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MASSIMO SCALIGERO

ZEN E LOGOS

Massimo ScaligeroZEN E LOGOS

Per gentile concessione dell'IsMEO

«Tilopa Editrice» - Via della Pinacoteca, 14 - 64100 TeramoRappresentanza e distribuzione in Roma: Libreria Tilopa

Via Fonteiana, 61/A - 00152 Roma - Tel. 5800061

PREFAZIONE

Zen e Logos di Massimo Scaligero, raccoglie una serie discritti sullo Zen apparsi su “Il Giappone” dal 1961 al 1968,la cui connessione organica e sistematicità hanno suggeritoall'Autore la presente edizione in un unico volume. L'operacomprende inoltre il saggio - Affinità di tradizioni antiche -L'Uovo del mondo e l'uccello Hamsa -, il primo nell'ordine,pubblicato in Asiatica, 1, 1940, che solo apparentementesembra estraneo al tema centrale: la sottile ma essenzialerelazione sarà intuibile ove venga considerata l'importanzadel sostrato “solare” nella formazione di quella disciplinadel pensiero, che attraverso lo Yoga originario e poi le piùpure ascesi buddhiste e zen, non altro senso aveva chepreparare la nascita del concetto in Occidente esimultaneamente la presenzialità luminosa dell'Io in questo.

La distinzione dell'elemento aureo dello Zen da quellooggetto delle moderne esegèsi nelle varie forme mediante cuil'Occidente ha creduto incontrarlo e assimilarlo:

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dall'Esistenzialismo alla Psicanalisi, al “neo-spiritualismo”della Contestazione e non ultimo a certo Tradizionalismoimmemore, è l'argomento centrale dell'opera, accanto aquello di indicare come la via originariamente tracciatadallo Zen, ravvisabile in quel suo vanificare ogni dialettismoo riflessità del pensiero sino all'irrompere del satori, odell'antecedente puro, secondo una facies realizzativa ancoralegittimamente escludente l'Io, necessiti oggi l'essere esauritae redenta, secondo i canoni della Via del pensiero delMaestro dei Nuovi Tempi, dall'uomo capace di vivere l'Io,nella resurrezione del pensiero ormai legatosi al sensibile.

Lo scadimento delle discipline estremo-orientali, conl'accentuazione di caratteri già in sé ambigui, in vieestatiche, psico-somatiche, sensualistiche ad opera deimoderni espositori, occidentali e orientali, ha insidiato lapossibilità di riconoscere l'azione della Gerarchia operantedall'uomo al Divino, tra Spirito anima e corpo, tra uomo euomo: la priorità assoluta dell'Io sui moti incompostidell'anima, l'antecedenza assoluta del pensiero sulle suedeterminazioni, il senso sacrale e salvifico della fedeltàdell'Inferiore al Superiore secondo Intelligenza d'Amore.

Dalle viventi logofanie di una grandiosa primordialitàiperborea e mediterranea, argomento appunto del primocapitolo, allorché l'accostarsi al Verbo (vak) presupponeva larigorosa conformità rituale mediante una liturgia delpensiero magico, all'Incarnazione del Verbo stesso, portatoredi un nuovo ma decisivo e irripetibile orientamento interiore,cui occultamente, in Oriente, risponde il mutamento dipolarità delle vie meditative nei vari darsana, è tracciato ilsentiero della perennità che va ritrovato oltre le forme delsuo secolare apparire, oltre il pensiero caduto e letèo epperòcelante in sé intatto il segreto della propria conversione.

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Prefazione

Lo Zen e il suo satori, ove vengano spagiricamenteidentificati lungo quel sentiero, possono essere avvertiti comeun prologo alla disciplina del pensiero dell'uomo attuale: ilsatori divenendo simbolo e promessa della Luce-Folgore delLogos.

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IAFFINITA' DI TRADIZIONI ANTICHE

L'UOVO DEL MONDO E L'UCCELLO HAMSA

Nella simbologia vedica, un aspetto delle infinitepossibilità di realizzazione di Brahma è costituito dalle“Acque primordiali “, le quali vengono assunte nella lorovasta significazione cosmogonica, in quanto voglionorappresentare l'energia potenziale dell'Essere Universaleagente nella natura, ossia in quella che nei testi Samkyaapparirà come secondo termine del dualismo creativo:Prakrti. Considerando lo stesso simbolo in un senso ancorasuperiore e trascendente, troviamo che esso comprende altempo stesso il mondo finito e quello infinito, ciò che haforma e ciò che può assumere qualsiasi forma, esprimendol'aspetto dell'energia Universale nella sua totalità potenzialee attuale.

A prescindere dalle analogie che possono riscontrarsi traquesto simbolismo e quello delle “acque” della Tradizioneermetica, un altro simbolo che si riconnette al primo èquello dell'Uovo del mondo contenuto nelle Acqueprimordiali. È questo un elemento che ha richiamato lanostra attenzione su concordanze e punti di contatto traantichi simboli e miti i quali autorizzano a concepireun'arcaica parentela fra la tradizione egizia e quella vedica,in riferimento ad una unità di origine delle due culture e deidue gruppi etnici corrispondenti, che, per la preesistenzamillenaria della prima alla seconda, porterebbe aconsiderare l'antica civiltà aria come un retaggio o unaemanazione, sia pure indiretta, di quella egizia delle prime

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Dinastie.Una tale ipotesi che ci è stata primamente suggerita dal

mito di Osiride il quale, raggiunto il massimo splendore delsuo regno, parte per l'Oriente per recare la luce dellaspiritualità e della civiltà a quelle popolazioni, sembravoglia esserci confermata da una concordanza di dati e dauna serie di analogie che, se anche non ci conducono ad unaassoluta certezza, pure ci danno il diritto di consideraresotto un aspetto diverso l'arcaica civiltà egizio-mediterraneala quale riassume in sostanza, come abbiamo rilevato in unanostra pubblicazione, i caratteri maggiori della cultura edella razza bianca dei primordi, occidentale, atlantica,epperò presenta con gli Arii d'Oriente una parentela assaipiù significativa che non quella con i Nord-europei, che dacirca un secolo viene affermata dai glottologi dellaetnologia. Ciò per noi ha un valore fondamentalesoprattutto a conferma dello splendore della “preantica”civiltà egizio-mediterranea, della parentela con gli Ariiprecedente alla venuta degli Indo-iranici nel bacino egeo, esoprattutto in riferimento alle origini di Roma.

Il Brahmanda, l'Uovo del mondo, è un simbolo che siritrova con analoghi significati in Occidente e in Oriente:nel Mazdeismo, come nella tradizione dei Druidi e in quelladegli Orfici; esso è altresì la pietra sepolcrale del Sole,l'omphalos del mito solare di Diòniso; ma originariamenteci si presenta come l'Uovo di Kneph della Tradizioneegizia. Questo Uovo del mondo che Kneph fa uscire dallabocca, simboleggia la manifestazione del Verbo, la parolapronunciata dal Demiurgo in procinto di creare l'Universo:come sfera delle forze primigenie, esso ci rimanda, senzaartificio di raffronti, alle “Acque primordiali” vediche, nellequali è l'Uovo del mondo. Peraltro, ponendo mente all'unità

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originaria atlantico-egizio-aria, si ripensa volentieri allearcaiche sculture dell'America settentrionale rappresentantil'eternità creatrice sotto forma d'un serpente che ha nellabocca un enorme sferoide. Né è oltremodo ardito ravvisareun'analogia di questo serpente con quello che simboleggerànell'induismo la potenza primordiale di Kundalini, la Saktianimante segretamente la forza della generazione.

Qui s'innestano altri simboli con significati intimamentecorrelativi. All'Uovo cosmico dell'Orfismo, esprimente ilsenso mistico della rinascita iniziatica, è prossimo ilsimbolo del pomo e dell'albero. Dall'albero della vitauniversa nasce il frutto che conferisce l'immortalità: motivoche in forma pressoché identica si ritrova nella leggendadelle Esperidi e nella Saga di Mag Mell. Ma al simbolodell'albero è connesso quello di un alato (aquila, cigno,colomba); e l'albero simbolico dell'Iran, che contiene tuttele semenze e tutte le possibilità di creazione, è anchechiamato l'“albero dell'aquila”. Così più tardi, nel Vangelodi Matteo (XIII, 31-32) il regno dei cieli sarà simboleggiatoda un albero nascente da un seme gettato dall'uomo nel suo“campo”: sui rami di esso si poseranno gli uccelli del cielo.

Ma un uccello, il Cigno, strumento di Brahma, è quelloche cova l'Uovo del mondo. Così l'aquila, dalla qualeprende nome un grado della iniziazione mitriaca, secondo latradizione iranica significa la “parola”, ossia il verbo che simanifesta, Vak, corrispondente alla figurazione vedicadell'uccello Hamsa (il Cigno); e le colombe del mitoomerico sono quelle che recano a Zeus la bevandadell'immortalità, mentre gli uccelli dell'isola di Leuca sonogli spiriti degli eroi greci. L'identità del motivo è benevidente. Questa creatura alata che proprio per la suafacoltà di volare, di portarsi al di sopra della terra nei piani

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celesti, di muoversi in piena libertà in ogni senso, puòesprimere sotto forma di simbolo una serie di significaticosmici, universali e spirituali, si ritrova primamente e concompiutezza di motivi nel geroglifico egizio. È il falco che,come emblema della regalità, precede il re in tutte lerappresentazioni rituali: come genio protettore del re, esso èil falco volante o in riposo, come nella statua di Chefren,nella quale esso avvolge la nuca del re con le ali spiegate.Ma il falco è anche il dio della famiglia reale: nella “cittàdei falchi”, Jeraconpoli, i re della Prima Dinastia elevanoun tempio al Falco: questo, poi, come nume, diviene Hor epiù tardi Horo del mito classico. Inoltre, poiché alla remotaspiritualità egizia risale la rappresentazione dell'animaquale soffio che parte dal corpo dell'uomo con l'estremorespiro, essa che - si badi - in tale concezione corrispondealla ψυχῆ ellenica, mobile ed eterna, viene per tali caratterirappresentata nelle pitture come un uccello dalla testaumana, svolazzante sul corpo inanimato. Ma lo stessotermine Hamsa significa, in sanscrito, sia cigno che anima.

A questo punto dunque si può trovare un notevole puntodi contatto con le dottrine indù: trattandosi infattidell'anima, della ψυχῆ, ossia di qualcosa che, riferendosisemplicemente allo stato sottile dell'essere, e che perciònella gran parte dei casi non partecipa della naturaimmortale dello spirito, νούç , corrispondente allo stato diBuddhi, ossia all'intelletto sopramentale (atman-puruşa),cade acconcio il ricordare che alla stessa maniera che,secondo la Tradizione ermetica occidentale, il compitomaggiore del mistico consiste nel realizzare il dominio delνούç sulla ψυχῆ e sul corpo, ossia nel realizzare il dominiodel Divino nell'umano, così anche per la tradizione vedica,e in particolar modo per quella vedantica, il puruşa deve

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rendersi dominatore e unificatore della prakrti (mondovitale, natura). Ora, un simbolo che ricorre perrappresentare tale conquista da parte dello spirito è datodall'immagine del cavalcare l'uccello Hamsa, o il cigno. Peruna più precisa comprensione di tale concetto, incorrispondenza con la rappresentazione egizia dell'animacome essere alato, e che per l'obiettivo iniziatico occorredominare e cavalcare (concezione orientale) - il chesignifica ubbidienza dell'anima a una virtù più alta, lospirito - giova attingere a quella dottrina yoghica che nelsuo aspetto pragmatico dà la precisa riprova di questecorrispondenze.

La potenza di Kundalini dormente nel muladhara-cakra,ossia nel plesso nervoso che è alla base della spina dorsale,una volta risvegliata per virtù iniziatica, è una corrente chesale lungo la colonna vertebrale per una sottile via che è lasusumnā, sino a raggiungere il sahasradala-cakra alsommo della testa, sede dello spirito divino (àtman). Graziea questa rigenerazione interiore che fa dell'uomo un essere“due volte nato”, dvija, l'anima si libera di tutti i vincoli chepossono ancora sussistere con la condizione corporea edincontra un raggio solare ossia una emanazione del solespirituale che è Brahma stesso, considerato nel suo valoreuniversale. Si ritorna, come si vede, alla concezionedell'Uovo del mondo contenuto in quelle Acque primordialiraggiunte ormai dal sādhaka che trova in esse la propriaorigine universa.

Uno dei mezzi più potenti per raggiungere tale fase dellainiziazione, consiste nel dominio della doppia corrente idā-pingalā, rispetto a cui la susumnā rappresenta l'unità,mediante quella fase della respirazione interiorizzata che èil Kevala-Kumbhaka (la ritensione assoluta) in cui è

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sospesa la dualità dell'inspiro-espiro e si realizza il dominiodi qualcosa che normalmente fluttua e sfugge al dominiodell'io. A prescindere dall'attuabilità di tale esperienza, a noiinteressa fissare il significato del simbolo corrispondente alsenso del dominio di quella forma sottile dell'essere che peressere mobilissima, fluttuante, volatile, viene rappresentatadalla tradizione egizia come un uccello.

Infatti, cavalcare Hamsa corrisponde esattamente a queldominio della duplice corrente neuro-magnetica, idā-pingalā, che si realizza dominando le due fasi dellarespirazione di cui l'inspiro è detto Ham e l'espiro Sa.L'operazione tecnicamente deve aver corrispondenzaritmica con le lettere della sillaba sacra OM che, mentremisura il tempo della respirazione, simultaneamente risuonanel chakra cardiaco dando modo al sādhaka diricongiungersi col trascendente Verbo originario. IlNadavindûpanishad (Rgveda) chiarisce il rapporto traquesto mantra e il simbolo del Cigno: “La lettera A èconsiderata come l'ala destra dell'uccello Hamsa, la U comela sinistra, la M come la coda, e l'Ardhamâtrâ (mezzometro) come la sua testa”. Nello stesso Nadavindu è altresìdetto: “Uno Yogin che cavalchi lo Hamsa (così meditandosull'AUM) non è toccato dalle influenze del Karma, né damilioni di peccati. “

Al simbolo di Hamsa si riconnette altresì la Tradizionesolare la cui patria originaria è l'Egitto pre-dinastico e delleprime Dinastie, erede del retaggio misterico, metafisico edetnico-spirituale della stirpe nordico-atlantica. Oltre aglielementi “solari” che si rintracciano nel motivo del dominiodella dualità sottile dell'uomo attuato per virtù del suoprincipio spirituale è (àtman-puruşa), da rilevare il sensodella tradizione secondo cui originariamente esisteva

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un'unica casta, chiamata Hamsa. È evidente che ci siriferisce all'esistenza di una stirpe unica che dovevapossedere normalmente e spontaneamente gli attributispirituali designati dal nome di Hamsa: si trattava dunque diuomini che realizzavano tutti indistintamente il dominiodell'inspiro-espiro, ossia di ogni dualità: doveva essere unastirpe cui era familiare la visione unitaria del cosmo(vidyiā), superatrice dell'antitesi spirito-materia, realizzantela sintesi dei due poteri sacerdotale e regale, e perciò laeffettiva penetrazione del Divino nell'umano.

Tali caratteristiche non possono non far ripensare aquegli “uomini-divini” di cui ci parla la Tradizione egiziaalludendo alla “prima età”, all'“Età dell'essere”, ossia aquella alla quale si deve far risalire il ricordo del remoto eoriginario splendore atlantico. Gli Atlantidi erano infattiun'unica razza, incarnando un unico tipo superiore diumanità: le ripartizioni in quattro gran di sotto-razze dellastoria egizia e in quattro caste della storia indiana,rappresentano dunque la differenziazione stabilitasi dopoche questa unica razza originaria, toccando nuove terre,incontrò tipi etnici diversi con cui dovè convivere e acontatto con i quali stabilì pertanto la sua legge che simanifestò come ordine gerarchico, sacrale ed imperiale.

La connessione del simbolo di Hamsa con elementi dellaTradizione solare è evidente anche nei testi vedici. Così silegge nel Rgveda: “Otto furono i figli di Aditi che sono natidal suo corpo; con sette essa andò dagli Dei: cacciò vial'uccello (il Sole). Con sette figli Aditi entrò nella prima età(degli Dei). Essa portò di nuovo l'uccello ora per laprocreazione, ora per la morte.”

Qui mentre si ritrova il riferimento al nascere e al moriredei viventi, alla cui vita presiede il Sole, è da notare il senso

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del numero sette corrispondente a quello dei plessi nervosi,o centri di vita (chakra) attraverso cui, risvegliata la forza diKundalinì grazie al Kevala-Kumbhaka, passa la corrente,susumnā, generata dal dominio di idā-pingalā (che èsimboleggiato dall'immagine del cavalcare il Cigno).

Il dominio di Hamsa significa dunque in senso ancorapiù vasto la conquista di una dignità cosmica: è la conquistadel Sole compiuta dall'eroe indo-iranico Mitra, in cui è daravvisare il dio solare egizio Oro. Il rapporto tra i setteprincipali centri di vita, corrispondenti a sette plessi nervosi- come risulta con una impressionante identità di motivianche nella Tradizione ermetico-alchemica occidentale -risulta altresì dalla distinzione che alcuni mistici orientalifanno di sette piani dell'essere, che sono i sette Lokaspirituali, o mondi entro il corpo di Kala Hamsa, “il cignofuori del tempo e dello spazio”, che si muta nel “cigno neltempo” allorché assume la forma di Brahma in luogo diquella di Brahman.

Qui il simbolismo acquisisce dignità che non può noncolpire, comportando analogie, corrispondenze e affinità ditradizioni sino ad oggi ritenute estranee l'una all'altra. Lailluminazione dei sette centri di vita nello yogin, infatti,conduce alla acquisizione del terzo occhio, o “occhiofrontale”, che riassume tutte le possibilità di visione dei dueocchi comuni (i quali esprimono un altro aspetto fisiologicodella dualità che va risolta). Questo superamento ha peraltroun valore di conquista dell'eternità, in quanto l'occhiodestro, corrispondendo al Sole, guarda al futuro, l'occhiosinistro, corrispondendo alla Luna è volto al passato:l'occhio frontale corrisponde al presente, che, nel mondodella manifestazione corporea, esiste per un istanteinafferrabile, paragonabile, nell'ordine spaziale, al punto

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geometrico senza dimensioni; perciò uno sguardo di questoterzo occhio è capace di superare e annullare ogni aspetto omanifestazione: il che è simbolicamente espresso allorché èdetto che “riduce tutto in cenere”. Questa è anche la ragioneper cui simile occhio in sostanza non può venirerappresentato da alcun organo fisico. Si noti, pertanto, comeanche la possibilità di elevarsi cavalcando l'uccello Hamsaè data dal duplice ma simultaneo moto delle alicorrispondenti per analogia al ritmo alterno del respiroHam-sa, allo stato di unificazione. Questo simbolismo siripeterà in quello del Giano Bifronte, a due facce, l'unarivolta verso il passato, l'altra verso il futuro, ma il cui verovolto, quello che guarda il presente, non è né l'uno né l'altrodi quelli visibili.

Ora non è difficile scorgere nel simbolo di questodominio unitario di due forze, di due possibilità, di duemodi di sperimentare la vita, quell'intimo e assoluto poteredella stirpe “solare” che costruì i grandi imperi affacciantisia noi di tra le brume della preistoria. Egitto, India, Cina,Iran. L'assoluto potere era dato dall'unità dei due principi,spirituale e temporale, mistico ed eroico, sacrale eguerriero, superumano, nella persona di un Capo di unMonarca, di un Imperatore. Si trattava della dualità risoltanell'Uno: tema della perfezione che si realizza sianell'uomo, che nell'azione, nella politica, nell'Impero.Questa concezione unitaria riconduce all'essenza stessadella Tradizione solare quale base dell'organizzazionesociale, così come primamente si realizza nell'Egitto: il Soleè infatti, nel mondo della manifestazione, il simbolomaggiore della potenza univoca del Divino che, nella suavastità originaria e immanifesta, è Brahma contenentel'Uovo del Mondo, identico in tutte le Tradizioni

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metafisiche della preistoria e della protostoria.

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IIZEN E INTERPRETAZIONI OCCIDENTALI

Si può dire che lo Zen sia entrato, mediante libri edespositori, nella cultura contemporanea? Perché proprioquesto dal punto di vista dello Zen è inammissibile: cheesso divenga un fatto di cultura, che divenga dialettica.

Quella qualità interiore che ancora vive in taluni uominidell'Estremo Oriente, in qualche asceta-pensatoregiapponese, e può sorgere per volitivo denudamento delladeterminazione pensante in taluni rari occidentali, non puòdivenire dialettica senza rinunciare alla propria natura. Laforza dello Zen fu l'inespressione, non per rinuncia aesprimersi in forme sensibilmente percepibili, ma per poteresprimersi con immediatezza senza rinunciare al proprioelemento di vita, ossia a un indicibile per via del qualel'umano è perennemente immerso nel superumano, comenel suo fondamento: anche quando non ne haconsapevolezza. Si può chiamare forza d'inespressioneproprio in quanto l'espressione ormai si identifica con ladialettica.

Da Platone a Gentile, il significato di dialettica è statonobile, perché rispondente a un vero attuato come talenell'anima: significando movimento del pensiero, divenirein cui l'essere è tolto alla sua morta alterità, o fissità, comeessere che simultaneamente è e si pensa.

È molto probabile che anche Marx vedesse nelladialettica un moto vivo, anche se cadde in una svistapiuttosto singolare, vedendo talmente identica la dialetticaalla materia, da non distinguere il pensato dal pensante e

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perciò non avvertendo l'autonomia del moto interiore chegli consentiva immergersi nel divenire della materia,storico, economico, sociale ecc. Ma quello che accaddedopo fu ancora più tragico per la cultura umana:l'esperienza interiore di quei pensatori iniziatori, per i qualila dialettica era semplicemente forma di un pensiero vivo,gradualmente si affievolì e si spense, e della dialetticarimase solo la morta spoglia, la trama logico-speculativa, dicui si compiacciono oggi tutti coloro che non hanno nullada dire, ma debbono dire qualcosa perché, per mestiere oper vanità, debbono compiere analisi e sintesi di analisi,debbono architettare concetti: per i quali hanno unaconnessione che loro sfugge. Se questa forza connessivatentassero afferrare, dovrebbero trasformare se stessi:dovrebbero cominciare col cessare di chiacchierarefilosoficamente, o esteticamente, dovrebbero lasciar caderetutta quella raffinata espressività che sa trattare di tutto, conesperto linguaggio - talora talmente eccentrico e preciso dasembrare umoristico - ma in sostanza non afferra nulla. Chenon afferri nulla, si vede dalle conseguenze.

Lo Zen, dunque, è penetrato in questa cultura? Occorredire che, se vi è penetrato, ciò è avvenuto solo a condizionedi far parte della struttura analitico-sistematica di talecultura e di adeguarsi ad essa. Ultimamente si è vistopersino un tentativo di collegare lo Zen con la psicanalisi(cfr. D. T. Suzuki, Erich Fromm and Richard De Martino,Zen Buddhism and Psychoanalysis, New York, 1963), comedel resto aveva già tentato in forma più raffinata HubertBenoit ricongiungendo il “lasciare la presa” con lapsicologia di Jung. Lo sforzo di far entrare lo Zen nelsapere occidentale ha avuto varie forme, propiziate taloradagli stessi portatori autorizzati dello Zen, da D. T. Suzuki a

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Lu K'uan Yü. Se vi è dunque penetrato, proprio per questo èdifficile riconoscerlo, in quanto immesso in una veste chene implica la eliminazione sostanziale, ossia la riduzione auna intelligibilità che non ammette variazioni della naturamentale di cui è espressione, bensì solo modificazionediscorsiva. Si tratta di adattare lo Zen a sé stessi.Conoscerlo è altra cosa. La struttura dello Zen è tale che ilcominciare a conoscerlo significa movimento della proprianatura interiore secondo forze con cui ha smarrito ilcontatto: movimento che non può non essere opposizionealla personale natura esprimentesi nell'ordinario pensiero,nel pensiero dialettico: quello che presume ridurre a sé loZen. Quindi, o l'uno o l'altro.

L'accordo con la purità delle cose vere, con i ritmi delcielo e della terra, da cui scaturisce quello stile wabi o sabiin cui lo Zen si esprime come attitudine riguardo al mondoesteriore, in sostanza è la spontaneità in cui la vera naturadell'uomo comincia a manifestarsi. È la naturalezzaritrovata, in quanto si sia capaci di indipendenza rispettoalla natura che normalmente si è: quella la cui forzasostentatrice è la dialettica. Mentre lo Zen è indialettico.

La contraddizione è dunque questa: che occorrerebbeconoscere l'ascesi Zen per non rischiare di ridurlo senza vitaal livello del proprio astratto pensiero, ma per liberare ilpensiero dall'astrattezza occorrerebbe già conoscere unadelle chiavi dello Zen. Un testo Zen dice: “La verità non èdifficile e non lascia alcuna scelta tra due ordini di cose”(Shinji-mey del III Patriarca Szosan).

Tutto quanto in Occidente esprime una sorta di attitudinenichilista, dallo astrattismo all'esistenzialismo, alla rivoltadella logica simbolica contro la filosofia, al sistematicoanti-intellettualismo della tecnologia, sino a talune

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manifestazioni di violenza anticonformista e anti-conservatrice della cosiddetta “generazione bruciata”, sipuò ravvisare come un oscuro tentativo di liberazione dallaretorica che ormai s'imprime come deformazione nellanatura umana. Talune forme attuali di autodistruzione sonoespressioni poco consapevoli di una vocazione anti-dialettica, mediante cui si vorrebbe recisamente affermarese stessi contro la propria natura, mentre in realtà è propriola natura che ancora una volta si afferma: ma non la naturacome libera e pura forza, bensì come l'istintività dominantel'anima grazie al suo dipendere dalla cerebralità.

In realtà dalle strettoie del pensiero riflesso è difficileuscire: non vi è attitudine anarcoide, o rivoluzionaria, onichilista, che abbia il potere di spezzare il ferreo cerchiodell'astrattezza. Proprio a una simile problematica potrebberispondere lo Zen, ove in essa incontrasse sufficientecoscienza della condizione che tende verso l'esaurimentodella dialettica mediante un altro tipo di dialettica. Ossia,gioverebbe riconoscere che non v'è abbastanza forza pernegare sino in fondo ciò che suscita nichilismo o rivolta: inrealtà è semplicemente mobilitata un'attitudine mentalepriva di vitalità interna, non la forza. La forza in vero nonha bisogno di atteggiamenti. Questo è il punto in cui lo Zenpotrebbe essere orientatore.

Difficilmente l'ordinario pensiero razionalista puòpenetrare il senso delle dottrine Zen, proprio perchéinevitabilmente esposte in immagini e idee, o in inter-pretazioni, che, quando siano autentiche, riguardano unmovimento irripetibile del pensiero: salvo che già ilconoscitore non abbia in sé tale movimento come unapossibilità pronta ad attuarsi appena le sia fornito l'adeguatostimolo. Che tale movimento sia irripetibile è proprio il

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carattere dell'insegnamento Zen: di quello tradizionale everace, non di quello già adattato alle esigenze dellaesposizione dottrinaria e sistematica. Irripetibile in quantoperennemente nuovo nella sua identità con sé.

Con l'arte del meditare non viene trasmesso qualcosa daun testo o da un maestro, ma viene acceso quel che già c'ènel discepolo o nel conoscitore. L'irriperibilità el'indicibilità vanno tutelate, in quanto accompagnano ciòche viene detto: altrimenti ciò che viene detto non è vero.Una verità metafisica deve essere portata come una forza divita, se si realizza. Dello Zen può parlare soltanto chi lo ha.

D'altra parte, un equivoco che domina la culturaoccidentale è la distinzione dei due momenti della teoria edella pratica. Si ritiene ordinariamente, per esempio, che sipossa formulare un programma teorico per poi realizzarlo,come se dall'astratta formulazione potesse scaturireun'azione che non sia quella di colui che già la reca in sé inquanto pensiero dotato di vita: la quale mancando, nessunprogramma mai viene realizzato, venendo realizzatosoltanto ciò che in sé effettivamente porta l'esecutore comepersonale natura. In realtà non v'è passaggio dalla teoriaastratta all'azione, perché dal pensiero astratto non si esce:salvo, naturalmente il caso in cui la teoria sia la controparteastratta di una pratica che già si possiede, appunto perché siha in essa pensiero in movimento: che non è il gesto, o l'attoesteriore, ma ciò che si muove in essi: come la sapienzanegli arti del contadino che vanga o nelle mani delgiardiniere che cura i fiori o del meccanico che mette apunto un motore: che è lo stesso impulso del pittore checrea o del pensatore che pensa. Impulso creativo, perchéinconsapevole del proprio sorgere.

Come affiora l'indicibile, l'irripetibile, l'impossibile a

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recludere in una forma, dello Zen? Allo stesso modo:nell'arte del giardino, della disposizione dei fiori, dellascherma, nella cerimonia del té, nella pittura, nel virard'arco, nel judo: nella meditazione. Abbiamo detto “allostesso modo”, ma sia ben chiaro che non stabiliamoequazione alcuna: perché è bensì lo stesso modo, ma v'èuna distinzione profonda tra le due possibilità, di unaprofondità forse incolmabile. Perché, creando - e ammessoche crei - l'occidentale non sa quel che fa, ossia mette inatto forze interiori che non conosce e che, quando presumeconoscere, in realtà piattifica o superficializza in sublimianalisi estetiche o psicologiche, che effettivamente delmovimento di quelle forze non afferrano nulla, ma solo ilsensibile e razionale estrinsecarsi: da cui non è possibilerisalire alla interna connessione. Mentre l'asceta o ildiscepolo Zen medita: la sua azione, artigiana o artistica,atletica o sociale, non è che forma della meditazione. Ilcontenuto è forma.

Meditando, il discepolo Zen sa quel che fa: per cui,conoscendo la natura della forza messa in moto, opera nellavita senza contraddirla: opera in modo da non avversare oalterare la forza a cui deve la luce interiore, anzi fa in modoche l'azione interiore si continui come spontaneità nelleoperazioni della vita. Non esige moralità dal mondo o dagliuomini, ben sapendo che ciascuno obbedisce, lo sappia onon lo sappia, alla legge che lo domina o alla legge con cuicoscientemente è concorde. Egli è fuori delle regole, fuoridelle leggi, ma non rifiuta nulla alla necessità esteriore chequeste umanamente comportano. Egli medita: quandoquesto suo impersonale agire, che è un non-agire dell'ego, siestrinseca nel mondo, la conseguenza di esso è la moralità.Non è un fine che egli si proponga, uno scopo del suo agire,

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ma un effetto obiettivo, di cui egli non si preoccupa, bensapendo che è più importante la forza che il suo prodotto.

L'azione morale non è quella che obbedisce a unamoralità, ma è quella che ha dietro di sé forze sovra-sensibili, non cristallizzabili in regole, o in sistemi. È laforma umana di tali forze. Le regole e i sistemi valgono percoloro che non potendo attingere direttamente alla forza,debbono ricorrere a mediazioni esteriori per regolare sestessi. È importante che i mediatori della moralità dellamassa siano portatori della moralità, non moralisti: perchéla morale non nasce dalla conoscenza delle leggi morali, madalla virtù sovrasensibile la cui estrinsecazione è poiidentificabile dall'indagatore in serie di leggi: che possonoorientare l'individuo ancora incapace di chiederedirettamente al proprio essere interiore l'orientamento.Nessuna legge morale crea la morale. Così nessuna teoriacrea la pratica.

L'occidentale che possa intuire qualcosa dello Zen nondeve commettere l'errore di credere che con ciò già siaentrato in tale ascesi e che ormai si tratti soltanto dicoltivare determinati atteggiamenti e praticare specialiesercizi di pensiero. Una delle tentazioni dell'invalso stile diun “metodo rapido” per diventare yogi, o discepoli Zen, o“uomini come potenza”, si esprime nella confusione trarappresentazione e realizzazione. Specialmente tra i nostrigiovani si sono visti alcuni che, ordinariamente depressi opoco centrati, andavano in cerca di qualche tonico interioreinvano richiesto alla propria volontà, e infine una sera peravventura avevano tra le mani lo Yoga della potenza di J.Evola: la mattina si risvegliavano “uomini come potenza”,o “individui assoluti” e da quel momento cominciavano aconsiderare gli altri con sovrano disprezzo, gli altri, ancora

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afflitti dalle umane debolezze, che invece essi di colpoavevano superato per il fatto che si erano cibati dirappresentazioni del tipo di iniziato tantrico, quale Evola hadescritto con fascinoso stile, non immaginando quantideboli, ex-abrupto galvanizzati dalla shakti e daiserpeggiamenti kundalinici, gratuitamente si sarebberoannoverati tra i superatori dell'umano. Naturalmentescherziamo, perché l'uomo sano è responsabile di sé,comunque: sa come comportarsi con un cibo forte: prendequel tanto che lo fortifica e prende soltanto ciò che puòassimilare o dominare.

Discorso, questo, mediante il quale intendiamo insisteresul fatto che non si esce dal pensiero astratto, se non si siacapaci di operare già nel pensiero in modo da afferrarnel'astrattezza e da afferrare la ragione di questa, così dasperimentare il pensiero là dove ancora non è cadutonell'astrattezza. Ma questa possibilità non può essere offertadalle dottrine Zen che sono sorte e si sono formate per untipo umano non ancora caduto nell'astrattezza razionalistica.Talune forme di dialettica o d'intellettualismo che i maestriZen rimproveravano ai loro discepoli e contro cui limettevano severamente in guardia, non erano ilrazionalismo di tipo occidentale, non erano quella modernaastrattezza che non afferra niente del mondo interiore, maafferra benissimo il piano chimico-fisico, anzi lo penetra elo misura esattamente e lo traduce in possenti costruzionimeccaniche. Nello Zen non c'è nulla che riguardi questopensiero: o meglio ci sarebbe tutto per intenderne il segretoe il senso ultimo, ma il fatto è che solo un pensiero giàredento di astrattezza potrebbe entrare nello Zen.

In verità l'intellettualismo che veniva combattuto daiseveri custodi dello Zen non aveva nulla a vedere con

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l'intellettualismo del razionalista moderno: erasemplicemente il normale insorgere del mentale legato allanatura inferiore contro il mentale più alto, aperto allapropria fonte interiore, con la quale tendeva a identificarsisino ad una estinzione di sé, che lasciasse operante nella suanuda purità il principio individuale. Era la via possibile a unmentale capace di rapporto col mondo dei sensi, equilibratoe attivo, perché dominato dal principio sopramentale: viainadattabile al mentale che si è compiutamente immerso nelmondo dei sensi, così da escludere qualsiasi azione sopra-mentale che non implichi rimozione del rapporto funzionalestesso. In realtà non ha altra soluzione che venir rimosso,un rapporto che sia divenuto natura.

Non ha senso dire “pensiero liberato” per un pensieroche non abbia conosciuto i vincoli aridi e profondi delsensibile. Dunque? La liberazione dello Zen è forse ciò cheè stato in segreta ascesi preparato in Estremo Oriente perl'epoca in cui l'Occidente, declinando, avrebbe toccato lapiù fitta oscurità, la tenebra del pensiero astratto? Perché invero c'è un eroismo di chi lo sopporta. Questo arido,geometrico, smagliante e pur disanimato pensiero è il segnodi una forza: è il segno di un incontro e di una lotta con labruta potenza della terrestrità, da cui sorgono il regno dellemacchine, delle industrie, dell'economia, le forestepietrificate di cemento e di asfalto, il vorticoso movimentodei veicoli di terra di mare e del cielo. È il vincolo chesoltanto un pensiero potente, pur nel suo geometrismosenza luce, può sopportare. Di questo pensiero non ci sideve liberare: perché questo pensiero è la forza stessa dellaliberazione. Occorre che esso stesso afferri in sé, nelproprio intimo movimento, la forza che per ora rivolge soloall'esteriorità, sia sensibile, sia non sensibile: un'operazione

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che può svolgere solo nell'ambito del proprio processo,fuori di qualsiasi altra mediazione.

Mentre gli attuali espositori, gli attuali araldi europei-americani dello Zen non si preoccupano affatto dellasituazione di questo pensiero, nemmeno del proprio: nonavvertono come il loro pensiero faccia valere in qualchemodo la saggezza del Mahayana. Privi di cautela gnoseo-logica, pubblicano opere in cui lo Zen viene disinvolta-mente interpretato in vari modi: dialettizzato ortodossa-mente, esso viene comunque adattato alla dimensioneastratta del pensiero desioso di metafisica inquadramento lacui forza per ora è soltanto la sistematicità, ma che non puòevitare di ridurre alla propria astrattezza, ossia a un pianosenza vita, una conoscenza che è giustificata unicamentedal suo esprimere vita: l'indicibile, l'irripetibile, ciò che puòessere intuito come forza che muove il mondo vegetale, gliesseri animati e la terra, e colora il cielo ed è il ritmo deigiorni e delle stagioni. Qualcosa che l'uomo modernodeduce come vita, ma non sperimenta. Lo Zen si presentacome ciò che la sperimenta e dà modo di sperimentarla: manon a chi ha tolto la vita al pensiero, la cui peculiarità èperciò l'astrattezza. Lo Zen è stato dato a un tipo umanonon ancora divelto dalle trascendenze. L'occidentalemoderno, l'europeo-americano, è un divelto: questa è la suaforza, ma parimenti il suo limite. Non può accedere alloZen se non mediante una conversione in se medesimo:un'operazione che può compiere solo nel proprio processopensante, non apprendendo qualcosa da fuori epperòriducendola alla limitatezza a cui in lui è astretto taleprocesso.

Che cosa può apprendere l'occidentale moderno delloZen? Soltanto ciò che risponde alla condizione meccanica,

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quantitativa, razionalistica, secondo cui si è modellato ilsuo pensiero. Non potendo afferrare l'elemento di vita,sovrarazionale e indialettico, di quella ascesi, stacca daldiscorso che è veste discorsiva solo per il suo indiscorsivocontenuto e perciò obbediente a un canone sublimementealogico, le parole e i concetti - concediamo anche leimmagini - che non hanno altro legame se non quelcontenuto, e tali parole e concetti connette mediante ciò cheessi significano per lui, secondo tutt'altra visione, secondosua nominalistica associazione. Noi potremmo scrivere acaratteri d'oro un'aurea sentenza, ma un rivendugliolo, adesempio non vi troverebbe altro valore che quello delprezioso metallo, traducibile in danaro.

Questo Zen è stato portato sulla piazza e tutti hannotrovato il modo di appropriarsene, o meglio hanno credutoappropriarsene: dagli analisti junghiani ai “culturisti”judoizzanti. Così, per esempio, il judo, staccato dallagiustificazione ascetica è divenuto un'arte meccanicaesigente solo qualche tecnica di concentrazione su fattimuscolari, estraniati (ossia astratti) alla forza sovrasensibileche nel corpo costruisce i muscoli: onde, sul piano diun'arte ridotta a mera tecnica meccanica, si è visto alleultime Olimpiadi di Tòkyò il campione olandese battere ilcampione nipponico di judo. Oppure si è visto uno dei piùapprezzati espositori dello Zen, Alan W. Watts, autore diopere tradotte nelle principali lingue del mondo, in unariunione privata avvenuta a Roma or sono due anni, rivelarein un momento di mistica confidenza con i suoi ascoltatori,come al satori, ossia all'illuminazione folgorante, si possaaccedere mediante la mescalina. “Dipende da chi la dà”sembra che egli abbia avvertito misteriosamente. Potrebbeanche aver detto: “Dipende da chi la usa”. Che è su per giù

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la stessa cosa: dinanzi alla quale non possiamo non sentirfremere le ossa degli antichi custodi dello Zen, di queiPatriarchi che picchiavano sodo e inaspettatamente, conterribile e vigile amore verso i sempre deraglianti discepoli.

Certe bastonate e certi manrovesci avevano una funzionerettificatrice: talora illuminatrice. Come del resto certiscapaccioni sacrosanti che gli ammolliti genitori moderninon sanno più dare ai loro figli. Estratti di cactus, o dicanapa, o segale cornuta, mescalina, psilocibina, o altriingredienti dell'attuale psico-chimica, possono, perun'azione fisiologica a cui è estranea la volontà delsoggetto, portare al confine della percezione sensoria, làdove nel processo del percepire fluiscono forze piùprofonde della psiche, ordinariamente non avvertite dallacoscienza, proprio perché la percezione sia normale e diaquel materiale su cui deve operare il pensiero: alla cuiqualità e alla cui ascesi spetta la possibilità di scendere inquella profondità e conquistare in forma lucida e volitivaciò che sub-consciamente si verifica entro il percepire.Come dicevamo più sopra, questa ascesi del pensiero,proprio in quanto apre all'anima il contatto con le sue forzesovrasensibili, è una via morale. La via della mescalina èuna via immorale, perché non apre il varco al sovrasen-sibile, scambiando per tale il sub-sensibile: in tal sensoesercita un'influenza orientatrice su tutti gli spostatispirituali che aspirano a un metodo rapido per diventareveggenti, o mistici, o fascinatori di donne, un metodo checonsiste nell'ingerire una sostanza e aspettare gli effetti diessa, salienti dall'organismo.

Da un processo sensibile, dunque dovrebbe sorgere unevento sovrasensibile, senza che il soggetto ci metta nulladi suo, perché la sostanza è fornita dalla natura o dallo

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speziale, e gli operatori sono lo stomaco, i succhi gastrici egli intestini. Uno si mette su una poltrona e aspetta: dopo unpo' vede fiumi di gemme, soli aurei, montagne cristalline,praterie luminose. Li vede, ma non ci sta dentro. Ne riportauna sensazione piacevole, alla quale poi ama ritornare.Interessante come esperienza psico-chimica, utileindubbiamente agli psichiatri per la cura di casi di nevrosi oisteria: ma che ha che fare questo con lo Zen, che tra l'altrosi può dire l'arte della pura immediatezza, ossia del lucidoliberarsi di ogni mediazione non solo fisica, ma anchemetafisica? Come è possibile una simile distorsione?Scambiare un “vedere” che è il semplice stare come inertispettatori, condizionati da un estratto di cactus, ad aspettarela percezione del Tao, è semplicemente ridicolo. Perchéquel vedere si svolge non a un livello sovrasensibile, ma inquanto condizionato dalla sfera corporea, sub-sensibile, nelsenso che, secondo il Buddhismo Zen, il mondo percepibilenon è una realtà assoluta, ma un modo del manifestarsidell'essere, che sta tra un mondo più alto e uno inferiore,ambidue impercepibili ai sensi. Il reale che appare ha dueconfini, uno in alto e uno in basso, in un sopra-mondo e inun mondo infero: ambidue non coscienti all'uomo. Ondecon facilità l'uomo moderno pone nello inconscio mescolatil'uno e l'altro. Ma occorre non dimenticare che è semprel'inferiore che tende a ridurre al proprio livello ciò che èsuperiore: è proprio un giuoco del mondo infero far sì chel'uomo confonda i due, onde ogni esperienza extra-normalevenga scambiata per esperienza spirituale.

Esperienza spirituale è solo quella per cui l 'anima sitrasforma per virtù di più alte forze dell'anima e, superandola visione egoica, immette nel mondo la conoscenza e lacompassione. Solo una luce interiore, coscientemente e con

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strenuo sforzo conseguita, può diventare fraternità. Taleluce non è gratuita, non può venire per ingestione disostanze suggerite da brillanti “zenisti” da salotto.Indubbiamente vi può essere chi abbia la sua esperienzainteriore mediante la mescalina: ognuno è libero di usare imezzi chimici che vuole, per scuotere il corpo fisico etrarne brani di extra-sensibile; ma allora non deve parlare diZen. Perché la esperienza interiore non l'ha direttamente,come pura immediatezza, conseguita per insistente volontàascetica, ma mediante il corpo, rendendo il corpo mediatoredi ciò che il corpo non può mediare senza essere già nelquadro della psicopatologia, perché il corpo è qui permediare l'esperienza terrestre, o esperienza sensibile, dallapercezione della terra e del cielo a quella degli spaghettiall'amatriciana con tartufi. Al corpo in quanto organismofisico non interessa il sovrasensibile, perché ne è tuttostrutturato. Il corpo non ha niente da conoscere, perché hatutto in sé: il suo operare secondo il Tao consiste nello starearmonicamente nel sensibile per fornire il giusto materialeal pensiero e alla coscienza, che soli, ove si avvivino dellaloro indialettica forza, ricongiungono col sovrasensibile.

In definitiva, dunque, occorre dire che lo Zen si difendeda sé, perché attraverso le interpretazioni dei moderni suoiespositori si lascia afferrare ancor meno che nelleesposizioni tradizionali. Quel che circola è difficile che sialo Zen; e questo è un grande aiuto per l'occidentale: che eglinon trovi ciò che crede trovare solo per il fatto che lo legge,o perché lo può ridurre al proprio concepire astratto. Ma èparimenti una tutela del segreto dello Zen, così che chiveramente lo cerca possa trovarlo fuori delle adattazionilibresche il cui movente è spesso un obiettivo commerciale.

È bene che il ricercatore non trovi quel che facilmente

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cerca, perché allora solamente può cominciare a capire checosa vuole e orientare saggiamente la sua ricerca. Egli nondeve rinunciare a comprendere il senso della situazione delpensiero da cui prende le mosse. Come accennavamo,dall'astrattezza non si può passare al pensiero vivente, per ilsemplice fatto che qualsiasi passaggio è astratto esso stesso,se la conversione del pensiero non si verifica nell'ambito incui si perpetra l'astrattezza stessa. Perciò non si può averefiducia nelle esposizioni attuali dello Zen, come neppurenella possibilità che taluni testi siano veramente intesi,ammesso che siano testi essenziali e anche tenendo contoche i testi basilari e segreti dello Zen non sono ancoraconosciuti neppure dai loro depositari. Non si può averefiducia e questo pessimismo è salutare.

Il limite o la forza-limite dell'occidentale è la logica: nonpuò ritenere questa tutta la sua forza e poi ignorarla quandogli si presentano talune dottrine che, anche se eccitano lasua immaginazione, non rispondono alla sua tradizione.Dicevamo che la forza dell'asceta Zen è fare qualcosa nelmondo in quanto prende le mosse dalla comunione con ciòche immediatamente operando in lui come “pensieroprimo”, opera nel mondo: egli perciò sa quel che fa. Lalogica dovrebbe condurre l'occidentale a sapere quel che faquando pensa. Il problema della conoscenza,filosoficamente, ha sempre riguardato le modalità delconoscere, non il conoscere stesso come possibilità che peressere dialettica deve necessariamente sorgeredall'“indialettico”. L'occidentale oggi si trova dinanzi asituazioni che la dialettica non risolve più: non richiedono ilsuo muoversi nel pensato o nelle parole, ma il suo muoversinel pensiero: nel movimento che il pensiero già è, maignora.

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L'astrattezza va risolta entro il suo stesso processo ossiava conosciuto il suo formarsi nell'ambito stesso del suoesprimersi dialettico secondo un contenuto che sembraessere quello dell'oggetto pensato, ma è in sostanza la forzadella natura egoica afferrante il pensiero in quanto privo divita. L'astrattezza può essere risolta entro il suo stessoprocesso perché v'è un momento del suo formarsi in cuiancora è pensiero vivo: il pensiero muore come astrattezzaperché un momento prima - di una momentaneitàintemporale - è vivo. Da qui si può prendere le mosse: dalmomento vivo. Procedere dallo stato di morte del pensieroe proiettarlo sulle cose significa non afferrare nulla: comesta ormai avvenendo in tutti i campi, malgrado la enormeforza analitico-sistematica di questo pensiero.

Ritorniamo perciò alla contraddizione inizialmenteaccennata. Lo Zen è il risolutore dell'astrattezza, ma con ilpensiero astratto non si entra nello Zen: si crede di entrarvi,perché lo si manipola dialetticamente sino ad indicare lamescalina come un mezzo per conseguire il satori. Per lasoluzione della contraddizione all'occidentale moderno ènecessario un giusto uso del proprio pensiero logico. Comeabbiamo mostrato in alcuni nostri studi, il razionalistamoderno può ritrovare nel processo del proprio pensiero lesorgenti vive della razionalità: entro se stessi viene superatoil limite che ordinariamente si proietta fuori di sé. Può venirrisolta in sede di autocoscienza l'opposizione tra essere edesistere, tra pensare ed agire, che i grandi asceti-pensatoridel Mahayana e in particolare i Maestri Zen non avevano ilproblema di superare mediante azione nella propriainteriorità. All'occidentale moderno la via della risoluzioneviene indicata dal movimento stesso del pensiero che sivincola ai contenuti sensibili: la forza di tale pensiero è

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2 – Zen e interpretazioni occidentali

“materializzarsi” o astrattificarsi perché la soluzione dellamaterializzazione o dell'astrattezza è la sua liberazione: ilcompimento della sua esperienza nel sensibile. È perciò unaliberazione che si compie, non fuggendo la vita, ma nelpieno dell'esperienza esterioristica e meccanicistica, nelpieno di una cultura contraddicente lo spirito, perché ancoranon veramente compenetrata di pensiero: perciò non reale.Soltanto questo pensiero liberato può penetrare il segretodella materia. Ma la forza della propria liberazione non puòapprenderla da dottrine che non conobbero tale caduta: puòapprenderla e averla solo da se medesimo. Soltanto il suoproprio attuare la liberazione in sé può essere, in unsecondo tempo, illuminato dallo Zen come da unosplendere della sua stessa luce.

Non si passa dal pensiero dialettico al sovrasensibile,non si esce dal pensiero astratto: il pensiero privo di spiritonon può avere come oggetto lo spirito. La conversione nonpuò essere che interna al pensiero che va convertito, nonpuò venire da fuori, perché tutto ciò che può esserecompreso dal pensiero astratto viene da essonecessariamente adattato, ridotto alla propria misura: perciòanche l'idea della propria conversione, così che mai possaattuarsi. E questa è la situazione tragica del pensiero inOccidente, che tutto spiega e nulla afferra: perché incapacedi afferrare se stesso. Mentre è nella logica del suo processocosciente, che esso infine afferri se stesso: ritorni vivente.Perché solo vivente può risolvere i problemi che il pensieroastratto non risolve più.

Risolta nel pensiero l'opposizione tra essenza e sostanza,ricondotta ogni determinazione all'originario atto interiore,la questione del passaggio dalla teoria alla pratica, dalpensare all'agire, dall'idea alla vita, non ha più ragione di

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essere: non si dà. L'agire è non-agire e viceversa. Infatti, dalpensiero meramente razionale non si passa all'azione perchéesso nella sua inanimazione è un ambito in cui non èpossibile movimento, mentre dal pensiero vivente, oessenziale, non v'è da muovere verso altro, perché esso ègià movimento presente nell'alterità: che perciò non è piùalterità.

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IIIATTUALITÀ DI NISHIDA

Il pensiero di Nishida Kitarô forse rappresenta inEstremo Oriente il più serio punto d'incontro tra l'anticavisione mistica e la moderna esperienza dei concetti. Questaesperienza in Occidente si compie a condizione che lospirito si estingua, le metafisiche scompaiano. (Restatuttavia ancora da comprendere che cosa abbiano veramentevoluto dire Hegel, Fichte, Schelling, con il linguaggio dellafilosofia: resta da vedere se nei loro sistemi non si siaespresso l'ultimo bagliore di luce di un pensiero ancoracapace di immergersi nel sovrasensibile: quello che ora è il“nulla”, proprio perché divenuto astrazione. Ciò che sfuggea Sartre, come a tutti coloro che nel processo del pensieronon sanno scorgere l'annientarsi dell'essere che cercano).

Taluni pensatori orientali, figli dell'antica vocazionemetafisica, possono fare il ponte tra il metafisica e il fisico,tra la visione mistica e quella realistica, a condizione di nonlasciarsi irretire in ciò in cui è caduto recentemente ilfilosofare occidentale: la dialettica fine a se stessa. Ladialettica non è il pensiero nel suo momento creativo, non èlo spirito, ma la sua contingente determinazione.

La dialettica che si automatizza e si fa ricerca, visionedel mondo, filosofia o anti-filosofia, idealismo o anti-idealismo, spiritualismo o materialismo, non è il veicolodello spirito, non è il veicolo della verità, ma il processoespressivo che ha preso la mano all'uomo: ossia il processoespressivo privo di contenuto interiore; processo dell'uomoimpotente a esprimere ormai la propria essenza, ma solo

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capace di esprimere la propria impotenza. I terminicircolanti nella letteratura filosofica, “essere”, “esistere”,“fondamento”, “essenza”, “fenomeno”, “nulla”, “verità”,“logismo” ecc. sono in vero vuote parole: non dicono nulla.Dietro non c'è nulla. È solo l'automatismo dialetticorivestente la natura di una determinata persona filosofante:che probabilmente filosofa perché non sa che cosa è ilpensiero: non conosce ciò con cui qualcosa conosce.

Dunque, Nishida s'incontra in Giappone come unasperanza, come l'indicazione di una via. Figlio dell'anticastirpe metafisica, vede con occhio libero di dialettismi ilmondo, lo scenario del mondo, la natura, la storia. Conoscela filosofia, ma rimane metafisica: capisce che v'è soltantoun mondo fisico reale, ma tale mondo nella sua concretezzaè metafisica. La realtà è metafisica e soltanto per questopuò essere fisica: avevano ragione gli antichi maestritaoisti, i maestri Zen, gli asceti buddhisti, scorgendo il“vuoto”, come essenza. Ma la loro era soltanto visionedonata dagli Dei, grazie a un'arte della contemplazione dicui si è smarrito il segreto. Tuttavia, ciò che in antico eravisione, riaffiata nel figlio di questo tempo come pensierocosciente. Nel pensiero cosciente si può continuare l'artedell'antica visione: questo è il senso della scienza. Ma se ilpensiero cosciente perde il contatto con lo spirito, da cuicomunque deriva, la sua attività diviene retorica, rinunciaall'interna virtù creativa, cade nella sfera della quantità,viene sopraffatta dal formalismo, dalla metodologia, dallatecnica. È il pericolo della scienza moderna, ma è ilpericolo del mondo: che la verità si limiti al misurabile, chenon è la realtà, ma qualcosa che si astrae dalla realtà: che atorto si comincia a ritenere sia tutta la realtà. Non si sainfatti afferrare più ciò che è oltre il misurabile, non v'è più

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movimento di pensiero per esso: mentre il pensierodovrebbe essere riconosciuto già come la presenza di ciòche non è misurabile. Onde il pensiero dovrebbe essereconosciuto: il pensiero con cui in vero tutto si decide.L'intimo inconosciuto.

Ma - osserva Nishida - il pensiero non può essereconosciuto se esso si limita a filosofare: il suo movimentonon è la filosofia, ma ciò che come atto interiore non hadietro di sé nulla, se non la illimitatezza dello spirito. Lafilosofia è un prodotto, non una condizione. Il conoscere èil momento vivo dello spirito, ma non lo conosce chi silimita a filosofare: a meno che il filosofare non sia la vestedell'esperienza pura, junsui keiken, ossia dello sperimentarepuro del pensiero.

La filosofia dell'Estremo Oriente ci ha dato una scuolainteressante: la cosiddetta “Scuola di Kyoto”, Kyoto-ha,sorta presso quella Università. L'apertura alle filosofieoccidentali in Giappone ha avuto inizio nei primi decenni diquesto secolo, svolgendosi sotto il segno di un regolarecontatto con i grandi pensatori germanici, Kant, Fichte,Schelling, Hegel, con la fenomenologia di Husserl el'esistenzialismo di Heidegger e Jaspers. La “Scuola diKyôto” fa capo al pensiero di Nishida e si può considerarel'aspetto più vivo della filosofia giapponese, proprio perquanto si è detto: per non aver perduto il logos nella logica,per non aver perduto la linfa vitale delle idee nelladialettica: per aver mantenuto il contatto con le forzedell'antica ispirazione, pur penetrando nel mondo deiconcetti e cercando di afferrare l'essere nell'attivitàrazionale.

L'opera di Nishida, Zen no Kenkyû, è fondamentale,perché si può considerare la sintesi “positiva” delle diverse

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correnti di pensiero occidentale. Il meglio egli lo hacompreso, perché ha saputo distinguere la dialettica dalmovimento puro del pensiero che non è dialettico e rendevera, con la sua luce, la dialettica. La “Scuola di Kyôto” èindubbiamente sulla linea di tale pensiero, anche se ilsuccessore di Nishida, Tanabe Hajime, aprendosi allafilosofia della scienza, ha rivalutato la teleologia kantiana,simultaneamente accogliendo il fenomenalismo di EdmundHusserl: con ciò in qualche modo rinunciando al valore del“puro conoscere” moventesi come essenza del mondooggettivo nella coscienza desta, affermato da Nishida. Il cuipensiero è più fedelmente sostenuto dal suo discepoloKoyama che ha contribuito alla conoscenza dell'opera di luiin Occidente.

Il senso delle nostre considerazioni è il seguente: l'operadi Nishida è importante dal punto di vista di un autenticoconoscere, di un nuovo urgente conoscere, perché reca unorientamento che le filosofie ultime rischiano di perdere, segià non hanno perduto: un orientamento privo del quale ildialettismo può dimostrare tutto, essere vero sempre, perchénon è il pensiero penetrante lo stato di fatto, ma lo stato difatto asservente a sé il pensiero. Onde ogni ideologia èbuona come pretesto ideale per fare in realtà ciò a cui si èportati dalla propria natura, non dallo spirito. E la filosofiadiviene la veste filosofica di determinate posizioniapparentemente mentali, ma in effetto psico-fisiche.

Ciò che indica Nishida dovrebbe rendere attento un serioricercatore. Per quale ragione questo vivo pensatore,malgrado la chiara conoscenza della logica occidentale edelle varie evoluzioni della dialettica, indica ancora comepunto originario di riferimento per il conoscere il “vuoto”, oil “nulla”? Quel “vuoto”, quel “nulla”, non è l'astrazione del

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3 – Attualità di Nishida

pensiero, ma l'esperienza dell'intima vita del pensiero, in séinformale e pre-dialettica, non afferrabile dalla razionalità,ma determinante la razionalità: la quale perciò può essereparimenti la razionalità che riveste il vero e luminoso epenetrante moto del pensiero, come la razionalità astratta,avulsa dal vivo pensiero, e con il meccanismo del discorsofingente il moto del pensiero che non c'è: il moto quiessendo il moto della natura: psico-fisico, non ideale.

Nell'opera di Nishida s'incontra una posizione dipensiero più creativa, dal punto di vista di una revivi-ficazione dello Zen, di quella propria al centro filosofico diSendai, iniziato da due interessanti pensatori, EugenHerrigel - di cui è soprattutto apprezzata un'opera sull'“ArteZen nel tirar d'arco” - e Karl Loewith. Perché l'arte diNishida è la raffinata arte del pensiero che non elude lapropria presenza e afferra se stesso in una continuitàintensiva che, avvertita là dove nasce, porta coscientementeai limiti individuali, al livello di una libertà e di una vastitàlucida che non è il vuoto dell'essere, ma la ricchezzaillimitata di tutto ciò che è nato e continuerà a nascere nelmondo. È l'esperienza del pensiero puro, che non ricorre a“fatti spirituali”, a miti, ad atteggiamenti interiori, amediazioni mistiche, ma attinge direttamente alla sorgentespirituale. Questo le ascesi tradizionali perseguono senzapossibilità della immediatezza che il pensiero, in quantopensiero puro, attua volitivamente. Ma è il pensiero puro,possibilità del pensatore di questo tempo che giunga asperimentare la razionalità, così da viver]a sino in fondo,sino al suo momento sorgivo: mentre gli insegnamenti deirevivificatori dello Zen propongono atteggiamenti, visionidella vita, modi di essere, sentimenti, che già implicano ilmovimento del pensiero, senza il quale non potrebbero

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sorgere, ma hanno il compito di distrarre dalla propriaessenza il pensiero, proprio perché essi presumono di darla.Ma non la danno, ne danno solo una parte, perché sipongono essi come “oggetti dello spirito”, rivestendosi dispirito, e implicando che l'asceta non lo sappia. Altrimentiquesti si rivolgerebbe alla sua attività che li fa sorgere,piuttosto che ad essi.

Il pensiero è l'ultimo nato dello spirito, attraverso cuituttavia lo spirito comincia a entrare direttamente nelmondo; ma può entrarvi solo a condizione di non prendereper contenuto del mondo ciò che gli sorge dinnanzi graziealla sua attività: la forma del mondo essendo già il suopenetrare in esso. Soltanto la coscienza di questo sorgivoentrare nel mondo, può dare modo allo spirito di evitare lamitizzazione della natura o della sopra-natura e di guardarequeste come contenuti che esso fa rivelare, offrendo loro laforma.

Ed è la più alta via dei ricercatori di questo tempo, che lapigrizia intellettuale impedisce ai più di conoscere: cheNishida, revivificatore della tradizione inestinguibile, haobiettivamente intuito.

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IVZEN ED ESISTENZIALISMO

Esistenzialismo e fenomenologia sono le due correnti dipensiero che ancora manifestano una certa vitalità inOccidente: in quanto ancora in qualche modo tentanoopporsi a quell'astratta razionalità, discorsiva, meccanica,priva di intima forza, che è divenuta peraltro il tessutodell'attuale cultura.

V'è un incontro tra fenomenologia ed esistenzialismo,che può far intravedere l'elemento positivo di quest'ultimofilosofare: ultimo in senso temporale, ma anche in sensosimbolico, ché ove anche tale elemento cessasse di esseresentito, sarebbe la fine della filosofia: forse già in atto.

Come giustamente osserva Enzo Paci “il problema di unesistenzialismo positivo sembra dover passare attraversoHusserl ed è probabile, del resto, che una nuova filosofianon possa essere più definibile né come esistenzialismo nécome fenomenologia”1. Ma chi guardi la fenomenologia diHusserl, non può non avvertire come la ricerca del noema,la noesis, sia in realtà l'esigenza di una restituzionedell'elemento ideale vivente ai fenomeni che, senza questo,rimangono impenetrabili. Né per questa via è difficilerisalire al “fenomeno primordiale” di Goethe e alla suapossibilità di contemplare le idee viventi.2 È un filoneaureo, molto assottigliato, che sta per perdersi: che puòessere ripreso e può dar modo di guardare a questo

1 - Enzo Paci, La filosofia contemporanea, Milano, Garzanti, 1957, p.204.2 - W. Goethe, Teoria della natura, Torino, Boringhieri 1958, p. 54.

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elemento ideale vivo come a quello stesso che animò ilpensiero di Vico di Gioberti, di Rosmini3 e di altri mirabilipensatori che non si perdevano nell'astrattezza, mafilosofavano vivendo la luce e il calore delle idee a cuifacevano riferimento.

Questo elemento noetico, espresso ora in terminiidealisti, ora in termini di fenomenologia, ora in terminiesistenzialisti, potrebbe essere ravvisato come possibilità diuna metafisica nuova: diciamo “possibilità” e non, per es.,“germe”, perché è soltanto presentito, evocato, intuito, maancora non veramente percepito e riconosciuto per quel chepotrebbe essere, non soltanto come evento speculativo. Lasua esperienza, infatti, non potrebbe essere che a-dialettica,extra-razionale, vitale solo incorporeamente, interiore esufficiente a sé, ma al tempo stesso pronta a esprimersi ingesto, o in ritmo, o in atto estetico, o in pensiero, o inparola. Qui la possibilità che lo Zen venga incontro a talemomento positivo del pensiero occidentale, per un incontroche non sia assonanza, né congeniale confluenza, maanzitutto identità di un principio interiore perennementeattuale nello spazio e nel tempo.

Presupposto dell'esistenzialismo è l'idea di esistenza,come di qualcosa che andrebbe sperimentato di qua dallamediazione del giudizio che sempre altera o vela icontenuti. Ma l'esistere è, per Kirkegaard, non il brutalefatto dell'esistere, bensì il convergere del finito edell'infinito, in una combinazione che è essenzialmentecontraddittoria e la cui contraddizione non può essereliquidata concettualmente, perché una simile liquidazionetoglierebbe la possibilità di cogliere nell'uomo l'elemento

3 - Vedi G. Gentile, La riforma della dialettica hegeliana, Firenze,Sansoni, 1954, p. 114 e ss.

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individuale concreto che è in pari tempo il principio dellasua realtà sovrasensibile. È più o meno questo l'intento deiprincipali rappresentanti dell'esistenzialismo, da Kirkegaarda Jaspers, Heidegger, Marcel, Barth. E già un simile intentorimanda a qualcosa di analogo nello Yoga, nella concezioneupanishadica, nel Vedanta e nel Buddhismo mahayanico: lapossibilità di attingere il principio trascendente Brahman, oAtman, proprio attraverso l'elemento che sembra negarlo ooccultarlo nella veste di maya.

Il sorgere di un elemento che richiama il sensodell'ascesi Zen è riscontrabile in particolare nel pensiero diMartin Heidegger che, in definitiva tendendo a cogliere neltempo ciò che è fuori del tempo, finisce col daregiustificazione metafisica a tutto ciò che è fatto, divenire,esteriorità.4 La posizione di Heidegger è tale che puòportare a un tragico sostanzialismo e a una sorta dideificazione di ciò che è la naturalità, o la immediataspontaneità, quando non si tratti della “naturalezza” e della“spontaneità” in cui immediatamente si esprime il puroprincipio dell'essere, come è chiarito nello Zen.

Una deviazione verso il logorante fattualismo o versol'ottuso vitalismo è implicita nella filosofia di Heidegger,non in quanto il suo pensiero la contenga, ma in quanto nonessendo stato pensato sino al suo moto originario, essomanca dell'orientamento interiore necessario alla visionedella “temporalità” in cui l'individuo possa ancoraperseguire l'“eternità”. Tale orientamento è invece presentenello Zen, per il quale l'immediatezza e la spontaneità,come la consumazione dell'elemento intellettuale e di ogniconvenzionalità discorsiva, non sono un passivo abbandonoal mero divenire, ma la conseguenza di una ascetica

4 - M. Heidegger, Essere e Tempo, Milano, Bocca, 1953.45

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penetrazione del suo ultimo significato.Si parla spesso di necessità di incontro tra Oriente e

Occidente: ma in nessun “luogo” tale incontro ci sembrapossibile come in un “luogo interiore”, o ideale: taleincontro non può essere comparazione erudita o merafilosofia. Bensì risulta possibile quale effettivo evento,quando si sia capaci di avvertire come un moto del pensierooccidentale, in sé originario e ricco di vita, a un determinatomomento della sua dialettica, rischi di inaridirsi e dialterarsi per insufficienza di slancio metafisico, e proprio aquel punto la possibilità di manifestare ancora la sua vitalitàiniziale gli venga indicata o offerta da un'altra esperienzainteriore, partente da un'altra tradizione e da un'altra sferastorica, ma rispondente in tale punto a ciò che quelfilosofare vorrebbe e non sa volere più, per stanchezza oinaridimento. È il possibile scambio di contenuti la cuiperennità è la loro unità originaria: quella che può renderevero l'incontro Oriente-Occidente.

Un elemento di vita, in tal senso, può giungere dallo Zenal pensatore occidentale, che ancora senta la responsabilitàdel pensiero: non certo al frivolo cultore di un“esistenzialismo” da esibire come attitudine esteriore eperciò non riconosciuto positivamente per quel puro motoideale che in effetto è. L'elemento di vita è la possibilità diun atto interiore che si sia capaci di afferrare prima checada nella razionalità, da cui scaturisce l'arte di “procederesenza esitazione”, mo chih ch'u, o quella del wu-shih, lanaturalezza senza artificio.5 Così l'identità di esse e coessedi G. Marcel, il momento della “persuasione” di C.Michelstaedter e la possibilità della trascendenza nel

5 - A. Watts, La via dello Zen, Milano, Feltrinelli, 1960, p. 160.46

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divenire del singolo di K. Jaspers,6 possono esserericonosciuti come idee o ideali presenti quali momentiinteriori nella “via abrupta” propria allo Zen.7

L'esistenzialista che filosofa non per filosofare ma perritrovare la vita, può ritrovarla se riesce a intuire il senso diessa quale può essergli suggerito dallo Zen: nel divenire,nella natura, nella vicenda corporea, nella concretarelazione con l'essere è presente e visibile la trascendenza,con la sua luce segreta e il suo mistero. Ciò che i filosofiproblematizzano, lì è già risolto: ma appunto ora si accendedi vera vita.

Quando l'esistenzialismo diviene atteggiamentoesteriore, è retorica, è recitazione, è il falso: quello che sipresumeva sfuggire. Lo Zen invece risolve il tema dellaesteriorità: per l'asceta essa è la veste inconosciutadell'infinito, che sta sotto i nostri occhi e ad ogni istante puòessere riconosciuta: in tal senso può condurre istan-taneamente nel mondo dell'infinita beatitudine, che non ècerto quella vincolata all'apparire umano. L'esistere, perl'asceta Zen, non è contraddizione, riguardando ognicontraddizione soltanto il “mentale” non consapevole della“essenza”, che gli consente di essere il mentale che è.

Il pensatore occidentale deve essere ancora capace difiducia nel “pensiero puro”, se vuole percepire l'elementometafisico che gli viene incontro vivente dallo Zen,difficilmente afferrabile dagli stessi cultori di questa ascesi,

6 - Cfr. G.Marcel, Journal métaphysique, Paris, 1927; C.Michelstaedter, La persuasione e la retorica, Firenze, Vallecchi, 1922;K. Jaspers, La mia filosofia, Torino, Einaudi, 1946.7 - D. T. SuzuKi, Essays in Zen Buddhism, London, Rider, Secondseries, 1950, c. IX; Hubert Benoit, “Doctrines progressives et doctrineabrupte”, in Yoga, Science de l'homme integral, Paris, Les Cahiers duSud, 1953, p. 284.

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ora molto diffusa in termini dottrinari ed esegetici, maperciò sempre meno penetrabile. Dottrina del non-mentale,lo Zen esige pertanto una eccezionale attività del mentale.Perché il pensiero riposi nella essenza e perché l'essenzaprenda il luogo del pensiero, occorre che il pensiero siaveramente posseduto. Essendo lo Zen una “via”trascendente, non può essere definito o analizzato: si puòparlare di una “natura dello Zen” e di uno “stile”, dalle cuiforme si può risalire all'idea di cui sono veste.8 Dietro laspontaneità, la naturalezza, l'acquiescenza al mondoesteriore, dietro lo stile e l'arte, dietro il non-pensare el'assoluto abbandono al divenire, c'è un'idea che tuttoriprende: un'idea a-dialettica o pre-dialettica, ma comunqueidea.

Perciò una eventuale relazione tra il moderno pensatoreesistenzialista od antologista con lo Zen, potrebbe darsiunicamente per via di penetrazione meditativa. Chi penetriil pensiero mahayanico, e in particolare la filosofia Hua Yen(Avatamsaka Sutra), giungendo così alla giustificazione

8 - Difficile, sotto questo riguardo, se non impossibile, esporre lo Zen:ché quando tutto sia esposto con esatto riferimento ai testi e ricondottoa una qualche concettuale sistemazione, proprio in relazione allo spiritoa-dialettico dello Zen, lo sì è velato con un ulteriore diaframma. Per cuisolo un conoscitore dei testi che sia anche autentico pensatore, maperciò simultaneamente poeta in senso originario, potrebbe parlare delloZen. In tal senso, di tutti i moderni espositori, il più qualificato, per unaqualità “Zen” già presente nella struttura del pensiero, risulta G. Tucci,sia pure da brevi saggi (Cfr., tra l'altro, “Lo Zen e il carattere del popologiapponese”, in Asiatica, n. 1, 1939; “Lo Zen” in Sapere, Vol. XII, IIserie, p. 333; “La poesia giapponese” in Forme dello spirito asiatico,Messina, Principato, 1940, p. 260; ed altri studi): promessa di un'operaorganica che, a questo punto, diffondendosi un interesse all'argomentosia in Europa che in America e date le diverse inevitabili confusioni edalterazioni, si rende necessaria.

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metafisica dello Zen, può notare come, in Cina, Ch'an èanche conosciuto come hsin tsung, o “Dottrina delmentale”. Come afferma Chang Chen-chi, il Mentale è lasostanza e la chiave degli studi sullo Zen.9 Dei tre aspettidel mentale, manifesto, illuminativo, immanifesto,quest'ultimo, il più elevato, in effetto contiene la possibilitàdegli altri due, essendo il principio essenziale, o vuoto(sunyata). Dall'“immanifesto” al “manifesto” è il continuoesprimersi dell'essenza, che si veste della vita che apparecome serie di parvenze. Perciò i modi della vita di un ascetaZen tendono ad essere la veste dell'essenza: in sostanzaesprimono lo Zen proprio in quanto il suo manifestarsi nonpassa per l'intelletto, ma è direttamente azione interiore-esteriore: l'esperienza quotidiana, l'arte, il lavoro, lerelazioni umane e perciò l'esistenza, divengono vie di quelfluire dello Zen, identico al fluire di ciò che sorregge lanatura.

La pratica interiore che ha inizio con la contemplazionedella propria mente in tranquillità, presuppone il possessodella mente: è la pratica della scuola Tsao Tung, detta della“serena riflessione”, mo chao.10 Questo riflettere, omeditare, è un'arte che i pensatori occidentali hannosmarrito: l'allarme dell'esistenzialismo e dell'ontologismo èappunto un avvertire lo stratificarsi di una filosofia astrattache ha perduto il senso della vita ma in quanto non sa piùavere il pensiero vivente. Qui si può cogliere la possibilitàdel contemplare, quale è suggerita dallo Zen. Come dice ilfamoso maestro Hung Chih, in un suo noto poema: “Inquesto contemplare, ogni sforzo intenzionale svanisce”: che

9 - Chang Chen-chi, The Practice of Zen, New York, Harper andBrothers, 1959, p. 25.10 - Chang Chen-chi, Op. cit., p. 45.

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non è attitudine quietistica, ma la virtù meditativa cui siallude nella Prajnaparamita. Tale virtù a sua volta è ilfondamento del kôan, relazione meditativa con un oggetto,sensibile o sovrasensibile: possibilità di assumere a undeterminato momento qualsiasi evento, cosa, pensiero,come tema di contemplazione, così da ricondurne laproblematicità all'essenza, onde la vita stessa può essereguardata come un grande kôan. Naturalmente occorre che larelazione contemplativa si dia, perché l'esercizio del kôansia possibile nella forma richiesta dalla disciplina: la qualestabilisce la gradualità di una serie distinta di kôan,rispondenti allo sviluppo interiore del discepolo.

Riteniamo sia riconoscibile a questo punto l'elementovivo che può essere offerto dallo Zen alla tendenzaesistenzialistica quando volga alla vita. È certamenteindispensabile la conoscenza autentica dello Zen: che, comesi è accennato, non può essere questione di sempliceapprendimento intellettuale, proprio per il principio che èalla base di tale ascesi. D'altro canto, gli studi intesi apresentare l'aspetto pratico e formativo dello Zen, come uninteriore elemento energetico utile all'attuale agnosticaanima occidentale, non sempre sono esenti di un'enfasisottile che tradisce la celata tendenza utilitaria degliespositori e della loro correlazione con un pubblico affettoda analoga tendenza. Per una indistinguibile sfumaturainteriore, le trattazioni più accurate sullo Zen, non sono piùlo Zen: ed è come se parlassero d'altro.

Comunque, il moderno pensatore occidentale, oggiproprio nella sua peculiare attitudine gnoseologica ha unapossibilità di attingere nuovamente allo spirituale, in quantoafferri il momento originario del conoscere. Come indeterminato periodo di evoluzione del pensiero europeo,

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ebbe a riconoscere Novalis con il suo idealismo magico,11

ormai si è a un punto in cui il pensiero non può valere senon come vivente germe di azione: altrimenti diviene unfalso. Forse, ancor prima che a un Kierkegaard e ad unNietzsche, l'esistenzialismo positivo dovrebbe esser fattorisalire a quella misteriosa e luminosa figura di asceta epoeta che fu Novalis.

Difficile assunto quello del pensiero che si deve farevita: il problema dei problemi. L'esistenzialismo nonravvisato per quello che è, ossia come esigenza ideale, eproiettato in atteggiamenti esteriori, è divenuto semprequalcosa di grottesco e di assolutamente estraneo all'assuntoiniziale. Peraltro, ogni prescrizione riguardo all'agire nonpuò essere che “regola” e la regola è ciò che di continuol'individuo, per pigrizia interiore, ama sostituire al momentodella libertà: egli ordinariamente non ha la forza di destarein sé una relazione pura con l'esistere, tale che ogni voltaintuisca l'atto essenziale e necessario a una data situazione.Una filosofia dell'azione in senso taoistico, per l'uomomoderno, non può essere che una “Filosofia della libertà”.12

Questa in definitiva mira a render ragione del passaggiodall'essenza all'esistenza che è - secondo lo spirito delloZen - indipendente da ogni prescrizione teorica: sia chequesta si intenda come escludente l'esistenza, sia che la siintenda come includente l'esistenza, non potendo il pensieroche comunque fissi la regola, non restar chiuso dentro diessa come in un indefinito sistema, oltre il quale nulla èveramente conoscibile.

Esigenza intuita mirabilmente dai grandi asceti-

11 - Cfr. L'Introduzione di Augusto Hermet ad Inni alla notte e Cantispirituali di Novalis, Lanciano, Carabba, 1912.12 - R. Steiner, Die Philosophie der Freiheit, Basilea, Geering, 1951.

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pensatori del Mahayana e in particolare dai Maestri Zen (daquelli autentici). Infatti, risolta l'opposizione di essere edesistere, di pensare e agire, ricondotta ogni determinazioneall'originario atto interiore, la questione del passaggio dalpensare all'agire, o dall'idea alla vita, è risolta nel modo piùconcreto, in quanto è eliminata. Si tratta di comprenderecome con il moto dell'intelletto non si passa all'azione: néall'agire né al “non- agire”. Dall'ordinario pensiero non sipassa all'azione perché tale pensiero nella sua astrattezza èun circolo chiuso dal quale non c'è via d'uscita: mentre dalpensiero vivente, o pensiero essenziale, non v'è da uscire,perché fuori di esso non esiste nulla in cui si debbaentrare.13 In realtà, l'individuo empirico nella suaparticolarità non fa nulla, proprio perché si affanna ad agire,a fare: la vera azione non presuppone un pensieronormativo o una filosofia, perché la vera azione consisteappunto nel pensare vivente, o “pensiero libero dai sensi”,che certo non è la conquista di una mistica o di una dottrina,ma un evento puramente noetico che, in quanto tale, è già ilprincipio dell'agire. Né, fuori di esso, è possibile unqualsiasi agire, o un qualsiasi fare.

E per concludere: un occidentale che volesse entrarenello spirito dello Zen - e non semplicemente nellaletteratura che più o meno lo riflette - non lo potrebbe maiveramente se non convertendo in sé quel processo delpensiero razionale, che altrimenti ridurrebbe alla suaastrattezza quelle dottrine, consentendo, nel migliore deicasi, un vago sentimento del loro contenuto trascendente.14

13 - Cfr. G. Gentile, Sistema di logica come teoria del conoscere, vol.II, Firenze, Sansoni, 1942, p. 161.14 - Per l'aspetto positivo di tale possibilità, nella normale esperienzainteriore, cfr. M. Heidegger, Dell'essenza del -segue a pag.53

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Egli dovrebbe prima giungere ad afferrare le pure forzeinteriori che si presentano riflessamente e dialetticamentenel suo presente pensiero ordinario: ciò già sarebbe unportarsi alla soglia della esperienza metafisica, che appuntoè via allo Zen. Ma una simile possibilità è certamentenegata a chi non sappia vedere in tutta la scienza moderna -dalla fisica alla psicologia - una ricerca che, nella suadirezione estroversa, è valida soltanto per un mondoassunto solo in quanto esteriorità e misurabilità; il pensieroscientifico moderno, infatti, può afferrare il mondoinorganico, ma non l'organico e il vivente, così come lapsicologia attuale, valendosi di un analogo tipo di pensiero,può dall'esterno registrare e classificare manifestazionicostanti della psiche ma non giungere alla psiche.

L'errore è appunto nell'attitudine realistico-ingenuapropria alla scienza attuale che sogna, con misurazionisempre più raffinate, di giungere a percepire l' eterico o lopsichico, come se lo spirituale fosse una cosa, molto sottile,ma cosa, immobile e in attesa di essere afferrata. Da chi,infine? Visione che non cessa di essere empiristica edogmatica anche quando favoleggia di esperienzesovrasensibili: indagine il cui difetto è di non essereabbastanza scientifica per avvertire come, sperimentato ilmondo fisico, una vera scienza dovrebbe continuare non colfrugare ancora nel fisico, ma con lo sperimentare le forzeconoscitive che hanno permesso l'esperienza stessa: ché lospirituale non è una cosa da ritrovare “dopo” le cose, odopo gli atomi, ma appunto l'atto interiore a-dialettico checonsente la dialettica e che, soltanto alienandosi neiprocessi esteriori, può divenire conoscenza del mondo

fondamento, Milano, Bocca, 1952, II, “La trascendenza come orizzonte,ecc.”.

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fisico. Per cui procedere verso il sovrasensibile non può cheessere il moto intellettuale inverso a quello che si lega aicontenuti sensibili; mentre a molti sembra che, sviscerandoe raffinando sempre più questi contenuti, si possa infineritrovare lo spirito. A un “retto” pensare non può sfuggireche l'aver sostituito alla vecchia nozione di “materia” quelladi “energia”, non rimuove affatto il limite materialistico. Siè mutato nome a un rapporto disanimato con la realtà, cherimane immutato: limite inavvertito dal pensiero a se stesso,che lo Zen potrebbe risolvere, ma che simultaneamenteimpedisce di accostare il vero Zen.

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Dopo gli studi di Jung e di Baudouin in Svizzera, diLaforgue in Francia, e le ricerche delle scuole inglesi eamericane, la psicanalisi non solo è entrata con autorità dimetodologia funzionale nella pedagogia, nella sociologia enella tecnica delle scelte professionali, ma ha cominciato aorientare gli studiosi di miti, di simboli e di antichetradizioni, e perciò la stessa scienza delle religioni. Erainevitabile che nel vasto quadro della psicologia analitica diJung venisse immesso anche il Taoismo e di conseguenza loZen. Una precisa espressione dell'incontro tra metafisicaZen e psicanalisi si è avuta nel volume Zen Buddhism andPsychoanalysis, New York 1963, che riunisce i punti divista rispettivamente di D.T. Suzuki, Erich Fromm eRichard De Martino sull'argomento, esposti in unConvegno ufficiale tenutosi nel 1957 a Cuernavaca, nelMessico. Ma le collusioni, le intese e le concordanze trastudiosi di Zen e studiosi di psicanalisi, così come leacquisizioni di psicanalisti essi stessi studiosi di metafisicaestremo-orientale, continuano, essenzialmente alimentatedalla nota concezione junghiana circa l'analogia dei miti edei simboli delle tradizioni con il materiale simbologico delsogno o della fantasia del nevrotico.

L'incontro, dunque, più che da una comprensioneobiettiva delle dottrine Zen da parte della psicanalisi, èscaturito da una riduzione di esse allo schema psicanalitico.Lo strano è che a un tale procedimento si sia prestato unespositore come Suzuki, il quale ingenuamente deve aver

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creduto che la psicanalisi rappresenti il punto di vistametafisica dell'Occidente, oltre che quello psicologico. Delresto lo stesso Jung ha esplicitamente affermato che se imaestri orientali hanno veramente espresso una metafisica,non v'è speranza di capirli dal punto di vista psicanalitico. Atal proposito Jung sottolinea ciò che di lui dice MartinBuber: egli (Jung) “usa il mito come funzione, persucchiare le cose nel mondo dell'assoluto”. Ma il guaio èche questo assoluto è l'“inconscio”.

L'inconscio diviene la chiave per la spiegazione di ognimito, di ogni mistica e di ogni metafisica, non perché talechiave giunga ad afferrarne l'essenza, come contenutosuperiore e sovrasensibile, ma in quanto elimina questocontenuto, negando un'autonoma coscienza dell'io, in cui simanifesti lo spirito. “Sotto l'aspetto psicologico, ilfenomeno dello spirito (sic!), come ogni complesso (sic!)autonomo, appare un'intenzione dell'incosciente, superioreo almeno collaterale alla coscienza dell'io”, scriveJung nelsuo saggio “Spirito e vita” (1926), e più oltre: “...Lo spiritonon è soltanto un'idea o una massima formulabile, madispiega, nelle sue più forti e dirette manifestazioni, unacaratteristica vita indipendente, che è sentita come quella diun essere indipendente da noi”. Complesso indipendente,entità estranea e imperscrutabile, lo spirito viene veduto daJung né più né meno come una natura trascendente, peresprimere la quale l'uomo ricorre al simbolo. Lo spiritoquindi è fuori dell'uomo, non è tale che si attui in lui comepresenza operante o fondamento: è lo spirito senza esserloveramente. “Uno spirito che si lascia tradurre in unconcetto, è un complesso psichico compreso entro i limitidella coscienza del nostro io” (ibid. ).

È difficile stabilire se la manovra dialettica di Jung per

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esautorare la coscienza dell'Io e far rientrare lo spiritonell'ambito dell'inconscio, ivi riconducendolo a quellaineluttabile necessità cui primamente Freud conferì valoreuniversale, sia cosciente o essa stessa espressione di quelrealismo ingenuo psicologico che caratterizza la suaindagine, malgrado la capacità di connessione concettuale ela dovizia d'immagini. Capacità e dovizia che in tutta la suaopera giocano secondo uno stato d'animo, più che secondoun chiaro cosciente pensiero. A chiunque sia dotato dispirito logico ciò non può sfuggire, ma non può esserequesta la critica decisiva a un sistema impegnato nellacomprensione di un universale irrazionale. Decisivo è ilfatto che la dialettica dell'inconscio nella sua univocità nonè in vero l'idea capace di movimento, bensì l'opposto. Sefosse idea, non potrebbe non convertirsi in una conoscenzacapace di avvertire in se medesima le forze del fondamentoe non in un al-di-là della coscienza. Tale dialettica non èpensiero, ma sentimento rivestentesi di pensiero, perché ilpensiero non conosca la propria autonomia e con ciò l'io, olo spirito, non attui il proprio essere fondato su sé. Ma forseè questo il fine ultimo della vasta analisi junghiana, diretta atutte le scienze, a tutte le discipline, a tutte le tradizioni ereligioni: impedire che in esse fluisca come moto interioreil pensiero che le evoca, impedire che esse riconoscano laloro struttura come forza spirituale in atto, che la presenzadel sovrasensibile nella vita sia avvertita, come il palpitodella vita stessa, impedire che lo spirito sia ritrovato comevirtù basale dell'autocoscienza. Per questo la psicanalisi si èrivolta anche al Buddhismo Zen: perché neppure esso abbiaa sfuggire alla inesorabile fenomenologia dell'inconscio.

La psicologia analitica di Jung si accosta al mondo deimiti e delle tradizioni e tenta ricostruire la storia spirituale

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dell'uomo, mediante il simbolismo primitivo dei dipintieseguiti dai nevrotici. “...Questi dipinti hanno origineprincipalmente in quel campo della vita psichica che hochiamato l'inconscio collettivo, termine con cui intendoindicare un'attività psichica incosciente, presente in tutti gliesseri umani, la quale oggi non solo dà origine a dipintisimbolici, ma fu la sorgente di tutte le produzioni consimilinel passato” (“Scopi della psicoterapia”, 1929).

Nella direzione di un tale collegamento con il passato,molta strada si è fatta da quando una versatile scrittricefrancese, Maryse Choisy, dopo aver pubblicato un saggiodal titolo La Métaphysique des Yogas (1948) ritornòsull'argomento esaminandolo dal punto di vistapsicanalitico è scrisse appunto Yogas et Psychanalyse(1949), definendo questa sua nuova indagine come un“saggio sulle tecniche indiane della sublimazione”: cosìdava come scontato che lo Yoga fosse una pratica psico-somatica che realizzasse ante litteram il rapporto intuitodalla psicanalisi tra io e inconscio, giungendo, senz'alcunaanalisi comparata, senz'alcuna giustificazione logica ometafisica, ad ammettere che l'Atman-Brahman dellatradizione indù e l'“inconscio” di Jung siano la stessa cosa.

Introdotta questa identificazione arbitraria riguardo a unasfera essenzialmente noetica, la cui indagine già lapsicanalisi vieta a se stessa col volerne ridurre ognisignificazione, ogni espressione mitica e simbologica a uncampo d'esperienza che le risulta unicamente dallafenomenologia istero-nevrotica; stabilita con stupefacentefacilità l'identità Inconscio-Assoluto, tutti gli sviluppi di unorientalismo di un genere inaspettato, perché adeguatototalmente al fenomenalismo psichico, sono possibili. Il Taoe il Nirvana rientrano nell'Inconscio universale, non perché

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siano riconosciuti sopra-coscienti, ma perché il magazzinodei “complessi”, degli impulsi irrivelati e delle immaginisimboliche corrispondenti, si dilata dal basso verso l'altosino a comprendere tutto ciò che la coscienza umanasperimenta al limite della razionalità. La più severa critica aFreud è appunto quella di Jung che gli rimprovera l'averdato un contenuto così avvilente all'inconscio, da chiuderegli orizzonti dello spirito alla psiche umana. Jung appunto liriapre, ma senza mutare metro, anzi estendendolo a zoneproibite, non superando il monoideismo dell'inconscio, marafforzandolo, dilatandone illimitatamente il dominio, sinoall'Assoluto delle metafisiche tradizionali. Perciò in questodominio non poteva non venir incluso in un secondo tempoanche lo Zen.

Tra coloro che hanno sviluppato con mistico zelo taleveduta si distingue in particolare uno studioso francese,Hubert Benoit, di cui colpisce lo slancio di convinzione concui interpreta in chiave psicanalitica lo Zen. La sua fede e lasua buona volontà sono evidenti, il suo possesso delladialettica junghiana è sicuro e preciso, il suo amore per loZen è sincero: purtroppo, però, questa serie di elementipositivi serve soltanto a rendere ancora più plausibile allettore occidentale una posizione che, se veramente riducela possibilità dell'esperienza sovrasensibile alla estensionespirituale di un dominio sub-sensibile, è estremamentepericolosa, perché toglie definitivamente all'uomo lapossibilità di trovare uno spiraglio di luce oltre la fittacortina del mondo tecnico-meccanico e dialettico-astratto,lo priva della speranza di sperimentare la forza autonomadella coscienza come principio orientatore della sua attualeesperienza del mondo fisico. Se l'Oriente poteva ancoraoffrire un riferimento in tal senso, questo viene tagliato

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fuori da una interpretazione che, già nell'ambito dellacultura in cui nasce, dimostra la sua opposizione allospirito: onde non può entrare nel mondo delle Tradizioni.

Sembra invece che sia aperta allo spirito. Dalla mondialeaccettazione della sua dottrina, sembra che l'inconscio diJung abbia dimensione di altezza e insieme di profondità. Inrealtà la sua altezza risulta semplicemente supposta, senzacoscienza del supporla: senza quella consapevolezza chedell'ipotesi ha normalmente l'indagatore del mondo fisico omatematico, allorché pone una tesi. Ed è dovere scientificoscoprirlo.

L'Inconscio è un mondo senza sponde, che non sta acontraddire alcuna descrizione di esso: è qualcosa chemediante Freud e più specialmente mediante Jung,cercando avidamente crismi oltre il campo della psico-patologia, tende a diventare una metafisica psicologica,dato che nel tempo attuale sembra non vi sia più possibilitàdi una vera metafisica. Escogitata l'equazione Inconscio-Assoluto, oppure Inconscio-Tao, o Inconscio-Zen, oInconscio-Brahman, viene coronato il sogno dellapsicologia analitica di Jung, volto a costituire valoretrascendente ufficialmente riconoscibile all'Inconscio da luicosì diligentemente studiato nei nevrotici, nei loro sogni enelle loro produzioni pittoriche. Stabilita l'equazione, nonsolo la metafisica viene costituita, ma altresì la dogmatica,che è per esempio oggi la dogmatica di tutti i testspsicologici senza cui non si è più capaci di prendere unadecisione nel campo pedagogico, o della tecnica divocazione o dell'orientamento professionale. La metafisica,cacciata dalla porta, è rientrata dalla finestra, ma in qualiinquietanti condizioni!

Lo Zen (in realtà il suo simulacro) ha ben servito la

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causa della dogmatica psicanalitica: forse lo stesso Suzukinon è capace di supporre di quali conseguenze sia statogravido il fatto di aver ammesso, per esempio, il carattere di“inconscio” di Prajna. Dietro le parole si nascondonosempre demoni, viene ammonito dalla antica saggezza: chevuol significare questo: non adottate nomi senza chesperimentiate la realtà a cui essi corrispondono, altrimentientro il vuoto guscio di quei nomi vengono ad abitare idemoni della menzogna. Così Suzuki, nel suo volume Ilnon mentale secondo il pensiero Zen, cade nella tentazionedi usare il termine “inconscio” secondo l'accezionepsicanalitica. Nel capitolo VII, intitolato “Il risveglio diPrajna l'inconscio” egli giunge ad affermare che “ilmentale inconscio presenta i suoi stati patologici sul pianodei sensi (drstasruta) e del pensiero (matajnata), piano checorrisponde all'Inconscio della psicologia analitica.L'Inconscio è il luogo di appuntamento degli Dei e deiDemoni. A meno d'essere guidati correttamente da Prajna edi comprendere il senso e il funzionamento dell'Inconscio,si rischia di cadere nelle grinfie del mostro. L'Inconsciopsicanalitico non può andare abbastanza lontano perincludere la nozione dello stato-senza mentale”. Dovesembrerebbe affiorare l'intuizione di un limitedell'inconscio psicanalitico nonché l'idea di una saggiadiscriminazione. Ma tale discriminazione non si dà neppurenella terminologia.

L'ingenuità di Suzuki è patente: nel suo conceder cheuna parte del mentale inconscio corrisponde all'inconsciodella psicanalisi, non si avvede di aver dato modo a taleinconscio di includere tutto il resto, compreso Prajna inquanto inconscio. Nel cosmo di Jung, appena si lascia lacoscienza, entra in funzione l'Inconscio, che però, secondo

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lui, anche prima conteneva la coscienza illusa di essere dasé. Per cui non esiste, come si affanna a mostrare Suzukianche mediante diagrammi, stato psicologico e stato sopra-psicologico, ma solo livello psicologico oltre ed entro ilquale opera l'Inconscio. Suzuki crede di aver distintol'inconscio psicanalitico dal mentale inconscio superiore,ma non soltanto l'uso del termine “inconscio”, bensì anchela difficoltà a intendere il rapporto che può avere il mentaledell'uomo moderno con ciò che in quanto sopra-mentaleviene dai Maestri Zen presentato come extra-cosciente,ossia non legato alla coscienza egoica, portano questoespositore a prestare le dottrine da lui interpretate al giuocodel monoideismo junghiano. Il non mentale, o meglio ilsovra-mentale, va così a confondersi con il sub-mentale,che è in realtà l'Inconscio della psicanalisi.

Ma all'inconscio in quanto non-mentale non benidentificato, l'essere cosciente può aprirsi. Nel citato libro(II cap.), Suzuki dice: “Allorché Hung-jen consiglia alloyogi di sorvegliare il mentale, ciò può voler dire che gliconsiglia d'impedire il suo mentale individuale di fareostacolo al Mentale originario”. Però nessuno fuorché ilmentale individuale stesso può decidere ciò. Questomentale egoico, individuale, inguaribilmente cosciente di sé(per fortuna!), è quello contro cui si appuntano le accuse, lecritiche, gli attacchi degli psicanalisti come deglispiritualisti; ma, caso strano, è proprio lui che può infinestabilire di mutar rotta: nessuno fuori di lui può decidere dimetter da parte se stesso. Da chi, diversamente, sarebbemesso da parte, o messo a tacere, ridotto in stato disilenzio?

Questo punto, che è il tema dell'io, in tutto il sistema diJung rimane invariabilmente oscuro e ovunque si avviluppa

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di strane contraddizioni, onde non si riesce mai a capirequale sia il punto di partenza perché l'io possa far suol'inconscio, dovendosi aprire ad esso, senza tuttavia metteredi mezzo se stesso, anzi auto-eliminandosi, per infineindividuarsi. È evidente lo sforzo di Jung di conciliare lanozione dell'Io come epifenomeno dell'inconscio - che è laretta assunzione della dottrina fondamentale dell'inconscio -con l'esigenza ascetico-metafisica che egli non può far ameno di accogliere, nel suo tentativo di dare all'inconsciodimensione spirituale. Il Diavolo si è fatto frate: ma chi loosserva attentamente, vede spuntargli le corna di sotto alcappuccio. Certo, il Diavolo ha bisogno di menti fervide esveglie, dotate di onestà e persino di slancio mistico, perentrare nella cultura di questo tempo. Ha bisogno di logicae di spirito sistematico, purché non sia l'io a servirsene, malui: l'abbiamo detto, Es, l'Inconscio.

Hubert Benoit appunto tenta conciliare i due mondi, Zene Psicologia analitica, Tao e Inconscio, e perciò nelle sue trepiù rilevanti opere su tale tema, Lâcher prise,Métaphysique et Psycanalyse, La Doctrine Supreme selonla pensée Zen, insiste soprattutto sull'arte di aprire ilmentale ordinario al Non-Mentale metafisico. Comedicevamo, la sua buona volontà e la sua fede sono evidenti,ma non tali da renderlo indipendente dalla dogmaticapsicanalitica: la quale per lui funziona come un metodo perchiarire la più nobile dottrina estremo-orientale alricercatore occidentale, al moderno cui incomba ilproblema della coscienza. Come ogni psicanalista, non eglimuove, ma è mosso da questa formidabile analitica chepresume funzionare come una logica dell'io, senzapossedere la logica, pur giungendo a mostrare dipossederla, dato che le filosofie dell'io, della speculazione

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germanico-italica, hanno fallito il loro compito inOccidente, e dato che ormai non c'è più logico capace dichiedere conto allo psicanalista dei suoi errori di pensiero.Tutto viene spiegato o logicizzato dalla inafferrabile logicadell'Inconscio che sta fuori della ragione cosciente, comeuna logica extra-umana. Di cui però lo psicanalista èmediatore.

Una delle proposizioni centrali del volume La Doctrinesupréme di Hubert Benoit (La Colombe, Paris 1960), suonacosì: “I miei organi sono apparsi e si sono sviluppatispontaneamente. La mia conoscenza immediata intuitiva,non-dualistica non potrebbe anch'essa apparirespontaneamente? Lo Zen risponde affermativamente aquesta questione”. Occorre subito disilludere il Benoit,malgrado la sua commovente fiducia, facendogli notare chel'epoca della spontaneità è finita. Come fa a nonaccorgersene, o meglio, a non saperlo? I massimi pensatorisono d'accordo su questo, i mistici, gli indagatori, ipessimisti e gli ottimisti, i tradizionalisti e gl'innovatori:tutti sanno che a un'epoca della spontaneità, che si è chiusa,sta seguendo un'epoca dell'autocoscienza e della volontà.Da Hegel a Gentile, da Bachofen ad Aurobindo, daNietzsche a Nishida, i più grandi intuitivi sono d'accordosul carattere volitivo e razionalistico della nostra epoca.Sino alla comparsa del pensiero logico, l'uomo è stato“condotto” e la spontaneità ha caratterizzato il suosviluppo: purtroppo, da quel momento gli Dei hannolasciato nelle mani degli uomini le redini che sino ad alloraavevano essi tenute per lui. Ed è cominciata per l'uomol'epoca della responsabilità: in modo un po' discutibile,poco felice e poco estetico, ma è in verità cominciata: dovesi trova più la spontaneità? Forse nemmeno più in Estremo

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Oriente. E, nel dire questo, teniamo ben presente il generedi spontaneità a cui allude il Benoit. Il quale così pro-segue: “Per lo Zen, l'evoluzione spontanea normaledell'uomo conduce al satori. Il Principio lavoraincessantemente in me nel senso del dischiudersi del satori(come questo medesimo Principio lavora nel bulbo deltulipano verso l'apertura del suo fiore)”. Ma se ci viene ilsospetto che questo “Principio” è l'Inconscio di Jung, nonpossiamo fare a meno di ricordare la soluzione che egli dàper aprirsi all'Inconscio: essere in uno stato di silenzio e dirilasciamento e misticamente attendere che “esso” simanifesti. Secondo la “tecnica” junghiana, non c'è da farnulla che lasciar agire la potenza di spontaneitàdell'Inconscio: o del Principio, come avvedutamente diceBenoit. Discorso che se ci venisse fatto da Shri Aurobindoriguardo alla Shakti divina, o da De Molinos riguardo allaDivina Grazia, o da Meister Eckhart riguardo alla“vividezza dell'essere vuoto”, ci persuaderebbe, perchéavrebbe dietro di sé una rigorosa ascesi e una precisametodologia mistica, non si collegherebbe con un mondo dacui salgono oscuri impulsi, “complessi” ed erotismi,inclinazioni ancestrali, la cui simbologia è ricavata dallefantasie e dai sogni dei nevrotici.

Ma, malgrado l'epoca della volontà e della razionalità,l'uomo può ritrovare in sé il moto della spontaneità, non inquanto si privi della razionalità, ma in quanto la possegga alpunto da esserne indipendente e da percepirne la forzaradicale indialettica. Compito arduo e raro: arduosoprattutto per coloro che si servono del pensiero senzasaperlo e costruiscono la loro dottrina mediante il pensiero,senza riconoscere ad esso il valore che ne traggono: per cuisi pensa, per esempio, un “inconscio” che sta di là dal

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pensiero, e non si avverte che anche questo “al-di-là” vienepensato. Onde non si esce dal pensiero, perché non se nepossiede l'intimo moto: non si attinge la spontaneità. Non silascia la presa, la presa rimanendo nel pensiero, che non ècapace di scorgere i propri vincoli: che non è affaredell'incosciente, ma della logica pura: che deve essereposseduta, se deve essere superata.

Tuttavia occorre riconoscere che il Benoit (p. 194)avverte: “Un lavoro intenso e paziente del nostro pensiero ènecessario, perché noi collaboriamo con il nostro Principioliberatore”. Ma è chiaro che non potrà essere un pensierocapace di attingere il proprio fondamento, o la propriascaturigine, se trova sempre dinanzi a sé presupposto, senon opposto, questo “principio”, che inevitabilmente locondiziona, non lo lascia essere ex se, né perciò manifestarela sua trascendente spontaneità. Quindi l'esercizio delpensiero è richiesto, ma a condizione che funzioni nonsecondo se stesso, ma per la collaborazione con il“Principio”, ossia secondo qualcosa di estraneo e disuperiore al pensiero stesso e perciò dell'Io che pensa. Nondiversamente il materialista pensa la materia comeun'alterità opposta al pensiero: alterità alla cui “obiettività”il suo io deve conformarsi: onde il fenomeno fisico finiscacol dominare il ricercatore: che è il dramma dell'Occidente,il dramma dell'ottusità del pensiero, o della caduta delpensiero.

In fondo, salvo rare eccezioni, è il pensiero occidentalecaduto nel fenomenismo fisico e dogmatizzante l'esperienzasensibile, quello che è andato incontro alle dottrineorientali. La psicologia analitica di Jung è questo pensierocaduto nel fenomeno psicologico, anzi psico-patologico, epresumente assurgere alla comprensione del mondo

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tradizionale, non mediante la propria interna connessione orisoluzione bensì mediante l'estensione formale dellapropria mitica, in quanto attinga piani metafisicisemplicemente immaginati, includendoli tutti nellauniversalità di un Inconscio, rispetto al quale il pensieronon ha possibilità di liberazione o di autonomia, epperò diesaurimento del proprio dialettismo: onde non sorga ilsoggetto vero del movimento: che è l'Io, non l'Inconscio.

È notevole lo sforzo con cui, tuttavia, Hubert Benoittenta di conciliare Zen, Psicologia analitica e Pensiero, e difornire al diligente sperimentatore il miglior modo perimmergersi nell'Inconscio, e giungere così a “liberarsi”. Diche cosa, se non può attingere il punto in cui è il pensarestesso che pensa tutto questo, che non lascia la presa,proprio perché pensa di lasciarla? Tuttavia egli aggiunge:“Ciascuno di noi vive nello stato di satori e non saprebbevivere altrimenti. Quando lo Zen parla del satori nel tempo,quando dice per esempio: "Il satori piomba su noiall'improvviso allorché abbiamo esaurito tutte le risorse delnostro essere", non parla di stato di satori intemporale madell'istante in cui noi ci rendiamo conto che siamo in questostato, o più esattamente dell'istante in cui noi cessiamo dicredere che viviamo fuori di questo stato. La distinzione trail satori-stato e il satori-evento è molto importante” (p.297). Questa immagine, o questa tecnica, è al centro dellatesi con la quale Hubert Benoit tende a stabilire l'identità traInconscio e Assoluto, ossia la cooperazione tra Zen ePsicanalisi. Naturalmente si tratta di una psicologiaanalitica molto raffinata, con finezze che nemmeno Jungpossedeva, così come, d'altra parte, di uno Zen abbastanzaaddomesticato. Ma il contenuto di fondo è inevitabilmenterealistico-ingenuo.

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Non possiamo fare a meno di ricordare, per analogia, lamistica dei seguaci della Christian Science, i quali parlanodi un Divino che già c'è, è già realizzato sulla terra, così checòmpito dell'uomo è semplicemente saperlo, onde peresempio si guarisce della malattia purché si sia persuasi cheessa come tale non può esistere, è un inganno, nientepotendo sottrarsi al Divino che è la realtà dell'uomo e delmondo. Naturalmente l'idea del satori-stato che si fa satori-evento scaturisce da una visione più organica: non solo haforti fondamenti intellettuali nel Buddhismo mahayanico,ma è suffragata dalla possibilità della meditazione qualeviene insegnata dai Maestri Zen. Tuttavia non è menoingenua. La realtà divina del mondo della Christian Scienceè una visione che fa appello al potere magico di una facoltàche l'uomo moderno ha del tutto perduto, la fede, nel sensoevangelico; è perciò sostanzialmente una petizione diprincipio. La nostra critica non è rivolta alla visione di unabase soprannaturale del mondo, ma alla incapacità didistinguere l'ideale di una tale visione dalla suasemplicistica realizzazione. L'era della semplicità e dellaspontaneità invero è finita, e la riconquista di esse è operadell'“anima cosciente”: non può essere il conseguimento diun'apertura all'Inconscio, bensì di un alto rafforzamentodell'intelletto e del più raffinato spirito logico, cuicooperino devozione e severo senso della moralità.

Hubert Benoit è uno scrittore provveduto e organico, checerca di far valere le esigenze dell'Inconscio senza chesiano sacrificate quelle dell'autocoscienza. Al centro dellasua esposizione dello Zen è l'ingegnosa intuizione delrapporto tra satori-stato e satori-evento, che ha un discretopotere di convinzione, per l'elemento di verità che vive inessa come forza d'immagine, onde l'immagine, appresa e

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rivissuta, può dare la sensazione di un interiore movimento,che non è il suo contenuto intellettuale, bensì la dinamicastessa dell'immaginare.

In altre parole, l'immagine o l'idea di un còmpitospirituale, già contiene in sé qualcosa della virtù di talecòmpito: lo contiene come proprio tessuto: di pensiero od'immagine. Il ricercatore che possegga coscienza delprocesso pensante, non può non avvertire l'importanza dellosperimentare la fenomenologia di tale dinamicadell'immagine, in quanto pura forma: questa gli dà con ilsuo movimento una forza animatrice che egli dovrebbeavere la finezza di non attribuire al contenuto cui dà forma,ossia al còmpito spirituale descritto, che potrebbe, a talestregua, essere un altro qualsiasi. Forma dell'immaginare,che lo sperimentatore non sufficientemente consapevolescambia per il contenuto: mentre il contenuto vero è laforma, ossia la sostanza stessa dell'immagine con cui eglicomincia a creare. Onde la vera ascesi è l'arte di suscitarevolitivamente un immaginare che si liberi dalle influenzecorporee, epperò psichiche, e possa giungere a tale grado diobiettivazione, da manifestare la sua natura spiritualenell'anima: ma allora si rivela come attività dell'Io. L'Ioattua se stesso grazie a un'attività che è sua: comincia adavere se stesso indipendentemente da tutto ciò che, comearbitraria vita immaginativa legata al sub-cosciente, ottundee altera la vita dell'anima, togliendogli la possibilità di agiremediante essa. Non deve ingenuamente deificare erafforzare ciò che tende a togliergli tale possibilità: il sub-conscio.

Soltanto la Scienza dello Spirito può aprire oggi il varcoa un'esperienza di profondità dell'anima, epperò di unmondo sovrasensibile di forze, che si esprime

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immediatamente nella coscienza ordinaria. Esso non èl'inconscio di Jung, ma la coscienza realizzata secondol'originario suo essere, esprimentesi nella immediatezzacosciente: la chiara coscienza è il suo inverarsi, non il suosmorzarsi per lasciarsi invadere da ciò che essa non è. Nonè l'Inconscio di Jung, con la serie delle immagini che eglicostruisce senza possedere coscienza dell'immaginare eperciò non supponendo neppure l'ascesi dell'immaginare -che ha leggi matematiche e nel suo metodo strutturaessenzialmente logica - bensì il mondo stesso dell'Io chesolo può essere l'indagatore della psiche e il terapeuta. L'Ionon ha niente a che vedere con la sfera nebulosadell'Inconscio: zona che soltanto da lui dipende, essendoesso l'ente che di continuo viene chiamato in causa comesoggetto di ogni azione esterna od interna. In tal senso è larealtà presente della coscienza, il responsabile: non puòperciò che essere sempre lui a costruire un mondo psico-fantomatico a lui opposto, e opposto a lui con le forze dilui. Una sana psicologia dovrebbe dare all'Io il modo disperimentare se stesso, non conferendo forma e nomeepperò demonicità ai moti in cui la forza si aliena, maattivando la sua forza in espressioni coscienti. Una diqueste espressioni è il vivo immaginare, ossia l'immaginareche l'Io possa suscitare nella sua limpida e illimitatamobilità mediante un moto volitivo cosciente: che è l'artedella meditazione.

L'immagine del satori “stato” ed “evento”, dataci dalBenoit, è tale, nella sua sinteticità, che, come puroimmaginare, di là dal suo senso, suscita vita interiore: sutale linea occorrerebbe proseguire, ossia sul potere sinteticodell'immaginare stesso. Ma il Benoit mostra di non saperlo,perché è preso dalla fiducia nel realismo o nel contenutismo

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dell'immagine: è attirato da un interesse pratico, che non hanulla a che vedere con la dinamica dell'immagine. La qualeè viva come tale, mentre diviene astratto tutto il discorsosuccessivo, che vorrebbe fare il ponte tra l'immagine-teoriae la sua realizzazione. L'interesse a realizzare l'immagineparalizza la sua luce, che appena affiora.

Può sembrare, da tutto quanto andiamo dicendo, cheneghiamo la realtà dell'Inconscio. In verità, dobbiamoriconoscere, esiste un “inconscio” che è la poca coscienzadi sé, poca coscienza dell'Io. Perché tale scarsa coscienzaacquistasse diritto di vita, è stato concepito un Inconscioche ha il còmpito di ostacolare all'uomo di questo tempo losviluppo della coscienza di sé, che gli è urgente enecessaria. Non è chiaro se Hubert Benoit ami piùl'Inconscio di Jung o lo Zen: certo, partendo dallaformazione psicanalitica, si toglie la possibilità di ricavaredallo Zen una coscienza di sé più intensa di quella possibileper via della dottrina dell'Inconscio. Perciò non puòcompiere l'atto interiore richiesto a un discepolo moderno:non prende coscienza del moto di pensiero che, in quantoegli è pensatore occidentale, gli consente di afferrare inconcetti e in immagini quel che dello Zen, in talicondizioni, ancora è afferrabile, ammesso che possa esserlo.Gli sfugge quello che gli dà modo di intendere alcuni temidello Zen, e, sfuggendogli, gli sfugge lo stesso Zen: chedall'occidentale non può essere inteso se non mediantel'intelletto capace di afferrare se stesso come attività pura eperciò in quanto anzitutto sia libero di inconsci o internidogmatismi, ossia della inconsapevole gratuità.

Il sofisma è sempre inconsapevole. Il sofisma dello zen-analista consiste nel credere che dal pensiero giusto dellacosa si possa passare alla cosa. In realtà (come abbiamo

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mostrato in alcuni nostri studi) dal pensiero astratto non sipuò passare all'azione, perché, trattandosi di pensierodisanimato, da esso non può nascere alcun movimentoverso qualcosa: mentre, se il pensiero è vivo, il compito nonè passare da esso a qualcos'altro (che sarebbe ricadere neldualismo), in quanto esso include in sé l'oggetto e l'azione,non essendovi per esso alterità: l'alterità che invece vieneconsacrata, rafforzata e universalizzata dalla dottrinadell'Inconscio: il più ineluttabile dualismo che fantasiaumana decaduta abbia mai concepito. Il vero anti-Zen, secosì si può dire, il dualismo più oscuro, perché ignaro diesserlo.

La dualità, il dissidio, la nevrosi sono inevitabili infatti,perché è scissa l'unità della coscienza: secondo lapsicanalisi, non v'è atto cosciente che non debba rendereconto di sé a un mondo che limita la coscienza e tende ascinderla in due. Ed essendo due, non è possibile che l'unanon escluda l'altra: infatti è la dualità che non si verificamai nell'uomo cosciente, dato che la coscienza può esseretale a patto che niente la escluda, a patto di non essereefflorescenza di qualcos'altro da sé a cui, tuttavia, debba darassenso cosciente perché abbia valore: come, per esempio;al “complesso”, la cui presunta autonomia è il riconosci-mento ad esso accordato dalla coscienza autonoma.Contraddizione grave che offende la realtà e la dignità delpensiero umano. La coscienza infatti è tale in quantoinclude in sé tutti i fatti coscienti, compreso quello delrappresentare o concepire un Inconscio di cui tuttavia siritenga parte o controparte. In verità non esiste neppure laduplice forma del satori-stato e del satori-evento: vi è ununico satori che come evento metafisica si svolge là dove lacoscienza cessa di averlo estraneo epperò a sé opposto. In

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verità lo Zen non ha niente a spartire con la psicanalisi.

* * *

Ma occorre veder meglio le ragioni per cui una talecollusione tuttavia sia, su un certo piano possibile. Se siguarda attentamente, nel presente tempo, la psicanalisi diFreud e la psicologia analitica di Jung si sono imposte almondo, più che come dottrine della psiche, con l'autorità diuna metafisica. Non perché rechino in sé un superamentodel limite psicologico - che anzi permane invarcabile - maperché hanno. elevato il proprio contenuto a piani che per ladialettica stessa della loro indagine sono loro estranei e cheun tempo appartenevano al dominio spirituale. Tuttavia,come si è accennato, la psicanalisi ha potuto invadere unterreno non suo, perché alla custodia di esso non c'era più ilpensiero, non c'era più la filosofia, non c'era più il vivoelemento religioso.

Ma l'ha veramente invaso, questo terreno? Può unadialettica psicologica essere movimento del pensiero, oazione positiva della psiche? Perché invero tutta l'analisifreudiana e junghiana si riduce ad una relazione dialetticacon il soggetto nevropatico o con una immagine del mondoprecostituita, in cui non c'è spazio per l'uomo autocosciente.L'azione dello psicanalista o dell'analista sullopsicanalizzato non è un'azione dell'anima sull'anima graziealla conoscenza e al padroneggiamento delle forzedell'anima, bensì l'azione di una dialettica schematizzatasecondo varietà di stati d'animo dialetticamente supposti nelpaziente, ma impercepiti, secondo “complessi” sospinti amanifestarsi anch'essi per via dialettica: una logica analitica

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stimolante un altro genere di logica, di tipo associativo-automatico, per un'ulteriore analisi dialettica. Scambio dimeri discorsi, sotto i quali scorre sconosciuto il mondodell'anima, che l'analisi jung-freudiana presume afferrare,ma non afferra. Ma si comporta come se l'afferrasse: comese operasse realmente, o direttamente sul soggetto.

Perché altra è la vita dell'anima con il rapporto dinamicotra il suo centro e le varie sue forze, altra è laschematizzazione dialettica di tale vita, in base a unainterpretazione logico-discorsiva. Che il contenuto deldiscorso sia la psiche non significa che il discorso operisulla psiche: invece la psicanalisi si comporta come se ildiscorso operasse, basandosi sostanzialmente su un discorsoe tuttavia operando come se fosse una forza penetrante nellestrutture della coscienza, di là da ogni discorso.

Mancando essa stessa per sé di attività gnoseologica percomprendere il proprio limite, mancando di analisipsicologica riguardo al suo stesso processo d'indagine e alproprio strumento di conoscenza, usa tale strumento senzasaper nulla di esso. Da cui la sua formidabile sicurezza e lasua possibilità di influenzare vaste schiere di uomini,compresi quelli della cultura e della filosofia: uomini per iquali è troppo arduo impegno il pensare con autonomia eche in ogni campo aspirano a trovar tutto già pensato perloro. Nel campo della logica, per esempio, la logicasimbolica, nel campo della psiche, la psicanalisi. Cosìquesta analisi della psiche è penetrata dovunque, per il fattoche non v'è problema moderno che non implichi il datopsicologico. Dalla pedagogia alla scienza delle religioni,dalla sociologia alla tecnica, la psicanalisi freudiana el'analitica junghiana, scisse oppur abilmente riunite, hannopotuto penetrare tutto, interpretando e dettando legge, sino

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a divenire non soltanto uno strumento di approfondimentod'indagine, ma altresì un modo di concepire la vita.

In un'epoca in cui la filosofia e la coscienza religiosadeclinano, lo psicanalista ne può assumere agevolmentel'eredità e spaziare in tutti i campi un tempo ben tenuti daquelle. La psicanalisi, e in particolare la psicologia di Jung,ha sconfinato in zone della metafisica e della scienza dellereligioni, dando la sensazione di penetrarvi con unaconcretezza che mai prima di tale assunto si fosse avuta:onde gli indeboliti filosofi, i carenti metafisici, gli astrattistorici delle religioni e gli esangui teoretici di tutti gliattuali sistemi del sapere, hanno trovato infine un alimentocon cui rafforzarsi e rinsanguarsi e dare contenuto al loroconoscere. Perciò dicevamo che queste dottrine della psichesi sono affermate con l'autorità dell'antica metafisica.

Se dogmi nuovi, o peggio, idoli nuovi, dovevano sorgerein forma insospettabile, nel mondo moderno, con tutti icrismi della razionalità e le parvenze della esperienzascientifica, indubbiamente sono venuti mediante la dottrinadell'inconscio: soprattutto se si pensa che questo inconscioviene concepito come un “al-di-là” della coscienza,totalmente dominante la coscienza e da cui la coscienzadipende senza residui, salvo la speranza recata da Jung diuna “individuazione” e di una stabilità dell'essere coscienteconquistabile dall'uomo a patto che conosca l'arte di aprirsiall'“inconscio”. Mancando a tale concezione il minimosenso di critica gnoseologica, sembrerebbe ingenuo ormaichiedere agli assertori della psicanalisi con quali forze lacoscienza può concepire un inconscio, che non siano forzeappartenenti alla coscienza stessa. Perché, o l'inconscio èuna trascendenza, veramente condizionante ogni atto dellacoscienza, e allora veramente c'è poco da fare e sulla linea

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dell'accettazione della ineluttabilità degli istinti e dell'erroredel contraddirli, ogni moderno disfacimento della psiche sipuò giustificare sino al pacifico scatenamento criminale deiminori; oppure non è una trascendenza, ma allora crollatutto l'edificio freud-junghiano. Ma non può crollare in unmondo come l'attuale che ha perduto il pensiero e che nonsa scorgere il primario elemento cosciente nell'attivitàpensante necessaria a concepire, per esempio, un“inconscio” o un pre-cosciente.

La salvezza, anzi l'eventuale salvezza, secondo Jungconsiste nella possibilità di portare a compimento ilprocesso di individuazione, mediante cui infine l'esserecosciente, dischiusosi all'“inconscio”, lo assume in sé epone termine a tutti i pericoli del dissidio che per oratravaglia l'intera umanità e la travaglia da millenni. Dunque,il discorso, che era cominciato per i nevrotici, sotto il segnodella psichiatria, si estende a tutta l'umanità come se sitrattasse di una specie endemicamente nevrotica: l'iocosciente non è che un'efflorescenza dell'inconscio equalsiasi attività di questo “io”, ove voglia essereautonoma, contraddice l'inconscio: da cui tutti i malidell'anima e della coscienza e le loro conseguenze fisiche.

Stando così le cose, anche l'“io” del fondatore dellapsicanalisi è necessariamente una filiazionedell'“inconscio”: l'“inconscio” parla attraverso Freud,attraverso Jung. La loro dottrina è una manovradell'“inconscio” pienamente riuscita. Perché, per poter dareuna dottrina dell'inconscio, scientificamente concreta,occorre porselo dinanzi come un mondo obiettivo. Ma chilo pone innanzi a sé? L'indagatore manovratodall'“inconscio” stesso, inevitabilmente: il quale così cirivela che tutta la psicanalisi non è che l'“inconscio”

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penetrato in lui e agitante lui e dettante le sue fascinosepagine. Ché, se si volesse opinare l'esistenza di un principiocosciente, con un minimo di autonomia rispettoall'“inconscio”, l'edificio psicanalitico crollerebbe. Lalogica della psicanalisi, portata alle sue ultime conseguenze,nega l'io, nega un principio indipendente della coscienza,che abbia in sé autonomia e sia fondato su sé ossia su unsuo proprio mondo, e perciò non sull'inconscio. Qui sicoglie la contraddizione a cui accennavamo: contraddizioneche non può non far supporre qualcosa come un'inadegua-tezza mentale sotto la smagliante e immaginosa concezionepsicanalitica: specialmente junghiana. V'è da sospettare che,per impedire all'uomo attuale la possibilità di difesa dallanevrosi e dall'angoscia ossessiva, per togliergli la possibilitàdi riconoscere la funzione del sistema nervoso nei suoirapporti con la coscienza, è stato prospettato comescientifico un rapporto psicosomatico che non esiste perchéconcepito sulla base di una supposta dipendenza della vitaistintivo-emotiva dal sistema dei nervi: donde la legittimapersuasione di un'impossibilità di reale autonomia dellacoscienza rispetto a tale vita.

Per essere vera, la dottrina dell'inconscio, per essereconcepita come una scienza della psiche, deve essere ilprodotto di un'attività della coscienza, la quale non puònegare la propria realtà senza far crollare ciò che afferma.Non esiste scienziato o studioso o indagatore che possaparlare di qualcosa che non sia per lui fatto cosciente.Anche se parla di un “al-di-là” della coscienza o disentimenti, o ispirazioni, o intuizioni extra-sensibili, oistinti, o impulsi, o forme pre-coscienti, ne può parlare inquanto nel momento in cui se li rappresenta li sperimentacoscientemente, ossia razionalmente. Non c'è mondo extra-

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razionale che possa essere rappresentato, descritto eanalizzato, senza che divenga esperienza razionale.Prescindiamo, per ora, dalla tradizionale critica mossa allapsicologia, la quale non può occuparsi dei fenomeni dellacoscienza, se non in quanto non li possiede più, in quanto lirievoca riducendoli ad astratta rappresentazione; evolgiamo l'attenzione verso ciò che è veramente la garanziadi ogni analisi scientifica e di ogni sostanziale sapere, ossiala realtà dell'atto cosciente, la cui concretezza è avere in séfondamento per cui si pensa confidando di pensare il vero,onde l'errore è sempre identificabile non in quanto siabolisca il pensiero o la coscienza, ma in quanto si chiedaallo stesso pensiero un più essenziale movimento: che è lagaranzia della cultura e del progresso umano. Mentrel'attacco della psicanalisi alla coscienza umana esige, peressere fatto, l'atto della coscienza stessa. Ma essa appuntonega la realtà di tale atto, ricorrendo ad esso per la certezzadell'asserto.

Se ne deve dedurre che si può diventare psicanalistiproprio in quanto dell'“inconscio” non si abbia la minimaesperienza, dato che si è manovrati da esso, ed è esso che siesprime come principio cosciente. Situazione che, pensatasino in fondo, porterebbe a stabilire che Freud e Jung, equest'ultimo in particolare, furono invasati dall'inconscio edescrissero in stato di trance, o di medianità, qualcosa di unmondo che essi stessi non potevano sperimentare: non giàche lo rievocassero da svegli, come colui che ha sognato facon il sogno, perché in tal caso avrebbero contrapposto unostato di coscienza concreto e lucido a uno nebuloso e in uncerto senso irreale: la cui nebulosità e irrealtà, pertanto,sono evocabili grazie alla coscienza. Occorre dire chel'inconscio parlò sempre attraverso essi, usando il loro

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elemento individuale, così che fu inevitabile per essimettere in dubbio la consistenza di tale elementoindividuale, anche là dove sono stati sul punto diaffermarlo. E lo scopo fu appunto questo: distruggere lapossibilità che la psicologia dell'uomo moderno trovassel'Io, ossia il soggetto di ogni movimento della coscienza, ilresponsabile, l'essere libero perché non legato ad alcuninconscio, non dominato da alcun idolo rivestito dipaludamenti scientifici, l'essere libero e perciò portatoredella moralità: l'essere che, per la sua sostanziale struttura,può sempre vincere l'angoscia e la paura.

In verità l'Io che è stato perduto in sede filosofica dalpensiero astratto, sia idealistico, sia materialistico, è statoannientato in sede psicologica dall'opera di Freud e di Jung.E perché uno spiraglio verso la spiritualità e la trascendenzadell'Io non si corresse il pericolo di averlo ancora grazieallo stimolo delle dottrine orientali e in particolare delMahayana, e perciò dello Zen, Jung provvide - mosso daquella intelligenza raffinatissima nella distruzione del“sacro”, di cui l'inconscio è provvisto - a far rientrare nellavisione psicologico-analitica il senso ultimo dellemetafisiche orientali. I suoi epigoni hanno provveduto alresto, e stanno sempre più metodicamente provvedendo. Manon lo sanno, perché tutto è preventivamente spiegato dalsistema psicanalitico, persino il tipo del nostroatteggiamento critico.

Che cosa gli psicanalisti debbono pensare dello Zen èsuggerito da quel che Jung, commentando il Tao-te-ching,intuisce del Tao, nella sua opera I tipi psicologici (Cap. V,3, d), trattando “Il simbolo unificatore nella filosofiacinese”. Egli così si esprime: “...L'immagine originaria chesta a base del concetto di rta-Brahman-Atman e del

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concetto del Tao appartiene a tutta l'umanità, e si trovacontinuamente e ovunque come concetto di energiaprimitiva, come forza psichica, o in quale altro modo lo sivoglia designare”. È evidente la confusione che lo Jung fanon soltanto dello “psichico” con lo “spirituale”, ma anchedello “psichico” con lo speculativo: l'inconscio psichicoinvolge tutto, inghiottisce ogni altra dimensione e, una voltaavendola inghiottita, può benissimo identificarsi con il Tao.Allora il Tao ha forza redentrice: “Ci si identifica con il Taoo con l'infinita “durata creatrice” - come possiamo dire percollegare con i più antichi predecessori questo recentissimoconcetto filosofico (come si vede, l'inconscio continua ainghiottire, questa volta Bergson) - giacché Tao è anche ilcorso del tempo” (ibid.). Ma viene subito smentito dallostesso Lao-tze che dice (Tao- te-ching, 21): “Il Tao è unagrandezza sovra-razionale, dunque del tutto inafferrabile:inesplicabile, incomprensibile, esso contiene l'essenza dellospirito”. Non è dunque il corso del tempo, che è unacategoria mentale, bensì lo spirito che regge tra l'altro ancheil corso del tempo: due cose, come si vede, ben diverse.

Questa nostra messa a punto è appena un accenno di ciòche criticamente andrebbe detto riguardo alla intrusione diJung in un campo dottrinario che ai suoi mezzi d'indagineappare vietato. Ma l'inconsapevolezza dei limiti,l'incapacità di una coscienza gnoseologica - che purtroppoda qualche decennio è un bene filosofico sempre più raro -riguardo· al concetto stesso di coscienza e del suo rapportocon il mondo dell'anima - che neppure la distinzione traanimus ed anima riesce a rapportare all'esperienza delpensiero quale relatore originario - unite a una specialeduttilità espositiva e a una vivacità di connessioneconcettuale, come a una gratuita epperò ardita sistematica,

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hanno consentito a Jung di entrare illegittimamente nelcampo delle metafisiche, delle mistiche e delle religionid'Oriente e d'Occidente, con autorità, per distruggervi ilsenso del sacro. Niente, nessuno viene in tal sensorisparmiato: né Lao-tze né Buddha, né Eraclito, né Pitagora,né tradizione romana, né Cristianesimo: la conversione disan Paolo corrisponde alla “accettazione di una situazionefino allora inconscia, e alla rimozione (sic!) di unprecedente orientamento anticristiano, che in seguito si fecenotare nei suoi attacchi isterici” (Ibid., definizione di“fantasia”).

La funzione avuta da Jung nel mondo attuale ai fini diuna eliminazione del “sacro”, getta una luce allarmantesulla sua psicologia e sugli influssi da questa esercitati sullacultura contemporanea. Quando coloro che agiscono come“luminari della scienza” si servono della loro indagine perdemolire l'elemento spirituale a cui unicamente l'indaginedeve la sua possibilità di movimento e il suo magistero, nonv'è da stupire che l'uomo medio, in tutto ormai condizionatoda quanto gli prescrive la scienza, cessi di considerare lagerarchia delle facoltà interiori e il valore dell'etica, erespinga di conseguenza il Divino, covando un'oscura eassurda rivolta dal basso verso tutto ciò che è elevato,nobile e dignitoso. La colpa non è della cultura di questotempo, ma di coloro che mediano i grandi ossessivimonoideismi, di cui essa, in quanto non più soccorsa dallospirito, si va alimentando.

Or è un secolo l'idea di inconscio si è affacciata nellafilosofia occidentale attraverso tre pensatori, Schopenhauer,Carus e von Hartmann. Non è errato vedere in questeassunzioni speculative dell'inconscio la filiazione del caputmortuum lasciato fuori della possibilità del conoscere e

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limitante il pensiero umano, da Emanuele Kant, con la sua“cosa in sé” inaccessibile alla coscienza umana e pur reale:concepita unicamente mediante il pensiero e pur vista comeimpenetrabile al pensiero. La volontà di Schopenhauer,l'inconscio di Carl Gustav Carus e di Eduard von Hartmannsono presupposti mentali, ossia atti della coscienzafilosofica che limita se stessa e, oltre il limite, intravvede unmondo “psichico” o “extra-razionale”. Ma di questo nonpuò vedere se non ciò che può esserle cosciente, per cuiogni volta la nozione di inconscio viene eliminata dal fattoche, per dirne qualcosa, deve cessare di essere inconscio:onde in realtà non c'è mai, e tuttavia viene ogni voltasupposto, mediante un pensiero che per esserci, deve esserepensiero cosciente. Discorso che porterebbe a conclusionisevere riguardo a questi responsabili del conoscere umano,che hanno in partenza rinunciato alla vera indagine dellacoscienza, proiettando fuori di essa ciò che non sono staticapaci di afferrare in sé stessi.

In effetto da una indebolita coscienza filosofica, nel temadell'inconscio ingenuamente e confusamente trattato, èpotuto riaffiorare il dogmatismo e riprendere vita ilcadavere dell'antica metafisica (non la metafisica).Dall'impotenza gnoseologica della speculazione occidentaleè sorta la possibilità che del tema dell'inconscio siimpossessassero esclusivamente la psicoterapia e lapsicologia e che a un determinato momento, SigmundFreud rovesciasse il rapporto: non più la filosofiailluminava dall'alto l'indagine dell'inconscio alla psicologia,bensì la psicologia con autorità prendeva le redini dellaricerca e ne traeva le conclusioni non soltanto per se stessa,ma anche per la filosofia, e persino per la religione. Vennepoi Jung che estese questa autorità suggeritrice dei loro

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significati ultimi alle mistiche, alle tradizioni e a tutte lemetafisiche. Il problema dell'anima, chiuso ed estraneo persempre al dialettismo filosofico, diveniva il campo diricerca di un dialettismo ancora meno provveduto, maprovveduto di linguaggio scientifico e di presunzionemetafisica, nonostante la sua incapacità metafisica e la suaimpossibilità di concepire che nell'anima si debba entrarecon forze essenziali dell'anima e non con la glossolaliapsicanalitica. I colpi decisivi alla possibilità che la civiltàdella macchina si collegasse con le forze di una direzionesuperiore del mondo, venivano così micidialmente inferti.

Che cosa dunque ha a che fare lo Zen con la psicanalisi?Nulla, a meno che non si tratti di un nominalismo Zen,bisognoso di riconoscersi nelle manifestazioni delpanpsichismo inconscio, in quanto sia costretto a trovare inesso un contenuto che non abbia saputo accogliere dallametafisica di cui si presenta come discorso: che come merodiscorso non dovrebbe esser mai fatto, secondo cheammonisce Hui-neng. Se lo Zen, invece, è ancora l'ecodella saggezza mahayanico-taoista e almeno come ecointenda continuare a serbare fedeltà al suo essere originario,allora non può concedersi nessuna identificazione con unsistema meramente dialettico, che non risulta scienza dellapsiche, bensì psicologia dell'uomo caduto, o dell'uomo chepone il problema della coscienza ignorandone ilfondamento, perché venga meno definitivamentenell'individuo la responsabilità di essere cosciente di sé.

Come un edificio non può essere eretto senzafondamento, così non si può edificare la coscienzacominciando col toglierle la virtù del suo principio, ossia lapossibilità di essere se stessa. Soltanto una chiara ecristallina coscienza può conoscere i limiti che via via deve

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superare in sé per ascendere a espressioni più vaste di ciòche è nell'essenza: perciò oltre il limite psichico attua unavita spirituale, che non è l'Inconscio, ma esattamente ilcontrario, ciò che non si lascia afferrare dall'Inconscio. Jungstesso ammette di non avere vocazione metafisica, matuttavia si comporta come se l'avesse: perciò non riesce adavere consapevolezza del fatto che il suo sistema, la suapsicoterapia, la confessione, l'interpretazione dei sogni e deisimboli, sono in sostanza un'attività del rappresentare cheegli usa senza possedere, ossia senza conoscere le leggi delpensiero.

Se tutto è rappresentare, persino il dialogo con ilpaziente, l'arte dovrebbe essere il possedere la sostanza ditale rappresentare, per entrare nel suo circuito di forze: cheJung usa formalmente, ma che come sistema di forze gli èirrimediabilmente estraneo. Solo se lo potesse afferrarecome sistema di forze, potrebbe dire di entrare in qualchezona dell'anima e di comprendere la metafisica taoistica,non certo come forma dell'Inconscio collettivo. Ma in talcaso dovrebbe aprirsi a una percezione diversa della psiche:quella che invece ha operato accuratamente a togliere dimezzo: il senso dell'essere sacro dell'anima umana. Talesenso non dovrebbe mancare a chiunque presumaintervenire come terapeuta nei fatti dell'altrui coscienza.Jung mostra di non possedere il mezzo interiore perintendere l'elemento metafisico e pur tuttavia la suaindagine coinvolge mondo metafisico, mondo mistico ereligioso, mondo mitico e onirico, costringendoli entro illimite empiristico-psicologico, senza saperlo, senza avernecoscienza. L'assunzione dogmatico-metafisica è inco-sciente, usa la coscienza di Jung, il quale così riconosce a sestesso la missione di negare auto-fondamento alla

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coscienza. L'Inconscio ha veramente giocato Jung econtinua a giocare tutti coloro che sono impigliati nella suadottrina, come nelle sue conseguenze scientifiche eculturali.

Crediamo così di aver mostrato come l'ipotesi del malepsichico inconscio che si fa idea, secondo la giustaintuizione avuta da Pierre Janet - prima di Freud -sull'isteria e le idee fisse subcoscienti, sia da tener presenteriguardo al panpsichismo inconscio di Jung. Altra è l'ideadell'inconscio come atto del pensiero che risponde a unapercezione o obiettivamente la segue e intende, altro èl'inconscio che d'autorità si fa esso stesso idea. Il rapporto èinvertito: la percezione afferra l'idea e la subordina a sé.

L'arte essenziale dell'uomo è trasformare la sensazionein pensiero: si può dire che questa facoltà riassume lamissione dell'uomo, perché ogni errore è sempre lasensazione che invale possedendo la coscienza, e la puòpossedere in forma legittima se assume veste di pensiero.L'idea fissa può vestirsi di logica e di valore culturale sino adivenire un universalismo in sé articolato e dialetticamentein regola. Con ciò non è dimostrata la potenza univocadell'Inconscio come vogliono Freud e Jung, bensì lapotenza dell'Inconscio nell'uomo indebolito in cui si èafflosciata la funzione dell'Io, come intuiva Janet. Ipotesigrave che non si può non sentire la responsabilità dienunciare dinanzi all'attuale sfacelo della psiche umana eall'abdicazione del pensiero riguardo a un'oscura idea sortaempiricamente e astrattamente come non-essere dell'attoconoscitivo, impegnato tuttavia a conoscere un temaaccolto come reale in quanto inconoscibile: l'Inconscio.Onde l'Inconscio è l'oggetto, ma simultaneamente non puòesserlo, per la sua stessa dialettica, anzi finisce col divenire

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il soggetto. Ma questo divenire soggetto è il prendere illuogo dell'Io: di Freud, di Jung, nella forma ben nota:secondo un impulso opposto a quello che conduce allametafisica, al Tao, allo Zen.

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Sinora i presentatori occidentali dello Zen non sono statifilosofi, ma, se si escludono gli orientalisti, si deve dire cheha rivolto piuttosto la sua attenzione scientifica ad esso ilmondo degli psicologhi. In particolare la psicanalisi hatentato far suo lo Zen, ammesso che questo sia possibile. Inun precedente articolo15 abbiamo mostrato come anche insede teorica una simile inclusione sia illegittima, e quandosia stata tentata dottrinariamente, lo sia stata a spese di unaserie di posizioni paralogistiche, e soprattutto dell'equivococirca l'assunzione dell'“inconscio” come “universale” al dilà della coscienza, mai veramente percepito o sperimentato,e tuttavia dato come risultato di esperienza. Ma chi di talistudiosi può dire di averla mai compiuta? Un simile“universale” è stato talmente posseduto nel suo meronominalismo dalla letteratura psicanalitica, che è statapossibile la presunzione di un rapporto e in qualche mododi un'identità di un simile “universale” con quello che è alcentro delle dottrine Zen: prajna, il tao, il non-mentale, ilsatori. Si è talora stabilita l'equazione non-mentale=non-cosciente, ossia tao=Inconscio. Una cosa poco seria,probabilmente favorita dal fatto che alcuni espositori delloZen, come Suzuki o Ch. Luk, hanno in buona fede credutoche l'inconscio fosse, almeno per i suoi massimi studiosieuropeo-americani, un'esperienza conseguente a uno statomeditativo.

Di là dalla coscienza riflessa, il non-mentale dello Zen è

15 - “Zen e psicanalisi”, Il Giappone, V, 1965, pp. 145-160.87

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simultaneamente l'immediato reale: non v'è testo taoistico,o tecnica meditativa tradizionale, che non alluda ad essoprospettandolo come immanenza assoluta. Dialoghi,racconti, aforismi, giuocano tutti intorno al temadell'iniziativa del meditante, della sua fondamentalità inquanto soggetto dell'esperienza, della sua possibilità dilenta graduale eliminazione di ogni trascendenza, sino allaabrupta identità con essa. Non v'è che l'imbarazzo dellascelta a voler esemplificare il caso in cui un discepolo vienesarcasticamente o bonariamente o enigmaticamenteammonito a liberarsi degli ultimi vincoli della maya, che gliimpediscono l'identità con l'Assoluto. V'è persino il famosoepisodio di un breve duello di saggezza tra due maestri:reciprocamente, con botta e risposta, ciascuno scoprenell'altro un residuo di dualismo.

L'“alterità” che il filosofo occidentale esorcizza, o nega,o reifica, o consacra, per il discepolo Zen è il segno dellasua soggiacenza alla visione dualistica e perciò alla maya:non è irreale l'obiettività del mondo, bensì è irreale lo statomentale onde quella viene subita come pensierodell'obiettività, epperò venendo assunto come separazioneciò che invece ricomincia a essere unità per il fatto chesorge nel pensiero: onde il Tao non è realizzato, ma velato.Il velo è il pensiero, il mentale: il velo che occorre togliere.In poche parole, si può dire che la dottrina è questa. Ma nonv'è chi non veda che di là dall'arbitrio della psicanalisi, sev'è una dottrina che teoreticamente ha in sé i presuppostinoetici dello Zen, questa è l'idealismo europeo, inparticolare l'idealismo logico (Hegel) e l'idealismoattualistico (Gentile).

Diciamo Hegel e non Fichte né Schelling per unaragione che fu inizialmente compresa da Feuerbach quando,

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nel suo primo saggio di critica allo hegelismo (che si puòdire segna l'inizio di vita della sinistra hegeliana) affermòche, mentre la tradizione filosofica schellinghiana è “unaspeculazione di tipo orientale, un'identificazione acritica eassoluta di infinito e finito”, “la caratteristica della filosofiaspeculativa hegeliana è invece del tutto occidentale inquanto si basa sulla differenza” (il corsivo dei due attributiè nostro).

Feuerbach ha ragione: la logica del concetto è un eventotipicamente occidentale, rispetto a cui le posizioni di Fichtee Schelling si possono tipologicamente considerareorientali. Ma proprio perché tipicamente occidentale, laspeculazione hegeliana si può considerare affine allo Zen.Sembrerebbe contraddittorio affermare che Hegel è piùvicino allo Zen che non Fichte e Schelling, ma in effetto ècosì, per il fatto che in questi due filosofi permangonoresidui mistici inavvertiti, mentre in Hegel tutta la natura èrisolta nell'attività dello spirito, almeno teoreticamente.L'aveva intuito Nishida Kitarô che ai suoi discepoli, amicidello Zen, consigliava di meditare la Scienza della Logicadi Hegel, acciocché purificassero il pensiero daldialettismo, sì che la dialettica si riassorbisse nella suascaturigine e non costituisse ostacolo alla disciplinadhyanica. Nishida Kitarô sapeva che il pensiero riflesso orazionale è il pensiero caduto e che nel mondo modernoquesto stato di caduta del pensiero è giunto a codificare sestesso non soltanto con la produzione scientifica etecnologica, ma anche filosofica: perciò egli rimandava ataluni temi dello hegelismo, come all'identità di essere enulla e alla dialettica dell'essenza.

Al nobile pensatore giapponese è stata possibile unacomprensione dello Hegel, alla quale non sono pervenuti i

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discepoli medesimi che furono intorno a lui: comprensionedovuta all'esercizio di dhyana, in ossequio al principio chenon si può seguire la vita del pensiero senza sperimentarnein sé la fonte meta-dialettica. L'origine appunto non-mentale. Proprio in base a una tale posizione, che èfondamentalmente Zen, è possibile una criticadell'idealismo medesimo, da Berkeley a Hegel a Gentile,compreso l'idealismo antologico e fenomenologico. Infatti,una volta ammesso che tutto il conoscere e lo sperimentareè riducibile al soggetto che conosce e sperimenta, un similepunto di partenza - che dallo Zen è utilizzato praticamentecome disciplina del puro soggetto - nell'idealismo dà luogoa un filosofare che proclama centro dell'universo umano eextra-umano questo soggetto semplicemente logico odialettico: un soggetto che rimane quello che è nella suagrama esistenzialità con tutti i suoi limiti e le suepresunzioni e tuttavia si erige a dominatore del creato. Nonche non lo sia potenzialmente, ma altra è la potenza, altro èl'atto: lo Zen insegna che un metodo, uno sforzo, unadisciplina, conducono a realizzare ciò che dell'Io essenzialeè contraddetto dalla sua presenza contingente e dall'ottusitàdell'intellettualismo.

Fu questa assenza di prassi che a un determinatomomento motivò, soprattutto come un bisogno diriconnessione con la concretezza del mondo sensibile, ladeviazione a cui è legata la nascita della cosiddetta “sinistrahegeliana”: fu in sostanza una graduale e irresistibile, anchese rispettosa, contestazione dell'aspetto metafisico delladottrina del maestro. È utile citare un passo di L. D.Trotskij, che riassume limpidamente la situazione: “Grazieal poderoso impulso impresso al pensiero dalla RivoluzioneFrancese, Hegel anticipò il movimento generale della

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scienza. Ma proprio perché si trattava solo diun'anticipazione, anche se da parte di un genio, Hegel lediede un carattere idealistico. Hegel operava con ombreideologiche come se fossero la realtà ultima. Marx dimostròche il movimento di queste ombre ideologiche non facevache riflettere il movimento di corpi materiali” (Da InDefence of Marxism, in Scelta di Scritti 1905-1940, trad. L.Maitan, Samonà e Savelli, 1968). È importante la sintesi diquesta posizione di fondamento del materialismo dialettico,perché lascia aperto il varco all'ipotesi che la costruzionedottrinaria marxiana sia stata possibile per il fatto che a undeterminato momento al pensiero umano è venuta meno lapossibilità di sperimentare la zona meta-dialettica delprocesso pensante. Qui è afferrabile che cosa puòsignificare al concreto pensiero occidentale lo Zen: unmotivo più radicale di quello suscitabile nel pensieroorientale medesimo.

L'aver costruito il cosmo dialettico senza offrire unpunto di partenza pratico all'esperienza meta-dialettica delpensiero è stato fatale allo hegelismo. Già non è stato senzaconseguenze nel tempo, epperò anche sulla filiazioneattuale della “sinistra hegeliana”, tipo Adorno (certamente ilpiù indipendente della cosiddetta “Scuola di Francoforte”),Horkheimer, Marcuse, Habermas ecc. Vi si potrebberoincludere anche Lukàcs, Korsch e diversi altri che,malgrado il loro marxisrno, rivelano una struggentenostalgia per Hegel. Il fatto è che la contestazione, per ilvizio d'origine accennato, rimane uno sterile eserciziofilosofico, malgrado le conseguenze pratiche che sembraavere: le quali nella loro bruta fattualità non hanno nulla ache vedere con la teorica a cui si appellano. Tale teorica èsoltanto giustificativa. Non c'è relazione tra teoria e prassi,

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tra pensiero retoricamente rivoluzionario e azionerivoluzionaria: si è perduto l'anello più prezioso dellacatena, quello a cui si alludeva allorché si ricordava ilrapporto di un moderno filosofo giapponese, NishidaKitarô, con lo hegelismo. Discepolo e istruttore Zen,Nishida aveva trovato nella dialetttca l'anello tra il non-mentale e la prassi. Il mentale era, in senso pragmatico, ilmediatore presupposto: l'azione interiore, dhyana edharana, invece, era la prassi diretta, o più immediata, perl'essere meta-dialettico, ossia per l'“essere”.

Quanto andiamo considerando tende soprattutto arilevare come sia mancata al pensiero filosofico occidentaleuna presa di coscienza dell'elemento pragmatico insitonell'esperienza del pensiero puro, come nella meditazioneZen. La dimensione di cui manca questa cultura, la cuimassima culminazione ancora oggi è lo hegelismo disinistra, rinnovellato, contestatario, in senso politico ecritico, è appunto la prassi meta-dialettica del pensiero.Perciò nessuna delle contestazioni può approdare a nulla.Quasi tutti i pensatori europeo-americani di questo tempohanno la loro accusa, o la loro contestazione da muovere almondo moderno, in nome di una loro specifica posizionementale. Sarebbe interessante stabilire quanti di costorosarebbero infelici se l'attuale mondo fosse diverso da quelloche è. Il sospetto che molti di essi, malgrado il loroaccoramento e il loro pessimismo, in questo mondomoderno si trovino a loro agio, è piuttosto giustificato.

Dai testi del Mahayana alla disciplina dello zazen, ilgiudizio riflesso viene considerato l'ultimo impedimento delmeditante: il più difficile a superare. In realtà, un'accusaintellettuale, proprio in quanto espressione di undeterminato livello dell'intelletto, non è nulla, non ha reale

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vita non ha nulla da veramente opporre o da apportare aquesta accusata civiltà. È solo una posizione mentale: delmentale moderno, che tra l'altro giuoca a prendersela controse stesso. Ma in definitiva è sempre lui, qualcosa come unasecrezione del male stesso a cui allude e che non mostra diaver veramente compreso se infine il rimedio che proponeè, per esempio, l' azione violenta.

Attenendosi come a una misura al concetto di prajna,come alla dimensione di cui è mancato il pensierooccidentale, si può ammettere che l'esperienza umanaattuale abbia diritto di dirsi vera, obiettivamente sicurasoltanto sul piano della ricerca scientifico-matematica.Occorre riconoscere che dove si pesa, si misura e sicostruisce meccanicamente, ci si muove con obiettività, conchiarezza, almeno nella forma logica. Ma la realtà non èsoltanto misura, numero, peso: anzi si può dire che l realecomincia là dove, superando le misurazioni, si è capaci diafferrare ciò di cui esse sono segno. Considerazione questatanto semplice da sembrare pedestre: eppur tale che non si èpiù capaci di farla. L'esperienza del conoscere è falsata dalfatto che si identifica il reale con il misurabile. Per esempiosi misura il firmamento, lo si percorre spazialmente e sicrede di averlo penetrato, mentre ancora non si è capaci dipenetrare nel mistero della vita di un filo d'erba.

Quella che secondo le dottrine Zen è l'essenza delpensiero (hua tu), è presupposta dall'indagine, ma ignorata.In effetto non viene negato il mondo dell'immisurabile, odell'anima, o della qualità: anzi si tiene spesso a mostrareche tale mondo ha funzione decisiva e che ben altrodominio è quello dell'agnosticismo o del materialismo. Ilmale è che volgendo al mondo dell'anima o alsovrasensibile, si presume afferrarlo con lo stesso metro

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con cui si afferra il mondo delle quantità misurabili. Non sisospetta che lo stesso mondo sensibile, concluso incategorie fisico-chimiche, logiche e tecniche, è astratto.

Disanimata astrazione è quella che, assumendol'esteriorità semplicemente misurata, la tratta come unaconcretezza: la chiama realtà e la prospetta come se lapossedesse. Con ciò si può dire che lo stesso mondosensibile rimane estraneo all'indagatore. L'equivoco siaggrava quando si presume riconquistare una dimensioneinteriore e vivente, come se si dovesse cercare medianteuno sviluppo ulteriore dell'indagine rivolta a questo mondosensibile, ossia procedendo ancora nella direzionedell'astrattezza con cui esso è stato assunto.

In breve si sogna, per esempio, che portando ai suoiestremi sviluppi la ricerca nucleare, si giunga al sovra-sensibile: non si suppone neppure che la direzione verso ilsovrasensibile sia esattamente l'opposto, per il semplicefatto che ogni percezione e perciò ogni sensazione siinverano mediante un moto della coscienza che sperimentail dato esteriore di continuo riconducendolo a sé secondouna direzione inversa a quella del suo darsi. L'esperimentonucleare, portando al limite del percepire sensibile, è quelloche, dal punto di vista di una ricerca assoluta, o di unaricerca secondo lo spirito, esigerebbe la massimacontrapposizione di pensiero, ossia, per dirlahegelianamente, la massima possibilità di negazione dellanegazione nell'atto conoscitivo: si potrebbe dire la massimapresenza interiore, o la possibilità della coscienza vuota(shunyata) come dinanzi al più ermetico kôan. Al contrario,invece, viene attuata una vera e propria dignificazionemetafisica, sia pure in termini logico-scientifici, del datofisico. L'atto conoscitivo, privo della sua legittima

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integrazione, rimane qualcosa di seriamente unilaterale, inquanto il fenomeno nucleare c'è, ma non esiste pensierocapace di assumerlo: non sorge consapevolezza dalla suacontroparte interiore. Nessuno si sognerebbe di ricercaredentro lo specchio l'oggetto specchiato: eppure chi crede diarrivare allo spirito mediante lo sperimentare nucleare sicomporta in tal modo. Si comporta come se non esistesse ilsoggetto dello sperimentare fisico, che è appunto lo spirito.Si comporta come se egli, in quanto soggetto del processo,non esistesse. Una simile situazione oggi è comune aidiversi sistemi della scienza, malgrado il procedimentologico-matematico di cui si giova la loro indagine.

La presente vorrebbe essere l'epoca del limpidorazionalismo, della matematica, della esattezza. La realtà èche questa civiltà manca di ciò che presume soprattuttoavere: la logica, che non può essere semplicemente quella“formale”. Come viene rilevato dai maestri Zen, lo stato dishunya riassume e risolve in sé tutta la logica umana: realee formale. La logica del satori non è una struttura dialettica,ma un puro essere intemporale. I post-hegeliani non furonopiù capaci di intendere ciò che Hegel voleva intenderecome puro essere, o come identità di essere e pensare.Perciò oggi la logica c'è, ma quanticamente: una logicaatomistica, priva del “dedurre immanente”, esatta, analitica,ma insufficiente all'esistere concreto. Un tecnico, unrazionalista o un intellettuale di questo tempo, ha la suazona logica in un certo impegno quotidiano, ma tra questa eil resto della sua vita, ossia le altre zone dotate della lorologica, non c'è rapporto. Così nel mondo della cultura, cosìsul piano sociale e politico.

Ciò che poteva giungere come dono dalla saggezzadell'Estremo Oriente non ha avuto in Occidente il pensiero

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capace di pensarlo. Lo Zen è stato esso stesso culturizzato edialettizzato. Il pensiero occidentale, vincolato al sensibile,ha smarrito l'interna dimensione, lo hua tu. La serie dellesensazioni quotidiane asserve il mentale dell'uomo odiernosino alle operazioni speculative. Perché la sensazione siaesperienza dell'individuo, occorre che egli l'abbia, non nesia avuto. L'accumularsi di sensazioni nella psiche più diquello che essa abbia capacità di elaborare, elimina ilsoggetto umano. Un tempo l'uomo aveva la possibilità diopporre al mondo delle sensazioni un elemento etico-religioso che ormai non lo soccorre più. È necessaria unascienza dell'uomo interiore, prima che una sistemazione delsapere esterioristico e tecnico. Occorre comprendere comeogni percezione esiga dall'uomo un'attività interiore checorrisponda al darsi di essa, prima che all'uso che egliintende farne o alla sensazione di cui egli voglia godere.

La conoscenza dello Zen non dovrebbe essere perl'occidentale una compensazione al mentale automatizzato,ma lo stimolo a una penetrazione del momento meta-dialettico del suo processo razionale: momento intuitivomediante cui lo spirito si fa autocoscienza nel suo rapportocon il mondo fisico, traducendo in capacità di esattaindagine il suo movimento, ma simultaneamente in unapossibilità ignota al mondo antico, alla “tradizione” e perciòall'Oriente: quella di afferrare il movimento estrinsecatosinell'indagine. Questa possibilità, decisiva per la civiltà, nonè stata attuata. L'indagine si è vincolata al fenomeno: né èderivata l'esperienza positiva del mondo fisico, che è senzadubbio il segno di una peculiare forza, ma di una forza cherimane ignota al razionalista, pragmatista o tecnologo chesia. Di questa forza l'Occidente dovrebbe assumereconsapevolezza, perché in tal senso è necessaria al mondo e

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perciò anche all'Oriente. Ma la consapevolezza non èfilosofia della scienza, bensì atto interiore, tipo Zen o Yoga.Ogni percezione si dà unicamente grazie a un moto dellacoscienza rispondente a uno stimolo esteriore. Tale motoesige non essere escluso dall'uomo allorché egli proseguel'esperienza, perché solo esso può suggerire l'ulteriorecomportamento di lui in rapporto al fenomeno.Naturalmente invece il fenomeno, in quanto avvenuto,afferra l'uomo, diviene più importante dell'atto interiore cheha dato modo di penetrarlo. L'uomo preso dal fenomeno,bisognoso continuamente del fenomeno per avere pensieri,deificante il fenomeno e incapace di riconoscere ciò cheegli vi immette, perciò incapace di controllare il sensoultimo del fenomeno, non può avere rapporto morale conciò che egli produce come cultura e civiltà tecnologica.

Né lo Zen, né lo Yoga, né alcun'altra disciplina orientaleavrebbero potuto condurre lo spirito dell'uomo all'indaginefisica della natura e all'esperienza scientifico-tecnica. Se siguarda la Cina odierna, non v'è grandezza che essa vanti,industriale-meccanica o ideologico-politica, che nonappartenga all'Occidente. Ciò significa che entro ilmaterialismo occidentale scorre una forza che ancora deveessere identificata: una forza che la coscienza ancora non hacome proprio contenuto. L'attività interiore dell'uomo neldedicarsi all'indagine fisica ha conseguito uno stato dilucidezza o di veglia, di esattezza consapevole, che lascia instato di sogno, o di non coscienza, l'interiore movimento dacui deriva: movimento vitale a cui invece dovrebbeattingere consapevolmente almeno attraverso un minimonumero di ricercatori, per avere il contenuto della forzacome virtù d'orientamento riguardo al fenomeno indagato ealla legge accertata. Lo scienziato moderno ogni volta

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dovrebbe rendersi conto delle forze interiori messe in attonel penetrare il fenomeno, ma non conosciute, venendoconosciuto solo il fenomeno.

Al giusto uso del fenomeno sarebbe stato logicamentenecessario non il pensiero legatosi ad esso, ma quellooriginario attivo in esso: originario, ma non posseduto cometale. Là dove la funzione di questo pensiero originario vieneimpedita, agisce un pensiero che non viene dallo spirito, mada forze ad esso avverse. Non è soltanto la situazione delloscienziato, ma indistintamente di tutti coloro cheappartengono alla presente civiltà: la percezione sensoriapossibile unicamente mediante attività dello spirito, escludeogni volta lo spirito. Tale contraddizione sta divenendo ognigiorno il male regolare dell'uomo: dell'anima e del corpo.Non può non essere la via verso la metodica distruzionedella psiche. Il pericolo non è una politica, o unorientamento culturale o una corrente sociale o altro, ilpericolo è il fatto che lo squilibrio dell'uomo mobilitasempre più essenziali forze della razionalità, per costituirela propria normalità.

Se lo Zen invero non ha incontrato l'Occidente.l'Occidente non ha saputo prendere coscienza della forza-pensiero con cui ha costruito la civiltà tecnologica. Lacontestazione è il conato ultimo di un idealismo di sinistraprivo del mordente della praxis interiore a cui lo hegelismodeve l'elemento positivo della sua struttura. Lo Zen sta aricordare la tecnica interiore risvegliatrice della coscienzameta-dialettica di simile praxis: il cui senso è untrascendimento che all'Oriente cessa di essere necessario, ocessa di avere significato, mentre acquisisce il suooriginario significato per il pensiero occidentale, in quantoattività interiore alienata nell'assoluto formalismo esteriore.

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Difficile è afferrare la terapia di una simile alienazione,quando la si reifica e si proietta in rappresentazioni disituazioni sociali, o quando si traduce in ulteriore posizionedialettica, ossia in ulteriore prodotto dell'alienazione.

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INDICE

Prefazione 5

I - Affinità di tradizioni antiche - L'Uovo del mondo e l'Uccello Hamsa 9

II - Zen e interpretazioni occidentali 19

III - Attualità di Nishida 37

IV - Zen ed esistenzialismo 43

V - Zen e psicanalisi 55

VI - Zen, idealismo, “contestazione” 87

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