Wilfred Owen dalla Grande Guerra d’un secolo fa … · La Grande Guerra degli Italiani:...

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1 Wilfred Owen e altre voci di poeti inglesi ispirate dalla Grande Guerra d’un secolo fa proposta di lettura critica a cura di Benito Poggio THE 16 GREAT WAR POETS’ NAMES I NOMI DEI 16 GRANDI POETI-SOLDATO

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Wilfred Owen e altre voci di poeti inglesi ispirate dalla Grande Guerra d’un secolo faproposta di lettura critica a cura di Benito Poggio

THE 16 GREAT WAR POETS’ NAMESI NOMI DEI 16 GRANDI POETI-SOLDATO

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Commemorato come “Remembrance Day”, l’11 novembre 1985, nel 67° anniversario di quell’armistizio che poneva fine alla guerra, dichiarava sconfitta la Germania e la condannava alla resa, nell’abbazia di Westminster veniva posta una lapide commemorativa, situata nell’angolo noto come “Poets’ Corner”. In essa venivano riportati i nomi dei 16 “Great War Poets” inglesi da ricordare per sempre. La scritta, tratta dalla Prefazione alle sue “Poems of Today”, la si deve al poeta Wilfred Owen e recita nella sua, lo dico con un ossimoro, palese cripticità, ma che va interpretata:

“Il tema su cui l’uomo deve riflettere è la Guerra, e la Pietas prodotta dalla Guerra,

la Poesia è la Pietas , il vero amor patrio”.* Breve premessa generaleCon l’assassinio di Sarajevo dell’arciduca Ferdinando d’Austria del 28 giugno 1914 da parte del nazionalista serbo Gavrilo Princip si accese quella scintilla che darà fuoco alle polveri e porterà all’esplosione della “Guerra Europea”, nota come “Prima Guerra Mondiale”, spesso impropriamente idealizzata, e a volte esaltata, come “Grande Guerra”. Ma cos’ha mai di nobile la guerra per essere definita “grande”… se non semanticamente appellandosi alla vastità della deflagrazione e della ignobile mattanza nonché all’immenso numero di feriti e mutilati e ai dieci milioni di morti lasciati sparsi sui campi di battaglia, caduti nel fango delle trincee, affondati nelle acque degli oceani?L’Europa occidentale si trasformò, allora, nel più terribile teatro di guerra in cui furono praticamente coinvolte tutte le più importanti nazioni. L’Austria dichiarò guerra alla Serbia, a seguire la Germania dichiarò guerra alla Russia e poi alla Francia, invadendo prima il pacifico e incolpevole Belgio considerato il percorso più immediato e veloce per un vero e proprio attacco al cuore della Francia. Poiché un vecchio trattato, risalente alla prima metà dell’Ottocento, legava la Gran Bretagna al Belgio impegnando la nazione britannica ad intervenire in caso di attacco, anche la Gran Bretagna – chiamata direttamente in causa proprio da tale invasione – dichiarò guerra alla Germania.Si tenga conto che, mentre tutte le nazioni europee belligeranti potevano contare su grandi eserciti bell’e pronti grazie alle leve obbligatorie in atto nei loro rispettivi territori (si tratta delle “conscripted levies” come le ricorderà, e lo vedremo, David Jones nella sua silloge In Parenthesis), da parte sua la Gran Bretagna – che introdurrà la leva obbligatoria solo nel 1916 – si affidava a “professional soldiers and volunteers” (soldati di professione e volontari), potendo contare così su un esercito sicuramente meno preparato e meno numeroso, pur se, per sua stessa natura e conformazione, dava ragione dell’acceso e infatuato patriottismo che animava i giovani (tanto gli uomini quanto le donne) che lo formavano, spronati e pronti a idealizzare una guerra destinata a espandersi anche

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nel Medio Oriente e nell’Impero Britannico e che rispondevano all’invito ovunque diffuso. “Britons, Join the Country’s Army!: Inglesi, arruolatevi per difendere nell’esercito la vostra patria!. E tale ardente ed entusiastica idealizzazione della guerra, almeno all’inizio, prima cioè che i nostri giovani poeti venissero a contatto diretto con gli orrori e le devastazioni della guerra, i feriti, i mutilati e i morti, era sovente sostenuta (è il caso di dirlo) a spada tratta ed espressa in poesie gonfie di retorico ardore e tronfie di enfatica frenesia.Qui mi fermo perché è preciso e ben determinato compito dello storico ripercorrere per filo e per segno (e tanti l’hanno fatto: per quanto riguarda l’Italia, l’ultimo, proprio a Genova, il saggio dello storico Antonio Gibelli, La Grande Guerra degli Italiani: 1915-1918) tutti gli eventi e tutti gli orrori della lunga guerra di trincea che è insensato, se non ingiusto, osannare e considerarla, come dirà qualcuno, “la pulizia (o l’igiene) del mondo”.Occorre, tuttavia, riconoscere che la guerra, pur con i suoi milioni di feriti e mutilati e, come già ricordato, con i suoi dieci milioni di vittime, e pur le sue orrende mostruosità, proprio per contrasto con tanta crudeltà ed efferatezza diede origine, e non solo in Gran Bretagna (in Italia, su tutti, Ungaretti, il cui “cuore era il paese più straziato”), ad una straordinaria fioritura di poeti e raccolte di poesia, di prosatori e resoconti bellici che levarono le loro voci sia per condannare la barbarie della guerra, sia per descrivere la cruda realtà e le atrocità cui avevano assistito.E ora non avevano più nulla a che vedere con i componimenti e i resoconti gonfi di retorico ardore e tronfi di enfatica frenesia del periodo dell’esaltazione prebellica; risuonavano invece del postbellico tono di pianto lugubre per i compagni morti al loro fianco e di cordoglio lamentoso proprio delle geremiadi per le tante vittime… Tenendo presente che alcuni morirono negli anni di guerra, che altri attraversarono quei tragici anni e vi sopravvissero, passo in rassegna sedici poeti-soldato, quelli inscritti nella lapide commemorativa londinese in Westminster Abbey, cercando di cogliere, nei loro testi derivanti dalle dolorose e lancinanti esperienze di ognuno di loro, un concreto indizio di penoso patimento o un significativo grumo di straziante angoscia che serva e aiuti a dimostrare quella ch’io considero la perniciosa inutilità della guerra, di ogni guerra: “l’inutile strage” e “il flagello dell’ira di Dio”, come vedremo, la definì un Pontefice genovese!In rappresentanza della gioventù inglese, gli stessi poeti-soldato, giovani anch’essi e a tutta prima entusiasti di partire per una guerra di cui loro ignoravano del tutto la brutalità e che ritenevano di “defence and liberation” (difesa e liberazione), si resero conto, una volta al fronte e nelle trincee, che stavano combattendo quella che era diventata, come dichiarerà nel suo comunicato all’autorità militare il poeta Siegfried Sassoon, una guerra di “aggression and conquest” (aggressione e

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conquista) cui, da parte dei potenti, non si voleva porre fine e che aveva trasformato soldati e ufficiali in carne da macello.A calzante commento di quanto, come vedremo, con voci e sentimenti differenti esprimeranno anche i “Great War Poets”, vale a dire i sedici poeti-soldato inglesi, mi piace qui, in anticipo, richiamare le drammatiche espressioni di un Generale americano che, mezzo secolo prima dello scoppio della “Grande Guerra” che sconvolse l’Europa, prese parte alla “Guerra di Secessione”, dagli Americani riconosciuta come “Guerra civile” (1861-1865).Si tratta del Generale William T. Sherman (1820-1891) che in un suo discorso tenuto, nel 1879, alle reclute in una Accademia militare così si espresse:

“I am tired and sick of war. […] It is only those who have neither fired a shot nor heard the shrieks and groans of the wounded who cry aloud for blood, for vengeance, for desolation. War is hell.”

parole facili da comprendere e anche da condividere:

“Sono nauseato e arcistufo della Guerra. […] Sono soltanto coloro che non hanno mai sparato un colpo, che non hanno mai udito le urla e i lamenti dei feriti che continuano a reclamare a gran voce sangue, vendetta, devastazione. La guerra è l’inferno.”

* Westminster Abbey, Poets’ Corner:scoprimento della lapide commemorativadedicata ai sedici “Great War Poets” inglesiC’è da chiedersi: A quanti erano note le inesorabili parole del Generale Sherman? oppure: È davvero sacrosanta, nella sua cruda verità, la dicitura impressa a caratteri cubitali a Genova sulla facciata del Palazzo dei Mutilati che recita:

“La guerra è una lezione della storia che i popoli non ricordano mai abbastanza”.

La dettò il tenente Carlo Del Croix (1896-1977) che, giovane ventenne, prese anch’egli parte alla “Grande Guerra degli Italiani” e che, vittima di un tragico incidente, rimase orrendamente mutilato (senza braccia e cieco) e fu ritenuto spacciato. Si salvò miracolosamente ed ebbe anche una rilevante carriera politica come deputato al Parlamento italiano.Ma veniamo ora ai poeti di guerra inglesi. Erano per lo più giovanissimi e atletici e forti, belli e aitanti quando, smaniosi di battersi e di morire per la loro patria, corsero ad arruolarsi: tre avevano, rispettivamente, 35, 36 e 44 anni, ma ben tredici su sedici contavano dai 17 ai 27 anni! Sono i

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grandi poeti di guerra inglesi, ricordati in Letteratura come “War Poets”, che, tutti spinti da giovanile ardimento e da romantico desiderio di lottare e sacrificarsi per la propria patria, si precipitarono ad arruolarsi e partirono senza porre alcun indugio… del tutto ignari di quanto li aspettava sui campi di battaglia del Fronte Occidentale.Commemorato come “Remembrance Day” nel mondo anglosassone, l’11 novembre 1985, nel 67° anniversario di quell’armistizio che praticamente poneva fine alla guerra, dichiarava sconfitta la Germania e la condannava alla resa, nell’abbazia di Westminster veniva posta una lapide commemorativa, situata nell’Angolo dei Poeti, universalmente noto come “Poets’ Corner”. In essa venivano riportati i nomi dei sedici “Great War Poets”, i grandi poeti di guerra inglesi che si intendevano ricordare per sempre. La scritta, tratta dalla Prefazione alle sue “Poems of Today” (Poesie del mio tempo), la si deve al poeta Wilfred Owen (cui dedicherò il maggiore spazio in questa mia proposta di lettura critica) e recita seccamente e crudamente nella sua, lo dico con un ossimoro, palese cripticità, ma che va interpretata:

“My subject is War,and the Pity of War,the Poetry is the Pity”

a significare, secondo una mia personalissima interpretazione:

“Il tema su cui l’uomo deve riflettere è la Guerra,e la Pietas prodotta dalla Guerra,

la Poesia è la Pietas , il vero amor patrio”.

Prima di accennare, in seguito, ad un singolo significativo e più complesso pensiero in versi per ognuno, ecco di seguito nomi e anno di arruolamento, con l’età di ciascuno:* uno – David Jones – si era arruolato già nel 1913, all’età di 18 anni;* cinque – i diciannovenni Robert Graves e Charles Sorley; i ventisettenni Rupert Brooke, Robert Nichols e Siegfried Sassoon, – si arruolarono nel 1914 allo scoppio della guerra e con la discesa in campo della Gran Bretagna al fianco della Francia;* cinque – Edmund Blunden di 17 anni, Wilfred Owen di 21 anni, Isaac Rosenberg di 25 anni, Edward Thomas di 37 anni e Laurence Binyon volontario di 44 anni – si arruolarono nel 1915, nel secondo anno di guerra;- uno – Richard Aldington di 22 anni – nel 1916, nel medesimo anno in cui Laurence Binyon partiva volontario per la seconda volta;* uno – Wilfrid Gibson di 35 anni – nel 1917. Rimangono da citare:

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* uno, Julian Grenfell, già in servizio nel 1910, cadrà col grado di capitano dei Royal Dragoons a 26 anni nel 1915;* due, Ivor Gurney, era in servizio come soldato semplice già nel 1911, mentre Herbert Read, era in servizio col grado di capitano già a 20 anni nel 1913.Di questi 16 “Great War Poets”, i cosiddetti poeti-soldato, sono sei quelli che perirono tragicamente nel corso della Grande Guerra: tre nel 1915, uno nel 1917 e due nel 1918. La fine più tragica, e la ricorderemo in seguito, tra breve, fu quella del poeta Wilfred Owen: sarà colpito a morte alla testa del suo plotone da combattimento il 4 novembre 1918, sette giorni prima di quell’armistizio che decretava la fine della guerra.Tutti gli altri, dieci su sedici, sopravvissero più o meno a lungo all’insensato macello e all’ignobile mattanza dell’inutile strage, ma di essi solo Robert Graves, che in quegli anni viveva a Maiorca, era ancora vivo l’11 novembre 1985 allo scoprimento della lapide commemorativa in Westminster Abbey: morirà circa un mese dopo dello stesso anno.

* Wilfred OwenBastino alcuni versi di Wilfred Owen (1893-1918), ritenuto dai critici “the finest poet of the war” (il più autentico e valido poeta di guerra) e che ripropongono – sarà titolo anche d’un suo notissimo componimento a breve oggetto di una dettagliata disamina – l’oraziano “Dulce et decorum est pro patria mori” (Odi, III, 2, 13) e che non è certo da leggere secondo la pronuncia inglese per non scoppiare a ridere in una idealizzata (e del tutto teorica, credo io) versione di giovanile eccitato entusiasmo romantico e di esultante ebbrezza sciovinistica per il richiamo del patriottismo (che aveva fatto leva, è il caso di dirlo, con il suo slogan già menzionato.“Britons, Join the Country’s Army!, i.e. Inglesi, arruolatevi per difendere nell’esercito la vostra patria!) e per il fascino della morte in guerra, fatta da chi non aveva mai avuto concrete esperienze di guerra o, come aveva detto l’americano Generale Sherman, non aveva mai sparato un solo colpo di fucile né aveva mai udito le strazianti grida, gli atroci lamenti dei feriti, né respirato il gas tossico delle armi chimiche messe per la prima volta in campo e largamente usate dall’esercito germanico.In questo caso si tratta di una quartina di versi a rima alternata da lui scritta, a poco più di vent’anni, nel 1914, in procinto di arruolarsi (si arruolerà nel 1915), al pari di tanti altri giovani, se non ancora di partire per una guerra a loro nota solo per sentito dire, di una guerra, quindi, vista e vissuta da lontano con giovanile bramosia e giovanile entusiasmo, ma di cui, lui come tutti gli altri suoi coetanei, ignoravano brutture e stragi, rovine e devastazioni, tribolazioni e sofferenze, né avevano mai sperimentato la vita nel fango delle trincee tra cadaveri e topi, in preda a pulci e pidocchi.

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“O meet it is and passing sweetTo live in peace with others,But sweeter still and far more meetTo die in war for brothers.”

versi questi tanto diversi da quelli che scriverà (e li leggeremo) dopo le esperienze di guerra e che significano:

“Oh quant’è onorevole e oltremodo dolceVivere in pace con tutti coloro che ci circondano,Ma è ancor più dolce e oltremodo onorevoleMorire in guerra per i fratelli compatrioti.”

Nel 1915, come anticipato, fu finalmente e con sua piena soddisfazione dichiarato “arruolato e abile al servizio militare” e, come tale, inviato col grado di sottotenente in Francia. Là, nel maggio del 1917, dopo essere rimasto ferito per ben tre volte, venne mandato a Edimburgo e ricoverato nell’ospedale di guerra ovee risultò gravemente colpito da “shell shock”, vale a dire “psicosi da bombardamenti”.A Edimburgo ricevette la visita dei poeti Siegfried Sassoon (1886-1967), Robert Graves (1895-1985) e Robert Nichols (1893-1944), suoi coetanei e che – almeno allora (in seguito anch’essi cambieranno opinione) – avevano il preciso compito di tacitare la netta opposizione e l’accanita protesta di Owen contro la guerra.Missione riuscita, se, nell’ottobre del 1917, in una lettera alla madre, riprendendo il succo di quei versi scritti tre anni prima e traducendo nella sua lingua il verso dell’ode oraziana, affermava e ribadiva:

“It is sweet and meet to die for one’s country.Sweet! And decorous!”

da intendere così:

“Quant’è dolce e onorevole morire per la propria patria.Dolce! Ed encomiabile!”

Morirà il 4 novembre 1918, all’età di 25 anni, alla testa del plotone di suoi soldati colpito dal fuoco nemico di una mitragliatrice, solo sette giorni prima dell’armistizio che sanciva la resa della Germania e la fine della guerra. Nel frattempo, però, sì che aveva fatto in tempo a provare sulla sua pelle (e sulla pelle dei soldati a lui affidati) e a comprendere fino in fondo quella che lui aveva capito essere “The old Lie”: l’antica (trita e radicata) Menzogna della guerra guerreggiata e del patriottismo ad

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oltranza: l’atrocità nascosta, come ignobile mattanza dell’inutile strage, nella menzogna tramandata e già contenuta nel verso oraziano preso come titolo.Tra il marzo 1917 e l’ottobre 1918, all’immediata vigilia della sua morte, ribalta del tutto quanto sostenuto in precedenza al fine di esaltare bellezza e fascino della guerra intesa fino ad allora come sognata avventura romantica e compone le quattro drammatiche stanze per ventotto versi (8vv+6vv+2vv+12vv) di “Dulce et decorum est” (È dolce e onorevole), il cui acme sta tutto concentrato nello spaventoso e spietato distico della terza stanza, in cui, senza eccesso e senza retorica, l’allora ventiquattrenne sottotenente, il poeta Wilfred Owen, rivive la dolorosa e tormentosa drammaticità della tragica fine di un commilitone – amico per giunta – a lui affidato e di cui lui era (e si sente) responsabile in pieno. È un componimento frequentemente antologizzato e certamente noto a molti giovani studenti che si dedicano allo studio della lingua inglese, vale comunque la pena leggerlo e meditarlo nella sua completezza:

DULCE ET DECORUM EST

1. Bent double, like old beggars under sacks,Knock-kneed, coughing like hags, we cursed through sludge,Till on the haunting flares we turned our backsAnd towards our distant rest began to trudge.Men marched asleep. Many had lost their bootsBut limped on, blood-shod. All went lame; all blind;Drunk with fatigue; deaf even to the hootsOf tired, outstripped Five-Nines that dropped behind.

2. Gas! GAS! Quick, boys! – An ecstasy of fumbling,Fitting the clumsy helmets just in time;But someone still was yelling out and stumbling,And flound’ring like a man in fire or lime.Dim, through the misty panes and thick green light,As under a green sea, I saw him drowning.

3. In all my dreams, before my helpless sight,He plunges at me, guttering, choking, drowning.

4. If in some smothering dreams you too could paceBehind the wagon that we flung him in,And watch the white eyes writhing in his face,His hanging face, like a devil's sick of sin;If you could hear, at every jolt, the bloodCome gargling from the froth-corrupted lungs,

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Obscene as cancer, bitter as the cudOf vile, incurable sores on innocent tongues,My friend, you would not tell with such high zestTo children ardent for some desperate glory,The old Lie; Dulce et Decorum estPro patria mori.

Mi sia concesso di proporre la mia personale interpretazione:

* DULCE ET DECORUM EST

1. Spezzati in due, come decrepiti accattoni piegati e ingobbiti sotto il peso degli zaini,Le ginocchia ripiegate, scatarrando come vecchie megere, incespicavamo bestemmiando

[nella poltiglia fangosa,

E fu allora che, ossessionati dalle fiammate dei razzi, ci girammo su noi stessi e

[cambiammo direzione

E faticosamente riprendemmo ad annaspare alla volta del quieto rifugio agognato.I soldati procedevano esausti e insonnoliti. Molti di loro erano rimasti del tutto privi di

[stivali

Ma, pur zoppicando, continuavano ad avanzare, sanguinolenti. Tutti quanti erano

[azzoppati; tutti quanti malsicuri e annebbiati;

Prostrati dallo sforzo; insensibili perfino all’incessante sibilareDei fiacchi proiettili, di grosso calibro che cadevano giù, esplodendo, alle loro spalle.

2. Gas venefico! GAS TOSSICO! Alla svelta, ragazzi! – Eccoci armeggiare come pazzi,Indossare le fastidiose e scomode maschere antigas all’ultimo minuto;Ma uno dei miei soldati non cessava di strillare a perdifiato e tentare di venire avanti

[ c o n g r a n fatica,

E di dibattersi come chi si agiti tra le fiamme o nella calce viva.

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Indistintamente, attraverso le lenti opache e sporche del visore e l’intensa luce

[verdognola,

Come immerso in un mare verde-torbido, lo vidi affogare.

3. Per sempre nei miei sogni, dinanzi al mio sguardo impotente,Lui si affanna a precipitarsi verso di me, lentamente spegnendosi mentre

[ s o f f o c a e affoga.

4. Oh, se anche tu nei tuoi opprimenti sogni potessi immedesimarti e vedertiProprio dietro l’autocarro dentro cui lo gettammo,E scrutare gli occhi vitrei che spasimano sul suo volto,Quel suo volto che spenzola, simile al ghigno di un demonio disgustato da malvagità

[ o l t r e misura;

Oh, se tu potessi avvertire, ad ogni sussulto, il sangueFluire a fiotti dai polmoni disfatti e corrosi da miscela gassosa,Ripugnante come il cancro, dal gusto amarognolo come di rigurgito,Di stomachevoli, croniche ulcere su lingue incontaminate,Cari interventisti, voi di certo non raccontereste con entusiastico ardoreAi giovani smaniosi di battersi e che sognano imprese gloriose che genereranno

[ n i e n t ’ a l t r o c h e disperazione,

L’antica (radicata e trita) Menzogna, È dolce e onorevoleMorire per la patria.

È un componimento poetico-descrittivo amaro e struggente, o meglio: un tragico e atroce documento visivo lirico-drammatico, costruito attraverso il susseguirsi quasi filmico su squarci di visioni intensamente persuasive, in marcata e decisa antitesi con quanto precedentemente sostenuto dal giovane poeta Owen, prima cioè delle sue reali e concrete esperienze di guerra.Anche l’amico poeta Siegfried Sassoon l’aveva incoraggiato alla poesia e qui, con insolita e cruda, ma realistica efficacia Owen documenta e descrive in forti immagini di un’atrocità visivamente cruenta il faticoso affannarsi e l’inumano, disperato avanzare incespicando, annaspando e affondando nella melma limacciosa e nella poltiglia fangosa della trincea,

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tra cadaveri e ratti, del suo plotone di soldati, già vittime importunate da pulci e pidocchi, fisicamente abbrutiti dalla fatica e troppo sfiniti perfino per accorgersi del tonfo di esiziali razzi a gas venefico caduti nelle loro vicinanze, alle loro spalle.Il reiterato grido, a lettere minuscole il primo e a lettere tutte maiuscole il secondo, “Gas! GAS!” segnala, anche visivamente, che si tratta di pericolo grave per la miscela altamente tossica e nociva (combinazione di etilene e cloruro di sodio) letale solo a respirarla perché, intaccando e distruggendo i tessuti polmonari, provoca emorragie interne oltre a colpire in modo grave anche gli occhi. Nel concludere il suo tragico e cruento canto sulla totale perversione e totale disumanità della guerra, di ogni guerra, lancia il disperato messaggio, ma che in realtà era probabilmente indirizzato, in primis, alla giornalista, poetessa e autrice di esaltanti libri patriottici dedicati anche ai ragazzi, Jessie Pope (1868-1941) – che, a mio parere, rappresenta tutti coloro, io li ho definiti “interventisti” di ogni risma, che credono nella guerra, che propagandano la guerra e che la guerra descrivono come lo svolgimento ludico di certi odierni (per me, odiosissimi e altamente diseducativi) videogiochi – e la invita, l’abbiamo letto nel finale che ripropongo, a non trasmettere mai più né nelle poesie, né nei resoconti, né nei racconti di qualsiasi genere:

“…with such high zestTo children ardent for some desperate glory,The old Lie: Dulce et decorum estPro patria mori.”

la si è già letta la versione, ma vale la pena ribadirla:

“…con entusiastico e smanioso ardore

Ai giovani smaniosi di battersi e che sognano imprese gloriose che genereranno

[ n i e n t ’ a l t r o c h e disperazione,

L’antica (trita e radicata) Menzogna: È dolce e onorevoleMorire per la patria.”

Certamente, preso atto che risultato delle grandi battaglie non era altro che massacro e disgusto per l’altissimo numero di morti, feriti e mutilati, gli intendimenti e i componimenti dei giovani poeti inglesi, mutarono e descrissero in versi crudi e brutali tutto l’orrore in loro suscitato dalla più sanguinosa ed estesa carneficina fin’allora conosciuta e il poeta Wilfred Owen, sempre nel 1917, nell’inizio di “Anthem for Doomed Youth” (Inno per giovani predestinati) si chiede:

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“What passing-bells for these who die as cattle?”

da intendere:

“Quali campane da morto [suoneranno mai] per questi giovaniche sono predestinati a morire come bestie da macello?”

Si legga anche come nel primo verso di “Apologia Pro Poemate Meo” (“Difesa della mia poesia”) Owen riesca ad esprimere una sorta di transustaziazione drammaticamente (e, a suo modo, religiosamente) realistica:

“I, too, saw God through mud”

a dire:

“Anch’io ho visto Dio fattosi fango”

sono i soldati del suo plotone: amici e fratelli che assumono l’aspetto del Dio fattosi fango: come se, ma con spirito di profondo rispetto religioso, interpretassimo questo verso riferito ad ogni soldato creatura di Dio: “Et Verbum lutum factum est”.Nella già citata Prefazione a “Poems of Today” (Poesie del mio tempo) Owen, che come gli altri poeti, avevano frequentato e s’erano laureati nei migliori colleges e nelle migliori università inglesi sostiene che i giovani oltre alla conoscenza di

“the great classics of the English speech, may also know something of the newer poetry of their own day”,

e questo è il senso:

“non basta più conoscere solo i grandi classici della letteratura inglese, cioè:oggi è necessario conoscere anche qualcosa della più recente poesia del nostro tempo”.

Certamente intendeva i suoi versi e quelli dei suoi colleghi poeti-soldato che avevano descritto tutto il male che scaturisce dalla guerra. E, detto fra noi, non si può non dargli ragione. Specie ad un secolo di distanza dal suo sacrificio e dal sacrificio di milioni di soldati morti sui campi di battaglia..

* “Great War Poets”: le altre voci

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Dopo aver parlato di Wilfred Owen, lasciatemi spendere parole gravi e importanti per ognuno degli altri quindici poeti-soldato inglesi (e sarebbe bello potervi mostrare anche l’immagine di ciascuno di loro). Riassumerò le note biografiche che li riguardano e allegherò, tratti dalle loro poesie, alcuni significativi stralci che rendano l’idea del dramma creato nei soldati dall’incubo della guerra sul Fronte Occidentale, tragicamente vissuto sulla propria pelle – lo ripeto volutamente – in fangose trincee disseminate di cadaveri dei compagni morti, di ratti famelici e, per giunta, infastiditi senza sosta da pulci e pidocchi.Sulla lapide commemorativa in Westminster Abbey, come già anticipato, sono incisi, a futura e sempiterna memoria, oltre al nome di Wilfred Owen di cui è stato detto, in stretto ordine alfabetico altri quindici nomi di altri “Great War Poets” (Famosi Poeti di Guerra). Passerò in rassegna ciascuno di loro.

* Richard Aldington (alias Edward Godfree, 1892-1962), letterato, combatté sul Fronte Occidentale dal 1916 al 1918 e rimase gravemente intossicato dal gas, ma sopravvisse. Portavoce inglese dell’Imagismo, movimento fondato da Ezra Pound, in cui le immagini si fondono e si fanno “pensiero ed emozione insieme” come nella sua. poesia “Battlefield” (Campo di battaglia):

“The wind is piercing chillAnd blows the grains of snowOver this shell-rent ground;Every house in sightIs smashed and desolate.”

che significativamente, con pochi tocchi e poche immagini, ricrea la tragica situazione di guerra e fa emotivamente riflettere su di essa:

“Il vento è gelidamente pungenteE soffia violento fiocchi di neveSu questa terra lacerata dalle bombe;Ogni casa che si vede dintornoÈ desolatamente diroccata.”

In essa, “pensiero ed emozione insieme”, è descritta e rappresentata l’immagine di una terra distrutta dai bombardamenti e desolata ove crescono solo infinite croci che segnalano le tombe dei soldati caduti. Il poeta passa vicino allo sterminato numero di tombe e legge e ripete: “Qui giace… Qui giace…”. Ma in una tomba giace e riposa “Io soldato tedesco” e nel poeta non scatta più l’odio per il nemico morto: per lui vale “parce sepultis” (pietà per i morti) con l’invito finale del poeta a pregare

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anche per lui, non più nemico, ma fratello da compiangere. Scrisse un noto romanzo antimilitarista “The Death of a Hero” (1929).

* Laurence Binyon (1869-1943) lavorò al British Museum ed è autore di parecchi libri d’arte. Amico intimo di Ezra Pound, che lo chiamava “Bin-Bin” e lo aiutò nella traduzione della Divina Commedia (Inferno e Purgatorio) ritenuta eccellente. Nel 1915 e nel 1916, pur fuori età per l’arruolamento, prese servizio come volontario della Croce Rossa in Francia presso l’Ospedale Britannico per soldati francesi con l’incarico di aiutante di sanità. Raccolse le sue esperienze di guerra in “For Dauntless France” (Per l’eroica Francia). In varie nazioni del mondo, nel Remembrance Day (Giorno della Memoria: 11/11/1918), viene recitata la sua “For the Fallen” (Dedicata ai caduti). Ne riporto due strofe (la prima e la terza sulle sette che compongono la notissima poesia) dal mesto andamento quasi di doloroso salmo nel quale ricorda quanti “eran giovani e forti e sono morti” in quella che fu definita “l’inutile strage”:

“With proud thanksgiving, a mother for her children,England mourns for her dead across the sea.Flesh of her flesh, spirit of her spirit,Fallen in the cause of the free.…They went with songs to the battle, they were young.Straight of limb, true of eyes, steady and aglow.They were staunch to the end against odds uncounted,They fell with their faces to the foe.”

questa è la mia interpretazione:

“Nel glorioso Giorno del Ringraziamento, da madre per i suoi figli,L’Inghilterra piange i suoi morti oltremare.Carne della sua carne, anima della sua anima,Caduti per la causa della libertà.…Cantando andavano alla guerra, erano giovani,.Dal fisico agile, dallo sguardo sincero, risoluti e impetuosi.Sicuri fino alla fine malgrado incalcolabili circostanze avverse,Caddero coi loro volti di sfida al nemico.”

* Edmund Blunden (1896-1974) nel 1916, invece di andare ad Oxford, si arruolò e andò a combattere in Francia. Sopravvisse alle tremende battaglie della Somme (detta “il grande macello” con 20.000 morti e 40.000 feriti) e di Ypres (in cui i tedeschi ricorsero alle armi chimiche). Ancorché per la sua timidezza fosse detto “Bunny” o “Rabbit”, fu premiato

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con la Croce al VM per il coraggio in battaglia. Oltre all’insegnamento di Letteratura Inglese in Giappone e ad Oxford, si impegnò per rendere testimonianza del grande massacro delle battaglie della Prima Guerra Mondiale, come se volesse farsi perdonare d’essere sopravvissuto, mentre molti altri avevano perso la vita. Volle che, come epitaffio, sulla sua tomba fosse scritto: “Harmless young shepherd in a soldier’s coat” (Giovane pastore inoffensivo in divisa di soldato). La sua opera in prosa “Undertones of War” (Sussurri di guerra) include anche trentadue poesie, tra la quali “La Quinque Rue”, una via tranquilla che un soldato percorre e, come in un incubo, la vede trasformarsi nel vecchio, tragico campo di battaglia. Ecco l’inizio:

“O Road in dizzy moonlight bleak and blue,With forlorn effigies of farms besprawled,With trees bitterly bare or snapped in two,Why riddle me thus – attracted and appalled?”

e io la interpreto così:

“O Via immersa nel pallido e livido chiar di luna che dà vertiginiTra miserabili scheletri di ampie fattorie,Tra alberi tristemente spogli o spaccati in due,Perché mi sorprendi in questo modo – avvinto e inorridito?”

* Rupert Brooke (1887-1915) allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, nominato ufficiale nella Real Marina, fallì la sua prima spedizione. In licenza, nel dicembre 1914, compose quei “War Sonnets” (Sonetti di guerra), una guerra più pensata che vissuta, che andarono a ruba e lo resero famoso: 300.000 copie se ne vendettero. Cinque mesi più tardi, a capo di una nave per trasporto truppe destinata a sbarcare a Gallipoli, bello e aitante come Byron, come Byron morì di malattia, senza combattere. Fu sepolto nell’isola di Skyros. Riporto alcuni stralci dai suoi “War Sonnets”, compresi nella raccolta “1914 and Other Poems”, giudicati di tono un po’ blando e scarsamente vigoroso dai critici, ma che, certamente, sarebbero stati più caustici e amari, se avesse potuto ripercorrere le medesime orribili esperienze e vivere l’incubo della guerra di Wilfred Owen e di altri poeti-soldato sul Fronte Occidentale.

“And the worst friend and enemy is Death.” (da “Peace”)

“E il peggior amico-nemico è la Morte.” (da “Pace”)

“If I should die, think only this of me:That there’s some corner of a foreign field

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That is for ever England. There shall beIn that rich earth a richer dust concealed.” (da “The Soldier”)

“Se dovessi morire, pensa di me soltanto questoChe c’è un angolo in una terra stranieraChe sa sempre d’Inghilterra In quella terra fecondaCi sarà sepolta un po’ di polvere ancor più feconda.” (da “Il soldato”)

“Oh! Death will find me long before I tireOf watching you; and swing me suddenlyInto the shade and loneliness and mireOf the last land.” ( da “Oh! Death will find me”)

“Oh! Morte mi sorprenderai assai prima ch’io sia stancoDi guardarti in faccia, e mi rivolti improvvisamenteNell’ombra, nella solitudine, nel fangoDell’oltretomba.” ( da “Oh! Morte mi sorprenderai”)

* Wilfrid Gibson (1887-1915) si presentò per ben quattro volte per essere arruolato, ma fu sempre scartato per la sua accentuata miopia. Tuttavia nel 1917 fu assunto nel Corpo del Servizio Ambulanze e, in particolare, il contatto diretto con i soldati semplici, grazie alla sua sensibilità, lo aiutò a comprendere e a descrivere, in poesie sincere e dirette, gli effetti disastrosi prodotti dalle bombe non soltanto sui loro corpi, ma anche sulle loro menti nel corso della Prima Guerra Mondiale. Ecco due stralci tratti da due poesie della sua raccolta “Battle” (Battaglia):

“Back from the trenches, more dead than alive,Stone-deaf and dazed, and with a broken knee,He hobbled slowly, muttering vacantly…” ( d a “ T h e Messages”)

“Tornato dalle trincee, più morto che vivo,Completamente sordo, e con un ginocchio rotto,Zoppicava lentamente, borbottando in modo squilibrato…” ( d a “Gli annunci”)

“We ate our breakfast lying on our backsBecause the shells were screeching overhead.” ( d a “Breakfast”)

“Facevamo colazione stesi sulla schiena

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Perché le granate esplodevano sulle nostre teste.” ( d a “Colazione”)

Gibson non ha ottenuto grande valutazione dai critici in quanto, pur riconosciuto come poeta di guerra, non descrisse personali esperienze di trincea, ma cercò sempre di immaginare quanto accadeva ai soldati sui campi di battaglia..

* Robert Graves (1895-1985), giornalista e poeta che, trovandosi in Galles al momento della dichiarazione di guerra, a soli 19 anni si recò ad arruolarsi nel corpo dei Fucilieri Reali Gallesi: ebbe subito la nomina a ufficiale. Inviato in Francia, si trovò nel pieno della guerra di trincea e subito immerso in aspri combattimenti in cui vennero uccisi molti suoi commilitoni. Era trascorso un anno e proprio nel giorno del suo ventesimo compleanno, il 24 luglio 1916, fu colpito gravemente alla testa e ad un polmone nella tremenda battaglia della Somme Per lo scompiglio seguìto, fu dato per morto a causa delle gravi ferite riportate e come tale venne comunicata alla famiglia. Sopravvisse, tanto che a novembre dello stesso anno fece ritorno in Francia, ma non poté riprendere servizio a causa del polmone leso e tornò in Inghilterra per rimettersi in salute. Come altri, anch’egli accusò “shell shock” (psicosi da bombardamento) e fu congedato nel 1919. Prese le difese e salvò Siegfried Sassoon dalla Corte Marziale allorché rese pubblica la sua “Dichiarazione” (Statement) contro il proseguimento delle ostilità: Pubblicò le sue esperienze di guerra in due raccolte di poesia: “Over the Brazier” (Sul braciere), 1916 e “Fairies and Fusiliers” (Incantatrici e Fucilieri), 1917. Si sposò più volte e condusse una vita movimentata conclusasi a Maiorca, dedicandosi ad argomenti di antropologia, religione e mitologia. Fu l’ultimo “Great War Poet” a morire. Ecco i due versi d’inizio di “It’s a Queer Time” (È un momento ben strano) da “Over the Brazier” (Sul braciere), che detti da lui, dopo quanto aveva passato, suono veritieri e crudi:

It’s hard to know if you’re alive or deadWhen steel and fire go roaring through your head.

di immediate comprensione:

“Non è facile capire se sei vivo o mortoQuando bombe e spari ti ruggiscono in testa.”

Cercando di dimenticare quanto aveva passato e di cancellare dalla sua testa quanto era disumanamente accaduto, volle raccontare, creandosi antipatie e inimicizie, la sua verità soprattutto nell’autobiografia “Goodbye to All That” (Addio a tutto ciò che è stato, 1929), ritenuta la sua opera più

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riuscita e il resoconto più convincente sulla Prima Guerra Mondiale. In essa, tra l’altro, afferma che i più importanti “war poets” (poeti-soldato) sono da considerare Charles Sorley, Isaac Rosenberg e Wilfred Owen.

* Julian Grenfell (1888-1915) aveva studiato a Eton e ad Oxford; amante sfegatato della guerra, era già in servizio nel 1910 a 22 anni, cadrà col grado di capitano dei Royal Dragoons nel 1915 a 26 anni per le ferite riportate. La sua poesia “Into Battle” (Nel cuore della battaglia) è l’unica rimasta famosa e che di lui si ricordi; è spesso inserita nelle antologie. Pur conscio d’essere circondato dalla morte, il poeta non vive né descrive l’orrore della guerra, ma la natura: il cielo, le stelle, gli alberi, i cavalli, ecc. Il suo primo sentimento è “Joy of Battle” (il gusto del combattimento). Del lungo componimento, propongo i due versi finali della prima strofa e l’ultima strofa:

“And he is dead who will not fight,And who dies fighting has increase.…The thundering line of battle stands,And in the air death moans and sings;But Day shall clasp him with strong hands,And Night shall fold him in soft wings.”

non difficili da comprendere:

“Ed è già morto colui che non combatteràE chi muore combattendo merita gloria.…Ben salda sta l’assordante linea del fronte,E nell’aria la morte diffonde i suoi gemiti;Ma il Giorno lo abbraccerà con le sue mani forzute,E la Notte lo avvolgerà con le sue ali delicate.”

* Ivor Gurney (1890-1937) in servizio come soldato semplice già nel 1911, era amante della musica e dotato per essa tanto da comporre canzoni e musicare poesie. Allo scoppio della guerra cercò di arruolarsi, ma fu scartato per problemi alla vista. Riuscì comunque ad arruolarsi nel 1915 e si recò in Francia nel 1916. Nel 1917 partecipò all’offensiva della Somme. Ferito e intossicato dai gas tossici, venne ricoverato e dimesso dall’esercito per invalidità. Nel 1918 fu colpito da disturbi mentali derivanti dalle esperienze di guerra che si trascinarono fino al 1922 anno in cui fu affidato ad un istituto e trascorse la sua vita in ospedali psichiatrici, convinto che la guerra fosse ancora in corso. Una quartina da “Requiem”, quel riposo al suo tormento che continuò a ricercare fino alla fine:

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“Pour out your bounty moon of radiant shiningOn all this shattered flesh, on all these quiet forms;For these were slain, so quiet still recliningIn the noblest cause was ever waged arms.”

si percepisce il suo tormento:

“O luna riversa il premio della tua raggiante luminositàSu tutta questa carne fatta a pezzi, su tutti questi corpi immoti;Perché costoro furono uccisi, e stanno così quietamente distesiPer la più nobile causa che fu mai combattuta con le armi.”

* David Jones (1887-1915), di padre gallese e di madre inglese, frequentò la scuola d’arte prima e dopo la guerra tanto da farsi un nome come illustratore, incisore e acquarellista. Si era arruolato già nel 1913, all’età di 18 anni, e prese poi parte alla guerra come soldato semplice dal 1915 al 1918. le sue esperienze, incentrate su soldati semplici privi dell’aura di eroismo, le raccolse nel romanzo-poema di guerra in sette sezioni titolato “In Parenthesis” (Tra parentesi… “especially for the writer… the war itself was a parenthesis”: particolarmente per l’autore…la guerra in sé non fu altro che una parentesi) combinando in modo sorprendente prosa e poesia e descrivendo, con tono evocativo e quasi di un rito che deve portare al sacrificio dei soldati, le esercitazioni e le attività preparatorie in Inghilterra della fanteria britannica mirate alla presenza nella brutale e funesta offensiva della Somme nel luglio 1916. Fu autore molto apprezzato da Thomas Stearns Eliot (“a work of genius”: un’opera di genio) e da Wystan Hugh Auden (“a masterpiece”: un capolavoro): quest’ultimo giudicò il suo poema religioso (Jones aveva abbracciato il Cattolicesimo) “Anathémata” la migliore composizione del XX secolo. Da “In Parenthesis”, apprezzato dai critici per essere il miglior compendio sulla Prima Guerra Mondiale: fu giudicato “a greatest book about First World War” ed ecco un significativo stralcio da Preface:

“This writing has to do with some things I saw, felt, & was part of. The period covered begins early in December 1915 and ends in July 1916. The first date corresponds to my going to France. The latter roughly marks a change in the character of our lives in the Infantry on the West Front. From then onward things hardened into a more relentless, mechanical affair, took on a more sinister aspect. The wholesale slaughter of the later years, the conscripted levies filling the gaps in every file of four,…”

questa la mia interpretazione:

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“Questo mio scritto ha a che fare con eventi ch’io ho visto con i miei occhi, ch’io ho sperimentato di persona & di cui sono stato parte integrante. Comprende il periodo che inizia ai primi di Dicembre 1915 e termina a Luglio 1916. La prima data coincide con la mia partenza per la Francia. La seconda segna grossomodo il repentino mutamento nella qualità dei nostri modi di vivere nella Fanteria sul Fronte Occidentale. Da allora in poi le cose si esacerbarono in un modo d’essere più spietato e da automi, assunsero un aspetto più sinistro. L’intera carneficina degli anni successivi, gli arruolamenti obbligatori che colmavano le lacune (i.e. rimpiazzavno i caduti) in ogni pattuglia di quattro,…”.

* Robert Nichols (1887-1944), compiuti i suoi studi ad Oxford, pur debole di salute riuscì a farsi arruolare nell’Artiglieria di campagna in cui fu nominato ufficiale nel 1914. Nel 1915 prese parte ai combattimenti a Loos e alla Somme, ma dopo poche settimane di vita in trincea fu dimesso dall’esercito per invalidità a seguito della sua conclamata “psicosi da bombardamento” (shell shock). Strinse amicizia con i poeti Siegfried Sassoon e Rupert Brooke. Pubblicò due raccolte di poesie di guerra: nel 1915 “Invocation” (Evocazione) e nel 1917 “Ardours and Endurances” (Slanci e Contrasti). Sempre nel 1917 avviò le sue letture pubbliche di poesia e nel 1918 ottenne l’incarico di una missione negli USA. A guerra conclusa prese a frequentare i circoli sociali di Londra e strinse amicizia con lo scrittore Aldous Huxley. Nel frattempo provò a corteggiare l’anarchica Nancy Cunard, scrittrice e poetessa, … a suon di sonetti! Dopo aver insegnato Letteratura Inglese all’Università di Tokyo, andò a Hollywood ove scrisse per il cinema e il teatro con qualche successo.

“What need I have of women’s hand?I, that have felt the dead’s embrace?I, whose arms were his resting place?I, that have kissed a dead man’s face? Ah, but how should you understand?Now I can only turn away.” (da “The Secret”)

“Che bisogno ho mai io di carezze di donna?Io, che provato l’abbraccio di un morto?Io, le cui braccia furono il suo cantuccio di conforto?Io, che ho baciato il volto di un uomo morto?Ah, ma in che misura mai tu capiresti?Ora posso solo distogliere il mio sguardo.” (da “Il segreto”)

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* Herbert Read (1893-1968) aveva studiato all’Università di Leeds, ma interruppe gli studi e nel 1915 fu assunto nel Yorkshire Regiment, prestò quattro anni di servizio attivo combattendo in Belgio e in Francia. Nel 1917 venne nominato capitano e nel 1918 fu decorato per il valore messo in mostra. Dopo la guerra fu professore di Belle Arti all’Università di Edimburgo e divenne il più importante critico d’arte della sua generazione. Come poeta imagista fondeva nell’immagine pensiero ed emozione insieme: le sue raccolte poetiche, “Naked Warriors” (Guerrieri nudi) ed “Eclogues” (Egloghe) descrivono la brutalità e l’oscenità della guerra. La sua poesia non può che essere sincera e cruda, la sua verità si fa brutalmente tremenda e, come ha scritto lui in “The Scene of War”, la guerra è destinata a lasciare “a mark/on our hearts” (un marchio indelebile/nei nostri cuori e nei nostri animi”). Crudamente emblematica dell’immane tragedia e delle vittime è il breve componimento simbolicamente titolato “The Crucifix” (IL Crocifisso):

“His body is smashedThrough the belly and the chest,And the head hangs lopsidedFrom one nailed hand.

Emblem of agony,We have smashed you.”

“l’uomo della croce”, altamente significativo, raffigura e comprende in sé tutte le vittime della guerra:

“Il suo corpo è sconquassatoNel ventre e nel petto,E, sbilenca, la testa ciondola Da una mano inchiodata.

Segno di atroce sofferenza,Ti abbiamo fracassato noi.”

* Isaac Rosenberg (1890-1918 nasce a Bristol in una poverissima famiglia anglo-ebrea di origine russo-lituana. Frequenta, manifestando particolari capacità, le scuole serali d’arte e il suo desiderio è diventare pittore (suoi autoritratti si trovano alla National Gallery e al Tate Museum). Si dedica con serietà anche alla poesia e nel 1912 pubblica, a sue spese, la prima raccolta poetica “Night and Day”, nel 1915 “Youth” e nel 1916 “Moses, A Play”. Gracile di salute, nel 1914 si reca in Sud Africa e nel 1915, tornato in Inghilterra, pur pacifista, si arruola nell’esercito a 25 anni come soldato semplice per far sì che sua madre potesse avere una

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indennità. Nel 1916 fu mandato in Francia, nonostante i suoi limiti fisici, sopravvisse e verrà ucciso nel 1918 di ritorno da una ronda notturna: non si sa se in un combattimento ravvicinato o colpito da un cecchino. Dopo la sua morte la sua fama di poeta originale e drammatico crebbe e si diffuse. È citato da Robert Graves tra i massimi poeti di guerra insieme a Charles Sorley e a Siegfried Sassoon. La sua composizione “Break of Day in the Trenches” è ritenuta la più riuscita poesia di guerra, ma i versi qui proposti, da “Dead Man’s Dump” (Canto funebre per un soldato morto), appartengono, carichi di particolare tensione e di insolita intensità drammatica, a quella che è giudicata come la composizione più sconvolgente scaturita dalla guerra. Con distacco, ma con l’occhio indagatore proprio del pittore quale era, registra e descrive i più orrendi dettagli.

“A man’s brains splattered onA stretcher-bearer’s face;His shook shoulders slipped their load,But when they bent to look againThe drowning soul was sunken too deepFor human tenderness.

They left this dead with the older dead,Stretched at the crossroads.” (da “Dead Man’s Dump”)

ch’io ho reso come segue nella sua lirica e cruda tragicità di significato:

“Le cervella di un soldato morto si spappolarono e schizzaronoSul volto di un barelliere;Le spalle scosse lasciarono scivolare il pesante carico,Ma quando si chinarono per fissare ancora lo sguardoL’anima che stava affogando era già sprofondata nell’abissoPer umana pietà.

Lo lasciarono, questo soldato morto, a fianco di un altro già morto in precedenza,Abbandonati entrambi ad un incrocio.” (da “Canto funebre per un soldato morto”)

* Siegfried Sassoon (1886-1967), di aristocratica famiglia ebrea, studiò a Cambridge senza laurearsi, preso dalle sue passioni per il cricket e la caccia. Combatté nell’offensiva della Somma nel luglio 1916 e per il suo coraggio meritò la Croce Militare e il soprannome di “Mad Jack” (Jack il pazzo). Nell’aprile del 1917, dichiarato inabile per invalidità, fece ritorno in Inghilterra con un proiettile nel torace. Da quell momento in poi da

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coraggioso interventista quale s’era mostrato, con altrettanto coraggio si dichiarò contro la Guerra e rese pubblico un comunicato inviato al suo comandante di “wilful defiance” (intenzionale sfida) all’autorità militare, accusandola di prolungare deliberatamente la guerra, anziché por fine ad essa. Sassoon aggiunge che in questo comunicato, che fa da soldato nell’interesse dei soldati, esprime tutta la sua avversione alla guerra in corso “upon which I entered as a war of defence and liberation,” but “has now become a war of aggression and conquest” (nella quale mi sono arruolato come guerra di difesa e di liberazione, ma ora s’è trasformata in una guerra di aggressione di conquista). Le autorità militari dichiararono che Siegfried Sassoon era stato colpito da “shell shock” (psicosi da bombardamento) e lo mandarono all’ospedale di Edimburgo dove incontrò e strinse amicizia con Wilfred Owen. Anche se la protesta di Sassoon fu messa tacere, continuò i suoi attacchi ai vecchiardi del Governo, dell’Esercito e della Chiesa attraverso le sue mordaci e pungenti poesie, “War poems” (Poesie di guerra, 1928), cariche di irrispettosa ironia. Le sue esperienze di nobile e di soldato in trincea le racconterà nei resoconti autobiografici “Memoirs of a Fox-Hunting Man” (Memorie di un cacciatore di volpi, 1928) e “Memoirs of an Infantry Officer” (Memorie di un ufficiale di fanteria, 1930). Nel 1918, fatto ritorno al fronte e nuovamente ferito, venne dichiarato inabile al servizio e inviato in patria come invalido. Dopo la guerra tornò alla sua vita di aristocratico. Nel 1957 si convertì al Cattolicesimo e fino alla sua morte compose poesie religiose.

“The Bishop tells us: “When the boys come backThey will not be the same; for they’ll have foughtIn a just cause: they lead the last attackOn Anti-Christ; their comrades’ bloodhas boughtNew right to breed an honourable race,They have challenged Death and dared him face to face.”

“We’re none of us the same!” the boys reply,“For George lost both his legs, and Bill’s stone blind;Poor Jim’s shot through the lungs and like to die;And Bert’s gone syphilitic: you’ll not findA chap who’s served that hasn’t found some change.”And the Bishop said: “The ways of God are strange!” (“They”)

ecco il significato complessivo del testo nella sua cruda ironia e orrenda realtà per gli effetti della guerra contro la quale esprimeva tutta la sua disapprovazione:

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“Il Vescovo fa la sua predica: “Quando i nostri giovani torneranno dalla guerraNon saranno più gli stessi; poiché avranno combattutoPer una giusta causa: essi portano a buon fine l’ultimo attaccoContro l’Anti-Cristo; il sangue dei loro commilitoni ha conquistatoNuovo diritto per far crescere e tirar su una stirpe degna di stima e di onore,Essi hanno affrontato la Morte e l’hanno sfidata faccia a faccia.”

“Nessuno, nessuno di noi è più lo stesso!” i giovani reduci obiettano,“Perché George ha perso entrambe le gambe, e Bill è completamente cieco;Il povero Jim è stato gravemente colpito ai polmoni e desidera solo morire;E Bert s’è beccato la lue: Vostra Eccellenza non ne troveràUno, dico uno solo tra i giovani che han fatto la guerra che non abbia subìto

[una qualche metamorfosi.”E solenne il Vescovo rispose: “Le vie del Signore sono misteriose!” (“Essi”)

* Charles Hamilton Sorley (1895-1915) scozzese di Aberdeen, come Siegfried Sassoon, studiò al Marborough College ed si distinse nell’attività fisica estrema, come correre sotto la pioggia (tema frequente nella sua poesia). Ottenne una borsa di studio per Oxford, ma prima trascorse un lungo periodo in Germania per studiare lingua e cultura e iscriversi poi all’università di Jena., ove fu sorpreso dallo scoppio della guerra. Avendo l’Inghilterra dichiarato guerra alla Germania, il diciannovenne Sorley fu fermato, ma, subito rilasciato, fece ritorno in patria ove si arruolò come volontario per il servizio militare. Giunse, col grado di tenente, sul Fronte Occidentale nel maggio 1915 e a soli vent’anni fu nominato capitano. Nel mese di ottobre dello stesso anno fu ucciso, colpito alla testa da un cecchino, nella battaglia di Loos. Lontano dallo stile blando e scarsamente vigoroso di Brooke, per il suo stile crudo e cinico di poeta è considerato precursore di Sassoon e di Owen. Le sue poesie vennero rinvenute nel suo zaino e, pubblicate nel 1916, riscossero immediato successo. Ecco di lui il sonetto dal titolo “When you see millions of the mouthless dead” (Quando appaiono milioni di morti muti e senza voce) che è anche il primo verso. I versi di Sorley, che propriamente esprimono alti sensi di verità, scavano e suonano indelebili nell’animo di ognuno:

“When you see millions of the mouthless dead

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Across your dreams in pale battalions go,Say not soft things as other men have said,That you’ll remember. For you need not so.Give them no praise. For, deaf, how should they knowIt is not curses heaped on each gashed head?Nor tears. Their blind eyes see not your tears flow.Nor honour. It is easy to be dead.Say only this, “They are dead.” Then add thereto,“Yet many a better one has died before.”Then, scanning at the o’ercrowded mass, should youPerceive one face that you love heretofore,It is a spook. None wears the face you knewGreat death has made all his for evermore.”

nella sua intensa e lirica durezza, il componimento è denso e carico di alto rispetto e, senza alcuna retorica, di vera pietà per chi è morto:

“Quando appaiono milioni di morti muti e senza voceNei tuoi sogni schieràti in esangui battaglioni che avanzano,Non ripetere le solite belle frasi, come usano far tutti,Del tipo che non li dimenticherai. Credi, non è proprio necessario.Non tessere il loro elogio. Perché, privi di udito, in che modo verrebbero a sapereChe non si sono accumulate imprecazioni sulla testa squarciata di ognuno?Non versare lacrime. I loro occhi privi di vista non possono veder scorrere le tue lacrime.E non celebrarli con manifestazioni di stima. Non è complicato morire.Precisa seccamente questo, “Loro sono morti.” Aggiungi poi oltre a ciò,“Eppure più d’uno ch’era tra i migliori è già morto in passato.”Quindi, osservando una strabocchevole moltitudine, tu dovrestiIndividuare un volto a cui tu vuoi particolarmente bene prima d’ora,È un’ombra fallace. Nessuno ha quel volto che ti era noto. La morte ha reso grandi tutti coloro che riposano per sempre tra le sue braccia.”

* Edward Thomas (1878-1917), di natura malinconica, era nato a Londra e, dopo aver studiato ad Oxford, coltivò grandi ambizioni letterarie. Sebbene odiasse l’eccessiva fatica, si dedicò a recensire coscienziosamente e con puntiglio fino quindici libri la settimana, ma per sopperire ai magri incassi cominciò a scrivere un libro dopo l’altro, pubblicandone una trentina in vent’anni oltre ad una quindicina di

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antologie. Iniziò anche a recensire poesia e fu tra i primi a riconoscere la grandezza di poeti quali Robert Frost ed Ezra Pound. Nel 1914, incerto se arruolarsi o no, lui che riteneva la poesia la più eccelsa forma di letteratura, cominciò a dedicarsi alla poesia e a produrla in proprio. L’amico Frost si prestò a fargli trovare un lavoro in America, ma il suo senso di patriottismo e l’attrattiva dei una indennità a sostegno della sua famiglia, nel 1915, a 36 anni, lo spinsero ad arruolarsi. Non smise di scrivere poesie sviluppando in esse il suo amore per l’Inghilterra e le sue stagioni, temi che aveva sviluppato nelle sue prose. Nelle sue poesie di guerra, intesa come disfacimento dell’armonia e dell’ordine naturale delle cose (Proprio la distruzione di cui dirà Papa Francesco!), affronta l’imminenza della perdita e la certezza della morte – sua e altrui. Morirà nel 1917, a quasi quarant’anni, sul fronte occidentale ucciso dallo scoppio d’una bomba. Nella poesia “Rain” (Pioggia) sono sviluppati i temi a lui cari: la guerra, la natura, la morte. “Rain, midnight rain, nothing but the wild rainOn this bleak hut, and solitude, and meRememebering again that I shall dieAnd neither hear the rain nor give it thanksFor washing me cleaner than I have beenSince I was born into this solitude.Blessed are the dead that the rain rains upon:But here I pray that none whom once I lovedIs dying tonight or lying still awakeSolitary, listening to the rain,Either in pain or thus in sympathyHelpless among the living and the dead.” (da “Rain”)

si tratta anche di un’invocazione alla pioggia, una pioggia violenta che però non ha il potere di dissolvere, come dice nel seguito il poeta, “the love of death” (l’amore della morte):

“Pioggia, pioggia notturna, nient’altro che pioggia a dirottoSu questo lugubre capanno, e segregazione, e ioA ricordare ancora che devo morireE né avvertire la pioggia che cade né ringraziarlaPer avermi lavato e reso più pulito in questa mia segregazioneDi quanto io lo sia mai stato da quando venni al mondo.Siano benedetti i morti su cui imperversa a dirotto la pioggia:Ma io sono qui a pregare che nessuno tra quelli ai quali un tempo volli beneSia destinato a morire stanotte o a giacere insonneSegregato e fuori mano, costretto a prestare ascolto alla pioggia,

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O immerso nella più nera disperazione o in una così impotente Comprensione tra i vivi e i morti.”

* Pro o contro la guerraNel corso della storia si sono levate molte voci “pro” o “contro” la guerra. Mettiamoci in ascolto di delle prime due voci decisamente contrarie e di condanna:

* Christopher Marlowe: Nel primo atto di “Tamburlaine the Great” (Tamerlano il Grande), riconosciuto capolavoro insieme al “The Tragical History of Doctor Faustus” (La tragica vicenda di Faust), il drammaturgo inglese Christopher Marlowe (1564-1593), il più grande drammaturgo dopo William Shakespeare (1564-1616) di cui fu contemporaneo, fa pronunciare una sentenza definitiva e senza appello:

“Accursed to be he that invented war”

da intendersi:

“Che sia maledetto colui che primo concepì la guerra”.

E, senza voler indagare oltre su chi debba ricadere e a chi debba essere attribuita tale perversa invenzione (o simile vergognosa attività umana), è pur vero che, da sempre, la Storia, fin dalle più antiche civiltà, è stata un ininterrotto susseguirsi di guerre; così com’è vero che, fin dal tempo dei tempi, l’uomo è assillato dall’irrisolvibile problema (o dramma?) della guerra.L’essere umano, pur conoscendone gli indubitabili effetti disastrosi, per qualche perversa, intima e inspiegabile motivazione connessa alla sua stessa natura (Odio? Avidità? Sopraffazione? Conquista? Nazionalismo? o che altro?) alla guerra si è sentito (e si sente) fortemente spinto e dalla guerra ha continuato (e continua) ad essere fortemente attratto.Alcune brevi citazioni possono fornire, forse, la prova provata e la più genuina delle testimonianze di quanto sin qui sostenuto. Fin dall’antichità, storici e militari parlano e descrivono minutamente (e quasi con compiaciuto gusto), e spesso sono a favore e sostengono, le guerre in corso.

* Tucidide: Ne fornisce un calzante e motivato esempio lo storico e militare ateniese Tucidide (circa460 a.C.-dopo 404 a.C.) in “La guerra del Peloponneso” in cui ecco come espone il suo ragionamento:

“La guerra è un male e, come tale, è un qualcosa a noi tutti noi ben noto per cui dovrebbe essere davvero inutile fare un elenco di tutti

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gli svantaggi ad essa connessi. Non c’è nessuno spinto ad intraprendere la guerra per ignoranza, così come non c’è nessuno che se ne terrà fuori se ritiene che da essa trarrà vantaggi.”

Ed ecco, a seguire, tre autorevoli voci decisamente favorevoli alla guerra:

* Vegezio: Lo scrittore romano Publio Flavio Vegezio Renato (metà I sec.-V sec.), un semplice funzionario senza alcuna specifica competenza bellico-strategica (al livello e secondo le regole del teorico militare, il generale prussiano, Karl von Clausewitz, 1780-1831, per intenderci, per il quale “Guerra non è nient’altro che Politica fatta con altri mezzi”), nel Prologo alla sua opera “Epitoma rei militaris,” (Compendio dell’arte militare) sosteneva con estrema sicurezza che

“Qui desiderat pacem, praeparet bellum“Coloro che aspirano alla pace, preparino la guerra”.

* Cicerone: E tale concetto era già stato ribadito nelle “Filippiche” dall’oratore e filosofo Marco Tullio Cicerone (100 a.C.-43 a.C.) che aveva più estesamente chiarito:

“Si pace frui volumus, bellum gerendum est”“Se si vuole godere della pace, è d’obbligo fare la guerra”.

* Cornelio Nepote: Anche lo storico romano Cornelio Nepote (circa 100 a.C.-27 a.C.), il quale nel “De viris illustribus” (Degli uomini famosi), aveva la stessa idea ed, esponendo la vita del generale tebano Epaminonda, affermò:

“Paritur pax bello”“La pace si prepara attraverso la guerra”.

Intendendo “patriottismo” nel giusto significato di amore per la propria patria nella concordia e nel mantenimento della pace fra le nazioni, tre grandi Pontefici, hanno espresso, con forza e vigore, la loro decisa condanna e la netta disapprovazione morale per un inaccettabile e inammissibile comportamento umano: la guerra.

* Benedetto XV: È stato colui che la Grande Guerra l’ha condannata, e con parole nette. Ai primi di settembre del 1914, a guerra iniziata, era stato eletto Papa il pegliese card. Giacomo Della Chiesa (1854-1922) che assunse il nome di Benedetto XV e che, da subito, fu detto, e come tale passò alla Storia, il “Papa della Prima Guerra Mondiale” non tanto da intendersi cronologicamente, quanto per il grandissimo impegno che

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profuse senza sosta affinché tutti i governanti delle nazioni belligeranti, senza alcuna distinzione, facessero tacere le armi e cessassero l’atroce spargimento di sangue umano, accordandosi per una pace vera e duratura che evitasse altre vittime e ulteriore spargimento di sangue e che ponesse fine a quella guerra in atto che lui definì sinteticamente

“l’inutile strage” e “il flagello dell’ira di Dio”.

Le proposte di Benedetto XV per un accordo fra le nazioni belligeranti e la sua forte presa di posizione contro la guerra, non solo non furono accettate, ma non furono nemmeno apprezzate né dai Tedeschi che lo definirono “il Papa francese”, né dai Francesi che, a loro volta, lo definirono “il Papa crucco”. Ciononostante il Pontefice non si dette per vinto e fece di tutto con messaggi, encicliche, convocazioni di governanti responsabili, con legati pontifici perché “l’inutile strage” avesse fine.

* Pio XII: Purtroppo, poco più di vent’anni dopo, esplose un’altra guerra che coinvolse il mondo intero: la Seconda Guerra Mondiale (1939-1945). Ancora una volta chi levò alta la sua voce fu il “Pastor Angelicus”, Papa Pio XII, il card. Eugenio Pacelli, eletto al soglio pontificio nel marzo del 1939 quando già soffiavano minacciosi venti di gravi tensioni che preluderanno proprio alla deflagrazione della più atroce e sanguinaria guerra nella storia dell’umanità.Il neo-eletto Papa si impegnò in ogni modo, con tutte le sue forze umane e spirituali e con tutte le sue capacità di raffinato diplomatico perché fosse evitata la guerra, spronando governi e governanti a creare un nuovo armonico assetto politico fondato sul reciproco riconoscimento e sul reciproco rispetto fra nazioni e popoli.Già nell’agosto del 1939 lanciò un lacerante appello via radio rivolto al mondo intero:

“Nulla è perduto con la pace,tutto può essere perduto con la guerra”.

Ma il drammatico contenuto del radiomessaggio papale cadde inascoltato tra gli uomini imbestialiti e avidi di guerra; la conseguenza fu la peggiore delle catastrofi che mai l’uomo avesse potuto immaginare: 50 milioni furono le vittime della guerra, senza considerare l’immenso numero di feriti e mutilati e senza contare le città interamente distrutte e rase al suolo dai bombardamenti.E purtroppo dal 1945, anno della fine della Seconda Guerra Mondiale, ad oggi dobbiamo renderci conto drammaticamente che le cose non sono affatto migliorate, anzi sono di gran lunga peggiorate perché in oltre

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mezzo secolo si sono contate, sparse per il mondo, più guerre che in tutta la storia dell’uomo.

* Papa Francesco: Anche Papa Francesco auspica ed è fautore di quella giovannea “Pacem in terris”; a questo fine lancia elevati e forti appelli che, ahinoi!, anche nel nostro tempo cadono inascoltati; leva alta la sua voce perché si ponga fine a quella che lui definisce “una strisciante terza guerra mondiale a pezzi” che continua a mietere vittime su vittime e a provocare distruzioni su distruzioni e che, per l’incapacità (o cattiva volontà? o deprecabile disinteresse?) dei grandi organismi politici mondiali di avviare accordi e sostenere soluzioni pacifiche ai conflitti che sempre più s’allargano e si incancreniscono, coinvolge e s’allarga ad un numero sempre maggiore di nazioni.L’ultimo suo recentissimo appello alla pace s’è innalzato come drammatico grido diretto a tutti i responsabili della politica mondiale da un luogo simbolo quale il sacrario monumentale di Redipuglia che commemora centomila soldati caduti un secolo fa, nel corso della Prima Guerra Mondiale.Sono state forti le sue parole che vale la pena ripetere, diffondere e meditare:

“La guerra distrugge. Distrugge anche ciò che Dio ha creato di più bello: l’essere umano. La guerra stravolge tutto, anche il legame tra fratelli. La guerra è folle, il suo piano di sviluppo è la distruzione: volersi sviluppare attraverso la distruzione.”

Per tutte queste comprensibili e validissime ragioni Papa Francesco continua a levare alta la sua voce e a gridare al mondo intero di porre fine a tutte le guerre ovunque sulla terra. Ha invitato coloro che detengono il potere ad impegnarsi per fermare a tutti i livelli i seminatori d’odio e cercare accordi e soluzioni perché il mondo possa tornare a vivere e a prosperare nella pace.Il mondo deve sentire l’obbligo di ascoltare la voce di Papa Francesco. No, quali che ne siano le ragioni non si può perpetuare l’odio tra gli uomini, non si può permettere che la guerra semini distruzione, vittime, morte. Gli uomini lo devono comprendere una buona volta che, come ha ribadito e proclamato Papa Francesco, “la Guerra è nient’altro che pura follia”.La guerra, che è impasto di violenza e male, va contro ogni principio di bene; la guerra, che si nutre d’odio e sopraffazione, fa dimenticare agli uomini la loro origine che è per la ricerca della pace, cioè per la ricerca della valorizzazione e del perseguimento dei buoni sentimenti che, soli, dovrebbero nutrire l’anima e la mente di tutti gli uomini per dirigerli verso la perfezione e verso la felicità ultima.

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Sarebbe bene che apparisse scritto nel cielo, immobile e fisso come un perenne arcobaleno, il forte e inesorabile monito dantesco che da secoli ricorda agli uomini:

“Considerate la vostra semenza:fatti non foste a viver come bruti,ma per seguir virtute e canoscenza.”

(Inf. XXVI, vv. 118-120)

Pur se inascoltato, pur se non sempre messo in pratica, il richiamo è tuttora valido e opportuno. Ma gli uomini non lo tengono nella sua giusta considerazione e cadono di continuo, con troppa frequenza, nell’irrazionale follia della guerra e dell’odio che li rende bruti e sordi ad ogni invito alla fratellanza, ad ogni richiamo di pace.

Benito Poggio