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Stefano Baudino

WinorDie Il Gioco degli Dei

Romanzo

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Come prima cosa voglio ringraziarvi per la lettura che state per intraprendere e precisare che le prossime pagine non hanno assolutamente la pretesa di essere un romanzo storico. Questo libro è un regalo che ho fatto a me stesso in un momento particolare della mia vita, ed è solo frutto di fantasia, per cui qualsiasi riferimento a persone o cose realmente esistenti, laddove vi fosse, è puramente casuale. Spero che la storia vi diverta e stimoli in voi qualche piccola riflessione, com’è successo a me mentre la scrivevo. Vincere o morire. Oggi sembra lo slogan di un cerotto alla nicotina, l’urlo di una squadra di rugby, una frase su un cartellone elettorale. Invece queste due parole hanno una profondità diversa, forse dimenticata, che ciascuno di noi credo dovrebbe conoscere, prima di dimenticare. Il senso del libro è tutto qui. Un gruppo di ragazzi combatte per la propria vita contro gli Eletti, un club esclusivo di multimiliardari americani che, agendo nell’ombra, vuole gestire la vita di noi mortali. Il potere degli antichi Dei rivive oggi nel denaro. E’ solo una storia?

Stefano Baudino

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Alla famiglia del metro quadro

e a tutti quelli che, anche se non ci sono più,

sono sempre qui.

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Prologo «Erano bravi, vero?» Seymour Osborne si volse verso il figlio seduto accanto a lui sul grande divano. Aveva gli occhi lucidi, la voce vibrava e le mani erano contratte. «Sì padre, davvero molto.» Anche Ross era emozionato, ma non tanto da ciò che avevano appena finito di leggere, quanto dalle emozioni che quelle righe avevano suscitato nel padre, una figura che aveva sempre avuto un ascendente formidabile sul giovane. Seymour Osborne rimase a lungo in silenzio, guardando il giardino oltre la grande vetrata in fondo alla biblioteca, ma senza vederlo realmente. «Ho un sogno.» disse piano. «E sarebbe?» «Vederli combattere realmente.» Il genitore si voltò con una nuova luce negli occhi. «Capiscimi figliolo, quando dico, realmente, intendo sul serio. Voglio farli rivivere! Voglio camminare in mezzo a loro, guardare i loro volti, vedere la sofferenza e la determinazione dei guerrieri più forti di ogni tempo. Voglio toccarli, voglio andare a letto con le loro donne. Voglio vederli combattere, vincere e morire! Questo voglio, solo questo.» Ross era sbigottito. Non aveva mai dubitato della sanità mentale del padre, la fortuna immensa che aveva accumulato in pochi anni testimoniava la sua assoluta lucidità e freddezza mentale. Il “Grande Vecchio” come lo chiamavano, all’anagrafe Seymour Osborne, imprenditore di cinquantasei anni, era uno squalo. Se aveva un progetto in mente sarebbe passato sopra a chiunque pur di vederlo realizzato. «E’ impossibile, padre.» disse poi, ma piano, molto piano. Non era prudente contraddire il Grande Vecchio nemmeno per lui che era, con la sorella, l’unica persona cui non avrebbe mai fatto veramente del male. «Tu credi?» ancora quella luce, ancora quella follia. «Vedremo.»

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PARTE PRIMA

La Genesi

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Fine del primo sogno La città scivolava via silenziosa sotto il piccolo elicottero e il professor Bristol April Kourtney si godeva il paesaggio con un misto d’incredulità e bramosia. La vista della civiltà lo attirava e contemporaneamente lo terrorizzava, ma era sempre stato così, sin da quando era giovane e viveva nella piccola fattoria con il padre, la madre e le due sorelle. Ripensare alla sua famiglia gli fece venire un groppo in gola: ora finalmente poteva riabbracciare Dorothy e Charline. Era passato tanto tempo. Chissà com’era cresciuta Charline! Quando era partito non aveva nemmeno potuto salutarla, solo quella lettera, poche righe scritte di fretta e consegnate a una segretaria mentre lo portavano via. Fuga di notizie, spionaggio industriale, perdita di valore, time to market: quante sciocchezze! Ma quel pomeriggio di tanti anni prima il professor Kourtney aveva accettato senza discutere l’inconsueta proposta di lavoro di costruire il primo e più grande parco divertimenti storico del mondo. Gli avevano offerto un sacco di soldi, così tanti che non aveva mai pensato di poterli guadagnare in una sola vita. A guardar bene la realtà avrebbe accettato per molto meno, probabilmente avrebbe anche pagato per fare quel lavoro, ma non lo avrebbe mai ammesso. Bristol April Kourtney non avrebbe mai abbandonato la figlia senza un saluto, un motivo, una parola. Assolutamente no, ma per dieci milioni di dollari si poteva fare qualche sacrificio soprattutto se questo coincideva con un sogno. E la discussione interiore con la propria coscienza finiva sempre così: aveva accettato quel lavoro per sua moglie e sua figlia, non certo per la sua ambizione. Ora stava tornando, avrebbe spiegato, loro avrebbero capito e tutto si sarebbe sistemato. Kourtney non voleva altro che il loro bene e il loro amore, soprattutto quello della moglie Dorothy. Un piccolo dubbio sul fatto che nessuno avesse mai recapitato la sua busta ogni tanto saliva a tormentarlo, ma una tragedia di quella portata non poteva essere presa in considerazione: dopo quasi sette anni avrebbe ritrovato la sua bambina e con tutti quei soldi avrebbe riconquistato l’amore di sua moglie.

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Sorrise beato mentre l’elicottero iniziò la discesa verso un grattacielo isolato, un picco che svettava verso il cielo in una zona di costruzioni molto più basse. Quella costruzione rispecchiava l’immagine del carattere del personaggio che lo aveva assunto anni fa e che da allora non aveva più rivisto. Dopo l’incontro iniziale e la firma dell’accordo ogni contatto era avvenuto tramite i dirigenti della società. Uomini distaccati, precisi, pignoli, intransigenti e, soprattutto, antipatici. Un professore contro dirigenti d’azienda, uno storico e degli squali, un sognatore e dei ragionieri. Non era stato facile ma ce l’aveva fatta, perdiana sì, ce l’aveva proprio fatta! Due uomini in completo scuro e occhiali da sole erano in attesa sull’eliporto. Il pilota atterrò con estrema dolcezza e mise il motore al minimo facendogli segno di scendere senza voltarsi. Uno dei due uomini si avvicinò, aprì il portello e tese una mano per aiutarlo. Il professore afferrò la mano protesa e si sentì trascinare, perse l’equilibrio e cadde addosso all’uomo ricevendo un forte colpo alla mascella. Tutto si spense. Il secondo uomo si avvicinò. «Svenuto?» disse piano. «Sì. Chiudi il portello e giriamolo.» «Ok.» L’elicottero si alzò in volo. Un attimo dopo era solo un puntino nel cielo verso ovest. Il primo uomo prese la nuca del professore con due mani e la tenne leggermente sollevata da terra mentre il secondo estraeva una piccola siringa da insulina dalla tasca interna della giacca. La avvicinò alle narici infilandola piano. Il professore ebbe un leggero sussulto quando l’ago gli perforò l’interno della narice destra molto in alto dove nessuno avrebbe potuto notare il piccolo foro. Il liquido entrò in circolo velocemente, la siringa sparì. «Professore, ehi! Professore!» Quando Kourtney aprì gli occhi un uomo era chino su di lui e gli occhiali scuri riflettevano il suo volto. «Cos’è successo?» chiese piano. Aveva la bocca impastata e strabuzzava gli occhi. «Ho un terribile mal di testa.»

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«E’ inciampato e mi è caduto addosso professore. Il pilota avrebbe dovuto avvertirla del bordo vicino al portello, lei non l’ha visto. Cadendo ha picchiato con il mento contro la mia spalla. Brutto colpo, mi dispiace. I colpi al mento sono infidi e lei è svenuto come un sacco.» Kourtney si toccò il naso mettendosi seduto. «Ho battuto anche il naso? Brucia come l’inferno.» «Probabile professore, ma non glielo so dire, mi dispiace. Venga adesso, dobbiamo andare. Mr. Harding non ama aspettare.» I due uomini lo aiutarono ad alzarsi e lo accompagnarono alle scale. Scesero una sola rampa di scale e si ritrovarono in un salottino con poltrone in pelle nera, quadri di Kandinsky alle pareti e una musica di sottofondo che Kourtney non riconobbe. “Sono passati tanti anni – pensò, - chissà quante cose mi sono perse in tutto questo tempo.” Il naso gli bruciava come il fuoco. “Strano, sono caduto tante volte ma non avevo mai avuto un dolore simile nel naso.” Una porta si aprì e il professore sobbalzò, era come se si fosse aperta una sezione di parete e non si aspettava di veder apparire una splendida ragazza di colore in tailleur grigio e tacchi a spillo. La ragazza era sorridente e si avvicinò sinuosa tendendo la mano destra. «Professor Kourtney, che piacere rivederla, si ricorda di me?» La voce era calda, piena e vibrante, il sorriso aperto, la gonna molto corta e la scollatura vertiginosa. Gli occhi scuri freddi come una notte d’inverno. «Spiacente mia cara, no.» Lei fece un sorrisino di circostanza. «Oh… non fa niente, in fondo ci siamo visti una sola volta molto tempo fa, in ogni caso sono contenta di rivederla in buona salute. Adesso venga prego, il signor Harding la sta aspettando.» Kourtney fece per darle la mano ma lei si stava già avviando verso la porta. Con un sospiro la seguì entrando in uno di quegli uffici che si vedono solo nei film. L’ambiente era come se lo ricordava: ad angolo, con due pareti completamente vetrate da cui si poteva abbracciare con lo sguardo tutta Chicago, una controsoffittatura in pannelli di mogano come il rivestimento delle altre due pareti. Una sola scrivania immensa, una sedia in pelle e una

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lampada alle spalle. Nessun tappeto, quadro o soprammobile. Solo un divano sulla destra. Di fronte alla scrivania non c’erano sedie, Harding non amava far sedere i suoi ospiti. Mr. Harding era un bell’uomo di età indefinita tra i quaranta e i cinquanta: alto, fisico asciutto tipico dei militari di carriera, vita stretta e spalle ampie e lo stava osservando da dietro la scrivania. Al suo ingresso sorrise ma non fece alcun cenno di avvicinarsi. «Benvenuto Professore, finalmente!» «Grazie Mr. Harding» fu la quieta risposta. «Piacere di rivederla.» «Piacere mio, veramente» l’uomo sorrideva ma, come per la ragazza, il sorriso non si trasmetteva agli occhi. «Allora, mi dica, è veramente tutto finito?» Kourtney sospirò e si passò una mano sul viso. Che diamine, tutto quel viaggio, quasi due giorni o forse più, e quest’uomo che lo aveva fatto lavorare per sette anni come uno schiavo per creare l’impossibile, non gli offriva nemmeno un bicchiere d’acqua e una sedia. Era troppo. «Tutto finito e perfetto nei singoli particolari signore» rispose in modo brusco. «In ogni caso penso che lo sappia già dalle relazioni dei suoi dirigenti, altrimenti non mi avrebbe permesso di tornare a casa.» «Certamente, certamente, ma volevo sentirlo da lei, dalle labbra del protagonista di quest’avventura. Mi hanno detto che le tre città sono identiche alle ricostruzioni che le abbiamo fornito, solo in qualche caso lei ha fatto qualche leggerissima variazione in base alla sua esperienza. So anche che questo ha portato a un’espansione dei tempi del progetto, fortunatamente un’espansione contenuta.» L’uomo fece una pausa. «In fondo sei mesi di ritardo su un programma di quasi sette anni può sembrare un ritardo accettabile a chi, come lei, non ha il minimo senso del business.» «Abbiamo avuto parecchi imprevisti Mr. Harding e abbiamo dovuto adottare soluzioni diverse da quelle preventivate a progetto. Inoltre nella documentazione che lei mi aveva fornito Sparta era poco più che un punto interrogativo su di un foglio bianco. Ho dovuto pensare a tutto io.» «Certo, certo» Harding fece un gesto come per dire che ovviamente era stato previsto , «altrimenti perché avremmo ingaggiato il maggior esperto

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di storia della Grecia antica di tutti gli States? Sparta è scomparsa da sempre, rasa al suolo dai suoi nemici, introvabile in tutti i documenti consultati dai miei esperti. Si conoscono solo alcuni cenni riguardo alla sua topografia iniziale, ma niente di concreto da utilizzare per una ricostruzione.» «I testi ci sono» rispose Kourtney «basta sapere dove cercare. In ogni caso avevate me ed era più che sufficiente. Sparta è tornata a vivere, anche se per ora è solo un agglomerato di case, templi e strade. Quando pensa di inviare il personale di servizio e far arrivare i primi turisti» «Presto mio caro professore, il prima possibile, perché ogni giorno che passa l’investimento non rende e noi abbiamo veramente investito tanto. Ma a tutto questo stanno pensando i miei uomini.» Harding guardò l’orologio e Kourtney notò che era nervoso, la palpebra sotto l’occhio destro aveva preso a vibrare in modo lieve ma continuo. «Bene», riprese il manager, la vibrazione era sparita, sorrideva. «Ora ho molto da fare e lei certamente vorrà tornare ad abbracciare la sua famiglia. La mia assistente le consegnerà una valigia con una parte della somma che le dobbiamo, il dieci per cento. Non mi sembrava il caso di farla viaggiare con tutto quel denaro in contante. Il resto è stato depositato su di un conto numerato in Svizzera, nei documenti nella valigetta troverà tutte le indicazioni in merito. Sono spiacente di non potermi intrattenere più a lungo con lei. La saluto professore, è stato un piacere lavorare con lei.» Kourtney sbatté gli occhi confuso. Il bruciore dal naso era passato al cervello e migliaia di aghi arroventati sembravano inserirsi ad intermittenze regolari nella sua testa. Anche la vista sembrava avere dei lievi tremolii. Era contento di poter andare a casa. A casa? Ma lui abitava a Los Angeles e ora erano a Chicago. Fece per chiedere a Mr. Harding di dare disposizioni perché lo portassero a casa ma l’uomo si era voltato verso le vetrate e gli dava le spalle. «Professore?» Un uomo lo stava tirando per un braccio in modo gentile ma fermo verso la porta. Sempre più confuso Kourtney si lasciò accompagnare nel salottino precedente e poi in un’altra anticamera dove lo attendeva la ragazza di colore con una valigetta di pelle nera al cui manico era attaccata una manetta.

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La ragazza sorrise e gli porse la valigia e, quando lui l’afferrò, fece scattare l’altro capo della manetta sul polso. «Per la sua sicurezza», disse suadente. «Non sarebbe bello perderla con quello che contiene.» Poi gli mise in tasca una piccola chiave. «Questa per aprire le manette quando sarà al sicuro. All’interno della valigia troverà tutte le istruzioni per ritirare il resto del compenso e un biglietto aereo per Los Angeles per il volo di questa sera alle ventuno. Arrivederci Professore, è stato un piacere conoscerla.» Cinque minuti dopo il professor Bristol April Kourtney era nell’enorme piazzale di marmo bianco ai piedi del grattacielo, solo, con un gran mal di testa, la vista lievemente annebbiata, e una valigetta con un milione di dollari incatenata al polso destro. Alzò gli occhi a guardare quel mostro di acciaio, cristallo e cemento armato che lo sovrastava e pensò per un attimo a cosa aveva costruito in quei sei anni. Alle case di pietra, calcina e tegole fatte a mano, ai templi, alle acropoli… al monumento a Leonida. Aveva fatto rivivere un mondo perduto solo con il suo ingegno, pochi elementi e 7000 operai sudamericani. Aveva gioito, inveito, vissuto con queste persone sino a considerarle parte della sua vita. Aveva ricostruito Atene, Tebe e… Sparta! Le tre città più famose di tutta la storia greca erano tornate a splendere sotto il cielo dopo 2500 anni ed era stata tutta opera sua. Solo, non sapeva dove. Una mano ruvida e callosa gli diede una gran botta dietro la nuca. «Bella quella valigia» disse una voce con un pesante accento spagnolo. «Ehi nonno, che ne diresti di tenerti la mano attaccata al braccio e darla a me?» Kourtney si guardò intorno terrorizzato. Era circondato da una banda di teppisti di strada con tatuaggi e catene, berretti di pelle, borchie e stivali. Non si era accorto del loro arrivo ma sapeva di essere completamente solo nella piazza. Dov’era la gente? Che giorno era? Perché non c’era nessuno che andasse al lavoro? E dov’erano gli uomini che lo avevano accompagnato fuori? Li cercò con lo sguardo per chiedere aiuto ma uno

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schiaffò gli fece girare la testa e la bocca gli si riempì del sapore del sangue. «Hombre, estoy ablando contigo!» Il secondo schiaffo gli ruppe gli occhiali, facendoli volare qualche metro più in là. Kourtney fu preso dal panico. Aveva lottato per anni per portare qualcosa a sua moglie, a colei che non lo aveva mai capito, che odiava i suoi sogni, le sue passioni per la storia, i reperti o meglio “le macerie” come le chiamava e che se ne era andata dopo nemmeno due anni di matrimonio, lasciandolo con una figlia appena nata, perché non era disposta a rinunciare a tutto quello che la sua condizione di nascita le aveva sempre garantito. Dorothy era figlia di un grande possidente terriero della Virginia, una famiglia che da generazioni aveva un patrimonio immobiliare da favola. Lei era stata splendida all’università, inavvicinabile, un sogno, come gli antichi greci, come la cultura degli spartani, una cometa bionda che attraversava i corridoi con quel suo passo morbido e quella scia di sottile profumo di marca che faceva girare la testa. Lui era il suo professore si storia e lei non lo aveva mai guardato. Kourtney aveva fatto di tutto per attirare la sua attenzione, forse anche approfittando un po’ troppo della sua posizione. Forse non avrebbe dovuto bocciarla in quel modo all’esame, ma era innamorato e si sa, in guerra e in amore tutto è concesso. Alla fine Dorothy si era laureata lo stesso (aveva passato l’esame di storia in un altro corso) e si erano persi di vista. Si erano ritrovati alcuni anni dopo per caso a una cena di gala organizzata dal suo editore per presentare il suo ennesimo libro sulla storia e mitologia greca. Kourtney a quel tempo era uno storico di fama internazionale noioso, pedante e, assolutamente squattrinato. Lei era splendida, lui sempre innamorato. Il corteggiamento era durato poco, non serviva. Lei aveva riempito la sua vita, i suoi pensieri, le sue azioni. Si erano sposati dopo un mese e dopo due Dorothy aveva annunciato di essere incinta. L’idillio era durato pochissimo. Lei abituata ad avere tutto il possibile dalla vita, lui che faceva il conto prima di entrare al ristorante. Avevano litigato spesso ma lei lo amava davvero, faceva solo fatica ad abituarsi a un tenore

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di vita così diverso ed era normale che ogni tanto avesse bisogno di tornare dai suoi o di fare qualche viaggio da sola. Aveva viaggiato spesso, anche quando era incinta, anche se i dottori lo avevano sconsigliato. Poi era nata Charline e lei era sembrata tornare normale per alcuni mesi. Poi aveva ripreso a viaggiare. Lasciava la piccola con una tata e partiva. Usava denaro della sua famiglia per quei viaggi, persone influenti, ricche, potentissime, che non avevano mai voluto conoscerlo. Poi Charline aveva compiuto un anno. Avevano festeggiato con amici dell’università, un bel barbecue. Kourtney si ricordava ancora ogni singolo momento di quella giornata. Avrebbe voluto fare l’amore quella sera, ma Dorothy era troppo stanca e il giorno dopo doveva partire con il padre per un affare in Europa.Con un bacio di buona notte avevano spento le luci sul compleanno della piccola. Il sole era sorto accompagnato dal pianto della piccola Charline. La tata non c’era, Dorothy era già andata via. Non era più tornata. Nemmeno la tata. Così si era preso cura della bambina, con immense difficoltà, con disagi e privazioni. Proprio nel momento in cui pensava di aver raggiunto una certa stabilità, il mondo gli si era rovesciato addosso un’altra volta. Erano passati i giorni, le settimane e poi i mesi, e non aveva più avuto notizie della moglie, sembrava essere scomparsa nel nulla. L’aveva cercata in ogni dove, aveva provato a contattare la sua famiglia, non aveva ottenuto alcun risultato. Si erano trasferiti e nessuno sapeva dove. «Gente strana quella» aveva detto l’impiegata del comune quando aveva chiesto informazioni, disperato. «Gente convinta di poter comprare il mondo!» Così aveva proseguito solo, con la bimba. A mano a mano che Charline cresceva alcune cose gli erano sembrate strane nelle lunghe notti di insonne riflessione. I tempi del concepimento non apparivano del tutto esatti, alcuni tratti somatici anche, ma la bambina

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era un fiore, anche se del papà non aveva molto. Lui la amava con tutto se stesso e lei ricambiava con sincerità. Charline era l’immagine della madre. Erano passati sette anni. Anni di McDonald’s e grandi spaghettate dietro consiglio di un amico italiano. «Costa poco, è buona e fa bene!» gli aveva detto. Perdiana, proprio quello che gli serviva. E così il professore e la bambina avevano stretto un legame fortissimo anche se Kourtney amava sempre la moglie più di ogni altra cosa e viveva nell’attesa del suo ritorno. L’avrebbe perdonata e non le avrebbe chiesto niente. Avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di poterla nuovamente avere vicino. Il pugno lo raggiunse alla tempia e il mondo vorticò, le lastre di marmo bianco della pavimentazione salirono verso il suo volto e l’impatto gli procurò una ferita alla nuca. Il sangue iniziò a bagnare le pietre. «Ehi hermanos, diamoci da fare con quel braccio, non possiamo stare qui tutto il giorno a pestare questo rifiuto!» Un coltello a serramanico apparve, due mani forti come tenaglie gli inchiodarono il braccio destro a terra, mentre uno stivale calava sulla sua mano bloccandola a terra e spezzandogli tre dita. Kourtney urlò di dolore, i teppisti risero. «Non ti preoccupare Señor, tra poco non sentirai più nulla alla mano, ti curo io.» L’uomo rigirò il coltello dalla lama lunga trenta centimetri davanti al suo volto, Kourtney vide i denti gialli, la luce della pazzia in quegli occhi e il fiato fetido che sapeva di birra gli annebbiò del tutto la vista. “Oh mio Dio, Dorothy…” fu il suo ultimo pensiero coerente, poi qualcosa scoppiò nel suo petto. Un’ondata di dolore lo avvolse quando il cuore esplose, ed era così forte che non sentì il coltello che tagliava il polso. Lontane sirene della polizia interruppero lo sporco lavoro. Quando i poliziotti arrivarono trovarono un corpo sul selciato. Aveva una piccola macchia cremisi intorno al capo e una mano quasi completamente staccata dal braccio. Era morto e aveva una valigetta di pelle nera ancora attaccata al braccio da una manetta e una catena resa rovente dal sole accecante di un anonimo venerdì di luglio.

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Pulizia

Erano stati tutti radunati a Sparta. La città era deserta, come le altre del resto. Sorgeva in una valle, ai piedi di una collina, e la cingeva come un anello, estendendosi intorno ad essa e nelle campagne circostanti. Era tutto perfetto, immobile, senza vita. Un’opera grandiosa completamente vuota, come se il tempo si fosse fermato, come se duemilacinquecento anni di storia non fossero mai trascorsi. Avevano addirittura dovuto correre per giorni sull’anello che circondava il campo di addestramento, per battere la pista simulando l’allenamento di centinaia di atleti per anni interi. Avevano indossato sandali di cuoio dalla suola sottile, con cinghie che salivano lungo il polpaccio. Li aveva disegnati il professore, il matto, e loro li avevano realizzati con pellame che i sorveglianti avevano portato con gli aerei e lanciato dal cielo come i viveri e i medicinali, in grandi casse con il paracadute. Tutto ciò che era possibile era stato paracadutato, il resto portato con grandi camion lungo la strada sterrata che arrivava dalle colline a Ovest. Xavier osservò le costruzioni, le strade, i templi. Il suo sguardo seguì la Strada dei Vincitori fino alla Piazza del Mercato, poi parte della Strada dei Guerrieri, accarezzò il Sentiero Scosceso e arrivò all’Acropoli e alla statua di Zeus, immensa, alta sei metri in fine marmo di Carrara. Era un’opera bellissima e lui si chiese quanto fosse costata. Era una domanda stupida, tutto era costato un’enormità. A ogni famiglia era stato garantito vitto e alloggio per tutta la durata del contratto e uno stipendio di ventimila dollari l’anno. Una cifra da sogno. Finalmente ora era tutto finito e lui e Delma sarebbero tornati a casa con i loro tre figli a godersi un periodo di riposo e festa, mucha fiesta! Alzò lo sguardo e cercò la moglie con gli occhi. Delma lo vide e sorrise, salutandolo con la mano. Era sempre stato così, sin da quando erano bambini. Se si potevano vedere lei non lo perdeva di vista un attimo e lui la cercava spesso. Ora tutti erano posti ai vertici di un triangolo di circa cinquecento metri di lato. A un vertice stavano gli uomini, all’altro le

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donne, nell’ultimo i niños. Erano ai tre angoli del grande Campo di Addestramento, un terreno enorme circondato da una pista di terra battuta lunga circa un chilometro. L’ultimo angolo sarebbe stato occupato dagli autobus che li avrebbero riportati a casa. Avrebbero viaggiato su mezzi diversi, era scritto nel contratto. Un peccato perché non vedeva l’ora di stare di nuovo con sua moglie e con i bambini dopo tanto lavoro e tanti mesi separati. Ma per tutti quei soldi ne era valsa la pena. La mente di Xavier non riusciva a fare bene i conti. Lui era un bravo muratore e un ottimo carpentiere, tanto bravo che in brevissimo tempo era stato promosso capo squadra dal professor Kourtney e aveva partecipato con lui alla realizzazione di alcuni dei più bei palazzi di quelle tre città perse nel nulla. Il Palazzo del Prezzo del Bestiame era quello a cui il matto aveva dato più importanza, curandolo in tutti i particolari in modo quasi maniacale, perdendo le notti a osservare i lavori solo per spremere la squadra ancora di più il mattino dopo, senza tregua, senza riposo, senza mai un momento libero finché tutto non era stato perfetto. Un giorno Xavier gli aveva rivolto la parola direttamente. «Señor», aveva detto pulendosi la fronte dalla polvere di pietra e calcina. «Perché questo palazzo ha questo nome?» Il matto lo aveva guardato senza vederlo per qualche attimo. «Perché un re di Sparta un giorno prese in moglie la figlia di un commerciante di bestiame che non era spartana e gli impose questo nome.» «Strano nome per il palazzo di un re» aveva ribadito il muratore. «Vero, gli storici dibattono da millenni su questo punto. Quel re era dotato di un senso dell’umorismo assolutamente particolare oppure alla fine aveva prevalso la vergogna costringendolo a lasciare alla storia un messaggio di profondo disprezzo verso se stesso?» «Yo no sé profesor» fu la quieta risposta. «Io invece penso di saperlo, e la risposta non ti piacerebbe.» Aveva atteso qualche attimo, raddrizzandosi e scrutando il sole lontano. «La risposta non piacerebbe a nessuno di noi.» «Porque?» «Perché gli Spartani erano una razza unica, nata per combattere e per vincere. Tolleravano solo se stessi. Erano molto orgogliosi e facevano bene

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ad esserlo… erano i migliori. Questo loro orgoglio fu la causa della loro grandezza, della loro immortalità e della loro rovina. Noi oggi stiamo ricostruendo una cosa che l’umanità ha distrutto. Io ho dedicato la mia vita allo studio della storia di Sparta. Ho visto cose che nessuno ha mai visto prima, e oggi vedo questa città rinascere. Dovrei essere un uomo felice, perché vedo i miei sogni realizzarsi, Xavier» non lo aveva mai chiamato per nome prima, «ma a volte, la notte non riesco a dormire. Allora mi alzo e cammino per le strade di questa città di morte.» Fece una pausa, lunga, continuando a lavorare, misurare, disegnare, calcolare, tanto che ad un certo punto il muratore pensò che il matto si fosse nuovamente perso nei suoi pensieri. Gli capitava spesso. Quasi non lo udì quando riprese. «A volte penso che stiamo facendo un grosso errore, che Sparta non dovrebbe rinascere. C’è qualcosa di sbagliato, di … malvagio in tutto questo. Ho la sensazione che ce ne pentiremo tutti e, purtroppo… non saremo i soli.» Alonso gli diede una pacca sulla spalla e Xavier sorrise voltandosi verso l’amico. «Quasi finito, eh?» disse il nuovo arrivato. «Già», rispose Xavier stringendo quella mano callosa e forte come una morsa, «e tra qualche giorno saremo a casa a goderci finalmente le nostre mogli, i figli e un grande riposo.» «Io penso che me ne andrò» disse piano Alonso e Xavier lo guardò pensieroso, scuotendo leggermente la testa come per dire che non aveva capito. «Dai che hai capito benissimo. Io voglio bene a Esma, ma non sono fatto per lei. Non riesco a esserle fedele, non riesco a essere me stesso se non con “le ragazze del Viejo”. Te le ricordi? A Esma lascerò una buona parte dei soldi in modo che possa vivere bene e crescere i ninos al meglio, ma io devo andare via. Le farei solo del male a rimanere.» Xavier scosse ancora la testa. Certo che ricordava “le ragazze del Viejo”, erano fantastiche, care, fredde e senza sentimenti. Un uomo poteva passarci una notte intera e uscirne ancora ebbro il mattino dopo. Ma cosa si portava dietro?

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«Una notte di sesso non vale niente Alonso, non vale una vita. Sono pochi minuti di piacere che lasciano un gusto amaro e un gran mal di testa. Ti svuotano l’anima e la tasca posteriore dei pantaloni.» «Pochi minuti per te, io duro sempre almeno il doppio. E poi anche davanti lasciano il vuoto!» Alonso rise forte. «Contento tu.» Delma vide i grandi autobus neri arrivare da Ovest lungo la strada sterrata. Si fermarono a qualche centinaio di metri occupando l’altro vertice del Campo di Addestramento. Lanciò uno sguardo preoccupato al gruppo dei bambini che erano tenuti sotto stretta sorveglianza dalle maestre. “Che assurdità!” – pensò. Ai pequeños era stato insegnato per sei anni a parlare solo in greco antico e in inglese, tanto che negli ultimi tempi aveva fatto fatica a comunicare con loro. Una madre che non riesce più a parlare con i propri figli. Greco Antico! Che senso aveva? Una sera il più grande, Leandro, le aveva raccontato che la maestra aveva detto che il greco antico era la loro lingua, mentre l’inglese era la lingua degli dei. «Cosa vuoi dire?» aveva chiesto Delma con un brivido lungo la schiena e la voce un po’ troppo dura. «Non so mamma, davvero. Non mi sgridare anche tu come la maestra, ti prego, non so altro.» «No caro, no.» Delma aveva abbracciato il bambino. «La mamma non ti sgrida, la mamma ti vuole bene.» Ripensandoci, da quando erano arrivati alla meta, l’enorme tendopoli che fungeva da campo base del progetto, tutti i bambini erano stati gestiti dalle maestre, perche donne e uomini erano impegnati nella costruzione delle tre città. Quando gli avevano offerto quel lavoro a tutti era sembrato un miracolo. Delma e il marito erano colombiani immigrati illegalmente negli Stati Uniti e vivevano a stento con i pochi soldi che Xavier portava a casa. Quasi mai avevano di che nutrirsi a sufficienza, spesso Xavier lavorava come un mulo e non veniva pagato. Avevano vissuto la loro storia nelle bidonville del New Mexico, sempre ai margini, sempre in ansia. Poi erano

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arrivati quegli uomini con le grandi auto nere, le giacche e le cravatte. Avevano offerto un lavoro sicuro all’estero alle famiglie con due o tre figli molto piccoli. Poche regole, vitto assicurato e la scuola dei bianchi per i niños. Il lavoro sarebbe durato dai sei ai dieci anni. Il compenso era vitto e alloggio per tutta la durata del progetto, la cittadinanza americana e ventimila dollari l’anno. Un sogno. Quegli anni erano stati duri ma il vitto era sempre stato abbondante e le condizioni di vita accettabili per chi, come loro, non aveva mai conosciuto altro che la propria angoscia. Ora Delma aveva un certificato, nella piccola borsa di tela logora che teneva sulle ginocchia. Con quel documento avrebbero ricevuto la cittadinanza e le coordinate del conto corrente su cui erano stati depositati i loro soldi. Tutti avevano quel piccolo, bellissimo foglio di carta e tutti erano felici. Tutti tranne lei. Da alcuni giorni una brutta sensazione la accompagnava in ogni momento della giornata, una sensazione di pericolo. Ne aveva parlato a Xavier ma lui aveva scrollato le spalle. Non vedeva pericoli, solo un lungo viaggio noioso verso casa e poi tanto riposo e una nuova vita. Delma aveva sorriso al suo uomo senza convinzione. Aveva paura. Delma Emilia Fausta Veron era sempre stata una ragazza stupenda. Alta, capelli neri e occhi verdi, era una rarità tra la sua gente. Ora, a quasi trent’anni, tre figli e una vita di difficoltà, era una donna che toglieva il fiato anche senza smalto, trucco e vestiti alla moda. La sua bellezza aveva iniziato ad essere un problema nel momento in cui Xavier era diventato l’uomo di fiducia del matto rimanendo così lontano per mesi interi. A quel punto uno dei sorveglianti, un uomo forte, con lo sguardo duro e il sorriso lontano, aveva iniziato a interessarsi a lei. Erano stati momenti difficili e alla fine Delma aveva accettato di barattare una maggiore libertà e cibo più abbondante con altra mercanzia. Non era equo ma era meglio di niente, il risultato non sarebbe cambiato in ogni caso. I grandi autobus neri aprirono le porte e la sensazione di pericolo le attanagliò lo stomaco come una mano ghiacciata. I sorveglianti sbraitarono ordini secchi e gli uomini si misero in fila afferrando le vecchie valigie e sollevando nuvole di polvere. Quando il primo uomo mise i piedi sul predellino e salì, gli occhi le si offuscarono ed ebbe paura di vomitare tanto

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era grande il terrore puro e profondo che si era impossessato di lei. Non sarebbe salita su quei veicoli e nemmeno Xavier! Doveva fare qualcosa prima che fosse troppo tardi. Michael Lloyd aveva il compito ufficiale di aiutare i muratori a salire in autobus e quello ufficioso di assicurarsi che vi salissero tutti. Avrebbe risposto con la sua vita a eventuali mancanze. Delma si diresse ancheggiando esageratamente verso di lui. «Hola Michael» disse mentre si scostava leggermente di lato per fargli capire che voleva parlargli in privato. L’uomo rimase un attimo perplesso, il grosso fucile mitragliatore appeso con noncuranza alla spalla destra, la canna puntata a terra, poi si avvicinò. «Cosa vuoi? È tardi, devi andare con il tuo gruppo, i vostri autobus non tarderanno ad arrivare.» «Ne arriveranno altri?» chiese lei socchiudendo gli occhi e inclinando la testa di lato. Sapeva che l’uomo impazziva per quell’espressione. «Sì.» «Sono molti allora.» Delma esibì il sorriso più stupido che poté. Doveva fare in fretta, Xavier la stava guardando malissimo. «Ho bisogno di un favore, tu mi puoi capire.» «Parla in fretta e tornatene con le altre.» «Ho bisogno del mio uomo.» Fece una pausa carica di significato. «Soli. Capisci cosa intendo?» «Sei pazza donna? Dovete partire!» «Lo so Michael, ma staremo lontani per un mese! Non posso farcela.» Si sentì arrossire fino alla punta dei capelli ma faceva parte della finzione e continuò. «Ho voglia Michael, ti prego! Non posso aspettare!» «Sei una puttana ma so come sei quando hai voglia. Vengo io, ti divertirai di più.» «Tu dopo» disse lei con voce roca. «Quando ho questa voglia un uomo solo non basta. Prima lui. Quando sarà partito sarò tua per il tempo che vorrai.» Michael sorrise mostrando i denti bianchi e Delma sentì che le tremavano le ginocchia. Senza una parola Lloyd fece un cenno a un altro sorvegliante. I due parlottarono per qualche attimo mentre Delma tornava senza fretta verso le sue cose. Facendo finta di niente sorrise alle amiche più vicine e chiese a una di tenerle d’occhio la valigia, le fece l’occhiolino. Questa vide

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Xavier uscire dal gruppo degli uomini per venire verso la moglie e sorrise scuotendo la testa. Delma non si voltò e si avviò ancheggiando vistosamente verso le prime case della città. Entrò nell’abitato, attraversò una piazza e imboccò uno stretto vicolo. Aveva il cuore che batteva all’impazzata e il sudore che le scendeva copioso lungo la schiena. Nel momento in cu fu sicura di non poter più essere vista dai sorveglianti iniziò a correre. Xavier non capiva molto di quanto stava accadendo ma aveva una gran voglia di dare un paio di schiaffi alla moglie. Che cosa diavolo erano quei sorrisini e quelle smorfie? E come si era messa a camminare? Diamine, sembrava una puttana! Anche Alonso, che pure era suo amico, non aveva potuto fare a meno di notare la cosa. La vide attraversare la Piazza del Mercato, entrare nel Vicolo del Dolore e iniziare a correre! Trattenne l’impulso di correrle dietro. Delma si era comportata in modo troppo strano e quel sorvegliante che gli aveva detto di andarle dietro aveva una smorfia sul viso, l’espressione di chi la sa lunga. Bestemmiando piano percorse i pochi metri che lo separavano dal vicolo il più in fretta possibile. Entrò tra le case e iniziò a correre percorrendo a tutta velocità il Vicolo del Dolore, la stretta stradina lastricata che, dalla Piazza del Mercato, portava alla Collina della Sepoltura, a Est. Aveva fatto solo pochi decine di metri quando una mano lo afferrò per la camicia e lo tirò in un androne. Delma era lì, ansante, sudata, rossa in viso e con una strana luce negli occhi. Xavier osservò la moglie come se fosse una perfetta sconosciuta. Lei gli mise le mani sulle spalle. «Xavier ascoltami por favor! Non dire o fare assolutamente niente e ascoltami! Dì che lo farai e subito perché ho osato troppo e se non fai come ti dico sono perduta.» L’uomo annuì piano. «Dobbiamo scappare, ora! Abbiamo al massimo mezz’ora, forse meno, poi ci cercheranno. Se mi prenderanno sarò morta e non mi piacerà il modo in cui accadrà.» Lo disse tutto d’un fiato, con l’ansia nel cuore, l’angoscia negli occhi, lo disse mettendo la sua vita nelle mani dell’uomo che amava. Xavier non rispose. Immobile osservò a lungo la ragazza che aveva sposato più di dieci anni prima e che aveva sempre visto più lontano di lui. Quella ragazza forse

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lo aveva tradito, era stato facile leggerlo negli occhi di quel bastardo di sorvegliante. C’erano cose che non sapeva ma doveva fare una scelta. Rimase in silenzio per un periodo che a Delma parve eterno. «Y los niños?» chiese infine. Era fatta! Il cuore quasi le scoppiò nel petto per la gioia. «Ci nasconderemo e guarderemo. Se non gli accadrà niente di male troveremo il modo di seguirli, altrimenti faremo quel che potremo.» «Bueno, entonces vamos!» Si presero per mano, uscirono nel sole di Sparta e iniziarono la corsa più lunga della loro vita diretti verso la Collina della Sepoltura e i fitti boschi che la ricoprivano. Michael Lloyd si asciugò il sudore dalla fronte con un fazzoletto sporco e lo rimise in tasca, un gesto automatico che aveva compiuto spesso in quegli ultimi anni, a Sparta si sudava molto. “E tra poco,” pensò “anche il fazzoletto sarà un lusso che non potrò più permettermi.” Fece un respiro profondo, un problema alla volta. Per prima cosa doveva controllare la partenza di quegli sciagurati, poi avrebbe avuto un bel diversivo con la colombiana. Sorrise. Che donna! Gli aveva fatto ribollire il sangue in più di un’occasione, anche se aveva finto un piacere che non provava. Era un peccato che andasse sprecata, ma gli ordini erano ordini e Michael, dopo gli anni trascorsi nelle milizie mercenarie in giro per il mondo, si era abituato a non discuterli mai. Disubbidire significava sempre morire. E morire male. Si guardò intorno: tutto stava procedendo secondo le regole, i muratori salivano in modo calmo e ordinato sui grandi autobus neri. Lloyd non poté reprimere un brivido. Quegli automezzi erano il frutto di una mente perversa. Si chiese se aveva preso tutte le precauzioni necessarie e, per l’ennesima volta si rispose che non lo sapeva e che avrebbe potuto contare solo su se stesso. Accarezzò il calcio del fucile mitragliatore che portava disinvolto sulla spalla destra. Era un portamento che traeva in inganno, avrebbe potuto sparare e uccidere in una frazione di secondo, come tutti gli altri sorveglianti d'altronde. Avevano tutti all’incirca la sua esperienza ma nessuno ne parlava. La cultura del sospetto, la paura per l’incerto, tutto questo aveva contribuito a creare quell’atmosfera irreale che i signori

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dell’Ancient Turism Inc. avevano costruito sin dall’inizio. Che progetto assurdo! I primi dieci autobus chiusero le porte e fecero manovra. Dopo qualche attimo imboccarono la stretta strada sterrata che portava oltre le colline. Dritti all’inferno. Alonso era pigiato con gli altri ottanta passeggeri all’interno dell’autobus e si reggeva al mancorrente in alto bestemmiando piano. L’interno degli autobus era … Alonso non trovava un termine per definirlo se non ”assurdo”. Non c’erano sedili, panche, niente. Solo posti in piedi, qualche sostegno verticale e due mancorrenti alti che lo attraversavano per tutta la lunghezza. «Dovete fare poca strada» aveva detto il sorvegliante quando erano saliti. «Solo fino alla ferrovia, mezz’ora al massimo, poi avrete posti più comodi.» Poi se n’era andato senza voltarsi, ma in viso era giallo, come chi sta per vomitare. Alonso era sicuro che quell’autobus avrebbe fatto star male chiunque e fu contento che ai niños avessero riservato altri mezzi. Il conducente viaggiava in fretta e le buche erano scossoni improvvisi e imprevisti, i vetri erano oscurati in modo totale. I passeggeri non vedevano niente, nemmeno la cabina e il conducente. Alonso riusciva a guardarsi intorno e a distinguere gli altri passeggeri solo grazie all’illuminazione interna, fioca, fredda, lontana. Uno strano odore gli giunse alle narici e si pulì il naso fregandosi poi la mano sugli occhi. «Ehi,» urlò «cerchiamo di non scorreggiare qua dentro!» Qualche risata nervosa seguì la sua battuta. L’odore aumentò e la testa iniziò a fargli male. Alzò gli occhi e vide del fumo grigio entrare lento da piccole grate poste in alto lungo tutto il mezzo. Serrò la mano sul mancorrente fino a far sbiancare le nocche, le gambe non lo reggevano più. La gente intorno a lui iniziò a urlare, qualcuno cadde scalciando, qualcuno vomitò, altri fecero di peggio, si era scatenato l’inferno. Alonso cercò di reagire. Voleva arrivare vicino alla cabina dell’autista, voleva bussare e dirgli di fermarsi per aprire le porte, voleva dirgli che lì dentro c’era gente che stava male. Sbatté la testa per terra.

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“Strano,” pensò “non mi sono accorto di cadere.” Si raggomitolò su se stesso e si sentì il petto bagnato. Toccandosi si stupì: si era vomitato addosso e non se ne era accorto. Qualcosa o qualcuno gli cadde addosso e le sue gambe iniziarono a muoversi in modo incontrollato. Scalciava, urlava pur non avvertendo alcun dolore, solo nausea e sensazioni incontrollabili, il suo corpo si muoveva in modo indipendente. Iniziò a sanguinare dal naso. “Chissà in che stato arriveremo alla ferrovia” fu l’ultima cosa che pensò. Poi morì. Il grande autobus nero salì lentamente sulla rampa di cemento che sovrastava il cratere. Si fermò al centro tenendo il motore acceso, sul bordo sinistro uno strapiombo di parecchie decine di metri portava a una grande voragine artificiale costruita sul corso di un piccolo torrente di montagna che era stato deviato per l’occasione. La grande fossa era profonda oltre duecento metri, doveva contenere molte cose. L’autista premette alcuni pulsanti, abbassò il finestrino e si accese una sigaretta. Era arrivato il momento di scaricare, il lavoro sporco era finito alcuni chilometri prima. Avrebbe dovuto accendere le telecamere interne per accertarsi che il lavoro fosse stato portato a termine senza intoppi, ma non se l’era sentita. Aveva partecipato ai test su alcuni indigeni, conosceva effetti e tempo di reazione del gas. Aveva già dato. L’autobus si alzò lentamente da terra quando i grandi stabilizzatori lo fissarono al suolo. La parete laterale di sinistra si aprì lentamente in due sezioni longitudinali, una verso l’alto e una verso il basso. Il pavimento iniziò a scorrere verso l’esterno. L’autista controllò ancora una volta che gli stabilizzatori fossero ben piantati a terra: uno sguardo nervoso, non aveva nessuna voglia di ribaltarsi anche lui. Il pavimento continuò a scorrere, lentamente, inesorabilmente. Poi la sezione che era rimasta all’interno dell’autobus si alzò sui pistoni idraulici come un ribaltabile, scaricando il macabro contenuto nella fossa. L’autista ritirò il pavimento e gli stabilizzatori ma mantenne aperta la sezione laterale e si spostò più avanti dove alcuni incaricati in tuta bianca con tanto di maschere di protezione erano pronti con idranti e spazzoloni per preparare il mezzo per il carico successivo. “Sarà una giornata di merda” pensò.

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Alle sei di sera l’ultimo autobus lasciò la periferia di Sparta con il suo carico di morte e Michael Lloyd si rilassò. Era stata una giornata lunga, ma per fortuna tutto era filato liscio. C’erano stati alcuni momenti di tensione quando un gruppo di donne era sceso urlando da un mezzo: quegli stronzi delle pulizie avevano dimenticato un corpo. Le donne avevano iniziato a urlare ma la reazione dei sorveglianti era stata repentina. Il gruppo era stato isolato in pochi istanti e l’autobus allontanato. Le sovversive erano state condotte tra le case di Sparta e uccise velocemente. Un paio avevano provato a scappare, stupide. Era stato anche più divertente, avevano urlato parecchio prima che tutto fosse finito. Quando anche l’ultimo mezzo appena partito avesse scaricato il suo macabro contenuto, i deficienti della pulizia avrebbero fatto brillare le mine sul bordo del cratere e la terra avrebbe ricoperto il loro lavoro, per sempre. Autobus, attrezzature, rampa di cemento, ogni cosa utilizzata in quella giornata nera e qualche tonnellata di terra e rocce sarebbero finiti nella voragine coprendo per sempre i corpi di tutti coloro che in quegli anni avevano costruito “Newold World.” Poco meno di quindicimila cadaveri giacevano in quella fossa, tutto fatto e finito senza intoppi in un giorno solo. Era quasi un record. Per ultima sarebbe stata fatta saltare la piccola diga che aveva deviato il corso del torrente riportandolo così al suo alveo originale e creando sul suo corso un nuovo stupendo lago artificiale. Qualche scemo dotato di particolare spirito umoristico lo aveva definito il Lago della Morte, che fantasia! Altri avevano addirittura progettato un lancio di trote di lì a qualche mese, in modo che con la loro riproduzione garantissero un’ulteriore fonte di alimentazione negli anni a venire. Michael, per non sbagliare, si era riproposto di non mangiare più pesce. Il generale Algernon si avvicinò con il suo solito passo marziale e Lloyd scattò in piedi scuotendosi automaticamente la polvere dai pantaloni. Non si era accorto di essersi seduto a terra. «Tutto bene capitano?» chiese il generale osservandolo con quei suoi freddi occhi azzurri, gli occhi di uno sparviero. «Tutto perfettamente in regola, signore!»

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«Bene, sono contento che sia finito. È stata dura imbarcare quei poveracci per inviarli al macello, vero?» Michael iniziò a sudare, una sillaba sbagliata e avrebbe potuto fare anche lui la stessa fine. La fossa non era ancora chiusa. «No Signore. Doveva essere fatto. Nessun problema da segnalare.» Algernon socchiuse gli occhi. «Ho visto come hai gestito l’imprevisto, capitano. I miei complimenti, io stesso non avrei saputo fare di meglio.» «Grazie signore!» «Non ringraziarmi capitano, tra qualche ora tutto cambierà e dovremo abituarci ad una nuova vita.» Il generale rimase pensieroso, gli occhi freddi fissi su di lui. «Non ringraziarmi ma rimani dalla mia parte, ho la necessità di poter contare su uomini come te, fidati, precisi e silenziosi. Lo farai?» «Certamente, signore! Grazie, signore!» «Bene. All’Acropoli al tramonto, non mancare.» «Non mancherò, signore!» Michael si accasciò nuovamente a terra. Ora era veramente tutto finito. Sapeva da qualche tempo che Algernon si era costituito un gruppo di fedelissimi, ora era stato invitato a farne parte. I suoi sforzi degli ultimi mesi avevano dato i frutti sperati e le sofferenze di quelle due poverette nel pomeriggio erano servite a dare soddisfazione al generale. Michael aveva notato che l’uomo si era nascosto nell’edificio di fronte per osservare il trattamento. La morte di quelle due poteva garantire a lui la vita. Sorridendo si rialzò, aveva ancora parecchie cose da fare prima del tramonto e della cerimonia per “Entrare nel passato”. E, camminando, si dimenticò completamente di una colombiana che avrebbe dovuto incontrare quel pomeriggio, una ragazza che stava scappando sulle colline di Sparta con il marito, piangendo e mordendosi le labbra per non urlare. Le due poverette erano state sue carissime amiche.

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Entrare nel passato I ventimila bambini erano rimasti con le maestre per tutto il pomeriggio. Alcuni avevano pianto, salutando con la mano la mamma e il papà che salivano sugli autobus che li avrebbero portati a casa, ma la maggior parte aveva trascorso il tempo giocando, correndo, oppure a lezione in piccoli gruppi. In quei sei anni il legame con la famiglia era andato sempre più affievolendosi, mentre si rafforzava il legame con le maestre, vere protagoniste della loro esistenza. Quando erano arrivati erano tutti molto piccoli, al massimo tre anni, ora i più grandi ne avevano nove, i più piccoli sette. Avevano giocato, studiato, imparato a coltivare la terra seguendo il susseguirsi delle stagioni, appreso l’uso di antichi utensili per zappare, arare, seminare, irrigare e, tra le altre cose, imparato ad esprimersi solo in greco antico e, qualche volta, in inglese. Ora i genitori erano partiti e Leandro sentì due lacrime calde scendergli lungo le guance abbronzate. Le tolse con una manica sporca di polvere e si guardò intorno. Essendo tra i più grandi era stato nominato caposquadra e doveva gestire altri cento marmocchi, non aveva molto tempo per pensare. I suoi due fratelli, Basilio ed Estefan erano in gruppi diversi. Li conosceva poco, li aveva frequentati poco, non li sentiva quasi più come fratelli. Sapeva che lo erano solo perché la mamma glielo ricordava continuamente. Quel pomeriggio erano successe strane cose e la mente del bambino le aveva registrate e le stava elaborando in una sessione separata, come un problema che sapeva essere importante ma al quale non trovava una soluzione immediata. Perché quelle donne erano scese dall’autobus urlando? Gli altri bambini non avevano capito niente, le signore parlavano in spagnolo e loro quella lingua non la ricordavano più. Leandro sì però, perché in quegli anni aveva fatto di tutto per non dimenticarlo. Le signore avevano urlato di morte e tradimento. Erano sconvolte e avevano cercato di fuggire ma in un attimo erano state circondate dai sorveglianti, tutti armati, tutti sorridenti. Le avevano prese, separate dalle altre e accompagnate alla Fonte della Vita a dissetarsi e poi in città, al fresco, a riposarsi. Il sole poteva giocare brutti scherzi. Quando i sorveglianti erano tornati però le signore non c’erano e alcuni uomini avevano la faccia sconvolta. Le

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signore non le aveva più viste da nessuna parte. Leandro sedette a terra e tracciò qualche simbolo senza senso nella polvere con un dito osservando con la coda dell’occhio i grandi. Tutti sembravano rilassati ma i loro occhi non lasciavano i ragazzi nemmeno per un momento. Erano tanti quei grandi. Non li aveva mai contati, ma avevano tre o quattro maestre ogni cento bambini e i bambini erano tantissimi, non riusciva a immaginarsi quanti. Alcune erano veramente carine, giovani e sensuali, ma nessuna era mai stata simpatica o dolce come la sua mamma. Era dal mattino che aspettavano gli autobus e Leandro era stanco e stufo e il sedere cominciava a fargli male. Perso nei suoi pensieri non si accorse che le maestre avevano iniziato a radunare i gruppi e stavano dando istruzioni. Non si accorse che lo stavano chiamando. Un calcio nelle costole lo sollevò da terra e lo rivoltò con la faccia nella polvere. Gli mancò il fiato e questo fortunatamente gli impedì di soffocarsi con la polvere fine e gialla che si era sollevata tutto intorno. «In piedi!» la voce del sorvegliante era dura e fredda, priva di qualsiasi emozione. Semplicemente terribile. Leandro si alzò tenendosi il fianco con una mano, le lacrime negli occhi per il dolore. «Fa male?» l’uomo alto lo osservava con un viso annoiato. «Sì Señor.» Lo schiaffo gli spaccò un labbro e lo ributtò a terra. Leandro si raggomitolò su se stesso. Che idiota! Aveva risposto in spagnolo. Come aveva fatto a non accorgersi che l’uomo gli aveva parlato in greco? Come aveva fatto a commettere un simile errore? Rimase immobile, le mani a proteggere la testa. Sapeva che ne avrebbe prese ancora. «La prossima volta che sento una parola in quella lingua ti uccido. Lo faccio lentamente, di fronte a tutti, può sempre servire e un cane in meno invece, non fa differenza.» L’uomo aveva parlato con quel suo tono distaccato, quasi con fastidio. Leandro si sentì pieno di un terrore irrazionale. Il sorvegliante non si mosse, i suoi compagni di squadra osservavano la scena terrorizzati. «Sì signore» rispose quindi. «Non succederà più, signore.» «Bene, così va meglio. Prendi il tuo gruppo e seguimi, siete destinati a Sparta.» Una mano si alzò in un gesto di ammonizione. «Fermo, non fare

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domande, non ti è consentito. D’ora in poi non potrai più rivolgerti a uno Spartano se questo non ti darà il permesso di parlare. Sono stato chiaro?» Leandro annuì piano con la testa tenendo gli occhi a terra. Di cosa stava parlando quell’uomo? Voleva andare a casa, dov’erano gli autobus? Gli venne voglia di chiederlo ma qualcosa lo trattenne e gli salvò la vita. Il sorvegliante attese ancora in silenzio, stava aspettando un suo errore quasi con bramosia. «Bene» disse l’uomo alla fine. «Vedo che sembri aver capito. Mi avevano detto che eri un ragazzo sveglio ma pensavo che questo potesse essere la tua maledizione. Non preoccuparti di capire adesso, non è il momento.» Rise forte. «Le regole sono semplici per voi che adesso siete Iloti.» Lasciò la parola sospesa nell’aria con un ghigno di cruda soddisfazione. «Avete studiato cosa significa, ora lo siete. Cosa eravate prima non conta, cosa avreste voluto diventare non conta. Non ci saranno più autobus, giochi, la mamma. Per voi ora esisterà solo Sparta. Vivrete per lavorare e servire i veri Spartani, vivrete o morirete coltivando la terra e dandone i frutti ai vostri signori. Quello che vi accadrà dipende solo da voi. Da questo momento non contate più niente, solo il fastidio di uccidervi e, forse, la seccatura di seppellirvi. E’ tutto chiaro?» Leandro assentì ancora, gli occhi pieni di lacrime sempre a terra. «Bene. E’ giunto il momento di lasciare il presente, entrare nel passato e accettare il vostro futuro. Andremo alla statua di Leonida dove vi spoglierete e getterete i vestiti nella pira. Vi daremo sandali e chitoni, vi sarà marchiato il braccio destro e vi comunicheremo le nuove regole. Oggi muoiono i bambini e nascono gli schiavi, oggi inizia a risplendere nuovamente la gloria di Sparta. Siine fiero poiché da questo momento sei parte della storia, mentre ieri eri solo un verme figlio di vermi che attendeva di tornare a essere cibo per i vermi.»

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Il risveglio degli Dei La donna sospirò di piacere mentre le mani del suo amante scorrevano lentamente sui muscoli oliati della schiena in un massaggio rilassante. La terrazza era ampia e ombreggiata, il lettino orientato verso il mare dove le tonalità dell’azzurro giocavano con i contrasti tipici dei colori dei mari del sud. Il cielo era azzurro chiaro, quasi bianco a contatto con la linea dell’orizzonte, testimone del caldo afoso di quell’estate torrida. Il suo corpo era rilassato ma la mente era lontana e lo sguardo vagava libero lungo l’orizzonte, quasi a cercare di rincorrere pensieri, sensazioni, idee che non riusciva a rendere concrete. Improvvisamente una scossa. Un brivido. La donna sollevò di scatto la testa, rimase in quella posizione un momento e poi appoggiò le mani sul bordo anteriore del lettino, come un felino che si appresta ad attaccare. L’uomo si fermò. Non poteva massaggiare muscoli così contratti, era come se fossero percorsi da una corrente di energia. Rimase stupito a osservare quel corpo stupendo, le mani unte sollevate quasi in segno di resa. Improvvisamente aveva paura a toccare quella schiena che appariva immensamente forte. Turbato scosse leggermente la testa. «Ehi!» disse continuando a tenere le mani sollevate. «Che succede? Ti ho pizzicato?» «Zitto» la donna non si mosse. «Beh Cheryl, io…» «Ti ho detto di stare zitto, Joey.» Joey fece una smorfia, si voltò e andò a lavarsi le mani. Si era da tempo abituato alle stranezze di quella splendida donna che si faceva chiamare Cheryl e che aveva conosciuto un mese prima in un locale notturno di New York. Molto ricca, estremamente bella e single era, ovviamente anche molto particolare. Alternava momenti di gioia frenetica a depressioni acute, incontrollabili. Però era anche tenera, affettuosa e semplicemente fantastica di notte. Joey non si era mai innamorato, quando scegli di vivere alle spalle degli altri non puoi permettertelo. Sceglieva preferibilmente donne, ma in passato aveva trascorso parecchio tempo anche con uomini, a volte non

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soli. Si era sempre adattato, in fondo era una sua scelta. Quando era in difficoltà ricordava le parole di suo padre ubriaco la sera: “Ricordati ragazzo che al mondo c’è sempre di peggio.”. Quando tornò sulla terrazza Cheryl era nuda in piedi accanto al lettino e tremava come se sentisse freddo. I lunghi capelli ramati che le scendevano fino a metà schiena le conferivano un aspetto selvaggio, diverso. La osservò con calma e gli sembrò più alta, più forte, un animale da combattimento, un essere indomabile, quasi una dea. Cheryl scoppiò a ridere e si voltò. «Non quasi Joey, non quasi» disse con il sorriso sulle labbra. Joey la guardò imbarazzato, era come se lei gli avesse letto nella mente. Lei sorrise nuovamente. «Posso farlo sai, solo non avevo alcuna ragione di dirtelo. E’ estremamente divertente.» Rifletté un secondo. «E comunque non mi avresti creduto. Ora però è finita, quindi puoi anche saperlo.» «Tu puoi… ? Finito cosa? Di che parli?» «È stato bello conoscerti» continuò lei come se non l’avesse sentito, «ma ora devo andare. Sono accadute cose che fino a qualche giorno fa ritenevo impossibili» scrollò le spalle. «Invece sono accadute. Non so come sia possibile ma me ne accerterò.» L’uomo alto, con la barba scura, il petto nudo e i corti pantaloncini hawaiani che uscì sulla terrazza colse Joey alla sprovvista. Era semplicemente immenso. Aveva un paio di espadrillas nere ai piedi e occhiali da sole a specchio. Faceva paura. «Ciao!» disse Cheryl con un sorriso. «Devo arguire che anche tu hai sentito.» «Sì, ma non è possibile» rispose l’uomo scuotendo la testa. Aveva una voce piena e profonda, come l’eco del mare in una grotta. «Questa cosa non ha senso, eppure si sta verificando. Vieni?» «Certo.» I due si avviarono e il giovane fece per dire qualcosa, ma ancora una volta Cheryl lo anticipò. «Non ora Joey, non è veramente il caso mentre c’è lui. E’ famoso per la sua poca pazienza.» «Io?» disse il gigante con un’espressione di assoluto stupore.

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«Zitto tu. Joey ti ho già detto che è finita. Rimani quanto vuoi, io devo andare. Quando te ne vai tirati dietro la porta, ma dimenticami ora, so che ne sei capace.» Il giovane sollevò le spalle rassegnato. Non era la prima volta che gli accadeva e perlomeno non era stato gettato in strada con urla e insulti. La casa era splendida e aveva tutto il tempo per cercarsi una nuova sistemazione. «Quelli come lui mi fanno schifo.» La voce dell’uomo lo raggiunse fin sulla terrazza e gli fece venire strani brividi lungo la schiena. «Lo so Ap, ma a volte servono. Sono molto divertenti. Che mi dici di te?» «È bello rivederti Atena, mi sei mancata.» «Anche tu, Ap, anche tu.» Joey li sentì ridere mentre uscivano e riuscì finalmente a respirare. Quel tipo gli aveva fatto tremare le gambe, e dire che non era proprio un novellino. Beh, ora è finita, si disse, speriamo solo per lei che si sia ricordata di vestirsi prima di uscire. Sorridendo andò verso il mobile bar. Per il telefono c’era tempo. Finita la cerimonia per “Entrare nel passato” i ragazzi furono divisi in tre gruppi, ognuno di essi con un buon numero di maestre e sorveglianti al seguito. Il generale Algernon era in piedi e aveva la Statua di Leonida alle spalle. Lasciò scorrere lo sguardo duro sui bambini schierati. Non ci avevano messo molto e avevano dovuto ucciderne solo una cinquantina. Non gli piaceva uccidere i bambini ma non avevano avuto scelta, se non l’avessero fatto ora si sarebbero trovati a gestire una quantità indescrivibile di marmocchi che correvano in tutte le direzioni e lui non aveva abbastanza uomini per gestire quel tipo di situazione, inoltre il Progetto basava gran parte della sua produzione alimentare su quei bastardini. Erano la forza lavoro del futuro, se li avesse uccisi sarebbe rimasto senza manodopera. Adesso doveva farli muovere, la notte era appena iniziata ed era opportuno che i tre gruppi si dividessero subito. Fece un gesto al gruppo di Atene e un altro al gruppo di Tebe.

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Ricevette un cenno di risposta dai generali di entrambi i contingenti. Ordini imperiosi furono urlati nell’aria immobile della sera e due colonne si avviarono lentamente verso Ovest lungo la strada sterrata che avevano percorso gli autobus solo poche ore prima. La strada attraversava quelle che avevano nominato “Montagne del Silenzio”. I bambini avrebbero costeggiato il “Lago della Morte”, a quell’ora probabilmente già quasi completamente formato, ignari che sotto quello specchio che non avrebbe mai dovuto esistere giacevano i corpi dei loro genitori e avrebbero marciato per almeno tre giorni prima che i due gruppi si dividessero per dirigersi verso Atene i primi e Tebe i secondi. Nell’aria si udì lo schiocco secco delle fruste seguito da grida stridule di dolore. Il gruppo di Sparta non si mosse. Era diviso in due: in uno erano fermi gli Iloti, nell’altro i Perieci. Algernon sorrise: strano dover tirare a sorte per definire se un ragazzo avrebbe vissuto da schiavo o da uomo libero, ma in fondo quella era la legge della natura e non guardava in faccia nessuno. E poi era una distinzione più di forma che di sostanza. Nella vera Sparta i due gruppi avevano avuto effettivamente vite e mansioni diverse, qui avrebbero solo fatto mestieri differenti, ma la loro condizione di schiavitù sarebbe stata la medesima. Gli Iloti si sarebbero occupati della produzione degli alimenti, mentre i Perieci avrebbero fatto attività artigianali. Il nuovo re di Sparta osservò un falco solitario volare in cerchio sulle Montagne del Silenzio: avevano creato un nuovo mondo, nel codice segreto dalle Ancient Turism Inc. era definito “Newold World”. Ora era compito suo plasmare da quella materia grezza la vera Sparta. Osservò attentamente la presenza femminile nei due gruppi di subumani: era dovuta; in fondo avrebbero dovuto formare famiglie e magari riprodursi prima o poi. Lo facevano anche i conigli. Sogghignò in modo orribile: quelli che fossero sopravvissuti ovviamente. Con un cenno ordinò che fossero condotti alle capanne che erano state predisposte per loro. Quella sera non avrebbero cenato. Rimaneva ancora la cerimonia formale per maestre e sorveglianti: dovevano rinascere i “Paidotribi”, coloro che avrebbero allevato e addestrato gli Uguali del futuro esercito spartano, gli Ufficiali e le loro compagne che avrebbero continuato ancora per parecchi

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anni a fare le Maestre. Erano tutte balle ma la forma andava rispettata. Algernon sospirò, dovevano anche cambiare i nomi! Erano gli ultimi impegni prima di potersi ritirare nel bunker sotterraneo nascosto sotto la “Casa degli Dei” per trascorrere il resto della notte ubriaco in dolce compagnia. Due maestre lo stavano osservando. Sorridevano. Rispose al sorriso con un cenno di intesa. “Bene,” pensò, “tutto è bene quello che inizia bene.” Dorothy Georgene Osborne era finalmente serena. Sprofondata nell’enorme divano bianco, un calice di champagne nella mano destra e una sigaretta nella sinistra, ascoltava musica da camera nella sua splendida villa sulle colline sopra Malibù. La brezza pomeridiana entrava dalle grandi porte a vetri e accarezzava piano i tendaggi mentre il personale di servizio si muoveva silenzioso per l’ampia villa, preparando con cura tutto il necessario per il party in piscina di quella sera. Le feste di Dorothy Osborne erano frequenti e molto famose all’interno della ristrettissima cerchia di multimiliardari che si autodefiniva gli eletti. Non era facile accedere a quel ramo dell’alta società, era necessario possedere un reddito difficilmente quantificabile. Gli eletti erano coloro che veramente governavano il mondo. La politica, i giornali, il potere, erano per gli sciocchi che credevano di essere importanti. Marionette, niente di più. Dorothy sorrise al ricordo di come suo padre una volta si fosse veramente seccato e avesse alzato il telefono sbraitando alcune frasi sanguinose nella cornetta. Il giorno dopo era improvvisamente terminata una delle tante guerre civili africane che da settimane occupava le prime pagine dei giornali. Una coincidenza? Difficile crederlo conoscendo suo padre. Il “Grande Vecchio”, come veniva comunemente indicato Seymour Osborne, amava raccontare quel particolare avvenimento ai nuovi ammessi al circolo degli eletti tanto per far loro capire come stavano realmente le cose. Chi capiva in fretta era fortunato. Dorothy sorrise ancora. Quella telefonata le era rimasta impressa in quanto lei si stava rotolando dietro un divano con un pilota di rally. La presenza dell’austero genitore in quella stanza aveva reso estremamente elettrizzante l’amplesso trasformandolo in uno dei ricordi più belli della sua vita. Sparta era il tema segreto della

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serata. Miss Dorothy Osborne ebbe un moto di stizza e modificò leggermente la sua posizione languida sul divano. Lei aveva avuto una parte fondamentale nel Progetto, una parte cui non aveva potuto opporsi e che l’aveva resa furibonda. Sposare quel deficiente di Bristol non era una cosa che si potesse dimenticare facilmente. Ma Seymour Osborne era stato irremovibile. Cosa avesse generato in suo padre quell’insopportabile idea non lo aveva mai capito, ma il risultato era una bionda ragazzina di nome Charline Kourtney, esatta immagine della madre, che lei faceva tenere costantemente sotto controllo da personale qualificato. Charline sarebbe servita al Progetto in un modo perverso che non le era ancora del tutto chiaro, ma si doveva accontentare. Dorothy Osborne odiava quella stupida ragazzina, odiava quello che rappresentava (anche se ovviamente il padre non era stato Bristol), odiava quella macchia sul suo corpo, si sentiva ancora sporca dalle mani di quel bastardo. Aveva assistito da una finestra agli ultimi istanti di vita dello stupido, aveva goduto al pensiero del terrore e della sofferenza che lo attanagliavano, anche se Bristol era già morto appena sceso dall’elicottero. Quella era stata una sua idea, una piccola variante sul tema, non voleva che ci fossero errori e quel veleno non perdonava. Il rumore di un elicottero in avvicinamento infranse la quiete del tardo pomeriggio e lei si riscosse. Il Grande Vecchio stava arrivando e doveva andare ad accoglierlo. Seymour Osborne sedeva rilassato al grande tavolo centrale attorniato da musica, amici, liquori e denaro. Fumava un sigaro cubano che costava un occhio e osservava tutto divertendosi nel vedere come le donne in certe occssioni fossero capaci di indossare più gioielli che tessuto. In quel momento stava recitando la sua parte pubblica preferita: un ultrasessantennte uomo d’affari annoiato, attratto solo dal lusso e dai vizi. Niente di più sbagliato. Osborne era uno squalo con la memoria di un elefante ed anche a distanza di giorni avrebbe potuto descrivere ogni singolo gesto o parola di chi gli interessava osservare veramente. Il Grande Vecchio si era sempre sentito estraneo al mondo dell’alta società e si divertiva a mettere in difficoltà tutti coloro che entravano nella sua sfera di influenza. Erano solo un’enorme massa di stupidi. Più erano ricchi più

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erano stupidi. Seymour era il più ricco di tutti ma il meno stupido. Amava infatti definirsi l’eccezione che conferma la regola. Nato estremamente povero, nella sua versione, e decisamente benestante per chiunque altro, da sempre aveva avuto un unico obiettivo: arricchirsi alle spalle di chi riteneva più ricco di lui mantenendo il più assoluto anonimato. Osborne non amava la notorietà, non voleva essere costantemente spiato e costretto a nascondersi per vivere la sua vita. Per cui era diventato un giocatore. Seymour amava giocare, sempre, su tutto, con chiunque. Soprattutto amava giocare con i soldi e con le donne degli altri e quel tipo di gioco inevitabilmente finiva per piacere solo a lui. Aveva costruito il suo impero partendo dalle piantagioni di tabacco di famiglia, scalando le multinazionali del “fumo” con molta attenzione ed estrema cautela. Poi si era dedicato ai cereali, al cacao, al caffè, alle derrate alimentari. Aveva trascorso qualche anno nei cartelli colombiani della droga, poi aveva deciso che quel mercato era troppo imprevedibile e si era spostato sul petrolio e sulle energie rinnovabili. Nel petrolio faceva sul serio, nelle rinnovabili giocava. In qualche momento aveva anche acquistato un paio di gruppi bancari, gli servivano per gestire la liquidità. In tutte queste costellazioni di business, Seymour Osborne non era mai rintracciabile ma vi si muoveva a proprio agio come un topo nel formaggio perché aveva la mente di un campione di scacchi e la moralità di un capomafia siciliano. Faceva affari con il denaro e con le armi, con la simpatia e con il terrore, molto spesso con entrambi. Era un artista con un’unica vera passione, oltre al denaro, al lusso e alle donne degli altri: la storia di Sparta. Sparta rappresentava per lui l’essenza dello spirito umano: un popolo invincibile, un contatto diretto con gli dei, lo spregio più totale per le classi inferiori. Questa passione aveva fatto nascere il Progetto. L’idea gli era venuta anni prima un giorno in cui sua figlia gli aveva parlato con disgusto del suo periodo a Yale e delle difficoltà che aveva incontrato con il suo professore di storia, Bristol April Kourtney. Il professor Kourtney era un luminare un po’ scemo. Proprio l’uomo che faceva al caso suo.

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All’epoca Osborne era stato tentato di conoscere quel professore per condividere con lui la sua passione per Sparta. In un pomeriggio di primavera piovoso aveva alzato la cornetta e iniziato a comporre il numero della segreteria dell’università, poi si era fermato. Era uscito nel parco e aveva camminato a lungo sotto la pioggia, riflettendo. Aveva continuato a pensare anche a cena e per tutta la notte finché, il mattino dopo, un piano aveva preso forma nella sua mente. Aveva fatto chiamare al telefono un uomo di fiducia e lo aveva incaricato di tenere d’occhio il professore h24 per sei mesi. Quindi si era dimenticato del problema. Per sei mesi. Quindi i due si erano re incontrati in uno dei tanti uffici di Los Angeles. «Il professor Bristol è un luminare» aveva detto l’uomo consegnandogli una relazione di un centinaio di pagine dattiloscritte. «E’ indubbiamente uno dei principali esperti al mondo di storia antica, tanto che è chiamato a tenere congressi ovunque. L’ho seguito per un po’, dall’Italia al Giappone, passando per la Cina e alcuni stati sudamericani. Mi piace, è una persona semplice, estremamente competente e molto piacevole, ehm… al di là dell’odore. Ho preso atto che non ama molto l’acqua e il sapone. Comunque, nonostante la giovane età dimostra un’esperienza impressionante.» Seymour aveva sorriso e si era acceso un sigaro. «Bel lavoro Tyrell» aveva commentato tra una nuvola di fumo e l’altra. «Davvero un bel lavoro. Lei continui a tenerlo d’occhio io continuerò a pagarla.» «Sì signore.» «Bene. Indipendentemente da quello che succederà e da quanto potrà sembrarle strano, ho bisogno che lei non lo perda più di vista e mi riferisca costantemente, diciamo… ogni tre mesi. Non si faccia domande, osservi e riferisca. Tutto chiaro?» «Come desidera. E’ tutto?» «Buona serata Tyrell.» «Anche a Lei Mr. Seymour, è sempre un piacere lavorare con lei.» “E ci credo”, aveva pensato il Grande Vecchio. “Con quello che ti pago!”

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La serata seguiva i binari previsti, sempre i soliti, e mentre osservava distrattamente sua figlia danzare con un miliardario tedesco dal fisico imponente e dallo sguardo bovino, Seymour si perse nuovamente nell’onda dei ricordi. «A cosa servono i soldi se non a realizzare l’impossibile?» diceva sempre suo padre. Ritornò con la mente alla sera dopo il colloquio con Tyrell. Il sole del tramonto creava riflessi rossastri sulla grande vetrata che dava sul giardino. Il parco era immerso nella penombra calda di una sera di fine estate, alcune foglie già rattrappite erano cadute sul soffice prato inglese e proiettavano ombre che parevano insetti grotteschi sul verde scuro dell’erba. Perso nelle sue fantasticherie Osborne non si era reso conto del trascorrere del tempo. I suoi occhi non vedevano più il prato ma una distesa arida con migliaia di guerrieri in movimento. Le lance si abbassavano e gli scudi si serravano, poi la cacofonia della battaglia esplodeva come un tuono nella sua mente. Le ombre assumevano il colore del sangue e le foglie a terra divenivano mani troncate, arti mozzati. Il rosso del tramonto era sangue, il movimento dei rami nella brezza della sera spasmi di agonia e di morte. Osborne si era accorto di essere eccitato. Aveva chiamato il maggiordomo e fatto convocare Miss Osborne subito e la moglie di un suo avvocato, una rossa estremamente disponibile, con amica al seguito, per cena. Quando Dorothy era arrivata non le aveva lasciato il tempo di parlare e le aveva detto senza mezzi termini che avrebbe dovuto sposare il prof. Bristol quanto prima. La bionda e spumeggiante Dorothy aveva strepitato come una furia, aveva urlato, inveito, minacciato di uccidersi, pianto e infine pregato in ginocchio. Si era perfino graffiata il volto con le unghie smaltate e curatissime. Seymour aveva osservato la sceneggiata per una buona mezz’ora senza alcuna espressione, poi si era alzato, le aveva mollato due schiaffi e l’aveva mandata a dormire. Continuava a essere eccitato ed era ora di cena. Era stata una nottata memorabile. Il giorno dopo Dorothy, in vestaglia trasparente e volto sfatto, si era avvicinata mentre Osborne faceva colazione in giardino in compagnia delle due donne. «Devo proprio farlo, papà?» aveva chiesto con gli occhi ancora gonfi di pianto. Le due non l’avevano degnata di uno sguardo.

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«Sì.» «Questo cosa significherà per me?» «Niente che tu non voglia.» Seymour si era alzato e aveva preso la figlia sottobraccio allontanandosi. «Tu devi sposarlo e farci un figlio. Né io né Ross lo incontreremo mai ma tu lo dovrai conoscere benissimo e dirmi tutto di lui. E tu sai che quando dico tutto significa tutto, vero?» la ragazza aveva annuito. «Questi sono i tuoi doveri. Non ne avrai mai altri nei miei confronti. Come ricompensa avrai metà del mio patrimonio e tutta la mia influenza a tua disposizione. E quando dico tutta sai cosa intendo.» Dorothy aveva fatto due rapidi calcoli mentali e aveva sorriso. «Potrò fare quello che voglio anche durante il matrimonio, papà?» «Domanda stupida. Pensavo avessi preso più da me che da tua madre.» «Ti voglio bene, papà.» Si erano abbracciati e quel patto aveva segnato la fine di un uomo. Sarebbe stato solo il primo di una lunga serie. Quel giorno Seymour Osborne aveva messo la prima pietra del Progetto. La festa volgeva al termine quando Dorothy si sedette di fianco al padre. «Sei silenzioso stasera, papy!» aveva squittito, segno che pregustava una serata divertente, magari con il bue tedesco. «Guarda che se è un bue non funziona poi così bene», rispose Osborne sopra pensiero. «Come…?» Il vecchio sorrise. «Oh scusami Dorothy, pensavo ad altro. Che vuoi?» «Non dovevi fare annunci strani o altro questa sera? Te ne sei sempre stato seduto qui da solo.» «Non preoccuparti, ho fatto quello che dovevo e poi mi sono goduto la serata. Adesso vado. Buona notte.»

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Inizia l’operazione Il Grande Vecchio sorseggiava un drink e guardava l’oceano mentre il grande yatch ondeggiava pigramente al largo di Acapulco. Spirava una leggera brezza, l’ombra era deliziosa e il telefono non squillava. Quel suo nuovo acquisto era fantastico e, anche se era costato una fortuna, garantiva un relax ed un comfort degni di quanto aveva speso. L’equipaggio era di un’efficienza mostruosa e, cosa del tutto singolare, composto di sole donne. E che donne! Molto probabilmente avrebbe acquistato l’agenzia con la quale aveva trattato, quell’idea era un vero e proprio business. Suo figlio Ross era da qualche parte a fare ginnastica o a farsi massaggiare. Doveva essere pronto per le venti e trenta, e fare in modo che gli ospiti fossero accolti e l’equipaggio lasciasse la nave. Tutte, nessuna esclusa. Non aveva alcun dubbio che Ross avrebbe ubbidito scrupolosamente. Lo aveva educato bene. Poco prima delle nove gli invitati iniziarono ad arrivare. Erano in pochi ma valevano un’economia mondiale. I veri eletti erano tutti multimiliardari con amicizie altolocate e parenti in posti chiave della politica statunitense. E tutti avevano pesanti debiti nei suoi confronti. Quattro uomini d’oro perfettamente sconosciuti alle folle, gente che amava vivere la propria condizione senza dare nell’occhio, le persone giuste da coinvolgere nel Progetto. I grandi yatch gettarono l’ancora a poca distanza, i piccoli gommoni si avvicinarono veloci e i suoi ospiti furono accolti a bordo dalle ragazze che poi svanirono nel nulla. Era una cena estremamente riservata e coperta dal massimo segreto. Nessuno al mondo era a conoscenza di quell’incontro. Adam Bailey, petroliere, fu il primo a raggiungerlo. Quarantenne atletico e abbronzato vestiva con morbidi pantaloni rossi, camicia bianca a maniche lunghe e mocassini di camoscio. Sfoggiava un largo sorriso e un’abbronzatura invidiabile frutto più di trattamenti di bellezza che di tempo passato al sole. «Salute Adam» Seymour allungò una mano rimanendo seduto e questi la strinse con un sorriso. Aveva una stretta forte e decisa, la stretta di una persona abituata a far sentire a proprio agio i suoi collaboratori. Ross si avvicinò e la stretta tra i due fu più una prova di forza che un saluto. Da anni i due erano in competizione come due galli nello stesso pollaio.

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Lasciando la mano di Ross, Bailey si rivolse al Grande Vecchio. «Ben trovato Seymour! Sempre in ottima forma nonostante i tuoi vizi.» «Mi risulta che ne condividiamo parecchi» fu la quieta risposta. «Tranne il fumo» confermò Bailey passandosi una mano tra i capelli. «Veramente stupendo questo tuo nuovo acquisto. Ne avevo sentito parlare ed ero curioso di vederlo» fece una piccola pausa. «Si dicono meraviglie dell’equipaggio…» «Ogni cosa a suo tempo, mio ficcanaso amico. Prevedendo il tuo interesse ho dato disposizioni in merito. Prima però dobbiamo fare altro.» «Ovviamente!» Il secondo ad arrivare fu Barret Gayle, magnate dei cereali. La sua famiglia controllava l’ottanta per cento della produzione mondiale di frumento, orzo e segale. Era un cinquantenne stempiato con la pancia prominente, gli occhi piccoli e porcini, sudava in continuazione, con qualsiasi temperatura e aveva sempre le mani fredde. Gayle era stato invitato in funzione dei suoi contatti in Asia, Osborne aveva in mente di affidargli una parte molto delicata del Progetto. Barret salutò senza dare la mano a nessuno e andò dritto al mobile bar dove si versò un brandy. Non attese l’invito, si comportava da padrone sempre e comunque. Coleman Sage apparteneva a una famiglia quasi invisibile ma molto esperta in traffici non proprio legali dietro la copertura della fornitura di armi all’esercito americano. Si vociferava che avessero una notevole esperienza nel traffico di uomini, donne e bambini o, più spesso, di parti di essi. Molto piccolo di statura, non superava il metro e cinquanta, occhi verdi, magrissimo, nervoso e scattante come un furetto, vestiva in polo e jeans non di marca. Capelli corti e occhiali scuri completavano il quadro. Aveva un leggerissimo tick ai muscoli dell’occhio sinistro che copriva indossando gli occhiali da sole sia di giorno che di notte. L’ultimo fu Hadas Leyton, il massimo esponente della comunità ebraica di New York. Operava nella finanza, controllando l’economia di gran parte del mondo civilizzato mentre la sua famiglia vinceva ogni appalto nel settore delle grandi opere edili. Leyton riusciva a coniugare molto bene le due attività, trovando una collocazione perfetta per ogni debitore con difficoltà finanziarie. I grandi piloni di cemento armato dei viadotti delle

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Highway offrivano una vasta gamma di possibili soluzioni. Leyton era molto fiero di questa sua specializzazione, la chiamava sogghignando “bioedilizia”. Fisicamente Leyton era insignificante. Si vestiva da ebreo e appariva modesto e dimesso in ogni suo gesto. In questo era molto simile al Grande Vecchio: quando emergeva il vero Leyton era sempre troppo tardi e le betoniere generalmente erano già in funzione. Erano tanto simili che il loro affiatamento era leggendario. Ross fece gli onori di casa in modo sobrio e sbrigativo, estremamente concreto in ogni suo gesto, sempre seguito dallo sguardo distratto del padre. Il buffet era a base di pesce fresco, Osborne aveva un debole per crostacei e coquillage, innaffiati con abbondante vino bianco italiano, secco fermo e ghiacciato. La cena fu gradevole. I cinque uomini si conoscevano e facevano affari insieme da molti anni. Il tempo trascorse velocemente, mentre una brezza leggera rinfrescava la temperatura e le lontane luci di Acapulco fornivano una splendida cornice alla serata. Il grande yatch continuava con il suo dondolio lieve su cui si sviluppavano i discorsi di uomini abituati a gestire, con una semplice frase, le vite di migliaia di persone. Seymour parlò poco nel corso della cena, ascoltò molto e sorrise spesso, bevendo e mangiando pochissimo. Verso le dieci si alzò e chiese ai suoi ospiti di seguirlo in una saletta interna attrezzata con poltroncine e una lavagna luminosa. Tutto era pronto. Bailey e Gayle sorseggiavano brandy, Leyton fumava, Sage sedeva in silenzio. Tutti attendevano di conoscere il vero motivo della convocazione. Seymour sedette, prese un piccolo telecomando da un tavolino e proiettò una diapositiva. Ross prese posto in piedi alle spalle del padre. «Io ho un progetto» iniziò il Grande Vecchio e l’attenzione di tutti divenne tangibile. La diapositiva mostrava una cartina in cui erano raffigurate le tre città principali della Grecia antica, Atene, Tebe e Sparta. Erano riportate anche Corinto, Micene, la Macedonia, l’Attica e tutti i particolari del Peloponneso, ma le tre città erano evidenziate con un cerchio giallo. La mappa sembrava molto antica. Osborne lasciò ai presenti qualche attimo per mettere a fuoco l’immagine. «Come potete vedere sono un appassionato di storia, ma non di tutta la storia, solo di quella della Grecia Antica in un periodo ben preciso, il

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periodo dell’egemonia spartana.» Fece un gesto vago con la mano. «Dal settecento al trecentocinquanta circa avanti Cristo o giù di lì. Le date non sono mai state il mio forte. Gli spartani erano un popolo unico in tutti i loro usi e costumi. Nella storia nessuno è mai più riuscito a eguagliarli. Avevano un unico scopo nella vita e lo realizzarono nel migliore dei modi. Avrei voluto vivere in quel tempo ma purtroppo…» fece una pausa ad effetto «purtroppo sono solo un miliardario moderno.» Bailey si appoggiò allo schienale della poltroncina distendendo le gambe, mise i gomiti sui braccioli e incrociò le dita delle mani appoggiando il mento sui pollici, un gesto che, per chi lo conosceva equivaleva ad estrema attenzione. «Bene» continuò Seymour con naturalezza e una piccola alzata di spalle, «dal momento che mi interessa quella parte della storia, ho deciso di ricrearla per poterla vivere in prima persona» sorrise «altrimenti a che servono i soldi? Quindi ho ricostruito quelle tre città» disse indicando la cartina. «Dopo duemilacinquecento anni Sparta, Atene e Tebe salutano il sole del mattino esattamente identiche a come lo erano a quel tempo... almeno in superficie, sottoterra la cosa è leggermente diversa ma di questo parleremo più avanti.» Il vecchio si fermò. Era tempo di prendere un nuovo sigaro e un altro bicchiere di brandy. Non era sudato sebbene l’ambiente fosse abbastanza caldo, e gli occhi gli risplendevano di una luce strana, quasi di follia. «Ho fondato una società di scopo per questo Progetto, la Ancient Turism Inc.. E’ tutto pronto. Non ci resta che popolare le tre città, viverle quanto ci parrà opportuno e poi farle combattere tra loro. Possiamo rivivere quel periodo storico in prima persona, possiamo essere Dei dell’Olimpo. Possiamo essere veramente ciò che siamo!» Barret Gayle si schiarì la gola. «Cos’è che saremmo?» «Suvvia Barret, siamo Dei! Non dirmi che non ci hai mai pensato. Manipoliamo le vite di migliaia, forse milioni di persone. Ci divertiamo nel lusso e nelle comodità e, a volte, passiamo il tempo fomentando guerre e ribellioni solo per distrarci dalla noia della vita di tutti i giorni. Vendiamo armi, uomini, donne e bambini, interi o in parti. Non siamo per nulla diversi dagli Dei di Omero che, sotto le mura di Troia, aiutarono gli Achei

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a distruggere la più bella città dell’antichità. Gli storici affermano che gli Dei di quel tempo agivano per noia e scopi personali. E noi oggi? L’unica differenza che vedo è la loro presunta immortalità: non conoscendone peraltro nessuno, deduco fosse una balla. Quindi noi siamo Dei e molto più potenti di loro.» Si passò una mano sul mento accarezzando la barba ispida della giornata tra pollice e indice, gli occhi non si staccavano da quelli dei quattro eletti. «Non siamo più umani, in questo penso siate tutti d’accordo con me. Abbiamo superato da tempo quella condizione elevandoci al di sopra delle miserie dei popoli. Noi viviamo vite diverse. Quanti esempi volete? Posso schioccare le dita e avere qui le donne più belle del mondo che faranno quanto ordinerò per tutto il tempo che vorrò. Posso decidere della vita e della morte di persone, posso renderli felici o terribilmente tristi per sempre. E come faccio tutto questo? Con il denaro. Il denaro è la fonte della nostra potenza… della nostra divinità. Il nostro potere dipende dal nostro conto in banca, nel mio e nel vostro caso è praticamente infinito. E’ il destino che ha deciso così e il destino, in ogni tempo, è sempre stato super partes. Bene. Vi ho dimostrato che siamo Dei, che vi piaccia o no. Tu che dici Hadas?» Leyton annuì piano. Aveva seguito il ragionamento, filava. Non aveva mai visto prima le cose da quella prospettiva, ma il tutto non faceva una grinza. «Sì» rispose piano, « penso che tu abbia ragione, anche se la mia religione m’impone di non esprimermi in questo modo e di non condividere il fatto che tu ci elevi al rango di divinità. Caro Seymour esiste un solo Dio ed è quello dei miei padri.» Si pulì le lenti degli occhiali. «Peccato solo che al momento non sia qui. E quindi?» «E quindi voglio che giuriate che nulla di tutto questo dovrà mai essere condiviso con nessuno» la voce del Grande Vecchio divenne di ghiaccio. «Il fine del progetto non è il guadagno, è la mia, la nostra soddisfazione! Io voglio vivere come un Dio, un Dio vero. Voglio camminare in mezzo a persone che credono che io sia un Dio, non un miliardario sconosciuto con la puzza sotto il naso. Voglio che mi temano perché con un gesto li posso annientare! Voglio rivivere la storia, camminare tra gli antichi greci, andare a letto con le loro donne, guardarli combattere, uccidere e morire. Voglio essere un Dio dell’Olimpo e lo sarò. Siete con me?»

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Per qualche attimo attese la loro risposta, poi terminò. «Chi non se la sente può andarsene subito, ricordandosi però molto bene cosa lo lega a me. Chi rimane è con me… fino alla fine.» I quattro si guardano l’uno l’altro per qualche istante. Gayle sudava ma i piccoli occhi porcini ardevano di un fuoco nuovo, Bailey era imperturbabile come al solito, Sage silenzioso e distaccato. Solo Leyton tradiva un certo qual senso di anticipazione. Fu il primo a parlare. «Io ci sto» disse battendosi una mano su di un ginocchio. «Penso che tu sia completamente pazzo ma la cosa può essere divertente. Se hai condiviso con noi questo progetto è perché ti serviamo. Sputa il rospo.» «Adam?» «Ci sto anch’io, ma solo perché m’incuriosisce il dopo sera con il tuo equipaggio» Bailey sorrise mostrando denti perfetti. «Scherzi a parte, condivido quanto ha detto Hadas, la cosa è interessante.» Sage annuì senza dire una parola. «Bene» disse Gayle alzandosi per versarsi un drink. «A questo punto ci sto anch’io. È parecchio che non m’interesso alla storia antica, dai tempi del college credo. Mi ci vorrà un po’ per documentarmi, ma alla fine troverò un dio che si adatti alle mie caratteristiche. Solo non capisco: tu sostieni di aver ricostruito le città. E poi?» «Perché pensi vi abbia chiamati qui? Perché mi siete particolarmente simpatici?» Il Grande Vecchio non sorrideva più, aveva uno sguardo di ferro, il volto di pietra. «Io ho iniziato, voi continuerete. Le strutture sono pronte, anche gli schiavi.» Vide le loro facce attonite e sorrise. «Ne ho ventimila e più già sul posto. Adesso dobbiamo portare i guerrieri, i cittadini, le donne, i commercianti, le puttane… tutti quelli che devono viverci insomma! Per ultimi porteremo gli Spartani, ma a quello penserò personalmente. Voi vi occuperete di tutto il resto.» Ci fu un mormorio sorpreso. «Ventimila schiavi? E dove li hai trovati?» Sage parlava per la prima volta e sembrava più stupito che sconvolto. «E noi dovremmo popolare il resto. Di quante persone stiamo parlando?» Seymour Osborne si era trasfigurato. «Il Progetto pulisce la terra» disse piano, la voce sommessa, appena udibile. «Porteremo nel nostro regno

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feccia e uomini veri. Pecore e lupi. Di cosa parlo? Voi dovete procurare sessantamila ragazze fertili, molto giovani, non più di quattordici anni, e ottantamila bambini di qualsiasi razza ma che abbiano al massimo tre anni, di cui diecimila femmine. Io ho già pensato agli schiavi e alla governance, quasi cinquemila avanzi di galera della peggior specie che sono stati ben felici di accettare l’incarico pur di togliersi di torno a tempo illimitato. Come ultima cosa penserò agli spartani e porterò a Newold World quindicimila bambini maschi perfetti e almeno cinquemila femmine.» «Stai parlando di rapire delle persone e tenerle segregate contro la loro volontà?» Bailey sembrava stupito. «E’ contro la legge.» «Tutto il Progetto è contro la legge stupido, la legge siamo noi! Da quando gli Dei si attengono alla legge?» Urlò Seymour in preda ad un raptus di follia. Sudava copiosamente ora, la camicia bianca di lino incollata al ventre prominente, gli avambracci che luccicavano, il volto paonazzo. «Ovviamente ho preso delle precauzioni. Il luogo del Progetto è coperto dalla massima segretezza e non è rintracciabile. Chi vi lavora ne è parte integrante, vede solo la sua piccola sfera di azione e non può uscirne in nessun modo. Nessuno ha una visione complessiva, solo io, Ross e Dorothy l’abbiamo.» «Ma noi avremo una parte attiva nel Progetto e useremo persone nostre.» Leyton si alzò e si avvicinò alla vetrata guardando fuori il grande oceano nero e le luci lontane. «Chi ti garantisce che manterremo il segreto?» «Mantenerlo implica conoscerlo, Hadas.» L’uomo era esterrefatto. «Cioè?» chiese. «L’ho appena detto. Nessuno oltre a me e ai miei figli conoscerà mai i segreti di Sparta. I collegamenti saranno gestiti in modo sicuro. Fidatevi, nessuno scoprirà mai dove ho messo il mio giocattolo. Sparta è mia! Solo mia! Nessuno potrà mai scoprirla e collegarla a me o alla mia famiglia. Questo protegge anche voi.» «Cazzate Seymour.» Gayle iniziò a passeggiare nervosamente. «Il tuo bel segreto lo conoscono in tanti, per lo meno tutti quelli che lo hanno costruito.» La voce di Osborne si fece remota.

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«La Ancient Turism Inc. ha reclutato solo operai sudamericani immigrati illegalmente, circa settemila famiglie. Sono state accuratamente selezionate: tutti giovani sconosciuti, in buona salute e con figli piccoli. Due o tre per famiglia. Il più grande non doveva avere più di tre anni.» «Un sacco di gente» Bailey cercò di ignorare il brivido strano che sentì lungo la schiena. «Cosa impedirà loro di parlare una volta tornati a casa?» Seymour Osborne non rispose, gli occhi fissi in quelli dell’amico. Bailey trasalì. «Oh mio Dio!...» mormorò. «Quanta gente hai ucciso Seymour?» Leyton urlò la domanda senza accorgersene. «I miei conti non tornano, non… Oh cazzo!» «Lo facevano già i faraoni tanto tempo fa, non l’ho inventato io. Io ho salvato i bambini, così ora abbiamo gli schiavi» rispose Osborne piano. I presenti, escluso Ross, rischiarono di vomitare. «Sono circa ventimila, piccoli ma coriacei. I più grandi hanno meno di dieci anni.» Coleman Sage era rimasto in silenzio per gran parte della serata e ora osservava il Grande Vecchio con occhi colmi di un rispetto nuovo. A differenza degli altri Eletti lui aveva lo stomaco più forte. Scosse leggermente la testa. «Prima hai detto una cosa che non ho capito. Hai detto “ora non ci resta che viverle e poi farle combattere tra loro”, che significa?» Osborne sorrise, aveva sempre apprezzato Sage, era un autentico squalo. «I vecchi Dei combatterono sotto le mura di Troia in quella che fu forse la più grande battaglia di tutti i tempi, ma a quel tempo, se non ricordo male, gli spartani dell’era moderna non esistevano ancora. Esistevano gli Achei e la coppia che diede inizio alla loro discendenza, Elena e Menelao. Gli spartani moderni, ossia quelli che interessano me, combatterono un numero notevole di battaglie, il periodo che vi ho citato è tra i più importanti della storia. Vi furono le Guerre Persiane e quelle Peloponnesiache. Quattro furono le principali battaglie in quegli anni, quelle che più di altre hanno lasciato il segno e si sentono nominare ai giorni nostri. Maratona, Salamina, Platea e, prima, le Termopili. Tutte queste battaglie furono combattute da un esercito di alleati greci contro i persiani, tutte tranne le Termopili che però sono un’altra cosa. Io voglio vedere Platea.» Sage non aveva mai cambiato espressione, ora rispose.

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«Platea segnò la fine dei tentativi persiani di Serse di conquistare la Grecia. Suo cugino Mardonio fu ucciso da un esercito misto al comando di un generale spartano, Pausania se non ricordo male. Tebe era con i persiani in quell’occasione» Sage aveva gli occhi semichiusi e dimostrava una grande concentrazione, aveva sempre avuto un’ottima memoria, «ma Atene e Sparta erano alleate. Non c’entra molto con il tuo progetto, Osborne.» Il Grande Vecchio sorrise ancora. «I miei complimenti Coleman, ne sai quasi più di me. Peccato che interpreti la storia alla lettera. Io la storia la ricreo, sono un dio e quindi posso modellarla come preferisco. Io voglio rivivere la battaglia di Platea perché in essa fu dispiegato, da entrambe le fazioni, il più grande esercito di opliti che sia mai stato messo in campo. Userò Atene e Tebe alleate contro Sparta ma qual è il problema? Faremo credere ai nostri “ragazzi” che Atene e Tebe sono il nemico di sempre e, parallelamente, ateniesi e tebani crederanno che non esista al mondo un nemico peggiore di Sparta. Noi popoleremo il nostro mondo con poppanti che potremo plasmare a nostro piacimento. Platea sarà la battaglia che dovranno combattere mentre noi godremo della loro morte. Questo è ciò che voglio e questo sarà!»

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Una nuova vita

Tailandia, Chiang Rai, l’orologio segnava le tre del pomeriggio di una giornata afosa in cui anche l’aria sembrava rifiutarsi di esistere. L’autobus si fermò nella piccola piazza del mercato esattamente al centro del paese. Le grandi auto nere che lo seguivano lo sorpassarono e si divisero prendendo strade diverse. L’autista aprì le porte, scese, si accese una sigaretta e si avviò verso il bar all’angolo, dove si sedette a un tavolo esterno, ordinò una birra, prese un giornale, sputò per terra e iniziò l’attesa. Ci sarebbero volute alcune ore, non c’era molto da fare se non attendere. Più tardi avrebbe mangiato qualcosa di leggero e poi, quando l’autobus fosse stato riempito, sarebbe ripartito. Destinazione aeroporto di Chiang Mai, scarico dei passeggeri, breve dormita sui sedili posteriori e ritorno. Erano due settimane che andava avanti così. Si sentiva i capelli incollati al capo e gli occhi pieni di sabbia. L’alito sapeva di carogne morte da tempo e la pelle puzzava di rancido. Faceva decisamente schifo. I suoi clienti cercavano ragazze fertili e carine, età tra i tredici e i quattordici anni e garantivano che non sarebbe stato fatto loro alcun male. Non c’era dietro niente di illegale: niente bordelli per maiali occidentali o traffico di organi. La Ancient Turism Inc. era una multinazionale che operava nel settore del turismo. Stava selezionando ragazze per un parco turistico di nuova concezione. Offrivano credenziali solide, argomenti convincenti e, soprattutto, pagavano subito e in dollari americani. Il trattamento che veniva riservato alle ragazze, una volta acquistate, non poteva però dirsi principesco. Venivano strattonate e gettate nell’autobus che veniva riempito molto oltre il limite consentito dalla legge. Spesso volavano schiaffi, calci e, a volte, anche qualche pugno, ma quelli non erano affari suoi. Yae Xiao Yan non aveva nessuna intenzione di fare domande, non quando riceveva tutti i giorni il compenso pattuito, qualche bottiglia di buon whiskey americano, stecche di Marlboro e sigari cubani. In fondo le ragazze con lui viaggiavano poco. Qualche ora e sarebbero salite su di un aereo dove il trattamento sarebbe stato diverso. E in ogni caso non erano affari suoi.

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Si accese un’altra sigaretta, sputò nuovamente centrando la sputacchiera sotto il tavolo traballante e rispose soprappensiero al sorriso di una ragazzina che lo salutava dalla finestra della casa di fronte. Era una puttana ma sembrava carina, almeno a quella distanza. Quando l’idea arrivò Yae Xiao Yan scosse la testa per la sorpresa. Alzandosi lasciò i soldi sul tavolo e attraversò la strada diretto verso il bordello di fronte. Perché non ci aveva pensato prima? La maitresse era orrenda, acida come il vomito e puzzava di sudore più di lui. La ragazzina costava. Yae contrattò velocemente sul prezzo, la donna puzzava davvero troppo, poi salì le scale, entrò nella stanza “Esplosione al tramonto” e vi trascorse un paio d’ore. Quando si rese conto che, in un arco di tempo ragionevole non ci sarebbero state altre esplosioni, diede una mancia alla ragazza e le disse di farsi una doccia e di vestirsi con abiti normali. Quindi scese e iniziò una nuova contrattazione con la maitresse. Si sentiva giovane! Dopo mezz’ora lei era tutta sudata e aveva perso diciassette ragazze e Yae Xiao Yan non aveva mai raccontato tante balle in vita sua. Era arrivato a inventarsi un cugino in polizia e uno zio sottosegretario del ministro alla sanità! Quando lasciò il bordello aveva un passo arzillo, le ragazze sarebbero arrivate dopo poco e voleva controllare bene la merce, più tardi avrebbe dovuto trattare per rivenderle ai suoi padroni, era un buon affare. La donna decise di andare a casa. Si era improvvisamente accorta di aver bisogno di una doccia e, dal momento che aveva guadagnato un sacco di soldi, forse poteva permettersi di non farla da sola. Quando il viaggio terminò le ragazze che scesero dall’autobus erano praticamente in fin di vita. Avevano viaggiato ininterrottamente per tre giorni e tre notti. Aerei, autobus, un treno merci in cui erano state stipate come animali diretti al macello in un vagone chiuso, poi ancora aerei, uno strano treno sotterraneo e poi un ultimo, infinito, autobus su strade di montagna. La “campagna” stava andando bene. Quel giorno ne erano arrivate più di mille solo a Sparta e con quel carico si chiudevano le consegne. Ad Atene e Tebe sarebbero continuate, non era stata ancora raggiunta la quota.

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Hermos, all’anagrafe Michael Lloyd, le squadrò con occhio critico: erano bambine o poco più, molto spaventate e terribilmente sporche. Avevano superato un viaggio indescrivibile, era una fortuna che fossero ancora vive. Per alcuni giorni sarebbero state inutilizzabili, solo pulizia, riposo e cibo. Poi avrebbero potuto iniziare a lavorare. Le maestre le stavano selezionando con la consueta e spietata efficienza. Le ragazze venivano divise, spogliate, studiate e raggruppate in gruppi di cinquanta. Quindi venivano rasate e depilate totalmente: si sarebbero salvate solo le sopracciglia. I dottori che seguivano tutta la procedura gli avevano spiegato che si trattava di norme igieniche, pulci e pidocchi non erano infrequenti in ragazze che provenivano da famiglie povere o bordelli asiatici. Per il resto le ragazze erano sane come pesci. Nel corso del viaggio erano state sottoposte a una serie di controlli rigorosissimi e quelle “non idonee” erano state scartate. Hermos era rimasto esterrefatto quando aveva immaginato il numero delle ragazze “difettose” e non aveva approfondito il trattamento cui erano state sottoposte. Aveva da tempo capito che l’Ancient Turism Inc. aveva la meticolosità e la stessa cruda efficienza della Gestapo. «Ne perdiamo molte per strada» aveva detto un medico un giorno mentre mangiavano un panino seduti all’ombra di una grande pianta di fico bevendo birra ghiacciata. «Avevamo calcolato una percentuale di scarto del venticinque percento massimo, ora siamo quasi al trentasette. I reclutatori hanno dovuto intensificare la raccolta e soprattutto perfezionarla, i bordelli non si sono rivelati un buon punto di partenza.» Hermos aveva avuto un senso di vertigine in quanto conosceva a spanne i numeri del Progetto. Quelle ragazze avevano un ruolo preciso, come tutti del resto: allevare i futuri guerrieri, divertire gli ufficiali e dare al mondo le nuove generazioni di schiavi. La Ancient Turism Inc. dimostrava una professionalità disumana. Il governo della città, gli schiavi, i Perieci e le schiave erano ormai presenti nelle città ed era passato solo un mese da quando avevano fatto “pulizia” e riempito il Lago della Morte. Ora mancavano solo i guerrieri, gli spartani, gli Iranes… i morituri e le ragazze. A Sparta sarebbero arrivati quindicimila bambini bianchi maschi e qualche migliaio di femmine. Per tutti era sempre la stessa storia: provenienza

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sconosciuta, dettagli operativi ignoti. Ad Atene ne erano previsti dai trenta ai quarantamila, a Tebe altrettanti. Le ragazze orientali li avrebbero allevati fino ai sette anni, dopo sarebbero stati trasferiti negli Alloggiamenti per essere educati sotto la dura e spietata legge di Sparta. Erano numeri da capogiro! Quindicimila persone erano finite in fondo a un lago un mese prima, centomila ragazze stavano scomparendo da Tailandia, Vietnam, Indocina, Corea e Dio solo sa da quale altro luogo e più di centomila bambini bianchi occidentali, accuratamente selezionati stavano per sparire dal mondo. Quel giorno, seduto sotto il fico, il novello comandante spartano aveva fatto quattro conti e smesso di masticare il suo panino. Gli era venuto in mente un certo Alonso, un ubriacone forte come un toro che l’ultimo giorno lo aveva salutato prima di salire sull’autobus. Rideva. Gli aveva persino battuto una pacca sulla spalla. «Adios amigo!» aveva urlato. Era davvero troppo. Il comandante Hermos si era alzato ed era andato via. La ragazzina guardò la piastrina di metallo che le avevano messo al collo, vi era incisa una serie di numeri, 75423. Viaggiavano da due giorni in condizioni schifose: quel vecchio porco che era andato a letto con lei e poi l’aveva comprata non aveva detto niente di tutto questo. In tutto quel tempo avevano mangiato pochissimo, bevuto ancora meno ed erano state visitate, toccate, controllate continuamente. Le avevano prelevato il sangue, fatto radiografie e altri esami che non conosceva. Niente di doloroso ma tutto l’insieme era quasi assurdo. Le ragazze si guardarono l’un l’altra quando il portellone del vagone del treno merci si aprì e alcuni uomini iniziarono a chiamare dei numeri. Uno disse la sua sequenza, lei si alzò con un sospiro e scese dal treno. Era notte ed erano in aperta campagna. La fecero salire su di un autobus, le porte si chiusero. Due uomini finirono di spuntare i tabulati che avevano tra le mani. «Con questo carico il treno è pulito» disse il primo. «Potete proseguire.» «Bene» rispose l’altro sorridendo e mostrando denti marci e un viso butterato alla luce gialla dei fari di una jeep. «Un sacco di parti di ricambio in questo carico, il capo sarà soddisfatto.»

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Il primo annuì. «Sì, ha il suo ritorno, ma ha anche dei costi enormi nel recupero dei ricambi.» «Anestesia?» «No, non serve, tanto muoiono comunque, urlano solo un po’. E’ tutto il lavoro di smontaggio, trasporto e smaltimento finale che costa. Non hai idea di quanto stiamo spendendo!» L’uomo butterato impallidì, salutò velocemente con la mano e corse alla sua jeep. Aprì la portiera del passeggero ma non riuscì a salire prima di iniziare a vomitare. In quello stesso istante Yae Xiao Yan era inginocchiato nudo sotto una palma, la faccia premuta sulla corteccia rugosa. Aveva esagerato, lo sapeva, ma non poteva immaginare che le ragazze che aveva venduto fossero state scartate praticamente tutte per malattie veneree o altro. Non poteva essere colpa sua. Aveva cercato di spiegarsi, aveva anche promesso di rendere il denaro, tranne ovviamente quello che aveva già speso. Avevano ascoltato tutto con calma, poi lo avevano picchiato a sangue e portato lì. Yae Xiao Yan non sapeva dov’era, sentiva solo il rumore del mare alle sue spalle. Aveva male dappertutto e fortunatamente aveva smesso di sanguinare. In qualche momento aveva temuto di morire dissanguato. Cercò di sollevare la testa per parlare, voleva spiegarsi. Qualcosa di freddo gli toccò la nuca. Yae Xiao Yan s’irrigidì per il terrore e cercò di urlare. Lo sparo fu l’ultima cosa che udì. Hermos continuava a osservare le ragazze e il lavoro delle maestre. Tra tre o quattro giorni sarebbe stato costretto a visitarne da due a tre al giorno, come tutti i suoi uomini d’altronde. Uno dei compiti degli ufficiali era procreare, e nessuno poteva esimersi, anche se non sempre si rivelava troppo piacevole. Una maestra rasò con malagrazia una povera sfortunata che non riusciva a smettere di piangere per il terrore e la stanchezza. Alzò lo sguardo in quello di Hermos e sorrise strizzandogli un occhio. Lui ricambiò. Lei abbassò nuovamente lo sguardo sulla ragazza, allontanò le forbici e le mollò un pugno in faccia mandandola a gambe levate, quindi

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fece un cenno a una collega che se ne stava leggermente in disparte e consultava degli elenchi. La donna fece un segno vicino al numero che corrispondeva a quello stampato sulla piastrina di metallo al collo della poveretta, poi si schiarì la voce. «Non muovetevi e non fate nulla per interrompere il lavoro delle maestre, cagne!» urlò. «E’ un ordine. Chiunque intralci il nostro lavoro sarà punita. Se invece collaborate non vi sarà fatto alcun male e inizierete la vostra nuova vita con serenità.» Aveva la voce forte e parlava un tailandese fluente, ma avrebbe potuto esprimersi con la stessa proprietà in un’altra decina di lingue e dialetti dell’estremo oriente. Era alta e carina, con i tratti tipici delle donne eurasiatiche, lunghi capelli neri, lisci e lucenti e occhi profondi. Hermos ci era andato a letto un paio di volte e ne era rimasto affascinato, anche se la donna aveva mostrato di avere tendenze ninfomani così spinte che lo avevano fatto desistere dal cercare di ripetere l’esperienza. Aveva un orgoglio maschile da difendere dopo tutto. «Lavorerete al più grande progetto della storia» continuò la donna. «Avrete tre compiti precisi: crescere, procreare e crescere nuovamente. Questo è il vero e unico motivo dell’esistenza delle donne. Ricordate cagne: crescere, procreare e crescere!» Hermos non capiva il tailandese ma conosceva il testo. Sorrise e fece per allontanarsi quando Miyo alzò la testa e puntò gli occhi nei suoi. «Vacci piano con le schiave oggi, comandante» disse in un greco perfetto senza alcuna inflessione. «Stasera voglio stare con te. Non deludermi come l’ultima volta.» La maestra che aveva tirato il pugno alla ragazza alzò un sopracciglio. Miyo le sorrise. «Vieni anche tu… tanto non ce la fa ed io mi stufo in fretta.» Le due donne risero in modo sguaiato, Hermos alzò le spalle rassegnato. Miyo era la preferita della regina e la regina era la preferita del re. Non era saggio discutere con lei. Fece un inchino formale. «Sarò a tua completa disposizione, mia signora, e vedrai che non ti pentirai della scelta.» «Vorrei ben vedere!» fu la risposta tra i denti che Miyo gli rifilò mentre già riportava la sua attenzione sulle ragazze nude davanti a lei. «Avete capito

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bene, razza di stupide vacche? Crescere, procreare e crescere! E non rompeteci le balle. La prossima che ci prova la uccido qui, davanti a tutte. Muovete il culo, forza!»

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PARTE SECONDA

Crescere, procreare e crescere!

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Il pacco è quasi pronto

Seymour Osborne si alzò dal tavolo avviandosi verso la villa con la sua solita andatura lenta e pesante. Era sovrappeso ma la cosa non rivestiva per lui alcuna importanza. Poteva muoversi in qualsiasi modo e le sue amanti non osavano certo lamentarsi. L’uomo alto, in completo scuro, cravatta grigia e camicia bianca attendeva in piedi nello studio al piano terra. Attraverso la grande vetrata che dava sul giardino osservava con cura gli invitati che bevevano, ballavano o conversavano. Era immobile, le mani in tasca, appariva completamente rilassato ma poteva scattare e uccidere con la velocità di un serpente. Scott Fulton era un ex marine con un sacco di benemerenze e altrettante condanne di corte marziale. Nel corso della sua carriera militare aveva alternato le une alle altre con assoluta imparzialità. Esperto di arti marziali era uno di quegli uomini dei reparti speciali che tanto piacciono ai registi dei film e alle masse. Un viso qualunque, nessun segno di riconoscimento, era un uomo che non prendeva mai posizione, che passava sempre inosservato. Il modello del perfetto agente speciale, quello con licenza di uccidere. Quando aveva lasciato l’esercito, era entrato in una delle aziende del Grande Vecchio come responsabile della sicurezza. Era stato osservato e messo alla prova, poi Osborne in persona gli aveva affidato alcuni incarichi di fiducia. Fulton aveva lavorato in modo impeccabile, eccedendo solo in un paio di occasioni in quelle che potevano essere considerate delle particolari “manifestazioni di interesse verso la vittima”. Osborne aveva fatto in modo che la cosa fosse immediatamente insabbiata. Da quel momento Fulton era diventato uno dei suoi uomini di massima fiducia e non era solo il senso di gratitudine a motivarlo ma anche alcuni filmati nelle casseforti del vecchio. «Buona sera Scott» disse Seymour entrando. «Buona sera Mr. Osborne» rispose Fulton voltandosi e portandosi la mano destra sul cuore. Era il suo strano modo di salutare le persone con le quali era in confidenza. Fulton non dava mai la mano, non toccava mai nessuno e pretendeva di essere ricambiato in quell’atteggiamento. «Novità?»

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«Il pacco dovrebbe essere pronto tra pochi giorni. Vanno spesso all’ospedale e l’uomo rimane sovente a casa dal lavoro o torna all’improvviso. Penso sia teso come ogni buon futuro genitore.» «Indubbiamente. Ricorda le istruzioni?» Fulton sollevò un sopraciglio con aria interrogativa e non rispose. Seymour sorrise. «Le serve qualcosa?» «No.» «Allora ci rivedremo quando il pacco sarà stato consegnato. Mi garantisce che non ci saranno problemi?» Questa volta Fulton non riuscì a nascondere un gesto irritato della mano. «Abbiamo pensato a tutto. La sua nutrice ha già il latte e persino lo stesso gruppo sanguigno della madre.» «Bene, perfetto. Mi raccomando Scott, non voglio errori!» La voce del vecchio assunse un tono di ghiaccio.«Quel bambino deve diventare quel che io voglio che diventi. Mi ha capito?» Fulton strinse le mascelle. «L’ho mai delusa, signore?» «No, ma avevo piacere di puntualizzare questo aspetto prima che iniziasse questa particolare fase del lavoro.» «Certamente.» «Allora può andare, l’elicottero la sta aspettando.» «La ringrazio signore, buona serata.» La festa nella grande villa era quasi al culmine quando Seymour tornò al tavolo con il suo passo lento e pesante. Lungo il tragitto aveva dispensato sorrisi e pacche sulle spalle agli uomini e complimenti alle signore. La bionda Dorothy, inguainata in un abito di Valentino cucito su di lei per l’occasione dal miglior sarto di Los Angeles, affiancò il padre e lo prese sottobraccio continuano ad ancheggiare felice al suo fianco. L’abito di seta le lasciava scoperta la schiena e una buona porzione di seno e scivolava sopra i suoi quarantatre anni come una seconda pelle. Alta poco più di un metro e ottanta, con un fisico da atleta che curava fino al parossismo con lunghe sedute di piscina, massaggi e terapie costosissime, bionda con grandi occhi nocciola, non passava mai inosservata. Ma la cosa che più attirava gli uomini era il suo portamento, degno di una regina, che sapeva

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associare a battiti delle lunghe ciglia assolutamente sbarazzini e ai sorrisi viziati di una donna cresciuta tra immensi agi e ricchezze. Nessuno tra gli eletti era a conoscenza del suo matrimonio. Anche Ross si avvicinò. Ross Osborne era il fratello minore di Dorothy. Di poco più basso della sorella, aveva i capelli lunghi e il fisico tarchiato e muscoloso. Aveva preso dal padre la costituzione robusta, dal nonno il viso e dalla madre eurasiatica il taglio degli occhi leggermente a mandorla. Da anni ormai era l’ombra operativa del padre ma non prendeva mai alcuna iniziativa personale. Aveva imparato a sue spese che essere l’erede del Grande Vecchio aveva pro e contro. Uno dei contro era la sorella ma non lo avrebbe mai confessato, l’altro le attenzioni “spartane” del padre. I segni della frusta sulla sua schiena avevano fatto la fortuna dei chirurghi plastici di mezzo mondo. Si affiancò ai due rimanendo leggermente defilato: quando Dorothy era presente, il suo posto era in terza fila. I due condividevano segreti che gli erano preclusi ma Ross aveva la pazienza di un elefante e prima o poi ne sarebbe venuto a capo. «Hai bisogno di me per qualcosa?» chiese mielosa Dorothy sorridendo ad un amico che le faceva cenni da bordo piscina. «Prima che vada a parlare in privato con John intendo, ne avrò per un po’.» Seymour rise piano. «No, niente. Divertiti e lascia che io dica due parole alla moglie di John… in privato.» Dorothy rise, abbracciò il padre e si allontanò. Ross prese la direzione opposta senza una parola. Il Grande Vecchio fece un cenno a un cameriere, prese un bicchiere di brandy dal vassoio che gli veniva sporto e disse alcune parole infilando nella tasca della giacca dell’uomo un biglietto da cento dollari. L’uomo annuì e svanì tra la folla. Seymour si lasciò cadere sulla sedia con un sospiro, adesso poteva rilassarsi. Poi sarebbe salito in camera e si sarebbe divertito, la moglie di John era … vulcanica! Bevve un sorso di brandy che gli andò tutto di traverso quando voltò la testa. Una donna stupenda era seduta al posto di Dorothy e lo osservava attentamente con due occhi grandi e profondi dietro ciglia lunghissime e perfette. Era bellissima e al vecchio imprenditore mancò il respiro. «Buonasera» disse la donna con una voce calda e sensuale.

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“Santo Cielo”, pensò Seymour “sto sudando come un ragazzino!”. La donna continuò a sorridere e inclinò la testa lievemente di lato. Le lampade appese ai gazebo creavano ricami di luce sui suoi capelli e strani riflessi sulla pelle dorata e lucida, un colore che si confondeva in modo strabiliante con i toni del vestito rendendo impossibile distinguere, se non con sguardi decisamente poco discreti, dove finiva l’uno e cominciava l’altra. «Non si preoccupi Mr. Osborne» disse la donna piano prendendo a sua volta un bicchiere da un cameriere di passaggio. «Sono in tanti ad avere questo problema con me.» Sorseggiò piano la bevanda. «Vede, indosso quest’abito ogni volta che desidero fare colpo su qualcuno.» Altro sorso, altro sguardo in tralice degli splendidi occhi grigi. «È un piacere fare la sua conoscenza, sempre che lei ritrovi la parola prima di domani s’intende.» «Buonasera» rispose Seymour sempre più impacciato, «con chi ho il piacere di …?» «Mi chiami pure Cheryl, Mr. Osborne, è un bel nome e a me piace.» «Grazie Miss Cheryl, ma potrei conoscere anche il suo cognome? Sono un appassionato collezionista di cognomi di belle donne e non posso fare a meno di cercare di estorcerli a tutte quelle che incontro. Lei è in cima alla lista in questo momento.» La donna rise piano, bevve un altro sorso e annusò l’aria con fare sbarazzino. «Tabacco di qualità superiore, complimenti. Raramente ho percepito aromi più fini e intensi allo stesso tempo.» Seymour si guardò le mani. Non si ricordava si aver acceso il sigaro. «Mi avevano detto che lei si concede solo il meglio, ma una donna ha bisogno di verificare di persona. Sono i dettagli che svelano e valorizzano una persona.» Seymour impiegò qualche attimo per capire che la donna aveva elegantemente eluso la domanda e stava per ribattere che quando chiedeva una cosa, la gente in genere rispondeva a tono e in fretta, quando lei riprese con assoluta noncuranza. «Ho sentito parlare di un progetto ehm… interessante. Me ne ha parlato un amico circa un mese fa e me ne sono subito innamorata. Anch’io sono un’appassionata di storia antica, greca per la precisione. Posso dire che la

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mia passione rasenta quasi la malattia per darle un’idea precisa. Non riesco mai a starne lontana a lungo.» La festa continuava, la musica creava un sottofondo fantastico accompagnato dalle luci e dai riflessi di centinaia di lampade i cui bagliori si riflettevano sugli abiti e sui gioielli delle signore che parlavano o danzavano a ritmi lenti e languidi sui bordi della grande piscina orgoglio della padrona di casa. I camerieri si muovevano tra le persone con vassoi stracolmi di bicchieri con liquori o champagne d’annata, una lieve brezza smuoveva i tendaggi e le foglie delle piante, le stelle rilucevano in un cielo privo di nuvole con un’intensità diversa. Era una serata magica, ma il Grande Vecchio non riusciva a staccare gli occhi dalla persona al suo fianco, le gambe accavallate, le mani posate sulle ginocchia, il lungo vestito da sera con uno spacco che le consentiva di mostrare tutto quanto desiderava. Stava veramente sudando. «Una donna giovane e bella come lei che si appassiona alla storia della Grecia antica!» disse piano socchiudendo gli occhi, ascoltando attentamente la sua voce per ritrovare la concentrazione, un vecchio trucco del mestiere. Quello era il suo territorio, il suo Progetto, il suo sogno, qualcosa dentro di lui era scattato a proteggere una sfera privata oltre ogni limite. La donna si addentrava in un terreno molto pericoloso e il suo ego reagì a quell’intromissione escludendo il resto del mondo per iniziare un gioco che poteva essere mortale. «Oh…» Cheryl fece un gesto disinvolto con la mano destra e la luce brillò sugli anelli e i braccialetti che la adornavano e che Seymour non aveva visto sino a quel momento. “Belle imitazioni” pensò, “fossero originali varrebbero una fortuna, direi che nei musei ne ho visti di peggiori.” «E’ una passione di famiglia, da sempre. Ha iniziato mio padre, tanto tempo fa e, ovviamente, mia madre non ha potuto fare a meno di assecondarlo. Sa come sono i padri: fantastici se li assecondi, terribilmente noiosi se provi a contraddirli.» «Beh, sì, in effetti, anche il mio non è mai stato diverso.» Porca miseria, lo aveva distratto ancora! «E poi si sono uniti anche tutti i miei fratelli e sorelle, noi siamo una famiglia numerosa e molto unita. Per questo quando ho sentito parlare del

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suo Progetto» la donna enfatizzò la parola, «sono stata immediatamente attratta dall’idea. Mi aggiornerebbe sugli sviluppi? Saprei esserle molto grata.» Lasciò l’ultima frase in sospeso e le parole rimasero nell’aria come un aroma dolce e persistente. Un attimo dopo era in piedi e Seymour sentì le gambe che tremavano. Era stupenda e aveva una grazia felina. Cheryl si chinò piano e si avvicinò al suo orecchio mentre il vecchio le cadeva letteralmente nella scollatura, il sudore sulla fronte e lungo la schiena. «Mi tenga aggiornata Mr. Osborne, la prego» miagolò, «lo faccia e non se ne pentirà.» Il vecchio deglutì vistosamente. «A proposito, quasi dimenticavo: i miei gioielli sono originali. Non potrei mai indossare delle imitazioni, non quanto lei potrebbe comprare i cubani di contrabbando.» La donna si allontanò flessuosa, Osborne cercò di seguirla con lo sguardo ma lei passò attraverso un gruppo di persone che parlavano e sembrò svanire nel nulla. Il Grande Vecchio appoggiò il mento sulla mano aperta e rimase immobile a guardare nel vuoto. Non ricordava gli fosse mai accaduta prima una cosa simile. Non aveva mai perso il controllo con una donna, per quanto bella fosse. La cosa era preoccupante. Lentamente riprese il controllo delle sue sensazioni e dei suoi pensieri, fu una cosa lenta e difficile ma la caparbietà del Grande Vecchio era una delle sue caratteristiche migliori. La seconda era l’assoluta sincerità con se stesso. Il giovane Seymour Osborne aveva capito molto presto che nella vita poche cose erano più stupide che ingannare se stessi e si era giurato di non farlo mai. Quella sera si era comportato da stupido, su questo non aveva dubbi. Ora doveva analizzare le cause del suo comportamento e attivare i correttivi che, lo sentiva, alla fine sarebbero serviti perché la donna sarebbe tornata. Poche balle! Aveva fatto la figura dello stronzo e Seymour Osborne non la faceva mai due volte. Sorridendo tra sé chiamò con un cenno il cameriere che attendeva discreto a poca distanza. «Come ti chiami figliolo?» «Alger, signore» fu la stupita risposta. «Bene Alger, stasera lavorerai per me.» Gli mise in mano un biglietto da cinquecento dollari. «Voglio una bottiglia di buon Bourbon e un cestello con tanto ghiaccio nello studio est. Voglio anche i miei sigari. Non so dove

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li tenga mia figlia, ma vedi di trovarli. Se non sai dove frugare chiediglielo. Se hai paura di disturbarla mentre se ne sta aggrovigliata a qualcuno fottitene. Tutto chiaro?» «Sì, signore, ho capito perfettamente signore.» Alger sapeva perfettamente dove trovare i sigari. All’occorrenza avrebbe anche potuto trovare Miss Dorothy ma era meglio evitare se possibile. «Perfetto Alger, sei un ragazzo sveglio. Torna qui e avvisami quando è tutto pronto poi vai su dalla signora che mi sta aspettando e porgile le mie scuse per questa notte. Dille che mi riterrò personalmente offeso se non potrai porre rimedio tu alle mie mancanze e che domani provvederò a soddisfare la sua richiesta di un mese fa.» Il cameriere non mosse nemmeno un muscolo del viso. «E’ tutto, signore?» «Sì.» Alger si dileguò tra la gente. La proprietà di Miss Dorothy Osborne sulle colline sopra Malibù terminava dove la collina scendeva a picco sulla spiaggia, quasi duecento metri più in basso. In quel punto la recinzione non era necessaria e il prato inglese perfettamente curato pareva scomparire nel buio totale. Immobile e sola, invisibile a tutti tranne che a se stessa, la donna che si faceva chiamare Cheryl osservava le luci lontane di Malibù Beach e si sentiva preda di sentimenti contrastanti. Aveva gli occhi lucidi, era una sensazione che non provava da moltissimo tempo. Dal tempo di Alessandro, pensò con l’angoscia nel cuore. “Ti saluto, vecchio amico, che tu possa finalmente aver trovato la pace per il tuo animo tormentato, sei stato una persona speciale e sai che occupi sempre un posto nel mio cuore.” Ma Seymour non era Alessandro, Seymour era un abominio. Cheryl non si era ancora recata nel luogo chiamato Sparta, ma sapeva esattamente ciò che vi era accaduto. Aveva iniziato a percepire la rinascita di un’epoca nel momento in cui era iniziata la cerimonia per “Entrare nel passato”, come l’avevano definita quei maiali. Di per sé la cosa le faceva piacere, un dio vale in base al numero dei suoi fedeli. Tanti fedeli enorme potere, nessun fedele… anonimato. Lei però sapeva di aver fatto il suo

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tempo e viveva la sua eternità in modo sereno, distaccato. Un’esistenza tranquilla, con alti e bassi, momenti allegri e momenti tristi, anni di cose buone e infiniti anni di tristezza. Ora aveva perso quel sereno anonimato per tornare a essere ciò per cui era nata. Il vestito seducente svanì. Scollatura, spacco, tacchi a spillo e seta si sciolsero nella notte per essere sostituiti da sandali bassi con allacciatura al ginocchio, copri stinchi e gonnellino di cuoio rinforzato in bronzo, corpetto di cuoio e pettorale di bronzo, para polsi, avambracci ed elmo crestato con un bianco crine di cavallo. Una corta e affilatissima spada di bronzo al fianco sinistro, una faretra piena di frecce a quello destro e un grande arco di frassino rinforzato d’osso a tracolla. Atena era tornata. L’antica Dea della Guerra ribolliva d’ira a stento trattenuta. L’aria intorno a lei iniziò a muoversi come se giganteschi campi magnetici la percorressero in ogni direzione, come se il sole d’estate con il suo calore rendesse liquida anche l’aria, come se centinaia di spiriti urlassero il loro desiderio di tornare dal Regno dei Morti. Aveva percepito la grande fossa comune, sentito brillare le mine e franare il terreno a coprire le migliaia di corpi che avevano lavorato per anni a costruire il sogno di un pazzo, condannando i loro figli ignari a un’esistenza di schiavitù e di morte. Conosceva il modo in cui gli Spartani trattavano gli schiavi, aveva vissuto in mezzo a loro quando era stata giovane e impavida, temeraria e sfrontata, tanto da spronarli a combattere, tanto da giacere con quelli di loro che erano i più valorosi in battaglia. Leonida, che amante era stato! Un re e un uomo fuori dal comune ma anche una persona con un orgoglio smisurato, un individuo cieco e sordo a tutto ciò che non fosse Sparta. Un uomo con un destino unico, l’immortalità nella morte. Sapeva come gli spartani trattavano gli schiavi… e non voleva rivederlo. Non sopravvivono mai i sentimenti buoni, disse a se stessa, sopravvivono solo le grandi gesta che sono sempre e gesta di morte. “Strani pensieri per la Dea della Guerra”, pensò divertita, ma gli anni che aveva vissuto dopo il crollo dell’impero romano le avevano insegnato che non esiste solo la battaglia, la lotta, l’ira irrefrenabile che tutto travolge. La vita è fatta soprattutto di emozioni sfumate, noiose, di abitudini. Senza le

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abitudini non esisterebbe l’umanità perché nessun essere sano di mente metterebbe mai al mondo dei figli solo per prendersene cura e soffrire con loro e per loro. Atena aveva impiegato millenni a rendersene conto ma ora finalmente aveva capito. Forse era per questo che era vissuta così a lungo. Pochi Antichi Dei erano sopravvissuti alle ere, al crollo degli imperi, alla morte dei loro adoratori. Quasi tutti erano andati via. Si toccò la fronte, gli occhi e il cuore. Un saluto silenzioso ad Achille, un uomo che aveva amato e che avrebbe ritrovato nella sala degli eroi. Forse l’unico vero grande amore della sua vita, forse l’unico per il quale avrebbe rinunciato alla sua immortalità. Lui non le aveva mai chiesto niente e lei aveva capito troppo tardi quanto lui la amasse. Tutte le sere aveva un momento solo per lui, un pensiero, un saluto. Chiuse gli occhi, respirò e li riaprì di scatto. Seymour Osborne doveva essere fermato! E lei poteva farlo e aveva tempo, tutto il tempo del mondo. Sorrise e, senza pensare, iniziò a scendere il fianco ripido della collina. Doveva andare via da quel posto. Il mantello bianco che si muoveva lento alle sue spalle divenne rosso. La Dea iniziò a correre e a ridere nella notte. Era tornata!

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… e viene prelevato Quella mattina a Los Angeles Devin Shaun parcheggiò malamente la grande Bentley nera nel parcheggio dell’ospedale, aprì la portiera e corse verso l’ingresso. Dopo tre passi non sapeva più dove aveva parcheggiato l’auto, se l’aveva chiusa e cosa vi aveva lasciato dentro. Il Dott. Shaun era uno di quegli uomini che vivono sempre all’attacco e stava per diventare papà, due combinazioni micidiali. Charline stava per avere un bimbo e lo rimproverava continuamente per le sue sbadataggini, ma poi smetteva. E facevano la pace. A volte in questo modo nascono i bambini. In effetti, Charline Kourtney non amava suo marito, lo adorava. Era affetta da una dozzina di patologie incurabili se non lo sentiva ogni due ore, aveva crisi di nervi se stavano lontani per più di due giorni e aveva le convulsioni se non lo baciava… bene… almeno una volta ogni otto ore. Vivendo insieme aveva ovviamente trasmesso anche a lui i suoi malanni. Nel grande gioco del Monopoli della vita le persone si conoscono, si frequentano, si fidanzano e si sposano. Se sono fortunate continuano, altrimenti ripartono dal Via. Charline e Devin potevano solo continuare. Ripensando a quando si erano conosciuti Charline sorrideva ancora. Lei voleva fare la giornalista, lui studiava legge, e giocava a football. Era famoso e bravissimo ma non riteneva importante né l’una né l’altra cosa perché voleva fare l’avvocato. Quando si erano scontrati in quel corridoio affollatissimo, lei era finita a terra, lui aveva perso forse due libri. Si erano guardati. «Oh…ciao» aveva detto Devin sgranando gli occhi. «Ciao!» «Tutto bene? Non ti sei fatta male, vero?» si era accovacciato sui talloni. «No, mai stata meglio.» «Ok. Tu vieni alla festa questa sera.» Non era stata una domanda. «Certo. A che ora passi a prendermi?» Devin aveva fatto una smorfia come per cercare di mettere a fuoco le idee, aveva pensato un attimo e poi aveva risposto con un gran sorriso. «Alle otto?» «Otto e trenta, devo prepararmi e ho appena preso una gran botta.»

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Si erano rialzati e lei aveva ripreso la sua strada. Devin era rimasto un attimo interdetto. «Scusa!» «Sì?» «Dove ti passo a prendere?» «Ah già. Vicino alla statua di Lincoln? Dovresti sapere dov’è.» «Sì, lo so.» «Ok. A dopo allora.» La giovane Charline aveva vissuto il resto della giornata in modo assolutamente normale. Alle sei di sera aveva iniziato a prepararsi ridendo e scherzando con le sue compagne di stanza. Si era fatta la doccia, aveva riso, dato e ricevuto consigli, si era infilata in un paio di jeans di due taglie più piccoli, indossato una t-shirt con solo una taglia in meno, soprattutto sul seno e calzato un paio di scarpe da tennis nemmeno tanto nuove. Un filo di trucco agli occhi, un velo di rossetto, una nuvola di profumo sconosciuto raccattato tra il disordine più totale ed era uscita. Le amiche l’avevano richiamata sbigottite. «Charline, dove vai?» «Alla festa. Perché?» «Vestita in quel modo?» le ragazze erano disorientate. Charline le aveva guardate scrollando le spalle. «Perché? Non sto bene?» In effetti era semplicemente fantastica. Devin aspettava in piedi accanto alla statua di Abramo Lincoln e osservava gli alti faggi dell’immenso parco del college. Gli piacevano le piante, soprattutto i faggi, gli trasmettevano una sensazione di serenità. Le foglie erano forti ed elastiche, la corteccia pulita, le radici nodose ancorate nella terra e parte di essa. L’altezza e la maestosità di quegli alberi era una cosa che faceva bene al cuore. I signori del bosco. Non sapeva da dove avesse preso quella definizione ma gli piaceva. Se gli elfi esistevano, sicuramente, avevano le loro dimore sui faggi. Lei gli era arrivata silenziosamente al fianco, aveva osservato gli alberi per qualche istante. «Fantastici» aveva detto. Devin aveva sorriso. «Ciao.»

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Charline aveva distolto la sua attenzione dai faggi, infilato la piccola borsetta nel braccio destro e si era alzata in punta di piedi mettendogli le mani dietro il collo. Accipicchia quanto era alto! Un attimo dopo si stavano baciando, erano andati avanti a lungo. Poi la festa, i balli, il giardino, le panchine, altri baci. Quando si erano salutati quella sera, l’alto ragazzo di colore aveva guardato la ragazza bionda che riempiva il suo universo. «Posso chiederti una cosa?» «erto.» «Come ti chiami?» Avevano riso come due bambini, senza pensieri, senza nient’altro intorno a loro stessi. «Charline» aveva infine risposto lei asciugandosi le lacrime. «Piacere di conoscerti Charline, io sono Devin» aveva detto Devin con estrema serietà. «A che ora ci vediamo domani?» «Sempre?» «Perfetto!» «Buona notte.» «’notte.» Era la prima volta, così si erano baciati ancora una volta per vedere se avevano capito bene come si fa. E non avevano più smesso. Alla reception l’impiegata era impegnata al telefono con qualcuno di importante e non prestava alcuna attenzione al resto del mondo. Devin attese qualche attimo cercando di non apparire insistente, si guardò intorno, tamburellò sul bancone, controllò che ora era per la decima volta e poi perse la pazienza. «Ehm…signorina!» La poveretta sobbalzò sulla sedia girevole e gli rivolse un’occhiataccia. «Non vede che sono impegnata?» «Lo vedo benissimo» fu la calma risposta. «Ma lei è sul posto di lavoro. O mi dà retta o la porto di peso a tubare nel parcheggio.» «Il filo del telefono non arriva fino a lì!» «Appunto. Mi creda, mantengo sempre le promesse stupide.»

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Con un sospiro di rassegnazione la ragazza mise giù la cornetta non prima di aver rassicurato una decina di volte il suo interlocutore che lo avrebbe richiamato quanto prima. «Desidera?» «Charline Kourtney… mia moglie. Dovrebbe avere un bambino, sono corso subito ma forse è arrivato prima lui, non so, ecco… io…» La ragazza alzò gli occhi al cielo. Gli uomini erano quasi sempre insopportabili, ma quando stavano per diventare padri non avevano limiti alla stupidità. «Ginecologia, quinto piano! Gli ascensori sono in fondo al corridoio sulla sua destra» rispose secca. L’avvocato Devin Shaun impiegò qualche istante a metabolizzare il fatto che aveva avuto una risposta e qualche altro per elaborarla poi si precipitò verso gli ascensori. Nel momento stesso in cui schiacciò il pulsante dell’ascensore, cinque piani sopra di lui un bambino biondo di quattro chili scarsi lanciò il suo primo vagito sotto lo sguardo affascinato della mamma stanchissima e delle ostetriche che, per quanto abituate al fenomeno, riescono sempre a trovare gesti e parole di stupore e meraviglia per il miracolo della vita. Scott Fulton abbassò il quotidiano che stava leggendo e osservò l’avvocato Shaun attraversare di gran carriera l’atrio dell’ospedale. Sorrise e accese una sigaretta, era arrivato. Lasciò che trascorressero alcuni minuti, uscì dall’ospedale ed entrò in una cabina telefonica. «Si?» la voce era fredda e distaccata, la linea protetta. «Il pacco è appena arrivato.» «Bene, a quando il prelievo?» «Tra tre o quattro giorni, prima che lasci la fabbrica.» «Bene. Mi tenga aggiornato.» Scott chiuse la comunicazione. Quella sera le infermiere dovettero letteralmente cacciare fuori dal reparto l’avvocato Shaun che si lasciò accompagnare alla porta solo perché la moglie lo aveva pregato ridendo di andare a casa a lavare i piatti, una scusa

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valeva l’altra. Aveva tre contravvenzioni sul parabrezza ma… faceva l’avvocato! Sorrise come un bambino e attivò il tergicristallo. Era sull’highway che portava a casa, a Marina del Rey e i foglietti si persero nella notte come bianche falene. Devin Shaun era di colore, di un bel nero lucido e brillante. Aveva sposato una californiana bionda e ora aveva un figlio, bianco come il latte e biondo come la madre. Che bello! Poiché esiste un santo protettore dei padri (le madri non ne hanno bisogno), arrivò a casa sano e salvo e senza aiuto da parte della polizia, cosa alquanto strana dal momento che aveva infranto una buona metà degli articoli del codice della strada in un viaggio solo. Continuando a sorridere s’infilò sotto la doccia vestito e si divertì a spogliarsi sotto l’acqua, arrivando anche a bere un drink (che aveva prelevato a metà dell’operazione dal frigorifero in cucina attraversando tutto bagnato e gocciolante metà della casa) e s’intestardì per una decina di minuti a cercare di fumare un sigaro finché la stanchezza e gli accendini bagnati non lo fecero desistere. Si addormentò in accappatoio in salotto, sognando suo figlio che andava su un’altalena di fianco alla sua. Due giorni dopo Charline aveva appena finito di allattare Cori quando una ragazza entrò senza bussare nella sua camera. Era alta e aveva i capelli fulvi con alcune sfumature ramate che li rendevano dotati di una lucentezza propria i cui riverberi continuavano sulla pelle, abbronzata ma splendente. Vestiva in modo semplice, gonna corta e camicetta, scarpe con un filo di tacco, niente trucco, e si muoveva con la grazia di una regina. In mano aveva un piccolo mazzo di fiori e sul volto un sorriso luminoso. Charline rimase interdetta. Non aveva mai incontrato quella donna bellissima. «Posso entrare?» chiese la sconosciuta. «Certo, prego. Chi sei?» «Un’amica di Devin. Ho avuto la notizia e sono corsa per farti le mie congratulazioni. Mi chiamo Cheryl» concluse porgendole i fiori. Charline li prese e ricambiò il sorriso. Quella donna aveva il potere di metterti a tuo agio e di colpo dimenticò che indossava una veste da camera stropicciatissima, aveva i capelli arruffati e le occhiaie profonde. Cori non dormiva molto.

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«Conosci Devin da molto?» in fondo la curiosità è femmina. «No ma ho avuto modo di apprezzarlo non solo per le sue qualità sul lavoro ma anche per come parla di te. Renderebbe invidiosa qualsiasi donna» «Grazie, anche quando sono in questo stato?» «Perché, lui è messo meglio?» Le due donne scoppiarono a ridere e d’impulso Charline abbracciò Cheryl come una vecchia amica. Il ghiaccio era rotto e Charline aveva un disperato bisogno di raccontare a un’altra donna le sue cose. Iniziò a parlare con difficoltà, come se temesse di annoiare l’ospite, ma questa partecipava con cenni, assensi, piccoli e garbati commenti. Non passò molto che Charline si trovò a raccontarle la sua vita, non riusciva a fermarsi. Andarono avanti a lungo, poi Cheryl si irrigidì e strinse la mano di Charline tanto da strapparle un gridolino di dolore. «Avevo paura che mi spezzassi le dita» disse massaggiandosi la mano dolente e guardando la donna che si era alzata in piedi e sembrava ascoltare voci che soltanto lei poteva sentire. Cori nella sua culla non aveva fiatato per tutto il tempo e teneva gli occhioni azzurri puntati sulla donna con un’espressione assorta, quasi pensierosa. Charline scosse la testa a scacciare quel pensiero, un bimbo di nemmeno una settimana non può pensare. «Posso prendere Cori in braccio per un attimo?» chiese Cheryl avvicinandosi al piccolo. «E’ molto tardi e devo proprio scappare, ma vorrei tenerlo solo per un momento e dargli un bacio. E’ così bello.» La tensione che l’aveva permeata era svanita. «Non aspetti Devin? Si offenderà quando saprà che sei passata e non l’hai aspettato.» «Mi dispiace, davvero, ma mi sono fermata davvero troppo. La tua compagnia è squisita e il tempo è volato ma ho impegni che non posso rimandare oltre.» Così dicendo sollevò il neonato e lo tenne davanti al viso. Cori girò gli occhi e i due si fissarono. Il bambino sembrava davvero pensare. Charline trattenne il respiro perché era come se i due fossero collegati da qualcosa di magico, qualcosa di bello. Poi il momento passò.

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Cheryl posò Cori nella culla, abbracciò Charline e la strinse con calore, il volto era serissimo adesso. «Ricordati di essere forte. Devin avrà bisogno di una donna forte al suo fianco, tu lo sei, non dimenticarlo mai, anche quando ti sembrerà che il mondo ti stia crollando addosso. Non mollare Charline, non mollare mai! Da te dipendono due vite, quella di tuo marito e quella di tuo figlio.» «Non capisco…» sussurrò improvvisamente preoccupata Charline. «Capirai.» La donna si staccò e la osservò, in un attimo aveva riempito tutto l’universo, Charline non vedeva altro che la profondità di quegli occhi e sentiva solo le mani di lei sul volto. «Quando avrai dei dubbi ricordati di oggi, ricordati di me. Ti aiuterà.» Le diede un bacio sulla fronte e se ne andò. Devin aveva messo l’auto anche peggio del solito e stava attraversando il parcheggio quando la donna gli si parò di fronte. Era uno straccio, stropicciato, unto, disordinato, lei era stupenda, la persona più bella che avesse mai visto. «Ciao!» disse lei. «Scusa?» «Sono Cheryl» rispose lei allungando la mano destra, «un’amica di Charline. Tu sei Devin, vero? Charline ti ha descritto così bene…» fece un passo indietro arricciando il naso «anche l’odore direi. Non penso di potermi sbagliare, no davvero, ma non si sa mai. Allora: sei Devin o no?» «Certo che sono Devin!» «Bene Devin, hai proprio un bel bambino. Congratulazioni!» «Grazie, certo che è bello, grazie. Assomiglia alla mamma.» «Ovvio che assomiglia alla mamma, è bianco.» Cheryl gli diede un buffetto sulla guancia destra poi fece una smorfia e si allontanò squadrandolo dall’alto in basso. Gli occhi lampeggiarono il sole perse luminosità. «Ora devi smetterla sai? Torna immediatamente alla normalità. Non puoi portare a casa tua moglie in questo stato, puzzi come una capra!» «Beh… sì, certo.» «Bene» Cheryl riprese a sorridere ed il sole tornò a splendere. «Ricordati di essere in forma domani, tua moglie avrà bisogno di te. Ciao.»

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Fu quasi come se svanisse ma Devin non ci fece caso, Charline lo stava aspettando. Il sergente Daigh Monroe prese l’ennesimo appunto sul block notes sgualcito e abbassò la cornetta chiudendo la comunicazione. Si passò le mani tra i capelli sporchi e diede una nuova occhiata agli appunti. Aveva smesso di contarli. Aveva impiegato più di un’ora la sera prima a rimettere in fila i nomi, segnando sotto ciascuno ogni dettaglio, ogni informazione. Li aveva contati decine di volte, poi aveva smesso e aveva messo un progressivo di fianco a ciascun nome per fare prima. Il capitano lo chiamava in continuazione, voleva sempre la situazione aggiornata. Monroe non aveva nemmeno il tempo di mettersi a contarli. Avrebbe potuto dare numeri a caso, non avrebbe comunque sbagliato di molto se non per difetto, ma non era nel suo stile. Prese il bicchiere con il caffè ma era vuoto. Non aveva idea di quanti ne avesse bevuti negli ultimi giorni, di sicuro non aveva né cambiato né lavato il bicchiere di carta. Con aria stanca spinse indietro la sedia e andò a prenderne un altro. Erano due giorni che andava avanti in questo modo. Non dormiva da oltre quarantotto ore. Erano le nove di sera e non sapeva se sarebbe riuscito a tornare a casa o se avrebbe passato anche quella notte al telefono. Bevve un sorso, faceva schifo. Erano anni che beveva il caffè amaro, lo svegliava di più, ma non aveva ancora capito se a tenerlo sveglio era la caffeina o il sapore orrendo. L’occhio gli cadde sugli appunti, sull’ultimo nome. Di fianco un numero: “Centododici“. Perdiana centododici neonati scomparsi solo nel suo distretto. Non osava pensare al numero che si sarebbe trovato ad affrontare se avesse chiesto le cifre di tutta Los Angeles. Non avrebbe voluto trovarsi nei panni del capitano in quei giorni. Non era simpatico ma non era uno stupido. Recitava una parte, come tutti del resto, ma era un uomo giusto. Tre ore prima aveva provato a capire l’entità del problema. «Lascia stare Monroe» era stata la risposta stanca dall’altra parte del filo. «Lascia stare. Preoccupati di affrontare i tuoi di problemi, ognuno pensi ai suoi e che Dio ci aiuti.» Poi aveva fatto una pausa che a Monroe era sembrata lunga un secolo. «Ho detto affrontare Monroe, non risolvere. Questa cosa è più grande di noi.» E aveva riattaccato.

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Erano rimasti in pochi a quell’ora nel grande ufficio. Pochi telefoni squillavano e Monroe benedisse il silenzio. Nel loro lavoro il telefono che squilla non porta mai buone notizie. Nessuno ti cerca per chiederti come stai, cosa fai il prossimo weekend o se vuoi andare a cena da lui il sabato sera. Quando squilla la miseria umana vuole parlare con te. Daigh Monroe era poliziotto da oltre vent’anni. Prima alla omicidi, poi alla buoncostume, poi all’antidroga e infine alle persone scomparse. Un bel premio prima della pensione, niente da dire. In effetti avrebbe dovuto essere un posto tranquillo rispetto ai precedenti. Lo era stato per sei mesi. Due persone stavano attraversando lo stanzone, venivano verso di lui. Sulle prime non ci badò, poi notò il passo nervoso, gli occhi sconvolti, le occhiaie profonde. Il suo occhio esperto registrò l’immagine dell’uomo con un solo sguardo. Si muoveva bene e con grazia, un ex atleta leggermente appesantito che conservava l’agilità e il portamento di un campione. Lei bionda e alta. In condizioni normali doveva essere una gran donna ma adesso era un rottame che si trascinava appesa al braccio dell’uomo di colore. «Sergente Monroe?» l’uomo si fermò davanti alla sua scrivania. Aveva una voce piena e forte nonostante l’aspetto di chi non dorme da una settimana. “Sono tutti così”, pensò Monroe. “Tutti uguali.” «Sono io.» Scrisse centotredici sul foglio, non era un veggente ma non ne aveva bisogno. Avrebbe dovuto avvisare Elva di andare a dormire ma probabilmente l’aveva già capito da sola. «Sedetevi e ditemi tutto» iniziò. «Da che ospedale è scomparso vostro figlio?» «Nostro figlio è scomparso sergente» iniziò a dire la donna prima di accorgersi che lui l’aveva anticipata. «Ma come?... cosa?» «Si sieda signora, anche lei.» Indicò le due sedie dal rivestimento in pelle nera sgualcita che aveva di fronte alla scrivania. «Sedetevi e ditemi tutto. Siamo qui per aiutarvi, non temete, ci stiamo già muovendo.» “Andrai all’inferno a forza di dire balle, sergente!” gli sussurrò una vocina nell’orecchio, ma non ci badò. «I vostri nomi e quello di vostro figlio o figlia, per favore.»

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«Charline Kourtney e Devin Shaun» rispose l’uomo. «Cori Shaun è sparito questa mattina dal reparto di ginecologia e ostetricia dell’UCLA. Aveva quattro giorni!» Monroe iniziò a scrivere. “Che vita di merda”, pensò, quando un’affermazione della donna lo sbigottì. «Ha un segno particolare, forse servirà, non so. Sul palmo della mano destra ha una piccola “A” maiuscola, quasi in rilievo.» «Una “A”?» «Sì. E’apparsa dopo la visita di quella donna, Cheryl. Una donna bellissima che è venuta in ospedale. A me ha detto che era amica di Devin, a lui di essere amica mia. Insomma una perfetta sconosciuta come quelli che si imbucano ai matrimoni, ma lo abbiamo capito tardi. Però non ha fatto del male al bambino, l’ha guardato, toccato, perfino baciato. Poi se n’è andata.» La donna iniziò a piangere. «Due giorni dopo il nostro bambino è scomparso.» «Capisco signora. Senta, siete proprio in tanti ad avere lo stesso problema, ma almeno voi avete un indizio.» Prese la cornetta e compose un numero. «Monroe, sequestri. Mandami in fretta una persona per un identikit. Massima priorità.» Aprì un cassetto, prese una sigaretta e la accese. «Dicevamo?» Il TG delle venti era stato dedicato interamente alla tragedia dei neonati scomparsi. Ad una settimana dall’inizio delle sparizioni il Sindaco di New York allargò le braccia impotente di fronte ad un evento che non aveva precedenti e che si riproponeva, identico, in tutti i paesi civilizzati mentre Charline e Devin, abbracciati sul divano nella quiete della loro splendida villetta a Marina del Rey, ascoltavano come inebetiti il susseguirsi delle notizie. Erano migliaia i neonati scomparsi dai reparti di ginecologia degli ospedali degli Stati Uniti, alcuni addirittura dalle loro abitazioni. Ancora non si conosceva l’esatta portata del dramma e la notizia continuava a essere riproposta ogni giorno in ogni programma con numeri sempre più catastrofici.

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Al termine del TG il Presidente apparve sugli schermi in un messaggio alla nazione a reti unificate. «Siamo di fronte ad una tragedia senza pari nella storia del mondo» disse con voce atona. «Ad oggi, solo nel nostro paese, sono oltre ventimila i bimbi scomparsi.» Fece una pausa carica di angoscia. «Purtroppo la catastrofe non ha colpito solo gli Stati Uniti. Abbiamo preso contatto con il Canada, l’Inghilterra, la Germania, la Francia, l’Italia, l’Olanda ed i Paesi Bassi. La situazione è sempre la stessa. Perfino dal Lussemburgo e dalla Svizzera sono arrivate notizie di rapimenti. In Brasile, Colombia ed Argentina la situazione sembra, se possibile, anche peggiore.» Il segretario generale per la sicurezza fece una breve comparsa dietro la sedia del presidente e gli passò un foglio che questi visionò velocemente. «Abbiamo ricevuto ora queste comunicazioni dall’ex Unione Sovietica, dall’Australia e dal Sud Africa. La situazione è la medesima. Ad una prima stima sommaria in tutto il mondo al momento risultano svaniti nel nulla quasi centomila bambini.» Il presidente picchiò il pugno sulla scrivania. «Non possiamo accettare una cosa simile!» Era paonazzo per l’ira e faceva fatica a mantenere il controllo. «Una generazione annientata, scomparsa. Da oggi in poi ognuno di noi, ogni cittadino, uomo, donna o bambino, ogni istituzione, persino i clochard, tutti dobbiamo sentirci responsabili per quanto è accaduto e dobbiamo contribuire, con ogni mezzo a nostra disposizione, alla soluzione di questa tragedia. Non possiamo, non dobbiamo lasciare nulla d’intentato. I nostri figli devono tornare a casa e ci torneranno! Lo giuro davanti alla Nazione e al mondo. Lo giuro davanti a Dio!» Charline riprese a piangere, Devin strinse i denti e la abbracciò. «Ma che belle parole!» Seymour Osborne era sdraiato scompostamente su di un divano bianco, Scott Fulton seduto in poltrona. Entrambi sorseggiavano whiskey e fumavano un sigaro. Avevano appena terminato di ascoltare la replica del messaggio alla nazione che, la sera prima, il Presidente aveva trasmesso a reti unificate. «Belle parole… assolutamente prive di senso.»

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Fulton era impassibile come sempre, il completo scuro immacolato. Non replicò, rimase in silenzio come di consueto. «Bel lavoro, Scott!» sogghignò Osborne. «Davvero un bel lavoro. Un’operazione di queste dimensioni e non una traccia. Non hanno assolutamente niente. E tutto in soli sette giorni.» Scott continuò a non rispondere e Osborne si passò una mano tra i lunghi capelli bianchi. «Devo confessarle Scott che questo era il lato del progetto che mi preoccupava di più.» «E’ tutto merito dei fondi che mi ha messo a disposizione, signore.» Erano le prime parole che Fulton pronunciava quella sera. «Senza di essi non avrei potuto fare il lavoro in questi tempi.» Il vecchio lo studiò per qualche istante. Fulton era un predatore nato, ma questa volta aveva davvero superato se stesso. «Sì, sì, certo, ma il mio denaro e le mie conoscenze non sarebbero servite senza la sua esperienza. Bene, anche questo è fatto. Adesso possiamo rilassarci e aspettare che crescano, che ne dice?» «Assolutamente, signore» Fulton non cambiò espressione. «Rimane a pranzo?» Era una domanda retorica, Fulton non pranzava mai in compagnia. Avrebbe atteso di essere congedato e sarebbe svanito nel nulla con i milioni di dollari del compenso. Il denaro era l’unica nota negativa dell’uomo. In cambio del giusto compenso Fulton poteva fare qualsiasi cosa per chiunque. L’uomo viveva solo, amava solo il denaro e la sua solitudine. Osborne conosceva alcuni suoi segreti, sicuramente non tutti, ma ciò che sapeva bastava per catalogarlo come “estremamente pericoloso”. A Fulton piacevano molto i bambini. Che ironia! Era uno dei motivi per cui aveva affidato a lui quell’incarico. Era uno spregio. Da quando aveva capito quali fossero i suoi gusti Osborne, provava solo ripugnanza per Scott Fulton. «La ringrazio signore, ma preferirei tornare a casa» fu la calma risposta. “Casa? Quale casa, mio grandissimo figlio di puttana? Anche gli ultimi tre ragazzi che ti sono stati consegnati avevano una casa, ora non più!” «Non dubitavo. Vanessa le consegnerà subito quanto pattuito.»

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Suonò un campanello quasi invisibile sul tavolino di fianco al divano. Una ragazza bionda fece capolino dalla porta in fondo alla sala. «Vanessa, per favore consegni al signor Fulton la valigetta che ha preparato e lo accompagni all’elicottero.» «Immediatamente Mr. Osborne.» “Fantastica ragazza” pensò Osborne, “proprio un peccato.” Fulton si alzò con un movimento fluido e si pose la mano sul cuore nel consueto gesto di saluto. «Se avrà ancora bisogno di me Mr. Osborne, sa come trovarmi.» Il grande vecchio fece un lieve cenno con il capo. «Addio Scott.» Appena uscito, Fulton fu avvicinato dalla bionda Vanessa che gli porse una borsa di tela nera. L’uomo l’afferrò stando bene attento a non sfiorare in alcun modo la mano di lei. Vanessa rimase impassibile ma il suo stomaco si contorse per la nausea, quell’uomo emanava sporcizia. Osborne le aveva assegnato quell’incarico anni prima e la ragazza lo aveva sempre svolto con una precisione teutonica. Di famiglia benestante, Vanessa era stata avvicinata dal Grande Vecchio in un riservatissimo circolo di tennis dove, scommettendo tutti i suoi risparmi nella quota associativa annuale, cercava di vendere la sua bellezza a qualcuno molto ricco. «Non è cosa per te!» aveva detto un giorno Osborne dal tavolino del bar di fianco al suo. Era mezz’ora che osservava i suoi inutili tentativi di attirare l’attenzione del figlio di uno dei più grandi imprenditori immobiliari dello stato. «E’ gay. Lascia stare e vieni a lavorare per me. Tempo un anno e avrai tanto denaro che potrai fare la collezione di tipi come quello!» E così era stato. Aveva avuto un unico incarico: Scott Fulton. Per cinque anni la bionda texana aveva tenuto sotto stretto controllo tutta la porcheria che girava intorno a quell’uomo ricercato in mezzo mondo per crimini che non le piaceva nemmeno immaginare. Lei era sempre stata il solo e unico anello di collegamento tra Osborne e Fulton. Aveva appreso una quantità infinita di informazioni su entrambi ma Osborne aveva mantenuto la promessa e l’aveva ricoperta di soldi. Ovviamente aveva dovuto andarci a letto qualche volta, ma era stato anche divertente. Inoltre

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con tutto quel denaro si era finalmente concessa una vita da sogno. Fulton aprì la borsa e diede una rapida occhiata all’interno. «E’ tutto a posto, Mr. Fulton?» chiese lei con la sua voce musicale ed il tipico accento del Texas.L’uomo annuì senza guardarla poi chiuse la borsa e attese. Vanessa represse un moto di stizza ed aprì la porta che dava sul giardino, attese che fosse uscito e lo seguì. Fulton imboccò il vialetto che attraversava il giardino a grandi passi con la ragazza che accelerava il passo per non perderlo di vista. Doveva sempre accompagnarlo sino all’elicottero, le istruzioni erano molto precise. Un nuovo giardiniere era fermo nel mezzo del piccolo viale. Stava nebulizzando sugli arbusti un fertilizzante con una pompa a spalla. Aveva la tuta bianca e la maschera da cui sbucavano i fili delle cuffiette collegate ad un walkman agganciato alla cintura. Non li aveva visti e non sembrava poterli sentire. Irrorava le piante con il tubo nella mano destra mentre la sinistra con gesti rapidi e precisi manteneva la pressione all’interno dell’attrezzo a ritmo di musica. Vanessa sorrise. Visto da dietro era un gran bell’uomo, soprattutto il sedere doveva essere grandioso. Fulton ebbe un attimo di incertezza. Avrebbe dovuto toccare l’uomo per segnalargli di spostarsi e la cosa non gli piaceva. Si fermò a due metri dal giardiniere e la brezza portò alle loro narici un profumo amarognolo e leggermente nauseante. Ecco perché quel tizio indossava la maschera. L’uomo si voltò improvvisamente, lo spruzzatore alzato, la sinistra che pompava. Una nube di fertilizzante li investì. Fu solo un attimo perché la persona spense immediatamente l’irroratore, gli occhi sbarrati dalla perplessità. Fulton e Vanessa avevano chiuso gli occhi d’istinto ma la sostanza che si era posata sulla loro pelle sembrava formicolare. Il giardiniere allargò le braccia in un gesto di scusa e fece per togliersi la maschera ma Fulton lo spinse di lato con la borsa e lo oltrepassò con un ringhio. Vanessa non poté fare a meno di seguirlo anche se avrebbe voluto mollare un calcio a quel deficiente! L’elicottero aveva i motori accesi. Due addetti alla sicurezza in completo scuro attendevano appena fuori dalla portata delle pale. Salutarono Vanessa e lei ricambiò distrattamente, le girava la testa. Anche Fulton camminava in modo strano, sembrava aver perso la sua andatura sicura e flessuosa. I due non si avvicinarono. Fulton arrivò al portello maledicendo il mondo e rimase in

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attesa che lei aprisse il portello. Stava male. Aveva la testa che girava, gli occhi che bruciavano, la nausea, una gran voglia di vomitare e non riusciva a stare in piedi. Con un immenso sforzo di volontà salì sull’elicottero, si sedette ed agganciò la cintura. Chiuse gli occhi, stava per perdere il controllo. Resistette a stento a un conato di vomito, non voleva che estranei lo vedessero star male. Strinse i denti e perse conoscenza. Vanessa si aggrappò alla portiera per non cadere mentre controllava che Fulton si sistemasse. Le mancava l’aria, aveva la nausea e le girava la testa. Cercò di chiudere il portello ma si accorse di picchiare la testa contro qualcosa di duro. Che cosa stava accadendo? Due mani forti le afferrarono le caviglie, altre due le braccia. «Che schifo!» sentì dire ma non capì chi aveva parlato. Rotolò su qualcosa che si muoveva, che vibrava, come il suo stomaco. Perse i sensi mentre vomitava. I due della sicurezza gettarono dentro la ragazza e chiusero il portello allontanandosi immediatamente. Come avesse fatto una come Vanessa a ridursi in quello stato a quell’ora del pomeriggio era un mistero. Il pilota aveva il vetro di separazione con il vano passeggeri oscurato. Aveva un piano di volo che prevedeva l’arrivo a New York, destinazione da confermare. Masticando un chewing gum girò gli occhi verso i due della sicurezza, attendeva un ok per decollare. Il più alto alzò il pollice. Il pilota fece un breve cenno di saluto e alzò dolcemente l’elicottero nel cielo terso ed afoso del Texas. Dopo un’ora bevve un po’ d’acqua da una bottiglietta che aveva sul sedile del secondo. Non era fresca ma andava bene lo stesso, aveva in bocca un sapore amaro dal giorno prima quando quel maiale del dentista gli aveva impiantato una nuova capsula. Costava un sacco di soldi e lavorava come un cane! Prese mentalmente nota di cercarne un altro la prossima volta che ne avesse avuto bisogno, va bene pagare, ma non stare male. Il sapore non andò via. “Roba da matti” pensò e continuò il suo volo. A Las Vegas Seymour Osborne controllò l’orologio. Stava andando tutto come previsto. Il giardiniere era stato cacciato dagli agenti della sicurezza. L’uomo era ancora sconvolto per l’accaduto e continuava a giustificarsi dicendo che qualcuno gli aveva ordinato

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nell’auricolare di voltarsi perché aveva dimenticato alcuni arbusti. Lui aveva ovviamente ubbidito con prontezza, forse troppa. Perché non lo avevano anche avvisato che aveva due persone alle spalle? Gli dispiaceva in modo particolare per la bionda. L’aveva innaffiata in pieno e aveva paura che avesse inalato un po’ di quelle sostanze. L’uomo non sapeva di preciso cosa contenesse l’irroratore, ma il fatto che avesse dovuto indossare la tuta protettiva e la maschera ad ossigeno parlava chiaro. L’auricolare gli era stato imposto da quelli della sicurezza che, non potendo seguirlo da vicino lo avrebbero controllato dai monitor e gli avrebbero dato istruzioni sul percorso da seguire. Belle istruzioni gli avevano dato! Si tolse la tuta e la gettò nel retro del furgone. Che schianto la bionda! Avrebbe voluto scusarsi e magari offrirle una birra, ma chissà dov’era finita. Pieno di rancore mise in moto e se ne andò. Osborne si alzò dal divano, oltrepassò lo studio e andò nella sala controllo. Gli piaceva quel posto, era dotato delle più moderne tecnologie e gli addetti erano persone di poche parole e di una professionalità impeccabile. Oltrepassò la porta inserendo il codice di sicurezza e l’addetto ai monitor scattò sull’attenti. Osborne sorrise e gli fece cenno di continuare il suo lavoro. Passarono alcuni minuti senza che accadesse assolutamente niente, tranne alcune minuscole goccioline di sudore che si formarono sulla fronte dell’uomo. Poi Osborne parlò. «Attivi la zona trentaquattro, prego.» La trentaquattro era un’ala nuova che Seymour aveva appena acquistato dove aveva intenzione di far costruire una dependance di lusso e un nuovo maneggio. Vi avevano installato da poco un nuovissimo sistema di sicurezza che non era stato ancora testato completamente. L’uomo obbedì e un paio di monitor nuovi si accesero alla sua sinistra. Seymour attese qualche istante, osservando le immagini. «Perfetto, mi sembra che funzioni tutto. Spenga pure, grazie della collaborazione» e se ne andò. Il comando di attivazione della zona trentaquattro aveva un paio di funzioni di cui nessuno, ancora in vita, era a conoscenza. Lontano, molte miglia a Nord, il pilota stava osservando alcune formazioni cumuliformi che si trovavano sulla sua rotta e ascoltava attento le previsioni meteo. Fece una

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smorfia quando la capsula del dentista iniziò a ronzare come un’ape impazzita. Un dolore sordo si trasmise dalla bocca al cervello come se un milione di aghi roventi gli fossero stati sparati nel cranio. Urlando abbandonò la cloche e si prese la testa fra le mani nel vano tentativo di arginare quell’inferno. Riuscì a tenerla stretta per un lungo istante poi sbarrò gli occhi proprio un attimo prima che gli esplodesse fra le mani. L’elicottero privo di controllo ondeggiò per qualche momento e poi iniziò una lenta caduta a spirale verso il deserto, mille metri più in basso. Nel retro, due cadaveri in avanzato stato di decomposizione non avrebbero fornito alcun indizio anche nel caso il velivolo non fosse esploso a contatto con il suolo. Seymour aspirò una lunga boccata di fumo dal sigaro e si diresse verso la piscina. Aveva voglia di un bagno. Il giardiniere guidava il furgone verso la città quando la radio trasmise la notizia che quella sera il suo gruppo country preferito avrebbe suonato in un concerto di beneficienza in un paesino a una trentina di miglia da casa. Sorrise. Avrebbe preso moglie e figlia e avrebbero passato una serata diversa ascoltando buona musica, bevendo birra e mangiando salsicce. Chiuse un attimo gli occhi, tanto la strada era tutta dritta: poteva quasi sentire il profumo delle salsicce. Li riaprì immediatamente, aveva sentito uno strano scatto sotto il sedile. Fu solo l’impressione di un attimo poi il vecchio furgone esplose sotto di lui come una supernova. Seymour aveva l’orecchio teso. Sentì il fragore della lontana esplosione e si tuffò sorridendo felice. “La tecnologia era una cosa stupenda!”

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Fine del secondo sogno La fulva Cheryl scendeva dalle colline sopra Los Angeles a bordo della sua Porsche 924 bianca quando un malore improvviso la colpì. L’auto sbandò e rischiò di finire fuori strada, solo la sua prontezza di riflessi e la ridotta velocità le consentirono di evitare il disastro. Il dolore era terribile. Con uno sforzo immenso riuscì ad accostare e si accasciò sul volante. Qualcosa di orribile stava accadendo ad una delle persone che aveva “legato” a sé. Le venne una nausea improvvisa, fece appena in tempo a scendere dall’auto e iniziò a vomitare scossa da tremiti incontrollabili. Questo era il rischio di “legare” le persone, provavi le loro stesse sensazioni. Per un tempo infinito il dolore continuò a aumentare, lo sentiva ovunque ma il fulcro era nello stomaco e nella testa. Infine cessò improvvisamente. “Vanessa!” pensò con angoscia mentre percepiva un vuoto tremendo che aveva un unico significato. Tremando come una foglia cercò di riprendere il controllo. Ora era veramente furiosa! Vanessa era sua amica da molto tempo. Si erano frequentate, avevano ballato insieme, cenato, condiviso amicizie. Le si era affezionata molto prima di sapere che lavorava per Osborne e l’aveva legata per proteggerla: in circostanze normali avrebbe potuto intervenire in caso di necessità, ma Vanessa era morta in modo troppo rapido e orribile! Sapeva delle attività di Vanessa con Osborne e Fulton solo grazie al legame, la sua amica era sempre stata riservatissima. Raggiunse il parcheggio di un supermercato, fermò l’auto e si avviò a piedi verso l’uscita. Aveva bisogno di mezzi di trasporto più rapidi. Un uomo enorme, appoggiato al muro in una zona d’ombra, la osservò arrivare bevendo coca cola da un grande bicchiere di carta. Sembrava completamente rilassato e in attesa di qualcuno. Cheryl non aveva bisogno di capire chi o cosa stesse aspettando, non voleva complicazioni. Gli si fermò di fronte ed attese. «Non percepivo una tale furia dalla guerra di Troia» disse lui staccando le labbra dalla cannuccia. «Non ti mettere in mezzo, fratello. Non ora.» «Non me lo sogno nemmeno! Provare a farti ragionare quando sei in questo stato può essere molto pericoloso, anche per me.»

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«Felice che tu lo sappia.» «Solo, non pensi che nostro padre non la prenderà benissimo?» «La prenda come gli pare.» Apollo si tolse gli occhiali da sole appoggiandoli sul capo e scrutò per un attimo la fulva dea che aveva di fronte. «Sai che non dobbiamo interferire» disse piano. «Possiamo parlarne solo un momento? Piccolo piccolo…» «No» fu la secca risposta. «Bene. Allora fai quello che vuoi, non ti ostacolerò. Se avrai bisogno di me sai come fare.» Cheryl riuscì a sorridere nonostante la furia. «Grazie Ap. Sei sempre stato più un amico che un fratello, è una cosa davvero bella.» Poi svoltò l’angolo. Il grande dio rimase appoggiato al muro e continuò a bere. Non aveva bisogno di guardare per sapere che Atena se n’era andata e si augurò che non facesse troppi danni. Alla morte di Achille aveva rischiato di annichilire ogni essere umano nell’arco di chilometri con la sola furia del pensiero, solo l’intervento di Zeus in persona l’aveva impedito. Per dispetto aveva allora rivolto la sua attenzione sugli achei che tornavano in patria scatenando loro contro una delle più grandi tempeste della storia e distruggendone quasi completamente la flotta. Apollo sorrise: era stato presente, ovviamente, quando la sua sorellina aveva convinto Poseidone a scatenare la tempesta. Il grande e calmo Dio del Mare aveva provato a discutere. Era successo il finimondo! Scosse piano la testa tirando una gran boccata di coca cola dalla cannuccia. Atena era stupenda ma sapeva mutare tutta la sua bellezza in orrore con la furia. Con un’alzata di spalle gettò il bicchiere vuoto in un cestino e andò verso la macchina. Aveva due ore di tennis quel pomeriggio e giocava con una gran donna, Atena avrebbe saputo cavarsela benissimo da sola. La guardia di turno all’ingresso di “Villa Osborne” a Las Vegas era in piedi accanto alla guardiola e fumava una sigaretta. Aveva da poco terminato di rispondere alle domande della polizia in merito allo scoppio del furgone della ditta di giardinaggio. Che ne poteva sapere lui? Quel tipo era venuto, aveva lavorato e poi era stato buttato fuori perché aveva combinato qualcosa di grave. Era un imbecille! Aveva inveito contro tutti poi era

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salito sul furgone e se n’era andato. Lui aveva tenuto d’occhio il furgone mentre scendeva dalla collina e imboccava la statale in direzione della città. Poi era scoppiato. Era stato un botto fenomenale. La carcassa dell’automezzo, una sfera infuocata, era saltata in alto per una ventina di metri per poi ricadere al suolo dove un secondo scoppio aveva lanciato rottami incandescenti ovunque. Ora, a distanza di più di tre ore, solo una grande macchia nera sull’asfalto ed alcuni rottami più lontani testimoniavano l’accaduto. La polizia era ancora sul luogo e deviava le auto in attesa che i pompieri terminassero di rimuovere le macerie. Un bel disastro. In fondo a lui dispiaceva per quel tipo. Non aveva avuto la faccia sveglia, ma a nessuno si può augurare una fine simile, nemmeno ad uno scemo. Udì la ghiaia smossa da un passo alle sue spalle e si voltò. Un dolore immenso gli esplose nello stomaco. Abbassò gli occhi e vide che dalla sua divisa spuntava l’elsa di una qualche arma, alla strana elsa era stretta una mano. La mano si mosse in avanti, un movimento brusco e il dolore esplose anche nella sua schiena dove la lama uscì intaccando la colonna vertebrale. Le gambe cedettero e la guardia finì in ginocchio. Gli occhi risalirono dalla mano al braccio e poi al viso bellissimo di una donna. Aveva un elmo strano e gli occhi terribili. La donna tirò indietro il braccio e la guardia urlò cadendo a terra e contorcendosi. Non aveva mai provato niente di simile. «Perché?» riuscì a chiedere con la bocca piena di sangue. Non riusciva a urlare, stava troppo male. La donna scosse le spalle. «Posto sbagliato nel momento sbagliato. A volte succede.» Gli infilò in bocca una piccola moneta. «Senza rancore» disse allontanandosi. La guardia avrebbe impiegato parecchio tempo a morire, Atena sperò che riuscisse a non sputare la moneta. Era quasi il tramonto quando Seymour uscì in accappatoio dalla villa diretto alla piscina. Era la seconda volta che sentiva la necessità di un bagno quel giorno, forse stava ritornando giovane. Era stato un pomeriggio intenso. Dopo la prima nuotata aveva avuto voglia di compagnia e la nuova cameriera, quella portoricana di diciannove anni si era dimostrata all’altezza dello stipendio che percepiva. O era stata la cocaina? In ogni modo stava bene e si sentiva addirittura leggero come non gli accadeva da diversi anni. Avrebbe nuotato, poi un bel drink e un sigaro

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a godersi il tramonto. Quella sì che era vita! I vialetti della villa erano deserti e il caldo ancora intenso. “Strano”, pensò “dove sono gli addetti alla sicurezza?” Avevano l’ordine preciso di non perderlo mai di vista perché erano tempi difficili e un uomo non poteva mai dirsi completamente al sicuro. Sorrise al pensiero di Fulton e Vanessa. Probabilmente erano già decomposti prima ancora che l’elicottero toccasse terra. Quel veleno era fantastico anche se costava una fortuna. Poteva essere somministrato in qualsiasi modo ed era praticamente sempre letale, ma se veniva inalato era spettacolare! Strabuzzò gli occhi. Seduta al suo tavolo a bordo piscina una donna bellissima stava osservando le leggere increspature dell’acqua mentre beveva un drink. Non era una donna qualsiasi, Seymour Osborne l’avrebbe riconosciuta ovunque. Era “quella” donna, finalmente! Il cuore fece un balzo. Come diavolo aveva fatto ad entrare? E soprattutto dov’erano le guardie? Rimase fermo ad osservarla, non sembrava che lo avesse visto, guardava l’acqua come se meditasse di tuffar visi. Era una visione. Il Grande Vecchio accarezzò per un momento l’idea di convocare il capitano e fargli passare un brutto quarto d’ora, ma in quel momento la donna si voltò e i loro occhi si incontrarono. Quando lei sorrise tutti i dubbi svanirono dalla sua mente. Si avvicinò a grandi passi mentre la donna si alzava e inclinava la testa di lato, il sorriso sempre aperto, gli occhi brillanti. «Buongiorno Mr. Osborne» disse. «Spero non le dispiaccia se mi sono presa la libertà di chiedere alla sua ragazza qualcosa da bere e alle sue guardie di lasciarci un po’ di intimità.» Tese la mano, Osborne la strinse. «Vorrei finire questa giornata con lei Seymour. Le dispiace?» Una vocina nella mente del Grande Vecchio sussurrava che c’era qualcosa di sbagliato in quella proposta ma Seymour non riusciva nemmeno a parlare, quella donna aveva il potere di togliergli il respiro. Era vestita come la sera in cui l’aveva conosciuta, un lungo abito di seta che aderiva al corpo lasciando veramente poco all’immaginazione. La donna si voltò per prendere un calice di cristallo dal vassoio e Seymour deglutì, raramente aveva visto vestiti così scollati nella schiena! La bottiglia sul vassoio parlava di champagne invecchiato. Non era il drink che il Grande vecchio

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avrebbe preferito in quel momento ma si adeguò velocemente, sedendosi e sistemandosi l’accappatoio. Anche la donna si sedette ed accavallò le gambe con un movimento lento, portandosi il bicchiere alle labbra senza staccare gli occhi dai suoi. “Così siamo giunti ad un incontro a due” pensò Osborne. “Era ora, in fondo l’aveva promesso. Se vuoi giocare, bambina, sarò lieto di accontentarti.” Bevve una lunga sorsata e si rimise il sigaro in bocca. «Miss Cheryl, giusto?» Lei annuì con grazia. «Perfetto Mr. Osborne, vedo che si ricorda di me, ne sono lusingata.» Si sporse in avanti in modo provocante e la scollatura si aprì in modo scandaloso. Seymour iniziò a sudare, lei sorrise. «Che ne dice se parliamo del suo progetto?» «Quale progetto mia cara?» Cheryl fece una smorfia. «La prego di non giocare al gatto e al topo con me, Mr. Osborne, non sono dell’umore giusto.» Lasciò passare qualche istante per dar modo all’uomo di assimilare il concetto. Voleva che capisse bene e in fretta che era lei a dettare le regole e che la sua vita era appesa a un filo. Atena era venuta a Las Vegas con un solo obiettivo ma le guardie avevano saziato in parte la sua sete di sangue. Ora poteva provare a ragionare e lo stava facendo. Il Grande Vecchio però non era abituato a raccogliere quel tipo di messaggi. «Mi faccia capire, Miss Cheryl» disse a denti stretti. «Lei crede di poter entrare in casa mia senza essere invitata, farmi sognare un culo, intravedere un paio di tette e… e credere che io mi dissolva come un quindicenne e le racconti i fatti miei?» Aspirò una lunga boccata di fumo e gliela soffiò in faccia, lentamente, con cinismo. «Suvvia ragazza mia! Non posso credere che tu sia così stupida.» Cheryl sorrise. «Non sono una stupida Mr. Osborne tutt’altro, vede…» e si piegò in avanti così tanto che il vecchio per un attimo credette che gli si sarebbe fermato il cuore «io ottengo sempre quello che voglio, il punto è come.» L’immagine di Cheryl ebbe un fremito e una corazza ed un elmo per un attimo sostituirono il vestito impalpabile di seta. Durò solo il tempo di un battito di ciglia e Osborne sbarrò gli occhi incredulo. «Seymour mi creda, lei in

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questo momento è in una posizione molto scomoda mentre io, al contrario, sono nel mio elemento. Se mi asseconda tutto finirà bene, forse non come crede lei ma comunque bene. Altrimenti…» lasciò che le sue parole rimanessero sospese per qualche attimo. «Altrimenti non sarà piacevole.» «Adesso basta donna!» Seymour si infuriò. Ma come osava importunarlo in casa sua? Era inaudito. Due ore con le guardie nelle stanze speciali nel sotterraneo e avrebbe confessato anche cose che non aveva mai nemmeno pensato. Posò il bicchiere e schiacciò il pulsante nascosto sotto il tavolino ma ritirò la mano con un grido, si era tagliato i polpastrelli. Con una maledizione si infilò le dita in bocca succhiando il sangue. La donna che si faceva chiamare Cheryl gettò il capo all’indietro e rise. «Uomini! Non crescerete mai. Qualsiasi bambino avrebbe reagito come te! Non potete farci niente, è una questione di istinto. Una donna non lo farebbe mai, cercherebbe un fazzoletto nella borsetta.» «Non ci trovo niente da ridere!» Seymour sputacchiò sangue e saliva sul pavimento. «Mi sono graffiato.» «Lo so, ho messo io una lametta in quel punto.» «Perché?» «Per vederti morire» fu la calma e tremenda risposta. Cheryl sollevò il calice di champagne in un brindisi. «E voglio farlo bevendo il tuo champagne, non è affatto male. Ti avevo anche avvisato “la tua è una posizione scomoda”, ma non mi hai dato retta. E poi …» gli occhi le lampeggiarono di un’ira quale il vecchio non aveva mai visto. Involontariamente si ritrasse spaventato a morte forse per la prima volta in vita sua. «E poi non c’è un vecchio detto che dice “non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te?” Ora è tardi ma a te piacciono le sensazioni forti.» Portò il calice alle labbra. «Brindo alla tua morte vecchio, alla fine del tuo tempo immondo.» «Ma cosa stai dicendo?» Seymour scattò in piedi. Aveva la bava alla bocca e gli si stava appannando la vista. Le gambe tremarono nello sforzo di sollevarlo. «Cosa mi sta succedendo?» chiese con un tremito, aveva paura, tanta paura della risposta. «Stai morendo. Ti ricordi di Vanessa?» Seymour trattenne il respiro. «Era una mia amica.»

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Il Grande Vecchio si aggrappò al tavolino con tutta la forza delle braccia, non riusciva più a stare in piedi, le nocche delle mani sbiancarono per lo sforzo. La donna di fronte a lui rise forte, fredda, terribile. Posò il bicchiere e nelle sue mani apparve un coltello dalla lama lunga e leggermente ricurva. «Mi chiedo se puoi ancora provare dolore, in fondo ti stai già decomponendo e non deve essere piacevole» sorrise. «Fa male, vero?» La donna si mosse rapida come un serpente e gli appoggiò la lama al naso. Seymour alzò la mano sinistra per fermare il gesto ma lei fece fare uno strano movimento al pugnale. Quattro dita caddero a terra troncate di netto, il naso le seguì un attimo dopo. Seymour cercò di urlare, ma dalla sua gola scaturì solo un gemito strozzato. «Anche le orecchie, tesoro» i gesti erano veloci, precisi. Il vecchio cercò ancora di ritrarsi e di fermarla con la mano buona, altre dita insanguinate caddero a terra. Rimase allibito con gli occhi sbarrati a guardare i pezzi del suo corpo sparsi sul pavimento della piscina. Il dolore era quasi più forte di quello nello stomaco. Si piegò in due e vomitò, mentre un colpo violento alla testa gli fece aprire gli occhi. Non si era accorto di averli chiusi. Era caduto e stava continuando a vomitare, aveva le convulsioni, non controllava più i suoi arti. Cercò di rotolare lontano da quella furia con il solo risultato di imbrattarsi di escrementi che non si era accorto di aver prodotto. Stava impazzendo di dolore e di paura. La ragazza si piegò su di un ginocchio e abbassò il viso sopra il suo. Non sorrideva più, sembrava diversa, pazza. Seymour urlò ancora sputandole sangue e saliva addosso, lei non ci fece caso. «Due occhi non servono, ne basta uno.» Seymour esplose in un urlo disumano quando la lama gli entrò nel bulbo oculare. «Mah… togliamo anche l’altro, tanto che te ne fai da morto?» L’urlo si spense un attimo dopo perché la donna gli infilò in bocca qualcosa di acquoso e caldo, serrandogli la mascella con una mano. Quando sentì che gli apriva l’accappatoio iniziò a piangere. «Sei quasi andato» disse una voce lontana. «Ma forse riuscirai ancora a sentire qualcosa se taglio qui» il pugnale esplose nelle sue viscere. «Ricordati di me quando scenderai agli inferi. Niente monete per te bastardo solo un nome, il mio vero nome. Dì al traghettatore che ti manda Atena.» E tagliò ancora.

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Un nuovo Dio L’elicottero atterrò senza il minimo scossone. Il pilota fermò il motore mentre le guardie scendevano e si disponevano in cerchio con i piccoli mitra spianati. Avevano tutti indossato la tuta da combattimento, con tanto di casco e di giubbotto anti proiettile. Quando era suonato l’allarme Ross era scattato come una molla. Non era usuale che dalla villa del vecchio provenisse un allarme rosso, non era mai successo prima. Il Grande Vecchio non voleva la polizia tra i piedi, solo il suo piccolo esercito di guardie private. Ross Osborne aveva interrotto un consiglio di amministrazione delicatissimo, preso l’elicottero personale e tutte le guardie disponibili, purtroppo solo quattro, ed era corso a Las Vegas. Per tutta l’ora e mezza che era durato il viaggio avevano cercato inutilmente di mettersi in contatto con la villa di suo padre. Non sapeva cosa pensare. Le guardie erano schierate ai quattro punti cardinali, il comandante piegò il braccio dietro la schiena per non perdere di vista il giardino e alzò il pollice, poteva scendere. Ross scese agilmente dall’elicottero e si avviò di corsa verso la villa, circondato dai suoi uomini. A quarantacinque anni era considerato lo scapolo impunito degli eletti e si manteneva in ottima forma. Le guardie alle porte interne della villa giacevano a terra in un lago di sangue. Nessuno parlò. Erano armati e pronti a combattere, erano stati uccisi con armi da taglio. Entrarono e trovarono tutto perfettamente in ordine. Passarono da una stanza all’altra, era tutto perfetto se non si consideravano i corpi insanguinati ovunque. Tutti uccisi con un lungo coltello, tutti armati, nessun colpo esploso. Finirono il giro passando dalla sala controllo dove trovarono l’uomo che aveva dato il segnale d’allarme riverso sul grande pulsante rosso. Gli era stata tagliata la gola da dietro. Il poveretto era morto mentre teneva premuto il pulsante. Quando tornarono in salotto erano sbigottiti. «Quanti ne avete contati?» chiese Ross bianco come un cencio. «Ventitre signore» fu la risposta del comandante. «Mi sembra che il turno in questa villa fosse composto da venticinque unità. Sicuramente uno era di guardia al cancello di ingresso e fanno ventiquattro. L’ultimo presumo che sia anch’egli all’esterno dell’abitazione. Non capisco.» Il capitano aveva un

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passato nei corpi speciali di polizia ed era una persona che nella sua vita ne aveva viste di tutti i colori. Il fatto che scuotesse la testa in quel modo la diceva lunga su quanto era accaduto. «Ma in quanti saranno stati?» «Non ne ho idea signore. Non è facile aggredire e sopraffare in questo modo uomini armati e addestrati senza che riescano a reagire. Non è normale.» «Non m’importa un fico secco di ciò che non è normale comandante! Troviamo Mr. Osborne.» Era rimasto un solo posto dove guardare. Quel che trovarono vicino alla piscina era indicibile. Ross corse lontano e rimase a lungo piegato in due, le guardie rimasero impietrite di fronte al mucchio di carne putrefatta. Il Grande Vecchio fu identificato solo grazie agli anelli e alla collana d’oro massiccio, persino gli indumenti erano marciti. Dopo qualche tempo il comandante si avvicinò ad un pallidissimo Ross Osborne. «Hanno fatto un lavoro sporco signore, non ho mai visto niente di simile.» Ross non la pensava nello stesso modo, aveva riconosciuto gli effetti del loro veleno. Il Grande Vecchio lo aveva voluto testare di persona in diverse occasioni. Quelle volte avevano riso insieme prima, durante e anche dopo, perché avevano dato un contributo alla società ripulendo alcuni sobborghi di New York dai clochard. Lo avevano chiamato “addio”. Quel veleno era sempre letale. Il modo di somministrarlo cambiava semplicemente il tempo di reazione. Agiva dall’interno e causava la decomposizione immediata e irreversibile degli organi interni partendo da quelli “molli”, fegato, milza, pancreas e così via, lasciando per ultime le fasce muscolari tra cui il cuore. Il poveretto si decomponeva rimanendo cosciente fino all’ultimo e percependo così tutti gli effetti devastanti del virus. Tutti i soggetti si erano quasi liquefatti nell’arco delle sei ore successive. “Addio” agiva anche sullo scheletro con effetti molto simili all’acido. Il giorno successivo non rimaneva alcuna traccia della vittima. Vi era un solo lato positivo: non era contagioso. Passò più di mezz’ora ma alla fine Ross Seymour si riscosse.

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Lasciati due uomini a guardia di quanto restava del corpo, il terzo fu inviato a cercare gli ultimi due mentre Ross ed il capitano entravano in casa e si recavano direttamente nello studio privato del Grande Vecchio. Qui Ross si sedette senza alcuna esitazione sulla poltrona in pelle e prese le redini della situazione e dell’impero. «E’ fondamentale che io e lei ci capiamo comandante perché d’ora in avanti dovremo gestire le cose con calma e con la massima efficienza.» Aveva una strana espressione negli occhi mentre si versava un bicchiere di bourbon con ghiaccio dal vassoio posato sulla scrivania. «Se lei farà quello che le dico non ci saranno problemi, diversamente …» Lasciò la frase in sospeso. «Non l’ho mai delusa signore.» Ross sorrise, un ghigno da lupo. «Si versi un bicchiere comandante, certe occasioni vanno celebrate.» L’uomo annuì, ne aveva proprio bisogno. «Bene» riprese Ross con attenzione, gli occhi da falco puntati sull’uomo dall’altra parte della scrivania, il cervello che lavorava ad un ritmo frenetico «ecco cosa dobbiamo fare. Lei identifichi con precisione le vittime, dovrò indennizzare adeguatamente le famiglie. Poi faccia portare i corpi nei locali interrati. Le farò avere sacchi neri con chiusura ermetica, casse di legno e il necessario per marchiare i colli. Su tutti dovrà essere indicata come destinazione la tenuta di famiglia a Londra. Tutto chiaro?» «Assolutamente signore.» «Perfetto. Avrete un sacco ed una cassa in più. Cosa inserire nell’ultimo sacco ve lo dirò al momento opportuno. Nessuno dovrà entrare o uscire dalla villa sino a nuovo ordine.» Ross Osborne soppesò il capitano con un’occhiata tagliente come un rasoio. «Quando dico nessuno capitano, intendo nessuno. Mandi via l’elicottero e ordini al pilota di prendersi un periodo di riposo, nessuno deve sapere che sono qui.» Il comandante annuì ancora sempre rimanendo in silenzio. Osborne si alzò e passeggiò lentamente per lo studio rimanendo a lungo perso nei suoi pensieri. Quando riprese il capitano fece fatica a credere alle proprie orecchie.

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«Le istruzioni cambiano leggermente. Farò portare quattro contenitori in più, non uno. Lei mi capisce, vero comandante?» Murray Reed era un uomo duro e a cinquantacinque anni, di cui gli ultimi quattro in servizio presso la famiglia Osborne, pensava di aver visto tutto ciò che c’è da vedere nella vita. Si sbagliava. Respirò a fondo e annuì ancora. «Ho capito signore, lo ritengo indispensabile vista la situazione, signore.» «Lei mi piace comandante, molto. Continui così e non se ne pentirà. Bene! Una volta preparati i contenitori li invieremo a Londra. Lei supervisionerà le operazioni di carico, io vedrò di fare in modo che non arrivino a destinazione. Infine mi occuperò di far pulire e lei troverà una nuova squadra che monti in servizio prima di domani mattina. Abbiamo una notte di lavoro molto intensa Reed, penso sia il caso di muoversi.» Miss Dorothy Osborne sedeva sola nel piccolo jet privato che da Los Angeles la stava riportando a Rode Island. La hostess di colore le porse un vassoio con champagne e piccole tartine al caviale che lei rifiutò con un cenno secco della mano. Non aveva voglia di niente. Attraverso gli occhiali scuri osservava le nubi più in basso e soprattutto nascondeva occhiaie e lacrime. Aveva perso suo padre, il suo riferimento, la sua guida, il suo tutore da sempre. Ma la cosa peggiore era stata scoprire un fratello che non pensava di avere. Ross si era dimostrato una belva quale lei non avrebbe mai concepito. Si erano divertiti molto lui e quel suo comandante, su di lei! Ross aveva riso per ore, lei piangeva da giorni. Con un fazzoletto di seta si asciugò le lacrime che sgorgavano libere al solo pensiero di quello che aveva passato e guardò fuori dal finestrino le nuvole basse e cupe che scorrevano veloci sotto l’aereo. Stava tornando nella sua residenza di Rode Island con la morte nel cuore. Non che fosse particolarmente addolorata per la scomparsa del Grande Vecchio, tutt’altro, i sentimenti di amore e affetto tipici delle famiglie comuni non avevano mai trovato troppo spazio nella famiglia Osborne. No, era seriamente preoccupata per la sua vita futura. Ross aveva preso in mano l’impero del vecchio, progetto compreso, e le aveva detto senza mezzi termini che lei avrebbe dovuto ubbidire e basta. Quello era il dovere delle donne, niente di più e niente di meno. Sebbene

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Dorothy avesse fondi personali a sufficienza per vivere nel lusso più sfrenato il resto della sua vita, temeva il fratello. Entrambi sapevano troppe cose, entrambi erano molto lontani, quasi degli estranei. Non aveva alcun dubbio che, a ruoli rovesciati, forse lei non lo avrebbe nemmeno lasciato vivere. Sorrise, ora meno che mai! E il problema più grande di tutti era il progetto assurdo del Grande Vecchio di ricostruire l’antica Grecia. Lì si giocavano tutto. Se anche una sola persona, un giornalista, un fotografo, la persona più inutile del mondo fosse venuta a conoscenza di Newold World per loro sarebbe stata la fine. Per questo Ross era stato categorico e questo lei lo capiva. Bene, il fratellino aveva fatto la prima mossa, ora era il momento di cambiare tattica. L’aveva presa alla sprovvista e aveva vinto il primo round ma ora che le carte erano sul tavolo lei non si sarebbe più fatta cogliere impreparata.

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Cori ci manca sempre Anche quella domenica mattina Devin avrebbe voluto dormire almeno sino alle nove. Sarebbe stato bello ma Charline, come tutte le domeniche, non riusciva a stare ferma. Il rumore dell’aspirapolvere in salotto lo svegliò con un trauma che solo la mente maschile capisce a fondo. Devin odiava l’energia mattutina di sua moglie. Aveva provato in diverse occasioni a toccare l’argomento ma, non avendo ottenuto alcun risultato, aveva accettato la situazione e inserito la voce nella sua lista segreta i cui punti nevralgici venivano affrontati con estrema attenzione, a piccolissime dosi e solo nelle occasioni giuste. L’uomo sa avere la pazienza del cacciatore quando c’è in gioco la sopravvivenza della specie. Il problema è che alla donna la cosa non interessa minimamente per cui la battaglia è persa in partenza e questo Devin lo sapeva benissimo, ma si divertiva a giocare. In fondo, per loro due, il bello era partecipare non vincere. Un argomento era in ogni caso bandito da ogni discussione, Cori e tutte le implicazioni sulla loro vita che, a due anni dalla scomparsa del bimbo, non era più stata la stessa e non aveva una connotazione precisa. Non erano una coppia senza figli e non erano una coppia con figli. In effetti proprio non sapevano bene cos’erano e si aggrappavano l’un l’altra nella speranza che il tempo portasse consiglio e, se possibile, il ritrovamento di Cori. Come decine di migliaia di altre famiglie nel mondo leggevano i giornali, ascoltavano la radio e i TG e chiamavano la polizia a intervalli regolari. Era tutto inutile, quei bambini erano svaniti nel nulla. Le istituzioni si erano mosse in fretta e avevano seguito ogni pista possibile, arrivando persino a considerare la tratta degli schiavi e il commercio di organi. Non era mai emerso niente. Charline aveva retto i primi mesi, poi era caduta preda di un esaurimento nervoso che solo il loro grande amore era riuscito a contenere ma non a guarire. Devin era preoccupato ogni volta che doveva lasciare la moglie da sola, non poteva essere sicuro di come avrebbe reagito ad una qualsiasi circostanza della vita normale. Per puro caso era riuscito ad impedirle di commettere delle sciocchezze alla vista di bambini soli o in compagnia delle mamme. Per mesi Charline aveva aggredito ogni donna con un passeggino per verificare che non stesse portando a spasso il suo Cori. Non

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era stata la sola. In tutto il mondo scene simili erano all’ordine del giorno. Le neo mamme erano braccate e assediate da schiere di donne rese isteriche dal rapimento dei propri figli. La situazione poteva assomigliare molto ad una guerra civile. Devin all’inizio aveva provato a non contraddirla fin quando, nel corso di una litigata memorabile, lei gli aveva urlato che la doveva smettere, che dandole sempre ragione non la aiutava per niente, che aveva bisogno del suo uomo, non di un maggiordomo. Infine era sbottata: che si togliesse dai coglioni finché non fosse tornato a essere il disastro di uomo che amava e non un soprammobile! Devin sorrise al ricordo. Charline aveva un’educazione sopra la media e un codice etico personale di altissimo livello. Non bestemmiava, non diceva parolacce, non alzava mai la voce. In quell’occasione però era emersa tutta la fiera durezza di una madre in difficoltà, un atteggiamento che un uomo non può eguagliare. Devin era andato a farsi un giro e quando era tornato lei lo aveva abbracciato e avevano fatto l’amore. Tutto è bene quel che finisce bene, ma l’aspirapolvere la domenica mattina fa comunque sempre male. Devin Shaun scese dal letto con un gemito ed andò a farsi una doccia brontolando tra sé che quello era un altro punto di differenza tra l’uomo e la donna. L’uomo al mattino interagisce con l’acqua con lo stesso entusiasmo di un gatto, mentre la sera si trasforma in un pesce e sguazzerebbe all’infinito nel suo elemento. Charline usciva dalla doccia alle cinque di mattina ridendo e scodinzolando come un delfino, mentre alla sera aveva sempre freddo e le veniva mal di testa. L’avvocato Shaun affrontò quindi le abluzioni mattutine con lo stesso entusiasmo di un condannato a morte mentre sua moglie continuava la sua crociata personale contro gli acari passati, presenti e futuri. Prese un caffè e cercò di parlare con Charline che finse abilmente di non notarlo. Quando si rese finalmente conto che era tutto voluto scrollò le spalle e andò a fare un giro nel parco. Il pomeriggio trascorse tranquillo con una gita in bicicletta seguita da un gelato a un chiosco sul lungomare affollatissimo. Parlarono pochissimo ma non sempre è necessario, infine Charline si riscosse dai suoi pensieri. «Devin?» «Sì?» «Pensi che lo troveremo mai?»

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Devin sentì un brivido lungo la spina dorsale: quando la discussione iniziava in quel modo non si sapeva dove e soprattutto come poteva finire. Rifletté a lungo prima di rispondere, se avesse affrettato troppo la risposta la situazione sarebbe precipitata. «Penso di sì, ma non sono in grado di darti alcun tipo di certezza.» Lei rivolse lo sguardo all’oceano, gli occhi pensierosi ma non tristi. «Lo so, saresti uno sciocco a cercare di darmene.» Lo guardò di sottecchi e sorrise in tralice. «Hai impiegato un bel po’ di tempo a smettere di farlo vero?» Devin trasalì, questo era un aspetto che non aveva considerato. «Cerco solo di fare la cosa migliore che… non sempre è quella giusta. E non sempre mi riesce, tra l’altro.» «So anche questo, ma sei un tesoro ad aver cercato di farlo e anche ad ammettere di averlo fatto, ovviamente sbagliando. Quanto ti ho fatto penare in questi due anni?» Attenzione! C’era un allarme rosso che lampeggiava furioso. Attenzione! Devin avrebbe voluto cambiare discorso, inventarsi una scusa, correre da qualche parte. Tutto pur di togliersi da lì. «Ma cosa dici?» rispose poi con la massima innocenza possibile. L’unica speranza di sopravvivenza stava nel fare lo scemo a tal punto da farle cambiare argomento. Lei rise. «Oh Devin, piantala! Non sono pericolosa adesso, non voglio più esserlo. Rilassati.» Bevve un sorso di acqua fresca e lo guardò negli occhi. «Senti, io non posso rinunciare a cercare nostro figlio. Non mi riesce, non mi è proprio possibile. Devo fare qualcosa.» L’allarme rosso era scattato, ora non poteva fare altro che attendere che la frana lo colpisse, non aveva scampo. «Ho deciso di smettere con il lavoro, tanto non funziona più. E’ solo questione di settimane, forse di giorni, poi o me ne vado io o mi buttano fuori loro. Non hanno torto, sono assolutamente improduttiva. Fino ad ora hanno pazientato, era comprensibile, adesso non più. Hanno ragione, io al loro posto farei la stessa cosa.» «Tu non …» «Ti ho detto di piantarla con le sciocchezze! Certo che lo farei, sarei obbligata. Le aziende non stanno in piedi con la beneficienza, le risorse

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costano. Se producono si ripagano, altrimenti le devi mettere alla porta. E’ una legge di mercato semplice ed ineluttabile. Io lo farei se fossi al posto del mio capo e lui lo farà perché lo deve fare. Niente di personale, it’s only

business. Per cui me ne vado io, anzi… me ne sono già andata. Venerdì.» Devin era esterrefatto. Charline aveva un impiego in una delle agenzie di pubblicità più quotate di Los Angeles ed era molto, molto brava nel suo lavoro. Il fatto che avesse rinunciato a una professione a cui teneva moltissimo la diceva lunga sul suo stato d’animo. Una cosa però era sicura: quando sua moglie prendeva una decisione non c’era verso di farle cambiare idea. «E adesso che pensi di fare?» Un santo gli tenne la mano sulla testa perché se solo avesse provato a discutere sulla decisione presa si sarebbe scatenato il finimondo. Invece lei sorrise ancora, allentando la tensione. Si era preparata a combattere, ora sentiva che, come sempre, avrebbero combattuto dalla stessa parte. «Di preciso non lo so, devo ancora pensarci. Domani tu andrai in ufficio e io nel nostro studio. Inizierò le ricerche e, se farai il bravo, ti terrò aggiornato sugli sviluppi.» E così la discussione era finita. Charline tornò ad osservare l’oceano, una luce dura negli occhi, una decisione estrema. «Se solo potessi rintracciare quella Cheryl…» «Pensi anche tu, come Monroe, che sia coinvolta?» Ne avevano parlato centinaia di volte, ma la versione non era mai la stessa. «No, non credo, anzi sì, ma non nel senso che pensa lui. Ho riflettuto a lungo su questo punto e non credo che lei volesse visionare il piccolo prima del rapimento o fargli del male. Come non penso che volesse fare del male a noi. Ci ha dato un avvertimento, me lo ricordo benissimo e ha fatto in modo che Cori avesse quel segno, una traccia per poterlo seguire. Io penso che lei sapesse molto ma non potesse fare niente più di quello che ha fatto. Io penso che volesse aiutarci.» Rimase in silenzio per alcuni minuti. «Il punto è che sicuramente qualcosa sapeva e se riuscissi a trovarla potrei farle dire quello che sa. Magari lei non poteva fare nient’altro per paura, costrizione, ricatto, chi lo sa. Ma io posso fare quello che voglio per riavere mio figlio. E sono pronta a fare un sacco di cose.»

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Il giorno seguente Charline mantenne la promessa. Si alzò con il marito alle sette in punto, fecero colazione e si salutarono con un bacio. L’unica differenza rispetto alla vita di sempre fu che lei non uscì ma si recò nello studio. Si sedette alla grande scrivania in legno, prese un block notes e lo appoggiò sul piano completamente sgombro. Accese il computer, lo collegò ad internet, verificò che la stampante fosse accesa e prese una matita. «Ora vedremo» disse piano, e iniziò a mettere giù appunti. Devin parcheggiò l’auto e salì al ventottesimo piano. Passando salutò i colleghi e fece un sorriso e un cenno alla sua segretaria che si alzò e lo seguì nel suo ufficio. Sedette e ascoltò Kellie, la sua assistente, una brunetta del Tennessee vispa come un furetto con un sorriso affabile e un carattere da sergente dei marines, che gli dava gli appuntamenti della giornata. Aveva due riunioni nel pomeriggio. Devin arricciò il naso. Come al solito il suo capo si era divertito a passargli una noia bollente. Era la causa di una famiglia di Boston contro una società di Las Vegas per un risarcimento danni. Devin Aprì il fascicolo e iniziò a leggere le carte distrattamente, quelle cause erano sempre rogne. Il marito della signora Kylie Reuben, tal Percival Poldie Potter (“Che nome assurdo!” pensò Devin), lavorava come guardia armata per una nota società di Security ed era deceduto mentre scortava il Sig. Seymour Osborne in un viaggio a Londra dove pareva che questo Osborne avesse una tenuta da mille e una notte. Il piccolo jet privato era esploso in volo mentre sorvolava l’atlantico, cause sconosciute. Tutti coloro che si trovavano a bordo erano periti e risultavano dispersi nell’oceano: il multimiliardario, le ventotto guardie della scorta, i due piloti e le due Hostess e anche la scatola nera. Le guardie avevano una assicurazione aziendale sulla vita e la compagnia aveva puntualmente versato a ogni famiglia i duecentomila dollari previsti nel contratto. A questi si era aggiunto un indennizzo personale di pari importo che il figlio del Sig. Seymour, tale Ross Osborne, aveva offerto a ogni famiglia per il lutto subito. Fin qui tutto bene. Devin continuò a leggere il fascicolo dimenticandosi completamente di Kellie che, dopo averlo osservato pensierosa per qualche istante, andò a prendere la solita tazza di caffè nero, la posò sulla scrivania dove lui avrebbe potuto afferrarla senza nemmeno smettere di leggere, e tornò nel suo ufficio. Fin qui tutto bene, se

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non fosse stato per la signora Kylie che riteneva il marito un perfetto imbecille incapace di intendere e volere e lo aveva lasciato da due anni pur rimanendone formalmente la moglie. Le carte dicevano che la signora “aveva ripetutamente cercato di far capire al marito con ogni mezzo a sua disposizione, anche pubblico e concreto (e qui Devin iniziò a sghignazzare apertamente) che, sessualmente, preferiva altre compagnie alla sua, ma lui si era rifiutato categoricamente di capire”. Al versamento di tali ingenti somme la signora Reuben si era quindi insospettita: perché la famiglia Osborne versava personalmente una cifra simile alle famiglie? Quali attività aveva potuto compiere quel cretino che giustificassero un simile intervento in aggiunta a quello dell’assicurazione? Ci doveva essere sotto qualcosa di losco. Per cui si era rivolta ad un giovane e rampante avvocato di periferia, un belloccio stempiato senza scrupoli e denaro e lo aveva convinto a fare causa alla semi sconosciuta famiglia Osborne chiedendo di raddoppiare l’indennizzo ricevuto sino a quel momento. Altri quattrocentomila dollari per il danno irreparabile che la perdita del cornuto stava causando alla signora! Devin continuò a sogghignare, tosta la tipa! Gli appunti dei suoi colleghi descrivevano la signora Reuben come una donna di facili costumi e il suo avvocato come un fallito senza un soldo molto sensibile a quel tipo di attenzioni. Insieme i due avevano prodotto una serie di argomentazioni che sfociavano nel grottesco, ad un avvocato serio erano sufficienti dieci minuti per smontare quel castello di carte. Ma qui la situazione aveva preso una piega diversa perché i legali della famiglia Osborne avevano patteggiato versando alla fine la metà della cifra richiesta. Nella norma la cosa, seppur un po’ forzata, si sarebbe chiusa con buona pace di tutti, invece la signora Reuben aveva cambiato improvvisamente strategia rifiutando sia la somma pattuita sia di firmare le quietanze risolutive. Aveva rilanciato un’altra volta dicendo che erano stati raggirati e quindi aggiungevano alla richiesta iniziale di quattrocentomila dollari, una somma analoga per il danno morale che stava subendo la signora e il danno di immagine allo studio del suo avvocato. In tutto rifiutavano qualsiasi discussione e richiedevano ottocentomila dollari in contanti.A Devin sfuggì un fischio sommesso. A questo punto la famiglia aveva finalmente puntato i piedi, ma li aveva puntati anche la

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vedova allegra. Erano trascorsi parecchi mesi senza che le cose procedessero né in un senso né nell’altro, fino a quando la famiglia Osborne si era rivolta al suo studio legale incaricandolo di mettere la parola fine alla situazione. E la pratica era arrivata sulla sua scrivania unitamente ad una nota personale del Partner anziano. Nel pomeriggio avrebbe avuto un incontro con il signor Ross Osborne in persona, amico intimo del Partner anziano, e successivamente con i due svitati. Kellie rientrò nell’ufficio con un fascicolo di corrispondenza, diede un’occhiata a Devin ancora tutto assorto nella lettura, posò il plico di carte sotto tutte le altre nell’apposito contenitore della posta in entrata ed uscì. Dopo due ore Devin si tolse gli occhiali e si massaggiò gli occhi stanchi. L’ultima settimana prima delle vacanze iniziava con una grana che non poteva rifiutare. Diede un’occhiata al contenitore della posta in entrata. Era troppa. Era più di un mese che non la smistava, aveva adottato la tecnica di uno dei suoi primi capi. “Figliolo, non preoccuparti se le carte aumentano. I problemi veri saltano fuori dal mucchio da soli, il resto non conta.” Era una buona tecnica. Scosse la testa e lasciò la posta dove si trovava, l’avrebbe fatto in un altro momento. Adesso voleva sapere come stava Charline poi un hot dog con i colleghi e quindi il multimiliardario accomodante. Settembre volgeva al termine anche se la città sembrava sempre la stessa attraverso le finestre oscurate dell’ufficio. Devin osservava la città con le mani in tasca, la cravatta allentata, una leggera smorfia inconsapevole delle labbra. Negli ultimi giorni la temperatura era calata. Le previsioni annunciavano un inverno in largo anticipo e l’avvocato Shaun pensava che questa volta ci avrebbero azzeccato. I mesi erano trascorsi lenti ma inesorabili. Il tempo porta via tutto, smussa le emozioni, sbiadisce i ricordi, annebbia la mente. Charline continuava con le sue ricerche, indomita come sempre, senza ottenere alcun risultato. Aveva quasi fatto venire l’esaurimento nervoso al povero sergente Monroe con le sue visite ripetute, le telefonate, le richieste. Il caso era ancora aperto ma la polizia non nutriva più molte speranze sul fatto di riuscire a trovare una soluzione. Avrebbero dato chissà cosa per una traccia, ma stavano perdendo le speranza di ritrovare i bambini. Charline però non demordeva. Continuava ad alzarsi

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alla stessa ora e a fare orario di ufficio nello studio di casa nel quale le pareti non esistevano più. Ovunque erano stati attaccati Post It di ogni tipo, colore e dimensione, fogli con appunti, ritagli di giornale, stralci di tabulati con numeri, cifre, schemi. Aveva anche comprato una lavagna a fogli mobili sui quali faceva schemi e diagrammi che poi appendeva alle pareti sopra gli appunti più vecchi. C’era di tutto dappertutto, mancava solo il bambino. Charline nel suo lavoro non aveva orari. Nel corso della settimana raramente cenavano insieme e se lo facevano era perché era stato Devin a cucinare. Lei a volte lavorava anche nel fine settimana. In quei casi Devin faceva spallucce e la lasciava fare. Una discussione non avrebbe portato a niente. Fortunatamente non avevano problemi finanziari, per cui il rinunciare ad uno stipendio non aveva cambiato minimamente le loro abitudini di vita. L’unico che sembrava averci rimesso era stato il loro consulente finanziario. Gli avevano dimezzato le disponibilità mensili di investimento ma Devin gli aveva chiesto di mantenere gli stessi livelli di rendimento (in valore assoluto finale ovviamente), oppure si sarebbe rivolto ad altri, in fondo il mercato ne era pieno. Il poveretto se ne era andato quasi in lacrime. Senza molta convinzione lanciò un’occhiata al mucchio della posta in entrata. Non stava più nel contenitore e Kellie aveva iniziato ad ammucchiarla per terra con chiaro astio nei suoi confronti. Lui non le permetteva di visionare la sua corrispondenza e lei non replicava e continuava a metterla in ordine inverso con la più recente sempre in fondo al mucchio. Solo era diventata dispettosa e gli faceva trovare ovunque bigliettini con memo perentori. La settimana prima ne aveva trovato uno anche sul rotolo della carta igienica nel suo bagno personale. Guardò nuovamente la posta. “Se il destino ti spinge in una direzione”, diceva sempre suo nonno, “puoi provare a resistere, ad opporti, a cambiare strada. Alla fine scoprirai di essere andato proprio dove era destino che andassi, solo avrai faticato il triplo per arrivarci.” Con un sospiro prese la prima ventina di centimetri di buste in cima alla pila ed andò alla scrivania. Non si era ancora seduto che una Kellie raggiante entrò nel suo ufficio con un bicchierone di caffè fumante e un sorriso solare sul bel volto abbronzato. Con una strizzata d’occhio ed un

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«Era ora capo!», uscì ondeggiando dalla porta e si diresse verso la sua scrivania. Era sempre bello vederla camminare, ancora di più se si metteva un filo di tacco. Lei lo sapeva ovviamente, Devin aveva fatto l’errore di complimentarsi con lei per il suo portamento una volta. Ora era una passerella ogni volta che gli voltava le spalle e sapeva che l’avrebbe guardata. Non c’era niente di serio e non ci sarebbe mai stato. Kellie conosceva Charline. Erano amiche, ma quello era un gioco sottile tra loro due, una di quelle cose che nascono da una frequentazione di lavoro che occupa più tempo di un rapporto in famiglia. Era un gioco che piaceva a entrambi e che rimaneva entro quei confini di moralità, rispetto e educazione, che raramente si instaurano negli uffici perché necessitano di intelligenza, arguzia e molta autoironia. L’avvocato Shaun, al termine della prima ora, era mortalmente stufo. Si tolse gli occhiali e si massaggiò la radice del naso. Tutta cartaccia inutile, tutto tempo perso. Voleva uscire! Invece allungò la mano e prese una busta anonima sulla quale vide scritto in nero e con una calligrafia secca e graffiante un breve indirizzo: “c.a. Avvocato Shaun. Riservata personale”. Perplesso rigirò la busta tra le mani. Non aveva timbro o francobollo, segno che era stata recapitata a mano. Non aveva data o altro segno o riferimento, solo quella scritta che rimbalzava nella sua testa come se dovesse ricordargli qualcosa. L’aprì. Il tagliacarte gli cadde dalla mano inerte mentre il respiro gli si bloccava. Caro Devin,

non preoccuparti per tuo figlio, sta bene.

Dillo anche a Charline.

Io sto vegliando su di lui e farò in modo che non gli accada niente di male.

Dille di ricordarsi sempre di ciò che le ho detto.

p.s. presta molta attenzione alle persone che incontrerai in questi giorni.

Alcune di queste potrebbero essere gli indizi che state cercando.

Non parlatene alla polizia,sarebbe inutile e pericoloso. Se non venite a

capo di niente non preoccupatevi e aspettate. Senza rumore, in silenzio.

Buona fortuna e non smettete di fare quanto lei ha iniziato.

Non smettete mai, per nulla al mondo.

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Non aveva firma, solo una “A” maiuscola. Soffocando una maledizione Devin balzò in piedi. Kellie si era già alzata, non perdeva mai un suo movimento dalla porta a vetri e aveva un’espressione perplessa sul viso. Lui la vide e le fece un cenno. «Da dove arriva? Quando? Chi l’ha portata? Che aspetto aveva? Era un uomo, una donna, un bambino? Insomma, chi ha scritto questa cosa?» Devin era tutto rosso, parlava a raffica trattenendo a stento la voce. Kellie prese la lettera e scosse piano la testa. «Non lo so Devin, davvero. Se non lo sai tu. Da come è scritta sembra una vostra amica.» «Un’amica?» Devin saltò in piedi. «Perché amica? Donna? Da dove ti viene questa idea?» «Dalla calligrafia capo, e dal tono. Ha scritto “io sto vegliando su di lui” è un’espressione femminile. Un uomo avrebbe scritto “lo sto tenendo d’occhio”, “lo sto controllando”, “lo sto aiutando”. Vegliare è un termine che usa una madre quando assiste il figlio. Un uomo non assiste, comanda e controlla. E’ una questione di DNA. E non fare quella faccia!» Devin si rilassò un attimo. Perdiana erano mesi che Kellie lo tempestava di inviti (quando andava bene) a leggere la posta e lui non l’aveva mai fatto. Non poteva certo prendersela con lei se stava leggendo quella lettera solo ora. «Non c’è data» disse poi passandosi una mano sul viso. «Sai quando è arrivata?» La smorfia sul viso di lei la disse lunga su come la pensava ma non ottenne risposta. «Hai ragione Kellie» sospirò. «E’ colpa mia, lo ammetto, ma questo non cambia le cose. La busta l’ho presa solo oggi e quindi? Devo uccidermi? L’avrei già fatto se queste dannate finestre si aprissero. Hai una pallida idea di come la prenderà Charline questa sera quando gliela darò dicendole che è stata sulla mia scrivania per non so quanto tempo solo perché io non avevo voglia di smistare la corrispondenza?» Kellie lo fissava immobile, il volto completamente privo di espressione. Era peggio di qualsiasi rimprovero e lei lo sapeva benissimo. Era in grado di tenere quell’espressione per settimane se voleva. «Kellie? Per favore!»

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«Non so quando è arrivata né chi l’ha portata. Non sono alla reception.» «Questo lo so.» «Se lo sai potresti anche evitare di fare domande stupide come quelle che mi hai fatto fin’ora. Siamo d’accordo per il futuro?» Lui annuì e rimase in attesa trattenendo quasi il fiato. «Prendo la tua agenda» disse Kellie uscendo dall’ufficio dopo un eterno minuto di silenzio. “La mia agenda? E cosa se ne farà mai?” ma Devin aveva imparato negli anni a conoscere il carattere e l’intelligenza della sua assistente e ne aveva il massimo rispetto. Dopo qualche istante lei rientrò, appoggiò l’agenda sulla scrivania prese tutte le buste sparpagliate, se le impilò con cura di fronte, prese un foglio di carta bianco e una matita. Alzò la prima busta e controllò il protocollo in entrata. Scrisse la data sul foglio e la mise da parte. Sbuffando prese la seconda e ripeté l’operazione. «Cosa stai facendo? Non c’è il protocollo in entrata su questa, ho già controllato!» «Avvocato Shaun, togliti dai piedi e lasciami lavorare. Vai a prenderti un caffè, vai in bagno, vai dove ti pare ma eclissati per la prossima ora. Se provi a tornare prima giuro che chiamo tua moglie e le confesso di essere la tua amante.» «Ma non è vero!» «Già, ma lei non lo sa. Fuori!» Devin passeggiò per i corridoi per tutta l’ora successiva. Non riusciva a stare fermo, continuava a girare e rigirare quelle poche frasi nella testa cercando di dar loro un significato. Erano importanti, molto se le avesse avute a disposizione al momento giusto, ma adesso? Stava ancora rimuginando sui suoi errori quando una collega gli sfiorò il braccio destro. «Devin?» «Sì? Oh… Ciao Sandra.» «Ciao, ma ci siamo già salutati almeno una decina di volte oggi. Lo hai fatto tutte le volte che sei passato di fronte al mio ufficio nell’ultima mezz’ora.» Lo disse con estrema serietà, era tipico della donna. «Dovresti tornare in ufficio, Kellie sta strepitando.» «Oh… grazie Sandra! Corro.»

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Kellie era seduta con il foglio di fronte e stava ricontrollando le date. Alcune erano sbarrate, un paio erano cerchiate. «Cosa hai scoperto?» «Le buste che avevi sulla scrivania coprono un periodo ben preciso: cinque mesi di attività da maggio a oggi. Non ci sono dubbi, sono io che metto in ordine di arrivo inverso la posta nella tua casella.» Fece una pausa significativa come a sfidarlo a ribattere. «In questo periodo hai incontrato settanta persone diverse. Dammi un’ora e ti stampo un elenco completo con società, nomi e cognomi, e anche la data dell’incontro, tanto non ci metto molto di più. Il resto lo devi fare tu.» Si alzò con fare deciso ma aveva gli occhi rossi: anche lei non era rimasta insensibile alla tragedia che li aveva colpiti. Devin la abbracciò. «Grazie Kellie» le sussurrò in un orecchio per poi darle un bacio su di una guancia. «Sei l’amante più splendida che abbia mai avuto. Ci metti anche l’indirizzo e il telefono in quell’elenco?» Lei gli rifilò un pizzicotto tremendo sul sedere e lui si allontanò di scatto con un gridolino di stupore. «Questo perché non smetti mai di sfruttarmi! Adesso ho da fare. E non guardarmi il culo mentre vado alla mia scrivania. Non è gentile!» Devin la guardò uscire e sprofondò ridendo nella poltrona. Se il suo cuore non fosse stato già stracolmo di Charline… quella ragazza era meravigliosa, dentro e fuori. Decise che poteva regalarsi un po’ di tempo tanto non sarebbe sicuramente più riuscito a lavorare. Prendendo l’impermeabile scese nell’atrio e andò a fare un giro nel parco. Erano le otto quando parcheggiò la Bentley sul vialetto di casa, di fronte al portone basculante del garage. Non era riuscito a tornare prima del solito, aveva voluto riflettere attentamente sulla lista di nomi e date che gli aveva fornito Kellie. Le possibilità erano ovunque ma lui pensava che solo una decina di quei nomi fossero indizi potenziali. In casa era buio. Come sempre solo una lama di luce proveniva da sotto la porta dello studio. Charline era china sulla scrivania e stava esaminando una serie di articoli di giornale sparsi ovunque sul grande piano in mogano. Sollevò lo sguardo e gli sorrise. «Ciao» disse. Aveva gli occhi cerchiati di nero.

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«Come stai?» chiese lui sedendosi sulla sedia dall’altro lato della scrivania. «Sai… non è che riesca a trovare molto, ma penso sia solo questione di tempo. Se nemmeno la polizia, con tutti i suoi mezzi è riuscita a fare niente, io devo avere pazienza.» Fece una pausa e le vennero le lacrime agli occhi. «E’ solo che a volte, qui da sola, mi sembra che sia tutto inutile e…» Cercò di continuare ma il groppo in gola le impedì di farlo. Devin si sentì stringere lo stomaco a quella vista, il carattere di sua moglie era sempre stato molto più forte del suo. Charline non poteva accettare la sconfitta e proprio per questo i momenti di crisi non mancavano. «Abbiamo una traccia» disse piano. Lei si irrigidì e lo sguardo che gli rivolse era duro. «Devin non scherzare su questo.» «Non scherzo, abbiamo una traccia. Se mi prometti una cosa te la mostro.» «E cosa dovrei promettere?» il tono era bellicoso. «Io ti faccio vedere la traccia, poi ci facciamo una doccia e andiamo fuori a cena. Hai bisogno di uscire di qui.» Charline soppesò le parole. «Non sono sicura di averne voglia» rispose poi. «Perché?» «Perché no. Piuttosto tu ordini qualcosa al take away cinese. Di uscire non se ne parla.» «Forse sarebbe meglio parlare fuori» c’era una vocina che gli suggeriva un’ipotesi assurda. «Ho già prenotato un tavolo da Tony.» «Ho detto che voglio stare in casa.» «Io penso che…» «Smettila Devin, lo so cosa stai pensando. Credi che non lo abbia pensato anch’io il secondo giorno che ho iniziato a fare questo lavoro? La squadra del sergente Monroe ha passato al setaccio tutta la nostra casa alla ricerca di microspie, cimici, insetti vari, scarafaggi e anche lucertole. E’ pulita. Fanno un giro ogni settimana e qui non entra mai nessuno. Ho anche fatto montare un’estensione al sistema di sicurezza.» Si passò una mano tra i lunghi capelli biondi arruffati e disordinati. Era più di un mese che non andava da un parrucchiere. «Questa stanza è più sicura del Pentagono.» «Hai fatto tutto questo senza dirmi niente?»

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«Ho pensato che potevo avere questo tipo di autonomia. Sbaglio? No? Bene, te ne sono grata. Ora tira fuori questa cazzo di traccia!» Come in trance Devin le porse la lettera estraendola dalla tasca interna della giacca. Charline la prese, osservò la busta dall’esterno girandola e rigirandola tra le mani. Tremava e sembrava tutt’altro che ansiosa di aprirla, quasi terrorizzata. Poi fece un lungo respiro ed estrasse il foglio piegato in tre all’interno. «Buon Dio. Cheryl!» «Come fai a dirlo? E’ firmata con una “A”.» Lei sospirò, rilesse la lettera altre due o tre volte, e iniziò a piangere. «E’ scritta da una donna» rispose tra un singhiozzo e l’altro, le lacrime che cadevano a bagnare la lettera che ancora teneva tra le mani. Devin gliela tolse con delicatezza e la spostò, non voleva rovinare una prova sulla quale avrebbero forse dovuto in futuro far fare delle indagini. «Non ci sono dubbi. E poi ha fatto un accenno ben preciso a quello che mi ha detto in ospedale. Ha detto che la nostra vita e quella di nostro figlio sarebbero dipese dalla mia capacità di reagire, dalla mia forza. L’ha scritta lei, non ho dubbi. Dimmi il resto.» «E’ lungo. Prima la doccia.» «E’ arrivata oggi?» «No, questo è il problema. E’ arrivata tre o quattro mesi fa.» «E perché te l’hanno data solo oggi?» «L’ho sempre avuta» questa era la parte più difficile. «Da mesi mi rifiutavo di leggere la corrispondenza. Non ce la facevo proprio. Kellie è arrivata alle minacce fisiche, ma io non ci sono comunque mai riuscito sino a oggi pomeriggio. Mi dispiace Charline.» Anche lui stava piangendo. Lei sorrise piano, asciugandosi le lacrime con la manica stropicciata. Si alzò, girò intorno alla scrivania e gli si sedette sulle ginocchia. Passò qualche momento ad accarezzargli i corti capelli ricci senza togliere gli occhi dai suoi, poi lo abbracciò. «Cori sta bene» sussurrò mentre lui non riusciva a trattenere le lacrime, la tensione era troppo forte. «Come puoi esserne sicura?»

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«Perché una madre può sentire queste cose e perché Cheryl veglia su di lui. E’ tosta quella tipa. Non so perché mi fidi di lei, dovrei dubitare di tutto e di tutti, di lei soprattutto. Ma penso che sia così. Hai ragione tu. Ora doccia e poi Tony.» «Ma prima avevi detto…» «Mi sbagliavo. Ora mettiamo questa cosa in cassaforte e ci prendiamo una serata per noi, è tanto tempo che non lo facciamo e mi sembra che oggi sia una buona occasione per festeggiare. A cena parliamo e domani ricominceremo a lavorare, non è così avvocato? Quanti giorni di ferie ti sei preso?» Devin era stupito e sollevato, non sarebbe mai riuscito a sorprenderla, lei invece lo faceva quasi tutti i giorni da quando si conoscevano. Da quella sera di tanti anni prima non aveva mai smesso. «Tutti quelli che servono.» «Bene. Allora metti via la lettera e vai a lavarti. Puzzi di sudore nervoso.» «Ero terrorizzato.» «Si sente!» lei arricciò il naso con aria sbarazzina e gli occhi brillanti.

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I primi dei La giornata volgeva al termine e Kendeas tornava lentamente verso la baracca che chiamava casa. L’autunno era arrivato presto e la brina era già scesa a imbiancare il terreno in più di un’occasione. Il giovane aveva la zappa sulle spalle e camminava piano. Aveva lavorato tutto il giorno nei campi, fermandosi solo intorno a mezzogiorno per mangiare un boccone. Gli Iloti preparavano il terreno per l’inverno girando la terra e cospargendola con il letame che i Perieci portavano sino ai campi in grandi carri di legno trainati da buoi. Nei primi anni di schiavitù Kendeas aveva osservato i Perieci chiedendosi se a loro fossero state concesse vite migliori, poi aveva capito che non era così e non ci aveva più pensato. Spesso però pensava ancora alla civiltà che rivedeva attraverso ricordi sfocati di bambino. Ricordava ancora la televisione, il telefono, gli hamburger e gli hot dog nei giorni di festa. Ricordava una vita dura ma serena, con affetti e sorrisi finché tutto era cambiato improvvisamente, in un solo, terribile giorno. Erano passati sette anni ma l’incubo della cerimonia per “Entrare nel passato” era ancora vivo nella sua mente. Tutti i bambini erano stati marchiati a fuoco. Qualcuno gli aveva immobilizzato il braccio destro a terra e un sorvegliante gli aveva appoggiato un ferro rovente sull’esterno dell’avambraccio. Era distratto, fumava una sigaretta e parlava con un amico di cose che il ragazzo, in preda al terrore ed al dolore più assoluti, non capiva. Leandro aveva sentito la carne sfrigolare sotto il ferro e aveva vomitato pensando che sarebbe morto. Qualcuno gli aveva dato uno schiaffo. Per un momento aveva fatto più male del braccio. Una maestra aveva cosparso la ferita con del miele e ci aveva messo una benda che puzzava di vino. Alle sue spalle qualcun altro aveva iniziato ad urlare ma lui era svenuto. Kendeas attraversò un piccolo ponticello di legno oltrepassando uno degli innumerevoli canali che gli Iloti avevano scavato in quegli anni per portare le acque dei due fiumi, l’Eurota Occidentale e quello Orientale, nei campi coltivati a Sud della città e continuò a seguire la strada sterrata che conduceva ad Amicle, il villaggio degli schiavi. Amicle era una baraccopoli come quelle in cui alcuni ragazzi, i più grandi, ricordavano di aver vissuto

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con i loro genitori prima che i signori del Progetto arrivassero con le loro grandi auto nere. Le baracche di legno erano tutte uguali, con un piccolo pezzo di terra sul retro che doveva servire come orto personale e un’unica stanza rettangolare. Le latrine erano poste abbastanza lontano per evitare che i miasmi e la sporcizia portassero malattie. Le baracche non avevano niente, nemmeno l’acqua, solo una piccola stufa di terracotta per l’inverno. Seguendo il filo di pensieri lontani, sempre con la grande zappa in spalla, il sedicenne schiavo si avvicinò alla porta meridionale e si accorse che i quattro spartani di guardia non erano soli. Due donne molto belle, in abiti succinti, parlavano con loro ed una delle due lo stava osservando. Il giovane abbassò gli occhi ed accelerò il passo. Dovevano essere delle Dee, non le aveva mai viste prima e non era prudente essere colti ad osservarle. Kendeas era alto e aveva lunghi capelli corvini che portava legati in fronte con un laccio di cuoio. Aveva un fisico possente, la vita stretta e le spalle larghe, il passo sciolto anche dopo una giornata di duro lavoro. Le due lo notarono e la sua tranquillità durò fino alla terza ora dopo il tramonto. Una mano imperiosa bussò alla porta della sua baracca ed un drappello di sei spartani armati di tutto punto entrò nella sua povertà. Non parlarono e non furono gentili. Lo picchiarono, gli legarono le mani dietro la schiena e lo obbligarono a seguirli. Il drappello attraversò le stradine buie del villaggio degli schiavi, raggiunse la Piazza del Mercato, salì verso il Palazzo del prezzo del bestiame e ridiscese a Limne, il villaggio con le dimore degli Dei. Kendeas passando scorse sulla sua destra Cinosura, il villaggio dei Perieci, con le sue piccole case ordinate e pulite, le vie strette con le piccole lampade che i Perieci, noiosi oltre ogni limite, mantenevano accese a turno. Era un rito contro gli spiriti della notte e i Perieci prendevano i riti e le tradizioni molto sul serio. Kendeas riuscì a sorridere nonostante il terrore: ma quale tradizione se solo una decina di anni prima quei ragazzi parlavano in spagnolo con le loro madri che, come la sua, di Sparta non avevano mai sentito parlare? Quando erano entrati nel passato era cambiato tutto. A Sparta Iloti e Perieci non potevano essere amici. Il drappello si fermò di fronte a una casa uguale a tutte le altre. Erano belle le case a Limne, adatte a ospitare gli Dei quando volevano camminare tra i mortali. Erano bianche con le tegole rosse, grandi, pulite, ordinate. Un

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piccolo portico sul retro dava loro un aspetto signorile e un giardino curato con aiuole di rose e fiori di ogni colore tipici per ogni stagione le vestiva all’esterno. La porta si aprì e comparve una delle due Dee. Era completamente nuda e il suo corpo mandava riflessi lucidi alla luce delle molte candele accese all’interno dell’abitazione. Era cosparsa di olio e ricoperta di gioielli. «Benvenuto!» La voce era musicale nei toni morbidi della lingua degli dei. Kendeas non rispose, nessuno gli aveva detto che poteva farlo. La donna scese i tre gradini dell’ingresso e si avvicinò ancheggiando mentre il giovane cercava di ritrarsi terrorizzato fino a quando mani rudi non lo fermarono. «Perché non rispondi?» chiese lei accarezzandogli una guancia ispida con una mano morbida come la seta. «Perdonami dea» rispose Kendeas inginocchiandosi. «Non pensavo ti rivolgessi a me.» La donna rise. «Che gentile! Puzzi come un maiale ma sei bello. Ci divertiremo.» Si rivolse al comandante. «Portatelo dentro e andatevene.» Kendeas venne sollevato di peso e gettato nella casa. Gli Uguali gli tolsero il chitone lacero ed il perizoma e lo obbligarono a terra a faccia in giù legandogli le mani dietro la schiena. Il ragazzo aveva freddo e tremava per il terrore. Quando gli Uguali se ne andarono e lo lasciarono con le due donne, una aveva in mano una piccola frusta dall’aspetto sinistro. Kendeas avrebbe voluto parlare ma non fece in tempo ad aprire bocca che una scudisciata sanguinosa sulle natiche lo fece trasalire. Una delle dee rise, l’altra lo afferrò per un braccio e lo fece voltare su di un fianco. La prima frustata sui genitali lo lasciò senza fiato, la seconda gli strappò un gemito furioso, la terza lo costrinse ad urlare senza vergogna. Le dee risero ancora. «Bravo cucciolo» disse una prendendogli il mento e sollevandolo in modo da guardarlo in faccia mentre, livido, cercava di ritrovare il respiro. Il dolore era insopportabile. «Preferisci l’inferno o il paradiso? Non rispondi? Lo scopriremo noi, non temere.» Un’altra sferzata piombò sulle sue parti più sensibili e Kendeas perse la nozione del tempo, dell’orgoglio e della volontà. Nei due giorni successivi avrebbe urlato molto a lungo. Quando quella terribile esperienza finì

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impiegò molti giorni per riprendersi dalle ferite, ma dopo anni non aveva ancora dimenticato la vergogna. La stessa notte in cui Kendeas conobbe la frusta, un uomo alto con i capelli incolti, lunghi e più grigi che neri, uscì nella sala controllo del bunker sotterraneo. Di fronte a lui, due personaggi vestiti in modo anacronistico attendevano in silenzio. La donna era stupenda. Alta, rossa di capelli, con una gonna corta ed una scollatura vertiginosa avrebbe catturato l’attenzione di un morto. Ma erano gli occhi ciò che di lei colpiva maggiormente: scuri e profondi. Erano occhi selvaggi, indomiti e con una nota di pazzia. L’uomo era alto e slanciato, con il volto abbronzato e scolpito nella pietra. Il nuovo venuto salutò con un lieve cenno del capo, i due risposero in modo analogo. Non vi furono convenevoli, l’ospite era venuto per un motivo preciso e solo per quello: aveva acquistato l’opzione Platinum. Due ore dopo attendeva la schiava destinata al suo piacere in compagnia della donna dai capelli rossi. Erano entrambi nudi ed avevano appena terminato di fare sesso in un modo strano, esagerato, animale. Ma erano appagati, o almeno la donna presumeva che lo fossero. Quando la schiava fu fatta entrare nella stanza l’uomo non si mosse mentre la donna, che aveva detto di chiamarsi Veronika e di essere la regina di Sparta, distolse lo sguardo. La schiava si era gettata a terra e la stava implorando in una lingua che l’uomo non conosceva. Lui si alzò agilmente, si chinò e sferrò un colpo secco con il taglio della mano alla nuca della ragazza. La poveretta svenne e l’uomo se la caricò in spalla come un sacco di patate. Aveva una strana espressione negli occhi, quasi sognante. La bella Veronika, all’anagrafe Jolene Milford, non era mai stata una brava ragazza, ma quando vide l’uomo gettare di peso la sventurata su di un tavolo in alluminio come quello dei veterinari, con i fori per lo scolo dei liquidi organici, ebbe veramente paura. Immobile sul divano cercò di darsi un contegno accendendosi una sigaretta mentre l’uomo legava e spogliava la ragazza. Poi lui prese alcuni attrezzi chirurgici da un tavolino e si chinò sopra la sventurata. Dopo un attimo la giovane si svegliò e iniziò ad urlare in modo incontrollato. A quel punto la coraggiosissima regina di Sparta perse ogni ritegno e si precipitò nuda fuori dalla stanza come inseguita dai diavoli

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dell’infermo. Il giorno dopo l’uomo si sedette nello scompartimento privato del treno sotterraneo pronto ad affrontare la prima tappa del lungo viaggio di rientro. Aveva speso bene i suoi soldi: lo avrebbe rifatto prima o poi. Nello stesso momento sei addetti alle pulizie affrontavano il lavoro più duro della loro vita. Alcuni vomitarono, uno si rifiutò di proseguire e se ne andò. Lo avrebbero trovato morto alcuni giorni dopo con un palo aguzzo piantato nel corpo e infilato a testa in giù nelle latrine degli schiavi. Gli efori sostennero che si era trattato di uno sfortunato incidente. Una settimana più tardi Adam Bailey sedeva nella grande poltrona in pelle che troneggiava nel suo ufficio a Los Angeles. Era soddisfatto: aveva finalmente riempito un vuoto della sua vita. In passato avrebbe voluto provare quelle emozioni molte volte, ma la paura lo aveva sempre trattenuto: in California esisteva ancora la pena di morte. “Vedi figliolo, nessuno è tanto potente da essere al di sopra della legge” aveva detto il commissario di polizia mentre portava via suo zio con l’accusa di stupro e sevizie e alcuni mesi dopo, nonostante tutto il suo patrimonio, gli amici influenti e i migliori avvocati, l’uomo era stato giustiziato con un’iniezione letale. Sua madre, una donna timorata di Dio e noiosa come la morte, aveva voluto che il piccolo Adam assistesse all’esecuzione dello zio che adorava in modo da imprimergli bene il sacro terrore per l’illegalità. Aveva ottenuto il suo scopo, Adam da quel giorno aveva paura. Così aveva imparato ad aspettare. La segretaria fece capolino e annunciò la persona che stava aspettando. Ross Osborne aveva tanti difetti ma era sempre puntuale come un orologio svizzero. Bailey si alzò e i due si strinsero la mano. Dopo la morte del Grande Vecchio, Ross si era dimostrato molto più maturo di quanto Bailey si fosse mai aspettato ed i loro vecchi rancori erano stati immediatamente dimenticati in funzione del business comune. Ross Osborne non aveva perso tempo e aveva dimostrato subito a tutti gli Eletti che gli affari li sapeva gestire bene tanto quanto il vecchio genitore per cui alla fine Bailey, che non riusciva più a trattenersi, aveva gettato al vento la prudenza ed acquistato un’opzione Platinum. Ora Osborne voleva le sue impressioni e si sedette senza attendere l’invito. Bailey sorrise sedendosi a sua volta.

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«Lieto di vederti Ross. Come stai?» «Bene grazie, Adam. Tu piuttosto?» «Decisamente rilassato e… soddisfatto.» «Davvero?» le pupille di Ross si dilatarono leggermente, segno che aveva temuto il rientro dell’amico del padre. La sua parola aveva un peso importante nel mondo degli Eletti. «E’ quello che ho detto.» Adam Bailey spinse verso di lui un vassoio d’argento su cui erano posati una bottiglia di scotch, il cestello del ghiaccio e un paio di bicchieri. «Il tuo “Newold World” è un piccolo gioiello, un sogno, una miniera d’oro. Tuo padre ha avuto ragione. Mai visto e provato niente di simile.» Ross versò il whiskey studiando l’uomo che sedeva dall’altra parte della scrivania, quindi iniziò a sorseggiare il liquore con calma, sempre senza staccare gli occhi dal suo interlocutore. «Dunque il tuo giudizio è completamente positivo?» «Sì.» «Suggerimenti?» «Qualcuno» Bailey si versò a sua volta una dose generosa di liquore ma aggiunse parecchi cubetti di ghiaccio. «Sei pronto a starmi a sentire?» «Sono tutto orecchi.» Dopo due ore Ross Osborne uscì dal grattacielo e si avvicinò alla limousine nera che lo attendeva a pochi metri dalle porte girevoli in cristallo scuro. Era decisamente soddisfatto. Adam Bailey lo aveva terrorizzato quando gli aveva chiesto di acquistare un’opzione Platinum, non poteva non acconsentire viste le informazioni di cui Bailey disponeva. Ora la bilancia era tornata in equilibrio, Ross aveva registrato ogni singolo attimo della sua permanenza a Sparta. “Per tutti gli dei!”- pensò mentre l’auto partiva, - ”quell’uomo era pazzo!”.

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PARTE TERZA

Dagli Alloggiamenti all’Età Virile

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Dieci anni di mercato Ross Osborne sorseggiava un drink e guardava le montagne scorrere sotto il piccolo jet privato diretto a Newold World. Negli ultimi anni vi era andato spesso, almeno tre volte l’anno. Sparta era la sua preferita, Atene e Tebe erano così noiose. Sorrise alla hostess che gli porgeva un pacchetto di sigarette, ne prese una e l’accese aspirando alcune boccate per rilassarsi. Era sempre iper attivo quando andava a Sparta: poter disporre della vita e della morte di migliaia di persone era elettrizzante! Passò la sigaretta nella mano sinistra e scrisse un paio di appunti su di una piccola agenda tascabile. Newold World era un segreto perfetto e tale doveva rimanere. Osborne non si stancava mai di perfezionarne la logistica, il mistero, il business. Aveva riempito quel piccolo mondo con le più moderne tecnologie e la Sala Controllo nel bunker sotterraneo poteva competere con quelle del pentagono. Newold World era il luogo dove il Grande Fratello di Orwell diventava realtà. Tutto, proprio tutto ciò che accadeva a Sparta era osservato, ascoltato catalogato, registrato e archiviato. In ogni momento, in ogni luogo, sempre. Espirò del fumo e i suoi pensieri si spostarono sul listino prezzi. Aveva previsto tre opzioni per chi volesse andare a Sparta, Silver, Gold e Platinum. Nessuno aveva mai acquistato le prime due nonostante la Platinum costasse oltre cinquanta milioni di dollari. Probabilmente la sua formula di “prelievo di ragazze senza obbligo di restituzione” era vincente. Sorrise. “Tranne che per le ragazze!” Spense la sigaretta e chiamò la Hostess. Gli era venuta voglia d’altro. Il giorno dopo al tramonto l’ascensore si aprì nel profondo della Collina degli Dei, venti piani al di sotto dell’Acropoli e Ross Osborne trovò ad attenderlo il generale Algernon, ora Agisaleus, re di Sparta, in compagnia della splendida regina Veronika, all’anagrafe Jolene Milford, una ex squillo d’alto bordo della City londinese. Agisaleus era invecchiato in quegli ultimi anni ma conservava ancora il fisico asciutto dei militari di carriera. La Milford invece portava i suoi quarantotto anni come e forse meglio di una ventenne. Ross la “conosceva” bene e ne aveva un’altissima opinione. «Benvenuto Mr. Osborne» il Generale Algernon tese la mano che Ross

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strinse con decisione. Veronika sorrise e porse la propria che lui portò alle labbra. «Mia signora» rispose piano. «Sempre galante, Mr. Osborne. E’ un piacere rivederla.» «Essere galanti con lei è un obbligo molto piacevole regina.» Poco dopo, seduti su comodi divanetti in pelle di fronte all’ampia parete stracolma di monitor, con un drink in mano, Osborne aprì la discussione. «Come vanno le cose?» «Bene, signore. I ragazzi crescono in fretta e bene, l’esercito si sta formando. Penso che potremo essere pronti per la battaglia anche prima del previsto.» Chiudere in fretta la partita e andare a godersi il premio ed un meritato riposo nei mari del Sud per Algernon negli ultimi anni era diventato quasi un pensiero fisso. Povero illuso! Nessuno avrebbe mai lasciato Newold World con le proprie gambe. «Non abbiate fretta, generale. Questo giochino comincia a rendere. Nei prossimi mesi sarete invasi da una marea di ricchi sfondati ansiosi di vestire i panni di Dei capricciosi a discapito dei poveri mortali. Per il momento non ho nessuna fretta di far combattere i ragazzi, mi rendono un sacco di soldi così come sono.» «Gli accordi con vostro padre erano diversi.» «Mio padre è morto.» «Quindi?» Ross non rispose e i due uomini si fronteggiarono per un lungo istante. Osborne non era in una posizione facile, nessuno oltre ai presenti sapeva chi era realmente. Agisaleus avrebbe potuto farlo uccidere con una parola e nessuno nel mondo civile avrebbe mai capito dove era finito, ma Agisaleus era avido e la morte di Osborne avrebbe pregiudicato i suoi guadagni. Un’immagine sugli schermi attirò la loro attenzione. «Chi è quella ragazza con i capelli biondi?» chiese Osborne. Algernon lanciò uno sguardo interrogativo alla regina. «Si chiama Helene. E’ una delle migliori degli Alloggiamenti Olimpo.» «Davvero notevole», Ross Osborne sembrava molto interessato alla ragazzina che sgambettava su per una collina. «Quanti anni ha?» «Undici o dodici.»

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«Partiamo da lei. Voglio che sia tenuta sotto stretto controllo. Non le deve accadere nulla. Mi sono spiegato?» Osborne attese qualche momento ma non vi furono obiezioni. «Bene, abbiamo del lavoro da fare. Stavolta niente visita. Osserveremo i ragazzi e le ragazze, prenderete i nomi di quelli che vi indicherò e stilerete delle liste. Ne faremo una di “intoccabili” e una di “superiori”. Chi sarà inserito in queste liste non sarà a disposizione degli Dei. I “superiori” dovranno essere addestrati meglio e più duramente degli altri. Sono i futuri comandanti delle falangi. Tutto chiaro?» «Cristallino MR. Osborne.» Veronika sembrava delusa. «Allora iniziamo.»

Mentre Osborne iniziava a stilare la lista degli Intoccabili, Charline Kourtney Shaun rientrava a Los Angeles dopo l’ennesima settimana trascorsa in giro per il mondo cercando di trovare un bandolo in quella matassa. La donna guardava fuori del finestrino le grandi nuvole bianche e gli sprazzi di terreno lontano senza vederli realmente. Erano dieci anni che inseguiva un miraggio e si sentiva stanca, delusa, svuotata. Ma non sconfitta. Niente poteva sconfiggerla finché lottava per la sua famiglia. Charline non aveva mai avuto una famiglia vera. La madre sconosciuta, il padre sognatore che a otto anni l’aveva abbandonata per inseguire un miraggio. Niente zii, nonni, niente di niente. Solo quella lontana cugina con cui l’avevano lasciata, più un’estranea che altro. In questo scenario il suo matrimonio con Devin era tutto. Avevano trascorso anni stupendi e infine un bel bimbo, il loro bimbo. E l’inizio dell’incubo. Anni di angoscia, vuoto infinito, solitudine e lacrime. Buio. Poi quella lettera, una speranza e l’inizio di una nuova ricerca. Dopo due mesi tre nomi erano rimasti in evidenza, uno di questi era Osborne. Charline sentì i crampi allo stomaco: quel nome faceva male. Nessuno al mondo oltre a lei sapeva che quello era il cognome di sua madre, nessuno poteva nemmeno immaginare che Charline Kourtney Shaun fosse una Osborne. Le lacrime iniziarono nuovamente a scorrere.

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Primi incontri Helene scattò verso la cima della collina. Aveva le gambe stanche e graffiate in più punti, ma sorrideva felice. Lo faceva sempre quando correva e più la sfida era ardua più sorrideva. Superò una roccia con un balzo, ricadde e in due passi tagliò il traguardo sotto lo sguardo truce della maestra. Dopo un attimo arrivarono Ariadne e Tabetha sgomitando come matte e, lentamente, anche tutte le altre, compresa Poplia, ultima come al solito. La maestra le osservò rimanendo nel più completo silenzio, aveva appena finito di annotare qualcosa sulla pergamena che portava sempre con sé. Le cinquanta ragazze erano ferme a poca distanza, in piedi, ansanti, le mani sulle ginocchia. «Bene signorine. Adesso vediamo come ve la cavate in una corsa seria.» Le ragazze la guardarono sbigottita. Una corsa seria? Quella era durata più di mezz’ora ed era finita in cima a quella collina, un dislivello di quasi duecento metri che le ragazze avevano dovuto compiere salendo in verticale. Erano andate su dritte come una lancia, non erano ammesse variazioni al percorso tracciato. Helene sospirò. Anche quel giorno, come tutti, il programma era lo stesso. Sveglia all'alba, colazione frugale con pane raffermo, acqua di sorgente e verdure crude, quindi abluzioni veloci e allenamento. La maestra continuò imperterrita. «Due giri della Collina degli Dei partendo da qui, arrivo al Lago dell’Amore. Le ultime quattro faranno un altro giro.» Le ragazzine si guardarono in cagnesco iniziando a valutarsi a vicenda. Poplia iniziò a piagnucolare. «E’ ammesso tutto… come in guerra. Andate!» Le cinquanta ragazze scattarono giù dalla collina a rotta di collo, seguendo la linea che avevano percorso all’andata. Helene non andò in testa, cercò di riflettere perché la gara era molto lunga. Ogni giro era più di sette chilometri e ricco di insidie. E il Lago dell’Amore era dalla parte opposta dell’Acropoli rispetto alla loro attuale posizione. In sostanza due giri e mezzo, quasi venti chilometri! Non avendo la forza per staccare tutte, decise quindi per una tattica di attesa, rimanendo verso il fondo del gruppetto e mantenendo le avversarie più pericolose davanti. Poplia scivolò

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e cadde rovinosamente per diversi metri, superandola rotolando. Il ruzzolone sembrava non finire mai e la ragazzina rischiava di fermarsi solo in fondo alla discesa sulla Strada dei Vincitori, la grande via lastricata in pietra che conduceva al Campo di Addestramento dove si allenavano i ragazzi. Helene provò pietà per la sua amica. A dodici anni Poplia era grassoccia nonostante tutto il lavoro e l’allenamento, ma era sempre dolce e simpatica. Una gomitata nelle costole le strappò un grugnito e le fece perdere il passo. Akylina la sorpassò correndo leggera con un ghigno feroce sul volto. Helene non replicò e continuò a correre. Vincere non le interessava, tutto ciò che voleva era evitare di fare un altro giro. Dopo quasi un’ora il gruppo si era sfilacciato in una linea lunga un quarto di giro, Helene si manteneva a metà plotone, la gomitata di Akylina le faceva ancora male e le procurava delle fitte ad ogni respiro. Le prime erano molto avanti, non le avrebbe più prese, ma dietro ne aveva ancora una quindicina, la situazione era tranquilla. Alzò gli occhi e vide che il sentiero girava intorno ad una roccia grande quanto una casa, immersa nel verde e coperta di muschio. Due pini sulla destra obbligavano il passaggio a ridosso della roccia e non si vedeva oltre, la curva era troppo stretta. Helene ebbe una strana sensazione, quel posto era l’ideale per un’imboscata. Saltò un cespuglio di mirto e si gettò a rotta di collo attraverso il bosco, graffiandosi le gambe nude sui cespugli spinosi che incontrava sulla sua strada, abbassando la testa per schivare i rami bassi dei pini e delle sugherete contorte. Un grosso sasso la colpì ad una coscia strappandole un urlo di dolore e facendola cadere rovinosamente a terra. Alcune risate accompagnarono la sua caduta. «Brava Helene. Sempre la migliore Helene! Prova a vincere oggi, dea della corsa!» Fece per rialzarsi quando una mano forte le afferrò un braccio e la costrinse a terra. Con il respiro che le veniva meno si voltò e incontrò lo sguardo degli occhi grigio azzurri più belli che avesse mai visto. «Non rispondere» disse il giovane, «aspetta.» La ragazzina lo guardò stupita. Aveva già visto quel ragazzo di poco più grande di lei, anzi lo guardava spesso di nascosto mentre si addestrava. Una volta i loro sguardi si erano incrociati per qualche breve attimo. Helene

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aveva anche provato con molto tatto e senza alcun risultato a capire chi fosse. Era proibito mostrare interesse verso i ragazzi degli Alloggiamenti. Ad una ad una le ragazze che la seguivano sfilarono sul sentiero aggirando indenni la roccia. Ne mancavano solo cinque. «Devo andare» sussurrò Helene con un filo di voce, «non posso aspettare oltre.» «Perché?» il giovane la osservò con quei suoi occhi strani e il cuore di Helene perse un colpo. «Punizione» sussurrò. «Dovrò fare un altro giro.» «Capisco. Aspetta qui. Quando sentirai il verso del cuculo esci e continua la tua corsa. Sarai al sicuro.» Il ragazzo si mosse con una scioltezza impressionante ed in un attimo fu in piedi, Helene fece appena in tempo ad afferrargli il chitone. «Perché fai questo per me?» chiese piano. «Perché no?» rispose lui con un ghigno da lupo. «Hai delle belle gambe per essere una ragazza.» «Anche tu per essere un uomo.» «Io non sono ancora un uomo, ma lo diventerò presto. Ora devo andare. Finisci la tua corsa, Helene dalle belle gambe.» «Non so nemmeno il tuo nome!» «Leonida» fu la fugace risposta mentre schizzava via. «Ehi, dea della corsa. Sei ancora nascosta in quel buco?» Risate, più di una. Poi un gemito improvviso e un tonfo seguito a breve distanza da altri due, quindi un cuculo cantò piano. Helene saltò il cespuglio e riprese la corsa zoppicando leggermente, un grosso livido le si stava formando sulla coscia destra. Tre ragazze giacevano distese sul sentiero prive di sensi. Sulla roccia non si vedeva anima viva. Helene sorrise e continuò a correre. «Grazie Leonida dagli occhi azzurri!» «Non è il caso che strilli così forte» il ragazzo si materializzò al suo fianco. «Qualcuno potrebbe sentirti e non ho bisogno che i miei “amici” inizino anche a canzonarmi per il colore degli occhi.»

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«Hai finito di farmi paura? Ma ti sembra il caso?» Helene gli lanciò uno sguardo che avrebbe incenerito un albero, Leonida si limitò a scrollare le spalle. «Sei carina» disse poi. «Hai intenzione di continuare a importunarmi ancora a lungo? Chi te ne da il diritto?» Il ragazzo non rispose. Continuava la sua corsa apparentemente senza sforzo e Helene sentì una furia immensa crescerle dentro. Non aveva chiesto lei che l’aiutasse, non voleva la sua pietà. Era una spartana e sapeva difendersi da sola. Improvvisamente Leonida allungò il passo. Helene cercò di tenergli dietro ma non era possibile, era come inseguire il vento. Il ragazzo si allontanava con il chitone che sventolava leggero e i sandali chiodati che sembravano sfiorare appena il terreno battuto. “Bene”, pensò in affanno, respirando a fatica. Cominciava ad essere veramente stanca.”Almeno me ne sono liberata.” Aggirò un cespuglio di rovi e edera particolarmente grande che soffocava un piccolo castagno e vide a terra altre due ragazze, sembravano addormentate. Una corda attraversava il sentiero, era stata tagliata e di Leonida non c’era traccia. Helene scosse la testa e continuò a correre ormai allo stremo delle forze, i polmoni pesanti, la gamba destra priva di sensibilità e alla fine arrivò dalla maestra che annotò il suo nome sulla lista e la congedò rapidamente con una smorfia di disgusto. Lentamente, la giovane si avvicinò al Lago dell’Amore si spogliò e scivolò in acqua immergendosi completamente e bevendo qualche piccolo sorso. Quando riemerse vide che anche le altre ragazze erano nude e stavano cercando ristoro. Abbassò lo sguardo sul suo corpo ed ebbe un moto di orgoglio. Aveva tredici anni e iniziava a sbocciare e a Sparta le ragazze passavano tutto il loro tempo a valorizzare il proprio corpo. Qualcosa le fece alzare gli occhi sul lato della collina dell’Acropoli che le stava di fronte, un dirupo di rocce franate nei secoli, coperte di muschio e vegetazione con cespugli spinosi e radi alberelli contorti che crescevano con difficoltà in mezzo a massi giganteschi. Una testa bionda sbucò da un cespuglio. Nonostante la distanza Helene poteva quasi vedere il colore di quegli occhi. Rimase immobile, senza respirare, consapevole della propria nudità, timorosa e

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fiera al tempo stesso di esporla. Leonida sorrise e avvicinò una mano alla tempia e la mosse leggermente in avanti in un segno di saluto universale poi scomparve nuovamente tra le fronde. Helene riprese a respirare e si scoprì a sorridere elevando una preghiera silenziosa a Atena, la sua Dea preferita, perché proteggesse un giovane gentile e spavaldo dalle cure di Sparta.

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Il tuo onore è il mio onore

Leonida sgusciò fuori dagli alloggiamenti seguito a breve distanza da Dorymendon. Da qualche mese i due facevano coppia fissa e si divertivano un mondo. Leonida, serio, posato e letale con le armi, Dorymendon che pensava solo a divertirsi e che recentemente aveva scoperto l’esistenza di una cosa meravigliosa chiamata “ragazze”. I due, così diversi, trovavano nell’amico una naturale compensazione ed erano diventati inseparabili. «Ragazze?» chiese Dorymendon mentre correvano nei vicoli scuri, passando di ombra in ombra e cercando in ogni modo di evitare la luce delle lanterne. La ronda pattugliava le vie di Sparta dal coprifuoco all’alba e non era salutare farsi acciuffare, significava trenta frustate il giorno successivo, dose doppia di lavoro con un solo pasto di mezza razione nell’Angolo della Vergogna per almeno una settimana. Per un giovane spartano quella punizione era quantomeno imbarazzante! Il bello era che se non dovevi uscire, non potevi nemmeno stare negli Alloggiamenti. I Paidotribi facevano il giro delle camerate e buttavano fuori i ragazzi a turno. Era un’altra perversa forma di addestramento che durava da un’ora dopo il tramonto sino alla mezzanotte, ora in cui era permesso rientrare. «Cibo!» sussurrò Leonida. «Ho una fame che non ci vedo e quel brodo nero con quel pane schifoso stasera non mi andava proprio giù.» «Bah… io ho trovato la tua razione migliore della mia.» Dorymendon sorrise divertito. Se a pranzo spesso mangiavano carne e verdure, a cena avevano sempre e solo brodo nero con qualche pezzo di pane vecchio. Una vera tortura. «Che tu possa scendere all’Ade prima di me!» fu la brusca risposta di Leonida e Dorymendon dovette fare uno sforzo notevole per non scoppiare a ridere. Una porta si aprì improvvisamente avanti a loro e un arco di luce fioca inondò il vicolo sporco. I due ragazzi si appiattirono contro il muro come due gechi sulla calcina. Dall’interno arrivò il suono della grassa risata di un Comandante, poi una donna si sporse e gettò un secchio di acqua sporca in strada senza guardarsi intorno. La porta si richiuse e i due ripresero a respirare.

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«Pensa se ci avessero preso con quella secchiata di… che schifo!» Leonida lanciò un’occhiataccia all’amico. «Sssh, non è serata. Prima troviamo qualcosa da mettere nello stomaco, poi penseremo a scherzare.» «Un vero guerriero spartano, non c’è che dire» fu la irriverente risposta. Leonida non rispose e riprese a correre. Avevano una meta precisa, l’unico posto a Sparta dove fosse possibile trovare cibo da rubare: le baracche degli Iloti. Non potevano fare il percorso più comodo perché le strade erano larghe e senza nascondigli e la Ronda li avrebbe presi subito, per cui i due ragazzi erano costretti a percorrere i vicoli tortuosi che serpeggiavano tra le casette alle pendici della Collina degli Dei. Dal momento che tutti passavano per quei vicoli, zuffe e risse tra gruppi rivali erano frequentissime e il tutto era quasi più pericoloso che essere presi dalla Ronda, per cui Leonida quella sera aveva optato per un altro percorso che attraversava i giardini delle case dei Sorveglianti. Mezz’ora dopo si fermarono ansanti oltre la Porta Sud. Oltre la Porta erano in terreno neutro e non dovevano più temere la Ronda. La sera era tiepida, nell’aria aleggiava il profumo dell’estate che sta finendo, nel cielo limpido rilucevano migliaia di stelle lontane, fredde, irraggiungibili. Lontano un gufo emise il suo verso lugubre nella notte. Mancavano ancora due ore a mezzanotte, avevano tutto il tempo di rubare, mangiare e tornare. Leonida iniziò a percorrere furtivamente le stradine in terra battuta del Quartiere degli Schiavi. Le baracche, tutte uguali, sorgevano in file regolari addossate le une alle altre. I due ragazzi si mossero con circospezione perché da quel momento le regole erano diverse ma i pericoli non minori. Tutti i furti a Sparta erano incoraggiati, in modo particolare quello agli Iloti, ma vigeva sempre la stessa regola. Essere riconosciuti comportava punizioni molto severe, essere catturati dagli schiavi era peggio. In quel caso gli Iloti erano autorizzati a fare loro qualsiasi cosa, tranne mutilarli o ucciderli. E gli schiavi con il tempo avevano imparato a vendicarsi con molta fantasia. Alcuni mesi prima avevano acciuffato due ragazzi degli Alloggiamenti Agamennone. Gli sventurati erano stati ritrovati il giorno seguente incatenati nudi ai pilastri di sostegno della Porta Meridionale. Erano stati frustati, ricoperti di sale per alcune ore e poi gettati nelle latrine per il resto della notte. Erano morti in pochi giorni tormentati da dolori infiniti e febbri

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acutissime. Dorymendon si fermò e indicò in silenzio un orto particolarmente ben curato. C’era anche un piccolo pollaio e una gabbia con tre conigli. Leonida annuì e i due giovani scavalcarono il piccolo steccato. Le galline non li attraevano, troppo complicate e chiassose per un pasto veloce, ma le uova sì. Leonida allungò una mano. «Io non lo farei se fossi in voi. Così ansiosi di fare un giro nelle nostre latrine?» I due si voltarono all’unisono assumendo immediatamente l’atteggiamento di difesa nella lotta corpo a corpo. «Sono impressionato» ripeté la voce. «Così giovani e già così veloci. Vi stanno addestrando bene.» «Chi sei?» Dorymendon cercò senza risultato di dare un tono si sicurezza alla propria voce. «Che domanda è? Sono un Ilota. Sono nato per servire e morirò lavorando.» I ragazzi si scambiarono una rapida occhiata perplessi. «Vivo in questa baracca da quando sono “Entrato nel passato”, da quando mi hanno marchiato a fuoco. Una baracca in cambio di una vita, gli spartani lo ritengono uno scambio equo.» «Ci dispiace per te» Leonida non allentò la guardia, ma qualcosa nel tono di voce dell’uomo parlava di amarezza e solitudine infinite. «Siamo entrati perché abbiamo fame. Volevamo rubare delle verdure ma abbiamo visto le galline e ci è venuta voglia di uova fresche.» «Penso che tu dica il vero, mio signore» Il tono di voce era canzonatorio ma aveva quel tocco di perplessità di chi sa riconoscere la sincerità. «Però avete sbagliato a venire qui. Vi obbligano a farlo, non è vero?» I due ragazzi annuirono sempre più perplessi. «A cena sempre brodo nero e pane raffermo?» «Sempre» Dorymendon, nervoso, si spostò leggermente di lato. Leonida poteva anche parlare di filosofia con l’Ilota ma lui non voleva finire nelle latrine. «Non ti piace la conversazione, spartano?» «Stupenda» rispose Dory snudando i denti. «Solo vorrei vedere con chi converso. Sai è una questione di stile.» «Giusto. A volte la solitudine fa dimenticare le buone maniere.» Dall’ombra uscì un uomo alto e snello, con i capelli neri lunghi fino alle

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spalle trattenuti in fronte da una stretta striscia di cuoio consunto. Aveva le spalle larghe, la vita stretta, le mani grandi e la fronte spaziosa. Li guardò per un attimo, poi sorrise. «Se promettete di non fare scherzi vi faccio entrare. Ho delle uova in casa. Non sono molte ma accompagnate con cavolo crudo, pane secco e latte di capra riempiono la pancia. Vi propongo uno scambio: il mio cibo di una settimana per la compagnia di una sera.» Leonida non ci pensò nemmeno un istante. Si fece avanti e tese la mano destra. «Se accetti la nostra parola e il nostro onore come impegno, noi saremo lieti di accettare la tua offerta.» L’uomo allungò una mano e, con sorpresa di Leonida, gli strinse il polso alla maniera dei guerrieri. «Benvenuto in casa mia, giovane spartano. Il mio nome è Kendeas. La mia casa è la tua casa fintanto che rispetterai il patto.» Il sorriso dell’uomo dalle labbra arrivava agli occhi e scaldava il cuore. «Tu ci rendi onore Kendeas. Il mio nome è Leonida, lui è Dorymendon.» Poi continuò, spinto da un impulso improvviso. «Sia pace tra noi Kendeas. Il tuo onore è il mio onore.» Gli occhi dell’uomo si dilatarono. «Accetto il tuo impegno e il tuo onore» rispose. La mano era forte e gli occhi non mentivano. Il ragazzo era serio e una voce nell’anima disse a Kendeas che quella notte stava accadendo qualcosa si importante. «Il tuo onore è il mio onore.» Leonida sorrise. «Bene» disse Dorymendon alle loro spalle, «sono commosso! Dalle latrine all’amore eterno… niente da dire, è un grande passo. Ma non stavamo parlando di uova più grandi del culo delle galline?»

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Vita a Sparta Leonida scivolò via dal pagliericcio e cercò a tentoni i sandali. Nella grande camerata occupata dai cinquanta ragazzi della Quarta Sissitia degli Eracle era ancora buio. Il capitano era in piedi nel vano della porta e contava i secondi. Infilati i sandali il ragazzo si gettò il chitone sopra la testa, facendolo scivolare lungo le spalle e legandolo in vita con l’ampia cintura di cuoio a cui era attaccato il gancio per appendere il fodero della spada. Ogni spartano aveva in dotazione lancia, scudo e spada che erano conservate nell’armeria adiacente ad ogni camerata e potevano essere usate solo dietro autorizzazione dei comandanti. Le giornate a Sparta erano tutte uguali: sveglia prima dell’alba e duro lavoro. I pasti erano frugali, e la cena una disperazione: pane duro ed uno schifosissimo“brodo nero”. Di notte vigeva il coprifuoco e la Ronda usciva nelle strade deserte a caccia dei ragazzi che venivano costretti a uscire. Vi erano quindici alloggiamenti a Sparta, ciascuno con venti camerate di cinquanta ragazzi, le cinquanta sissitie del futuro esercito spartano. Nessuno di essi aveva ancora raggiunto l’età virile, gli unici Uguali erano gli Ufficiali, non vi erano altri adulti maschi. Ai ragazzi era stato insegnato che l’esercito spartano era stato tradito anni prima dai nemici di sempre, Atene e Tebe i cui eserciti avevano poi invaso la città e trucidato chiunque vi fosse rimasto. Solo l’intervento degli Dei, che avevano consigliato agli Efori di nascondere i neonati, aveva impedito che Sparta cessasse di esistere. Ora loro erano il futuro esercito spartano che avrebbe riportato la città alla gloria di un tempo. I giorni, tutti uguali, cambiavano solo una volta al mese, nel giorno di luna piena, quando il re proclamava i “sissizi”, un giorno di riposo e preghiera agli dei. Quei momenti erano l’unica occasione di riposo e divertimento per gli spartani. La sera dei sissizi veniva allestito un banchetto a cui partecipava tutta la popolazione. Tutti i ragazzi sedevano a terra nel Campo di Addestramento e ad ognuno veniva consegnato un largo piatto di legno con carne arrosto, verdure e pane nero. Prima del pasto il re teneva il solito discorso sul disonore del tradimento e sul dovere della vendetta. Poi sedeva e iniziava a mangiare e allora i ragazzi si scatenavano. Leonida non prestava mai particolare attenzione ai discorsi del re ma amava quei

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momenti perché poteva mangiare più del solito e guardare le ragazze. Dorymendon invece trovava sempre il modo di mettersi in mostra e di organizzare scherzi formidabili e divertentissimi come il famosissimo “taglio del chitone”, compiuto ai danni di una bionda statuaria di nome Tabetha rimasta nuda al centro del Campo. Quel giorno Dory si era guadagnato il rispetto incondizionato di tutti, ragazze comprese anche se, ovviamente, non lo avrebbero mai ammesso. La stessa Tabetha e le sue amiche più intime avevano riso di nascosto sino alle lacrime e sognato di essere abbracciate da quel ragazzo sfrontato. Al termine di quella giornata Leonida era di umore pessimo. Il cielo plumbeo lo opprimeva e Dorymendon era impegnato in una missione fuori città. Nonostante il fisico possente ed il rispetto dei suoi compagni di sissitia, negli ultimi due anni il ragazzo aveva sviluppato una strana tendenza alla malinconia che solo la presenza dell’amico guascone aveva il potere di alleggerire. Perso nei suoi cupi pensieri terminò la giornata di lavoro, consumò una cena veloce e, poco prima dell’ora nona uscì dagli alloggiamenti e si avviò di corsa per le strade vuote. Voleva oltrepassare la Porta Est prima del coprifuoco e andare al Tempio di Atena dagli Occhi, un luogo che aveva il potere di portare la pace nel suo cuore. Quattro colonne di marmo, un tetto di assi sconnesse ricoperte di tegole rosse, un altare di pietra e una statua della dea, il povero tempietto era stato costruito in una radura stupenda, attraversata da un piccolo ruscello che compiva una serie infinita di giravolte nell’erba alta e folta prima di rientrare nei boschi. Da quando aveva scoperto quel luogo il giovane Leonida poteva rimanere ore a osservare incantato l’acqua limpida che accarezzava l’erba soffice e folta. Quei boschi non erano frequentati. Gli Uguali non vi trovavano niente di interessante e i ragazzi niente da mangiare. Nessuno a Sparta si curava della poesia, nessuno amava stare solo. Leonida entrò nella radura e, come sempre, si sedette nell’erba alta, vicino al ruscello, a poca distanza dal tempio. Stava per sdraiarsi a terra e osservare le stelle quando vide un movimento furtivo alla sua destra. Rimanendo immobile osservò un uomo alto entrare nella radura e inchinarsi alla statua della Dea. «Kendeas?» chiese piano.

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«Ben incontrato, giovane spartano» rispose l’uomo sedendosi al suo fianco. «Cosa ci fai qui?» «E tu?» «Osservo, ascolto i suoni della notte e penso alla Dea. E’ bellissima!» «Suvvia spartano» lo derise l’ilota, «se ci tieni alla testa non farti mai sentire dalla regina a pronunciare una frase simile.» Quando rispose, Leonida era serissimo. «La regina Veronika è una bella donna, ma ha gli occhi brutti. La sua bellezza fisica è stravolgente e mi fa strani effetti, ma il suo sguardo mi terrorizza. Disarmato e solo non mi avvicinerei mai a lei.» Kendeas rimase zitto accarezzandosi la corta barba nera, aveva lo sguardo lontano. «E’ bene che sia così» disse poi. «Ricordati sempre di quanto mi hai appena detto. A Sparta è bene non fidarsi di nessuno.» «Parli come se sapessi cose che io non conosco.» Kendeas scompigliò con una mano i capelli del ragazzo e Leonida si irrigidì per quel gesto di affetto sconosciuto, ma quando il braccio scese a circondargli le spalle e a stringerlo a sé in un abbraccio paterno si rilassò e si lasciò tirare contro la spalla dell’amico. «Io sono più vecchio di te spartano e ho visto cose che non capiresti. Ricordati solo delle mie parole, ne va della tua vita.» Allarmato Leonida annuì piano. «Bueno» riprese Kendeas allegro e indicò il ruscello. «Vieni, andiamo là. C’è una polla d’acqua scura in cui puoi vedere un sacco di trote e se sei fortunato anche il tuo destino.» «Davvero?» «Accompagnami e vedrai se non è vero!» «Kendeas?» «Sì» «Cos’hai detto prima? Buono, buano, ah sì… Bueno! Cosa vuol dire?» Leonida aveva lo sguardo penetrante. «Oh, niente di particolare. Lo diceva mia madre. E’ un modo per dire che le cose vanno bene e che tu sei un bravo ragazzo.» «Hai conosciuto tua madre?»

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«Ho avuto questa fortuna. Adesso andiamo altrimenti le trote se ne vanno e anche il tuo destino.» «E il tuo?» «Che c’entra il mio? Il mio è mio, ora stavamo parlando del tuo!» «Ne sei proprio sicuro?» Una donna era ferma vicino ad una grande quercia a pochi metri da loro. Era alta, capelli lunghi e sguardo fiero. Vestiva una corta tunica dalla profonda scollatura legata in vita con una larga cintura. Aveva bracciali d’oro ai polsi e sul tricipite destro e una collana di pietre che rilucevano come tante stelle. Kendeas sentì il respiro che si fermava e il cuore che accelerava i battiti. Leonida era fermo al suo fianco, immobile, apparentemente rilassato. La donna si avvicinò. «Una bella serata per osservare il destino.» «Chi sei?» Kendeas non riusciva quasi a parlare. «Puoi chiamarmi Gretchen» rispose lei «e tranquillizzati. Nessuno saprà da me che un Ilota sta conversando del destino con un giovane spartano.» Leonida guardò prima la donna e poi l’amico che stava tremando come una foglia. «Puoi fidarti» disse piano, «non è di Sparta. Non l’ho mai vista prima d’ora.» «Allora potrebbe essere una “Dea”!» Kendeas aveva sputato con ribrezzo la parola e tremava come una foglia. La donna gli si parò di fronte. «Non temere. Sono qui solo per parlare con voi, me ne andrò subito dopo. Questo non è ancora il mio posto ma anche quando lo sarà non farò mai del male né a te né al ragazzo.» «Visto?» disse Leonida tutto allegro. «Visto, ma non mi posso fidare.» «E fai bene» la voce della donna era calda. «In questa città non è consentito avere amici, ma voi due lo siete e lo rimarrete. E io sono e rimarrò vostra amica.» La luce della luna si rifletteva sui capelli ramati e sia l’uomo che il ragazzo erano affascinati da tanta bellezza e semplicità. «Non posso trattenermi, sono venuta solo per conoscervi anche se io e te» allungò una mano e fece una carezza a Leonida, «ci siamo già incontrati. Era un altro luogo e avevi un altro nome. Sii forte Spartano, i tuoi giorni devono ancora venire, e fidati di Kendeas, capirai perché.» Poi sollevò lo sguardo

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incatenando l’Ilota ai suoi occhi. «Ben trovato Kendeas, non c’è molto che possa dire per farti capire che ti puoi fidare di me. Pero ustedes saben que

el niño ha pasado desde que passatu tú y yo que no son el enemigo. Nos

reuniremos de nuevo y discutir con calma en el futuro. Sólo tú y yo. Logró

sobrevivir hasta ese día, Leandro!»

L’Ilota sbarrò gli occhi incredulo. Gretchen sorrise ancora «Va meglio?» chiese con malizia, poi tornò verso gli alberi. «Ricordatevi di quanto vi ho detto!» disse senza voltarsi. «E’ molto importante.» Le ultime parole erano state dette in greco e anche Leonida le aveva capite. Lanciò un rapido sguardo all’amico che era pallido come un cencio. «No puedo creer!» gli sentì mormorare. «Cos’hai detto?» «Cosa? Oh, niente davvero. Non ho capito nulla di quello che ha detto quella donna. Che lingua parlava?» Il ragazzo fece una smorfia e spostò la testa di lato osservando il volto in ombra dello schiavo. Era chiaro che mentiva. Sollevò le spalle e andò verso il ruscello. «Allora, questo destino?» chiese. «Forse non dovremmo guardare nell’acqua» fu la risposta distratta. «Forse dovremmo chiederlo alla Dea» rispose l’Ilota, «ho la sensazione che ne sappia più di noi.» “Bonito pensamiento” sussurrarono gli alberi e Kendeas sorrise.

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Piccole donne e grandi guerrieri Ariadne uscì dall’acqua e si stese al sole. Il tempo era bello anche se lontane nuvole grigie a Est, sopra i monti del Taigeto, facevano presagire un temporale imminente. Anche l’aria si era fatta più pungente e la ragazza rabbrividì guardando la sua pelle incresparsi in minuscoli puntini. Alcune ragazze stavano ancora nuotando, ma la maggior parte del loro gruppo si era avviata verso gli alloggiamenti. Tabetha, Helene e Poplia erano ancora in acqua e ridevano spruzzandosi a vicenda. Ariadne sorrise. Le sue amiche riuscivano sempre a trovare qualche motivo per ridere. Stava bene con loro, anche se la continua rivalità negli allenamenti e nella vita le metteva in uno stato di competizione così esasperato che a volte rischiava di compromettere anche la loro amicizia. Ariadne si faceva spesso domande alle quali non trovava risposta. Era conscia che la loro era una condizione strana, ma non riusciva ad identificare i motivi di questa sua convinzione. Sparta era tutto. Era la loro vita, il loro futuro, il solo scopo della loro esistenza. Eppure in tutto questo mancava qualcosa. La ragazza non riusciva a capire cosa ma, caparbia come nessun’altra, era convinta che se avesse sempre tenuto occhi e orecchie bene aperti, prima o poi i nodi sarebbero venuti al pettine. Un sassolino cadde a poca distanza dalle sue braccia incrociate dietro la testa. Ariadne non si mosse. “Le cavallette sono così noiose”, pensò. Un altro le sfiorò il gomito destro. “E’ quasi ora che mi vesta.”. Un altro, piatto e leggermente più grande, le cadde sull’ombelico strappandole un gemito di sorpresa. Con un volteggio fu in piedi in posizione di difesa, gli occhi che scrutavano gli alberi poco lontani. La foresta di querce che circondava il Tempio di Afrodite arrivava sino a venti metri dalla riva del Lago dell’Amore. Alla ragazza non piaceva quel tratto di foresta e ancora meno il Tempio di Afrodite. Circolavano troppe voci su quel posto e a quattordici anni una ragazza faceva bene a stare molto attenta. Un mese prima gli Efori avevano prelevato alcune ragazze dagli Alloggiamenti Giunone per condurle dagli Dei. Non erano ancora tornate. Ariadne non sapeva cosa fosse accaduto e se veramente fossero ascese all’Olimpo, ma non aveva alcun desiderio di scalare le montagne. Lei stava bene dove stava. Un sasso volò lento verso di lei e la ragazza

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schivò facilmente con una smorfia. Aveva visto da dove era stato lanciato ma non da chi. Continuò a rimanere immobile, tesa, pronta a scattare nonostante la stanchezza. Poi una voce. «Finalmente! E’ difficile vederti bene quando sei sdraiata. Rimani così ancora un po’.» Seguì un coro di risa soffocate e tre teste sbucarono dal cespuglio. Ariadne riconobbe prima Dorymendon e poi Leonida, quello alto e biondo di cui parlava in continuazione Helene. Un brivido le corse lungo la spina dorsale: quanto le piaceva quel Dorymendon! Finiva sempre nei guai, ma aveva una luce stupenda negli occhi e un sorriso così birbante che faceva tremare le ginocchia. Improvvisamente fu conscia della propria nudità e per un attimo provò l’istinto di scappare a gambe levate. Poi la rabbia ebbe il sopravvento e si raddrizzò, incrociando le braccia sul petto e inspirando a fondo. Non aveva alcuna intenzione di coprirsi, era troppo arrabbiata. Inconsciamente fece attenzione a non coprire il seno con le braccia incrociate anzi, visto che non era molto lo sollevò un pochetto… «Bello scherzo, davvero!» disse in tono sdegnato. «Non avete mai visto una ragazza prima d’ora?» I tre parvero disorientati. Quello in mezzo aveva la bocca aperta e non dava segni di riuscire a chiuderla. «Chiudi la bocca Narses» disse Leonida, «altrimenti ti ci entrerà di tutto.» Nonostante non volesse, Ariadne non riuscì a trattenere un sorriso. Alle sue spalle le sue amiche erano uscite dall’acqua e le sentì parlottare mentre si avvicinavano. Quando vide i ragazzi Poplia emise un grido strozzato e corse verso il proprio chitone. Lo afferrò e se lo mise senza smettere di correre. Non era mai stata così veloce prima. «Non siete male nemmeno dietro» riprese la voce di prima. Immediatamente tutte e tre le ragazze si voltarono e si misero a braccia conserte, gli occhi che lampeggiavano di sfida. Tabetha e Helene non erano certo meno battagliere di Ariadne e altrettanto vanitose. Questa volta Leonida dovette chiudere la bocca a Narses con una mano. «Questo non è giusto!» era stata Helene a parlare. «Da quanto tempo ci state spiando?» «Abbastanza» rispose Dorymendon sempre sorridendo. «Contente?»

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«Non essere stupido!» fu la stizzita risposta di Ariadne. «Come possiamo essere contente di essere spiate?» «Giusto. Ma siccome spiare piace anche a voi…e parecchio, io non farei tanto la sostenuta al tuo posto.» «Tu non sei al mio posto!» Ariadne si infuriò. «Tu sei vestito e nascosto dietro un cespuglio. Probabilmente sei tutto sudato, sporco di terra e puzzi come un caprone. Tu non sei al mio posto. Se vuoi essere al mio posto vieni qui, spogliati e parlami come io sto facendo con te!» Questa volta nemmeno la mano di Leonida riuscì ad impedire che la mascella di Narses cadesse. Le tre ragazze risero e, se possibile, si misero ancora di più in mostra. «Allora?» fece eco Helene, mentre Tabetha studiava la situazione con una smorfia di perplessità sul volto abbronzato. «Mi sa che siamo nei guai» sussurrò Leonida. «Taci» ringhiò Dorymendon passandosi una mano tra i capelli arruffati e pieni di erbacce, «sto cercando di pensare.» «Non c’è niente da pensare» rispose Leonida alzandosi. «Se non facciamo come dicono perdiamo la faccia. Hai voluto fare il furbo ma hai trovato una persona più furba di te. Adesso vediamo come te la cavi.» «Leo, non penserai veramente di … » «Non abbiamo scelta, e poi un bagno farà bene anche a noi.» Ariadne si sentì mancare il respiro quando il giovane biondo uscì dal cespuglio dirigendosi con calma verso di loro. Non aveva previsto questa mossa. Era convinta che sarebbero scappati a gambe levate, non potevano accettare! Con nervosismo si guardò intorno per verificare che non ci fossero Paidotribi o Maestre nei dintorni. Se li avessero sorpresi nudi la punizione sarebbe stata esemplare e le frustate solo il minore dei mali. Leonida non pareva avere alcuna intenzione di fermarsi. Ariadne diede uno sguardo alle sue amiche e scoprì che anche loro sembravano pensarla come lei. Apparivano terrorizzate e, dietro un sorriso tirato, si leggeva la disperazione. Perché, per gli Dei, non se ne tornava indietro? Ariadne era quasi pronta a scusarsi quando vide il volto di Helene: era sicuramente quella di loro che stava soffrendo di più. Si maledisse per aver cacciato l’amica in quella situazione, ma ormai era tardi. Leonida arrivò di fronte a loro con un passo leggero e un sorriso sul volto abbronzato. Si muoveva

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come un Dio! Le osservò per un istante che sembrò eterno, poi si avvicinò a Helene, le prese la mano destra e, portandosela alle labbra, la sfiorò con un bacio. «Ben ritrovata, Helene di Sparta» disse piano. La sua amica fu sul punto di svenire. «Vi dispiace se mi adeguo alle vostre istruzioni?» Si spogliò completamente poi riprese la mano della ragazza. «Avete ragione» disse, «emaniamo un profumo degno dei caproni. Possiamo andare tutti in acqua?» Tabetha non resse, le gambe le cedettero di schianto e finì a terra. Ariadne gettò un rapido sguardo al cespuglio. Per tutti gli Dei, non le importava di quello che stava perdendo la mascella, ma l’altro avrebbe fatto bene ad uscire e in fretta, perché adesso le cose dovevano riequilibrarsi. Stava pensando di andare a tirarlo fuori lei quando Dorymendon si alzò e uscì allo scoperto avvicinandosi con una smorfia sul viso che strappò un sorriso e aumentò i battiti del cuore alla ragazza. Dorymendon fu meno plateale dell’amico. Nonostante tutta la sua sfacciataggine oltrepassò tutti velocemente, seguito dal loro sguardo sogghignante (sogghignava anche Leo, per Zeus!) e andò verso il lago. «Non sono proprio un fiore» ringhiò. «Ne approfitto per lavarmi. Beh? Che avete da guardare? Mai visto un ragazzo nudo?» Questa volta fu Ariadne a impallidire, ma Helene, che nel frattempo si era ripresa e aveva ancora la mano in quella di Leonida, scoppiò improvvisamente a ridere. «Hai vinto tu questa volta, Leonida di Sparta!» esclamò. «Bene», rispose lui. «Allora ti dispiace se andiamo in acqua? Non so per quanto ancora riuscirò a fare lo spavaldo perché, lo confesso, mi tremano le gambe.» Helene sorrise: Leonida sapeva essere duro come il ferro e dolce come il miele. Dorymendon fece un versaccio e le due coppie si gettarono in acqua ridendo mentre sopra le loro teste le nuvole scure andavano addensandosi velocemente. Quando i primi goccioloni presero a cadere sollevando spruzzi nella superficie del lago leggermente increspata dal vento teso, uscirono e si vestirono lentamente parlando, guardandosi. Era un momento magico e tutti erano restii ad abbandonarlo. Erano rimasti in quattro. Narses e Tabetha erano andati via in silenzio. Ariadne osservò

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Dorymendon con una punta di malizia di troppo e il giovane ebbe un attimo di smarrimento. Lei sorrise «Te lo dovevo, Dorymendon di Sparta» disse piano. Lui ringhiò qualcosa di incomprensibile ma si accorse di sorridere a sua volta. Helene e Leonida non sorridevano. Avevano parlato a lungo, ora altre emozioni occupavano i loro cuori. Entrambi avevano catturato qualcosa dell’altro e lo avevano inserito nel proprio animo, ora avevano paura che le parole potessero guastarlo. Quando la pioggia divenne troppo violenta fu sufficiente un cenno di saluto, poi i ragazzi si avviarono di corsa verso Sud, mentre le ragazze presero il sentiero a Ovest. Tutti loro avevano l’animo sorridente.

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La Krypteia Il Palazzo del Prezzo del Bestiame sorgeva poco lontano dalla Porta Orientale e, grazie alla sua posizione elevata, aveva una vista stupenda su Sparta. Nello splendido giardino, all’ombra di un fico, i piedi scalzi affondati nella soffice erba verde, Agisaleus sedeva su di una poltrona di vimini e sorseggiava un vino fresco annacquato. Due Iloti, inginocchiati a terra, sfregavano i marmi del colonnato per renderli splendenti mentre altri due si occupavano delle rose del re. Agisaleus amava quei fiori di un amore morboso e aveva fatto giustiziare parecchi schiavi perché non si erano presi cura a sufficienza dei suoi roseti. La regina uscì dal colonnato e si sedette sulla poltrona di fronte. Accavallò con grazia le lunghe gambe lasciando che la tunica le si sollevasse di molto sopra il ginocchio. Agisaleus sollevò appena un sopracciglio e la donna si affrettò a rimettere a posto il tessuto. «Sono arrivati?» chiese Agisaleus dopo qualche istante. «Sì, si stanno preparando.» «Come sono?» «Peggio degli altri.» Il re inclinò la testa di lato con fare interrogativo. «Mi fanno schifo! Sono lardosi, bavosi… laidi. Per qualche istante ho temuto che uno di loro mi cadesse nella scollatura.» «Allora forse un abito più accollato potrebbe risolvere molti problemi, mia cara» commentò Agisaleus divertito dall’espressione della donna. Poi si alzò. «Ora andiamo.» La regina non rispose, il suo sguardo era andato ad un Ilota che spingeva con fatica un carretto stracolmo di verdure nella strada oltre il cancello. Kendeas stava percorrendo la Via della Grandezza diretto alle cucine degli Ufficiali quando vide il re e la regina. Il carretto era stracarico e la strada in salita. Lo schiavo grugnì e spinse con più forza ma il carretto sobbalzò, si inclinò pericolosamente e si fermò. Alcune verdure caddero a terra. Isavros stava potando le rose quando il carretto si bloccò, la ruota di legno era incastrata e stava per cedere. Una silenziosa maledizione gli salì alle labbra, Kendeas era suo amico. Ebbe un sorriso amaro. Da quando i primi figli delle schiave avevano iniziato a lavorare, le loro vite avevano perso valore.

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La ruota cedette, solo le braccia di Kendeas impedivano il disastro. Il re non aspettava altro. «La distrazione può essere fatale» Agisaleus era divertito. «Facci vedere quanto sei forte, così potremo scommettere su quanto impiegherai a morire.» Kendeas strinse i denti e non rispose ma improvvisamente il peso sulle sue braccia diminuì. Vide che Isavros si era incuneato sotto il carretto in modo che l’asse della ruota gli poggiasse sulla schiena. Aveva la faccia a terra e cercava di stare il più lontano possibile dai sandali del re. «Bene, bene» disse il sovrano con un ghigno orribile. «Cosa abbiamo qui? Due schiavi amici!» Due Uguali si fecero avanti. Erano Sorveglianti della guardia personale di Agisaleus, letali e privi di scrupoli. Il re indicò Isavros. «Prendete questa merda e portatelo via, sta trascurando le mie rose.» Gli Spartani sfilarono Isavros da sotto l’assale e Kendeas strinse nuovamente i denti. Non durò a lungo, dopo qualche attimo crollò rovinosamente a terra e alzò gli occhi. Isavros era in piedi e lo guardava, era uno sguardo d’addio. Quando i tre si allontanarono Kendeas rimase solo in mezzo alla strada. Un sospiro di sollievo gli uscì dai polmoni, poi ricordò lo sguardo disperato dell’amico. Piangendo si alzò e si andò verso le cucine a chiedere aiuto. Agisaleus e Veronika salirono all’Acropoli e arrivarono, dopo circa mezz’ora, alla Casa degli Dei. Uno schiavo offrì loro un bacile d’acqua fresca e asciugamani per detergersi il sudore dal viso. I due attraversarono il grande colonnato ed entrarono nel tempio. La costruzione era lunga oltre centoventi metri e alta trenta. Una doppia fila di colonne ne segnava la lunghezza fino alla grande statua di Zeus posta all’inizio delle dimore degli Efori. In effetti al di là del muro, dietro la statua del Padre degli Dei, vi era solo un corridoio vuoto che non conduceva apparentemente da nessuna parte. In realtà una sezione del muro in fondo al corridoio poteva ruotare su se stessa e dare accesso all’ascensore che conduceva nelle viscere della collina ed il corridoio stesso era una trappola mortale per visitatori non autorizzati. Entrare in quel luogo significava accedere al più grande segreto di Sparta. Niente e nessuno poteva percorrere il corridoio senza permesso e uscirne vivo, niente poteva aprire la porta segreta blindata se non attraverso

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i comandi della Sala Controllo. Il segreto di Newold World era sicuro. Agisaleus e Veronika entrarono nell’ascensore e si rilassarono nella gradevole frescura dell’aria condizionata. Quando le porte si aprirono, venti piani più in basso, quattro persone erano in piedi nel mezzo della sala e osservavano sui grandi monitor la vita degli spartani. Agisaleus si avvicinò a grandi passi con la mano tesa e un sorriso di circostanza. Il più vicino era un uomo basso e calvo, con grandi basette che raccordavano in capelli con una corta barba ben curata. Aveva le orecchie più piccole che il re avesse mai visto, la fronte sfuggente, gli occhi porcini e una mano molle e sudaticcia. «Sono il generale Algernon» si presentò. «Benvenuti a Sparta!» «Piacere di conoscerla, generale. Mi chiami pure John.» La donna alla sinistra dell’uomo era diafana, con la pelle tanto sottile da sembrare traslucida, le vene in trasparenza e i lunghi capelli corvini leggermente unti. Osservava il mondo da sotto due sopracciglia in cui avrebbe potuto fare il nido una coppia di tortore. «Io sono Eva» la mano era ancora più fredda e molle, la mano di un cadavere. Gli altri due dissero di chiamarsi Paul e Peter. Erano leggermente più umani ma non riuscivano a staccare gli occhi dalla regina la quale resistette a quegli sguardi per qualche istante e poi, senza alcun preavviso, se ne andò. Agisaleus tirò un sospiro di sollievo, era meglio così. «Quando usciamo?» quello che aveva detto di chiamarsi John lo stava osservando. «Come? Ah, sì, presto, molto presto.» Algernon riprese il controllo della situazione. «Dovete avere solo un attimo di pazienza miei signori, devo illustrarvi le regole di Sparta.» Dopo quasi un’ora finalmente salirono in superficie e trovarono ad attenderli la regina con uno strano sorriso sul volto bellissimo. «Ho pensato di organizzare un piccolo spettacolo di benvenuto per gli dei, mio re» disse piano inchinandosi profondamente. «Di cosa si tratta?» Agisaleus non amava le sorprese. «Della krypteia allo schiavo che hai fatto imprigionare oggi sire. Penso che possa essere un’attrazione di benvenuto molto interessante.»

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«Perfetto mia regina. Disponi come ritieni più opportuno mentre io accompagno gli Dei nel loro viaggio tra i mortali!» E la grottesca compagnia iniziò la discesa verso la città. Il comandante abbaiò un ordine e la falange voltò a sinistra come un sol uomo, immobilizzandosi sul posto in attesa. Il sudore colava copioso da sotto gli elmi dei ragazzi, insinuandosi negli occhi e nelle orecchie. Le sopracciglia prudevano, gli occhi bruciavano mentre quei rivoli salati scavavano nuovi percorsi sulla pelle riarsa. Erano quattro ore che la falange manovrava nel grande Campo di Addestramento e i ragazzi erano esausti. Dorymendon non parlava. Come tutti i suoi compagni era silenzioso e vigile nella sua posizione in prima fila al centro della falange composta da cinquanta scudi per trenta file. Avrebbe preferito una posizione meno visibile ma la Quarta degli Eracle era sempre in prima fila. Il comandante Hermos urlò nuovamente e la prima fila serrò gli scudi e abbassò le lance, iniziando a muoversi. Dieci passi al passo, poi al trotto e poi di corsa sempre più veloce senza mai perdere la posizione. Era la formazione di attacco e la provavano da oltre un mese. Dorymendon era convinto che se avesse chiuso gli occhi non avrebbe inciampato nemmeno a volerlo. «E’ proprio questo il motivo dell’allenamento, sai?» Leonida continuò la sua corsa senza voltarsi. Dorymendon sospirò: doveva aver dato voce ai suoi pensieri. Dopo altri dieci passi Leonida scoppiò a ridere. «Per tutti gli Dei, Dory. Lo fai tutte le volte… e sempre a questo punto!» Uno, due, tre passi e poi i venticinque scudi alla sua destra, con Leonida al suo fianco che ora formava l’angolo estremo, si aprirono deviando a destra, mentre gli scudi alla sua sinistra iniziarono una manovra analoga allargandosi a loro volta. Dorymendon scoppiò a ridere: era vero! Seguendo i compagni andò a sinistra continuando a ridere e la sua risata si trasmise a tutto il gruppo come una fiamma che attecchisce sull’erba secca e si propaga con il vento. Il comandante Hermos osservava la manovra e, come tutti, stava aspettando il momento in cui sarebbe accaduto. Non sapeva cosa generasse quell’ilarità in tutto il fronte sinistro della falange, né perché si manifestasse sempre verso le quattro del pomeriggio. All’inizio aveva

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provato a contrastare il fenomeno, poi aveva capito che non danneggiava la prestazione e aveva deciso di lasciar perdere. I due schieramenti completarono la manovra e chiusero la tenaglia intorno al gruppo degli ufficiali. Hermos osservò attentamente la formazione: non si vedevano spazi né intersezioni, gli scudi erano accostati e le lance sollevate. Quei ragazzi stavano sfiorando la perfezione dei movimenti, era veramente fiero di loro. Una voce si levò alla sua destra. Le lance si abbassarono all’unisono mentre le teste sparirono dietro gli scudi lasciando in vista solo gli occhi e la cresta dell’elmo. Un secondo ordine e la falange iniziò a chiudersi sopra di loro. «Cos’è questa cosa?» chiese Zosimos con un tremito nella voce. Hermos sorrise come un lupo. «I bambini hanno voglia di giocare. Vediamo quanto sono bravi.» Zosimos sbarrò gli occhi. «Ma sei pazzo? Se gli scappa di mano una lancia siamo morti!» «Taci!» ringhiò Hermos. La falange continuava a stringersi. Gli scudi si sfilavano con regolarità senza che si creasse il minimo spazio nella formazione. Una voce si alzò dalle retrovie, calma, ferma. La prima fila fece un salto avanti coprendo un paio di metri in un unico movimento. Due scudi sparirono (Per tutti gli dei, Non erano avanzati con gli altri. Ecco come facevano!), gli altri si strinsero ancora di più e le lance si allungarono con le loro punte acuminate di trenta centimetri di acciaio mortale. In quel momento anche Hermos ebbe paura. I ragazzi rimasero fermi in quella posizione per un lungo, interminabile minuto. “Ma chi diavolo vi sta comandando?” pensò Hermos. Poi ancora una voce, bassa ed incomprensibile e le file iniziarono a retrocedere. “E bravi. Ci avete fatto prendere proprio un bello spavento.” Dopo circa dieci minuti la falange compatta era nuovamente schierata nella formazione classica di cinquanta scudi su trenta file. Kendeas aveva una pianta di uva bianca che si arrampicava su di una pergola addossata al retro della sua baracca. Amava quel posto e quella pianta nodosa. Ora sedeva a terra sotto la pergola con lo sguardo perso nella luce sanguigna del sole morente e la mente lontana. Isavros era suo

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amico. Se era fortunato era già morto. Quante persone erano legate a Isavros? La schiava con cui viveva, due figli e tre figlie. Non erano figli suoi ma li aveva sempre considerati tali cercando di essere un buon padre. Come può un Ilota essere un buon padre a Sparta? Sei persone erano in grave pericolo, il più piccolo aveva solo cinque anni. Melia, la compagna di Isavros, era una persona triste. Quando era arrivata a Sparta, diciassette anni prima, aveva appena compiuto dodici anni. Era molto carina e aveva un sorriso timido. Il sorriso non era durato: “Crescere, procreare e crescere.” I Sorveglianti se l’erano passata come un giocattolo di gomma. Un drappello di spartani oltrepassò la catapecchia. Non aveva bisogno di altre conferme. Entrò nella baracca e chiuse il mondo fuori. Non poteva fare niente. Isavros era già morto nel momento in cui aveva fatto la sua scelta ma forse non aveva pensato che, con quel gesto, avrebbe condannato anche i suoi. Nei campi quel giorno il vento aveva portato una promessa di dolore e morte, un sussurro che a Sparta faceva paura. Un nome che gli schiavi temevano oltre ogni cosa. Krypteia. La radura era silenziosa, l’erba soffice e il piccolo ruscello che gorgogliava piano sembrava parlare di pace e serenità. Melia sedeva a terra, i suoi figli in cerchio intorno a lei. Tremava ma cercava di non darlo a vedere. Cinque Uguali al tramonto avevano abbattuto a calci la porta della baracca che divideva con Isavros e avevano costretto lei e i ragazzi a seguirli sino a quella radura ai piedi dei Monti del Silenzio, ad un’ora di marcia dal monumento a Leonida. La serata era tiepida, il tramonto era passato da diverse ore. Non avevano cenato e i ragazzi erano irrequieti ma Melia li aveva calmati con parole di pace. Presto tutto sarebbe finito e sarebbero tornati a casa. Melia pensava che quella notte sarebbero morti. Isavros non era tornato. Aveva incrociato altri Iloti nel pomeriggio e tutti avevano girato il capo evitando di incontrare il suo sguardo e il vento della sera aveva portato con sé una parola di morte. Krypteia. Isavros non era tornato ma erano arrivati gli Spartani. Il messaggio era chiaro. Krypteia.

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Un movimento ai margini del suo campo visivo la fece trasalire: un gruppo di spartani entrò trascinando un uomo i cui piedi solcavano il terreno lasciandovi solchi profondi. “Isavros!”. Melia trattenne un urlo di orrore, lo avevano picchiato a morte. Gli occhi erano serrati, le labbra dischiuse in un urlo di dolore senza fine, il volto stravolto in una smorfia di orrore indicibile. Respirava piano, a stento, era più morto che vivo. Melia e i suoi figli presero tra le braccia il corpo dell’uomo svenuto e iniziarono un canto lento, il canto che le aveva insegnato sua madre tanti anni prima, quando era ancora bambina. Un canto di addio in una lingua che non ricordava quasi più ma che aveva insegnato ai suoi. Dagli alberi ai margini della radura emersero alcune figure. Il re e la regina erano severi come sempre e si tenevano per mano, mentre quattro figure nuove li accompagnavano. «Mamma» disse il più piccolo dei suoi figli, «guarda! Ci sono gli Dei!» Melia non rispose, piangeva. Nella radura entrarono di corsa decine di ragazzi armati di coltello, appartenevano agli Alloggiamenti Menelao ma anche questo per Melia non era importante. Sempre ultimi in ogni prova, quella sera potevano riscattarsi davanti al re. Melia chiuse gli occhi e strinse le mani per non urlare, il terrore era troppo forte anche per piangere. I primi si avvicinarono veloci. Erano armati di coltelli dalla lama lunga e seghettata, un’arma costruita per dare dolore. «Ragazzi» disse Melia con un filo di voce. «è ora di salutarci.» I coltelli si sollevarono. Seduto a terra nella sua baracca, Kendeas parve sentire il primo colpo. Si rannicchiò su se stesso e iniziò a urlare.

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Prologo .................................................................................................................................................................... 5

PARTE PRIMA- La Genesi ..................................................................................................................................... 6

Fine del primo sogno ............................................................................................................................................... 7

Pulizia.................................................................................................................................................................... 16

Entrare nel passato ................................................................................................................................................ 28

Il risveglio degli Dei .............................................................................................................................................. 31

Inizia l’operazione ................................................................................................................................................. 41

Una nuova vita ...................................................................................................................................................... 50

PARTE SECONDA- Crescere, procreare e crescere! ........................................................................................... 57

Il pacco è quasi pronto .......................................................................................................................................... 58

… e viene prelevato .............................................................................................................................................. 67

Fine del secondo sogno ......................................................................................................................................... 84

Un nuovo Dio ........................................................................................................................................................ 91

Cori ci manca sempre ............................................................................................................................................ 96

I primi dei ............................................................................................................................................................ 111

PARTE TERZA- Dagli Alloggiamenti all’Età Virile ........................................................................................... 117

Dieci anni di mercato .......................................................................................................................................... 118

Primi incontri ...................................................................................................................................................... 121

Il tuo onore è il mio onore ................................................................................................................................... 126

Vita a Sparta ........................................................................................................................................................ 130

Piccole donne e grandi guerrieri .......................................................................................................................... 135

La Krypteia ......................................................................................................................................................... 140

Questa cosa non deve ripetersi! .......................................................................................................................... 146.

Inverno sul Taigeto………………………………………………………………………………………………………………………………………..162.

Una sopravvissuta .............................................................................................................................................. 169.

La festa di Diana ................................................................................................................................................ 176.

La festa di Diana crea dei problemi.................................................................................................................... 202.

Un Dio diverso ................................................................................................................................................... 213.

Una traccia ......................................................................................................................................................... 248.

Differenti emozioni ............................................................................................................................................ 263.

PARTE QUARTA- Vincere o Morire! ................................................................................................................ 268.

Un incontro inaspettato ...................................................................................................................................... 269.

«Sai cos’è una madre?» ...................................................................................................................................... 277.

«Ho visto il nemico e sono tornato!» ................................................................................................................. 290.

Questa è Sparta! ................................................................................................................................................. 293.

L’inganno svelato ............................................................................................................................................... 305.

Perdona, mia signora. ......................................................................................................................................... 321.

Attenti, non troverete i vostri bambini ............................................................................................................... 329.

Tu sei la mia vergogna ....................................................................................................................................... 339.

La calma prima della tempesta ........................................................................................................................... 346.

Vincere o morire! ............................................................................................................................................... 354.

Il nostro mondo non esiste più ........................................................................................................................... 375.

Ringraziamenti ................................................................................................................................................... 386.

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Qui finisce la prima parte, ma come avete visto dall’indice, la storia continua. Se vi sta piacendo e volete leggere anche il resto potete acquistare il libro oppure l’ebook. Il libro è disponibile in libreria oppure on line .

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