Working Papers n. 89 - unipa.it · Ma, a prescindere da ciò, il punto è che la sociologia non è...

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PAOLO JEDLOWSKI CHE COSA SIGNIFICA CHE LA REALTÀ SIA UNA COSTRUZIONE SOCIALE”? UN SEMINARIO DI TEORIA SOCIALE Working Papers n. 89

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PAOLO JEDLOWSKI

CHE COSA SIGNIFICA CHE LA REALTÀ SIA UNA “COSTRUZIONE SOCIALE”?

UN SEMINARIO DI TEORIA SOCIALE

Working Papers n. 89

Il Dipartimento di Sociologia e di Scienza Politica dell'Università della Calabria intende con questi Working Papers proporre alla discussione risultati, anche in-termedi, di attività di studio e di ricerca realizzate. Le pubblicazioni sono artico-late in tre serie: studi (copertina rossa), ricerche (copertina blu), rassegne (co-pertina grigia). Il comitato scientifico che autorizza le pubblicazioni è nominato dal Consiglio di Dipartimento ed è costituito da Vittorio Cappelli, Laura Corradi e Osvaldo Pieroni con l'ausilio redazionale di Roberto Cipparrone.

PAOLO JEDLOWSKI

PROFESSORE ORDINARIO DI SOCIOLOGIA PRESSO L’UNIVERSITÀ “L’ORIENTALE” DI NAPOLI

CHE COSA SIGNIFICA CHE LA REALTÀ SIA UNA

“COSTRUZIONE SOCIALE”? UN SEMINARIO DI TEORIA SOCIALE♦

SOMMARIO: Introduzione, p.5; 1. La sociologia fenomenologica, p.7; 2. Anticipazioni e

dintorni, p.19; 3. Comunicazione e costruzione sociale della realtà, p.29; 4. Prospettive di ricerca: alcuni esempi, p.38; 5. Qualche discussione recente, p.46; Conclusione, p.58; Appendice; p.69.

Introduzione

Sono passati quarant’anni dalla pubblicazione del libro di Berger e Luckmann The Social Construction of Reality, tradotto in italiano col titolo La realtà come co-struzione sociale1.

Nel tempo trascorso sono successe a riguardo diverse cose. Innanzitutto, il li-bro di Berger e Luckmann è diventato notissimo. In secondo luogo, l’idea della re-altà come costruzione sociale, in un senso o in un altro, è diventata patrimonio condiviso dalla maggior parte dei sociologi e degli scienziati sociali. Infine, anche in seguito ad alcune radicalizzazioni di questa idea, si è sviluppato un dibattito in-teso a superare quest’ultima nella direzione di un rinnovato “realismo”.

♦ Il testo corrisponde alle lezioni tenute il 6-7 giugno 2006 all’Università della Calabria nell’ambito della Scuola dottorale che raggruppa i Dottorati in Sociologia delle università di Co-senza, Firenze e Perugia, ed è stato rivisto, annotato e moderatamente ampliato dall’autore per que-sta pubblicazione. Le argomentazioni proposte presuppongono una discreta conoscenza della storia della sociologia. Per questo, agli studenti iscritti era stata suggerita la lettura preliminare del manuale di F. Crespi, P. Jedlowski e R. Rauty, La sociologia. Contesti storici e modelli culturali (Roma-Bari, Laterza, 2000). 1 P. L. Berger, Th. Luckmann, La realtà come costruzione sociale, tr. it. Bologna, Il Mulino, 1969. L’edizione originale uscì nel 1966.

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In questo intervento mi concentrerò soprattutto sul secondo di questi punti. Che l’idea in questione sia diventata patrimonio delle scienze sociali “in un senso o in un altro” significa infatti che l’idea non ha un significato univoco, e che questo si-gnificato merita dunque di essere esplorato. Per il modo in cui esporrò il mio di-scorso, i termini del terzo punto si troveranno ad essere parzialmente riformulati: l’idea che la realtà sia una costruzione sociale non comporta infatti in se stessa al-cuna rinuncia al realismo, e dunque non mi pare necessario alcun superamento; se mai, si tratterà di affinare l’idea di che cosa sia la “realtà”.

In generale, va premesso che l’idea della realtà come costruzione sociale si ap-poggia su un presupposto comune a tutte le scienze sociali a partire dal Settecento: il presupposto che riconduce alla società la responsabilità delle proprie forme. Se-condo tale presupposto, le forme che le società umane hanno assunto nel tempo non corrispondono a un disegno divino né all’automatismo della natura: corrispon-dono bensì al dispiegamento di meccanismi collettivi - ancorché largamente incon-sapevoli ed inintenzionali - che producono le società in rapporto stretto, ma non de-terminato, con gli ambienti entro cui si sviluppano.

Dire che la realtà è una costruzione sociale è in fondo, innanzitutto, dar nome a questo presupposto. Pionieri delle scienze sociali come Adam Ferguson o come Karl Marx condividevano l’assunto che siano gli uomini a fare la storia, anche se non come credono di farla. La realtà sociale - le istituzioni, i costumi, le forme diverse che la vita in comune viene ad assumere nel corso del tempo - dipende dall’azione degli uomini. Ma anche la realtà extra-sociale, almeno per alcuni versanti, è altrettanto socialmente costruita. Certo, non vi sarebbe alcun senso nel dire che non esista un sostrato naturale su cui le nostre costruzioni si edificano, ma nel corso della storia gli uomini interven-gono sulla natura e la cambiano, così come modificano incessantemente la propria stessa natura, i propri bisogni, le proprie facoltà e i modi di intenderle.

Dire esplicitamente che la realtà sia una “costruzione sociale” significa però usualmente specificare questo presupposto in modo tale da renderlo qualcosa di simile ad un “paradigma”. Un paradigma che in verità comprende infinite varianti e in cui confluiscono o da cui si dipanano innumerevoli altre correnti, ma la cui unità può essere colta almeno in questo: nel comune rigetto dell’assunto del positivismo più ingenuo, quello per cui la conoscenza consisterebbe in un mero “rispecchia-mento” della realtà.

Questo paradigma - se così possiamo chiamarlo - ha avuto la sua formulazione più nota nel libro di Berger e Luckman. La sua diffusione si è giovata dell’influsso congiunto di correnti diverse come la filosofia del linguaggio di Wittgenstein e l’ermeneutica filosofica di Gadamer. Fra i suoi esiti, in modo indiretto possono es-sere annoverate posizioni radicali come quelle che appartengono al postmoderni-smo, e, in modo più diretto, formulazioni che appartengono al main stream delle scienze sociali come la teoria della strutturazione di Giddens. Fra le sue applica-zioni, si possono contare ricerche sulla costruzione del genere e sulla costruzione sociale delle tecnologie, ricerche sulla devianza e ricerche sulla formazione dei mercati, studi sulle rappresentazioni sociali, riflessioni sul modo in cui sono defini-te le “razze”, alcuni aspetti degli studi “post-coloniali”, e altro ancora.

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Anticipando ciò che cercherò di illustrare, direi che questo paradigma si com-pone di almeno tre affermazioni (variamente presenti o variamente accentuate nelle correnti di cui parlerò, ma tutte presenti nella formulazione di Berger e Luckmann).

La prima è che che tutto l’insieme di ciò che chiamiamo “realtà” è colto dagli esseri umani attraverso la mediazione di quadri simbolici e cognitivi di natura so-ciale (come, innanzitutto, quelli forniti dal linguaggio che usiamo), solidali con le pratiche che contraddistinguono forme di vita determinate.

La seconda è che una parte di questa realtà, quella che potremmo chiamare la “realtà sociale” (vale a dire le forme stesse di questa mediazione simbolica, le isti-tuzioni e i vari tipi di azioni e interazioni sociali) è il risultato dell’azione e dell’interpretazione congiunte di pluralità di individui, sia nel senso che tali azioni e interpretazioni congiunte ne sono all’origine, sia nel senso che tali azioni e inter-pretazioni congiunte sono ciò che costantemente la riproduce (o la trasforma).

La terza è che tale risultato è però usualmente rimosso in quanto tale, cioè per l’appunto in quanto “risultato”. Appare piuttosto come il modo in cui la realtà si configura “naturalmente”: non come “prodotto” di alcunché, ma come “dato”.

Questo insieme di proposizioni è tutt’altro che specifico della sociologia. Esso appartiene infatti al campo della teoria sociale, vale a dire a quell’insieme di rifles-sioni che non pertengono a una scienza sociale in particolare, ma che sono comuni a tutte.

Per la nozione di “teoria sociale” mi rifaccio qui alla formulazione che ne offre Anthony Giddens. Ne riporto alcune parole:

“Lasciatemi sottolineare - scrive - che io faccio uso del termine ‘teoria socia-le’ per circoscrivere una serie di questioni che ritengo riguardino tutte le scienze sociali. Tali questioni hanno a che fare con la natura dell’azione u-mana e del soggetto agente; con il modo in cui vanno concettualizzate l’interazione e i suoi rapporti con le istituzioni; e con il modo di affrontare le dimensioni pratiche dell’analisi sociale. Per converso, intendo la ‘sociologia’ non come una disciplina generica che ha a che fare con lo studio delle società umane, ma come quella branca delle scienze sociali che si focalizza in parti-colare sulle società moderne o ‘avanzate’”2.

2 A. Giddens, The Constitution of Society, Berkeley, University of California Press, 1984, pp. xvi-xvii (T.d.A.). Poco oltre puntualizza: “Il termine ‘teoria sociale’ è indubbiamente impreciso, ma ha una sua grande utilità. A mio modo di vedere, la teoria sociale comprende l’analisi di questioni che ri-mandano alla filosofia, ma non è in se stessa un dominio filosofico. Il punto è semplicemente che le scienze sociali sono perse se non vengono collegate alle problematiche della filosofia. Ma chiedere che gli scienziati sociali siano attenti a questioni di filosofia non significa consegnare le scienze socia-li nelle braccia di chi rimprovera loro un carattere speculativo e non sufficientemente empirico. Le teoria sociale ha il compito di fornire concezioni della natura dell’attività sociale degli uomini e dell’attore che possano essere poste al servizio del lavoro empirico. Il principale interesse della teoria sociale è lo stesso di tutte le scienze sociali: illuminare i concreti processi della vita sociale. Sostenere che le discussioni filosofiche possano contribuire a tale obiettivo non significa supporre che tali di-scussioni debbano essere risolte una volta per tutte prima che una ricerca sociale adeguata possa esse-re avviata. Al contrario, gli sviluppi della ricerca sociale gettano luce sulle controversie filosofiche tanto quanto è vero l’inverso” (ivi, p. xvii).

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Sull’elenco di questioni di cui la teoria sociale è chiamata a occuparsi si po-trebbe discutere 3. Allo stesso modo si potrebbe discutere sulla definizione della sociologia. Che questa si occupi prevalentemente delle società moderne è vero, ma nulla in linea di principio la limita a queste: di fatto, molti sociologi si sono occu-pati e si occupano anche di altre società.

Ma, a prescindere da ciò, il punto è che la sociologia non è per Giddens l’unica scienza a cui la teoria sociale offre i suoi servigi o da cui è sollecitata: la teoria so-ciale è un campo più vasto al cui interno trovano modo di svilupparsi concetti che hanno a che fare con tutte le scienze sociali (antropologia, psicologia sociale, so-ciolinguistica, economia e quant’altro).

Sul piano storico, che la teoria sociale sia un luogo di intersezione fra scienze sociali diverse è effettivamente incontrovertibile. In ogni caso, è a questa nozione che mi atterrò, con l’avvertenza però che, a mio avviso, il campo delle teoria socia-le è definito, ancora più che dai suoi oggetti, dal tipo di pratiche che ospita: le pra-tiche teoriche che corrispondono alla ricorrente messa in questione dei presupposti (e in una certa misura anche delle conseguenze) che informano le teorie circoscritte e le ricerche che sviluppiamo nel nostro lavoro.

L’idea che la realtà sia una costruzione sociale appartiene dunque a questo campo. Potrebbe essere discussa in riferimento a qualsiasi disciplina sociale. Per ragioni di competenza, è allo sviluppo di quest’idea e alle sue applicazioni all’interno della sociologia che riferirò il mio discorso.

Procederò dunque, grosso modo, così. Nella prima parte, cercherò di chiarire quale fosse il contenuto della proposta di Berger e Luckmann, e nella seconda la metterò a confronto con altre prospettive più o meno affini. Nella terza, metterò in evidenza il ruolo che il linguaggio e, più in generale, i processi comunicativi hanno nei meccanismi di costruzione sociale della realtà. Nella quarta ricorderò, a titolo esemplificativo, alcuni degli ambiti di ricerca in cui l’idea che la realtà sia una co-struzione sociale è stata applicata. Infine, nella quinta, accennerò ad alcune discus-sioni più recenti che hanno a che fare con il paradigma discusso.

È ovvio che il discorso non potrà essere esaustivo. In ogni caso, ciò che non fa-rò è proporre che il paradigma - se così lo si può chiamare - della costruzione so-ciale della realtà sia l’unico paradigma legittimo nelle scienze sociali. Penso davve-ro che gran parte delle acquisizioni che fanno capo all’idea che discuteremo siano ineliminabili dal nostro lavoro. Ma, a prescindere dagli eventuali limiti di questo paradigma, la cosa di cui ho più paura è la riduzione delle idee a slogan. Quanto diventano tali, sono inservibili: per conservarle in vita, spesso bisogna riaffermarle con parole diverse. Del resto, sono seriamente persuaso dell’idea che Goethe met-teva in bocca all’antagonista di Faust: ci sono più cose fra cielo e terra di quanto possano stare nel pensiero di un uomo.

3 In La costituzione della società, mi pare che lo stesso Giddens si occupi anche di altre questioni, oltre a quelle incluse nell’elenco citato. Per una prima discussione degli ambiti di cui la teoria sociale può occuparsi rimando ai saggi contenuti in M. Calloni, A. Ferrara e S. Petrucciani (a cura), Pensare la società, Roma, Carocci, 2001.

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1. La sociologia fenomenologica

Due storie, per cominciare

Inizierò con due storie. La prima, credo di averla letta in un libro di Eviatar Ze-rubavel, ma non l’ho più ritrovata. Non importa. La storia grosso modo è la se-guente.

Un rabbino è stato a lungo nel bosco in preghiera. Dopo molti giorni in solitu-dine, rientra al villaggio. Ai margini del villaggio, l’osteria a cui intende fermarsi è tuttavia chiusa. Se fosse sabato, sarebbe naturale. Ma è venerdì, e il rabbino si stu-pisce che non vi sia alcuna attività.

L’oste è in casa. Vedendo il rabbino dalla finestra, gli scende incontro. A sua volta, è sbalordito di vedere in viaggio il rabbino: infatti è sabato, e al sabato la legge ebraica proibisce ogni genere di attività, viaggi compresi. Tuttavia, vedendo in viaggio il rabbino, uomo autorevole, si convince di doversi essere sbagliato: se il rabbino è in viaggio, non deve essere sabato. Dunque, apparecchia e cucina.

Alla fine, si scoprirà che era sabato. Era il rabbino a essersi sbagliato: a causa della sua lunga permanenza appartato, aveva perso il conto dei giorni.

Ma il punto, almeno per noi, non è questo. Il punto è che venerdì e sabato non esistono in natura. Sono nomi che gli uomini, gli uomini di una società determina-ta, hanno dato ai giorni. Tali nomi non hanno la stessa realtà che hanno il sorgere ed il calare del sole. E tuttavia sono anch’essi reali: hanno infatti caratteristiche ed effetti concreti: il venerdì - giorno feriale - si fanno certe cose; il sabato - dedicato al Signore - se ne fanno altre.

Questa realtà è dunque diversa da quella della natura ma non è meno “oggetti-va”. È però una realtà costruita dagli uomini. Costruita dagli uomini, è ricostruita e preservata ancora dagli uomini, attraverso accordi intersoggettivi taciti ma di asso-luta efficacia. Nessuno può dire impunemente da solo che “oggi è sabato”, o “oggi è venerdì”. Il rabbino e l’oste, infatti, non possono fare a meno di coordinarsi: l’uno o l’altro dei due deve sbagliarsi. Sulla base di questo accordo, l’ordine della realtà è preservato, e le pratiche di ciascuno possono dispiegarsi in modo solidale.

Se non vado errato, la storia serviva a Zerubavel per mostrare come il tempo sia, per così dire, “messo in forma” dalla società. I nomi dei giorni, con le relative prescrizioni che a giorni diversi si associano, non esistono in natura. Sono sociali. Ma ciò non significa che non siano reali. Hanno la realtà che proviene loro dal fatto di essere condivisi entro una certa società, che ha costruito il suo modo di intendere il tempo nel corso della sua storia, fino al punto che questo modo finisce per essere inteso quasi come “naturale”.

Su di un piano generale, relativamente al tempo, il punto era già stato discusso da Durkheim. Basandosi sui lavori degli allievi Hubert e Mauss, nel capitolo finale

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di Le forme elementari della vita religiosa4 Durkheim aveva infatti sottolineato come le forme entro cui ciascuno di noi percepisce lo spazio ed il tempo abbiano origine sociale. Si radicano nel linguaggio che usiamo, solidale a sua volta con le pratiche e le forme specifiche di adattamento all’ambiente proprie di ogni società.

Sul ruolo del linguaggio nel dar forma alla nostra percezione della realtà do-vremo tornare. Ma non è soltanto la lingua a contare, bensì il discorso, cioè le cose che si dicono nel corso delle interazioni. Il che è illustrato dalla seconda storia. È La vita è sogno di Calderon de la Barca5. In breve, si tratta di questo.

Sigismondo, principe ereditario di un immaginario regno di Polonia, è prigio-niero in una torre, e non sa di essere principe. A causa di una profezia, infatti, era stato imprigionato appena nato. A un certo punto, per caso, la sua identità però gli viene svelata: di conseguenza si reca a corte, dove è sì riconosciuto come il princi-pe ereditario, ma dove si mostra così dispotico e crudele che il re suo padre lo fa addormentare e, nel sonno, riportare alla torre.

Qui, al risveglio, ricorda gli eventi appena trascorsi: tuttavia, nessuno dei servi che sono con lui glieli conferma.

Non si è mai allontanato dalla torre, essi dicono: ha solo dormito. Di fronte alla concordanza di tutti i testimoni che è in grado di interrogare, Si-

gismondo decide dunque di “avere sognato”. Lasciamo da parte le conclusioni del dramma (e le intenzioni filosofiche di

Calderon). Il punto è che la storia di Sigismondo è un ottimo esempio del carattere vincolante che le definizioni sociali della realtà - ciò che viene detto essere “la real-tà” - hanno per un individuo. In questo caso, in particolare, per la rappresentazione che egli ha del suo stesso passato.

In mancanza di testimonianze, di conferme, di un discorso collettivo che lo so-stenga, il ricordo personale non regge, e muta di segno: da ricordo di qualcosa di “reale” diventa ricordo di un sogno.

Sigismondo è ciò che gli altri dicono che egli sia, ed è stato ciò che dicono sia sta-to. Certo, il suo caso è eccezionale, nella misura in cui presuppone un inganno concer-tato. Per la maggior parte dei nostri ricordi, naturalmente, le cose non sono così radica-li. Ma resta vero che il discorso collettivo fornisce le coordinate che costituiscono la struttura di plausibilità dei ricordi di ognuno: se qualcosa non è plausibile - cioè reali-stico, sensato, simile o coerente con altre cose dette da altri - diventa difficile per me stesso prestarvi fede. Quando non è la plausibilità a essere in gioco, lo è quanto meno la rilevanza di ciò che ricordo: ciò che nessuno intorno a me conferma o menziona ten-de a scomparire, e, se non sparisce, tende a diventare irrilevante (o, per converso, terri-bilmente e segretamente rilevante: ma questo è un altro discorso).

Insomma: anche una cosa personale come la mia memoria autobiografica si i-scrive nel discorso collettivo. Da questo - cioè dall’interazione con gli altri - ricava sostegno o viene minata. Nella misura in cui io sono un membro di una collettività, per continuare a esserlo non posso che cercare un compromesso fra ciò che ricordo e ciò che si ricorda, tra ciò che voglio dire e ciò che si può dire: la mia interpreta-zione del passato si iscrive in una rappresentazione collettiva.

4 E. Durkheim, Le forme elementari della vita religiosa, tr. it. Milano, Comunità, 1963. 5 Calderon de la Barca, Teatro, Torino, UTET, 1984.

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Ma la questione non riguarda soltanto le definizioni del passato, bensì la realtà nel suo insieme. Se tutti intorno a me credono che esistano streghe (o che esistano i virus, per fare un esempio diverso), è probabile che io stesso vi creda. Se nessuno attorno a me lo fa, è improbabile.

Essere “normali” in fondo non significa altro che condividere le definizioni della realtà che sono correnti nell’ambiente sociale entro cui viviamo.

È esattamente quello che spiegano Berger e Luckmann nel loro libro.

Alfred Schutz ed il “senso comune”

Come è noto, si tratta di una ripresa di ciò che, negli anni precedenti, andava insegnando Alfred Schutz alla New School for Social Research di New York.

Schutz è il fondatore della cosiddetta “sociologia fenomenologica”. Gli studen-ti di sociologia ne conoscono l’opera dai manuali, e sarò dunque molto sintetico a riguardo.

Il pensiero di Schutz rappresenta uno dei momenti della storia della sociologia in cui questa è più consapevole del fatto che nessuna rappresentazione del mondo di cui possiamo disporre (tanto nel pensiero quotidiano quanto in quello scientifi-co) è il semplice rispecchiamento di una realtà le cui caratteristiche sono date una volta per tutte. Come scrive:

“non vi sono puri e semplici fatti: [...] vi sono sempre fatti interpretati [...]. Ciò non significa che, nella vita quotidiana o nella scienza, noi non siamo ca-paci di afferrare la realtà del mondo. Significa che afferriamo solamente certi aspetti di essa, cioè quelli che sono rilevanti per noi”6.

L’approccio di Schutz è “fenomenologico” nel senso che ha alle spalle la filo-sofia fenomenologica neokantiana di Husserl. La parola “fenomeno” deriva dal greco fàinomai, che significa “apparire”, “mostrarsi”. La fenomenologia è dunque lo studio di come la realtà appaia agli esseri umani.

Il modo in cui la realtà appare agli umani dipende in primo luogo dalle caratte-ristiche biologiche dei nostri apparati percettivi. A un gatto, a un cane o a un altro animale la realtà appare in modo parzialmente diverso che a noi: l’uccello vede più lontano, ma d’altro canto non può contare sull’olfatto; il cane vede meno lontano, ma ha un apparato olfattivo più sviluppato del nostro; e così via. Queste differenze non significano che l’uno o l’altro degli esseri viventi considerati - uomo compreso - non abbiano alcun rapporto con la realtà indipendente dai sensi: se nessuno di noi si è ancora estinto, vuol dire che in qualche modo l’apparato percettivo di cui cia-scuno di noi è dotato consente una presa efficace sull’ambiente. Segnalano però che la realtà che si offre ai sensi è più vasta e meno univocamente determinata di quanto non siamo usi pensare.

In ogni caso, è caratteristico degli esseri umani il fatto che all’operazione selet-tiva dei sensi si sovraimpone una selezione operata dalla cultura. Noi “mettiamo in

6 A. Schutz, Saggi sociologici, tr. it. Torino, Utet, 1979, p. 5.

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forma”, per così dire, la realtà che percepiamo attraverso meccanismi di mediazio-ne simbolica.

La realtà è sempre afferrata infatti da noi entro certe categorie (cognitive, ma capaci di strutturare in parte la nostra stessa percezione): sono ciò che Schutz chiamava i “tipi”. Ogni cultura in fondo non è altro che un repertorio di “tipi” di elementi della realtà grazie a cui diamo ordine a ciò che percepiamo.

D’altro canto, questi tipi corrispondono anche a pratiche congruenti: le routi-nes, cioè i corsi d’azione consolidati grazie a cui noi agiamo in gran parte del tem-po senza dover ogni volta pensare di nuovo a come atteggiarci.

Tipi e routine, nel loro insieme, costituiscono per Schutz la parte principale del nostro senso comune. Quest’ultimo è l’insieme delle definizioni della realtà - e dei modi congruenti di agire al suo interno - che è diffuso all’interno di una cerchia so-ciale e viene considerato ovvio dai suoi membri. È ciò che “ciascuno crede che tutti credano”7.

In un certo senso, il senso comune è la cultura stessa, ma in quanto è naturaliz-zata, cioè protetta dal dubbio che le cose possano essere percepite altrimenti, che vi siano altri modi possibili di intendere la realtà e di comportarsi. Esso corrisponde all’atteggiamento che mette fra parentesi il dubbio che le cose possano stare altri-menti da come appaiono entro la cornice della nostra cultura.

È dunque il modo di pensare caratteristico della vita quotidiana, ovvero della vita ordinaria di chi è immerso in problemi pratici, rispetto ai quali il mondo in se stesso non è problematico, ma costituisce l’ambiente “dato” entro cui, se mai, i suoi problemi si pongono.

La generazione di un senso comune dipende per Schutz da necessità antropolo-giche. È una questione di “economia”: in relazione a problemi ricorrenti, gli esseri umani tendono a stabilizzare le soluzioni che sono apparse efficaci, consentendosi così di liberare la propria attenzione per i problemi ancora irrisolti. E che tale solu-zioni siano condivise facilita l’interazione con altri. Naturalmente, ciò che viene avvolto entro la cornice di un senso comune e viene dunque dato per scontato può sempre ritornare al centro dell’attenzione; ma non tutto può esserlo simultaneamen-te: una certa base di pre-giudizi dati per scontati sulla realtà è necessaria. L’uomo che mettesse tutto in discussione simultaneamente non potrebbe muovere un passo.

Vi sono però alcune componenti del senso comune che hanno una dimensione più psicologica che pratica, attinente alla necessità umana di dare un ordine al mondo mettendo argine alla vertigine dell’infinito. Ciò è stato recentemente messo in evidenza in un bel libro di Bruce Bégout, La découverte du quotidien8.

Risalendo da Schutz alla lezione di Husserl e in parte di Heidegger, Bégout ri-conosce infatti l’esistenza umana costitutivamente “dubbiosa” - incerta, cioè, e av-volta nell’inquietudine - sia per la vulnerabilità che la caratterizza e per la precarie-tà di ogni nostro padroneggiamento della realtà, sia, e soprattutto, per l’infinito a cui si rapporta. Tale infinità è prioritariamente l’infinità dei significati che il mondo e la vita possono assumere. Ma la vertigine dell’infinito - il sospetto cioè di una ra- 7 Cfr. P. Jedlowski, Quello che tutti sanno. Per una discussione del concetto di “senso comune”, in “Rassegna Italiana di Sociologia”, 1, 1994, a cui rimando per una discussione più ampia del concetto nel pensiero di Schutz e in altre correnti sociologiche e filosofiche del Novecento. 8 B. Bégout, La découverte du quotidien, Paris, Allia, 2005.

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dicale indeterminatezza dell’esistenza, di un suo eccesso costitutivo rispetto alla nostra capacità di attribuirvi senso - è proprio ciò che il senso comune è chiamato a fugare.

Rispetto all’apertura ineliminabile dell’esistenza e al rischio da questa implica-to, il pensiero di senso comune corrisponde a una chiusura del possibile e alla co-stituzione di uno spazio “addomesticato”, prevedibile e, in una certa misura, sicuro.

Stabile in apparenza, il quotidiano cela però in sé un dinamismo: il suo elemen-to motore è infatti il ricorrente addomesticamento del mondo, “la trasformazione dell’estraneo in familiare”. Un processo cui si accompagna l’altrettanto ricorrente tendenza a nascondere agli occhi del soggetto il processo di addomesticamento in se stesso: quello che è in fondo un lavoro di occultamento e di rimozione dell’ambiguità delle cose appare alla fine come semplice adattamento alle cose “come stanno”. La “naturalizzazione” della realtà è l’esito cui la costruzione del sen-so comune incessantemente conduce.

Tale processo - che potrebbe essere anche chiamato il processo di quotidianiz-zazione della realtà - può essere descritto come un processo di “deproblematizza-zione dell’esperienza” e, simultaneamente, di “appaesamento” nel mondo. Esso corrisponde sul piano collettivo all’istituzionalizzazione della vita sociale (l’instaurarsi cioè di norme e costumi, la delimitazione degli spazi, la costruzione sociale del tempo, l’edificazione di modi comuni di pensare e di interpretare il rea-le); sul piano individuale corrisponde tanto all’interiorizzazione di tali istituzioni nel corso dei processi di socializzazione, quanto alla ricorrente costruzione di abi-tudini e routine pratiche e cognitive specifiche. È importante sottolineare però che il processo di quotidianizzazione in se stesso è analiticamente distinguibile dalle sue forme concrete. Esso corrisponde a qualcosa di portata antropologica presumi-bilmente universale: un dispositivo di riduzione dell’incertezza che si realizza in operazioni “precoscienti, simultaneamente psichiche e corporee, mentali e sociali, individuali e collettive”9. D’altro canto, è insediarsi nel mondo in modo tale che il processo stesso dell’insediamento è scordato. La vertigine che promana dal fatto che le cose possono “stare altrimenti”, lo “spaesamento” costitutivo dell’esistenza, è ciò che il pensiero di senso comune, una volta instaurato, rimuove.

Ciò che è rimosso tuttavia non è eliminato. E nel cuore di ogni processo di quotidianizzazione e di ogni senso comune apparentemente consolidato si nascon-de così la possibilità che il dubbio riappaia. La quotidianizzazione non è mai defi-nitiva. Non tanto per la ricorrente emergenza di “novità” che quotidiane ancora - per definizione - non sono (le innovazioni tecnologiche ad esempio), quanto perché l’estraneo è in fondo ineliminabile: il concetti stessi di quotidianizzazione e di sen-so comune non hanno senso se non in riferimento a ciò che quotidiano o di senso comune non è. La dialettica con il non-familiare è loro essenziale. Ogni dispositivo di formazione del senso comune si nutre di questa “energia polemica”. È un gioco sotterraneo e interminabile fra inquietudine e rassicurazione.

9 B. Bégout, La découverte du quotidien, cit., p. 319.

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Una sociologia della conoscenza ordinaria

Il libro di Berger e Luckmann si basa sui presupposti ora richiamati. Nelle pa-role degli stessi autori, è un libro di sociologia della conoscenza.

Di fatto, il primo capitolo comprende una breve storia della sociologia della conoscenza, utile a situare il contributo presentato. Della sociologia precedente, Berger e Luckmann fanno gran conto soprattutto dei lavori di Mannheim e del suo concetto di “relazionismo”: tale termine (distinto dal “relativismo”, con cui capita di confonderlo) è la chiave di volta di una prospettiva che è volta al riconoscimento della varietà delle prospettive con cui gli uomini guardano al mondo, ma che non intende tale riconoscimento come una capitolazione del pensiero di fronte alle rela-tività socio-storiche, bensì come “la lucida ammissione che la conoscenza è sempre e necessariamente conoscenza da una certa posizione10.

Ma è soprattutto a Schutz che Berger e Luckmann fanno riferimento. Con Schutz infatti la sociologia della conoscenza compie uno spostamento dell’oggetto che pare loro decisivo: da una sociologia interessata sostanziamente a ciò che “deforma” la conoscenza, e dunque a quella che potremmo chiamare una “sociologia dell’errore”, si passa ad una “sociologia della verità”, ovvero di ciò che viene inteso per verità. Più precisamente, l’inversione che Schutz apporta alla di-sciplina è che il suo oggetto non sono più tanto le “idee” quanto la conoscenza or-dinaria: ciò che i membri di una società danno per scontato riguardo a che cosa sia la “realtà” e a come la si possa “conoscere”. Come scrivono Berger e Luckmann:

“Le formulazioni teoretiche della realtà, siano esse scientifiche o filosofiche o anche mitologiche, non esauriscono ciò che è ‘reale’ per i membri di una società. Tenendo presente questo fatto, la sociologia della conoscenza deve anzitutto occuparsi di quello che la gente ‘conosce’ come ‘realtà’ nella vita quotidiana a livello pre-teoretico o non-teoretico. In altre parole, il principale centro d’interesse della sociologia della conoscenza deve essere la ‘cono-scenza’ del senso comune, piuttosto che le ‘idee’. È proprio questa ‘cono-scenza’ che costituisce il tessuto di significati senza il quale nessuna società potrebbe esistere”11.

Tale conoscenza è evidentemente varia, in relazione a contesti sociali diversi. Ma la sociologia della conoscenza non può arrestarsi a questa constatazione empi-rica:

“Ciò che è ‘reale’ per un monaco tibetano può non esserlo per un uomo d’affari americano […] Particolari raggruppamenti di ‘realtà’ e ‘conoscenza’ appartengono a particolari contesti sociali. […] La necessità di una sociologia della conoscenza si presenta dunque già con le differenze osservabili tra le varie società nei termini di quello che in ognuna di esse viene dato per scon-tato come ‘conoscenza’. Ma, al di là di questo, […] una sociologia della co-noscenza dovrà occuparsi non solo dell’empirica varietà di ‘conoscenze’ nel-

10 Berger, Luckmann, op. cit., p. 25. 11 Ivi, p. 32.

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le società umane, ma anche dei processi per cui qualsiasi complesso di cono-scenze viene a essere socialmente stabilito come ‘realtà’”12.

Questo modo di riformulare i compiti della sociologia della conoscenza porta quest’ultima “dalla periferia al centro stesso della teoria sociologica”13, o più pro-priamente della teoria sociale.

La costruzione sociale della realtà: un modello “circolare”

Ciò che la sociologia della conoscenza così intesa può apportare alla teoria so-ciale è infatti la soluzione di un apparente dilemma. Come ha notato Margaret Ar-cher, la riflessione sociologica, infatti, muove sempre dalla constatazione di un “fatto irritante”14: da un lato gli esseri umani avvertono di essere dotati di un’intrinseca libertà e di sovranità sulla propria storia; dall’altro avvertono di esse-re altrettanto intrinsecamente condizionati da strutture sociali che li influenzano in vari modi, li vincolano e li condizionano. Questa ambivalenza corrisponde a quelle che - secondo un modo di vedere che Parsons ha reso corrente - appaiono le due principali e antagoniste tradizioni della sociologia, quelle di Durkheim e di Weber. Per il primo, i fatti sociali sono come delle “cose”, e posseggono un’intrinseca og-gettività che agli individui si impone; per il secondo, il significato soggettivo del-le azioni è ciò che regge il peso della storia.

L’idea di Berger e Luckmann è però che queste due prospettive non siano anti-tetiche, bensì complementari: “la società effettivamente possiede una oggettiva fat-tualità, e la società è davvero costruita da un’attività che esprime significati sogget-tivi”15. Appoggiandosi sull’apparato teorico offerto da Schutz, ciò che essi inten-dono mostrare con il loro libro è questa complementarità.

La strategia è quella di mettere capo a un modello circolare: i significati si rap-prendono in istituzioni, e le istituzioni vengono interiorizzate attraverso processi di socializzazione.

L’argomentazione, come è ovvio, è complessa. Ma il suo fulcro è raccolto in una sorta di storia esemplare che Berger e Luckmann propongono all’inizio della seconda parte del libro16. Anche qui, gli studenti di sociologia la conoscono dai manuali, ma è bene riportarla, per quanto sinteticamente.

Per cominciare, scrivono, immaginiamo un uomo isolato, solo all’interno di un certo ambiente di cui non sa nulla. Ovviamente, quest’uomo dovrà risolvere alcuni problemi fondamentali per la sua sopravvivenza: procurarsi il cibo, proteggersi. At-traverso diverse prove, giungerà a riconoscere nel suo ambiente ciò che gli serve, e ad imparare come farne un uso efficace. Ogni volta che un dato problema è risolto, cesserà di essere un problema: le soluzioni che si saranno mostrate efficaci divente-

12 Ivi, p. 15. 13 Ivi, p. 36. 14 M. Archer, La morfogenesi della società, tr. it. Milano, Angeli, 1997. 15 Berger, Luckmann, op. cit., p. 37. 16 Ivi, p. 85 e sgg.

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ranno modi tipici di comportarsi rispetto a tipici problemi con tipici mezzi, diver-ranno dunque abitudini, e con ciò si trasformeranno in un comportamento semi-automatico, acquistando una propria forza inerziale. Questa trasformazione dell’azione in abitudine è il primo passo nel cammino di ciò che, una volta conclu-so, potrà dirsi il processo di istituzionalizzazione della vita sociale.

Ma immaginiamo ora che il nostro primo uomo ne incontri un secondo, anch’egli proveniente da una situazione altrettanto isolata. Dapprincipio, il com-portamento dell’altro apparirà a ciascuno dei due problematico. Si tratta di interpre-tarlo, di chiedersi: “chi è costui?” e “cosa sta facendo?”. È un problema di interpre-tazione ma anche un problema pratico: si tratta di coordinare una cooperazione o di articolare comportamenti di fuga, di aggressione o quant’altro. Anche qui il proces-so comporterà prove ed errori (e rischi, probabilmente), ma infine la possibilità di interagire potrà dirsi stabilita quando entrambi avranno imparato a tipizzarsi reci-procamente e a riconoscere cosa ciascuno può aspettarsi dall’altro almeno nelle si-tuazioni più tipiche.

Quando ciascuno, di fronte a un’azione dell’altro, sarà in grado di dirsi qualco-sa come “ah, ecco cosa sta facendo!”, i nostri due personaggi sarano capaci di inte-ragire efficacemente. Essi avranno costituito con ciò una sorta di sfondo cognitivo comune entro il quale possono muoversi con una certa familiarità. Per interagire hanno tipizzato reciprocamente il loro comportamento: l’insieme delle tipizza-zioni che i due ora condividono costituisce un insieme di routine. La routine è un corso d’azione che si ripete, è un’abitudine condivisa il cui significato viene dato per scontato: un “senso comune” è in via di formazione. È il secondo passo del processo di istituzionalizzazione.

Immaginiamo ora che, dopo un certo tempo, compaia un terzo personaggio. Ad esempio, immaginiamo che nasca un bambino (ma potremmo immaginare anche un newcomer proveniente da un’altra situazione di solitudine). Anche lui avrà pro-blemi di interpretazione riguardo all’ambiente e riguardo ai comportamenti degli altri individui: potrà però basarsi sul fatto che i due hanno già consolidato una struttura di interazioni fra loro. Questa gli apparirà come qualcosa di già dato: ma-no a mano che egli cresce nel gruppo, ciò che potrà dirsi riconoscendo questa strut-tura è qualcosa come “ah, ecco come si fa!”. Ai suoi occhi, le routine che trova già costituite non saranno più l’esito di un processo, ma qualcosa di esistente di per sé, di già istituito: un’istituzione. Come scrivono Berger e Luckmann:

“Il mondo istituzionale, che esisteva in statu nascendi nella situazione origi-naria di A e B, si è ora trasmesso ad altri. In questo processo l’istituzionalizzazione si perfeziona. Le abitualizzazioni e le tipizzazioni as-sunte nella vita in comune di A e B, formazioni che fino a questo punto ave-vano ancora la qualità di costruzioni ad hoc di due individui, diventano ora istituzioni storiche. Con l’acquisizione del carattere di storicità, queste for-mazioni acquistano anche un’altra qualità cruciale, o meglio, perfezionano una qualità che esisteva in embrione fin dal primo momento in cui A e B co-minciarono la tipizzazione reciproca della loro condotta: questa qualità è l’oggettività. Ciò significa che le istituzioni che ora sono state cristallizzate […] si presentano all’esperienza come esistenti al di sopra e al di là degli in-

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dividui che le incarnano in quel momento. In altre parole, le istituzioni si ma-nifestano ora all’esperienza come dotate di una realtà loro propria”17.

La storia che abbiamo immaginato è un esperimento mentale: è un model-lo, una semplificazione della realtà. Ma rende evidente il processo con cui la costruzione collettiva della realtà si realizza: la formazione successiva di abi-tudini, routine e istituzioni vere e proprie ne sono i passaggi fondamentali. Il risultato di questo processo è che le forme della vita sociale appaiono infine come realtà date, come “fatti” dotati di una sorta di esistenza propria.

Ma alla storia manca ancora un aspetto: quello simmetrico ai processi di ogget-tivazione, ovvero quello relativo ai processi di “soggettivazione”, di appropriazione soggettiva da parte degli individui della realtà così costruita. Tali processi corri-spondono alla socializzazione.

Nel momento in cui veniamo al mondo, tutti noi siamo nella situazione di quel terzo individuo che abbiamo immaginato più sopra: la realtà è già stata codificata per noi, si tratta di imparare come comportarsi a partire da un mondo già istituzio-nalizzato. La socializzazione primaria corrisponde alla prima acquisizione di ciò che è necessario sapere per muoverci in questo mondo. Ciò che impareremo lo as-sumeremo come “naturale”: la cultura di coloro fra i quali cresciamo diventa anche per noi “senso comune”, un insieme di modi del tutto ovvi di interpretare la realtà e di muoversi al suo interno. I vari processi di socializzazione secondaria, corrispon-denti ai successivi passaggi della nostra vita e all’ingresso in mondi sociali specifi-ci e circoscritti, articolerà questo bagaglio iniziale senza di norma metterne in di-scussione il carattere di fondamento naturale del nostro senso della realtà.

Tenendo conto simultaneamente dei processi di istituzionalizzazione e di socia-lizzazione, dunque, è vero che le prospettive di Durkheim e di Weber sembrano in-tegrarsi: la realtà è una costruzione sociale che appare effettivamente dotata di un’esistenza sua propria, ma ha origine in processi di donazione di senso e si ripro-duce nella misura in cui ciascuno di noi impara ad attribuirle lo stesso senso che le attribuiscono gli altri.

L’oste e il rabbino della storia che abbiamo citato all’inizio di questo discorso sono serviti. La realtà intorno a cui ruotava la loro vicenda, quella dell’istituzione che fa sì che i giorni abbiano un nome e delle proprietà, era simultaneamente pre-esistente e indipendente dalle loro scelte individuali, e dipendente dalla loro ade-sione ad un senso comune in cui si dà per scontato che i giorni si contino in setti-mane e che venerdì sia diverso da sabato.

L’esposizione completa del modello teorico proposto nel libro di Berger e Lu-ckmann comporta molti altri passaggi. Fra questi sono particolarmente interessanti la trattazione dello sviluppo delle forme di legittimazione della realtà così costruita e quella dei problemi concernenti la costituzione delle identità degli individui. Af-frontarle richiederebbe però troppo spazio.

Mi soffermerò ancora soltanto su un punto. Come si verifica il mutamento so-ciale? Il modello teorico esposto lo indica. La realtà è una costruzione sociale che noi usualmente diamo per scontata, ma è pur sempre una costruzione. In linea di principio, ciò che è stato istituzionalizzato può sempre essere de-istituzionalizzato. 17 Ivi, pp. 88-89.

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Ciò avviene, tipicamente, quando si generano dei movimenti sociali, quando cioè alcuni membri della società avvertono il bisogno di interpretare il mondo in un modo diverso da quello fin lì ritenuto ovvio. Non è un’idea nuova: quando Weber parlava della potenza innovatrice del carisma e Durkheim dell’effervescenza collet-tiva che è all’origine della fissazione dei valori e delle norme comuni, pensavano entrambi a qualcosa di analogo.

Naturalmente, resta da chiedersi cosa è in grado di produrre dei movimenti so-ciali. I fattori possono essere molti: le tecnologie possono porre nuovi problemi o generare inedite aspettative, certi gruppi possono avvertire una frustrazione che li spinge a mobilitarsi e ad elaborare prospettive a loro più convenienti, le dinamiche della cultura possono generare visioni profetiche. In ogni caso, si tratta di situazioni in cui qualcuno, per un motivo o per l’altro, non dà più il mondo per scontato: la realtà viene decostruita e sottoposta a un’opera di ricostruzione.

Ciò è possibile perché i processi di socializzazione non sono mai definitiva-mente compiuti. Come scrivono Berger e Luckmann, a permettere che la costru-zione sociale della realtà si rinnovi incessantemente è il fatto che “una socializza-zione totalmente riuscita è antropologicamente impossibile”18. Resta cioè sempre, almeno in potenza, una asimmetria fra i significati “oggettivi” della realtà e i modi in cui i soggetti li formulano. È ciò a cui abbiamo alluso più sopra ricordando che il senso comune vive in un’eterna tensione fra rassicurazione e inquietudine. Ed è nello spazio aperto da questa tensione che matura la capacità dei movimenti sociali di immaginare la realtà in forme nuove, ma è in questo spazio che si apre anche la capacità dell’artista di attribuire alla realtà nuovi significati, o quella di chiunque di noi di usare un oggetto comune per scopi diversi da quelli consueti, di giocare con le parole, di creare qualcosa che prima non c’era. È costitutiva dell’umano la pos-sibilità di “pensare altrimenti”, o, come scriveva Max Scheler, di “dire di no” alle oggettivazioni esistenti.

Proprio perché esiste tale libertà, l’adesione al senso comune è in fondo sempre una attiva ricostruzione da parte del soggetto di quella realtà che egli intende come “già data”. Vi dunque è una responsabilità del soggetto: se il mondo si riproduce, è perché a questa realtà egli garantisce la propria adesione.

Il senso comune, cioè il pensiero e l’atteggiamento che danno una certa inter-pretazione della realtà per scontata, è in parte una sorta di memoria sociale; ma si riproduce anche grazie alla partecipazione di ognuno. Poiché è il risultato di una costruzione, può però essere decostruito. Nei termini usati da Schutz, il senso co-mune corrisponde a una “messa fra parentesi” del dubbio che le cose possano an-che stare altrimenti (del dubbio di poter pensare anche come non si pensa, di poter fare quello che non si fa). Ma il dubbio, in linea di principio, può sempre essere at-tivato di nuovo. La sociologia fenomenologica ricorda che si può sempre pensare altrimenti. E dunque riavviare in nuove forme il processo di costruzione sociale della realtà.

18 Ivi, p. 223.

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2. Anticipazioni e dintorni

Una novità solo in parte

Non si può dire che tutto questo, negli anni sessanta deel Novecento, rappre-senti una novità nel campo del pensiero sociale. La novità consisteva nel legare Weber e Durkheim attraverso il modello della “circolarità” fra le istituzioni e l’agire, e, almeno in parte e specialmente rispetto a certe correnti allora dominanti, nella conseguente sottolineatura della responsabilità degli attori. Ma l’idea che la realtà sia interpretata dagli esseri umani non è certo nuova.

Per Weber, ad esempio, l’agire umano è tale nella misura in cui vi si associano senso e significato, il che vuol dire che è tale nella misura in cui si congiunge con una interpretazione della realtà consentita dalle risorse culturali che l’attore ha a disposizione. La cultura, a sua volta, è “una sezione finita dell’infinità priva di sen-so del divenire del mondo, alla quale è attribuito senso e significato dal punto di vista dell’uomo”19: una sezione finita dell’infinità del mondo, un “ritaglio” dunque, mai esaustivo della totalità, mai l’unico possibile. Una cultura è un repertorio di modi di dare senso e significato alla realtà nel suo insieme. E ogni cultura presenta un repertorio diverso. (Un repertorio del resto costantemente e infinitamente rinno-vabile: sia nell’opera dei poeti, dei filosofi e di tutti i “devianti”, sia nei continui slittamenti semantici in cui incorre il linguaggio ordinario).

Una cultura è dunque una interpretazione, e una interpretazione fra le infinite possibili. Quando Schutz afferma che non esistono se non “fatti interpretati” dice esattamente la stessa cosa. L’unica aggiunta è l’osservazione di come la cultura - o almeno certi suoi aspetti - possa finire per essere “naturalizzata”, cioè sottratta al ricordo dell’infinità delle altre culture possibili, e trasformarsi in senso comune.

Quanto a Simmel, come gli studenti sanno dai manuali, ogni conoscenza corri-sponde per lui alla “messa in forma” della realtà in modi determinati, congruenti alla posizione da cui si dispone l’osservatore. Ogni scienza costituisce il proprio oggetto in virtù del proprio sguardo specifico20. Vale anche per la storiografia, che potrebbe apparire la meno intrisa di teoria fra tutte le scienze sociali: come Simmel argomenta in I problemi della filosofia della storia21, il flusso del puro accadere si svolge in una continuità che è diversa dalla discontinuità logica propria delle cate-gorie con le quali lo comprendiamo, e ciò che chiamiamo “storia” è così il risultato di un’operazione mediante cui noi stessi creiamo la forma di ciò che intendiamo descrivere.

Un discorso analogo potrebbe essere fatto persino per Durkheim, nonostante lo si studi spesso come un campione dell’”oggettività”. Come ho già accennato più sopra, in Le forme elementari della vita religiosa mostra infatti come la nostra co- 19 M. Weber, Il metodo delle scienze storico-sociali, tr. it. Torino, Einaudi, 1974, p. 96. 20 Vedi in particolare Il problema della sociologia, in Sociologia, tr. it. Milano, Comunità, 1989. 21 G. Simmel, I problemi della filosofia della storia, tr. it. Genova, Marietti, 1982.

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noscenza della realtà sia mediata da categorie socialmente costruite e diffuse attra-verso il linguaggio, grazie a cui i dati percettivi sono inquadrati.

Tutti questi autori hanno alle spalle una rilettura sociologica del pensiero di Kant. Per Kant la realtà ultima è fuori dalla nostra portata: ciò che percepiamo è mediato dalla struttura delle forme a priori e delle categorie del nostro intelletto. A questa idea, i sociologi aggiungono quella che tali forme e categorie siano so-cialmente determinate, siano “cultura”. Ma rimane la nozione fondamentale che, della realtà, noi cogliamo di volta in volta soltanto ciò che il nostro apparato co-gnitivo permette di cogliere e nel modo in cui lo permette.

Il riferimento a Kant non è però fondamentale. Entro riferimenti diversi, nella generazione successiva a quella dei classici, anche gli autori della scuola di Franco-forte, ad esempio, avevano chiaro che la realtà che cogliamo è sempre una realtà interpretata. L’immagine percettiva contiene concetti e giudizi che il soggetto proietta sulla realtà che lo circonda. In Dialettica dell’illuminismo Adorno e Hor-kheimer scrivevano:

“Fra l’oggetto reale e il dato indubitabile dei sensi, fra l’interno e l’esterno, c’è un abisso che il soggetto deve colmare […]. Per riflettere la cosa com’è, il soggetto deve restituirle più di quanto non riceva da essa. Il soggetto torna a creare il mondo fuori da sé in base alle tracce che esso lascia nei suoi sen-si…”22.

Il soggetto “torna a creare” il mondo: vi è qui una costruzione, dunque (per quanto il termine non sia utilizzato, e per quanto i riferimenti teorici siano diversi da quelli sopra discussi): le tracce lasciate dalla realtà nei nostri sensi non riman-gono brute, ma sono organizzate dal soggetto nel momento stesso in cui a questi appare di limitarsi a registrarle. La conoscenza, insomma, è sempre un incontro fra la realtà esterna e qualcosa che è di proprietà del soggetto. Ciò che conosciamo è sempre e soltanto quello che ci appare, ma ciò che appare è il risultato di una rela-zione.

Non credo dunque che il punto sia disporre di un riferimento filosofico o di un altro: è semplicemente avere chiare le basi filosofiche su cui la scienza sociale non può che fondarsi. Il positivismo ingenuo del senso comune - l’idea che la realtà possa essere semplicemente “rispecchiata” dalla conoscenza - va escluso sempli-cemente perché implica una cattiva filosofia.

D’altro canto, la sociologia ha inizio nel cuore dell’Europa negli anni a cavallo del 900. E questi sono anche gli anni della cosiddetta “crisi dei fondamenti”. Della crisi cioè della presunzione di poter fondare le conoscenze umane sul mondo su ba-si indiscusse, contando sul fatto che la realtà sia là pronta ad essere descritta in mo-do indipendente da colui che la osserva e dai linguaggi con cui la si descrive.

Tale crisi è a volte ascritta alla “svolta linguistica” che caratterizzerà le scienze umane dopo la metà del 900, o per alcuni è addirittura caratteristica originale del pensiero “post-moderno”. Ma si tratta di una consapevolezza della problematicità del nostro “descrivere il mondo” che ha origine nella cultura mitteleuropea dei primi anni del secolo. Nessun linguaggio designa in modo immediato ciò cui inten-

22 M. Horkheimer, Th. W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, tr. it. Einaudi, Torino, 1997, p. 203.

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de far segno. Di questa consapevolezza, uno dei testimoni più acuti è stato von Hoffmannsthal, della cui celeberrima Lettera di Lord Chandos è forse utile riporta-re qualche parola:

“Il caso in breve è questo: […] le parole, di cui la lingua, secondo natura, si deve pur valere per recare a giorno un qualsiasi giudizio, mi si sfacevano nel-la bocca come funghi ammuffiti […]. Anche nelle conversazioni familiari e domestiche ogni giudizio, di quelli che si danno per solito alla leggera con ignara sicurezza, divenne per me a tal punto problematico che dovetti smette-re di partecipare a tali discorsi. Mi riempiva di un’inspiegabile irritazione, che a fatica dovevo per forza dissimulare, udire affermazioni quali: la tal cosa è andata bene o male a questo o a quello; il giudice N. è un uomo malvagio; il predicatore T. è buono, il fittavolo M. è da compiangere, i suoi figli sono de-gli scialacquatori […]. Tutto ciò mi appariva indimostrabile, falso, lacunoso al massimo […]. Come una volta avevo visto in una lente di ingrandimento una zona della pelle del mio mignolo, e mi era parsa una pianura con solchi e buchi, così ora mi accadeva con gli uomini e con le loro azioni. Non riuscivo più a coglierli con lo sguardo semplificatore dell’abitudine. Ogni cosa mi si frazionava, e ogni parte ancora in altre parti, e nulla più si lasciava imbriglia-re in un concetto. Una per una, le parole fluttuavano intorno a me”23.

Quella che viene meno è la certezza del nesso tra le parole e le cose. L’abitudine che li legava svela la sua convenzionalità. E insieme, necessariamente, viene meno la plausibilità dell’idea di poter definire la realtà in modo univoco24.

Non a caso la storia di tutte le arti in Europa nei primi decenni del secolo è ca-ratterizzata dal venire in primo piano dell’interesse per i linguaggi. Il medium at-traverso cui la realtà viene colta si svela come il medium che costituisce ciò che pretende di cogliere. Ciò può essere percepito con amarezza: come dal protagonista della Lettera di Hoffmansthal, appunto, che dichiara con disperazione di non essere più in grado di credere alle semplificazioni con cui la lingua pretende di descrivere l’infinita varietà e sottigliezza della vita. Altre volte può esprimersi come una sorta di liberazione. Come nell’impressionismo e poi ancora di più nell’espressionismo a cavallo fra Otto e Novecento, dove la consapevolezza del fatto che la percezione della realtà è sempre mediata dal linguaggio e dagli strumenti che usiamo, lungi dall’apparire uno scacco, apre lo spazio ad un uso dei linguaggi pittorici che si e-mancipa progressivamente dal riferimento alla realtà così come appare comune-mente. Se comunque quello che percepiamo è una costruzione linguisticamen-te mediata, allora possiamo anche consapevolemente usare il linguaggio per creare altri mondi, o per vedere altrimenti. Ed ecco così i dipinti di Kandin-skij, di Kokoschka, di Klee. E tutto questo non è estraneo ai classici della so-ciologia: essi scrivono mentre questa sensibilità sta germogliando.

23 H. von Hoffmansthal, Lettera di Lord Chandos, tr. it. Milano, Rizzoli, 1985, pp. 43-45. 24 Sono gli stessi anni e gli stessi luoghi, del resto, in cui Albert Einstein elaborava la sua teoria della relatività, della quale si può dire, per lo meno, che mostri per parte sua come la realtà sostenga model-li teorici differenti. Cfr. A. Cerroni, Categorie e relatività. Metodo, cognizione e cultura nella scoper-ta di Einstein, Milano, Unicopli/CUESP, 1999 (in part. il capitolo Milieu culturale). Per uno sguardo d’insieme sul periodo considerato, rimando a A. Janik, S. Toulmin, La grande Vienna, tr. it. Milano, Garzanti, 1984.

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Le profezie che si autoadempiono

Non voglio tuttavia insistere su tutto questo. Il punto è che almeno alcuni a-spetti dell’idea che la realtà sia una costruzione sociale non sono una novità. Perchè allora appaiono tali negli anni sessanta, e specialmente negli Stati Uniti?

Un primo motivo risiede forse nella diffusione stessa della sociologia e nella sua istituzionalizzazione come insieme di pratiche di osservazione della società. Fra gli anni trenta e gli anni sessanta del ‘900 la sociologia in America si afferma come una disciplina che ha sostanzialmente a che fare con la ricerca empirica, sotto la pressione di “problemi sociali” che spingono committenti diversi a finanziare ri-cerche. La definizione stessa di quali siano i problemi sociali sul tappeto (i social issues) sarebbe in verità un ottimo oggetto per ricerche ispirate all’idea che la realtà è una costruzione sociale. Cosa è più socialmente determinato di quelli che appaio-no i “problemi rilevanti”, cioè della selezione di ciò di cui val la pena di occuparsi e di ciò che invece si può tranquillamente tacere? Ma le ricerche empiriche costa-no, e i finanziatori non spendono per sapere come mai certi problemi appaiano loro rilevanti e altri no: spendono per sapere qualcosa sui problemi che ritengono rile-vanti. E la sociologia si adegua. Sta qui almeno una delle ragioni di quell’allontanamento della sociologia americana dai problemi teorici che molti, a partire da autori come Wright Mills, hanno denunciato.

Orientati a ricerche empiriche circoscritte, i sociologi americani tendevano per il resto a delegare la teoria a poche menti. Quella di Parsons su tutte. Sui temi di cui stiamo parlando, la posizione di Parsons non è però del tutto chiara. Egli è con-sapevole del fatto che gli attori sociali interpretano la realtà sulla base degli ele-menti della cultura che interiorizzano nel corso dei processi di socializzazione. Ed è consapevole anche del fatto che i concetti delle stesse scienze sociali sono dei modelli, e dunque non vanno confusi con le cose stesse. Ma tali assunti non hanno molte conseguenze nello sviluppo della sua teoria, le cui stesse pretese di esaustivi-tà in fondo li contraddicono (un modello infatti, per definizione, esaustivo non può essere). Inoltre, l’impianto del suo funzionalismo permette male di concepire qual-cosa come la responsabilità degli attori nella riproduzione del mondo sociale: quest’ultima, in tale approccio, è vista piuttosto come un prodotto sistemico, che prescinde da ogni coinvolgimento soggettivo. Rispetto a questo quadro, l’esplicitazione dell’idea che la realtà sia una costruzione sociale e la nozione dell’implicazione causale reciproca di soggetti e strutture potevano in effetti appa-rire una novità.

Va notato però che una certa presenza delle idee in questione era avvertibile anche all’interno del mondo accademico americano. Non in Parsons, bensì in Mer-ton. Penso al suo saggio del 1948 su La profezia che si autoadempie25.

Per quanto l’espressione “costruzione sociale della realtà” non vi compaia, cre-do sia opportuno in questo contesto rileggere questo saggio. Almeno alcuni aspetti dell’idea della costruzione sociale della realtà vi sono infatti presenti, e credo che,

25 R. K. Merton, La profezia che si autoadempie, tr. it. in Teoria e struttura sociale, Bologna, Il Muli-no, 1970.

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pur nella sua parzialità, questo saggio possa aiutarci a comprendere ciò di cui stia-mo parlando.

Il punto di partenza è rappresentato dalla citazione del cosiddetto “teorema di Thomas”. Leggiamo Merton:

“In una serie di lavori raramente consultati al di fuori del mondo accademico, W. I. Thomas, il decano dei sociologi americani, ha esposto un teorema fon-damentale per le scienze sociali: “se gli uomini definiscono certe situazioni come reali, esse sono reali nelle loro conseguenze”. Se il teorema di Thomas e le sue implicazioni fossero più ampiamente conosciuti, ci sarebbero tanti più uomini che capirebbero meglio il funzionamento della nostra società. Sebbene non abbia l’equilibrio e la precisione di un teorema di Newton, que-sto teorema ha una uguale rilevanza essendo utilmente applicabile, se non a tutti, a moltissimi processi sociali”26.

Cosa significa questo teorema? Nelle parole di Merton, si tratta di “… un’ennesima, autorevole puntualizzazione del fatto che gli uomini non ri-spondono solo agli elementi oggettivi di una situazione, ma anche, ed a volte in primo luogo, al significato che questa situazione ha per loro. E una volta che essi hanno attribuito un qualunque significato ad una situazione, questo significato è causa determinante del loro comportamento e di alcune conse-guenze di esso”27.

Di tutto ciò Merton si premura di fornire una serie di esempi. Il primo è quello del “mercoledì nero” della Last National Bank degli Stati Uniti, nel 1932. La banca era al momento un instituto fiorente. Si sparge tuttavia la voce che essa sia insol-vente, cioè che non sia in grado di restituire i propri soldi a chi ve li ha depositati. Una volta che la voce si è sparsa, tutti i clienti si precipitano a ritirare i propri soldi. Come ogni banca, tuttavia, la Last National Bank non è in grado di restituire all’improvviso tutti i depositi, che sono ovviamente impegnati in vari investimenti. Di fronte all’eccesso di richieste contemporanee, è dunque effettivamente insolven-te. E fallisce. Come Merton conclude,

“… la salda struttura della banca dipendeva da una serie di definizioni della situazione: la fiducia nella validità del sistema di promesse economiche reci-proche in cui gli uomini vivono. Una volta che i clienti avevano definito la si-tuazione in altro modo, una volta messa in dubbio la possibilità che queste promesse fossero adempiute, le conseguenze di questa definizione irreale fu-rono anche troppo reali”28.

E più oltre aggiunge:

“La storia ci indica che le definizioni pubbliche di una situazione (previsioni e profezie) diventano una parte integrante della situazione e in questo senso influiscono sugli sviluppi successivi. Questo è un fenomeno esclusivamente

26 Ivi, p. 765. 27 Ivi, p. 766. 28 Ivi, p. 767.

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umano, che non si ritrova nel mondo della natura che rimane estraneo all’attività dell’uomo. Le previsioni del ritorno della cometa di Halley non in-fluenzarono la sua orbita, ma la diceria dell’insolvenza della banca di Car-twright Millingville influì sull’effettivo fallimento. La profezia del fallimento condusse al compimento della profezia stessa”29.

Merton aggiunge poi altri esempi. (“Ciascuno di noi - dice - può avere il suo esempio preferito”). Si consideri il caso della nevrosi da esami: convinto di essere destinato a fallire, lo studente ansioso dedica più tempo a preoccuparsi che a stu-diare, col risultato che l’esame sarà, per l’appunto, un insuccesso. Oppure si pensi a due nazioni che credono all’inevitabilità di una guerra: convinti di questo, i rappre-sentanti delle due nazioni diventano progressivamente più ostili l’uno verso l’altro; ciascuno aumenta il proprio armamento, così che l’altro interpreta ciò come una conferma delle proprie previsioni, e così via; fino a che la guerra scoppia davvero.

Lo stesso vale secondo Merton in un campo estremamente importante negli Stati Uniti come quello dei rapporti fra i bianchi ed i neri. Si pensi, dice, a quei bianchi che sostengono l’esclusione dei neri dai sindacati. Tale posizione sembra basarsi su fatti incontrovertibili:

“I negri, venuti di recente dal meridione non industriale, non hanno quella di-sciplina che è tradizionale nel sindacalismo e non hanno nessuna esperienza della contrattazione collettiva. Il negro è un crumiro; egli, col suo basso livel-lo di vita, è più che disposto ad accettare un lavoro a un salario minore di quello corrente; il negro è, in breve, un traditore della classe lavoratrice”.

Quello che il bianco non vede è però che sono quelli che la pensano come lui che hanno contribuito a creare questo stato dei fatti:

“Definendo la situazione come quella in cui i negri sono incorregibilmente in contrasto con i principi del sindacalismo ed escludendoli quindi dal sindaca-to, egli e le persone come lui provocano una serie di conseguenze che in veri-tà rendono difficile, se non impossibile, a molti negri, di evitare il ruolo di crumiri. Disoccupati dopo la prima guerra mondiale ed esclusi dai sindacati, migliaia di negri non poterono opporsi a quei datori di lavoro che, danneggia-ti dagli scioperi, offrivano loro un qualunque posto nel mondo del lavoro da cui altrimenti sarebbero stati esclusi”30.

Una questione di responsabilità

L’espressione “costruzione sociale della realtà”, come ho detto, non è presente in Merton. Né vi è qui alcuna pretesa di fondare nuovi paradigmi. Merton lavora, come sappiamo, con teorie a medio raggio. Teorie diverse per lui possono convive-re, mostrando di volta in volta la propria efficacia nella spiegazione di fatti deter-minati. Quando parla delle scienze inoltre (sia quelle naturali che quelle sociali) Merton non fa nessuna concessione costruttivista. Eppure, nel saggio ora commen- 29 Ivi, p. 768. 30 Ivi, p. 770.

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tato vi è indubbiamente almeno qualcosa dell’idea della costruzione sociale. Non l’idea della circolarità fra azioni e strutture, ma l’idea che le credenze condivise su quale sia la realtà determinano la realtà almeno quanto è vero l’inverso.

È interessante osservare come proprio la nozione della profezia che si autoa-dempie sia ripresa, vent’anni più tardi, da Paul Watzlawick in un saggio del 1981 dallo stesso titolo, Le profezie che si autodeterminano, compreso nel volume col-lettivo La realtà inventata31. Il saggio appartiene a un periodo posteriore a quello di Merton: credo però che sia utile rammentarlo ora perché esplicita alcune conse-guenze della riflessione di Merton e mostra come la questione della profezia che si autoadempie, al di là delle sue intenzioni, rientri propriamente nella prospettiva che stiamo discutendo32.

Gli esempi portati da Watzlawick sono analoghi a quelli di Merton. Ne ricorde-rò uno soltanto, costituito da una celebre ricerca di Robert Rosenthal a Harvard, Pigmalione in classe. Agli insegnanti di una scuola elementare sono affidati bam-bini di due tipi. Di un tipo di bambini si dice che, in base a test realizzati dall’équipe di psicologi, sono dotati di un elevato quoziente di intelligenza, sono inclini ad un veloce apprendimento e capaci di prestazioni sopra la media; dell’altro, si dice il contrario. La distribuzione dei bambini fra i due gruppi, in real-tà, era stata fatta in modo assolutamente casuale, a prescindere da qualsiasi test. Ma, alla fine dell’anno, i bambini di cui gli insegnanti prevedevano che avrebbero avuto ottimi risultati ebbero davvero risultati eccellenti, e i bambini di cui si preve-deva l’insuccesso ebbero davvero risultati scarsi. Cosa era sucesso? La previsione, interiorizzata dagli insegnanti, aveva presumibilmente influenzato i loro compor-tamenti, e le aspettative che essi avevano nei confronti nei bambini avevano in-fluenzato a loro volta i comportamenti di questi bambini.

È ancora il teorema di Thomas: a prescindere da quanto una definizione della realtà sia vera in partenza, le sue conseguenze sono reali.

Il commento di Watzlawick è questo: “Sant’Agostino ringraziava Dio di non essere responsabile dei propri sogni. A noi uomini moderni non è data questa consolazione. L’esperimento di Ro-senthal non è che un esempio, pur particolarmente chiaro, di quanto profondi e incisivi possano essere gli effetti di aspettative, pregiudizi, superstizioni e desideri - quindi costruzioni puramente mentali, spesso prive di qualsiasi col-legamento con la realtà - sul nostro prossimo […]. Non credo sia necessario sottolineare che queste costruzioni possono avere non solo effetti positivi ma

31 P. Watzlawick (a cura), La realtà inventata, tr. it. Milano, Feltrinelli, 1998. 32 Nell’economia del volume, curato dallo stesso Watzlawick, la questione della profezia che si auto-adempie è presentata in effetti come un caso particolare all’interno di una versione radicale di questa prospettiva, che Watzlawick denomina “costruttivismo radicale”. Nel volume compaiono contributi di autori che si occupano di psicologia, antropologia e filosofia, ma anche di fisici, matematici, neuro-biologi e cibernetici di fama mondiale. Le tesi proposte travalicano i limiti della sociologia e della stessa teoria sociale, iscrivendosi nello studio di quella che si potrebbe chiamare la “logica del viven-te”. Per quanto vi siano rapporti con l’idea della realtà come costruzione sociale, credo dunque che la discussione di questo volume nel suo complesso esuli dai limiti del mio intervento. (Per un cenno, si veda però l’ultimo paragrafo del cap. 5).

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anche effetti negativi. Siamo responsabili non solo dei nostri sogni, ma anche della realtà creata dai nostri pensieri e dalle nostre speranze”33.

E più avanti aggiunge: “Il fatto che noi siamo responsabili del mondo in misura molto maggiore di quanto la nostra saggezza scolastica possa mai sognare, per il momento è quasi impensabile; ne prendiamo coscienza solo progressivamente attraverso lo studio approfondito dei processi comunicativi”34.

Non che ciò significhi una nostra totale impotenza nei confronti degli effetti di meccanismi come quelli della profezia che si autoadempie:

“La realtà inventata, infatti, si trasforma nella realtà di fatto solo quando si crede nell’invenzione. Laddove manca l’elemento della fede, della convin-zione, essa rimane senza effetto. Con una migliore comprensione delle profe-zie che si autodeterminano cresce dunque anche la nostra capacità di trascen-derle. La profezia della quale sappiamo che è solo una profezia non può au-todeterminarsi. La possibilità di essere diversi, la possibilità di trasgredire sono sempre presenti. Che si arrivi a vederle e a coglierle, è ovviamente un’altra questione”35.

Le forme di psicoterapia della scuola di Palo Alto avviata da Watzlawick, da Bateson e da altri sono, come è noto, strategie per permettere agli uomini e alle donne in cura di trascendere le profezie di cui sono responsabili, e così di liberar-sene. Ma non vorrei sviluppare questo punto.

Osserverei però almeno due cose. La prima è che la profezia che si autoadem-pie non riassume in sé tutto ciò che l’idea della realtà come costruzione sociale in-tende dire, ma ne esprime alcuni elementi in modo tale che ognuno, senza difficol-tà, può comprenderli. La può accettare ciascuno, conformemente alla propria espe-rienza, perchè ben pochi presupposti teorici sono necessari a condividerla. Ma an-che in questa forma “debole”, per così dire, si mostra come una prospettiva forte: ciò che afferma è la capacità degli esseri umani di produrre realtà sulla base delle proprie credenze.

Ripensiamo alla prima parte della storia di Calderon de la Barca che ho raccon-tato in apertura di questo intervento. Come si ricorderà, il principe Sigismndo era stato imprigionato dal padre appena nato proprio in virtù di una profezia: quella che diceva che sarebbe stato sanguinario e cattivo. Effettivamente, quando il gio-vane, ormai cresciuto, si recherà a corte, si rivelerà un uomo oltremodo crudele: ma è così strano, dopo una vita passata in assoluta prigionia, e senza colpa? La profe-zia si è adempiuta proprio a modo che illustrano Merton e Watzlawick: ha creato essa stesse le condizioni per la sua realizzazione.

La seconda osservazione è che, come abbiamo visto nelle frasi di Watzlawick, questa prospettiva tende infine a risolversi in una serie di affermazioni concernenti la responsabilità degli attori nel dar forma alla realtà entro cui vivono.

33 Ivi, p. 93. 34 Ivi, p. 95. 35 Ivi, p. 101.

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Ma all’idea della responsabilità è correlata l’idea che sia possibile operare delle scelte: in particolare, di scegliere corsi d’azione (pratiche, modi di intendere la real-tà e le sue potenzialità) differenti da quelle a cui ci siamo abituati. È un’osservazione che condivideva anche Merton, il cui saggio sulle profezie che si autoadempiono terminava significativamente con una citazione di Tocqueville sull’importanza e sulla possibilità dell’immaginare altrimenti:

“Sono tentato di credere che quelle che noi chiamiamo istituzioni necessarie spesso non sono altro che le istituzioni a cui siamo abituati e che nella sfera della costituzione sociale le possibilità sono molto più ampie di quelle che gli uomini siano disposti in genere a immaginare vivendo nelle loro varie socie-tà”36.

La sottolineatura di questo punto consente di riprendere e di concludere le os-servazioni che ho lasciato in sospeso poc’anzi, riguardo al successo e alla apparen-te novità del paradigma della costruzione sociale della realtà negli Stati Uniti.

A sostenere l’emersione dell’idea della costruzione sociale della realtà fu infat-ti la stagione dei movimenti degli anni sessanta. Che alla responsabilità degli attori nel riprodurre o nel modificare il mondo sociale facevano - diversamente che Par-sons - riferimento. E per i quali la realtà sociale - sia nelle sue forme, sia nei suoi significati - è tanto una costruzione che la si può, per l’appunto, smontare e rico-struire diversa.

Il senso comune - ciò a cui la costruzione sociale della realtà mette capo - è la naturalizzazione di certe definizioni della realtà tale per cui il dubbio che questa possa stare altrimenti è accantonato. Ma il dubbio che la realtà possa stare altrimen-ti è ciò che i movimenti riattivano. E la teoria della realtà come costruzione sociale permette di dare basi teoriche alle pratiche che a tali dubbi corrispondono.

36 R. K. Merton, op. cit., p. 789.

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3. Comunicazione e costruzione sociale della realtà

La “svolta linguistica”: un cenno

A partire dalla fine degli anni sessanta l’idea in questione si diffonde in lungo e in largo nella sociologia. È a questo punto che si può parlare forse di un “paradig-ma”: un insieme di proposizioni condivise ed esemplari cui si fa riferimento in mo-do parzialmente standardizzato, opponendosi a modelli teorici precedenti che ven-gono screditati. In questo paradigma confluiscono fenomenologi e interazionisti simbolici, Goffman con il suo approccio drammaturgico e con la sua teoria dei frames e Howard Becker con la teoria dell’etichettamento; vi è affine (anche se in modo un po’ particolare) l’etnometodologia di Harold Garfinkel; vi fanno capo più avanti la teoria delle rappresentazioni sociali di Serge Moscovici e le ricerche che essa ha ispirato37; si inizia a parlare di costruzione sociale riferendosi agli effetti dei media, al mercato e agli sviluppi delle tecnologie; si parla di costruzione sociale della salute, del genere e delle “razze”. Vedremo più avanti alcune di queste deri-vazioni.

Prima di arrivarci, va osservato però che il consolidamento di questo paradig-ma avviene anche per la concomitante affermazione di quella che è stata chiamata la “svolta linguistica” e della ricezione nelle scienze sociali della lezione ermeneu-tica. Per la concomitante affermazione, cioè, della centralità dei fenomeni linguisti-ci e comunicativi per tutte le scienze sociali.

La nozione dell’importanza del linguaggio all’interno del paradigma della real-tà come costruzione sociale era, a dire il vero, ben presente anche in Schutz e in Berger e Luckmann. Derivante dalla capacità dell’espressività umana di oggettivar-si in sistemi di segni, il linguaggio permette di trascendere nella coscienza l’hic et nunc dell’esperienza soggettiva, collegandola a significati intersoggettivamente ac-cessibili. Tale sistema (che è “istituzione” nel senso che più sopra abbiamo discus-so) classifica gli elementi della realtà e permette di presentificarli alla coscienza in modo analogo a quanto anche altri possono fare, consentendo così tanto la com-prensione reciproca quanto il coordinamento delle azioni. Poiché, come scrivono Berger e Luckmann, la vita sociale è “soprattutto vita con e per mezzo del linguag-

37 Per quanto appartenga propriamente alla psicologia sociale, l’approccio di Moscovici alle rappre-sentazioni sociali rientra nel paradigma che discutiamo: si potrebbe anzi dire che ne costituisce un’operazionalizzazione ai fini della ricerca empirica. Per una chiara introduzione a riguardo vedi T. Grande, Che cosa sono le rappresentazioni sociali, Carocci, Roma, 2005. D’altro canto, la prospettiva di Moscovici permetterebbe anche di sviluppare una questione importante: quella dei rapporti fra l’idea della costruzione sociale della realtà e le teorie dell’immaginario. Tali rapporti si fondano sulla parziale sovrapposizione di “credere” e “immaginare”: credere all’esistenza di qualcosa significa an-che immaginarla in un certo modo. L’utilizzo della nozione di immaginario comporterebbe però una decisa considerazione di dinamiche intra-psichiche, di cui qui non posso occuparmi.

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gio che condivido col mio prossimo”, la comprensione del linguaggio è “essenziale per ogni comprensione della realtà della vita quotidiana”38.

Ma tale nozione assume in altri contesti un peso ancora più rilevante. Senza al-cuna pretesa di esaustività, ma solo per richiamare alcuni termini della questione, rammentiamo alcuni passaggi di questa vicenda.

L’espressione “svolta linguistica”, per cominciare, risale al titolo di una celebre antologia curata da Richard Rorty nel 1967. Le questioni trattate erano squisita-mente filosofiche, e dipendevano dalla ricezione dell’opera del secondo Wittgen-stein e dal modo in cui questi guardava al rapporto fra linguaggi e significati. Ma l’esito a cui si perveniva riguarda tutte le scienze sociali, dal momento che, come Rorty stesso si esprime, tale “svolta” rappresentava

“… l’inizio di un ripensamento a tutto campo di certe difficoltà epistemolo-giche che hanno tormentato i filosofi a partire da Platone e Aristotele. Queste difficoltà esistono soltanto se si suppone che l’acquisizione della conoscenza presuppone la presentazione di qualcosa di ‘dato immediatamente’ alla men-te, dove la mente è concepita come una sorta di ‘occhio immateriale’, e dove ‘immediatamente’ significa, almeno, ‘senza la mediazione del linguaggio’”39.

Quello di cui si trattava, in altri termini, era il definitivo accantonamento dell’idea che la realtà sia qualcosa che la mente possa “rispecchiare” al di qua di qualsiasi mediazione offerta dal soggetto della conoscenza stessa.

In verità, non si tratta però propriamente di una svolta linguistica, bensì di una svolta discorsiva. Il fulcro e la novità delle riflessioni che da qui in avanti si svol-gono non riguardano infatti meramente il ruolo del linguaggio, ma quello del lin-guaggio in azione, cioè del discorso.

Il che è evidente se si guarda a come l’espressione “svolta linguistica” è stata poi ripresa da Habermas, al quale forse si deve maggiormente la sua diffusione all’interno della sociologia. Per Habermas infatti è soprattutto l’attenzione alla di-mensione pragmatica degli studi linguistici a contare: non tanto la logica delle sin-gole frasi, quanto quella con cui le frasi si inseriscono nelle pratiche e nelle rela-zioni sociali permettendo e sviluppando l’intesa e il coordinamento reciproci fra gli attori coinvolti40.

In quanto “discorsiva”, e non meramente “linguistica”, la svolta in questione può del resto includere autori del tutto estranei alla tradizione filosofica cui Rorty faceva originariamente riferimento. Vi rientra ad esempio la ricezione delle opere di Michail Bachtin, così come vi rientrano molti lavori di Michel Foucault (attra-verso i quali la riflessione sul discorso si congiunge con quella sul potere: un punto su cui dovremo tornare).

Quanto all’ermeneutica filosofica, la sua diffusione nelle scienze sociali della seconda metà del Novecento è legata all’opera di Hans-Georg Gadamer. Ricordan-do la lezione di Heidegger, secondo cui il linguaggio è “la casa dell’Essere”, Ga-

38 Berger, Luckmann, op. cit., p. 60. 39 Cit. in D. Marconi, Introduzione in R. Rorty, La svolta linguistica. Tre saggi su linguaggio e filoso-fia, tr. it. Milano, Garzanti, 1994. 40 Per un’introduzione a Habermas rimando a W. Privitera, Il luogo della critica. Per leggere Haber-mas, Soveria Manelli, Rubbettino, 1996.

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damer rammenta la fondamentale linguisticità dell’essere umano, vale a dire l’insopprimibilità della mediazione linguistica in ogni nostro atto di comprensione della realtà. La parola “ermeneutica” vuole dire in fondo semplicemente “interpre-tazione”, o “scienza” o “arte” dell’interpreta-zione: per tutti i sociologi che, sulla scia di Weber, hanno sempre inteso le scienze sociali come scienze votate all’interpretazione (che precede necessariamente la spiegazione) la lezione di Ga-damer ha corrisposto a un logico affinamento della propria impostazione. Per tutti, ha però rappresentato un deciso invito a non dimenticare quanto ogni comprensione del-la realtà sia parziale, e come si offra dialogicamente al confronto con comprensioni altrui.

Nell’insieme, tutte queste correnti convergono nel rendere problematica per gli scienziati sociali la supposizione di poter descrivere la realtà in modi univoci. Poi-ché ogni osservazione è mediata discorsivamente, ha la stessa parzialità di ogni di-scorso: non è neutra, non è universale. Lo può essere, forse, ma solo nel senso di una faticosa conquista che attraversi consapevolmente tutte le difficoltà poste dall’assenza di un meta-linguaggio comune che azzeri le differenze fra tutti i lin-guaggi esistenti41.

La discussione di tutti gli autori citati in questo scorcio del mio intervento è impossibile. Anche supponendo (erroneamente) che ne abbia le competenze, sa-rebbe un compito troppo lungo e complesso.

Concluderei usando la sintesi che ne propone Franco Crespi: sulla base di tutto ciò,

“il concetto di realtà va quindi inteso come il risultato dell’incontro tra il da-to naturale, le istituzioni particolari del contesto sociale e le forme linguisti-co-culturali attraverso cui rappresentiamo e conosciamo sia le cose naturali sia le strutture sociali”42.

Per certi versi si tratta della diffusione e della radicalizzazione di una consape-volezza che, come ho accennato più sopra, era già presente. Ma è soprattutto la proposta di un’integrazione di fondo fra lo studio dei linguaggi e le scienze umane, e l’avvio di una considerazione del linguaggio stesso che va molto al di là della linguistica classica, spingendosi verso un pieno riconoscimento della varietà delle forme e delle funzioni delle pratiche comunicative: queste non si risolvono solo in espressioni orientate a descrivere un “referente”, ma dispiegano un ventaglio di funzioni diverse. Come dice Austin, “dire è fare”: la comunicazione è un mondo di pratiche, e tali pratiche cooperano a costruire la nostra realtà43.

41 Da qui in avanti, si può dire che un discrimine fra gli scienziati sociali passa fra chi si accorge che l’esistenza di una molteplicità di linguaggi è un problema, e chi non se ne accorge. Di questi ultimi, si può dire forse che non hanno mai riflettuto sull’esperienza di tradurre qualcosa. Un’esperienza in cui ci si accorge bensì che le lingue sono affini, ma anche che non sono identiche: termini astratti e con-creti, sintassi, concetti, sono dissimili, e ogni lingua è, per il testo scritto in un’altra, un letto di Procu-ste dove, per adattarsi, diventa diverso, non di rado perdendo suoi elementi cruciali. Per un’introduzione alle problematiche della traduzione rimando a G. Gallo e P. Scoletta (a cura), La tra-duzione. Un panorama interdisciplinare, Lecce, Besa, 2003. 42 F. Crespi, Sociologia del linguaggio, Roma-Bari, Laterza, 2005, p. 18. 43 Cfr. J. L. Austin, Quando dire è fare, tr. it. Genova, Marietti, 1974.

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Costruzione sociale della realtà e processi comunicativi: il ruolo della conversa-zione

La consapevolezza dell’importanza dei processi comunicativi è un portato e-stremamente rilevante del dibattito delle scienze sociali nella seconda metà del No-vecento. Prescindendone, non credo sia possibile alcuno sviluppo ulteriore.

Ma altrettanto indispensabile mi sembra un riconoscimento complementare: non c’è solo il linguaggio, non c’è solo la comunicazione. Vi sono tipi di agire che non si risolvono nell’agire comunicativo. E vi è una realtà delle cose e dei corpi che non si esaurisce nella realtà del linguaggio. È vero che, empiricamente, è abba-stanza difficile districare la componente comunicativa dalle altre componenti dell’esistenza umana, ma altrettanto vero è che non tutto è linguaggio. Un campio-ne della linguisticità dell’umano come Hans-Georg Gadamer lo aveva ben chiaro, e anche i suoi critici lo riconoscono: se da un lato afferma che “la nostra esperienza del mondo è resa possibile e mediata linguisticamente”, dall’altro ricorda che “non è mai solo un processo linguistico e non si esaurisce mai nel linguaggio”44.

Poiché in questo intervento mi concentro però sul significato che l’idea della costruzione sociale della realtà assume nella sociologia di ispirazione fenomenolo-gica, mi pare importante tornare a sottolineare che il ruolo dei processi comunicati-vi in tale costruzione era già ben presente a Berger e Luckmann.

Tale ruolo è segnalato da Berger e Luckmann soprattutto nella terza parte del loro lavoro, là dove si interrogano sui modi mediante i quali un certo insieme di rappresentazioni della realtà è riprodotto e conservato nel corso delle interazioni ordinarie. Fra tali modi, un ruolo decisivo lo riveste infatti una pratica comunicati-va: quella della conversazione.

Ora, la conversazione è effettivamente “linguaggio in azione”: è probabilmente la forma più comune del linguaggio in azione, la cellula elementare, per così dire, di tutto il campo dei processi comunicativi45.

Ma in che modo essa agisce per la preservazione di certe rappresentazioni della realtà?

Innanzitutto, scrivono Berger e Luckmann, la conversazione contribuisce alla riproduzione della realtà socialmente condivisa per il semplice motivo che, per l’appunto, utilizza il linguaggio. Se è vero che il linguaggio organizza i flussi dell’esperienza di ognuno in modi condivisi fra tutti coloro che partecipano della medesima lingua, in modo tale che con l’instaurazione di quest’ordine il linguaggio permette di “realizzare” il mondo (nel duplice senso del “costruire” e del “rendersi conto di”), allora la conversazione è “l’attuazione di questa efficacia realizzatrice del linguaggio nelle situazioni di contatto diretto fra gli individui” 46. L’interpretazione della realtà che il linguaggio incorpora viene cioè riprodotta ad

44 R. Koselleck e H.-G. Gadamer, Ermeneutica e istorica, tr. it. Genova, Il Melangolo, 1990, p. 33. 45 Più propriamente, la “cellula elementare” ne è in verità l’enunciazione, la quale però, come ha ben mostrato Bachtin, si colloca intrinsecamente nell’ambito di uno spazio conversazionale. Per un’eccellente discussione su questi temi rimando a R. Ronchi, Teoria critica della comunicazione, Milano, Bruno Mondadori, 2003. 46 Berger, Luckmann, op. cit., p. 210.

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ogni passo per il mero fatto di essere utilizzata conversando, e confermata dallo stesso successo comunicativo che garantisce agli interlocutori.

La rappresentazione del mondo che gli interlocutori condividono è costante-mente ricostruita da questi, però, non senza che intervengano, mano a mano, delle modificazioni. Come scrivono infatti Berger e Luckmann:

“L’apparato della conversazione, mentre preserva continuamente la realtà, al-lo stesso tempo la modifica continuamente. Alcuni elementi vengono elimi-nati, altri vengono aggiunti, indebolendo alcuni settori di ciò che si dà per scontato e rafforzandone altri. Così la realtà soggettiva di una cosa di cui non si parla mai a poco a poco diventa vacillante [...]. Viceversa, la conversazione dà un contorno netto alle cose che in precedenza sono state percepite in ma-niera fuggevole o poco chiara. Si possono avere dei dubbi sulla propria reli-gione; questi dubbi diventano reali in tutt’altra maniera se li si discute con qualcuno. Parlando ci si “convince” dei propri dubbi; essi vengono oggettiva-ti come realtà della coscienza. In generale l’apparato della conversazione mantiene la realtà nominando i vari elementi della esperienza e assegnando loro un posto nel mondo reale”47.

Si comincia qui a vedere una prestazione della conversazione più specifica di quanto non stia nel mero “usare” il linguaggio. La conversazione costruisce realtà nella misura in cui costruisce rilevanze e plausibilità. Queste non stanno nel lin-guaggio in se stesso, ma nel suo uso. Ciò di cui non si parla tende a eclissarsi; ciò di cui si parla viene rinforzato. È il principio che illustrammo all’inizio di questo intervento con l’esempio della storia di Calderon de la Barca.

Ma c’è ancora di più. Il punto seguente è forse quello cruciale: “È importante - scrivono infatti Berger e Luckmann - mettere in rilievo che la maggior parte della preservazione della realtà che avviene per mezzo della conversazione non è esplicita, ma implicita. La conversazione per lo più non si preoccupa di dare una definizione della natura del mondo, ma avviene piut-tosto sullo sfondo di un mondo che viene tacitamente dato per scontato. Così uno scambio come “Be’, è ora che vada alla stazione”, “Ciao, tesoro, spero che avrai una buona giornata in ufficio” implica un intero mondo all’interno del quale queste proposizioni apparentemente semplici hanno un senso. In virtù di questa implicazione tale scambio di battute conferma la realtà sogget-tiva di questo mondo”48.

Per capire quanto sia vero tutto ciò, Berger e Luckmann propongono poco dopo un altro esempio. Si pensi a uno scambio di battute come il seguente: “Be’, è ora che vada alla stazione”, “Ciao, tesoro, non dimenticare il fucile”.

Come il nostro probabile sconcerto a questo secondo esempio evidenzia, le bat-tute del primo esempio erano comprensibili assumendo una serie di supposizioni sul mondo che esse davano per scontato: vi sono cose come le stazioni, gli uffici, e via dicendo. Il nostro stupore al secondo esempio mostra quanto quelle supposizio-ni erano effettivamente presenti. Le battute del secondo caso, infatti, sulla base di quegli assunti non sono comprensibili: esse chiedono per avere senso che si pensi a

47 Idem. 48 Ivi, p. 209.

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un mondo diverso (dove andare in ufficio comporta un certo pericolo, direi). Ma allora: nel caso del primo esempio davvero pensavamo - pur senza accorgercene - ad un mondo: le battute lo implicavano. Non lo nominavano esplicitamente, ma co-stringevano i due interlocutori - e noi che li spiamo - a condividere certi assunti, e non altri. Anche nel secondo caso implicano un mondo: ma un mondo diverso; an-che adesso non è nominato esplicitamente, ma solo presupponendolo le battute di-ventano dotate di senso.

La conversazione dunque contribuisce alla ricostruzione continua della realtà condivisa non direttamente, ma indirettamente. Ogni conversazione implica una serie di assunti nei quali è necessario credere affinché i contenuti della conversa-zione abbiano senso e risultino comprensibili. Con ciò essa rinforza questi stessi assunti: li propone infatti, senza portare su di essi l’attenzione consapevole degli interlocutori, come elementi ovvi del mondo a cui ci si riferisce. In questo modo, essa è in effetti lo strumento principe della ricostruzione continua del senso comu-ne, della preservazione cioè di un certo modo di interpretare la realtà dandolo per scontato.

Per completare il discorso su questo punto, si noti che potremmo portare anche esempi meno asettici di quelli offerti da Berger e Luckmann. Si pensi ad esempio a scambi di battute come i seguenti: “Ciao cara, parto per Napoli”. “Bene tesoro: to-gliti il Rolex”. Oppure: “Hai visto? C’è la domanda di assunzione di un siciliano”. “In questa fabbrica non vogliamo scansafatiche”.

In questi casi la rappresentazione del mondo implicata dalle frasi comprende evidenti pregiudizi. Solo sulla loro base è possibile attribuire loro un senso. Tra le battute di apertura e le risposte non c’è infatti conseguenza logica: la conseguenza c’è però se si assume che, nel primo caso, entrambi gli interlocutori diano per scon-tato che a Napoli i furti sono frequenti, e, nel secondo, che i siciliani siano scansa-fatica. Il secondo esempio, in particolare, ha un’evidente venatura razzista.

Sulle ragioni psico-sociali della formazione di pregiudizi, e in particolare di pregiudizi razzisti o etnocentrici, l’approccio di Berger e Luckmann offre strumenti limitati (anche se non è difficile, in proposito, integrarli49). Offre però strumenti utili a riconoscere come si riproducano. Ciò non avviene necessariamente in modo diretto. Tutto sommato, questo è anzi il modo meno efficace: ciò che è affermato esplicitamente, infatti, si offre all’attenzione dell’interlocutore e può venire discus-so. Più efficace è riprodurli indirettamente, in quanto assunti impliciti del proprio discorso, che l’interlocutore è chiamato a dare per scontati se vuole continuare sen-za intoppi il dialogo.

Credo che in esempi come questi l’approccio di cui stiamo parlando cominci a mostrare la sua validità euristica. Esso afferma che le nostre credenze sulla realtà sono una parte della realtà stessa, e hanno conseguenze reali. Afferma che queste credenze sono attivamente prodotte e ricostruite dagli attori attraverso le proprie pratiche, e in particolar modo attraverso le pratiche comunicative. Non sono però riprodotte tanto in modo esplicito e consapevole, quanto in modo implicito e spesso inconsapevole. Esse sono riprodotte in quanto date per scontate. E, nel suo insie-

49 Per un esempio in tal senso mi permetto di rimandare a P. Jedlowski, Razzismo, pregiudizio e senso comune, in Fogli nella valigia, Bologna, Il Mulino, 2003.

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me, l’approccio suggerisce proprio di prendere atto di ciò che diamo per scontato. Dare per scontato qualcosa significa infatti dimenticare che le cose potrebbero stare altrimenti. Riattivare il dubbio che potrebbero stare altrimenti è restituire ai sogget-ti potere sui propri modi di interpretare il reale, e dunque di agire più liberamente e consapevolmente al suo interno.

I media e la costruzione sociale della realtà

Data l’importanza che i processi comunicativi rivestono nell’idea che la realtà sia una costruzione sociale, non è sorprendente osservare come questo paradigma sia stato applicato con successo al campo degli studi sui media. Ciò è avvenuto so-prattutto a partire dagli anni settanta. Anche qui però non si tratta tanto di una novi-tà assoluta, quanto della sistematizzazione di intuizioni precedenti.

La prima formulazione di queste intuizioni può essere fatta risalire a Walter Lipmann. Non si tratta propriamente di un sociologo, ma di un giornalista e com-mentatore politico; la sua opera del 1922, L’opinione pubblica, ha tuttavia rappre-sentato un contributo di grande rilievo alla riflessione sociologica sul ruolo e sugli effetti dei mezzi di comunicazione di massa all’interno delle società moderne50.

La nozione centrale in quest’opera è quella di pseudoambiente. Questo è l’ambiente mentale costituito dalle immagini della realtà che rappresentano la mappa cognitiva entro cui ci muoviamo. Tali immagini derivano in parte dalla no-stra esperienza diretta, ma in misura maggiore derivano da una conoscenza indiret-ta, e nel mondo contemporaneo questa conoscenza indiretta è prodotta prevalente-mente dai media di massa (ai tempi di Lippmann: stampa quotidiana e periodica, libri, cinegiornali, i primi programmi radiofonici).

Le immagini dello pseudoambiente possono essere più o meno corrette, se con-frontate con l’ambiente reale; ma, scrive Lippmann, hanno sempre e comunque effetti reali (si rammenti in proposito il cosiddetto “teorema di Thomas”, ovvia-mente). Ad esempio, se pensiamo che la terra sia piatta non partiamo per raggiun-gere gli antipodi; se pensiamo che un nemico stia per attaccarci lo colpiamo a no-stra volta; e così via. Per questo il controllo del loro funzionamento è cruciale. Se venissero monopolizzati da un potere totalitario niente eviterebbe, scrive Lip-pmann, conseguenze paradossali come mandarci tutti a comprare biglietti per “le spiagge della Boemia” 51 .

Ora, per quanto i concetti della sociologia fenomenologica non siano utilizzati, il discorso è, almeno in parte, già analogo. Il potere dei media ha a che fare con la costituzione del senso comune, cioè di rappresentazioni della realtà che vengono date per scontate. All’interno di queste rappresentazioni, certe affermazioni sono plausibili, hanno un’aura di “sensatezza”, altre no. Un risultato che, si noti, è effet-

50 W. Lippmann, L’opinione pubblica, tr. it. Roma, Donzelli, 1995. 51 Ivi, p. 19. Usando questa espressione, Lippmann aveva in mente un dramma di Shakespeare, il Racconto d’inverno, dove una nave approda “sulle coste impervie della Boemia”, mentre la Boemia reale, ovviamente, non tocca alcun mare.

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tivo solo nella misura in cui gli attori stessi non se ne accorgano, ovvero dimenti-chino o sopprimano il dubbio che si possa pensare altrimenti.

La relazione delle teorie di Lippman con l’idea della realtà come costruzione sociale è analoga a quella della teoria delle profezie mertoniana: in entrambi i casi l’idea non è dispiegata, ma si indicano elementi che ne fanno parte. D’altra parte, rispetto alle anticipazioni della stessa idea che erano presenti nei classici, si fa già un passo avanti: non ci si limita a riconoscere che i nostri rapporti con la realtà so-no culturalmente mediati, ma si indicano alcuni processi specifici attraverso cui certe rappresentazioni della realtà sono costruite e hanno modo di dispiegare effetti concreti.

Riallacciandosi esplicitamente alla tradizione di pensiero inaugurata da Lippmann, ma citando ora altrettanto esplicitamente la teoria della realtà come co-struzione sociale, questa prospettiva è riattivata negli anni settanta da diversi filoni di ricerca.

Sono argomenti familiari a chi studia sociologia della comunicazione, ma gli insegnamenti che se ne traggono sono rilevanti anche fuori da questo contesto. Se la costruzione sociale della realtà avviene in gran parte mediante processi comu-nicativi, è evidente che il loro studio non può prescindere dagli strumenti e dalle forme in cui tali processi si realizzano in parte cospicua.

A titolo esemplare, si possono ricordare qui gli studi ispirati alla cosiddetta teo-ria dell’agenda-setting52. Si tratta di ricerche che mettono a confronto ciò che certi campioni di cittadini dicono essere i temi salienti della situazione politica attuale con l’elenco dei temi che appaiono rilevanti attraverso la copertura che ne offrono i media. La correlazione fra l’enfasi relativa accordata dai media e le credenze dei cittadini riguardo all’importanza dei medesimi temi nei giorni successivi è quasi perfetta53. In sintesi, ciò suggerisce la considerazione seguente: i mezzi di comuni-cazione di massa forse non hanno successo nell’imporre al pubblico che cosa pen-sare; ma ce l’hanno sicuramente nel suggerire intorno a che cosa pensare.

Come riassume la questione Donald Shaw: “In conseguenza dell’azione dei giornali, della televisione e degli altri mezzi d’informazione, il pubblico sa o ignora, considera o trascura, enfatizza o ne-glige elementi specifici della vita pubblica. Le persone tendono a includere o a escludere dalla proprie conoscenze ciò che i media includono o escludono dai propri contenuti, e ad attribuire agli eventi, ai problemi e ai personaggi

52 Il valore degli studi in questione sta soprattutto nel radicarsi in ricerche empiriche circoscritte e ben disegnate. Gli autori a cui questo specifico approccio fa capo, Donald Shaw e Maxwell McCombs, realizzarono negli anni settanta negli Stati Uniti una serie di tre ricerche, in occasione di altrettante elezioni presidenziali. La più nota è D. Shaw, M. McCombs, The Emergence of American Political Issues: the Agenda-Setting Function of the Press, St. Paul, Minnesota, West Publishing Company, 1974. 53 E non solo nell’elenco, ma nel grado di rilevanza attribuito ai singoli temi. E’ una correlazione di +0,976. In tutta la storia della ricerca sociale è raro che si siano mai riscontrate correlazioni di questa grandezza (cfr. S. A. Lowery, M. L. DeFleur, Milestones in Mass Communication Research, New York, Longman, 1995).

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proposti dai media un’importanza che corrisponde all’enfasi con cui sono trattati”54.

L’agenda setting riguarda principalmente la rilevanza relativa dei temi. Però l’offerta di certi temi va insieme con una certa forma espositiva, con un linguaggio: la realtà è tipizzata:

“… i media forniscono qualcosa di più che non solo un certo numero di noti-zie. Essi forniscono anche le categorie in cui i destinatari possono collocarle in modo significativo”55.

Rilevanza, plausibilità, tipizzazione: i media insomma costruiscono senso co-mune. La loro importanza sta meno nei singoli contenuti che veicolano, quanto nel quadro cognitivo complessivo che generano e che sostengono attraverso la loro a-zione nel tempo. Quello che è importante, in altri termini, è quello che danno per scontato: l’idea che quella di cui parlano - e nel modo in cui ne parlano - sia la real-tà, l’unica realtà di cui sensatamente è plausibile parlare.

L’effettiva imposizione sul pubblico di un’agenda di temi è varia: rispetto a ciò che si tocca con mano o a ciò che concerne interessi e appartenenze vivamen-te sentiti, ciascuno dispone di criteri di rilevanza che possono opporsi ai sugge-rimenti mediali. Ma rispetto all’insieme di ciò che avviene nel mondo, rispetto ai temi più vasti della politica o della cultura che il pubblico segue con relativa di-sattenzione, il potere delle istituzioni mediali è assai ampio: e crea così lo spazio discorsivo di fondo entro cui ogni argomentazione, anche la più “alternativa”, deve situarsi perché la sua plausibilità sia accettata.

Il potere dei media a riguardo non è però soltanto quello di costruire l’agenda dei temi rilevanti. Come negli stessi anni mostrava Elisabeth von Noelle-Neumann, sta anche nel produrre un’immagine del “clima d’opinione” prevalente56. O, come mostreranno successivamente e in modo più raffinato gli studi socio-semiotici, sta nella capacità di suggerire ai fruitori delle “posture interpretative” che implicano l’assunzione di certi presupposti necessari alla comprensione dei testi57.

Probabilmente è proprio questa capacità di suggerire “presupposti”, a prescin-dere dalla diversità dei contenuti specifici dei vari testi proposti, ciò che ha più ef-fetto sulla costruzione del senso comune. Ciò che si finisce per credere che tutti gli altri credano, e per credere a propria volta, è ciò che i testi ci chiedono di dare per scontato per venire compresi. L’adesione di ciascuno al senso comune è soprattutto l’adesione alla postura interpretativa che i testi mediali suggeriscono, allo sfondo di presupposti che invitano a condividere. (Il che ci riporta alle osservazioni di Berger e Luckman sul modo indiretto con cui gli scambi comunicativi contribuiscono alla preservazione di una certa realtà).

54 Cit. in G. Losito, Il potere dei media, Roma, Carocci, 1998, p. 131. 55 Cit. in M. Wolf, Teorie delle comunicazioni di massa, Milano,Bompiani, 1985, pp. 144-145. 56 Cfr. E. von Noelle-Neumann, La spirale del silenzio, tr. it. Roma, Meltemi, 2002. 57 Per un’introduzione esemplare all’approccio socio-semiotico rimanderei a G. Bettetini, La conver-sazione audiovisiva, Milano, Bompiani, 1984. Per una discussione di questo approccio nell’ambito di un discorso su media, vita quotidiana e senso comune vedi P. Jedlowski, C. Leccardi, Sociologia della vita quotidiana, Bologna, Il Mulino, 2003, cap.4.

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Tale adesione, in se stessa, non può essere data per scontata. Il senso comune di ogni cerchia sociale interagisce con il senso comune proposto dai media e può dar luogo a risultati imprevisti. Ma possiamo notare che il tentativo di costruire questo sfondo di presupposti unitario è l’oggetto delle lotte più aspre che si com-battono oggi sulla scena mediatica. E non a caso: il senso comune è una posta in gioco nei circuiti comunicativi più importante del contenuto di ogni singolo mes-saggio. È infatti il substrato su cui la plausibilità dei singoli messaggi si basa. Ed è particolarmente esposto ad essere influenzato dal coro mediatico: essendo fatto di credenze, di assunti impliciti, e non di argomentazioni esplicite e razionali, è gene-rato e sostenuto esattamente dalla percezione di essere diffuso.

È pensando anche a questo che Niklas Luhmann ha potuto scrivere che “I mass media non sono dei media nel senso che trasportano delle informa-zioni da chi sa a chi non sa. Sono dei media in quanto predispongono e porta-no avanti di volta in volta un sapere di fondo dal quale si può partire nella comunicazione”58.

Il “sapere di fondo” è per l’appunto l’insieme delle premesse di ogni discorso che il senso comune si incarica di garantire. Corrisponde alla definizione dei limiti di ciò che va ritenuto plausibile e rilevante: rende certi discorsi accettabili e ne squalifica altri59.

58 N. Luhmann, La realtà dei mass media, tr. it. Milano, Angeli, 2000, p. 86. 59 Questo sapere di fondo, però, oggi non è esattamente ciò che nella società è dato per scontato: è ciò che attori diversi cercano di far sì (più o meno consapevolmente) che sia dato per scontato. E’ una posta in gioco. Che lo sia, dipende dalla complessità e dalla conflittualità immanente delle società contemporanee, dove il senso comune è intrinsecamente plurale. Ma, per quanto telegraficamente, vorrei notare che è anche un portato di quella che chiamiamo “modernità riflessiva” (cfr. U. Beck, A. Giddens e S. Lash, Modernizzazione riflessiva, tr. it. Trieste, Asterios, 1999; vedi anche A. Melucci (a cura), Verso una sociologia riflessiva, Bologna, il Mulino, 1998). Sul significato del termine non vi è accordo perfetto, ma in buona sostanza intende questo: che le società contemporanee sono tali per cui ogni aspetto della vita è potenzialmente oggetto di riflessione ed è ricondotto coscientemente alla re-sponsabilità della società stessa, che sa di costruirsi rinunciando ad ogni legittimazione trascendente dei propri ordinamenti. La modernità riflessiva è quella di una società che è artefice di sè e delle pro-prie istituzioni, e che ne è consapevole. Ma la riflessività non può mai ricoprire l’intero spettro di ciò che sappiamo. Illumina parte del nostro agire, ma se siamo in grado di agire è perchè non su tutto get-tiamo la luce della riflessione. Una riflessione su tutti i presupposti del nostro agire è impossibile: non solo perchè non avrebbe dove ottenere tutte le informazioni necessarie al giudizio, ma perchè non a-vrebbe dove cominciare. Di conseguenza, la nozione di modernità riflessiva significa soprattutto que-sto: che la nostra società, non disponendo di un senso comune omogeneo e stabile, è una società dove individui e gruppi in concorrenza fra loro cercano di imporre la propria versione dei presupposti in base ai quali la riflessione su singole e circoscritte tematiche può poi svilupparsi. Una società in cui si compete cioè riguardo alla definizione di ciò che dovrebbe essere ovvio. In ogni caso, per un’esposizione più ampia dei contenuti di questo paragrafo rimando a P. Jedlowski, Sulla mediatizza-zione del senso comune, in “Sociologia della comunicazione”, 37, 2005.

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Anche le enunciazioni sono reali

D’altra parte, il senso comune non comprende solo premesse, bensì anche giu-dizi relativi ad eventi ed a stati di fatto. Costruire senso comune significa dunque anche costruire un sapere al cui interno sia le proprie premesse, sia i propri giudizi, vengano dati per scontati, cioè messi al riparo dalla possibilità della critica. O, in altre parole, significa agire per far sì che le proprie premesse ed i propri giudizi non appaiano neppure “premesse” e “giudizi”, e non sembrino emanare da nessun sog-getto particolare, ma emanare dalle cose stesse e dal coro di quel che si dice, e si dice abbastanza diffusamente da poter essere creduto al di là di ogni dubbio.

Le battaglie che oggi si combattono intorno al senso comune si manifestano così anche nei tentativi di far sì che si dica ciò che più conviene e nel modo che implichi le premesse che ci convengono.

Crescendo in ampiezza e in pervasività, i media hanno ampliato a dismisura, del resto, proprio la sfera di quel che si dice: hanno ampliato cioè quella classe di eventi che consistono nel dire o nel rappresentare qualche cosa; ma questi eventi non si limitano a sovrapporsi a ciò di cui parlano o che rappresentano: sono altret-tanto reali, come è reale ogni enunciazione.

È ciò che spiegava già Walter Benjamin quando, più di mezzo secolo fa, nota-va che le notizie non sono “messaggeri”, ma eventi in se stessi:

“È la stampa un messaggero? No, l’evento. […] Essa avanza la pretesa che i veri eventi siano le notizie sugli eventi, ma provoca anche questa sinistra i-dentità, onde sorge sempre l’apparenza che i fatti debbano essere prima riferi-ti e poi compiuti, e spesso anche tale possibilità”60.

Ogni notizia, ogni immagine o ogni racconto che i media producono non è sol-tanto - e a volte non è affatto - il calco di eventi che avvengono nel mondo, ma è esso stesso un evento, che avviene anch’esso nel mondo e produce i suoi effetti: che qualcosa accada non è lo stesso che dire che accade.

E ciò che si dice (o che si rappresenta, o di cui si propone l’immagine) è reale. Lo è tanto quanto il referente di ciò che vien detto, anzi anche a prescindere dalla realtà del suo referente o persino dalla sua stessa esistenza. È reale sia perché e-nunciazioni e enunciati sono comunque fatti che appartengono alla realtà, sia per-chè sono reali i loro effetti.

Lo sappiamo da quanto abbiamo discusso fin qui. Ma, prima di qualunque stu-dioso, è ciò che, per esempio, sa ogni pettegolo: quello che si dice vale più di quel-lo che accade. Il pettegolezzo è del resto uno dei tipi di discorso più adatti alla ri-produzione (e in parte alla manipolazione) del senso comune. E non è fuori luogo ricordare che, agli albori della ricerca sui media, Robert Park scorgeva nel pettego-lezzo il modello fondamentale del funzionamento dei media61.

60 W. Benjamin, Karl Kraus, in Avanguardia e rivoluzione, tr. it. Torino, Einaudi, 1973, p. 109. 61 R. E. Park, La storia naturale del giornale, in R. E. Park et al., La città, tr. it. Milano, Comunità, 1979.

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I discorsi ora citati non rappresentano l’idea della realtà come costruzione so-ciale in tutta la sua ampiezza: ne costituiscono tuttavia un’applicazione coerente che contribuisce a evidenziarne la portata. D’altro canto, suggeriscono anche qual-cosa di diverso, o quanto meno qualcosa che in Berger e Luckmann non era altret-tanto esplicito: l’idea che la “realtà” sia comunque più complessa, o forse più am-pia, di ciò che usualmente pensiamo. Reale è infatti anche la classe di tutti quegli eventi in cui altri eventi sono rappresentati, e anche quella di tutti quegli eventi in cui ciò che è rappresentato non esiste altrove che nella rappresentazione stessa.

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4. Prospettive di ricerca: alcuni esempi

La costruzione sociale fra conflitti e negoziazioni

Per quanto il libro di Berger e Luckmann (o più in generale il contributo della sociologia fenomenologica) sia citato esplicitamente in diverse delle riflessioni che ho citato nel capitolo precedente, a contare in questi studi è soprattutto il ricono-scimento dell’importanza dei processi comunicativi nella vita sociale. Tale ricono-scimento è legato al paradigma della realtà come costruzione sociale, ma in un cer-to senso è anche più specifico. Altrettanto specifici sono gli sviluppi che il para-digma in questione ha conosciuto in diversi altri campi di ricerca.

Si tratta di campi che spaziano dallo studio della costruzione sociale del passa-to a quello delle organizzazioni, dalla storia delle tecnologie a quella dei mercati, dall’analisi di genere a quella dei rapporti etnici. Per il nostro discorso, ciò che è interessante in tutti questi studi è soprattutto che la costruzione sociale della realtà vi si svela un affare intriso di potere.

L’idea della costruzione sociale sviluppata dalla sociologia fenomenologica era in effetti prevalentemente (anche se non esclusivamente) cognitiva: il ruolo centra-le era giocato da significati, credenze, rappresentazioni. Alcuni hanno scritto addi-rittura che il libro di Berger e Luckmann peccasse di un certo “idealismo”, vale a dire di una scarsa considerazione degli aspetti pratici e materiali dell’esistenza so-ciale. Non credo sia vero. Certamente, in questa direzione l’approccio fenomenolo-gico originario può essere più sviluppato, ma la dimensione delle pratiche non è affatto assente. È vero però che alle dinamiche fra i gruppi sociali e le relazioni di potere che le caratterizzano, e ai rapporti fra tutto ciò e le credenze, Berger e Lu-ckmann rivolgono relativamente poca attenzione. Ma questa attenzione, per l’appunto, è presente in diversi degli sviluppi più recenti delle loro idee. Farò in proposito, brevemente, soltanto alcuni esempi.

Prendiamo per cominciare l’idea della costruzione sociale delle tecnologie. In autori come Bijker, Pinch e molti altri, è utilizzata come è noto per rendere conto della storia sociale delle innovazioni tecniche62. Dire che un certo artefatto, una certa tecnica o un certo sistema tecnologico sono il risultato di processi di “costru-zione sociale” serve a questi autori innanzitutto per contrapporsi al determinismo tecnologico, tale per cui la storia delle innovazioni tecniche sarebbe spiegabile semplicemente all’interno di se stessa, senza considerare i contesti in cui si svilup-pa. D’altro canto, non per questo si tratta di passare a un determinismo culturale. Perché una tecnologia si sviluppi è necessaria ovviamente la disponibilità di certe materie prime e di certe conoscenze, occorre tener conto di certe proprietà della materia e di certe sue regolarità fisiche o chimiche. 62 Per un’introduzione e per i principali riferimenti bibliografici rimando qui, per brevità, al primo capitolo di G. Pellegrino, Il cantiere e la bussola, Soveria Mannelli, Rubbetino, 2004.

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I fattori culturali, economici e politici sono tuttavia prioritari in questo tipo di studi. Ciò perché il punto che intendono affermare è che il modo in cui un certo strumento tecnico si presenta alla fine del suo processo di costruzione finisce per far dimenticare che appunto di un processo si è trattato.

Che oggi il giradischi, ad esempio, sia uno strumento per intrattenersi ascoltan-do musica lo diamo per scontato, ma al principio si trattò di uno strumento per il lavoro di ufficio. Diamo per scontato che la radio sia l’apparecchio ricevente che abbiamo in casa, ma la radio è in principio un apparecchio rice-trasmittente, e la sua diffusione nella forma di apparecchio per la ricezione di programmi broadca-sted non era iscritta nella sua logica tecnica come l’unica possibile. O, ancora, con-sideriamo ovvio che l’energia elettrica nelle nostre case provenga da grandi centrali distanti, ma questo esito non è iscritto nella mera logica dell’elettricità, che si può produrre e distribuire anche in altri modi.

In ciascuno dei processi che hanno condotto allo stabilizzarsi di una tecnologia ci sono stati momenti di scelta, direzioni imboccate e poi abbandonate, soluzioni che sono apparse più vantaggiose di altre. Nessun artefatto corrisponde infatti a un progetto univoco o dipende linearmente dalle possibilità tecnologiche che vi sono iscritte: possiede quella che questi autori chiamano una “flessibilità interpretativa”, può cioè essere interpretato in modi diversi quanto ai suoi usi, alle sue potenzialità, al suo stesso design.

Ma questa flessibilità non si manifesta nel vuoto sociale: ad avere idee diffe-renti degli sviluppi di una tecnologia sono gruppi di attori diversi, ciascuno dotato di interessi diversi (quelli che queste ricerche chiamano i “gruppi sociali rilevanti” relativamente ai processi di costruzione di volta in volta in esame).

È qui che entra in gioco il potere. I risultati concreti dello sviluppo di ogni tec-nologia rappresentano il frutto di compromessi, negoziazioni e conflitti tra tali in-siemi di attori. Nella loro forma recano traccia di fattori tecnici, indubbiamente; ma a guardar meglio vi è traccia di un intreccio di fattori interagenti e molteplici. Si tratta di storie in cui il potere gioca la sua parte: sia perché gruppi diversi dispon-gono di diverse capacità di imporre le proprie prospettive, sia perché la tecnologia stessa si presta a essere utilizzata per consolidare o per sfidare determinati poteri.

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La costruzione sociale del genere e delle “razze”

L’intreccio fra rappresentazioni, pratiche e poteri sociali è ancora più evidente se pensiamo ad un altro esempio, quello relativo ai modi in cui sono intese nelle società le differenze di genere.

“Donna non si nasce, lo si diventa”63: è una frase di Simone de Beauvoir, quel-la che apre il secondo volume de Il secondo sesso. Difficile esprimere con maggio-re sinteticità il senso di una costruzione. Certo, diventare donna è per certi versi un processo individuale: l’essere umano di sesso femminile apprende attraverso la propria esperienza cosa significhi essere una donna e comportarsi come tale. Ma cosa significhi essere donna e quali siano i comportamenti pertinenti è una costru-zione prettamente sociale.

Ciò non significa che non esistano differenze biologiche iscritte nella natura. I corpi degli uomini e delle donne hanno proprietà diverse. Ma tale diversità è inter-pretata dalla cultura. Usare il termine “genere”, invece di “sesso”, serve alle autrici e agli autori che se ne sono occupati esattamente per rimarcarlo. Il sesso rischia di essere inteso come meramente naturale; il genere è dichiaratamente sociale. Come dice una storica, Joan Scott, parlare di genere è, in effetti, una mossa teorica e poli-tica insieme: dire genere infatti è un modo per indicare

“… l’origine, di natura interamente sociale, delle idee circa i ruoli più adatti alle donne e agli uomini. È un modo per fare riferimento alle origini esclusi-vamente sociali delle identità soggettive di uomini e donne. Il genere è una categoria sociale imposta a un corpo sessuato”64.

Si tratta di una costruzione linguistica e cognitiva: le donne sono descritte ed evocate in certi modi nei discorsi che circolano. Ma contemporaneamente è una co-struzione pratica. La definizione della donna come “angelo del focolare”, casalinga e “leader espressiva” del gruppo famigliare, propria delle società industriali nella maggior parte del Novecento, va di pari passo con l’attiva esclusione delle donne dalla sfera pubblica e dal mercato del lavoro retribuito. Quando non con l’esclusione formale, con pratiche discriminatorie che lo disincentivano. I discorsi legittimano le pratiche, e le pratiche giustificano i discorsi. E in nessuno dei due piani è assente il potere. Di fatto, un potere maschile: potere di definire l’altro da sé (il “femminile” come “secondo sesso”) e potere di gestire i rapporti sociali fra i sessi.

Ciò non va esente da compensazioni parziali e da una certa complicità delle donne. Del resto, è caratteristico dell’intero approccio alla realtà come costruzione sociale ritenere che nessuno sia privo di una - sia pur piccola - quota di responsabi-lità per la riproduzione del mondo così come appare.

Ma è proprio il venire meno di questa complicità, in fondo, che motiva oggi il ricorso alla nozione della costruzione sociale. Dire che il genere è una costruzione

63 Simone de Beauvoir, Il secondo sesso, tr. it. Il Saggiatore, Milano, 1999. 64 J. W. Scott, Il “genere”: un’utile categoria di analisi storica, in P. Di Cori (a cura), Altre storie. La critica femminista alla storia, Bologna, CLUEB, 1996, p. 314.

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significa denaturalizzarlo: restituirne la definizione ai mondi della cultura e dei rapporti fra esseri capaci di scegliere. Negare la costruzione, per converso, significa negare ogni possibilità di cambiamento.

Come scrive Renate Siebert, “questo riferimento al cambiamento possibile è la prestazione specifica del concetto di costruzione sociale”65. Dove parlare di costru-zione non significa semplicemente indicare i processi che stanno alle spalle di quel-la che appare la situazione “data”, ma anche indicare la dimensione relazionale delle definizioni e delle pratiche in gioco: parlare del genere come di una costru-zione sociale significa in fondo negare che sia possibile analizzare la condizione femminile in modo isolato, separato dal “maschile”, rispetto a cui viene affermata per differenza, e separata dai maschi, dai modi concreti in cui questi alle donne si relazionano.

Un discorso analogo può essere svolto a proposito della costruzione sociale delle “razze”. Che esistano in natura differenze fra gli esseri umani, quanto al colo-re della pelle e a varie altre caratteristiche morfologiche, è indubbio. Scegliere di tracciare fra queste differenze linee di demarcazione corrispondenti all’esistenza di “razze” è tuttavia un’operazione culturale. È un’interpretazione delle differenze. E non è un’operazione da poco.

Si tratta, anche qui, di un’operazione che si dispiega nella storia e a cui contri-buiscono attori diversi; si tratta di un’operazione in cui si combinano elementi co-gnitivi ed elementi pratici; si tratta di un’operazione in cui si manifesta un potere; si tratta di un’operazione eminentemente relazionale. Tutti questi elementi sono messi in luce se si intendono le “razze” come una costruzione sociale; sono negati, per converso, se si intendono le razze come un mero fatto biologico.

Di nuovo, non è in gioco niente di simile a una negazione della “realtà”, a una sottovalutazione dell’oggettività di fatti, corpi, relazioni, stratificazioni sociali, con-flitti. Al contrario, si tratta di mettersi in grado di riconoscere tutto questo nel suo dispiegarsi nel corso della storia, grazie a corsi di azioni soggettivamente dotate di senso che danno luogo ad un mondo oggettivo e che questo mondo oggettivo con-corrono a riprodurre.

La nozione di “razza”, quando è usata a-criticamente, serve a naturalizzare dif-ferenze sociali. E con ciò a nasconderle. Non esistono le razze, ma gruppi umani razzizzati. Dal suo primo apparire, nel cuore dei processi di costituzione della mo-dernità, la nozione è servita a legittimare pratiche di dominio, a dare senso sogget-tivo ad azioni di sopraffazione ed a confermarne la plausibilità in quanto rispon-denti a situazioni “oggettive”66.

65 R. Siebert, La costruzione sociale delle differenze, in T. Grande, G. Parini (a cura), Studiare le so-cietà, Roma, Carocci, in stampa. 66 Cfr. R. Siebert, Razzismo. Il riconoscimento negato, Roma, Carocci, 2003, a cui rimando per di-scussione e bibliografia sul tema.

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La prospettiva “post-coloniale”

Così come sono le donne a proporre la nozione della costruzione sociale del genere per mettere in questione il dominio maschile, allo stesso modo dunque sono i razzizzati (i colonizzati o gli ex colonizzati), o chi prova a parlare con loro o per loro, a proporre il concetto di costruzione sociale in questo contesto.

Dai tempi di Berger e Luckmann ad oggi, la discussione sulle razze, i razzi-smi, i processi di colonizzazione e di decolonizzazione si è enormemente arric-chita. I termini usati sono più sofisticati, le questioni dibattute in dettaglio. Ma, al fondo, è ancora la nozione di costruzione sociale della realtà a costituire il riferi-mento comune. Come credo possa emergere esaminando, per finire, i contributi che oggi provengono dai cosiddetti post-colonial studies.

Come è noto, si tratta di un termine che, diffondendosi nell’ambito delle scien-ze sociali a partire dalla primitiva collocazione negli studi letterari, si riferisce a una galassia di studi la cui principale caratteristica sta nel farsi carico della memo-ria del colonialismo e nello sviluppo di una riflessione a riguardo. In sintesi telegra-fica, possiamo dire che il centro di queste riflessioni sta nella constatazione del fat-to che tanto il colonialismo quanto l’imperialismo non sono mai stati soltanto pro-cessi di espansione territoriale e pratiche di dominio militari e amministrative. Essi sono stati sostenuti da rappresentazioni della realtà che li hanno reso plausibili e li hanno legittimati, in parte diffondendosi anche presso gli abitanti dei paesi conqui-stati. Si tratta in particolare di rappresentazioni della “alterità” dei paesi extraocci-dentali che hanno contribuito a dar forma alla stessa autorappresentazione dell’Occidente e ne hanno permeato i discorsi, ivi compresi quelli degli scienziati sociali. Prenderne atto significa decostruire tali discorsi, riscrivendo la storia stessa dell’Occidente e della sua “modernità”.

Non posso certo dar conto qui della varietà e della molteplicità di interessi de-gli studi post-coloniali67. Basti qui rammentare almeno l’opera di Edward Said (an-che se Said stesso non ha mai amato essere incluso fra i “post-coloniali”, ma per ragioni che qui possiamo trascurare), e in particolare il suo Orientalismo, del 197868.

In questo volume Said propone una decostruzione dell’immagine dell’Oriente diffusa nella cultura e nelle scienze sociali europee, mostrando come tale immagine sia solidale con le pratiche imperialiste e contribuisca a legittimarle. Nella mole di riferimenti che cita, non compaiono Berger e Luckmann, e l’espressione “costru-zione sociale della realtà” non è usata. Compaiono però concetti desunti dal marxi-smo di Gramsci (in particolare la sua nozione di “egemonia”, che rimanda al con-flitto fra le rappresentazioni della realtà sostenute da classi diverse) e da Foucault.

A Foucault abbiamo già fatto cenno. Il centro del suo pensiero sta infatti nella nozione di discorso. Nei suoi termini, il “discorso” è un insieme di enunciati, di pratiche linguistiche e di significati attraverso cui gruppi determinati di individui 67 Per un’introduzione: M. Mellino, La critica postcoloniale. Decolonizzazione, capitalismo e cosmo-politismo nei postcolonial studies, Roma, Meltemi, 2005. 68 E. Said, Orientalismo, tr. it. Milano, Feltrinelli, 1991.

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percepiscono e ordinano la realtà. È un modo di parlare dei fatti (cose, persone, processi) in cui si incarnano i valori e le credenze del gruppo, ma in cui questi stes-si valori e queste stesse credenze si trasformano in criteri di verità. Ogni discorso è potere: esso non rispecchia la realtà, ma la costruisce, istituendo il regime di proce-dure che regola l’emissione di affermazioni plausibili.

La sintesi delle nozioni di Gramsci e di Foucault permette a Said di mostrare come il discorso coloniale crei dunque la realtà stessa che pretende di descrivere, e lo faccia esprimendo i valori e le credenze in cui si incarna l’egemonia dei domi-nanti, in modo tale da legittimare la loro dominazione.

Ciò non vale solo per i discorsi relativi all’“Oriente”, ma per tutti i discorsi ri-guardanti i paesi che l’Occidente ha considerato “altri” ed ha sottomesso69. D’altro canto, poiché le rappresentazioni degli “altri” hanno contribuito alla definizione della stessa identità occidentale, l’approccio di Said finisce per mettere in discus-sione questa stessa identità.

Al di là dei singoli risultati cui sono pervenuti o stanno pervenendo in questi anni, gli studi post-coloniali sono l’espressione di una prospettiva emergente. Ma, per chi abbia presente l’idea che la realtà è costruzione sociale, non propongono qualcosa di radicalmente nuovo70. Il loro interesse sta forse soprattutto nella capa-cità di rovesciare questo paradigma su se stesso. Il punto è che anche i concetti at-traverso cui le scienze sociali che abbiamo rammentato fin qui hanno descritto, compreso e spiegato il mondo sono modellati sull’esperienza occidentale e su lin-guaggi determinati. Abbiamo proposto questi concetti come universali, ma agli sguardi che ora si affermano da più parti del globo appaiono relativi a un mondo particolare: dipendono da problematiche, linguaggi, pratiche e modi di interpretare la realtà che sono specifici a certi popoli e a certi gruppi di attori.

Non si tratta per questo di rinunciare alle tradizioni teoriche di cui disponiamo, né di dichiarare che saperi relativi ad ogni società siano necessariamente impossibi-li. Ma, come recita un manuale introduttivo relativo a queste questioni, “dobbiamo costruire le nostre teorie con la consapevolezza che le differenze esistono, ed evita-re di espandere il locale fino a crederlo universale”71. Insomma, non possiamo permetterci di essere ingenui. Le scienze sociali, specie attraverso paradigmi come quello della costruzione sociale della realtà, hanno messo il mondo in questione: ma dobbiamo mettere in questione anche le nostre scienze sociali.

69 L’approccio permette del resto di essere applicato anche a molti fenomeni che riguardano la subor-dinazione relativa di certe aree dell’Occidente rispetto ad altre. Per esempio, può essere applicato al caso del Mezzogiorno italiano, come avviene in J. Schneider (a cura), Italy’s “Southern Question”. Orientalism in One Country, Oxford e New York, Berg, 1998. 70 Del resto, si potrebbe osservare che gli studi post-coloniali e il paradigma della realtà come costru-zione sociale hanno alcune radici in comune: specialmente attraverso la mediazione di Derrida, diver-si degli autori in questione si richiamano esplicitamente a Husserl o a Heidegger. Cfr. M. Mellino, op.cit. 71 A. Loomba, Colonialismo/postcolonialismo, tr. it. Roma, Meltemi, 2000, p. 15.

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De-reificare il reale

L’insieme delle ricerche citate in questa parte del mio intervento (e numerosis-sime altre che non cito per brevità, ma che tutte usano in un modo o nell’altro l’idea che la realtà sia una costruzione sociale) presenta di norma, come si è visto, l’ibridazione di concetti derivanti da una molteplicità di tradizioni teoriche. Ad ac-comunarle sono la sottolineatura dell’azione e della retroazione reciproca di una molteplicità di fattori, quella dell’importanza delle rappresentazioni e delle creden-ze entro cui comprendiamo la realtà e dei nessi che legano queste con le pratiche e con le istituzioni, e infine quella del carattere storico di tutte le forme della vita so-ciale. Specie recentemente, quest’ultima sottolineatura si sposa con la consapevo-lezza che le storie sono sempre plurali, e che i modi stessi in cui le raccontiamo so-no parte della storia e contribuiscono a forgiarla. Infine, ad accomunarle è l’intento de-feticizzante nei confronti di ogni modo consolidato di interpretare il reale.

Questo intento de-feticizzante riguarda tanto i modi in cui le cose sono inter-pretate nel linguaggi comuni, quanto quello in cui lo sono dalle stesse scienze so-ciali. Come scrivevano ad esempio i curatori di una fortunata antologia che appli-cava l’idea della costruzione sociale a un fenomeno circoscritto come la devianza, l’applicazione di questo paradigma corrisponde a proporre una prospettiva che “in-coraggi un processo di de-reificazione del concetto stesso, nella ricerca delle con-dizioni storiche e sociali che lo hanno posto in essere”72. Lo stesso vale in ogni al-tro campo. Nella sociologia economica - per fare un altro esempio - parlare di co-struzione sociale del mercato del lavoro significa mettere in discussione i paradig-mi più correnti in materia, mettendo in discussione l’”ovvia” equiparazione fra “la-voro” e “lavoro salariato” attraverso l’individuazione degli universi di senso e delle condizioni storiche entro cui il lavoro diviene effettivamente salariato (e, più in fondo, mostrando come la stessa riduzione dei beni a “merci”, e dunque dell’economia al “mercato”, appaia scontata soltanto dimenticando i lunghi proces-si materiali e ideologici che vi stanno alla base)73.

Insomma, dire che la realtà è una costruzione significa storicizzarla e indicare come rappresentazioni e pratiche siano solidali fra loro; e dire che questa costru-zione è sociale significa che vi coopera una molteplicità di attori diversi, ciascu-no dotato di interessi e prospettive specifici. E significa togliere alla realtà fattua-le l’aura di scontatezza di cui il senso comune la avvolge.

È vero che a volte, nelle ricerche che ho richiamato, parlare di costruzione sociale della realtà è forse più un tributo a un’espressione corrente che un riferi-mento specifico. Ma ciò è reso possibile dal fatto che diversi aspetti di questa i-dea sono presenti in quasi tutta la sociologia. Il che, per converso, rende possibile anche che tradizioni differenti da quella fenomenologica, dove la nozione in que-stione è usata nel modo più consapevole, la arricchiscano. Se questo è ovvio con

72 M. Ciacci, V. Gualandi (a cura), La costruzione sociale della devianza, Bologna, Il Mulino, 1977, p. 12. 73 Cfr. E. Mingione, Sociologia della vita economica, la Nuova Italia Scientifica, Roma 1997, in part. pp. 164 e sgg.

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autori come Goffman o scuole come l’interazionismo simbolico, che alla socio-logia fenomenologica sono vicini, vale però anche per molti aspetti del pensiero di Weber, di Simmel, o di Marx.

Quanto a quest’ultimo, del resto, è vero che non parlava di “genere”, di “razze” e di diversi altri temi ora correnti, ma è vero anche che il suo pensiero comprende un’attenzione per la genesi di pratiche e istituzioni all’interno del complesso dei rapporti sociali che non è affatto lontana dall’idea che la realtà sia, per l’appunto, una costruzione. Il pensiero di Marx è volto, sopra ogni cosa, a defeticizzare l’ordine sociale esistente: ma nulla serve meglio a questo scopo che storicizzare quest’ordine stesso, cioè de-naturalizzarlo, ovvero mostrare i processi di costruzio-ne e di ricostruzione sociale che gli stanno alle spalle. Nonostante ovvie differenze, l’idea che la realtà sia una costruzione sociale è compatibile con il marxismo: non con le sue versioni deterministe o strutturaliste, ma sicuramente con versioni più aperte alla considerazione congiunta di cultura, politica ed economia come, ad e-sempio, quelle di Gramsci o degli autori della scuola di Francoforte.

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5. Qualche discussione recente

Ma che cos’è la “realtà”?

Verso la fine del capitolo precedente ho suggerito che, secondo prospettive come quelle degli studi “post-coloniali”, dobbiamo mettere in discussione le nostre stesse scienze. Ma questa conclusione si affaccia anche ben al di fuori dei post-colonial studies. In tutte le scienze sociali contemporanee è diffusa la nozione che tali scienze sono e devono essere costitutivamente auto-riflessive. Ad affermarlo con la maggiore chiarezza è oggi probabilmente l’antropologia culturale74. Ma lo stesso avviene nella sociologia, dove autori pur tra loro diversi (si pensi a Pierre Bourdieu in Francia, ad Alberto Melucci in Italia, a Niklas Luhmann in Germania, per non fare che pochissimi nomi) ci ripetono che possiamo fare scienza solo a condizione di mettere sotto osservazione il nostro stesso far scienza. Negli studi che riguardano l’uomo, l’uomo che osserva è parte del campo osservato.

Ciò, sia detto ancora una volta, non vuol dire per nulla che le scienze sociali smettano di occuparsi della realtà: significa semplicemente che soggetto e oggetto, nella conoscenza, si implicano reciprocamente. La realtà è più ampia di quello che ci farebbe comodo ritenere: e comprende anche noi stessi che cerchiamo di coglier-la. Anche le nostre scienze sono delle costruzioni sociali, hanno una storia, sono attraversate da conflitti, si esprimono in determinati linguaggi e sono solidali con pratiche ed istituzioni determinate, esprimendo una certa interpretazione di che co-sa sia la realtà e che cosa significhi “conoscerla”. E tutto questo necessariamente fa parte di ciò che dobbiamo studiare. Può darsi che a qualcuno sembri troppo diffici-le. Sicuramente si aprono complessi problemi. Ma non per questo ci si può rifugia-re in una ingenua teoria del “rispecchiamento”.

C’è comunque una cosa che Berger e Luckmann, nel libro da cui abbiamo pre-so le mosse, non fanno mai: è definire che cosa sia la “realtà”.

Questo non avviene per caso, ma corrisponde al programma sociologico cui i due autori si attengono. Come scrivono nella prima pagina dell’Introduzione al loro volume,

“…basterà, per i nostri scopi, che definiamo la ‘realtà’ una caratteristica pro-pria di quei fenomeni che noi riconosciamo come indipendenti dalla nostra volontà (non possiamo cioè ‘farli sparire semplicemente desiderando che spa-riscano’) […]. Il filosofo, ovviamente, metterà in discussione l’assolutezza di questa ‘realtà’. Che cosa è reale? Come si fa a saperlo? Queste domande sono fra le più antiche non solo dell’indagine filosofica vera e propria, ma anche del pensiero umano in quanto tale […]. È importante perciò che noi chiaria-mo fin dall’inizio il senso in cui usiamo questi termini nel contesto della so-

74 Per le dichiarazioni più esplicite e più frequentemente citate in proposito vedi J. Clifford, G. E. Marcus (a cura), Scrivere le culture, tr. it. Roma, Meltemi, 1998.

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ciologia e che rinunciamo a ogni pretesa che la sociologia possa dare una ri-sposta a queste vetuste preoccupazioni filosofiche”75.

Berger e Luckmann rinunciano dunque nel modo più esplicito alla discussione filosofica. Questo, almeno, dichiaratamente. In verità, giusta la loro dipendenza dal pensiero di Schutz, è all’opera nel lavoro di Berger e Luckmann l’idea di quest’ultimo, secondo cui il presupposto che esista una realtà indipendente dai no-stri sensi (che esistano gli altri, che esistano le cose, e così via) è semplicemente uno dei contenuti antropologici universali del senso comune: assieme al meccani-smo di riduzione dell’incertezza che lo costituisce, tale contenuto è inteso da Schutz come il sostrato su cui si edificano poi le specificità sociali di “sensi comu-ni” diversi. (E direi del resto che l’idea di “realtà” cui in questo modo ci si riferisce è in fondo la stessa che è intesa nel “principio di realtà” come Freud lo utilizzava: il principio - contrapposto al “principio del piacere” - grazie al quale impariamo che c’è qualcosa che resiste ai nostri desideri 76).

In ogni caso, per Berger e Luckmann quello che la sociologia può e deve inda-gare è soltanto che cosa intendano gli uomini per “realtà”, non che cosa sia la real-tà. L’oggetto specifico del loro libro è poi come avvenga che gli uomini intendano “reali” le istituzioni che essi stessi creano.

A parte le istituzioni, ci sono però diversi altri enti a cui Berger e Luckmann attribuiscono implicitamente la caratteristica di essere “reali”. Innanzitutto, sono intesi come reali nel loro discorso gli esseri umani e tutto il mondo degli oggetti e degli eventi a cui questi si rapportano, sia in quanto dati per natura, sia in quanto prodotti dagli uomini. E, in secondo luogo, sono intesi come reali anche i processi di costruzione sociale della realtà che essi mettono in luce. Si tratta in verità di due “realtà” di tipo piuttosto diverso. In ogni caso, costituiscono nel discorso di Berger e Luckmann qualcosa di non problematizzato.

È dubbio però che una teoria sociale possa svilupparsi, alla lunga, senza esplici-tare i presupposti di natura ontologica sui quali si appoggia, cioè senza riflettere su che cosa essa stessa intende per la “realtà”. In effetti, diversi dei più interessanti con-tributi recenti alla discussione sulla costruzione sociale della realtà hanno precisa-mente a che fare con questo. Per quanto sinteticamente, prima di concludere questo mio intervento vorrei dunque renderne conto.

Vi è anche un altro punto su cui si concentrano le discussioni recenti: questo riguarda l’idea della circolarità fra azioni individuali e strutture che è al cuore della proposta di Berger e Luckmann. Probabilmente è meglio iniziare con questo: come si vedrà, al tema della “realtà” arriveremo comunque.

75 Berger, Luckmann, op. cit., p. 14. 76 Vedi Realtà, principio di, in J. Laplanche, J.-B. Pontalis, Enciclopedia della psicoanalisi, tr. it. Roma-Bari, Laterza, 1993.

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L’interazione fra azioni e strutture

Prima di affrontare tutto ciò, è necessario sottolineare che l’impianto teorico di Berger e Luckmann ha trovato, vent’anni dopo la sua prima espressione, la sua ri-formulazione più compiuta nell’opera di Anthony Giddens, La costituzione della società77. Di fatto, le discussioni recenti hanno a che fare esplicitamente soprattutto con questa versione del paradigma di cui ci occupiamo. È opportuno dunque ri-chiamare qualche tratto del lavoro di Giddens.

La costituzione della società è esplicitamente un libro di teoria sociale. Situata a mezza strada fra le scienze sociali e la filosofia, la teoria sociale per Giddens è al servizio della ricerca empirica e da questa può essere influenzata, ma, in quanto ta-le, non è verificabile o falsificabile empiricamente: è l’insieme dei presupposti che, debitamente esplicitati, rendono la ricerca empirica consapevole dei propri limiti e delle proprie condizioni, costituendone l’intelaiatura concettuale. Giustamente, Giddens avverte che i sociologi classici avevano ben presenti le esigenze di una te-oria soggiacente la ricerca empirica. Si tratta tuttavia a suo avviso di procedere ol-tre, arricchendo le loro prospettive con ciò che il pensiero sociale del Novecento ha elaborato.

L’esito cui perviene è una teoria della strutturazione. L’idea chiave è che le forme della vita sociale sono tanto qualcosa che si impone agli individui come un dato, quanto qualcosa che gli individui stessi costituiscono agendo. Il punto di giunzione fra le strutture e l’azione sono le pratiche: forme di condotta parzialmen-te routinizzate attraverso cui gli esseri umani riproducono incessantemente e ricor-sivamente gli assetti istituzionali entro cui si trovano collocati, conservando tutta-via ad ogni passo la possibilità di mutarli - intenzionalmente o meno - attraverso nuove interpretazioni dei loro significati o nuovi modi di agire.

Tali assetti istituzionali sono da un lato dei vincoli all’azione (si impongono cioè sia come abitudini e significati dati per scontati, sia come norme sostenute da forme di controllo sociale), e dall’altro sono anche le risorse grazie a cui si dispiega l’agire. In ciò consiste quella che Giddens chiama la “dualità della struttura”. E ciò spiega anche come il mutamento sociale non sia qualcosa che proviene dall’esterno delle società, ma qualcosa la cui possibilità è inerente al fatto che la struttura esiste solo in quanto è costantemente riprodotta dagli uomini stessi: questi sono respon-sabili della sua riproduzione così come della sua modificazione nel corso del tem-po.

Il fatto che gli esseri umani siano “attori” significa sia che sono in grado di trasformare le cose, sia che possono astenersi dal farlo o farlo altrimenti da come ci si aspetta. La capacità di agire corrisponde sempre a una certa dose di potere (anche se questa è raramente uguale per tutti). D’altro canto, significa anche che gli uomini sono dotati di intelligenza: conoscono cioè la realtà entro cui operano, e tale conoscenza, per tacita e imperfetta che sia, non può essere bandita dalle considerazioni che i sociologi fanno in proposito.

77 A.Giddens, La costituzione della società, tr. it. Milano, Comunità, 1990.

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Contrapponendosi alle teorie che descrivono il comportamento ricorrendo a spiegazioni di cui gli uomini non sono ordinariamente al corrente (come nella no-zione marxiana della “falsa coscienza”, o in quella struttural-funzionalista delle “funzioni” che i sistemi svolgono indipendentemente dalla coscienza che ne hanno i soggetti), Giddens sottolinea dunque che gli esseri umani dispongono ordinaria-mente di conoscenza e di capacità riflessiva: tali risorse sono spesso implicite (non si esprimono cioè discorsivamente, ma, tacitamente, come capacità pratica di muo-versi nel proprio ambiente materiale e sociale), ma non di meno esistono, e fanno parte a pieno titolo di ciò che uno scienziato sociale è tenuto a indagare. I modi in cui le persone interpretano la propria realtà producono infatti conseguenze concre-te.

Tali conseguenze sono però molto spesso inintenzionali: cioè non corrispondo-no a quello che gli attori intendono ottenere. Ciò dipende da molti fattori: innanzi-tutto dal fatto che il soggetto umano non è pienamente trasparente a se stesso (esi-ste l’inconscio; esiste la possibilità di autoingannarsi rispetto alle proprie ragioni e ai propri obiettivi); in secondo luogo, dal fatto che la conoscenza dei contesti in cui si agisce è raramente perfetta (o forse non lo è mai); infine dal fatto che le conse-guenze delle azioni di ognuno si combinano usualmente con quelle degli altri, ge-nerando campi di forze il cui disegno complessivo sfugge al singolo attore.

Tutto questo definisce il campo della sociologia (e più in generale delle scienze sociali) come un’interpretazione di interpretazioni: il ricercatore ha il compito di indagare come gli attori interpretino il proprio mondo e lo riproducano mediante le proprie pratiche nei contesti in cui agiscono, ma anche quello di proporre interpre-tazioni dell’agire che si combinano a loro volta con le conoscenze (esplicite e im-plicite) già in possesso degli attori rendendoli edotti delle proprie responsabilità e delle conseguenze più ampie cui le azioni conducono. Le nuove conoscenze che i ricercatori producono contribuiscono così alla riflessività collettiva, entrando, u-scendo ed entrando di nuovo nel tessuto della vita sociale in una sorta di processo a spirale.

Come si vede anche da una sintesi così telegrafica, l’affinità di Giddens con l’impianto dell’opera di Berger e Luckmann è palese (anche se Giddens, strana-mente, non li cita mai in questo libro: cita però ampiamente Schutz, e fa largo uso di Goffman e di Mead). Le critiche a questo modello ci riguardano perciò da vici-no.

Tali critiche si appuntano innanzitutto sulla questione della “dualità della strut-tura”. Tra le formulazioni più influenti di queste critiche possono essere inclusi al-cuni lavori di Roy Bhaskar e di Margaret Archer.

Bhaskar è propriamente un filosofo della scienza. Il suo libro più importante è probabilmente The Possibility of Naturalism78. Dirò più avanti qualcosa del suo impianto complessivo. Quanto al punto ora in discussione, mi limito a dire che Bhaskar condivide con Giddens (e con Berger e Luckmann) l’idea che le strutture siano condizioni necessarie alle azioni e che contemporaneamente la riproduzione delle strutture dipenda dalle azioni stesse; tuttavia, è incline a dare alle strutture un peso diverso e maggiore, a intenderle cioè come “realtà” in modo più forte. Ciò

78 R. Bhaskar, The Possibility of Naturalism, Brighton, Harvester, 1989.

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almeno per due motivi. Il primo è che le strutture preesistono sempre all’azione de-gli individui: nessuno nasce in verità nella situazione di quel “primo uomo” descrit-to nella storia esemplare di Berger e Luckmann; si nasce sempre, piuttosto, in un mondo già precostituito. Il secondo è che, al livello delle strutture, si manifestano delle “proprietà emergenti” che non possono essere dedotte (e non sono neppure prodotte o riprodotte direttamente) dalle azioni degli individui.

Questa posizione è ulteriormente sviluppata da Margaret Archer in La morfo-genesi della società79. A suo avviso, azioni e strutture impongono in verità un “dualismo analitico”, poiché si tratta di livelli di realtà differenti. L’idea di Berger e Luckmann e di Giddens della “circolarità” di azioni e strutture è una semplifica-zione eccessiva e foriera di confusione: mancando di distinguere analiticamente questi differenti livelli della realtà, non consente di studiare adeguatamente le inte-razioni che fra questi livelli sussistono.

Personalmente ritengo che l’argomentazione di Archer sia condivisibile. Non mi sembra però l’avvio di una prospettiva radicalmente nuova e antagonista (come Archer invece sostiene con enfasi), ma uno sviluppo e un arricchimento che non distruggono l’impianto che criticano.

Del resto, se è vero che le strutture hanno proprietà che non discendono diret-tamente dalle azioni, e a volte neppure dalle credenze, degli individui, è vero però anche che molti degli effetti che derivano da queste proprietà si rafforzano median-te le azioni e le credenze che suscitano. Strutture come quelle economiche e politi-che posseggono dinamiche proprie e dotate di un’autonoma capacità esplicativa, ma gli esiti di queste dinamiche entrano in un rapporto circolare di rafforzamento reciproco con azioni e credenze (restando vero anche, almeno in linea di principio, che la trasformazione di azioni e credenze può interrompere la riproduzione delle dinamiche stutturali stesse). Se non nella forma “forte” proposta da Berger e Lu-ckmann e da Giddens, la realtà rimane una costruzione sociale almeno nella forma “debole” proposta dalla linea di pensiero che va da Thomas a Merton.

Posso sbagliarmi, ma credo che Archer sia poco sensibile a questo punto a causa di una scarsa considerazione della dimensione comunicativa che inerisce alla vita sociale. Se ciò è vero, si tratterebbe però di un difetto comune a molti altri: questa considerazione è scarsa nella maggior parte della riflessione teorica dominante in sociologia. (Se più sopra mi sono dilungato su alcuni aspetti di que-sta dimensione è in effetti non solo perché ineriscono all’idea che la realtà sia una costruzione sociale, ma anche per invitare, per parte mia, a una più frequente e sostanziale integrazione fra le preoccupazioni più tradizionali dei sociologi e quelle di chi studia i processi comunicativi).

È vero però che, sviluppando la sua prospettiva, Archer si trova più vicina a certe preoccupazioni manifestate da filoni di ricerca empirica come quelli che ho richiamato nel capitolo precedente di quanto non fossero Berger e Luckmann. Si legga ad esempio un passo come il seguente:

“La riproduzione è ancorata negli interessi acquisiti e non nella semplice rou-tinizzazione, e la trasformazione non è un potenziale indifferenziato presente in ogni momento, ma è radicata all’interno di conflitti determinati tra gruppi

79 M. S. Archer, La morfogenesi della società, tr. it. Milano, Angeli, 1997.

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identificabili che si trovano in posizioni particolari, con interessi specifici da promuovere e da difendere”80.

Poiché le strutture possiedono una propria autonomia, le posizioni dei gruppi sociali ne dipendono, e ciò dà luogo alla formazione di interessi che agiscono al-trettanto autonomamente nella riproduzione e nella trasformazione della società, a prescindere dal meccanismo della formazione di tipizzazioni e routine e a prescin-dere dalla capacità umana di “dire di no” alle oggettivazioni, i cui caratteri estre-mamente generali - per quanto non vadano negati - finiscono secondo Archer per far perdere di vista aspetti concreti delle dinamiche della società.

Una concezione stratificata della realtà

Quanto a Bhaskar, la sua prospettiva è, come ho accennato, più ampia e di ca-rattere più filosofico. Al suo approccio ci si usa riferire come “realismo critico”, e la questione di che cosa sia la “realtà” che le scienze sociali descrivono vi gioca un ruolo del tutto esplicito.

La cosa più interessante, per il nostro discorso a riguardo, è la concezione “stratificata” della realtà che Bhaskar propone. Come riassume la questione Patrick Baert, l’idea è che

“ci siano tre ambiti di realtà: quello attuale, quello empirico e quello profon-do. Il livello attuale riguarda gli eventi e gli stati di cose. Questi eventi e stati di cose sono reali in quanto esistono indipendentemente dal livello empirico. Il livello empirico consiste nelle percezioni, osservazioni ed esperienze del livello attuale da parte della gente. Infine, il livello profondo non è necessa-riamente accessibile all’osservazione, ma nondimeno esiste”81.

Cerchiamo di capire. Il primo livello di ciò che chiamiamo realtà è il mondo che esiste indipendentemente dalla nostra volontà e dalla nostra capacità di os-servarlo (cioè di percepirlo, descriverlo, parlarne ed anche agire al suo interno). Che questo esista davvero è un postulato (non è cioè in sé né verificabile né falsi-ficabile). Tuttavia si tratta di un postulato necessario: la sua importanza viene in luce se lo mettiamo a confronto con il secondo livello.

A questo secondo livello, la realtà è ciò che appare. È fenomeno. Se la nostra capa-cità di osservare fosse “im-mediata”, i due livelli coinciderebbero: le cose apparirebbe-ro esattamente come sono. Ma non è così: come sappiamo, la nostra capacità di osser-vare è mediata dalle nostre dotazioni sensoriali, dalla nostra collocazione e dagli stru-menti che usiamo, e soprattutto da linguaggio e discorso, che a loro volta danno luogo a credenze. Per questo, i due livelli di realtà sono di norma distinti. Che lo siano, rende conto del fatto che le osservazioni possono criticarsi l’una con l’altra, e che ciascuno di noi conosce bene il problema di valutare quale osservazione sia più “corretta”: ma tale

80 Ivi, p. 175. 81 P. Baert, La teoria sociale contemporanea, tr. it. Bologna, Il Mulino, 2002, p. 258.

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“correttezza” non sarebbe concepibile se non postulassimo l’esistenza di una realtà che dalle nostre osservazioni è indipendente.

Si noti comunque che il secondo livello è reale anch’esso: i modi in cui osser-viamo il mondo e ne rendiamo conto producono effetti concreti.

Il livello “profondo”, infine, riguarda quelli che Bhaskar chiama i “meccani-smi sottesi” alla realtà attuale e alla realtà empirica. Si tratta cioè di quei processi o quelle forze che spiegano perché certi eventi e certi stati di fatto si generino, e per-ché possano apparire in un certo modo o in un altro. La difficoltà posta da questi meccanismi è che raramente sono accessibili all’osservazione diretta. Ciò perché essi si manifestano concretamente all’interno di sistemi aperti di interazione. Per fare un esempio tratto dalle scienze naturali: la legge della gravità corrisponde all’individuazione di un meccanismo sotteso a una molteplicità di fatti diversi, ma raramente è all’opera in modo isolato; se lo fosse, ad esempio, le foglie cadrebbero al suolo in linea retta; non lo fanno perché alla gravità si affiancano altri meccani-smi (l’attrito, le spinte dei venti, e così via). Si tratta di una molteplicità di fattori la cui combinazione è contingente, e ciò fa sì che i fatti siano raramente uguali a ciò che potremmo pensare basandoci sulla nozione di un solo meccanismo generatore.

È lo stesso per le scienze sociali. Possiamo bensì immaginare che esistano meccanismi sottesi a certi processi di mutamento o alla formazione di certe creden-ze, ma raramente quello che vogliamo spiegare dipende da un meccanismo soltanto e raramente (o forse mai) tali meccanismi sono accessibili direttamente all’osservazione.

Ciò fa sì che l’individuazione di questi meccanismi, da parte nostra, corrispon-da alla creazione di “modelli”. Questa creazione non deriva né da procedimenti in-duttivi (non è cioè esattamente la generalizzazione di osservazioni particolari) né da procedimenti deduttivi (non corrisponde cioè neppure all’applicazione della lo-gica alla combinazione di leggi universali e condizioni presenti), ma si genera at-traverso quella che Bhaskar chiama la “retroduzione”: è la creazione cioè di model-li esplicativi che si applicano alla realtà come delle metafore. Sono modelli il cui rapporto con la realtà è del tipo: “è come se…”.

I modelli così creati sono qualcosa di simile a un insieme di mappe. Nessuna mappa è esaustiva rispetto alla realtà che descrive, e mappe diverse possono essere egualmente corrette, se si riferiscono ad aspetti diversi della realtà (una mappa dell’Italia fisica, ad esempio, non è in sé meno corretta di quella dell’Italia politica: si riferiscono ad aspetti diversi del territorio). Ma in ogni caso le mappe, una volta stabilito ciò che intendono descrivere, possono essere più o meno corrette. È lo stesso per i modelli teorici. Lo stesso paradigma della realtà come costruzione so-ciale corrisponde all’indivi-duazione di modelli di meccanismi profondi, operata secondo la logica della retroduzione. Come per le mappe, è vero che modelli diver-si possono convivere, se si occupano di aspetti diversi della realtà; ma se intendono riferirsi ai medesimi aspetti, è possibile di norma valutare il loro differente potere esplicativo e il loro differente grado di adeguatezza.

Sull’effettiva possibilità di mettere alla prova i modelli teorici che riguardano il livello “profondo” della realtà, nelle scienze sociali, Bhaskar e gli altri realisti in-contrano certe difficoltà. Da un lato, non è affatto facile decidere se diversi modelli hanno a che fare con gli stessi aspetti della realtà, dal momento che ogni teoria de-

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finisce concettualmente gli oggetti di cui si occupa. Dall’altro, il modo in cui i mo-delli vengono messi alla prova consiste nell’individuazione di ipotesi che da questi modelli derivano e che possono essere verificate o falsificate nei casi che la storia mette a disposizione: ma, a causa della molteplicità di fattori presenti in ogni caso concreto, non è mai decidibile con certezza se la verifica o la falsificazione di un’ipotesi confermi o infici la validità del modello.

Resta vero però che senza l’idea che i meccanismi a cui tali modelli intendono riferirsi esistano indipendentemente dai modelli stessi, gran parte degli sforzi cono-scitivi delle scienze sociali sarebbero destituiti di senso82.

La realtà delle istituzioni

L’idea che ciò che chiamiamo realtà comprenda in verità classi diverse di enti “reali” è presente anche nell’ultimo contributo alla discussione che vorrei ricorda-re, La costruzione della realtà sociale di John Searle83.

Si tratta di una sofisticata e appassionata articolazione dell’idea che la realtà sociale esiste soltanto in quanto è attivamente sostenuta dalle credenze degli uomi-ni: istituzioni come il matrimonio o come il denaro, ad esempio, devono la loro og-gettività al fatto che noi le intendiamo come tali. Ma si tratta anche di una altrettan-to appassionata difesa dell’idea che la realtà extra-sociale esiste indipendentemente dalle nostre credenze: le montagne - scrive Searle - esistono anche se non ci cre-diamo. Si tratta dunque di due “realtà” differenti.

Il primo punto corrisponde esattamente a quanto affermavano tanto Berger e Luckmann quanto Giddens. L’argomentazione tuttavia è differente. La critica si appunta sul fatto che i processi di tipizzazione e di routinizzazione non bastano a rendere conto della natura specifica della realtà delle istituzioni.

In breve, si tratta di ciò. Le istituzioni devono la loro realtà al fatto che noi ci crediamo. Senza le nostre credenze non esisterebbero. Queste credenze sono atti di “intenzionalità collettiva”, tali per cui certi oggetti vengono caricati di un valore simbolico di cui per natura non sarebbero dotati, in vista dell’espletamento di una certa funzione. Essi stanno dunque “per qualcos’altro” all’interno del contesto delle relazioni di un gruppo sociale. Così, la moneta è in se stessa solo un pezzetto di metallo, ma nel contesto di un certo raggruppamento sociale sta per denaro, cioè assume la funzione di un mezzo di scambio.

La struttura delle istituzioni è dunque questa: l’oggetto X sta per la funzione Y nel contesto C. Ciò significa che il meccanismo generatore delle istituzioni è la ca-pacità performativa del linguaggio: la capacità di affermare efficacemente, entro il contesto di coloro che lo condividono, la natura simbolica di un oggetto (un ogget-to come la moneta, o un evento, un segno, o un’azione). Una volta affermata, tale natura simbolica degli oggetti crea un campo d’azione che prima non c’era: per- 82 Sul “senso” del lavoro scientifico - un tema di cui qui ovviamente non posso occuparmi, ma che altrettanto ovviamente rimanda a costruzioni culturali storicamente situate - vedi E. G. Parini, Sapere scientifico e modernità, Roma, Carocci, 2006. 83 J. R. Searle, La costruzione della realtà sociale, tr. it. Milano, Comunità, 1996.

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mette pratiche che precedentemente non potevano darsi; costituisce nuovi sistemi di ruoli e nuove distribuzioni di potere e prestigio, e così via.

Certamente, la vita delle istituzioni è sostenuta dal fatto di dar luogo a com-portamenti routinizzati e, più in generale, di iscriversi nei soggetti coinvolti come contenuto del senso comune. Ma non è questo a caratterizzarle analiticamente. Si tratta di una vera e propria creazione mentale collettiva, e non soltanto della sedi-mentazione di certe pratiche.

L’argomentazione è complessa e l’ho necessariamente ridotta ai minimi termi-ni. Ma è evidente che Searle contribuisce in modo rilevante al nostro discorso. Da un lato specifica la natura delle istituzioni mostrando il meccanismo che le genera in modo differente da Berger e Luckmann e da Giddens; dall’altro inserisce il lin-guaggio entro il suo modello teorico in un modo più preciso di altri.

Il “realismo”

Ma non ho finito con il discorso di Searle. Diversa dalla realtà delle istituzioni è infatti quella dei “fatti bruti”. La loro esistenza è implicata anche nella formazio-ne delle istituzioni: la moneta, dicevamo, è innanzitutto un oggetto “bruto”, che è poi trasfigurato dalla capacità umana di dotarlo di una natura simbolica. Ma vi è un’infinità di fatti bruti. La loro caratteristica è quella di esistere indipendentemen-te da noi e dalla nostra facoltà di interpretarli. Certo, Searle, sa che l’esistenza di tutto ciò è coglibile dagli esseri umani soltanto attraverso osservazioni situate e lin-guisticamente mediate. Ma ribadire che questa realtà esiste di per sé gli pare essen-ziale. Ciò innanzitutto perché permette di comprendere la differenza specifica delle istituzioni. Ma anche per un altro motivo.

A parere di Searle, infatti, è all’opera nelle scienze contemporanee una tenden-za anti-realista che sfocia necessariamente nell’irrazionalismo, cioè nella destitu-zione di ogni validità alla conoscenza scientifico-razionale del mondo. Da tale ten-denza, gli pare urgente difendersi. Tale difesa è costruita da Searle in questo modo. Chi appoggia tale tendenza confonde - dice Searle - il realismo con l’idea che vi sarebbe un modo soltanto di descrivere la realtà. In verità, il realismo è semplice-mente la tesi secondo cui il mondo esiste indipendentemente dalle rappresentazioni che ne forniamo. Ma può convivere perfettamente con l’idea che la realtà sia cono-scibile solo entro schemi concettuali che la rappresentano, i quali sono necessaria-mente parziali e dunque necessariamente molteplici. Esso convive in verità con l’idea che le scienze stesse siano costruzioni sociali: l’idea di scienza, quale sia la realtà che si intende conoscere, quali siano le procedure adeguate, i criteri di plau-sibilità e rilevanza che regolano la ricerca e i criteri di validazione dei risultati, so-no tutte cose iscritte in pratiche collettive e si reggono su accordi intersoggettivi e su istituzioni storicamente e culturalmente situate84. Ma che esista una realtà indi-

84 Per questo Bhaskar, su ciò d’accordo con Searle, scrive che “qui la filosofia […] deve unirsi a una sociologia della conoscenza empiricamente fondata” (R. Bhaskar, Realismo, in W. Outhwaite, T. Bot-tomore et al., Dizionario delle scienze sociali, ed. it. Milano, Il Saggiatore, 1998).

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pendente a cui tutto ciò si riferisce rimane un riferimento che trascende i caratteri determinati di queste pratiche e che dà loro senso.

Ciò significa che, se inteso correttamente, il realismo non è nulla che si presti a essere confutato: è piuttosto il presupposto necessario (è la “condizione di intelligi-bilità”, dice Searle) perché si possano immaginare affermazioni razionalmente veri-ficabili o falsificabili, qualunque siano i metodi adottati per farlo. Se il mondo non esistesse al di là delle nostre rappresentazioni, sarebbe impossibile produrre asser-zioni più vere di altre.

Le asserzioni sono quel tipo di enunciazioni in cui si asserisce che le cose stan-no così o così. Ma in che senso possono essere vere oppure false? Non nel senso di un rispecchiamento della realtà: Searle è tutt’altro che ingenuo, e il realismo non è per nulla un ritorno al positivismo.

Il punto è che (giusto ciò di cui la “svolta linguistica” e tutto il resto del nostro discorso ci hanno reso edotti) i criteri in base a cui le nostre asserzioni sul mondo possono essere giudicate sono compresi all’interno delle asserzioni stesse. In altri ter-mini: quando asseriamo qualcosa, noi implichiamo sempre l’indicazione dei requisiti che quella parte del mondo cui ci riferiamo deve possedere perché la nostra asserzio-ne sia attendibile. Tali criteri sono relativi a un linguaggio, a un certo modo dunque di tematizzare certi aspetti del mondo; ma i requisiti indicati non stanno nel linguag-gio: sono “condizioni nel mondo che soddisfano le condizioni di verità espresse dalle asserzioni”85.

Tutto ciò non è in contraddizione con l’idea che la realtà sia una costruzione sociale. Piuttosto, la arricchisce e ne precisa i contorni.

In primo luogo specifica, come abbiamo visto, che un conto è la realtà indipen-dente dalle nostre credenze (rispetto a cui la nostra “costruzione” si limita a corri-spondere all’interpretazione, alla “messa in forma” della realtà che ogni linguaggio realizza), e un altro conto è la realtà dipendente dalle nostre credenze, la realtà isti-tuzionale (rispetto a cui la costruzione è effettivamente creazione di qualcosa che, senza le nostre attive credenze, non esisterebbe).

In secondo luogo, mostra come la teoria della realtà come costruzione sociale conviva con l’assunto implicito che esista una realtà a cui la teoria cerca di corri-spondere: essa è vera (o è falsa) nella misura in cui siamo in grado di riconoscere al di fuori del linguaggio stati di cose, eventi o processi che soddisfano (o non soddi-sfano) le condizioni di verità che la teoria stessa richiede86.

85 Searle, op. cit., p. 236. 86 Per una discussione più approfondita dei temi affrontati in questo capitolo si possono vedere fra gli altri: Borutti, S., Filosofia delle scienze umane. Le categorie dell’antropologia e della sociologia, Mi-lano, Bruno Mondadori, 1999 (in part. cap. IV); D. Sparti, Epistemologia delle scienze sociali, Bolo-gna, Il Mulino, 2002 (in part. p. 247 e sgg.); E. Montuschi, Oggettività e scienze umane. Introduzione alla filosofia della ricerca sociale, Roma, Carocci, 2006.

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Il realismo e il “costruttivismo radicale”

Per concludere su questo punto, è forse opportuna un’ulteriore precisazione. Searle in effetti, nel suo testo, non intende contrapporsi al paradigma della costru-zione sociale della realtà per come questo è diffuso nelle scienze sociali, bensì agli attacchi portati al realismo dal “costruttivismo radicale”. All’interno di ciò che egli chiama così, nomina fra l’altro alcuni degli autori (ad esempio Varela) che hanno collaborato al volume di Watzlawick, La realtà inventata, che ho richiamato più sopra (vedi cap. 2), e credo dunque sia utile un commento.

Forse io non sono abbastanza sottile, ma devo dire che questa polemica fra “re-alisti” e “costruttivisti” a me pare alimentata da qualche equivoco. Da un lato, in-fatti, è vero che i costruttivisti radicali dichiarano di “abiurare una volta per tutte il realismo metafisico”87, ma mi pare abbia ragione Searle nel dire che, quando così si esprimono, spesso confondono il realismo con l’idea che vi sia una sola chiave di accesso alla realtà. Dall’altro lato, almeno per come lo espone Searle, il realismo convive con l’idea fondamentale del costruttivismo, e cioè che la conoscenza u-mana della realtà si iscriva comunque entro i limiti dei nostri modi di intendere quest’ultima. Come diceva Goethe, la natura è “indifferente”, e mi pare che su questa proposizione concorderebbero sia realisti che costruttivisti - con l’avvertenza forse che i costruttivisti riconoscono più esplicitamente degli altri che noi stessi siamo parte della natura, che in noi si sdoppia dando luogo, attraverso l’emergere della coscienza, alla separazione fra soggetto e oggetto della conoscen-za (un riconoscimento che, per altro, rende conto del loro apprezzamento, più volte manifestato, nei confronti della fenomenologia).

Ad alcuni dei costruttivisti radicali, l’idea che esista una realtà indipendente pare più che altro sostanzialmente inutile, poiché ciò che conosciamo è conosciuto soltanto entro cornici di senso che noi costruiamo (e lo stesso senso che questa idea conferisce alle nostre ricerche è un senso che noi stessi creiamo: ma questo Searle non lo negherebbe). Da altri non è contestata in sè, ma si dice che, al più, ciò che noi possiamo sapere è cosa la realtà non è, laddove i nostri criteri di conoscenza si mostrino inadeguati.

La questione chiama così in causa l’idea della conoscenza come “corrispon-denza” (che Searle effettivamente, pur con le precisazioni che abbiamo visto, di-fende). Che una teoria sia “adeguata a” qualche cosa o che vi “corrisponda”, infatti, è diverso.

Per spiegarlo, Watzlawick utilizza l’esempio del capitano di una nave che si trovi a navigare in un braccio di mare ignoto. Se la rotta prescelta lo condurrà a buon fine, ciò significherà che essa era adeguata allo stato dei fondali, ma non che essa vi corrispondeva: ciò che il capitano ora sa è soltanto che, dove è passato, de-

87 E. von Glaserfeld, Introduzione al costruttivismo radicale, in Watzlawick, op. cit., p. 23.

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gli scogli non c’erano (viceversa, avrebbe saputo che era inadeguata se fosse af-fondato)88.

Fuori dall’esempio, il fatto è che i costruttivisti radicali si appoggiano sulla teo-ria dei sistemi, e questa impone di riconoscere l’autoreferenzialità della conoscen-za. Ogni sistema infatti definisce se stesso definendo al contempo l’ambiente a cui si riferisce, che è costituito da quegli aspetti del mondo che i suoi organi sensori e le sue mete gli permettono di riconoscere e di ritenere significativi. Le “informa-zioni” sul mondo che esso ricava sono determinate dunque dalla sua organizzazio-ne: in questo senso il suo sapere è autoreferenziale.

Qui effettivamente il pensiero dei costruttivisti radicali è diverso da quello di Searle: non mi pare però che comporti l’irrazionalismo che egli teme. Piuttosto, ri-definisce i compiti della conoscenza come sviluppo di una “consapevolezza opera-tiva”, cioè di una sempre maggiore coscienza dei modi in cui definiamo e in cui facciamo esperienza dei nostri ambienti. Per altri versi - ma in fondo è ancora lo stesso pensiero - il costruttivismo radicale esprime l’idea che la crescita della conoscenza non abbia tanto a che fare con l’aumento della sua estensione o accu-ratezza, quanto propriamente con il cambiamento della sua qualità: essa cresce cioè con il raffinamento della nostra capacità di cogliere aspetti della realtà che prima per noi non esistevano perché non avevamo le “antenne” per coglierli. In questo senso, ciascun individuo (e ciascuna cultura) conosce letteralmente quello che è capace di conoscere.

88 P. Watzlawick, Introduzione alla parte prima, in op. cit., p. 14.

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Conclusioni

Introducendo questo intervento, dissi che il paradigma della costruzione sociale della realtà comprende almeno tre affermazioni:

- che tutto l’insieme di ciò che chiamiamo “realtà” è colto dagli esseri umani attraverso la mediazione di quadri simbolici e cognitivi di natura sociale, solidali con le pratiche che contraddistinguono forme di vita determinate;

- che una parte di questa realtà, la realtà propriamente “sociale”, è il risultato dell’azione e dell’interpretazione congiunte di pluralità di individui, sia nel senso che tali azioni e interpretazioni congiunte ne sono all’origine, sia nel senso che tali azioni e interpretazioni congiunte sono ciò che costantemente la riproduce o la tra-sforma;

- che tale risultato è però usualmente rimosso in quanto tale, cioè per l’appunto in quanto “risultato”: appare piuttosto come il modo in cui la realtà si configura “naturalmente”, cioè non come prodotto di “costruzioni”, ma come “dato”.

Tutte e tre queste affermazioni sono proprie del pensiero di Berger e Lu-ckmann (e, a monte, di Schutz), e si ritrovano nel lavoro di Giddens. Pur con di-stinzioni e arricchimenti importanti, ritornano negli autori che ho citato in quest’ultima parte dell’intervento, dove si chiarisce da un lato la necessità di preci-sare i diversi strati o livelli della realtà e le loro interazioni, e dall’altro che l’idea che la realtà sia una costruzione sociale convive con (o meglio presuppone) quella che la realtà, comunque sia, esista indipendentemente da ciò che crediamo.

Alcuni aspetti di tutto ciò erano presenti nel pensiero dei classici della sociolo-gia (soprattutto la prima affermazione, direi). Altri sono presenti in quella che ho chiamato la versione “debole” della nostra teoria: in autori come Thomas, Lip-pmann o Merton (fra altri che avremmo potuto citare) non si afferma che tutta la realtà sociale sia una costruzione nel senso indicato da Berger e Luckmann, ma si riconosce che le credenze degli uomini rispetto alla realtà hanno effetti reali.

Quanto ai filoni di ricerca empirica che all’idea della realtà come costruzione sociale si richiamano, presentano in verità ibridazioni di tradizioni diverse. Vi con-vivono riferimenti alla tradizione fenomenologica e innesti dalla “svolta linguisti-ca”, e non sono assenti richiami a una tradizione che ha nel pensiero marxiano il suo punto di avvio.

Vi sono tuttavia anche altre correnti di pensiero, all’interno delle scienze socia-li, che possono essere riportate all’idea che la realtà sia una costruzione sociale, e che ne propongono versioni che potremmo definire “radicali” (così radicali che di-re che siano “interne” alle scienze sociali è in verità problematico, perché è l’idea stessa di “scienza” che alla fine contestano). Si tratta di correnti vicine alle prospet-tive a cui autori come Searle intendono contrapporsi: per dirlo con un’espressione approssimativa, è l’insieme delle teorie “post-moderniste”. Per queste teorie, l’idea che il mondo sia colto dagli esseri umani attraverso mediazioni linguistiche porta a dire che la realtà stessa non è infine che un’illusione. Ciò di cui disponiamo sono

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sempre e soltanto testi, immagini, rappresentazioni. D’altro canto, enfatizzando il carattere situato del soggetto e delle sue pratiche di conoscenza, sottolineando l’incommensurabilità di linguaggi e di sensi comuni diversi, queste sostengono l’impossibilità di discorsi che trascendano contesti e punti di vista determinati.

Dal fatto che noi cogliamo la realtà attraverso mediazioni linguistiche, non se-gue però che la realtà sia un’illusione. A parte il fatto che anche i testi sono reali, ciò che ne segue è soltanto che non esiste un meta-linguaggio assoluto e che ogni conoscenza ha un carattere situato. E tale carattere situato non è una prigione. Dire che ciascuno inizia a comprendere il mondo entro un senso comune e a partire da un linguaggio determinato non significa che non possiamo lavorare sui nostri con-fini: di fatto, l’esperienza mostra che le persone riescono a comprendersi e ad inte-ragire anche partendo da presupposti diversi; è umana la capacità di saper mettere in gioco ciò che si dà per scontato ed è umana la capacità di costruire cornici cogni-tive e pratiche di secondo grado, tali da mettere in comunicazione cornici diverse. Lo facciamo normalmente: non si vede perché la teoria dovrebbe negarlo.

A partire dalle influenti formulazioni di Lyotard, il post-modernismo tende a risolvere le affermazioni delle scienze sul mondo in “narrazioni”89. È questa parola forse quella che fa più paura a chi teme che il realismo ne risulti minato. Certo, o-gni narrazione è soltanto una tra le molte versioni possibili di ciò che è narrato: di-pende dal linguaggio che è usato, dai contesti della narrazione, dalle posizioni reci-proche degli interlocutori, e così via. Ma non è questo il problema: ogni discorso è così, e lo sa anche ogni difensore del realismo. Il punto è che la parola “narrazione” sembra alludere a un discorso totalmente arbitrario. Ma non è così. Certamente, i racconti possono essere mere finzioni, ma non sempre si intendono a questo modo. Il campo delle pratiche narrative si dispiega in verità entro due poli: a un estremo vi è la fabulazione (cioè propriamente la capacità di creare mondi fantastici), ma all’altro vi è la testimonianza (cioè la capacità o l’intenzione di raccontare ciò che è effettivamente accaduto)90. Chi teme la parola “narrazione” dimentica questo se-condo polo. Se la narrazione può essere anche testimonianza, significa che implica l’idea che ci sia qualcosa da testimoniare, cioè una realtà che dal racconto prescin-de e di cui il racconto, pur sempre in modo non esaustivo, mira per l’appunto a rendere conto. Il che a sua volta significa che parlare di narrazioni non esclude af-fatto l’esistenza di una realtà extra-linguistica e la possibilità di approssimarvisi.

Non pretendo ovviamente che queste ultime osservazioni siano esaustive ma del tutto esaurienti. Credo possano suggerire, però, che anche dalle derive più “ra-dicali” dell’idea che la realtà sia una costruzione sociale non c’è gran che da teme-re. La paura è che mettano capo a un relativismo estremo, tale per cui ogni affer-mazione sulla realtà varrebbe quanto ogni altra, e l’esercizio della critica non a-vrebbe più luogo alcuno. A desiderare che le proprie affermazioni non siano criti-cabili sono in molti, ma ciò non ha nulla da spartire con l’idea che la realtà sia una costruzione sociale. Questa non ha a che fare con il relativismo (se non nel senso, incontestabile, che gli uomini dispongono di una varietà di interpretazioni del

89 Cfr. J.-F. Lyotard, La condizione postmoderna, tr. it. Milano, Feltrinelli, 1981. 90 Per una trattazione più estesa di questo punto rimando a P. Jedlowski, Storie comuni. La narrazione nella vita quotidiana, Milano, Bruno Mondadori, 2000.

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mondo), ma con il relazionismo: la modesta ammissione, cioè, che ogni conoscen-za che presumiamo di conseguire sul mondo reca in sé le tracce di quella che Man-nheim chiamava la nostra “situazione esistenziale”, il carattere situato e parziale della nostra esistenza91. E il relazionismo è ostile davvero soltanto a un tipo di per-sone: quelle che si ritengono investite dell’unico e universale sapere legittimo92.

Il problema che il paradigma che abbiamo discusso lascia in eredità è piuttosto un altro, a mio avviso: quello di precisare le diverse “realtà” alla cui costruzione e ai cui effetti ci riferiamo. Nel corso del nostro discorso ne abbiamo visti tipi diver-si: fatti bruti, pratiche, istituzioni, credenze, enunciazioni, “meccanismi profondi”. Si tratta di realtà differenti, rispetto a cui le nozioni del nostro paradigma vanno applicate diversamente. E credo che su questo punto ci sia da lavorare.

D’altro canto, non penso che il paradigma della realtà come costruzione sociale sia esaustivo. Nonostante le cautele, esso lavora sostanzialmente con una concezio-ne “ipersocializzata” dell’essere umano, e deve quindi venire integrato con una teo-ria dell’esperienza capace di rendere conto della differenza e della tensione, che sempre sussistono in linea di principio, fra la singolarità dell’esistenza e del vissuto di un essere umano ed il loro essere inclusi in una vita in comune con altri93.

Se mi è permessa un’osservazione personale, per terminare, direi che essere “realisti” è comunque un compito ben più delicato di quanto a volte non si sia pro-pensi a credere. La vita ha sempre un sovrappiù di senso, rispetto ai significati che di volta in volta siamo in grado di determinarne. Mentre nominiamo o ci rappresen-tiamo certi aspetti della realtà, altri aspetti rimangono esclusi dalle parole stesse o dagli strumenti che usiamo. Possiamo scandagliare il reale, ma ciò che portiamo alla luce ne è sempre soltanto una parte, quella che le possibilità della nostra cultu-ra, della nostra esperienza, della nostra immaginazione e dell’atteggiamento che abbiamo scelto di assumere nei confronti della vita consentono di ritenere signifi-cativa. 91 Nei termini di filosofi della scienza come Bhaskar e Searle, sarebbe più corretto affermare che il “realismo ontologico” (cioè il presupposto dell’esistenza di una realtà indipendente dalle nostre os-servazioni) è coerente con il “relativismo epistemologico” (cioè con l’idea che le nostre osservazioni siano relative di volta in volta a un quadro interpretativo specifico): si veda per questo ancora Bha-skar, Realismo, cit. A me sembra però che il termine “relazionismo” generi meno equivoci. Va osser-vato peraltro che il “relativismo” sembra costituire un problema soprattutto per chi lo intenda come “relativismo morale”. Non posso entrare nella questione, ma il punto è anche qui, a mio avviso, su-scettibile di diversi equivoci, specialmente radicati nella scorretta equiparazione di relativismo morale e nichilismo: per una prospettiva a riguardo congruente con il paradigma della costruzione sociale della realtà rimando a P. L. Berger, L’imperativo eretico, tr. it. Torino, Elle Di Ci, 1987; a chi sia par-ticolarmente interessato consiglio vivamente il saggio di Roberta de Monticelli, Non nominare il no-me di Dio invano, in E. Ambrosi (a cura), Il bello del relativismo. Quello che resta della filosofia nel XXI secolo, Venezia, Marsilio, 2005. 92 Ovviamente, il relazionismo coinvolge anche tutto il discorso che ho svolto fin qui. L’intera que-stione di cosa sia la realtà è formulabile nelle lingue occidentali moderne, ma non è detto che altrove lo sia. E’ possibile che vi siano lingue in cui la parola astratta “realtà” non esista, e dunque il discorso qui svolto non abbia senso o sia traducibile solo con cospicue modificazioni. Ciò non inficia il discor-so stesso: ciascuno non può muovere che dai presupposti della propria cultura; poi, incomincia il dia-logo. Un dialogo che sarebbe impossibile però se io ritenessi che sono validi soltanto i miei presuppo-sti. 93 Tale integrazione è, in tutta modestia, quello che ho cercato di fare in Il sapere dell’esperienza (Mi-lano, Il Saggiatore, 1994) e in qualche altro lavoro.

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E poi, le conoscenze che pure ci sembra di conseguire ammuffiscono con il lo-ro stesso uso. Le parole sono segni; diventano etichette; infine soltanto slogan che alludono a un processo di conoscenza che si è perso col tempo. Per questo dobbia-mo cercare di nuovo. E parlare di nuovo. E cercare di usare le parole ogni volta come se fosse la prima volta.

La tendenza a dare per scontate le categorie con le quali comprendiamo la real-tà, a dimenticare le loro origini e la loro storia, si rigenera incessantemente. Per questo Enzo Paci, il più grande rappresentante del pensiero fenomenologico in Ita-lia, scriveva frasi come questa:

“I significati sono cristallizzati, dormono. Devo risvegliarli. Per risvegliarli devo dire di no a tutto ciò che dorme […]. Devo risvegliare me stesso, diven-tare sveglio come finora non lo sono mai stato”94.

Che i significati “dormano” va inteso nel senso che nel linguaggio corrente, at-traverso la ripetizione dell’uso, le parole finiscono per essere date per scontate. “Risvegliarsi” è usare le parole “come se fosse la prima volta”. Questo risveglio, prima che l’affermazione di qualcosa, è una negazione: è cioè presa di distanza dall’ovvietà con cui siamo ordinariamente presenti al mondo e agli strumenti del nostro stesso pensiero. In questa presa di distanza sta a mio avviso il nocciolo dell’atteggiamento fenomenologico, a cui le riflessioni che ho esposto in ultima i-stanza rimandano. E in questo nocciolo io avverto un invito rivolto a chi fa scienza sociale: un invito a non feticizzare le categorie e ad essere disponibili a rivederle incessantemente; un invito a pensare ogni volta di nuovo.

Lo stesso vale per l’espressione “costruzione sociale della realtà”. È utile. Ma a condizione di usarla continuando a pensare, senza farne un feticcio.

94 E. Paci, Diario fenomenologico, Milano, Bompiani, 1961, p. 42.

Appendice: simulacri e simulazioni

Ad alcune delle posizioni anti-realiste e post-moderniste cui mi sono riferito nell’ultimo

capitolo (e da cui Searle, come si ricorderà, era particolarmente preoccupato) è associata l’idea che le società contemporanee sarebbero caratterizzate da una “scomparsa del reale”. Il tema non è stato affrontato nelle lezioni da cui il presente testo è stato tratto, ma merita, per completezza, almeno un accenno. Poiché l’idea in questione è legata specificamente al-lo studio dell’influenza dei media, tale cenno deve prendere le mosse da quanto ho cercato di dire nel terzo capitolo, e specificamente dalla constatazione del fatto che ogni enuncia-zione è reale, a prescindere dalla realtà di ciò a cui afferma di riferirsi.

In diversi autori, come Baudrillard, ad esempio, l’idea di una “scomparsa del reale” si associa a quella che vivremmo oggi in una società di “simulacri”, ovvero di “copie senza alcun originale”, di segni senza alcun referente, o di segni che rimandano ad altri segni in un processo circolare ed autoreferenziale infinito95. Si realizzerebbe così per la società nel suo insieme ciò che Walter Benjamin diceva dei passages di Parigi, che sono “case o corri-doi che non hanno nessun lato esterno - come il sogno”96.

Ora, stanti le considerazioni che abbiamo svolto fin qui, alla realtà ultima fa velo (o fa da filtro) sempre e comunque l’insieme delle mediazioni simboliche attraverso cui la co-gliamo. In questo senso non può “scomparire”, perché non è mai “apparsa” se non in forma indiretta. Tuttavia, è evidente che l’iperfetazione dei mezzi di comunicazione e dei loro testi nelle società contemporanee dà alla questione un tono particolare. Questi favoriscono effet-tivamente una certa "de-realizzazione" dell'esperienza, vale a dire una progressiva indistin-zione fra ciò che è percepito attraverso la mediazione di schermi o mezzi analoghi e ciò che viene vissuto in prima persona.

L’esperienza in questione è una esperienza mediata: un'esperienza che spesso appare singolarmente "immediata", ma in cui l'immediatezza presunta occulta la mediazione di un insieme cospicuo di apparati tecnici e organizzativi. L'esperienza mediata è esperienza che passa attraverso un medium tecnico: un'esperienza in cui l'interazione del corpo con l'am-biente fisico e con i corpi di altri soggetti è ridotta ai minimi termini, mentre si ampliano i confini di ciò che il soggetto percepisce (di cui è informato, di ciò a cui può assistere, di ciò con cui può vibrare all'unisono).

La televisione, in particolare, ha reso questa forma di esperienza straordinariamente dif-fusa. Ma si tratta di qualcosa che ha intimamente a che fare con la modernità già da tempo. Baudelaire ne scorgeva i tratti emblematici in un poema in prosa che parlava del singolare spettacolo cui assiste chi si fermi in un caffé su di un viale e contempli la folla al di fuori delle vetrate: l'avventore è solo e con altri allo stesso tempo, vede ed è visto, ma è separato dagli altri dallo schermo che distingue lo spazio del caffé dalla strada. Più avanti, il modo in cui abbiamo preso a osservare il mondo scorrerci a fianco al di là del finestrino del treno,

95 Per la migliore esposizione di questa prospettiva, però, vedi M. Perniola, La società dei simulacri, Bologna, Cappelli, 1983. 96 W. Benjamin, Parigi, capitale del XIX secolo, tr. it. Torino, Einaudi, 1986, p. 532.

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dell'auto o dell'aereo sui quali viaggiamo ha riproposto la stessa esperienza: sfioriamo mondi a portata di mano, ma su cui la mano non ha alcuna presa.

Il cinema dapprima, poi la televisione e più oltre il computer hanno diffuso e generaliz-zato questa esperienza. Ciò in cui si è immersi è un mondo di superfici sfuggenti: poco di ciò che è esperito può venire afferrato. E tutto ciò sfida evidentemente la nozione di “real-tà” a cui siamo usi: in fin dei conti, “reale” è per noi ciò che corrisponde a uno spazio d’azione, ma negli spazi aperti dall’esperienza mediata l’azione è ridotta rispetto all’ampiezza che assume ciò che percepiamo, su cui possiamo riflettere o che può coinvol-gerci emotivamente.

Credo tuttavia che parlare di una scomparsa della realtà sia fuorviante, e la constatazio-ne con cui ho concluso il capitolo terzo forse aiuta a capirlo. I segni infatti (testi, immagini, racconti) che circolano attraverso i media sono in sé cose reali: qualcuno li ha prodotti; e il fatto stesso che circolino è reale: produce effetti. Se questo è vero, il punto non è che “scompare il reale”, ma che cresce la parte di realtà che consiste di segni e di processi co-municativi.

Le nostre definizioni di che cosa sia la “realtà” del resto sono raramente qualcosa di sta-tico. Piuttosto, sono il frutto dell’elaborazione delle nostre esperienze. E l’esperienza, a sua volta, ha sempre un doppio versante: da un lato è un “vissuto”, ma dall’altro è l’associazione al vissuto di un “significato” (o più d’uno). E tale associazione si nutre co-munque di processi comunicativi.

E’ vero che l’eccesso di tali processi e della mole di testi cui dà luogo può essere diso-rientante, ma è anche vero che l’insieme di questi processi e di questi testi corrisponde all’insieme delle risorse grazie a cui la nostra vita è interpretata. Come scriveva con elegan-za Victor Turner, l’insieme dei prodotti culturali va considerato come “una sala degli spec-chi, o meglio degli specchi magici (piani, convessi, concavi, a cilindro convesso, a sella o a matrice…)” in cui i diversi aspetti della nostra vita “vengono riflessi sotto forma di imma-gini molteplici, trasformati, valutati o diagnosticati in opere tipiche di ciascun genere”97. Il rapporto dei soggetti con tutto ciò è probabilmente quello di una sorta di negoziazione per-manente: vale a dire che è instabile. In ogni caso ciò che pensiamo sia “la realtà” ne dipen-de.

Ma il problema vero della contemporaneità sta forse soprattutto nella coda della frase di Turner che ho ora citato: vale a dire nella nozione di “genere” dei vari testi di cui possiamo fruire, o meglio nella nostra capacità - o incapacità - di riconoscerli. Usualmente, noi diamo per scontato di saper distinguere il genere di un testo: distinguiamo un documentario da un film, ad esempio, e di conseguenza stabiliamo fra questi testi e i loro referenti relazioni di-verse. L’attuale situazione tuttavia tende a indurre frequenti confusioni di genere: a volte intenzionalmente (come in tutta la produzione post-modernista), a volte inintenzionalmente (come quando l’incastonamento di frammenti di notizie in un programma televisivo di in-trattenimento, o viceversa, provocano in parte del pubblico un’incertezza riguardo a come intendere il testo). Per usare un termine della sociologia goffmaniana, potremo dire che la nostra abituale capacità di proiettare su situazioni differenti frames cognitivi diversi viene sfidata.

Così, a mio avviso, è questo il problema a cui le discussioni sulla scomparsa del reale alludono: quello dell’incapacità di distinguere piani diversi della realtà, di non capire su quale registro inten-

97 V. Turner, Dal rito al teatro, tr. it. Bologna, Il Mulino, 1986, pp. 186-7.

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dere ciò che i testi ci dicono. In questo senso, più che in un regime di scomparsa della realtà, vi-viamo in un regime di realtà fuse insieme, o confuse98.

Un’ultima osservazione per concludere il punto. Nonostante i computer siano spesso evocati a conferma della produzione di questo stato con-fusionale, l’esperienza informatica e telematica è forse un antidoto a questa confusione. Come hanno mostrato diversi ricerca-tori, l’esercizio al computer è infatti una palestra per apprendere a giocare con una molte-plicità di frames99. Ciò che avviene off line e ciò che avviene on line è reciprocamente con-nesso, ma contemporaneamente è distinguibile: non nel senso che da una parte stia la realtà e dall’altra qualcosa di irreale, ma nel senso che si tratta di domini di realtà differenti, che richiedono atteggiamenti cognitivi, forme di azione, regole e competenze parzialmente di-versi, unificati però dal fatto di essere messi in gioco dalla stessa persona.

D’altro canto, informatica e telematica sembrano generare, almeno secondo alcuni commentatori, una particolare disposizione a trattare consapevolmente con le simulazioni. In altre parole, quello che l'uso quotidiano dei computer sembra permettere è una consape-volezza diffusa del fatto che in ogni caso noi non facciamo esperienza del mondo in modo immediato: la percezione stessa è l'imposizione alla realtà di una rete di categorie, di classi-ficazioni, in una parola di modelli - e dunque di simulazioni: di “come se” - grazie ai quali diamo un ordine al mondo100.

L’eventuale diffusione di questa consapevolezza va presa in considerazione con interes-se. Essa ha la possibilità di spingere l'intera cultura verso una particolare attenzione alla na-tura costruttivistica di tutto il pensiero. Insomma, a non dare per scontata nessuna configu-razione particolare della realtà, nessun significato. Se questa possibilità si realizzasse dav-vero, si tratterebbe di un colpo straordinario inferto al realismo ingenuo della vita quotidia-na, e in fin dei conti alle strutture più fonde del senso comune, che di norma ci preservano con pervicacia dal dubbio che le cose non stiano esattamente come appaiono ai nostri sensi.

Bisogna osservare anche, però, che è un dubbio con cui conviviamo da tempo, e che ti-picamente siamo perfettamente capaci di accantonare. Ai contemporanei di Copernico e di Galileo la scienza ha insegnato che non è il sole a girare ogni giorno da Oriente a Occiden-te; ai moderni la tecnologia ha chiesto di accettare il fatto che le onde radio o i virus esisto-no nonostante che non siano percepibili ai sensi. Ebbene: ad ogni richiamo a non essere in-genuo, il senso comune ha nicchiato, ha incorporato la novità, ed è stato capace di riorga-nizzarsi e di preservare una fiducia pragmatica nel fatto che la realtà, in fin dei conti, noi sappiamo bene cos'è. I computer avranno un effetto radicalmente diverso, e ci insegneranno davvero a sopportare l’idea che la realtà che percepiamo è sempre una costruzione, e a con-vivere con questa consapevolezza nella quotidianità? La questione è in sospeso, ma perso-nalmente sarei piuttosto scettico a riguardo.

98 Per un’interessante discussione in proposito vedi G. Di Fraia, Storie con-fuse. Pensiero narrativo, sociologia e media, Milano, Angeli, 2004. 99 Fra altri, cfr. M. Drusian, Acrobati dello specchio magico, Milano, Guerini, 2005. 100 Per una chiara e relativamente pionieristica esposizione di questo pensiero rimando a P. Vidali, Esperienza e comunicazione nei nuovi media, in G. Bettetini, F. Colombo (a cura), Le nuove tecnolo-gie della comunicazione, Milano, Bompiani, 1993.

WORKING PAPERS

Autore Titolo Numero e Anno pub-blicazione

C. Leccardi L'ermeneutica oggettiva di Ulrich Oeverman n.18, 1987 R. Turano La teoria del sacro in René Girard n.19, 1987 P. Jedlowski Memorie e modernità n.20, 1988

R. Siebert Mutamento sociale e soggettività femminili nel Mezzogiorno n.21, 1988

O. Pieroni Il mercato del lavoro in Italia tra gli anni '70 e gli anni '80 con particolare riferimento al settore agri-colo

n.22, 1988

M. Bonanni Complessità inadeguata e comunicazione ostile: una indagine sui reati contro la Pubblica Ammini-strazione

n.26, 1988

C. Guarnieri Magistratura e sistema politico n.28, 1989 P. Martelli Teorie razionali della politica n.33, 1989

T. Romita Sondaggio pilota sul pregiudizio etnico in Italia con sistema C.A.T.I. n.34, 1990

C. Leccardi Sull'interpretazione del futuro n.41, 1990

I. Rende e P. Jedlowski Per un’analisi dei servizi socio-assistenziali in Ca-labria n.51, 1991

T. Grande Redenzione e utopia: Walter Benjamin e la "cita-bilità" della storia n.57, 1991

AA.VV. Valori e stili di vita. I metodi di analisi n.59, 1992

G. Catalano La Calabria fra tradizione, moderno e postmoder-no n.66, 1993

A.L. Chianelli Modernità e postmodernità: Weber, Habermas e i destini della ragione n.67, 1993

C. Vincenzo L'università delle donne? Scelte e percorsi forma-tivi delle studentesse universitarie in Calabria n.68, 1994

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M. Mirabelli Associazionismo religioso e politica in una città del sud n.71, 1996

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F.Garreffa Per una storia sociale della reclusione n.74, 1998

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M. Orlando

STOFFWECHSEL (Metabolismo società-natura). Capitale, esseri umani e natura da Marx alla crisi ecologica

n.88, 2005

Per i quaderni in Blu è possibile il link con il sito del dipartimento e il relativo download del file in formato PDF. Per ulteriori informazioni http://www.sociologia.unical.it/quaderni/index.htm Gli altri testi possono essere richiesti rivolgendosi a R.Cipparrone allo 0984492540 o inviando una e-mail a [email protected].

Finito di stampare in Febbraio 2007 Dipartimento di Sociologia e di Scienza Politica

Università degli Studi della Calabria 87036 - ARCAVACATA DI RENDE - RENDE (CS)