della causa

che i giudici devono porre a fondamento delle proprie liquidazioni non si

determina in base al valore del petitum, bensì prendendo a riferimento

esclusivamente la somma finale concretamente attribuita alla parte

vincitrice.

Tale previsione è evidentemente illegittima, per violazione degli

artt. 10 e ss. del Codice di Procedura Civile e dell’art. 2233 del Codice

Civile, nonché per eccesso di potere nelle figure sintomatiche

dell’irragionevolezza manifesta e dell’illogicità.

Innanzitutto, la predetta previsione viola le norme del Codice di

Procedura Civile (dalla stessa richiamate) in materia di determinazione del

valore della controversia.

L’art. 10 del C.P.C. stabilisce infatti – con ciò codificando un

principio giusprocessualistico di tradizione secolare - che “il valore della

causa, ai fini della competenza, si determina dalla domanda a norma delle

disposizioni seguenti”. Il successivo art. 14 stabilisce che “nelle cause

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relative a somme di danaro o a beni mobili, il valore si determina in base

alla somma indicata o al valore dichiarato dall'attore”.

In base alla normativa codicistica, dunque, ai fini del rimborso delle

spese di lite a carico della parte soccombente, il valore della controversia

deve essere fissato sulla base del criterio del "disputatum" (ossia di quanto

richiesto nell'atto introduttivo del giudizio ovvero nell'atto di impugnazione

parziale della sentenza).

È evidente dunque che il criterio del decisum (fondato sulla somma

al pagamento della quale è stata condannata la parte soccombente), previsto

dal decreto impugnato, è contra ius.

La predetta disposizione, invero, viola anche l’art. 2233 del Codice

Civile, in base al quale la misura del compenso della prestazione d’opera

intellettuale del difensore “deve essere adeguata all'importanza dell'opera e

al decoro della professione”.

L’applicazione del c.d. criterio del decisum non consente, infatti, di

prendere in considerazione l’effettiva importanza dell’opera del

professionista e l’utilità effettivamente percepita dall’assistito con la

decisione conclusiva della controversia, in evidente violazione del principio

generale di proporzionalità ed adeguatezza degli onorari di avvocato

nell'opera professionale.

Del resto, è del tutto illogico ed irragionevole determinare il valore

della controversia esclusivamente sulla base della somma effettivamente

attribuita alla parte vincitrice, poiché l’accoglimento parziale della

domanda potrebbe, da un lato, dipendere anche da eventi indipendenti

dall’assistenza del difensore della parte vincitrice ( la compensazione di

crediti che il soccombente vanta nei confronti della parte vincitrice), mentre

da un altro lato, potrebbe scaturire da condotte successive all’instaurazione

della lite sostanzialmente satisfattive dell’interesse dell’assistito, le cui

ragioni siano state, quindi, riconosciute ed ammesse dal convenuto proprio

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a seguito del radicarsi del processo (ad esempio, un adempimento

spontaneo intervenuto, nel corso del processo, ad opera della parte

debitrice, convenuta in giudizio).

In tali casi la determinazione del valore della controversia sulla base

della somma attribuita alla parte vincitrice effettivamente prestata non

avrebbe alcuna giustificazione né risulterebbe adeguata all’importanza

dell’opera effettivamente prestata dal professionista.

In conclusione, l’importanza dell’attività difensiva prestata dal

professionista deve essere valutata con riferimento al valore complessivo

della controversia e, conseguentemente, la disposizione de qua, che

determina il valore della controversia applicando il criterio del decisum, è

senz’altro illegittima.

***

P.Q.M.

SI CONCLUDE

per l’accoglimento del ricorso, previa - se del caso - rimessione

delle questioni di legittimità costituzione dell’art. 9 del D.L. n. 1/2012 alla

Corte Costituzionale per contrarietà con l’art. 77, comma 2, 3, 24, 35, 97,

117, comma 1, e 118, della Costituzione, con ogni conseguenza di legge

anche in ordine al pagamento delle spese e competenze del giudizio, ivi

compreso contributo unificato.

I sottoscritti avvocati dichiarano che l’assolvimento del contributo

unificato è dovuto nella misura di Euro 600,00, trattandosi di ricorso

giurisdizionale di valore indeterminabile.

Roma, 6 novembre 2012

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