WHERE THE LIPS DARE

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Il ruolo della Prima Tromba nelle Big Bands

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SOMMARIO

PREFAZIONE I – VII CAPITOLO I – DALLE CONCHIGLIE AI PISTONI Cenni sulla storia dello strumento e sul suo utilizzo

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CAPITOLO II – RADICI COLTE PER UNA MUSICA POPOLARE Soluzioni tecniche pre – jazzistiche nella scrittura per ottoni

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CAPITOLO III – BUON SENSO INNANZITUTTO La sezione delle Trombe nella Big Band classica

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CAPITOLO IV – QUALCOSA DI MENO, TANTO DI PIU’ Problematiche estetiche di linguaggio e di suono

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CAPITOLO V – LE NOTE AL LORO POSTO Gli arrangiatori – Piccola storia della Big Band

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CAPITOLO VI – FIRST TRUMPETS’ HALL OF FAME Prime Trombe più o meno celebri

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CAPITOLO VII – LEAD TRUMPETS IN TRICOLORE Prime Trombe italiane

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CAPITOLO VIII – DAI FRATELLI A CARLA PASSANDO PER L’ALTALENA Biografia musicale semiseria dell’Autore

68 PHOTO GALLERY 74 RIFERIMENTI DISCOGRAFICI 83 RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI 87 RINGRAZIAMENTI 89

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PREFAZIONE

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Il lavoro che state leggendo nasce come elaborato d’esame. Essendo io un allievo del Corso Post – Diploma in Musica Jazz, su consiglio del mio insegnante (Piero Leveratto, contrabbassista tra i migliori in Italia, molto apprezzato anche all’estero ed attivo come Docente ormai da parecchi anni), iniziai a pensare all’argomento della Tesi Finale piuttosto presto, verso la fine del primo dei tre anni del Corso, e fin da subito, nello sterminato mare delle possibilità da scegliere, mi trovai di fronte ad un crocevia di opzioni.

Per evitare di realizzare il classico e stucchevole lavoro di compilazione nozionistica, scartai a priori l’ipotesi della monografia – biografia su un musicista: molte pubblicazioni sui trombettisti riempiono già gli scaffali delle librerie, e avrei rischiato la banalità. Per lo stesso motivo, scartai anche l’ipotesi di una ricerca su un trombettista meno conosciuto: “Se devo proprio fare una ricerca, preferisco realizzarne una di respiro più ampio rispetto a quella incentrata su un solo musicista”, pensai. Alla fine, mi resi conto che, nel pur fornito catalogo di edizioni musicali, non ne esisteva neanche una che trattasse di un argomento piuttosto importante: perché, nelle big bands, la Prima Tromba è così importante?

Mi consigliai con Piero, il quale avallò la mia proposta, convenendo con me sull’originalità del tema trattato ed indirizzandomi nelle prime fasi di realizzazione del lavoro.

La Prima Tromba nelle big bands, dunque. La scelta è stata dettata innanzitutto da fattori personali, essendo io titolare di

questa importante parte nella Bansigu Big Band di Genova da ormai quattro anni. In un certo senso, il mio intento è quello di creare una raccolta di informazioni che qualsiasi musicista motivato ed interessato all’argomento dovrebbe essere in grado di reperire con facilità, mediando, ove necessario, l’oggettività di certi argomenti di carattere tecnico – strumentale con la soggettività di altri, di stampo maggiormente estetico ed interpretativo: nei quattro anni di militanza nella Bansigu, sono venuto a conoscenza di queste informazioni in maniera quasi casuale, da altri musicisti o da pubblicazioni generiche sul jazz, ma soprattutto ascoltando molto, come nelle migliori tradizioni di questo stile musicale.

In secondo luogo, mi sembrava appropriato squarciare quella sorta di velo di

“omertà” che circonda il lavoro delle orchestre jazz in Italia. Mi spiego meglio. Dopo un periodo troppo lungo in cui veniva considerato alla stregua di uno

dei tanti “generi di nicchia”, il jazz ha ottenuto il tardivo ma doveroso riconoscimento accademico, e il Corso Post – Diploma triennale a cui si accennava in precedenza, il quale studia quella che negli Anni Trenta era “musica degenerata” è presente in numerosi Conservatori ed Istituti Musicali, con docenti molto qualificati (i quali, prima di questo, sono tutti musicisti validi ed affermati) e programmi di studio e d’esame tutto sommato al passo con i tempi. Accanto all’Alta Formazione Musicale offerta dai Conservatori, esiste poi la grande realtà delle Scuole di Musica, private o a

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partecipazione pubblica, e dei Seminari (o Master Classes, o Clinics, o Workshops): Siena, Perugia, Nuoro, sono solo alcune delle città che hanno scelto di ospitare il jazz tra le proprie mura, ed il numero di allievi (anche stranieri) sempre alto di anno in anno testimonia l’elevato interesse delle nuove leve di musicisti per questo stile di musica.

Contemporaneamente, si assiste ad un continuo fiorire di pubblicazioni di jazz, dovuto al fatto che un sempre crescente numero di persone (musicologi, musicisti, insegnanti, semplici appassionati…) si occupa dello studio e dell’analisi di tutto quanto gravita attorno al fenomeno della musica afro – americana: ed allora ecco che gli scaffali delle librerie, specializzate e non, si riempiono di manuali, metodi, biografie, storie, studi comparati, partiture, real books1, basi musicali (i famigerati play – a – long della Jamey Aebersold Inc.2), e via di questo passo. Va però detto, ad onor del vero, che spesso queste ultime due pubblicazioni sono spesso usate in maniera eccessiva, specie se confrontata con gli inconvenienti che presentano: accordi sbagliati, lacune anche gravi3, incompletezze.

I presupposti per nobilitare il jazz dopo che, ad esempio, Anton Giulio Bragaglia lo descrisse come il peggior fenomeno che si potesse affacciare sulla scena artistico – culturale italiana4, ci sono: rinnovata identità, approvazione accademica, volontà didattica in entrambi i sensi, validissimi musicisti, talentuosi allievi, però……

Però???…… Però le big bands, in Italia, hanno vita difficile; oggi, forse, meno di ieri, o

viceversa da altri punti di vista. Come mai? Da una parte, è lecito pensare che le abitudini musicali italiane, improntate

“geneticamente” al solismo da secoli, giochino un ruolo molto importante, a partire dalla formazione didattica: è molto raro, infatti, trovare allievi di corsi strumentali, principalmente strumenti a fiato (trombe, tromboni, sassofoni), seriamente motivati a studiare per diventare buoni musicisti di sezione: tutti vogliono fare i solisti ed emulare Enrico Rava o Paolo Fresu, e perdono di vista la fatica che loro due, come tanti altri, hanno fatto per arrivare dove sono arrivati. Senza contare che, molto spesso, chi si avvicina al jazz lo fa come se si trattasse di una filosofia da sposare incondizionatamente, o uno stile di vita in cui calarsi in maniera completa, cogliendone, nella maggior parte dei casi, soltanto i lati negativi: continua insoddisfazione, perenne ricerca fine a se stessa, autolesionismo, esibizioni sottopagate (o peggio ancora, retribuite con alcoolici). Il mio parere, in tal senso, può dar fastidio a qualcuno ma è molto chiaro e circostanziato: si può suonare tranquillamente tutta la musica, nel senso più vasto del termine, senza 1I real books sono raccolte di brani musicali suonati talmente tanto da diventare standards. 2 Sono libri di canzoni e brani, spesso divisi per autore o per stile, corredati da un CD sul quale è incisa una base ritmica: riproducendolo in un impianto, è possibile esercitarsi nell’improvvisazione. 3 Ad esempio, durante una lezione di Analisi dei Seminari di Sienajazz 2003, Stefano Zenni disse, quasi scandalizzato, che un brano come Rocker, composto ed arrangiato da Gerry Mulligan per il disco Birth of The Cool, non si trova su nessun real book o raccolta di basi Aebersold; soltanto nell’estate 2003 la Casa Editrice Leonard ha pubblicato e reso disponibile allo studio ed all’esecuzione le partiture di tutti i brani di quel disco. 4 Anton Giulio Bragaglia, “Jazz Band”, Corbaccio, Milano, 1929.

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necessariamente auto – infliggersi pene corporali e psicologiche, le quali sortiscono soltanto l’effetto di abbruttire l’individuo e, cosa ben più grave, screditare la categoria.

Questo problema, annoso già di per sé, si complica successivamente, qualora si voglia scendere ad un livello più specifico e più spiccatamente tecnico, e si presenta agli occhi del grande pubblico degli estimatori del jazz, e di conseguenza anche ai possibili futuri allievi, sotto una duplice forma.

In primis, un buon musicista di sezione dovrebbe avere comunque una preparazione approfondita dell’armonia, delle strutture, degli stili, del fraseggio, insomma una preparazione a tutto campo e di buon livello; il fatto che poi ci si diverta, con il proprio quartetto, a suonare brani di Ornette Coleman o Woody Shaw, costituisce un altro aspetto della faccenda, anzi: ci tengo a ripetere che un musicista completo debba comunque essere aperto a qualsiasi tipo di esperienza, senza farsi condizionare dalle “etichette” che troppo spesso vengono a lui appiccicate addosso, dai critici, dal pubblico e dai musicisti stessi, quest’ultima cosa piuttosto grave. In buona sostanza, un trombettista, un sassofonista, un trombonista, dovrebbe trovarsi a proprio agio sia nel piccolo gruppo, dove la creatività e la vena improvvisativa fanno la parte del leone, sia in un’orchestra, formazione nella quale sono richieste doti di grande precisione, buona lettura a prima vista e – ultime ma non meno importanti – diligenza e abnegazione.

Un cocktail equilibrato e ben dosato di genio e disciplina, in poche

parole. Per prepararlo (e per far sì che sia buono…), il primo ingrediente è una buona

e solida preparazione musicale, necessaria più che mai, diciamo così: per capirsi, quella preparazione fatta di solfeggi parlati, cantati, dettati ritmici e melodici, ma anche di arpeggi, vocalizzi, scale, progressioni, e tutto quanto si conviene ad uno Strumentista con la S maiuscola. Questo perché, a conti fatti, quello che, con un termine americano, viene chiamato ear training, e che si può romanticamente tradurre con educazione all’orecchio, consta di nozioni che sono già materia di insegnamento, sia nelle Scuole private che nei Corsi Principali e Complementari di Conservatorio, ma fino a quando queste nozioni verranno catalogate come una massa di informazioni, utili ma non troppo, da imparare meramente a memoria e da insegnare in maniera nozionistica, con l’unico obiettivo di superare un esame, la preparazione dei musicisti che terminano il corso di studi musicali sarà sempre lacunosa e piena di pregiudizi, e loro stessi faranno un’enorme fatica per apprendere cose che avrebbero potuto tranquillamente acquisire e metabolizzare quando l’età e la spensieratezza glielo avrebbero consentito senza fatica.

Acquisiti gli elementi di base, lo studio del jazz non sarà altro che un’evoluzione di questi ultimi, essendo il jazz stesso la naturale evoluzione della musica eurocolta di fine XIX secolo, imbastardita da quella ridda di influenze (africane, spagnole, italiane, creole, ecc…) che tutti conosciamo.

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Problema ben più vasto e di carattere generale, per le big bands in Italia, riguarda la burocrazia e l’amministrazione delle questioni musicali in Italia. Vediamo in quali termini.

Gli spazi e le strutture messi a disposizione delle scuole di musica, delle associazioni e dei circoli culturali per poter organizzare, anche soltanto in veste semi – professionale, un’orchestra jazz in grado di poter esibirsi in concerti di buon livello, magari con arrangiamenti originali, sono veramente limitati, così come le risorse economiche. Se si escludono isole felici come l’Instabile Orchestra, formata da ottimi strumentisti, o la Scuola Civica di Milano, che al suo interno ha una propria formazione jazz, tutto viene lasciato all’iniziativa di pochi eroici musicisti i quali, avendo una certa preparazione ed investendo (a fondo perduto o quasi…) in termini personali ed economici, si affidano sovente ai propri amici, i quali a loro volta posseggono una certa preparazione ed investono risorse personali ed economiche.

Si crea in questo modo una anti – sinergica dispersione di sforzi che non giova a nessuno, perché non c’è comunione di intenti, requisito fondamentale per un gruppo e, a maggior ragione, per un gruppo di musicisti. Come si potrà constatare nel prosieguo del lavoro che avete tra le mani, una big band deve essere compatta nel suono e nell’intenzione, ed una tale compattezza si ottiene soltanto se i suoi componenti, per usare un termine marinaresco, "remano dalla stessa parte”. Pur evitando di fare della filosofia da quattro soldi, ci si discosta poco dalla verità se si afferma che non sono le note sbagliate in concerto a rovinare il lavoro svolto durante le prove: anche Jelly Roll Morton, Armstrong e le orchestre di Count Basie e Glenn Miller sbagliavano (sebbene raramente…), ma costoro stavano sperimentando, e pur essendo artisti di altissimo livello, erano pur sempre esseri umani o gruppi di essi, che diamine! Non sono gli errori, quindi, bensì i piccoli attriti e divergenze di opinioni tra i musicisti, inevitabili quando sono loro stessi sono diversi in fatto di preparazione musicale ma soprattutto in fatto di aspettative, così come sono inevitabili le gerarchie che si creano spontaneamente all’interno della band.

Gerarchie ed aspettative: due elementi all’apparenza distanti ma strettamente correlati. Iniziamo ad analizzare il primo.

Durante la fase di raccolta del materiale per il lavoro che avete tra le mani, ho avuto modo di constatare, soprattutto sfogliando le pagine del Grove Dictionary of Jazz, che ognuno dei musicisti, catalogati con meticolosità certosina tipicamente statunitense, ha dato il proprio apporto personale ed artistico; la grandezza e l’importanza di tale apporto varia, ovviamente, in funzione del personaggio di cui si sta parlando: va da sé che il contributo, ad esempio, di un Dizzy Gillespie è sproporzionatamente più grande di quello di un Bobby Hackett. Il primo, trombettista pazzerellone e scanzonato che “fece la rivoluzione sorridendo”, per citare il titolo di una sua biografia5, iniziò la propria carriera suonando nella sezione delle trombe dell’orchestra di Cab Calloway; il secondo venne ingaggiato da Glenn Miller in qualità di chitarrista, ma suonava molto bene anche la tromba, e proprio in questa veste lasciò testimonianza della sua vena creativa in diverse occasioni, tra cui non si può non citare il solo in Pennsylvania 6-5000. 5 Michele Mannucci, “Dizzy Gillespie – L’uomo che fece la rivoluzione sorridendo”, Edizioni Nuovi Equilibri, Roma, 1993

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Due personalità distanti tra loro, ma che posseggono un fondamentale trait d’union che li accomuna: entrambi sono stati professionisti della musica, e svolgevano il loro lavoro con scrupolo e dedizione totali, dopo aver studiato per anni e dopo essersi messi continuamente in discussione. Il fatto che ci si ricordi più facilmente di Gillespie che non di Hackett è solo (scusate se è poco…) merito delle felici intuizioni del talento naturale di “The Frog”6, accompagnato (come sempre, in tutte le cose della vita…) da una favorevole coincidenza di fattori. Occhio, pazzia e buco di…, come dicono in Romagna.

In virtù di questo postulato di professionalità e deontologia che dovrebbe essere chiaro nella mente di tutti, qualora si volesse entrare a far parte di una big band si dovrebbe essere consci del fatto che non vige la “legge del più forte” o “del più bravo”: le gerarchie che si incontrano non sono classifiche di concorsi di interpretazione, e “leggere la parte di Quarto Trombone” non significa necessariamente “il primo Trombone è più bravo degli altri”, e questo vale in tutte e tre le winds sections dell’orchestra. L’assegnazione delle parti si riduce ad una mera questione di ruoli e di responsabilità: leggendo i capitoli relativi alle problematiche che si incontrano qualora ci si voglia “specializzare” nella figura di Lead Trumpet, ci si può rendere conto che fare il caposezione, o leggere una Prima Parte, si rivela più un onere che un onore. In parole povere, tanta fatica e nulla di cui vantarsi, se non la soddisfazione di aver svolto bene il proprio lavoro. Come si potrà leggere in seguito, Al Porcino o Conrad Gozo non fecero quasi mai dei solos, ma vissero ugualmente felici e contenti del loro lavoro.

I problemi legati alle aspettative, al pari di quelli relativi alle gerarchie, sono una naturale conseguenza di tutte le problematiche analizzate finora: scarse conoscenze, poca volontà, incomprensioni e fraintendimenti. Ciò che voglio dire è che qualsiasi musicista che si appropri di un’impostazione mentale che unisca il rigore di una preparazione musicale alla diligenza di suonare bene la propria parte porterà con tutta certezza alla realizzazione personale, naturalmente inquadrata nell’ottica della realizzazione del gruppo. Il solo è soltanto una piccola parte del lavoro di una big band7, ed è la conclusione di un percorso di lavoro corale che prevede prove a sezioni separate e poi riunite, per oliare quell’insieme di ingranaggi noto col nome di interplay che consentirà al solista di turno di suonare in tutta tranquillità e rilassatezza, indipendentemente dalla parte eseguita in sezione.

Non di rado, però, chi concepisce l’idea di formare una big band e recluta gli elementi, è colui che “se ne capisce un po’ più degli altri”, e che tiene per sé i solo migliori, a volte in maniera un po’ vanagloriosa. A lungo andare, questa gestione distorta del materiale umano e musicale può generare perdite di motivazioni da parte di alcuni componenti dell’orchestra, i quali finiranno per allontanarsene inevitabilmente, prima spiritualmente e poi fisicamente; coloro che invece volessero, in qualche modo, farsi spazio e dimostrare il loro valore, si trovano a cozzare contro un muro di gomma, ed ogni loro tentativo, in tal senso, verrebbe affossato.

6 Dizzy si guadagnò l’appellativo di “The Frog” (La Rana) a causa del rigonfiamento spropositato delle sue guance quando suonava. 7 Citando Giancarlo Gazzani: “Il solo è il contentino per quello che si è suonato bene prima……”

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Sembrerebbe non esserci via d’uscita, e il lavoro che avete tra le mani non ha assolutamente alcuna velleità di essere considerato un toccasana per tutti i problemi che una big band può incontrare durante tutte le fasi del suo lavoro, dalla formazione dell’organico alle prove, ai concerti. La mia speranza è soltanto quella di aver svolto un lavoro che possa rendersi utile a tutti coloro che vorranno documentarsi in futuro per saperne un po’ di più su questo ruolo – quello della Prima Tromba – il quale necessita grandi doti di impegno, determinazione, costanza ed abnegazione.

Gianpiero Lo Bello

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DALLE CONCHIGLIE AI PISTONI

Cenni sulla storia dello strumento e sul suo utilizzo

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E’ noto che la tromba ha una storia millenaria, ma nella sua forma a noi più familiare (bocchino all’estremità più piccola, campana all’estremo opposto, cannello ripiegato due volte e corpo macchina a tre pistoni indipendenti) ha poco meno di duecento anni. Grazie a Bluhmel e Stölzel, che introdussero la macchina prima nel corno a mano e successivamente nella tromba naturale, si aprì letteralmente un nuovo mondo alla tecnica esecutiva dei trombettisti, che con i tre pistoni potevano disporre, in un solo strumento, di ben sette tonalità: le famose sette posizioni delle quali si parla diffusamente nelle prime pagine dei metodi di tutto il mondo.

Nei secoli precedenti, si cercava di fare il meglio possibile con i mezzi a disposizione, come sempre, d’altronde; è insito nell’animo umano un tale modus operandi, noto come “principio edonistico”. Andando a ritroso nel tempo, si cercherà ora di ricostruire per sommi capi il cammino evolutivo di questo strumento.

I reperti trovati negli scavi di mezzo mondo e le registrazioni effettuate presso le più antiche tribù, accompagnati dalla tradizione orale e dalla mitologia tramandata di generazione in generazione, hanno indotto archeologi ed etnomusicologi a pensare (non a torto, peraltro) che i primi esemplari degli antenati della tromba dovessero essere nient’altro che amplificatori della voce, utilizzati per spaventare le presenze malvagie o per aumentare il potere propiziatorio dei riti magici: nessuna preoccupazione, quindi, a riguardo di colonne d’aria da mettere in vibrazione, imboccature comode, forme di campane, ecc… I materiali erano i più semplici: legno, osso, avorio, conchiglie.

Le grandi civiltà antiche, appropriandosi della tecnologia e della manualità necessaria per utilizzare i metalli, ne fabbricarono i primi strumenti: bronzo, rame, leghe varie; esistono testimonianze di vario genere - qualche reperto, incisioni, bassorilievi, scritti - che evidenziano i primi tentativi di fabbricazione di strumenti metallici a bocchino. In questo ambito storico, i nomi sono velati da un alone di leggenda e di credenze popolari, spesso distorte ed aberranti ma altrettanto spesso veritiere: hasosra, lur, shofar designano strumenti, diversi tra loro ma aventi matrice comune, in uso rispettivamente presso gli Egizi (il primo) e gli Ebrei (gli altri due).

Durante l’epoca della dominazione romana, invece, si fabbricarono e si utilizzarono le trombe diritte dette tube (in greco salpinx) e quelle ricurve denominate lituus, prettamente per scopi militari al fine di richiamare e impartire gli ordini alle legioni e, più “romanticamente”, per incutere terrore negli eserciti nemici: alcuni cronisti latini, nel descrivere il suono di quegli strumenti, usano aggettivi quali “terribilis”, “rudis”, ”horribilis”, “raucus”8……

Presso i popoli extra – europei, trombe di conchiglia e metalliche con o senza bocchino sono presenti in India (sankha, tirucinnam), in America Centrale, più precisamente in Messico e in Perù (trombe di conchiglia: teccitzli, tepuzquiquitzli; trombe in legno, canna o terracotta: pungacuquas); più tardi, in epoca medioevale, le si trovano anche in Giappone (hora, dokaku quelle metalliche) e in Cina (hai lo e hao t’ung).

8 Curt Sachs “Storia degli Strumenti Musicali”

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Contemporaneamente, nell’Europa medioevale, si hanno notizie di strumenti derivanti da quelli romani, a causa dello sparpagliamento delle milizie in tutto il Vecchio Continente susseguente alla caduta dell’Impero d’Occidente. Dalla buccina, ad esempio, derivò il termine francese buisine e quello tedesco, ancora utilizzato, posaune, che identifica il moderno trombone a coulisse.

Una svolta significativa si ebbe col Rinascimento, periodo storico nel quale si assistette ad un processo di emancipazione della musica strumentale da quella vocale, con la creazione di nuove forme e l’edizione dei primi metodi e trattati, ed una conseguente evoluzione degli strumenti stessi e della tecnica strumentale. Fu proprio in quel tempo che si iniziò a studiare più approfonditamente il fenomeno dei suoni armonici, già osservato da Archimede e Pitagora in Grecia, allo scopo di trovarne e codificarne le applicazioni pratiche. In questo contesto, quella “arte di arrangiarsi” alla quale si accennava all’inizio del capitolo assunse i connotati del virtuosismo, come successe per l’appunto tra il Quattrocento ed il Seicento: tale epoca vide lo strapotere incontrastato dei suonatori di cornetto, strumento ligneo a bocchino con la diteggiatura del flauto dolce. Pur suonando uno strumento sostanzialmente ibrido, e non basato sui suoni armonici, costoro definirono dal punto di vista tecnico ed espressivo – strano ma vero… – i fraseggi e le pronunce degli strumenti a bocchino, e ad una loro attenta analisi si può notare che alcuni di essi anticipavano di quattro secoli quelle dei jazzisti. Leggere (per credere) i trattati di prassi esecutiva di quel tempo, ad esempio quelli di Mersenne, se li trovate….

Successivamente, venne il periodo d’oro della cosiddetta “Tromba di Bach”, uno strumento metallico con un foro praticato ad arte nel canneggio ripiegato più volte, con il quale si raggiunsero risultati artistici molto elevati; i due esempi più significativi sono la “Messa in Si minore” (specialmente il Magnificat) e l’Allegro dal Concerto Brandeburghese n°2: primi esperimenti di ampliamento dell’estensione ben oltre sopra il Sib6 sopra il rigo.

Dopo l’”Epoca di Transizione”, durante la quale vennero inventati strumenti a chiavi – i Concerti in Mib di Haydn e in Mi di Hummel sono gli esempi artisticamente più alti, tant’è che oggi sono i più richiesti nelle audizioni – arrivarono le felici intuizioni della Premiata Ditta Bluhmel – Stölzel. Sull’onda del loro successo, vennero fabbricate e brevettate centinaia di modelli e prototipi di nuovi strumenti; per una trattazione completa si rimanda, oltre che al già citato testo di Sachs, al volume “Gli Ottoni” di Anthony Baines.

I modelli che sopravvissero e che vengono utilizzati ancora ai giorni nostri (peraltro dopo molti anni di scriteriato ed egemonico strapotere degli

strumenti a macchina: in Francia, ad esempio, ci furono fortissime resistenze alla reintroduzione del trombone a coulisse nell’organico orchestrale) furono, per l’appunto, la tromba, la cornetta e qualche esemplare della famiglia dei flicorni: il soprano e il baritono (altrimenti noto come euphonium).

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Trascrizione della “Toccata” dall’opera “Orfeo” di Claudio Monteverdi.

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L’UTILIZZO DELLA TROMBA A livello compositivo ed esecutivo, un tale cammino dell’evoluzione

costruttiva e tecnica influenzò non poco le scelte dei musicisti, in tutte le fasi della produzione artistica, dalla composizione alla distribuzione delle parti, dalla scelta dei colori orchestrali alla concezione del suono (da solista o in sezione). Vediamo come.

In qualsiasi libro di Storia della Musica, si può leggere che la prima partitura che comprendesse in organico la tromba è quella dell’opera “Orfeo” di Claudio Monteverdi (1607). Una trascrizione è riportata nella pagina precedente.

Il manoscritto autografo recita così: “Toccata da sonarsi avanti il levar de la tela con tutti li strumenti e si fa un

Tuono più alto volendo sonar le Trombe con le Sordine” Un titolo del genere necessita l’apertura di una breve parentesi. Già agli inizi del XVII secolo, come si nota, si parlava di sordine che

modificano il suono in modo tale da inficiare anche la tonalità del brano. Dati questi presupposti, la storiella del ragazzaccio di orfanotrofio di nome Louis B. Armstrong che inventa dal niente un nuovo stile, senza studiare praticamente nulla, subisce un duro colpo alle fondamenta: è parere ormai diffuso, infatti, che i grandi maestri del jazz sapessero perfettamente quel che facevano mentre incidevano i dischi, e che alle spalle di questi lavori di registrazione ci fosse un duro lavoro di studio e analisi, su tutti i livelli: melodico, armonico e ritmico; gli esempi più alti e luminosi di questa consapevolezza di mezzi sono: il West End Blues inciso da Armstrong e gli Hot Five il 28 giugno 1928 9, ed il solo di Lester Young in Lady Be Good 10 , nella registrazione effettuata il 9 novembre del 1936.

Antecedentemente a Monteverdi ed al suo Orfeo, nello studio dell’evoluzione

musicale di quei secoli, si deve porre molta attenzione ad un aspetto molto importante e cruciale: nel Rinascimento, si scriveva e si suonava esclusivamente per il piacere di farlo, senza alcun tipo di contaminazione politica, religiosa o di qualsiasi altra natura, e questo aspetto, in un certo senso lo ritroviamo nel jazz, almeno nei primi periodi e fatte le debite ed ovvie proporzioni. Le cronache dell’epoca raccontano che, ad esempio, un buon suonatore di cornetto percepiva una paga pari quasi al doppio di quella del compositore, anche se questo si chiamava Gabrieli, Marenzio o Gesualdo da Venosa. Fosse così anche oggi……

Nei due secoli successivi, la musica subì un processo involutivo, che solo alle apparenze era di nobilitazione: si nobilitavano le occasioni ed i luoghi in cui si suonava, e nulla più, anche a causa della grande influenza della Chiesa che non vedeva di buon occhio un modo di suonare eccessivamente profano e lascivo. Pertanto la Tromba si trovò a recitare la parte del Comprimario, raddoppiando i Timpani e venendo utilizzata soltanto come colore o riempimento orchestrale, anche 9 Un’analisi attenta ed esaustiva di quel brano, ad opera di Stefano Zenni è presente sul numero di Giugno 1998 del mensile “Musica Jazz”, pp. 22 – 26. 10 Gunther Schuller, “Il jazz. L’era dello swing. Le grandi orchestre nere”, 1989 Oxford University Press. Edizione italiana: EDT, Torino, 2001, pp. 38 - 45.

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in virtù della limitatezza delle sue potenzialità: scarsa estensione, pochi armonici praticabili.

Le composizioni di Bach, Haydn e Hummel citate in precedenza costituiscono, in epoche differenti, delle splendide eccezioni alla routine di un trombista11 che suonasse in piccoli o medi organici: tali eccezioni vanno inquadrate anche nel loro periodo storico, la fine del Settecento, durante il quale la pratica virtuosistica era perseguita fino al parossismo; eppure Mozart, Beethoven e gli stessi Haydn e Hummel non scrissero mai pagine orchestrali eccessivamente entusiasmanti per questo strumento, dedicandosi maggiormente, ad esempio, al corno.

Con la rivoluzione dei pistoni, dopo una prima fase di “assestamento” e di presa di confidenza col nuovo strumento, compositori e trombettisti divennero sempre più consapevoli delle sue potenzialità, e, secondo un modo di procedere sperimentale ma proficuo, provarono nuove soluzioni.

Il risultato che si ottenne fu il seguente: sulle ali dell’entusiasmo che il movimento del Romanticismo aveva spiegato, nel repertorio lirico ma soprattutto in quello sinfonico (nomi qua e là: Çaikovsky, Mahler, Bruckner, Brahms, Prokofiev, Şostakovic) le trombe vennero utilizzate in maniera sempre più cospicua e matura, artisticamente e tecnicamente parlando.

Attenzione, però: molti studiosi sono sempre più convinti del fatto che, durante tutto l’Ottocento, a questi grandi compositori non interessasse tanto la perfezione dell’esecuzione quanto una buona e fedele estrinsecazione delle idee che avevano messo sulla carta, e che la maniacalità nella cura dei dettagli sia una aberrazione insinuatasi in orchestra per mano dei direttori a partire dal primo Novecento.

Ad ogni buon conto, testimonianza diretta e tangibile di questa “affrancazione” della tromba dal ruolo di gregario sono i ben tredici (!) volumi di passi orchestrali editi dalla International Music Company, i quali contengono tutto – o quasi….. – lo scibile dell’impiego lirico e sinfonico dei Tre Pistoni.

L’apice del successo e la definitiva consacrazione si ebbero con la musica del Novecento, vale a dire il jazz e la contemporanea più “colta” (nel senso meno riduttivo del termine).

Pur col rischio di scatenare le ire di quei poveretti che credono che il jazz sia fatto di note sporche e a caso – e ce ne sono, purtroppo! – non ci si pone in torto se si afferma che i due suddetti stili hanno numerosi tratti di somiglianza, principalmente in termini di concezione del suono e di tecnica strumentale. E’ l’estrinsecazione del materiale ad essere diversa: soggettiva nel jazz ed oggettiva nell’altro versante.

Grandi autori come Stravinsky, Hindemith, Bozza, Ibert, Honegger, ma anche meno conosciuti come Charlier, Aroutounian, Tomasi, Jolivet, Porrino, Stevens, scrissero per la tromba circa ottanta, cento e anche più anni dopo l’introduzione della macchina, e lo stesso dicasi per coloro che, aldilà dell’oceano, muovevano i primi passi in quella musica che sarebbe poi diventata il jazz: Buddy Bolden, Freddie

11“Trombista” è l’accezione più corretta: la dizione Trombettista deriva dal secolare utilizzo dello strumento in situazioni militari, per richiami e squilli. Ancora più scorretta, dal punto di vista artistico, è la dizione Trombettiere.

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Keppard, poi Joe “King” Oliver, Oscar “Papa” Celestin, Louis Armstrong e Bix Beiderbecke, giusto per fare qualche nome tra i pionieri.

Un periodo di tempo così lungo lascia presupporre che queste persone si fossero rese conto, volontariamente o no, delle enormi potenzialità dello strumento, e che scrissero e suonarono in maniera tale da far raggiungere allo strumento la completa emancipazione.

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II RADICI COLTE PER UNA MUSICA

POPOLARE

Soluzioni tecniche pre – jazzistiche nella scrittura per ottoni

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Durante l’Ottocento, due grandi compositori si preoccuparono di stabilire delle norme di scrittura per la sezione degli ottoni (e non solo, peraltro…), ed infatti il “Grande Trattato di Strumentazione ed Orchestrazione Moderna” di Hector Berlioz (1843) e i “Princìpi di Orchestrazione” di Nikolaj Rimskij – Korsakov (1891) sono ancora oggi due testi consigliati ed usati da compositori ed arrangiatori di tutto il mondo.

A livello di impostazione generale, i quasi cinquant’anni che separano le date di pubblicazione di questi due trattati si vedono tutti: è ovvio, se non scontato, e fin dalle prime righe il lettore se ne accorge, che il russo ha potuto disporre di mezzo secolo di innovazioni tecniche e costruttive applicate agli ottoni e specialmente alle trombe, come descritto nel precedente capitolo. Ciononostante, il testo di Berlioz è stato tra i primi ad affrontare in maniera analitica ed esaustiva argomenti fino ad allora trascurati, come la classificazione degli strumenti e le loro estensioni, soffermandosi inoltre sul loro utilizzo ottimale come solista ed in sezione.

Con questo non si vuole dire che, in precedenza, non esistessero pubblicazioni musicali di questo genere: trattati e manuali di espressione ed interpretazione strumentale furono pubblicati a partire già dal XV secolo, sull’onda benefica del movimento dell’Ars Nova vennero divulgati testi di teoria e pratica vocale, e già alcuni grandi filosofi e uomini di cultura greci (Pitagora, Archimede, Aristotele su tutti) affrontarono diverse problematiche legate, ad esempio, alle note della scala, ai loro rapporti reciproci ed alla loro minore o maggiore efficacia nel caso in cui venissero suonate in accompagnamento al canto monodico (stile nel quale i Greci eccelsero) o in combinazione tra loro. Notevoli ed illuminanti, in tal senso, si rivelarono gli esperimenti sul monocordo, effettuati da Archimede, sulla base dei quali Gioseffo Zarlino, quasi duemila anni dopo (1568), elaborò le sue teorie.

I testi di Berlioz e Rimskij – Korsakov si collocano, bontà loro, in un settore molto specifico, quello dei trattati di orchestrazione, del quale potrebbero essere considerati i capifila, per completezza, esaustività e funzionalità dell’uso; per questi motivi, anche in questa sede, si daranno alcuni cenni sulle soluzioni tecniche e pratiche consigliate da questi due testi: si invitano i lettori più curiosi ed affamati di nozioni più approfondite in questo ambito a procurarseli.

1. Il “Grande Trattato di Strumentazione ed Orchestrazione Moderna”12 di

Hector Berlioz è oggi disponibile in commercio nell’edizione della Ricordi, e rispetto alla versione originale (tradotta da Alberto Mazzucato), presenta, in più, le appendici e le revisioni di Ettore Panizza13.

Il compositore francese dedica grande spazio alla descrizione delle caratteristiche intrinseche ed estrinseche degli strumenti in uso all’epoca (estensione, ambito di migliore utilizzo da solista ed in sezione, possibilità tecniche), stabilendone l’utilizzo ottimale in funzione di esse (di nuovo il principio

12 BMG Ricordi, Milano, 1998. 13 Ettore Panizza, musicista, didatta, è noto soprattutto grazie alle riduzioni per piccola orchestra delle partiture delle opere di Giacomo Puccini

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edonistico……), e suffragando i propri asserti con congrui ed efficaci esempi, tratti da composizioni proprie od altrui.

Va inteso, a scanso di ogni equivoci, che, all’epoca in cui Berlioz scriveva il suo trattato, la tromba stava uscendo dal misero ruolo di strumento da ripieno al quale era stato relegato nei secoli precedenti14; significative sono le seguenti parole: «Malgrado l’incontestabile fierezza e nobiltà del suo suono, non v’ha forse strumento che sia stato avvilito quanto la tromba. Prima di Beethoven e di Weber, tutti i compositori, non escluso Mozart, si sono ostinati, sia a ristringerla negli ignobili limiti del ripieno, sia a farle suonare due o tre formole ritmiche, sempre le medesime, stupide e ridicole, quanto anche sovente antipatiche al carattere dei pezzi nei quali figuravano. Questo detestabile luogo comune è finalmente abbandonato oggidì: ogni compositore, che senta cosa è stile, dà alle melodie, agli accompagnamenti, a qualsiasi passo, insomma l’ampiezza, la varietà e l’indipendenza che la natura dello strumento presenta15».

Parlando poi degli strumenti a macchina, Berlioz prima pone l’attenzione sul fatto che, rispetto a quelli naturali, avessero un’estensione più limitata, nonostante avessero guadagnato la possibilità di produrre tutti i suoni della scala cromatica, quindi afferma che «La cornetta a pistoni è al giorno d’oggi molto in moda in Francia, principalmente in un cotal mondo musicale, nel quale l’elevazione e la purezza dello stile non vengono considerate come qualità essenziali: perciò è divenuta lo strumento di soli indispensabile per la contraddanze, galop, variazioni ed altri componimenti di secondo ordine. L’abitudine […] di sentirla nelle orchestre da ballo ad eseguire melodie più o meno mancanti di originalità, ed il carattere del suo suono, che non ha il decoro dei suoni del corno, né […] la fierezza di quelli della tromba, rendono molto difficile l’introduzione delle cornette a pistoni nell’alto stile melodico. Però qualche rara volta è atta a figurarvi, sempre a condizione di non cantare che frasi di movimento largo e di una dignità incontestabile». Le domande nascono spontanee: avrebbe mai immaginato Berlioz quello che sarebbe successo una settantina di anni dopo dall’altra parte dell’oceano? New Orleans non era un possedimento francese? Il jazz orchestrale non è nato come musica per ballare?

L’Autore conclude la sua opera fornendo svariate informazioni di carattere organizzativo, quasi logistico, sulla disposizione e sul numero di componenti degli organici. Assimilando l’orchestra ad un grande ed unico strumento, dal quale profondono suoni di natura diversa, sia simultaneamente che in successione tra di loro, Berlioz enumera tutta una serie di regole tecniche e pratiche, riguardanti, ad esempio:

• l’equilibrio numerico e armonico tra le sezioni, in funzione anche della composizione da suonare;

• le modalità e le gerarchie nell’effettuazione delle prove, sia di sezione che a tutta orchestra;;

• la disposizione delle diverse famiglie degli strumenti e del coro; • le combinazioni di famiglie più sensate e funzionali.

14 Cfr. Cap. I 15 Op. cit., p. 268.

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Dopo aver infine affermato che«… la costante uniformità delle masse d’esecuzione è uno dei più grandi ostacoli alla produzione di opere monumentali e veramente nuove», ed allora fissa in 456 (!) elementi il numero di componenti di un’ipotetica orchestra “da Festival”, il musicista francese lascia uno spazio veramente risicato ai metodi ed ai mezzi che riguardano l’ottenimento di particolari “effetti armonici”, come egli stesso li definisce; ciononostante, le indicazioni timbriche ed espressive che fornisce sono estremamente precise e circostanziato, al punto che si può facilmente e ragionevolmente presupporre che quelle poche righe siano state il punto di partenza per le opere dei compositori e dei trattatisti successivi, compreso Rimskij – Korsakov.

2. Il trattato di Rimskij-Korsakov stupisce subito per la sua completezza:

per ogni esempio scritto si trova un riferimento a composizioni dell’autore stesso. Qualcuno potrebbe accusarlo di narcisismo, ma tant’è…il fine giustifica i mezzi.

In funzione dell’organico orchestrale, il compositore russo opera una classificazione in tre gruppi: ottoni a due, a tre e a quattro.

OTTONI A 2 OTTONI A 3 OTTONI A 4

2 trombe 3 trombe oppure 2

cornette+2 trombe

3 trombe

4 corni 4 corni 6 o 8 corni

3 tromboni/1 tuba 3 tromboni/1 tuba 3 tromboni/1 tuba

(Molto spesso la III parte veniva suonata con una tromba in Fa o addirittura con

una tromba bassa)

Strumenti speciali esclusi (nel testo si fa esplicito riferimento alle tube wagneriane, al cimbasso, alla tromba piccola16) le soluzioni compositive e di arrangiamento consigliate ed adottate dall’autore sono molto simile a quelle adottate e consigliate per la famiglia dei legni, con una grande differenza: un utilizzo in partitura nettamente minore.

Dopo aver dato qualche cenno sulla storia degli ottoni in orchestra, Rimskij-Korsakov descrive il risultato uditivo e musicale tangibile del suo modo di scrivere per questa classe di strumenti; è mio piacere riportarlo testualmente17.

« […] Gli ottoni sono tanto simili tra loro per estensione e timbro che non è necessaria alcuna disquisizione sul registro. Come regola generale, quanto più ci si avvicina al registro acuto, tanto più il timbro diventa brillante. Nel “pp” la sonorità 16 Cfr. A. Baines, “Gli Ottoni” 17 Cfr. A. Rimskij-Korsakov, op. cit., pp. 27-32.

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risulta dolce; nel “ff” il suono è duro e deflagrante. Gli ottoni possiedono una notevole capacità di aumentare dal “pp” al “ff” e di ridurre inversamente il suono; l’effetto di passaggio dallo “sf” diminuendo al “p” risulta eccellente.

[…] Il gruppo degli ottoni, sebbene uniforme nella sonorità in ogni sua componente, non è particolarmente adatto ad eseguire parti “espressive” nel vero senso della parola, come lo sono invece i legni. Tuttavia, un “ambito di miglior espressione” può essere individuato intorno al registro medio.

[…] L’uso delle note “chiuse” e delle sordine altera il carattere del suono degli ottoni. Le note chiuse possono essere impiegate solamente su trombe, cornette e corni; la forma dei tromboni e delle tube fa sì che la mano non possa essere introdotta nella campana. Sebbene le sordine siano applicate indiscriminatamente a tutti gli ottoni dell’orchestra, le tube raramente le adoperano. Sulla tromba, una nota in sordina ha un effetto migliore di una nota chiusa.»

La trattazione del grande autore russo prosegue poi con l’esamina dell’assegnazione di una melodia agli ottoni. Con i pochi mezzi a disposizione prima dell’introduzione della macchina, si è già detto che i compositori assegnavano a questa sezione frasi e temi, formate per lo più da intervalli di quarta e quinta giuste e terze e seste maggiori, che avevano carattere di squillo, fanfara, ecc. le quali tanto bene sposavano col carattere proprio degli strumenti stessi. L’evoluzione ha reso possibile un arricchimento, in tal senso, ed una varietà di espressione enormemente più grande.

Col repertorio sinfonico, infatti, si cominciano a scrivere passi “a solo” in due o tre parti, anche con note estranee alla scala naturale, e Rimskij-Korsakov consiglia: «Queste frasi […] possono essere anche date da eseguire ai tromboni. Le note del registro medio ed acuto delle trombe e dei corni, chiare, piene e squillanti, sono però le più adatte a questo tipo di figurazioni».18

Inoltre, egli afferma che l’ambito ove meglio si può assaporare il timbro degli ottoni è quello del diatonismo; evitando le modulazioni, si possono assegnare ed ascoltare melodie «trionfanti ed esaltanti nelle tonalità maggiori, meste e tenebrose in quelle minori».19

Discutendo, poi, delle diverse possibilità di combinazione tra strumenti, il russo suggerisce l’assegnazione di melodie (intere o frammenti)usando gli ottoni in ottave, terze o seste, e motiva tale asserto con ragioni fisiche e tecnologiche. L’intero gruppo degli ottoni, infatti, può produrre suoni molto potenti e squilibrare così l’intera orchestra; nondimeno, il fisiologico cambiamento di sonorità (dallo scuro al chiaro) che si riscontra nel passaggio dal registro grave a quello acuto avalla e conferma tale norma compositiva.

La combinazione di legni ed ottoni, secondo Rimskij-Korsakov, «produce una sonorità complessa in cui predomina il suono di questi ultimi. […] Il suono dei legni si miscela con quello degli ottoni, lo rende più soffice e rarefatto come avviene nella

18 A. Rimskij-Korsakov, op. cit, p. 65 19 A. Rimskij-Korsakov, ibid.

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combinazione di due legni di diverso timbro […] specialmente nei passaggi in “f”. La tromba è lo strumento raddoppiato più frequentemente».20

Per concludere questo capitolo, si vuole citare, seppur brevemente, il testo

“Studi di Strumentazione per Banda” di Antonio Vessella, disponibile in commercio nella versione comprendente il compendio e l’appendice di Alamiro Giampieri: questa pubblicazione è importante perché è la prima ad analizzare le grandi possibilità esecutive ed interpretative di un organico – quello della banda – formato esclusivamente da strumenti a fiato e percussione, in contesti artistici che vanno dalla semplice trascrizione di passi e brani per orchestra alla composizione originale per piccola, media e grande banda.

E ciò non è cosa da poco, in quanto, ad esempio, le orchestre che, nei primi anni del XX secolo, suonavano negli alberghi e sui battelli – negli Stati Uniti ma non solo – quella musica che poi sarebbe diventata il jazz, spesso e volentieri dovevano cimentarsi con brani appartenenti al repertorio operistico, operettistico e sinfonico europeo, ovviamente ridotti per piccoli organici comprendenti una cornetta, un clarinetto, un trombone, un corno francese, un basso tuba o un sousaphone, vari strumenti a percussione: una piccola banda, insomma, con una amalgama strumentale21 sapientemente descritta e sviscerata in tutti i suoi aspetti nelle pagine dell’opera.

20 A. Rimskij-Korsakov, op. cit, p. 68 21 Op. cit, p.99

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III

BUON SENSO INNANZITUTTO

La sezione delle Trombe nella Big Band classica

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Essendo il jazz uno stile basato principalmente sulla tradizione orale, i primi temi e i primi arrangiamenti venivano suonati a memoria – i cosiddetti head arrangements - , e si basavano essenzialmente su riffs, inventati sul momento o meno, che venivano ripetuti svariate volte. L’industrializzazione del mercato musicale (musicals, swing craze, Tin Pan Alley, case discografiche ed editorie musicali che spuntavano come funghi in ottobre, e chi più ne ha più ne metta…) rese necessaria la codificazione – più o meno palese – di norme quantitative e di condotta utili a tutti.

Fu proprio intorno alla metà degli Anni Trenta, infatti, che si definirono gli equilibri numerici e timbrici tra le sezioni della big band. Per quello che riguarda la sezione dei saxofoni, l’odierna distribuzione con due contralti, due tenori ed un baritono arrivò dopo la Seconda Guerra Mondiale22, mentre prima gli organici comprendevano anche uno o due clarinetti (ad esempio nelle orchestre di Miller, Ellington, ma anche Lunceford, Pollack, Andy Kirk).

Gli ottoni, trombe e tromboni, essendo due sezioni omogenee in termini di timbro e tipologia di strumenti, subirono soltanto modifiche numeriche: Ellington, ad esempio, fu il primo a scrivere (e lo fece copiosamente) per tromboni a tre parti.

Alle spalle di questo processo evolutivo c’è il duro lavoro di compositori, arrangiatori e musicisti – vedasi in proposito il capitolo 5 – principalmente attraverso due fattori:

• le nozioni derivanti dalle esperienze personali; • le informazioni apprese durante il corso di studi.

I primi – i compositori – partorivano l’idea, i secondi la mettevano sulla carta e gli ultimi la suonavano: questa, per sommi capi, è il “flusso produttivo” che regolamenta il lavoro delle big bands da ormai circa ottant’anni. Non di rado, le figure del compositore e dell’arrangiatore finivano per coincidere23; anche in questo caso, Ellington e Strayhorn fanno da capiscuola, ma tanti altri fanno parte di questa categoria.

Nel capitolo precedente sono state analizzate le regole suggerite da due grandi

compositori attivi nel XIX secolo: sia Berlioz che Rimskij-Korsakov vestirono i panni del trattatista e misero sulla carta, rendendoli disponibili ai posteri, i concetti teorici da loro giornalmente adottati nella loro professione. La medesima altruistica idea di mettere a disposizione di tutti il loro “pane quotidiano”, l’hanno avuta più di un secolo più tardi Russell Garcia, Sammy Nestico e Don Sebesky, con i loro funzionalissimi e, in virtù di questo, utilizzatissimi manuali di arrangiamento, i quali, tra le altre cose, hanno il grande pregio di fissare alcuni concetti generali di validità oggettiva in un campo – quello dell’arrangiamento – in cui è quasi sempre la soggettività a farla da padrone. 22 Ad onor del vero, il sax baritono venne introdotto da Ellington negli Anni Trenta, ma la presenza di tale strumento negli organici divenne stabile dopo, a partire proprio dalla fine del secondo conflitto mondiale. (N.d.A.) 23 Un principio compositivo di questo tipo lo si potrebbe assimilare al Wort-Ton-Drama wagneriano o, più follemente e per toccare un esempio che di jazzistico ha all’apparenza poco, allo stream of consciousness dell’Ulysse di James Joyce.

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Altri elementi comuni di questi tre manuali si possono così individuare: • un’organizzazione funzionale, razionale e metodica del materiale: data la

vastità ed eterogeneità di quest’ultimo, nulla poteva essere lasciato al caso;

• l’indicazione delle estensioni di tutti gli strumenti, sia in termini di utilizzo corrente che di “note eccezionali”: i tre indicano inoltre le trasposizioni in note reali per quegli strumenti tagliati in tonalità diverse da quella di Do, nonché strumenti congeneri adottati in situazioni particolari, per ottenere certe sonorità (per gli ottoni, ad esempio, tutta la famiglia dei flicorni dal sopranino al basso, la cornetta, il basso tuba, il sousaphone);

• l’indicazione ed esplicazione dei simboli usati nella notazione moderna, per quegli effetti sonori tipici della musica jazz, nonché la descrizione delle indicazioni supplementari (sordine, lip trills, bendings24 , ecc…) ai segni di dinamica, articolazione ed agogica;

• un’analisi completa ed esaustiva di tutto quello che ruota attorno al processo creativo dell’arrangiamento per orchestra, dallo small combo alla grande orchestra ritmico – sinfonica, per dirla “all’italiana”, ivi compresa l’organizzazione del lavoro in studio di incisione e la disposizione degli strumenti in una situazione di concerto live;

• la presenza di numerosi esempi scritti, a suffragio delle parole che non sempre descrivono appieno la forza o la debolezza di una soluzione musicale piuttosto che di un’altra;

• la presenza di alcune note autobiografiche degli autori, che conferiscono un taglio da “bottega artigiana” sia al libro stesso che, per estensione concettuale, alla professione di compositore/arrangiatore in sintonia con quanto specificato poc’anzi.

Nell’approccio agli argomenti ed al loro trattamento, invece, il testo di Garcia

si discosta leggermente dagli altri due: nel prosieguo si capirà perché. Un’ultima avvertenza, prima di passare ad una sintesi dei contenuti di queste

pubblicazioni. Ho volutamente omesso esempi musicali, sebbene le pagine dei tre manuali

consultati ne siano ovviamente piene25, sostanzialmente per due motivi: • il primo, di carattere tecnico, riguarda il fatto che essi sono nient’altro

che esempi, seppur validissimi e qualificati: da essi è bello partire per sperimentare nuove soluzioni, come da sempre accade in Musica;

• il secondo è quasi una” provocazione”, da parte mia, in quanto, dando tutti i riferimenti bibliografici, invito tutti coloro, che fossero interessati a documentarsi in tal senso e non avessero questi tre testi, a dotarsene al più presto: risultano molto utili, anche qualora, nella propria carriera,

24 Cfr. Glossario. 25 Nel Caso del Nestico e del Sebesky, le figure sono supportate anche dal supporto audio

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non si debba scrivere mai una nota per qualcun altro. Spero non venga interpretato come un atto di pubblicità occulta: di questi tempi, va di moda…

La fama di trombonista di Sammy Nestico venne presto oscurata da quella

ben più grande di arrangiatore, al tal punto che oggi lo si ricorda quasi esclusivamente in quest’ultima veste, anche grazie alle sue prestigiose collaborazioni: Count Basie su tutti, ma poi anche Bing Crosby, Sarah Vaughan, Frank Sinatra, Pia Zadora, e numerosissime referenze televisive, per non parlare dei suoi incarichi con le Bande dell’Aeronautica e della Marina Militare Americana.

La prima frase del suo manuale, intitolato “L’Arrangiatore Completo”26 , è esemplare: « Il traguardo ideale di ogni arrangiatore è quello di trasformare le note scritte sulla carta in musica viva – un messaggio dall’arrangiatore all’ascoltatore», e tutto il seguito pare arrivare di conseguenza.

Nestico descrive la tromba come il “presidente”27 della sezione degli ottoni, in virtù della sua versatilità, del suo suono penetrante e dinamico e delle eterogenee possibilità di combinazione con strumenti di famiglie diverse, all’unisono o all’ottava. Analizzando poi la sezione nella sua interezza, afferma che, nell’enorme gamma di possibilità di scelta, il suono del coro di ottoni sia quello più emozionante, sebbene non manchi il consiglio di scrivere armati di una buona dose di buon senso.

I quattro voicings sopra indicati mostrano, a titolo assolutamente

esemplificativo, quale sia la disposizione ideale delle voci per sezioni a quattro parti: le trombe suonano una triade, con la lead raddoppiata all’ottava inferiore dalla quarta, ed i tromboni sostengono da sotto in posizione stretta, sempre compatibilmente con il registro e la tessitura. Questo modo di scrittura risulta talmente funzionale ed equilibrato che è diventato un “marchio di fabbrica” dello stile della big band di Basie, stile che viene completato dai sassofoni, i quali, in maniera contrappuntistica, si sovrappongono a trombe e tromboni: spesso, negli arrangiamenti di Nestico, la linea melodica, nelle voci interne, è suonata da tre o più strumenti, e altrettanto frequentemente, ance ed ottoni suonano in omoritmia, per evitare l’indebolimento melodico ed armonico28. Nestico inoltre sottolinea che, molto spesso, un'estensione 26 Titolo originale: The Complete Arranger, Fenwood Music Inc., U.S.A., 1993 – Edizione italiana: Piccolo Conservatorio Nuova Milano Musica, Milano 1998. 27 Op. cit., p.66. 28 Op. cit., p.76 e segg.

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limitata riesce ugualmente a dare un suono grande e corposo, in virtù della logica e corretta distribuzione delle parti.

I consigli pratici di scrittura per ottoni evidenziati nel manuale possono poi essere elencati come segue:

• negli ensemble concertati la disposizione migliore è quella stretta (triadi sopra accordi molto stretti), per avere un suono più incalzante e serrato29;

• un contrappunto più netto e separato tre ance ed ottoni è indicato come il più appropriato per gli ensemble chorus30;

• un disegno con tromboni più o meno fermi e trombe che si muovono nell’ambito della melodia funziona meglio quando si ha a che fare con orchestre di giovani musicisti: è una soluzione molto pratica, a detta di Nestico, in quanto le parti che si ottengono «sono significativamente scorrevoli e facili da suonare31»;

• qualora si debba scrivere nel registro basso per trombe e tromboni (i quali però sono più agili in quella zona della loro tessitura), è lecito, quindi consigliato, raddoppiare le prime, per sostenerle, anche perché va evitato, di preferenza, far scendere troppo in basso l’armonia32: più si va verso il grave, infatti, più gli armonici sono distanti, e una errata disposizione delle parti “impasterebbe" soltanto il suono, facendogli perdere il senso armonico;

• nei tempi lenti e moderati, si pensi invece ad una disposizione aperta, piuttosto che ad una stretta, poiché la prima rende più lineare il lavoro degli ottoni33;

• nei casi in cui, infine, si debba fare i conti con una strumentazione ridotta34 (comunque mai inferiore a due trombe ed un trombone), l’Autore invita a ponderare meglio le scelte in termini di voicing: sarà inevitabile l’insorgere di carenze in fatto di intervalli e di condotta delle voci, e non trovando regole generali, egli invita sempre all’uso del buon senso.

Il capitolo sulla famiglia degli ottoni si chiude con alcune indicazioni a

riguardo dell’uso delle sordine: dopo averne descritto i vari tipi, Nestico consiglia di scrivere passaggi in sordina entro i limiti del registro medio.

Il testo prosegue con le analisi delle altre famiglie di strumenti (ance, archi, ritmica, percussioni varie), con i medesimi criteri di esaustività e completezza, passando poi al discernimento su come scrivere un arrangiamento, dall’approccio mentale, del tipo cosa scrivere, per chi e con quali mezzi, alla risoluzione tangibile del problema – il famigerato nero su bianco – alla scelta dei colori timbrici, con uno sguardo anche alle nuove tecnologie utilizzate in campo musicale (strumenti elettronici, MIDI e registrazioni multi – traccia); il manuale si conclude con alcuni 29 Op. cit., p.79 e segg. 30 Op. cit., p.88 e segg. 31 Op. cit., p.90 e segg. 32 Op. cit., p.92 e segg. 33 Op. cit., p.95 e segg. 34 Op. cit., p.101 e segg.

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riferimenti alla Symphonic Band, con una serie di riflessioni auto – biografiche e con un glossario di termini molto utile.

Il testo “The Contemporary Arranger” di Don Sebesky35 ricalca

sostanzialmente l’impostazione ed i contenuti del precedente. Le prime pagine sono dedicate alle regole fondamentali di scittura, individuate

dall’Autore in queste quattro: economia, equilibrio, parte principale e varietà. In quest’ultimo ambito, dopo aver ipotizzato un organico più o meno tradizionale per un’orchestra ritmico – sinfonica (ottoni, archi, ance, ritmica con pianoforte), elenca una serie di possibilità di uso delle sezioni, da sole od in combinazione, quasi a sottolineare che, usando fantasia e criterio e basandosi sugli insegnamenti del passato, non vi sono limiti alla creatività e alla ricerca timbrica36.

Analizzando, poi, la sezione degli ottoni, Sebesky afferma che «Gli ottoni sono il più semplice gruppo strumentale per cui scrivere […] suonano bene in qualsiasi tipo di combinazione strumentale […] possiedono una grande potenza e flessibilità dinamica in ogni registro e, con la possibile eccezione del corno francese, sono normalmente facili da registrare»; disquisendo sulle possibilità della tessitura e sugli effetti e simboli di articolazione, ribadisce in seguito la maggior funzionalità della sezione in posizione stretta, cioè entro lo spazio di un’ottava37.

L’analisi delle possibilità di combinazione passa poi attraverso l’esame di

alcune opzioni nella condotta delle parti38, quali: • l’affidamento di una linea il più melodica possibile ad ogni parte; • l’armonizzazione di ciascuna sezione come un’unità a sé stante, in modo

da contribuire alla sonorità globale del coro di ottoni; • l’uso della posizione stretta come “antidoto” contro la pesantezza

dell’effetto sonoro; • l’utilizzo delle trombe in posizione stretta con la sordina harmon e

tromboni che le raddoppiano esattamente all’ottava sotto; • l’ampliamento a cinque parti, come a suo tempo fece, con eccellenti

risultati, Stan Kenton: un bel modo per far riposare la Prima Tromba senza impoverire la struttura armonica;

• l’insorgenza di risonanze interne, su intervalli “chiave” (terze, seste e settime), soprattutto nel caso in cui si utilizzi anche una sezione di corni;

• l’enfatizzazione del senso di “pienezza” armonica nel caso in cui le triadi pure delle trombe vengano accompagnate da settime di dominante e none nei voicings dei tromboni.

Il manuale prosegue con l’analisi dei legni, degli archi, della sezione ritmica e

degli strumenti elettronici (come il sintetizzatore), seguendo la falsariga del Nestico, 35 Alfred Publishing Co., Sherman Oaks, California, 1984 – Edizione italiana: “L’Arrangiatore Moderno”, trad. di Massimo Mescia, Curci Editore, Milano. 36 Op. cit., pp.6 – 11. 37 Op. cit., pp. 13 – 15. 38 Op. cit., pp. 32 – 44.

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per poi soffermarsi su alcune importanti considerazioni melodiche39: «Le linee melodiche che un arrangiatore affida ad uno strumento o ad un gruppo di strumenti dovrebbero essere congeniali alle qualità di quello strumento o di quegli strumenti. […] Ciascun gruppo strumentale possiede il suo carattere distinto e l’arrangiatore sensibile è conscio delle varie capacità e dei limiti di ciascuno. […] Il bravo arrangiatore adeguerà il suo pensiero melodico alle esigenze della formazione per cui deve scrivere. […] Due altre considerazioni importanti […] sono: 1) lo stile del brano da arrangiare, 2) l’artista che lo eseguirà».

Se si volesse inquadrare l’approccio alla musica da scrivere, consigliato da Sebesky, con un elenco di operazioni da compiere, tipo “vademecum”, questo, escludendo ovviamente i primissimi passi di carattere tecnico – logistico, potrebbe avere il seguente aspetto:

CONOSCERE L’ARTISTA

SEGUIRE LA GIUSTA DIREZIONE

STARE DENTRO AL SUO STILE

ACQUISIRE FAMILIARITA’ COL BRANO

NON IMPORRE STILI ARRANGIATIVI PERSONALI

OTTENERE UNA NATURALE SCORREVOLEZZA DELLA MUSICA

OTTENERE QUALCOSA DI INTERESSANTE PER L’ASCOLTATORE Ingrediente necessario per un buon arrangiamento, nel senso tecnico del

termine, diventa dunque un buon movimento delle parti innanzitutto: «una linea melodica interessante e significativa aiuterà a conferire un flusso logico e solido al vostro arrangiamento». Il riferimento, in tale ambito, è (e non poteva essere diversamente) Johann Sebastian Bach, sebbene con le dovute differenze legate al cammino evolutivo della Musica.

Immediatamente conseguente ad una funzionale condotta delle parti, viene il secondo ingrediente: dare da suonare ad ogni strumentista una parte significativa, svincolata dalle gerarchie. Ho già detto, e mi piace ripeterlo, che la lead trumpet non è meglio della quarta soltanto per un fatto di numero.

Il libro di Sebesky prosegue con due interessantissime analisi: la prima sull’importanza del testo cantato, e sulle norme da seguire quando si accompagna un cantante40; la seconda, riguardante la fase conclusiva della produzione musicale

39 Op. cit., pp. 206 e segg. 40 Op. cit., pagg. 221 e segg.

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discografica, ed immediatamente successiva a quella della stesura dell’arrangiamento, cioè lo studio di registrazione41.

Tre pagine di consigli pratici di validità generale, che ne ribadiscono il target discografico, concludono il manuale42.

Ci si accorge della differente impostazione del manuale “The Professional

Arranger Composer”, scritto da Russell Garcia ed edito dalla Criterion Music Corporation43, già dalle prime “battute”.

Una premessa necessaria è la seguente: sul finire degli anni ’40, George Russell pubblicò il libro “The Lydian Chromatic Concept of Tonal Organisation”: quest’opera riscosse subito un enorme successo, al punto che ad esso si ispirarono musicisti, quali Miles Davis, Bill Evans, Victor Feldman, John Coltrane, Wayne Shorter, che diedero, nel giro di una decina d’anni, quella brusca “sterzata” al corso della storia del jazz che tutti conosciamo.

Basandosi su quelle nuove teorie di approccio cromatico secondo il modello di scala lidia, discendenti a loro volta – in maniera più o meno diretta – delle affermazioni di Vincent Persichetti e dei lavori di Arnold Schönberg, il problema dell’illustrazione delle estensioni degli strumenti e delle loro relative trasposizioni viene liquidato, da Russell Garcia, nelle prime nove pagine del suo manuale, per lasciare ampio spazio ad aspetti più marcatamente tecnico – pratici, che vanno dall’armonia e progressioni armoniche, al contrappunto, alla forma ed al progetto dell’arrangiamento stesso, per finire ad un interessante capitolo riguardante (testualmente) i “materiali sperimentali per l’arrangiatore/compositore progressivo”.

Analizziamo uno per uno questi fattori, seppur sinteticamente. • Scale, accordi costruiti su di esse ed intervalli: ribadisce l’importanza di

conoscerle tutte, per “maneggiare” la materia prima dell’arrangiamento con padronanza e sicurezza44;

• Note non appartenenti all’accordo: si possono gestire come sostituzioni oppure come note di passaggio45;

• Armonie a due o tre parti (per small combos o sezioni ridotte): consiglia quali bicordi o triadi da utilizzare per non affievolire l’effetto di completezza armonica, specialmente nella scrittura a due voci46;

• Armonie a quattro parti strette (block chords): suggerisce le estensioni migliori e più efficaci (seste, settime, none)47;

• Armonie a quattro parti late (open chords): individua la tecnica del drop 2 (che consiste nel far scendere di un’ottava la seconda nota dell’accordo,

41 Op. cit., pagg. 233 e segg. 42 Op. cit., pagg. 242 – 244. 43 Distribuzione: Joe Goldfeder Music Enterprises, Lynbrook, New York. 44 Op. cit., pp. 16 – 21. 45 Op. cit., p. 22. 46 Op. cit., pp. 23 – 24. 47 Op. cit., p. 25.

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partendo dall’alto) come la più usata e funzionale, senza dimenticarsi le tecniche di armonizzazione di note non accordali48;

• Accordi a cinque o più parti: si può raddoppiare la prima voce, con o senza abbassamento di un’ottava della seconda, oppure disporre le parti in posizione aperta con la quinta voce come fondamentale, oppure ancora affidarsi ai clusters, gruppi di note contenute nell’ambito di un’ottava49;

• Sostituzioni e possibilità di armonizzazione per l’accordo di settime di dominante: “Every note in the chromatic scale will harmonize with dominant seventh chord”50;

• Passaggi dalla disposizione stretta a quella aperta e viceversa, e disquisizioni sulle diverse tipologie di consonanze e dissonanze (qui l’influenza di Persichetti è notevole)51;

• Contrasti di colori, di registri, di figurazioni ritmiche, di dinamica, combinazioni di sezioni e/o strumenti solisti, uso del contrappunto e di una buona condotta delle parti in nome della varietà: tutti buoni ingredienti per un arrangiamento ben concepito e che “suoni bene”. In questo ambito, il testo di Garcia non si discosta molto dai precedenti;

• Descrizione dei diversi tipi di organici (trio con pianoforte, dixieland combo, tenor bands, spartiti commerciali per piano, stock arrangements e partiture per l’avanspettacolo, gruppi vocali, dance bands, orchestre allargate, ensembles cameristici d’archi, gruppi di musica latina) e delle opzioni di arrangiamento per ognuno di essi52;

• Suggerimenti utili per la scrittura di parti di arrangiamento, come introduzioni, interludi modulanti, finali, estensioni, specials, e di progressioni armoniche, soprattutto in fatto di accordi alterati, sostituzioni, scrittura melodica e libertà di espressione53.

La vera “primizia” che si riscontra nelle pagine del manuale di Russell Garcia,

e che lo distingue effettivamente da quelli di Nestico e Sebesky è proprio l’ultimo capitolo, che esamina in maniera quasi scientifica i nuovi concetti introdotti da George Russell: armonie parallele e simmetriche, politonalità, free clusters, armonie lineari, curve ritmiche, movimenti di masse armoniche, notazioni alternative, armonie vaganti, imitazioni, sequenze doppie e triple, metodi evoluti di variare un tema.

Ad onor del vero, questi sono concetti che si potevano riscontrare nella musica colta, anche in epoche storicamente distanti (tra le possibilità di variazione del tema, ad esempio, vengono suggerite l’aumentazione, la diminuzione, l’inversione, il moto retrogrado, l’uso di tempi diversi: tutte metodologie già usate, e con risultati artistici, da Bach e, in chiave seriale, da Schönberg); il merito di Russell, prima, e Garcia, dopo, è stato quello di averli applicati per la prima volta nel jazz, uno stile

48 Op. cit., pp. 28 e segg. 49 Op. cit., p. 28 e segg. 50 Op. cit., p. 38. 51 Op. cit., p. 42. 52 Op. cit., pp. 73 – 91. 53 Op. cit., pp. 116 – 134.

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musicale che, all’epoca, aveva già mezzo secolo di storia e stava iniziando a scrollarsi di dosso l’etichetta di “genere” esclusivamente di intrattenimento, per elevarsi a vera e propria forma d’arte.

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IV

QUALCOSA DI MENO, TANTO DI PIU’

Problematiche estetiche di linguaggio e di suono

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Come già accennato in precedenza, durante il corso della Storia della Musica i Trombisti hanno dovuto combattere con la limitatezza dello strumento senza pistoni.

Nondimeno, “l’inesistenza di mezzi meccanici che alla Tromba avessero permesso l’esecuzione di un’intera scala diatonica, teneva questo strumento, sin dalle remotissime sue origini, in una condizione così speciale da immedesimare in essa una estetica musicale singolarissima. E questa estetica, così immedesimata nel carattere nobilmente epico della Tromba, ha tanto fatto nello spirito musicale del secolo scorso (l’Ottocento, N.d.A.), che ben volentieri, ciò che di marziale si presentava, nell’atto creativo, alla mente del Compositore, si modellava (oltreché nei suoi incitanti ritmi) su una certa traccia fonica propria delle Trombe: la traccia degli armonici.”54

A questo aspetto puramente fisico, sul quale si fonda tutta la tecnologia costruttiva degli strumenti d’ottone, si affiancano altre problematiche, in parte fisiche e in parte esecutive – pratiche: un vero e proprio sistema di equazioni a variabili indipendenti.

In primis, la stessa serie degli armonici presenta delle lacune naturali. Nel suo attento studio, Cardoni sottolinea la limitatezza del numero di suoni

praticabili per gli strumenti a bocchino, rispetto all’illimitatezza della serie dei suoni naturali. E’ risaputo che questi strumenti hanno alcuni suoni, i quali coprono approssimativamente l’estensione di un’ottava, molto più spontanei di altri; questa “zona di spontaneità” è situata più o meno al centro della gamma dei suoni ottenibili: quelli più gravi e quelli più acuti sono molto meno spontanei e naturalmente “liberi” in termini di emissione. L’introduzione della macchina risolse in parte questo problema: con sette diverse combinazioni di pistoni, era come se si avessero sette diverse “zone di spontaneità”, con benefici di estensione e di gamma di suoni ottenibili che tutti i trombisti conoscono.

Esistono poi diverse problematiche correlate alla natura fisica dello strumento e di chi lo suona; esaminarle una per una, sebbene in maniera forzatamente sintetica, pare interessante e stimolante, soprattutto per coloro che volessero approfondire questi concetti.

LO STRUMENTO E LO STRUMENTISTA

Per quello che riguarda le dimensioni dell’imboccatura, è noto che le labbra

dell’esecutore, per ovviare ai difetti di spontaneità degli armonici di cui sopra, devono essere il più possibile libere di compiere quel movimento vibratorio che rappresenta il “soffio vitale” del suono, senza il quale non si attiverebbero i movimenti di compressione e rarefazione della colonna d’aria all’interno del tubo dello strumento. Una tale richiesta di libertà ha bisogno, conseguentemente, di un adeguato dimensionamento del bocchino: diametro e profondità della tazza, diametro del foro 54 A. CARDONI, “Le promiscuità estetiche della Tromba e del Cornetto – Contributo critico agli studi della strumentazione”, Edizioni Ricordi, Milano 1914

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(o grano), larghezza e forma del bordo di appoggio, svasatura della penna, dimensione delle labbra del suonatore, canneggio e finitura dello strumento (per la terminologia, vedere il Glossario in appendice).

Il diametro della tazza ottimale non dovrebbe essere né troppo piccolo né troppo grande: nel primo caso, non ci sarebbe vibrazione, e nel secondo sarebbe eccessivamente libera ed incontrollata. Inoltre, una tazza poco profonda aiuta nel registro acuto ma impoverisce quello grave.

L’ampiezza del grano offre minore o maggiore resistenza al passaggio dell’aria, pertanto suonare con un bocchino col foro troppo largo potrebbe affaticare anzitempo un trombista poco abituato a soffiare forte. Vale anche il viceversa.

La larghezza e la forma del bordo di appoggio vanno ad inficiare il modo di attaccare le note: un bordo largo e piatto, a lungo andare, affatica alla stessa maniera di uno stretto ed arrotondato.

La svasatura della penna, strettamente correlata al diametro del grano, ha effetti positivi sull’emissione del fiato, secondo il principio fisico del tubo di Venturi.

Su questi stessi medesimi princìpi di fluidodinamica, esaminati nella sezione di contatto tra il bocchino e la canna di imboccatura, si può aprire una disquisizione sulla scelta di un adeguato canneggio dello strumento. Un canneggio piccolo aumenta la velocità del flusso dell’aria all’interno del tubo e può aiutare nelle note acute, ma il timbro ne risente impoverendosi e perdendo armonici: viceversa un canneggio largo, che può presentare ricchezza di armonici ma alla lunga affaticare nel registro superiore.

Su altri principi fisico – chimici, legati alle caratteristiche di vibrazione dei materiali utilizzati nella fabbricazione degli strumenti, si basano le differenze timbriche tra gli strumenti: una tromba argentata avrà sempre un timbro più chiaro e cristallino rispetto ad una laccata, in quanto la finitura argentata viene applicata mediante un “bagno” nell’argento, mentre la laccatura attraverso un processo di verniciatura ad arco elettrico. In altre parole, la struttura molecolare dei legami che si formano tra l’ottone e l’argento durante il “bagno” fa sì che, per motivi fisici di restituzione di energia a seguito degli urti tra le molecole dei materiali presenti nella lega (l’ottone) e le molecole del materiale usato per la finitura (l’argento), si perdano alcuni armonici, nella fattispecie quelli che danno rotondità e calore al suono. Per contro, la verniciatura ad arco elettrico, mediante la quale viene fissata la laccatura, si basa essenzialmente sul flusso ionico di particelle da un polo negativo ad uno positivo, per cui i legami che si vengono a creare sono di tipo ionico, per l’appunto, e gli urti tra le molecole non risultano così violenti come nel caso precedente: pertanto, gli armonici che risultano “smorzati” sono quelli che conferiscono brillantezza al suono.

Dopo aver infine elencato tutti i fattori oggettivi, si devono ora considerare quelli soggettivi, i quali sono riducibili sostanzialmente a uno, ma cruciale: infatti, tutto quanto detto può venire confermato o smentito a seconda della conformazione delle labbra e della dentatura dell’esecutore.

In un così intricato labirinto di variabili, trovare una via d’uscita potrebbe sembrare impossibile, senza contare che finora non si è ancora parlato di suoni. Ed invece, ascoltando le big bands, tutto sembra facile……

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Per esperienza diretta, ed in virtù di quanto descritto finora, non si è lontani dal vero se si afferma – come se ce ne fosse bisogno…… - che sostenere una parte da Lead Trumpet in una Big Band non è cosa semplice, e non solo per questioni tecniche, fisiologiche o meramente stilistiche. Proveremo nel prosieguo a sviscerarle una per una.

SPECIALIZZAZIONE O “DI TUTTO UN PO’”? Chi suona la Tromba lo sa bene: attualmente, si deve lottare (nel vero senso

della parola) giornalmente con una interminabile serie di problemi; primo fra tutti, quello del mantenimento giornaliero. Provate a non studiare per tre o quattro giorni, e all’alba del quinto la fatica che farete con lo strumento sarà enorme.

In secondo luogo, c’è un problema stilistico con una doppia valenza: saper suonare bene TUTTO è pressoché impossibile.

Solo due o tre persone al mondo, nell’ultimo trentennio, lo hanno saputo quasi fare: mi riferisco a Maurice Andrè, prima, e Wynton Marsalis, dopo: due giganti della tromba moderna i quali, purtroppo per loro ma soprattutto per me, non sono granché utili alla mia causa in quanto sono due solisti……Sia chiaro: due come loro dovrebbero essere gli angeli guida di tutti noi trombisti in quanto a tecnica, fraseggio, virtuosismo, espressività; però, ad una Lead Trumpet sono richieste altre cose, le quali, per certi aspetti, sono forse più difficili da perseguire ed ottenere.

Inoltre, le richieste musicali odierne vanno sempre più verso una ricerca della perfezione, per cui, quando si va ad un concerto di musica barocca, si vuole sentire quel tipo di suono; quando si va ad ascoltare la Sesta di Ciaikovskij si vuole ascoltare quel tipo di suono, e via dicendo…… ma QUAL’E’ quel suono?

Non me ne voglia nessuno, ma l’unico stile del quale esiste una testimonianza diretta (le incisioni discografiche) è il jazz: tutto il resto sono interpretazioni del materiale scritto, nelle quali la ricerca della perfezione potrebbe risultare fuorviante oltreché pericoloso, poiché fa cadere nell’errore di pensare che la partitura sia oro colato. Il problema è già stato sviscerato in precedenza55: ai compositori interessava che le loro idee funzionassero; che poi il secondo clarinetto scroccasse una nota, o una viola di fila sbagliasse un’arcata, non era poi quel gran problema, per loro……

Le big bands degli albori, come si è visto nei capitoli precedenti, suonavano i cosiddetti head arrangements, arrangiamenti non scritti ma rimandati a memoria, formati per lo più da riffs ripetuti in una sorta di ostinato. Come si può notare leggendo le “inner notes” dei dischi, spesso e volentieri i nomi dei trombisti di sezione, pur essendo sempre gli stessi, da un brano all’altro si mescolano. Il motivo è molto semplice: in un’epoca come la nostra in cui si sente tanto spesso parlare di turn-over, ci si deve appellare a tale prassi di alternanza per descrivere il palleggio delle parti tra Prima, Seconda, Terza e, alle volte e successivamente, Quarta e Quinta Tromba allorquando si doveva suonare per molte ore al servizio dei ballerini che affollavano sale come la Carnegie o il Savoy. 55 Cfr. Cap. I

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Che diamine! Harry James è stato un grande, e questo lo sanno tutti, ma neanche un folle crederebbe che, con l’orchestra di Bennie Goodman, avesse avuto così tanta voglia di “cantare e portare la croce”, improvvisando e leggendo la parte di Lead Trumpet per quattro o cinque ore…… c’è un limite a tutto! E così lui e i suoi colleghi di sezione, molto semplicemente, si scambiavano le parti (e se così non fosse stato, il “Sing! Sing! Sing!” che si può ascoltare nella registrazione dal vivo del concerto alla Carnegie Hall della big band di Goodman del 1938 non sarebbe quella pietra miliare della storia del jazz che tutti conosciamo).

Facile, no? Massimo risultato artistico con uno sforzo fisico ridotto al minimo, secondo il principio edonistico.

Con l’evoluzione dell’organico si è evoluta anche la tecnica di arrangiamento e di assegnazione delle parti, e con l’aumentare del materiale era inevitabile darsi delle regole. Ed ecco allora la venuta alla luce di manuali, libri, scuole di musica (il primo, e forse più grande, insegnante di jazz della storia è stato Lennie Tristano, a New York, a partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. N.d.A.), e chi più ne ha più ne metta; ma quello che più conta è che tutti coloro che suonavano la parte della Lead Trumpet divennero sempre più consapevoli del ruolo di responsabilità al quale erano chiamati.

SOVRACUTI MA NON SOLO…

Un clamoroso errore in cui tutti i giovani virgulti possono cadere – e in

questo errore incappai anch’io, all’inizio… – è quello di credere che la Prima Tromba sia sempre e comunque l’acutista, lo screecher. I meravigliosi “specchietti per le allodole” a cui mi riferisco sono principalmente due, e rispondono ai nomi di Cat Anderson e Maynard Ferguson: la loro potenza ed agilità nel registro sovracuto, però, veniva usata con maestria dai loro “superiori”, cioè arrangiatori e bandleaders, ed è giusto spendere qualche parola per approfondire il concetto.

Ellington e Strayhorn, nel caso del “Gatto”56, avevano a disposizione praticamente quindici meravigliose individualità, e la grandezza della loro arte compositiva e di arrangiatori – cfr. cap. 5 – fu quella di farli convivere pacificamente e di valorizzarli come singoli, a turno: il classico caso della “somma che è un po’ di più del totale”, insomma, e i risultati eccelsi di questa pratica sono noti a tutti gli estimatori del jazz, anche i meno colti. Cat Anderson non era escluso da questo mènage arrangiativo, e il suo naturale talento, che gli permetteva di ottenere con la tromba note più confacenti al registro dell’ottavino, non veniva assolutamente usato in maniera scriteriata, per motivi di resistenza del suonatore ma soprattutto delle orecchie dell’ascoltatore: in sezione, invece, la lead era affidata, alternativamente, a Cootie Williams, Rex Stewart, Ray Burrowes. A titolo di esempio, si può ascoltare la registrazione dal vivo del concerto tenuto dalla big band di Ellington il 22 novembre 1963, dall’Auditorium del Conservatorio di Milano, pubblicato con il numero di “Musica Jazz” del mese di ottobre del 1991. Turnover a ragion veduta… 56 Cfr. Cap. V.

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Il caso di Maynard Ferguson si presenta sotto il medesima forma tecnico – pratica del precedente, sebbene con incisività e livello di espressività artistica leggermente inferiori (in poche parole, Ellington è Ellington, e basta…). Bill Holman, l’arrangiatore di Stan Kenton, preferiva scrivere per cinque trombe, assicurandosi in questo modo precisione, pulizia, incisività e potenza; contrariamente a quello che tanti pensano, però, la Lead Trumpet era Conrad Gozzo: uno specialista del ruolo, il quale gli garantiva tutte queste caratteristiche, mentre i connotati di sezione incisiva e potente venivano conferiti dai sovracuti di Ferguson (ma anche Gozzo non scherzava, in quanto ad estensione……) il quale leggeva spesso e volentieri la parte di quinta tromba. Per una breve trattazione biografica dei musicisti citati e di altri, si rimanda al capitolo 6.

Nulla è affidato al caso, dunque, anche in uno stile musicale come il jazz, che

nasce e, per il primo periodo di vita, si sviluppa come forma di divertimento.

LA FUNZIONE DELLA LEAD TRUMPET I due nobili esempi testé descritti aiutano meglio a capire quanto detto dal

buon Giancarlo Gazzani: “La Prima Tromba è, per la Big Band, come il Violino di Spalla per l’Orchestra Sinfonica”: a lei fanno riferimento tutte le sezioni; con essa dialoga la ritmica nelle vamps e nelle kicks; a lei è richiesta la massima precisione nell’esecuzione della parte, in modo tale che la sezione delle trombe funzioni a perfezione ed in maniera compatta; a lei si fa affidamento negli specials per lanciare un solista; a lei ci si riferisce ogniqualvolta ci sia un dubbio in termini di pronuncia, fraseggio ed esecuzione in genere.

Citando una fonte molto qualificata e qualificante, il New Grove Dictionary of Jazz57, un testo di riferimento per tutti coloro che operano nel settore, anzi una vera e propria Bibbia del jazz internazionale, alla voce “Lead” dà una definizione chiara e circostanziata, che di seguito è riportata integralmente, in lingua originale e tradotta dall’Autore.

« Lead - The principal line (or player) in a band or section of a band. The

term is normally used of that line in each of the three wind sections of big band, jazz orchestra or stage band; “to take the lead”, or “to play the lead”, or simply “to lead” means to play the melody or lead line. In addition to taking the high part, the lead player decides matters of phrasing and articulation for the section as a whole. Lead playing is a specialty requiring particular skills, and lead players are frequently not as adept at improvisation as others in their section. In jazz ensembles lacking wind sections, or even a single wind player, other instrumentalists function as “lead players» 58

57 Barry Kernfeld, “New Grove Dictionary of Jazz”, McMillan Publishers Ltd., II Edizione, London, 2002. © Groves Dictionaries Inc., New York 58 Robert Witmer, in Barry Kernfeld, op cit.

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Traduzione – La linea o lo strumentista principale in una band o sezione di

essa. Il termine è normalmente usato in tutte e tre le sezioni della big band, o orchestra jazz o stage band; “prendere la lead”, “suonare la lead” significa suonare la melodia o la linea principale. In aggiunta all’esecuzione della parte più acuta, il lead player decide sulle questioni del fraseggio e dell’articolazione della sezione intera. Suonare la lead è una specialità che richiede attributi particolari, e frequentemente al lead player non sono richieste le improvvisazioni, che sono lasciate ai musicisti delle parti inferiori nella sezione59.

Con una tale chiarezza di termini nell’esposizione del concetto di Lead, si può

capire la grande importanza di questa parte, per tutte le sezioni dell’orchestra. Il maggior peso della parte di Prima Tromba, da un punto di vista acustico e di fisiologia auditiva, è dovuto al fatto che, nella tessitura della big band, la sua voce è sempre la più acuta, come quella di un soprano in un coro a voci miste; il meccanismo biologico del nostro “orecchio interno”, riuscendo a sostenere fino ad un massimo di quattro voci contemporaneamente, ci fa notare per prima la voce più acuta, in seconda battuta quella più grave e poi, a cascata, quelle interne: infatti, quando ascoltiamo un insieme di musicisti generico (dal trio in su), gli eventuali errori che si possono rilevare per primi sono quelli in queste due voci.

Per questi motivi, dettati principalmente dalla nostra natura musicale prima che dal gusto e dalla professionalità, la Lead Trumpet è investita di una carica di altissima responsabilità, più di ogni altro componente della band e al pari del batterista. Dominic Spera, nel suo manualetto60, consiglia di:

1. Instaurare un rapporto di reciproco ascolto tra questi due musicisti, cominciando da una disposizione corretta e funzionale. La sezione delle trombe dovrebbe sempre avere la ritmica alla propria destra, in modo tale che il charleston ed il ride (la quintessenza dello swing……) possano essere uditi in maniera nitida e sicura;

2. Coordinare gli sforzi e fare “gioco di squadra”, allo scopo di suonare le frasi con scioltezza ed energia allo stesso tempo;

3. Rispettare le dinamiche rimanendo pur sempre nel beat: un brano cambia letteralmente aspetto e “decolla” (come si dice in gergo) quando i piano ed i forte sono tali. In questo senso c’è chi addirittura consiglia di esagerare nelle sonorità, entro i limiti della decenza e della sopportazione fisica

La centralità del ruolo, poi, è evidenziata anche dalla disposizioni delle parti

nella sezione:

59 Traduzione a cura dell’Autore. 60 SPERA Dominic, “Take the Lead – A Basic Manual for the Lead Trumpet in The Jazz Ensemble”, Houston Publishing Inc, Lebanon, IN, U.S.A., 1992, p.20 e seguenti.

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TROMBE A TRE PARTI

II I III

TROMBE A QUATTRO PARTI

II I III IV

TROMBE A CINQUE PARTI

IV II I III V

Con una siffatta disposizione, i musicisti si possono ascoltare l’uno con

l’altro in ogni momento, possono affinare l’interplay e, di conseguenza, la sezione guadagna in compattezza ed energia sonora, lavorando come in un tutt’uno.

Da notare che la centralità del lead player si può riscontrare in maniera identica nelle altre sezioni: infatti, anche il Lead Alto ed il Lead Trombone si posizionano centralmente, rispetto alla sezione; il risultato finale è quello di una linea immaginaria che unisce le Lead Parts ed il bandleader; ad esempio, con brass a quattro ed ance a cinque, lo schema è il seguente:

TP2 TP1 TP3 TP4

TB2 TB1 TB3 TB4

T.S. 2 T.S.1 A.S.1 A.S.2 B.S.

CONDUCTOR

Scendendo ad un livello di analisi più specifico e strettamente individuale, al musicista chiamato a sostenere la parte di Prima Tromba si richiedono doti precise e specifiche, a cominciare da una predisposizione mentale al “comando”, ovviamente nel senso meno militare del termine: spieghiamone il senso.

Il suono di una Lead Trumpet deve essere ricco, potente, deve possedere una grande proiezione in tutta la gamma dinamica, ed il più possibile pensato come se ogni frase debba essere sostenuto con un flusso d’aria costante.

Quest’ultimo aspetto ha una sua validità generale che prescinde dalla musica che si sta suonando, ma nel jazz da big band assume un’importanza fondamentale che si ripercuote sul ritmo e sulla scansione metrica del brano che si sta suonando: è noto a tutti che la musica afro – americana possiede una fortissima connotazione ritmica, pertanto non ci si possono permettere accelerazioni o, peggio ancora,

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rilassamenti, che avrebbero come unico risultato un’eccessiva pesantezza del risultato sonoro. Suonando sul tempo questo non accade. Sempre parole di Spera: «……Timing is important. Do not rush a slurred interval61».

Alla conoscenza della storia del jazz, poi, è strettamente correlato l’uso del vibrato. Se si stanno suonando musiche di Glenn Miller, Jimmie Lunceford o Artie Shaw, si preferirà un vibrato molto più largo rispetto, ad esempio, di quello usato nell’esecuzione di brani di Quincy Jones, Carla Bley o Maria Schneider. Nomi presi assolutamente qua e là e assolutamente a titolo di esempio, ma molto utili per comprendere il concetto ed evitare errori, anacronismi e cadute di gusto.

Inoltre, è già stato sottolineato il fatto che alla Lead Trumpet spetta l’ultima

parola su tutte le questioni relative a pronunce, fraseggi, articolazioni di suoni. Anche in questo caso è necessario che lo strumentista abbia ben presenti gli stili e le epoche, allo stesso modo del vibrato: anche in questo caso, l’errore, l’anacronismo e il cattivo gusto sono dietro l’angolo.

Per concludere, un consiglio di carattere generale, dettato dall’esperienza personale: attenersi a quello che è scritto sulla parte!! L’evoluzione del jazz si è riscontrata anche nel modo di scrivere la musica da suonare, e articolazioni, pronunce, dinamiche e segni convenzionali sono segnati sulle parti in maniera molto meno criptica, quindi più facilmente interpretabile, rispetto a musiche scritte in epoche precedenti62; pertanto, le “iniziative dell’ultima ora” sono sempre un rischio: conviene concordare tutte le variazioni sulla parte durante la prova, siano esse di stesura che di esecuzione, quindi, nella custodia della tromba, sarebbe bene mettere sempre matita e gomma…

61 Dominic Spera, op. cit, p.20 62 La ragione di questo è dovuta al fatto che, in passato, molte diatribe sull’interpretazione della musica scritta venivano demandate ai trattati di esecuzione e prassi interpretativa, pubblicati in maniera copiosa soprattutto nei secoli a cavallo tra il XIV ed il XVII (Mersenne, Della Casa, Banchieri, ad esempio): alla loro lettura si dedicavano tutti i musicisti, i quali acquisivano conoscenze, competenze ed indipendenza musicale. Purtroppo, con l’andare del tempo, questo aspetto è andato perdendosi, demandando gran parte del potere decisionale ai direttori. Il jazz solistico si riappropria di questa indipendenza e libertà nell’interpretazione musicale, mentre nella sua versione orchestrale la tendenza è quella di lasciare pochi spazi ai dubbi: sulle parti sono sempre indicati tutti, o quasi, i segni, le convenzioni, i richiami e tutto quel che serve per suonare al meglio la parte stessa.

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V

LE NOTE AL LORO POSTO

Gli arrangiatori63 - Piccola storia della Big Band

63 Cfr. Demètre Ioakimidis, “I Primi Maestri del Pentagramma”, articolo apparso in “Musica Jazz” di febbraio 1998, pp.22-26

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Tutti i jazzofili sanno che le prime incisioni di questo stile musicale sono state quelle realizzate dalla Original Dixieland Jazz Band a New Orleans nel 1917: a questi, diciamolo pure, reperti di archeologia sonora vengono fatti risalire i primi tentativi, da un punto di vista cronologico, di jazz orchestrale.

Per decenni, quella data è stata presa come anno zero, ma alcuni studiosi e storici americani, tra i quali Franklin S. Driggs, hanno parzialmente smentito tale asserto: infatti, pubblicando i risultati delle loro ricerche, hanno potuto affermare, raccogliendo consensi pressoché unanimi, che il jazz orchestrale ha subito lo stesso processo di genesi del jazz in senso lato, pertanto NON è legato soltanto a New Orleans, ma bensì a più città e ad un ben più vasto numero di regioni degli Stati Uniti; il girovagare dei musicisti all’interno di quelle regioni attivò la macchina dello scambio di idee che è nel cuore della poliedricità del jazz, avendo però due effetti collaterali piuttosto importanti. Il primo era rappresentato dagli organici instabili, in quanto molto spesso i musicisti venivano assunti a tempo determinato o a prestazione, oppure motivi familiari, affettivi o di semplice pigrizia li spingevano a non muoversi più da una data città, abbandonando la loro orchestra che era costretta a rimpiazzarli; il secondo riguardava la enorme diversità e differenziazione del repertorio: dirigendo sostanzialmente formazioni da ballo, i bandleaders dovevano accontentare le esigenze del proprio pubblico se volevano garantirsi ingaggi sicuri, quindi “città nuova musica nuova”. Pare il classico ragionamento “della serva” ma funzionava così: leggende narrano che una formazione di Count Basie dovette suonare, una sera in un hotel, una trascrizione del l’Ouverture de Il Poeta e Contadino, operetta di Franz Von Suppè……

Inoltre, data la carenza di reperibilità ed organizzazione del materiale (i dischi erano ancora una sorta di bene di lusso, e gli head arrangements rappresentavano la regola e prassi consolidata nelle orchestre), i primi che tentarono di conferire al jazz una veste orchestrale dovettero per forza di cose affidarsi alla loro esperienza personale, al loro bagaglio di conoscenze musicali, ma soprattutto alla loro vena creativa.

Ultimo fattore, non meno importante degli altri due, che influenzò non poco il lavoro degli arrangiatori, almeno fino agli Anni Cinquanta, fu la limitatezza del tempo a disposizione: non va dimenticato infatti che una facciata di un disco (che poteva essere a 16 o a 78 giri) aveva una durata di circa tre minuti, e quel lasso di tempo così limitato non permetteva certo di dilungarsi troppo. Questo aspetto fu anche alla base dell’enorme successo della forma – canzone AABA. Insieme al blues, questa forma divenne ben presto usata in quantità industriale , e non poteva essere altrimenti: erano strutture snelle, agili e di facile gestione nell’arco dei fatidici tre minuti della facciata di un disco. Non appena venne brevettato il Long Playing, questi limiti si sbriciolarono, così come i limiti posti alla creatività dei musicisti.

Ed ora, dopo queste premesse necessarie, veniamo ai nomi di coloro che scrissero questa “storia nella storia”.

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I pionieri dell’arrangiamento, nel senso moderno del termine, furono Jim (Jimmy) Europe e Isham Jones: il primo portò in giro per gli Stati Uniti, ma anche oltre oceano, una fanfara militare che, con i suoi arrangiamenti, lasciava presagire, in quanto a soluzioni ritmiche sincopate ed armoniche, un linguaggio jazz prettamente nero. Jones, invece, fu il primo a prendere coscienza e ad usare con criterio le differenze timbriche delle classi di strumenti fino ad allora utilizzate negli organici. Questi due musicisti lavorarono in un periodo in cui, a New Orleans, si potevano ascoltare diversi tipi di formazioni, riducibili a quattro64:

1 – le famose marching bands o street bands, retaggio delle grandi bande militari che dominarono la scena musicale americana degli ultimi anni del XIX secolo; è probabile che quelle formazioni suonassero dei ragtimes con inflessioni bluesy, e che i loro contenuti jazzistici crebbero a partire dal 1915;

2 – le piccole e informali bands che lavoravano principalmente nei bordelli nella zona tra Liberty e Perdido Street; i loro tratti distintivi: organico molto ridotto, paga molto bassa, repertorio folto di blues che bene si prestavano alle movenze languide delle prostitute;

3 – le society bands, che lavoravano in luoghi lussuosi (ristoranti, alberghi, sale da concerto, caffè) per una ricca clientela bianca. Formate per lo più da Creoli, suonavano musica da ballo molto vicina al jazz;

4 – le bands che suonavano sui carri per le feste (bianche e nere); queste formazioni vanno considerate come le vere progenitrici delle jazz bands degli anni a venire, in quanto erano molto più organizzate delle precedenti e riunivano i migliori musicisti del momento.

La controparte, per così dire, aristocratica degli stili di Jimmy Europe e

Isham Jones si rivelò quello adottato da Ferdie Grofè, il quale militò per anni nella formazione diretta da Paul Whiteman, sia in veste di pianista che di arrangiatore. Per tre anni (dal 1916 al ’19), lavorò a San Francisco con l’orchestra diretta dal batterista Art Hickman, e durante questo periodo scrisse arrangiamenti nei quali fece uso delle nuove sonorità e dei nuovi ritmi, provenienti direttamente dalla tradizione di New Orleans. L’intuizione (e la susseguente innovazione) di Grofè fu semplice ma molto efficace: cambiare l’orchestrazione di una canzone in alcuni punti, durante i quali ora uno strumento prendeva un solo, ora più strumenti armonizzati suonavano spunti tematici in diverse combinazioni, e spesso e volentieri contrapposte65. Questo modo di far suonare “uno contro uno” diversi strumenti divenne la base della scrittura contrappuntistica degli arrangiatori futuri. Nel 1919 Whiteman assunse Grofè; fu l’unione di un musicista di provenienza classica (dal 1907 Whiteman fu Prima Viola e, all’occorrenza, Secondo Violino, nella Denver Symphony Orchestra) e di un innovatore: il risultato fu la nascita del cosiddetto jazz sinfonico, e Paul Whiteman si autoproclamò “King of Jazz”.

Paradossalmente, proprio quando la popolarità di Whiteman raggiungeva il suo apogeo – siamo nella seconda metà degli anni Venti – il dominio tra gli 64 Cfr. The New Grove Dictionary of Jazz, p.120 65 In particolare, nell’orchestra di Hickman, Grofè fece uso di due saxofoni in sezione, utilizzandoli però come un tutt’uno in contrasto con gli altri strumenti.

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arrangiatori, nel jazz orchestrale, iniziò a spostarsi verso altri personaggi; uno di questi era lo stesso Don Redman, il maggiore tra costoro, ma si possono citare anche Bill Challis (arrangiatore della band di Goldkette), Gene Gifford (Casa Loma Orchestra), Ben Pollack, Red Nichols e Duke Ellington. Il loro merito fu quello di produrre una musica che possedeva una veste più “pepata” e spiccatamente jazzy, rispetto alle partiture di Grofè: maggiore spazio ai solisti, uso di sonorità più jazzistiche nei passaggi arrangiati, ma soprattutto un contributo vivo e pulsante della sezione ritmica.

Dalle esperienze precedenti prese spunto, verso la fine degli anni Venti, Don Redman, il quale, con le sue partiture, abbandonò progressivamente l’uso di strumenti quali archi, corde pizzicate (banjo e mandolino), percussioni determinate (celesta, vibrafono) ed ottoni a timbro scuro (tuba e sousaphone), per codificare l’organico della big band tipico: trombe e tromboni a tre parti, ance a quattro (due contralti ed altrettanti tenori), ritmica con piano, basso, batteria e chitarra, per un totale di quattordici elementi. Don Redman è ricordato per la enorme produzione di arrangiamenti per la propria orchestra (dal 1931 al 1940), per i McKinney’s Cotton Pickers e per la formazione di Fletcher Henderson.

Lo stesso Henderson, che tenne in piedi la propria band dal 1924 al 1934, prima, e dal 1936 al 1942, alternò l’attività di bandleader a quella di arrangiatore, soprattutto per Benny Goodman: per ironia della sorte, sempre abbastanza frequente nella storia – e non solo quella musicale –, alcuni suoi brani o parti di essi che non ebbero la fortuna sperata col nome di Henderson, con il grande clarinettista bianco divennero delle hit di strepitoso successo. Un esempio? Il riff iniziale di Christopher Columbus, in Si bemolle maggiore che diventa, in tonalità di La minore, il tema esposto dai tromboni nell’interludio di Sing,Sing, Sing. Ed è solo l’esempio più eclatante…

Non di rado, il sound di un’orchestra era conseguenza delle direttive imposte

dall’arrangiatore. Si pensi, ad esempio, al caso di Sy Oliver: musicista sopraffino, tra i primi trombettisti di big band ad esplorare il registro sovracuto (di questa caratteristica ne fa ampio sfoggio in White Heat, brano che fa parte di una serie di facciate incise per la CBS nel 1939), ebbe maggior fama (se ce ne fosse stato bisogno…) con i suoi arrangiamenti, grazie ai quali creò il cosiddetto “stile – Lunceford”, per il quale scrisse copiosamente dal 1934 al 1939; circa vent’anni dopo, una simile impronta venne data da Quincy Jones alla sua formazione, che riuniva molto validi strumentisti dell’epoca.

Ben oltre questa concezione si ponevano le musiche scritte da quel gigante del pentagramma che è stato e sarà Duke Ellington: prima da solo, poi a quattro mani con Billy Strayhorn, “…il Duca pensava non soltanto nella lingua di un’orchestra, ma nella lingua della sua orchestra66”. Tra l’altro, a Ellington si deve l’introduzione del baritono nella sezione dei sax, mossa che permetteva un ampliamento della tessitura orchestrale verso il grave. Nei dieci anni tra il 1935 ed i 1945, l’organico subì altre ulteriori variazioni, grazie al lavoro e alle performances delle grandi big bands della 66Cfr. Demètre Ioakimidis, cit.

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swing craze: trombe e tromboni, infatti, diventarono sezioni a quattro parti, e la sezione ritmica si stabilì definitivamente

Un altro grande insegnamento di Fletcher Henderson, mediato da Grofè, come già analizzato, fu il procedimento a “botta – risposta” tra le sezioni dell’orchestra: dalla polifonia dell’Original Dixieland Jazz Band e della Creole Jazz Band di King Oliver si passa ora ad una forma più contrappuntistica, con brevi frasi dialogate, punteggiature, spunti tematici armonizzati, kicks, vamps67 , breaks68 orchestrali e lanci per il solista che lasciano pensare ad una correlazione neanche troppo lontana tra la musica per big band e il concerto grosso barocco69 e che raggiungeranno un livello molto elevato di sofisticazione e di precisione quasi maniacale con il Modern Jazz Quartet. Su queste regole si basarono pressoché la totalità degli arrangiatori della swing craze: Andy Gibson ed Eddie Durham (per Count Basie), Jimmy Mundy (Earl Hines), Joe Garland (Glenn Miller), Edgar Sampson (Chick Webb), “Foots” Thomas (Cab Calloway), Mary Lou Williams (Andy Kirk), Will Hudson (Mills Blue Rhythm Band), Milt Buckner (Lionel Hampton), Sam Lowe (Erskine Hawkins).

La rivoluzione del be bop, come è noto, fu il canto del cigno della big band era: il dopoguerra impegnò gli Stati Uniti in attività che lasciarono ben poco spazio alle forme di divertimento esistenti prima del secondo conflitto mondiale, e gli interessi del pubblico si orientarono verso forme musicali meno “impegnative” e di più facile consumo; inoltre, i neri americani volevano in qualche modo riappropriarsi di una forma d’arte nata nera ma resasi sempre più bianca, nel ventennio tra le due Guerre Mondiali.

Risparmio istituzionale e voglia di affrancazione del black people lasciarono pochissimo spazio, dunque, a formazioni più grandi del sestetto; ciononostante, nacquero alcune formazioni che diedero al bop una veste orchestrale. Si pensi alle orchestre di Dizzy Gillespie70 e Lionel Hampton, per le quali erano spesso i leaders stessi a curare gli arrangiamenti: altri scores pregevoli di quel periodo vennero scritti da Quincy Jones (che apprendeva nozioni rivelatesi poi fondamentali per l’orchestra che portò il suo nome), Tadd Dameron, John Lewis e Chano Pozo Gonzales (il quale, con Dizzy, diede inizio al movimento dell’Afro Cuban Bop).

Nondimeno, negli anni immediatamente successivi al secondo conflitto mondiale, sopravvissero molte formazioni che spopolavano durante la swing craze: Count Basie, Woody Herman, lo stesso Ellington. Il primo continuò a incidere dischi e ad esibirsi dal vivo fino a poco prima della morte (1984), suonando musiche arrangiate da Neal Hefti, prima, e da Sammy Nestico, Thad Jones e Frank Foster dopo; Herman, nei suoi “Greggi”, si avvalse spesso della collaborazione di Ralph Burns, ma altrettanto spesso curava in prima persona gli arrangiamenti, lasciando

67 La vamp è un elemento arrangiativo costituito da note corte ma potenti, suonate da una o più sezioni, che spezzano un solo o un background. 68 Il break è un’interruzione, avente numero di battute variabile, dell’orchestra che lascia completamente solo il solista. 69 Il concerto grosso del periodo barocco era una forma musicale nella quale l’orchestra al completo si contrapponeva al piccolo gruppo (detto concertino) 70 Per molti storici, Dizzy Gillespie si orientò con cognizione di causa verso la big band in quanto il piccolo gruppo iniziò ad andargli stretto, verso la fine degli anni Quaranta, anche a causa dei suoi contatti con la musica cubana.

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molta libertà ai suonatori e ponendosi, in questi termini, esattamente agli antipodi del Duca.

Gli anni a cavallo tra il 1945 ed il 1960, poi, videro la nascita del cosiddetto progressive jazz, del quale fu portabandiera Stan Kenton: per la sua orchestra, gli arrangiamenti furono firmati, oltre che da lui stesso, anche da Bill Holman, Gene Roland ed addirittura Gerry Mulligan71. Soprattutto Holman, se si inquadra la produzione musicale di quella band dal punto di vista poc’anzi esaminato, può essere considerato come l’arrangiatore che delineò il sound della formazione kentoniana.

Con i dischi “Out of The Cool” e “Miles Ahead” si impone all’attenzione del pubblico del jazz la figura di sopraffino arrangiatore di Gil Evans: specialmente il primo, inciso per la Impulse (IMP 11862 051186-2, del 1960) mostra come egli si sappia destreggiare ad arte con organici ricercati ed articolati nella scelta degli strumenti, caratteristica che diventerà un tratto distintivo assolutamente unico, nella sua produzione non vasta ma di altissima qualità. Gil Evans non incise molto, ma la qualità dei dischi è sempre altissima; assolutamente da segnalare la registrazione live, effettuata in Germania nell’ottobre del 1978 e pubblicata nel 1990 dall’etichetta tedesca Circle Records: assieme alla formazione di Evans di quel periodo (nella quale si annoverano Lew Soloff e Terumasa Hino alle trombe, Gerry Niewood ai sax alto e soprano ed al flauto, Bob Stewart alla tuba, Pete Levin al sintetizzatore, Don Pate al basso elettrico e Rob Crowder alla batteria), troviamo come ospite George Adams; il disco conta quattro arrangiamenti (Dr. Jeckyll, The Meaning Of The Blues, Little Wing di Jimi Hendrix (!) e For Bob’s Tuba), molto rappresentativi per comprendere l’evoluzione stilistica di questo raffinato (ma troppo spesso snobbato……) musicista – arrangiatore.

Negli anni Sessanta e Settanta, la tradizione della big band venne perpetrata e fatta evolvere da Thad Jones e Mel Lewis: trombettista geniale e di ottimo gusto il primo, poderoso batterista il secondo, misero in piedi un’orchestra (formata da ottimi solisti ed altrettanto validi section men) che suonava arrangiamenti originali e di standards, curati dallo stesso Jones, i quali avevano un grosso punto di forza nell’uso disciplinato delle nuove sonorità esplorate dai grandi personaggi dell’era modale (Bill Russo, George Russell e Russell Garcia tra i teorici; Coltrane, Shorter, Davis, Hubbard, Nelson, e via di questo passo tra gli strumentisti). In questo senso, la formazione di Jones e Lewis si pone ad un livello più elevato rispetto a formazioni come quelle di Count Basie, Woody Herman e Duke Ellington, le quali continuarono sì a lavorare, e anche tanto, con numerose tourneès e partecipazioni a festivals anche internazionali, ma rimasero per lo più affezionate alle loro hits, continuando nondimeno a suonarle molto bene. Nello stesso periodo, nacque la Mingus Big Band: formazione di organico standard ma decisamente eclettica, essa univa eccellenti improvvisatori in un collettivo capace di suonare le musiche composte dal grande contrabbassista, arrangiate da lui stesso e da altri (Ronnie Cuber e Sy Johnson, ad esempio) in maniera semplice quasi ai limiti del rozzo, ma sempre efficace e creativa.

71Al baritonsassofonista si deve, ad esempio, l’arrangiamento di Limelight nel disco “Contemporary Concepts” del 1956, Capitol Jazz 7243 5 42310 2 5

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Nell’ultimo ventennio, infine, si è assistito al declino delle big bands storiche ed alla contemporanea nascita e maturazione di altre formazioni. Va detto che le big bands nate in questo periodo hanno operato quando i nuovi stimoli stilistici provenienti da più parti (fusion, rock, free jazz, musica elettronica, musica latino – americana) facevano sempre più frequentemente capolino nelle loro partiture. Non solo: ormai la swing craze era un lontano ricordo, e le gesta quasi epiche delle grandi formazioni da ballo riempivano già i libri di storia, pertanto spesso è capitato, a partire dagli anni Ottanta in poi, di imbattersi in progetti musicali volti a recuperare e/o rivisitare, in chiave moderna, quel filone artistico. Vediamo in che modo.

Ellington ci ha lasciato nel ’74, Basie dieci anni dopo; le loro orchestre

sopravvissero per un certo periodo, grazie all’operato del figlio Mercer, nel primo caso, e di Frank Foster nel secondo. Mingus, invece, morì nel ’79, e le redini della direzione artistica ed organizzativa della sua big band vennero prese dalla vedova, Sue, che continua a mantenerle tuttora, con ottimi risultati artistici di pubblico come quelli riscontrati dal sottoscritto in occasione del concerto tenuto il 18 marzo del 2004 all’Esposizione Universale del Jazz di Genova.

Woody Herman, sul finire degli anni ’70, continuò ad esibirsi nei più grandi festivals internazionali: l’apporto più significativo, in termini di partiture, fu quello del trombonista John Fedchock.

Carla Bley costituì un’orchestra verso la metà degli anni Settanta, e continua a condurla ancora oggi, nonostante i cambiamenti di personale al suo interno: le musiche suonate dalla sua big band, arrangiate per lo più dalla stessa leader, riprendono gli stilemi della big band classica, arricchendoli di contenuti nuovi, legati ora alla tradizione gospel, ora rievocativi di alcuni aspetti della vita quotidiana statunitense. Avendo il sottoscritto avuto la fortuna di suonare alcuni di questi brani, sotto la direzione della stessa Carla (fine Marzo del 200272), le emozioni contrastanti di gioia spirituale e di consapevolezza dell’inesorabilità della vita che scorre traspaiono tutti e con grande potenza.

Ha riscosso un buon successo il progetto di riappropriazione e rivisitazione in chiave moderna delle hits più famose della swing craze, attuato dalla Carnegie Hall Jazz Band sotto la direzione di Jon Faddis: l’unione di due nomi così famosi (quello della sala da concerti più famosa del mondo, e di uno tra i migliori trombettisti degli ultimi vent’anni), e del lavoro di validi arrangiatori, hanno fatto in modo che quest’orchestra conquistasse fette di pubblico sempre più grandi, come testimoniano i teatri affollati in occasione dei suoi concerti; medesime fortune sono toccate alla pianista ed arrangiatrice Maria Schneider, la quale ha percorso sostanzialmente la stessa strada dell’orchestra diretta da Faddis, aggiungendo ai propri scores un tocco di femminilità che costituisce una novità in un panorama mascolino come quello jazzistico.

Sempre a proposito di Faddis: il grande trombettista di colore, di iniziativa sua e di pochi altri, nel maggio del 2000 riunì una big band, denominata “Dizzy Gillespie’s Alumni All Star Band”, che si esibì in una serie di concerti negli Stati Uniti 72 Cfr. Cap. IX.

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proponendo brani classici di “The Frog” ai tempi della sua orchestra – Things to come, Manteca, Night in Tunisia, Stablemates – negli arrangiamenti di Faddis stesso, ma anche di Slide Hampton (che suonava la parte di Primo Trombone) e di Frank Wess (Primo Sax Tenore). Il risultato è stato una sorta di spin – off della Carnegie Hall Jazz Band (tant’è vero che molti musicisti suonavano anche in quest’ultima orchestra), che ha riproposto alcuni tra i cavalli di battaglia del repertorio della big band di Gillespie della fine degli anni Quaranta, rinfrescati e svecchiati anche grazie alla scoppiettante interpretazione del suo più talentuoso allievo. Un progetto discografico molto ben riuscito, quindi.

Infine, due parole sulla G.R.P. All Star Band. Formata da validissimi strumentisti, ai limiti del virtuosismo (Arturo Sandoval,

Dave Weckl, John Patitucci, Dave Valentin, Eddie Daniels, e compagnia cantando), i quali all’epoca incidevano per la casa discografica di Dave Grusin e Charlie Rose, anche questa band tentò, con un progetto piuttosto audace, di rinverdire i fasti delle grandi big bands, sebbene in organico fosse presente un solo trombone.

Un ascolto attento, però, fa capire che i peraltro splendidi arrangiamenti (e di conseguenza il suono che ne si ottiene, grazie anche alle caratteristiche dei musicisti) sono inevitabilmente permeati da un velo di sonorità spiccatamente fusion che, se da una parte amplia le possibilità di coloritura orchestrale – un campo, questo, in cui la ricerca e la sperimentazione non si è mai fermata – dall’altra raffredda notevolmente l’atmosfera, snaturando l’essenza stessa del suono della big band in generale, il quale può essere ora aspro, ora vellutato, ma sempre caldo e appassionato.

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V

FIRST TRUMPETS’ HALL OF FAME

Prime Trombe celebri e meno celebri

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Prima di entrare in questa sorta di “Hall of Fame” di Prime Trombe, nella quale sarà cura di chi scrive dare alcuni cenni biografici ed artistici di questi personaggi, è doveroso fare una precisazione.

Si possono distinguere due categorie (anche se pare brutto definirle così……) distinte di esecutori:

La prima, che comprende quegli strumentisti i quali, nella loro carriera, hanno lasciato poche testimonianze di solismo, attenendosi principalmente a svolgere nel migliore dei modi il loro compito di Lead Trumpet: per comodità, essi vengono definiti, per l’appunto, Lead Trumpets;

La seconda, nella quale si includono tutti coloro che, in alcune occasioni, abbandonavano la guida della sezione (e della big band73…), lanciandosi in un solo. Le si definiscono Jazz Trumpets.

Tutte queste mini – biografie sono state tratte sia dal già citato New Grove’s

Dictionary of Jazz che dal sito Internet www.allmusic.com, e da me tradotte. Mi scuso fin d’ora se, talvolta, la narrazione delle biografie di questi musicisti assomiglia al più banale dei curriculum vitae, oltre a scusarmi dell’eventuale incompletezza di informazioni a riguardo di luoghi e date di nascita e di morte.

73 Giancarlo Gazzani sostiene la seguente proporzionalità: “…all’Orchestra Sinfonica il Violino di Spalla, alla Big Band la Prima Tromba…”.

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CAT ANDERSON (William Alonzo Anderson)

Cat Anderson è, senza ombra di dubbio, il più grande acutista di tutti i tempi: il suo solo in Satin

Doll, nel disco “Duke Ellington’s 70th Birthday Concert” è un chorus perfettamente coerente, nell’acutezza delle note che si ascoltano.

Iniziò a studiare la tromba durante la sua permanenza al Jenkins Orphanage di Charleston, e più tardi fece un tour con i Carolina Cotton Pickers; dal 1935 al 1944 lavorò in diversi gruppi – Claude Hopkins, LukyMillinder, Erskine Hawkins, Lionel Hampton – , e con la sua maestria nel registro acuto, si fece degli estimatori (Hampton fu uno di quelli) e degli acerrimi nemici (Hawkins ne era così geloso che lo licenziò dopo poco tempo).

Nel 1944, “Il Gatto” fece la prima apparizione con l’orchestra di Duke Ellington, il quale si “appropriò” di un nuovo colore orchestrale, oltre che di un valido e creativo improvvisatore, abile anche nell’uso delle sordine: militò con il Duca dal 1944 al 1947, successivamente dal 1950 al 1959 e dal 1961 al 1971 (saltuariamente, a causa degli impegni con la band che aveva costituito a nome proprio). Dopo la morte di Ellington, Cat Anderson si spostò nella West Coast, dove suonò spesso con big bands locali, tra le quali quella condotta da

Bill Berry. Morì nel 1984, lasciando un’eredità artistica molto importante (lo screaming trumpet style)

nelle mani, ad esempio, di Jon Faddis, Lew Soloff, Arturo Sandoval.

BENNY BAILEY (Cleveland, Ohio, 13.08.1925)

Musicista estroverso e dotato di alta e raffinata sensibilità, apparso in situazioni boppistiche, prende le prime lezioni di musica studiando piano e flauto, passando definitvamente alla tromba quando viene ammesso al Conservatorio della città natale. Inizia a suonare giovanissimo in orchestre minori (Bull Moose Jackson, Scatman Crothers) e, dopo un breve ingaggio con la band di Jay Mc Shann, entra nell’orchestra di Dizzy Gillespie (1947 – 48); successivamente, diventa un membro chiave dell’orchestra

di Lione Hampton dal ‘48 al ‘53. Durante un tour europeo di quella formazione, Bailey decide di fermarsi in Svezia, e lavora con la big band di Harry Arnold (1957 – 59), registrando con Stan Getz ed esibendosi in una serie di concerti con Quincy Jones. Torna negli States nel 1960 per una breve visita, giusto il tempo di registrare un album a metà strada tra la classica ed il jazz per la Candid, Big Brass. Si trasferisce nuovamente in Europa, ma questa volta in Germania; negli ultimi quarant’anni lavora saltuariamente: una registrazione con Eric Dolphy e la Clarke – Boland Big Band, una tournée con la George Gruntz’s Concert Jazz Band, concerti con la Paris Reunion Band (della quale è membro dal 1986).

Oltre a Big Brass, per la Candid, Benny Bailey ha diretto sesisoni di registrazione per molte etichette europee – Sonet, Metronome, Saba, Freedom, Enja, Ego, Hot House, Gemini – più una seduta statunitense per la Jazzcraft.

BILLY BUTTERFIELD (Cleveland, Ohio, 13.08.1925)

Un versatile trombettista pre – bop, in grado di suonare agevolmente sia la più

raffinata delle ballads che la più scatenata hit in stile dixieland. Dopo la prime esperienze nella metà degli anni ’30, con le bands di Austin Wylie ed Andy Anderson, Butterfield divenne famoso con l’orchestra di Bob Crosby, nella quale suonò dal ’37 al ’40; in seguito lo si vede impegnato con Artie Shaw: da ricordare la versione di “Stardust” e il “Clarinet Concerto” , ascoltabile nel film “Second Chorus”.

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Vennero poi le collaborazioni con Goodman, nel ’41, e Les Brown, l’anno seguente; finito il servizio militare, riunì una big band a nome proprio, che ottenne buoni risultati artistici ma scarsi dal punto di vista commerciale; durante gli anni ’50 e ’60, lavorò principalmente in studio: partecipò occasionalmente, con il chitarrista Eddie Condon, ad alcuni concerti dixieland, e fu un membro fondamentale della “World’s Greatest Jazz Band”, dal ’68 al ’72. Prima della morte, continuò a partecipare a concerti e sedute d’incisione di dixieland.

CONTE CANDOLI

Meglio conosciuto ai più come leader sezione delle trombe nella Tonight Show Band di Doc Severinsen, Conte Candoli è stato un raffinato jazzista “tuttofare”, maggiormente a proprio agio nell’area bop ed in quella cool del West Coast Jazz. Più giovane di quattro anni rispetto al fratello Pete, che aveva comunque caratteristiche simili, Conte, al secolo Secondo Candoli, nacque il 12 luglio del 1927 a Mishawaka (Indiana), e si formò, durante i primi anni, seguendo le gesta di Harry James, Roy Eldridge e Dizzy Gillespie: più tardi scoprì Miles Davis e Clifford Brown. Ottenne il suo primo ingaggio a

sedici anni, quando il fratello Pete lo raccomandò a Woody Herman per il suo Gregge Tonante: dopo il conseguimento del diploma, vi lavorò a tempo pieno; successivamente, collaborò con diverse orchestre, compresa quella di Kenton, che abbandonò nel 1954 per formare una band a proprio nome. Dopo aver diretto qualche sessione in studio, si spostò a Los Angeles, alla ricerca di un maggior benessere di vita e di nuovi ingaggi, come quello che trovò nelle fila della Howard Rumsey’s Lighthouse All Stars: vi rimase circa quattro anni, dopodiché (nel 1960) venne chiamato, insieme al fratello, dal batterista Shelly Manne.

Nel 1968, entrò a far parte della Tonight Show Band, e con essa lavorò in pianta stabile fino al 1972; durante gli anni ’70, fu anche membro del Supersax, insieme ad altri famosi musicisti californiani, e continuò a collaborare periodicamente col fratello.

Concluse la sua militanza nella Tonight Show Band nel 1992: continuò a suonare, fino a quando la sua attività venne rallentata dall’insorgenza di una grave malattia, che lo portò alla morte, in una casa di cura, il 14 dicembre del 2001.

BILL CHASE (William Edward Chiaiese; Squantum, Massachussetts, 20.10.1934 – Jackson,

Minnesota, 09.08.1974)

Fino ai primi anni della high school suonò le percussioni in alcune marching bands, poi si diede allo studio della tromba; frequentò, poi, il New England Conservatory, unicamente per conseguire il diploma alla Berklee School of Music di Boston, dove ebbe modo di studiare con Herb Pomeroy e Armando Ghitalla. Spesso, si trovò a lavorare nell’orchestra di Maynard Ferguson, con la quale rimase per circa un anno, prima dell’ingaggio nella formazione di Stan Kenton e della definitiva consacrazione nel ruolo di Prima Tromba, che avvenne con il Gregge Tonante di Woody Herman (1960 – 65 circa). Dopo la militanza con Herman, Chase si spostò a Las Vegas, ove lavorò come musicista ed arrangiatore free lance: negli anni in cui i Beatles sono i padroni della scena musicale internazionale, però, il trombettista comincia ad interessarsi al rock. Agli inizi degli Anni Settanta, il gruppo dei suoi sogni

inizia a prendere forma; quattro trombe, quattro strumenti ritmici ed una voce, ed arrangiamenti efficaci che gli fecero guadagnare la nomination ai Grammy Awards come miglior nuova proposta: l’efficacia era data da raffinate frasi contrappuntistiche, riffs carichi di swing, colori orchestrali e crescendo usati ad arte, il tutto supportato da una potente base ritmica. Purtroppo, però, un incidente aereo interruppe (troppo presto…) la sua vita e la sua carriera artistica, così come quella di tre membri della sua band. Bill Chase è tutt’oggi riconosciuto da molti come uno dei primi esponenti del Jazz – Rock e di una moderna concezione del Lead Trumpet Style, e la sua discografia lo dimostra, sia numericamente che musicalmente.

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DOC CHEATHAM (Adolphus Anthony Cheatham; Nashville, 13.05.1905 – Washington,

02.06.1997)

Senza dubbio il più grande trombettista novantenne (!) di tutti i tempi: nessuno, infatti, ad un’età di oltre ottant’anni ha mai suonato con una potenza, un’estensione, una confidenza ed una creatività melodica paragonabili alle sue; molti trombettisti hanno iniziato la loro fase calante appena superati i sessanta, a causa delle difficoltà fisiche imposte dallo strumento, ma Cheatham non conobbe questa fase di declino fin quando fu ultra – settantenne.

La sua carriera iniziò nei primi Anni Venti, nelle orchestre dei teatri vaudeville che seguivano cantanti come Bessie Smith e Clara Smith; si spostò poi a Chicago, ove incise – in qualità di sopransassofonista – con Ma Rainey, Albert Wynn e con un suo gruppo nel 1926. Ebbe come idolo Louis Armstrong, in quegli anni: dopo alcune apparizioni con Wilbur De Paris e Chick Webb, fece una tournèe europea con Sam Wooding; a causa della sua grande estensione e del suo bel suono, ebbe modo di lavorare molto, come Prima Tromba, con i Mc Kinney’s Cotton Pickers e con Cab Calloway durante tutti gli Anni Trenta.

Negli anni successivi, suonò con la big band di Teddy Wilson e con il sestetto di Eddie Heywood, col quale riscosse successo commerciale ed

accompagnò, in alcuni dischi, Billie Holiday. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, Cheatham si divise tra lavori dixieland, di nuovo con De Paris e, come ospite, con Eddie Condon, ed altri di musica latino – americana, con le orchestre di Perez Prado ed Herbie Mann; tra il 1966 ed il 1967 collabora con Benny Goodman e, arrivato alla soglia dei settant’anni, lanciò la sua nuova carriera da solista, in duo con il pianista Sammy Price. Fino alla sua morte incise in maniera prolifica.

Si dimostrò anche valido cantante, con uno stile a metà tra il cantato ed il parlato: nulla a che vedere con i suoi avventurosi voli trombettistici.

BUCK CLAYTON (Wilbur Dorsey Clayton; Parsons, Kansas, 12.11.1911 – New York, 08.12.1991) Nacque in una famiglia di musicisti – suo padre, pastore protestante, dirigeva un’orchestrina

che suonava nella sua chiesa – e ciò gli diede l’opportunità di avvicinarsi a strumenti differenti già dalla tenera età; a sedici anni scelse la tromba, e le sue prime esperienze con essa furono in California. Nel 1936, durante un viaggio a Kansas City, venne convinto da Count Basie ad entrare nella sua orchestra, della quale divenne presto uno dei solisti principali e, all’occorrenza, una validissima lead trumpet.

Dopo il servizio militare, si dedicò per lo più a piccoli gruppi; partecipò, nel 1946, al suo primo tour con il Jazz at the Philharmonic organizzato da Norman Granz, e l’anno successivo diresse un sestetto al Cafè Society di New York: questo gruppo girò l’Europa dal settembre del ’49 all’aprile del ’50, e nel Vecchio Continente tornò per suonare in una serie di concerti, organizzati da John Hammond per la Columbia dal 1953 al ’56, con Mezz Mezzrow, Frank Sinatra, Babs Gonzales.

Nel 1967 un peggioramento del suo stato di salute gli impedì di proseguire con continuità la sua attività, pertanto lavorò principalmente come arrangiatore. Ricominciò a suonare nel ’77, sempre in piccoli gruppi, ma l’esperienza di arrangiatore lo convinse, dieci anni dopo, a formare una big band a suo nome, che diresse fino ad una settimana prima della sua scomparsa.

Apprezzato maggiormente come solista, nel ruolo di leader della sezione delle trombe si fece apprezzare per il suo suono, accattivante, caldo, pieno di swing, e per l’alto livello tecnico – strumentale.

SONNY COHN (Chicago, 14 Marzo 1925)

Dopo la classica gavetta nelle bands locali, nel 1942 si diede alla professione, ottenendo il

primo ingaggio nel gruppo diretto dal sassofonista Richard Fox. Prestò servizio in una banda militare dal

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1943 al 1945, quindi fu membro dell’orchestra di Red Saunders fino al 1959. Convocato da Count Basie per una registrazione con Sarah Vaughan nel ’58, finì per entrare stabilmente nella sua orchestra dopo due anni, e ben presto ne divenne un punto di riferimento nella sezione delle trombe, sia come leader che come solista, principalmente nelle ballads: esempi della sua musicalità, in questo ambito, sono i solo in Meetin’ Time ma soprattutto in Li’l Darlin’.

A partire dai primi del 1974 divenne il road manager dell’orchestra di Basie, nella quale rimase anche dopo la morte di quest’ultimo (sotto le conduzioni di Thad Jones e Frank Foster): nel 1990 la lasciò, dandosi alla carriera di free lance. Da segnalare: un concerto nel 1995 al Green Mill Jazz Club, ed un disco, l’anno seguente, con il piccolo gruppo di Jodie Christian.

JOHNNY COLES (Trenton, New Jersey, 3 Luglio 1926 – Philadelphia, 21 Dicembre 1997)

Sostanzialmente autodidatta, fece le sue prime esperienze nella banda militare e con un sestetto

chiamato Slappy and his Swingsters, per poi passare nel gruppo di Eddie “Cleanhead” Vinson, con John Coltrane e Red Garland; negli anni ’50 lavorò con Philly Joe Jones, Bull Moose Jackson, Gene Ammons,

Earl Bostic e James Moody, mentre dal 1958 al 1964 suonò con Gil Evans, registrando, tra l’altro, il disco “Out Of The Cool” e partecipando allo show televisivo “Theater For A Story”.

Lasciato Evans, venne in Europa col il gruppo di Charles Mingus, suonando in seguito con George Coleman al Newport Jazz Festival del 1966 e fondando il primo sestetto di Herbie Hancock, due anni più tardi; dal ’69 fece parte dell’orchestra di Ray Charles, se si eccettua la parentesi con la big band di Duke Ellington (dalla fine ’71 fino alla morte del Duca); negli anni Ottanta, Johnny Coles fu parecchio impegnato, e le sue collaborazioni molto importanti: Dameronia and Mingus Dinasty, Count Basie Orchestra diretta da Thad Jones, Frank Morgan e Chico Freeman. Nel decennio successivo, i suoi impegni si

diradarono gradualmente, anche a causa delle sue condizioni di salute che peggiorarono dopo il ’95 per effetto di una grave malattia, ma ciò non gli impedì di suonare fino a poco tempo prima della morte.

Lo stile di Coles è sereno, calmo, e carico di colori e nuances, ed in esso, si possono sentire le influenze di Gillespie e Davis: fu un musicista molto versatile, a suo agio anche in altri stili non prettamente jazzistici.

ROY ELDRIDGE (David Roy Eldridge; Pittsburgh, 30.01.1911 – Valley Stream, N.Y., 26.02.1989)

Iniziò, come tanti, in giovane età, a scuola, e la sue doti lo portarono, a soli sedici anni, alla

carriera professionale in local bands da ballo e formazioni itineranti; nel novembre del 1930, si trasferì a New York, dove suonò, in successione, con le orchestre di Cecil Scott, Elmer Snowden, Charlie Johnson e Teddy Hill: qui, conobbe Otto Hardwick, che gli diede il soprannome di Little Jazz, soprannome che lo identificò per tutta la vita.

Tra il 1935 ed il ’36, venne impiegato da Fletcher Henderson come Lead Trumpet; successivamente, formò un proprio ottetto, e suonò con piccoli gruppi, abbandonando momentaneamente il lavoro nelle big bands. Nel 1941, però, incontrò Gene Krupa, che lo scritturò e ne fece uno dei primi musicisti di colore ad essere accettati come membri permanenti di orchestre bianche: infatti, l’ingaggio successivo fu quello con Artie Shaw, sempre in veste di Prima Tromba.

Esaurita la spinta creativa e divulgativa della swing craze, Eldridge iniziò, come moltissimi suoi colleghi, a portare il jazz al di fuori dei confini statunitensi: in Francia, soprattutto, durante un tour con Benny Goodman, venne quasi mitizzato dalla critica. Dopo diverse apparizioni in grandi festivals, suonò con Ella Fitzgerald e Count Basie, ma in queste formazioni il suo talento venne scarsamente utilizzato.

Negli ultimi anni della carriera, continuò a suonare in piccoli gruppi, ed in studio come free – lance.

Pur ispirandosi in partenza ad Armstrong, non è difficile notare le influenze di Coleman Hawkins nello stile di Eldridge, soprattutto in termini di suono (ricco e potente) e di arpeggi (il break nel

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solo di After You’ve Gone del 1937 mostra la fantastica estensione strumentale di Eldridge, che in sei battute copre quasi tre ottave). Questi grandi “numeri” artistici vennero utilizzati da Little Jazz principalmente nei soli, ma anche, in molte occasioni, nella conduzione della sezione delle Trombe: la facilità nel registro sovracuto, l’agilità, le ottime capacità di lettura, ne fecero una Lead Trumpet validissima. Un altro musicista dal quale attingere a piene mani.

ZIGGY ELMAN

(Harry Aaron Finkelman; Philadelphia, 26.05.1914 – Los Angeles, 26.06.1968) Il suo nome di battesimo era Harry Finkelman. Il suo stile influenzò non pochi trombettisti durante la swing craze, ed ebbe grande successo

anche grazie all’interpretazione del brano tradizionale klezmer intitolato “Fralich in Swing” (le sue origini erano ebraiche, d’altronde…), insieme alla cantante Martha Tilton: quella canzone divenne una hit popolarissima.

Sebbene registrò diversi brani come bandleader, Elman è ricordato meglio per i suoi lavori con le orchestre di Benny Goodman (anni ’30) e Tommy Dorsey (decennio successivo); in un’intervista

pubblicata nel 1939, Goodman ricordava: «Nel 1934, mentre suonavamo ad una convention a Kansas City, Ziggy suonò un chorus all’interno di un head arrangement di “Whispering”: girò la campana verso il cielo, decretò l’immortalità di quel tema e lo interpretò splendidamente, inserendovi una entusiasmante filigrana di decorazioni musicali; mise la vita in tutte le note che gli passavano per la testa in quel momento, e la canzone prese il volo».

Nel 1932 lo si sentì suonare il trombone in un disco di Alex Bartha, quattro anni più tardi venne ingaggiato da Goodman: quando arrivò Harry James, la band ebbe due musicisti molto validi (un grande solista ed un grande uomo di

supporto armonicone ritmico all’interno della stessa sezione), i quali seppero dare un grosso impulso al Goodman’ sound; tra il 1938 ed il 1939, registrò venti matrici a proprio nome, pur continuando a suonare con il clarinettista. Nel 1940, venne chiamato da Tommy Dorsey, col quale rimase fino al 1947: in seguito, alternò questa attività nuovamente con quella di leader, fino al 1952.

Il tramonto della swing era segnò anche il tramonto della carriera di Ziggy Elman, il quale riapparve occasionalmente in studio sessions.

JON FADDIS (Jonathan Faddis; Oakland, California, 24.07.1953)

Si affaccia alla scena jazzistica molto presto – non aveva ancora compiuto vent’anni – ed

impressionò per la sua tecnica e per la somiglianza stilistica con Dizzy Gillespie; questo aspetto, agli inizi, gli creò non pochi problemi, in quanto venne visto come un mero imitatore di “The Frog”, ma la sua impressionante estensione ed il graduale sviluppo del suo personale sound lo aiutarono a superare

questa diffidenza e, sebbene Gillespie rimane tutt’oggi il suo idolo (iniziò ad esserlo sin da quando aveva otto anni…), ascoltando Faddis si possono trovare tracce degli stili di Roy Eldridge e Louis Armstrong.

Prima di trasferirsi a New York, agli inizi degli anni ’70, ebbe modo di suonare con Lionel Hampton e Charlie Mingus (col quale dovette sostituire Roy Eldridge in un concerto) e di incidere due dischi molto belli per la Pablo, uno in duo con Oscar Peterson. Dopo aver suonato per un breve periodo con il suo mentore Gillespie, sfortunatamente senza lasciare testimonianza registrata di quell’incontro, Faddis sembrò scomparire, dedicandosi a lavori di studio e suonando la Lead Trumpet con la big band di Thad Jones e Mel Lewis; riapparve sulla scena verso la metà degli anni Ottanta, registrò con la Concord e la Epic, e nel 1993 venne chiamato a

ricoprire il ruolo di Direttore Musicale della Carnegie Hall Jazz Orchestra, ruolo detenuto tuttora a suon di vasti consensi di pubblico in tutto il mondo.

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MAYNARD FERGUSON (Montreal, 04.05.1928)

Soprannominato “The Boss” e canadese di nascita, prese residenza negli Stati Uniti nel

1948, collaborando con Boyd Raeburn, Jimmy Dorsey e Charlie Barnet. Dal 1950 al 1953, la sua prima esperienza di alto livello, con Stan Kenton; in quegli anni, conobbe quegli strumentisti che, tre anni più tardi, riunì sotto il nome di Birdland Dreamband: tra gli altri, Bill Chase, Dusko Goykovich, Rob Mc Connell, Joe Zawinul, Wayne Shorter.

Dalla fine degli anni ’60, si avvicinò al rock, ed in breve divenne uno degli iniziatori del filone jazz – rock che si impose nella decade successiva.

Le sue esibizioni in festivals internazionali sono state memorabili, e lo sono tuttora, sebbene Ferguson abbia più di settant’anni. Il suo eccezionale controllo del registro sovracuto, e la sua capacità di suonare numerosi altri strumenti d’ottone, sono i tratti distintivi di questo musicista, che tra le altre cose, nella sua carriera, ha avuto modo anche di brevettare nuovi modelli di strumento: il “firebird”, ibrido tra tromba a pistoni e a coulisse; il “superbone”, un’altra combinazione della macchina e della coulisse, stavolta però con le misure del trombone.

WALTER FULLER Veterano delle bands jazz e da ballo, sia in veste di trombettista che di cantante, Walter Fuller è

stato spesso confuso con Gil Fuller, soltanto perché quest’ultimo (arrangiatore e compositore di grande fama) è stato molto sovente indicato sui dischi col nome di Walter.

Attualmente, la carriera musicale del Walter Fuller trombettista e cantante sta vivendo un periodo di revisione, a partire dalle formazioni in cui iniziò a farsi un nome. Quando iniziò a girare l’America, a soli 14 anni, suonava nei cosiddetti medicine shows: qualche anno dopo, entrò nel gruppo di Sammy Stewart, rimanendovi fino al 1930; a quel punto, si trasferì a Chicago, per suonare con Irene Eadie and Her Vogue Vagabonds, ma vi rimase ben poco: infatti, alla metà del 1931, venne ingaggiato da Earl Hines, e col grande pianista rimase ininterrottamente per ben sei anni.

Dopo una breve parentesi con Horace Henderson, tornò con Hines fino al 1940, dopodiché Fuller si sentì pronto per formare una big band a proprio nome, con la quale suonò al Grand Terrace di Chicago e alla Radio Room di Los Angeles: questo ingaggio nella West Coast lo entusiasmò al punto che, nel giro di due anni, prese la residenza a San Diego, dove continuò a dirigere la propria band (al Club Royal, essa si esibì per una buona dozzina d’anni) e dove rimase fino alla sua morte, avvenuta a 93 anni.

Altra Lead Trumpet di tutto rispetto, ebbe modo di trovare gioie improvvisative in veste di cantante, specialmente nel gruppo che portava il suo nome.

BERNIE GLOW Questo trombettista newyorkese, un altro splendido esemplare di Lead Trumpet che non

improvvisò mai e che, per questo, passa inosservato ai più, iniziò la sua carriera professionale poco più che ventenne, in un’orchestra di grido come quella di Artie Shaw: questo entusiasmante trampolino di lancio gli valse due ingaggi altrettanto prestigiosi nel 1947, il primo con Boyd Raeburn (che richiedeva ai suoi musicisti estrema precisione) ed il secondo con Woody Herman (sempre alla ricerca di energia e potenza). Negli anni ’50, lavorò pressoché soltanto in studio, in più di cento sessioni: dal ’55 al ’65, registrò saltuariamente con Benny Goodman, fino a quando una lite sull’illuminazione dei leggii interruppe il loro rapporto (Goodman immaginò che Glow sbagliasse le note di proposito…); questo non inficiò il proseguimento della carriera del trombettista, il quale ebbe modo di collaborare con jazzisti del calibro di Bob Brookmeyer, Miles Davis (nel disco “Sketches of Spain”), Gil Evans, Dizzy Gillespie, J.J. Johnson.

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Nel 1970, lavorò con George Benson, qualche anno prima di partecipare al disco intitolato “Other Side of Abbey Road”, un lavoro su musiche dei Beatles: in seguito, si esibì con Aretha Franklin, Janis Ian, Astrid Gilberto, Laura Nyro. I suoi ultimi impegni furono con Tito Puente e Gato Barbieri.

Tacciato agli inizi di scarso spessore artistico, Bernie Glow – un trombettista molto versatile, come si può facilmente evincere dall’eterogeneità delle sue collaborazioni – seppe smentire i suoi detrattori, in particolare dopo che, tra gli anni ’60 e ’70, approfondì le proprie conoscenze ed il proprio stile di conduzione della sezione delle trombe, al punto di essere richiesto dai grandi esponenti della scena jazzistica americana precedentemente citati

CONRAD GOZZO (Conrad Joseph Gozzo; New Britain, Connecticut, 06.02.1922 – Burbank,

California, 08.10.1964)

Lead Trumpet di alto livello, Conrad Gozzo è stato anche un talentuoso ma poco utilizzato solista. Il padre era un insegnante di tromba, e fu lui a dargli i primi rudimenti dello strumento; nel 1938 iniziò la sua carriera professionale nell’orchestra di Isham Jones: in seguito, trovò ingaggi con quelle di Tommy Reynolds, Red Norvo, Johnny “Scat” Davis, Bob Chester e Claude Thornhill (1941 – 42).

Prima del servizio militare (prestato nei ranghi della Artie Shaw Navy Band), lavorò nell’orchestra di Benny Goodman: congedatosi, Woody Herman lo chiamò per il suo Primo Gregge (1945 – 46), seguirono le collaborazioni con le

formazioni di Boyd Raeburn e Tex Beneke. In tutte queste big bands, Gozzo raramente improvvisò: il suo suono caldo e l’estensione

impressionante fecero in modo che egli venisse impiegato quasi esclusivamente nella conduzione della sezione delle trombe.

Nel 1947, a soli 25 anni, si trasferì a Los Angeles, dove divenne in breve tempo un musicista molto richiesto negli studi di registrazione, apparendo in un interminabile elenco di incisioni nei successivi diciassette anni. Non solo: suonò anche in numerosi shows radiofonici, televisivi e colonne sonore. Un attacco di cuore, a soli 42 anni, segnò la tragica fine di una carriera molto produttiva.

Gozzo incise a proprio nome soltanto un disco, intitolato “Gozz The Great”, nel 1955: i suoi soli sono accompagnati da una big band, da un quintetto e da una sezione di archi.

SHELTON HEMPHILL (Birmingham, Alabama, 16.03.1906 – New York, dicembre 1959) Frequentando la Industrial High School, nella città natale, ebbe modo di suonare nella resident

band dell’istituto; in seguito, accompagnò Bessie Smith assieme al pianista Fred Langshaw, ed incise il suo primo disco, intitolato “Lonesome Desert Blues”; qui si può udire uno dei suoi pochi e rari soli: difatti, Hemphill fu principalmente una Prima Tromba, ed in tale veste lavorò con Benny Carter (1928 – ’29), Chick Webb (1930 – ’31), Mills Blue Rhythm Band (1931 – ’37), Edgar Hayes (1937), Louis Armstrong (dalla fine del 1937 fino al 1944) e Duke Ellington (dal ’44 fino al ’49). Fino al ritiro per motivi di salute, lavorò a New York come free lance.

Al suo attivo ha anche due apparizioni in cortometraggi musicali, con i Mills Brothers e d Ellington

REUNALD JONES SR. (Indianapolis, 22.12.1910 – Los Angeles, 26.02.1989)

Cugino di Roy Eldridge, le prime esibizioni da professionista di Reunald Jones Sr. furono con

svariate local bands del Middle West; guadagnata l’esperienza necessaria, venne ingaggiato

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successivamente dalle formazioni di Speed Webb, Fess Williams, Charlie Johnson, Chick Webb, Don Redman, Willie Bryant, Teddy Hill, Jimmie Lunceford, Claude Hopkins, Doc Wheeler, Duke Ellington (per due mesi nel 1946), Lucky Millinder, Erskine Hawkins, Ed Wilcox, e Sy Oliver, negli anni dal 1929 alla fine dei Quaranta.

Dopo aver lavorato come Prima Tromba con Count Basie dal 1952 al 1957, si esibì in una tournèe europea con Woody Herman, nella primavera del 1959, e suonò con la big band di George Shearing, alla fine dello stesso anno. Dal ’61 al ’64 fu con Nat King Cole, dopodiché lavorò intensamente in studio di registrazione. Incise con Sonny Stitt nel 1962, ma in pratica cessò di suonare jazz a partire dalla fine degli anni ’60.

Jones fece raramente assoli, sebbene prese parte ad innumerevoli recording sessions: le sue performances solistiche migliori rimangono quelle con Chick Webb, una su tutte il brano “Let’s get together”; egli infine, grazie alla grande estensione ed al suono accattivante, si trovava a proprio agio sia a suonare in sezione che la lead.

THAD JONES (Thaddeus Joseph Jones; Pontiac, Minnesota, 28.03.1923 – Copenhagen,

20.08.1986)

Nato in una famiglia di musicisti, essendo fratello più giovane del pianista Hank e più anziano del batterista Elvin (scomparso di recente), si rivelò come trombettista e cornettista armonicamente avanzato e come talentuoso arrangiatore, caratteristiche che gli valsero una carriera molto prolifica.

Autodidatta dello strumento, iniziò la professione a 16 anni, col fratello Hank nel gruppo dell’altosassofonista Sonny Stitt; dopo la parentesi del servizio militare, dal 1943 al 1946, lavorò in bands locali nel Middle West, mentre dal 1950 al ’53 si esibì con regolarità con il quintetto di Billy Mitchell a Detroit, e nei due anni successivi incise diverse cose con Charlie Mingus.

Thad Jones raggiunse la completa popolarità e maturità con la sua lunga permanenza (1954 – ‘63) nell’orchestra di Count Basie, al fianco di un altro big della tromba come Joe Newman: durante quel periodo ebbe anche l’opportunità di scrivere diversi arrangiamenti, cosa che gli tornò utile dopo il 1963,

quando si trovò a lavorare (e molto, peraltro) come arrangiatore free lance. Raggiunse in seguito lo staff della CBS, diresse un quintetto con Pepper Adams e, verso la fine del 1965, riunì la famosa big band che portava il suo nome e quello del batterista Mel Lewis (la quale, a partire dal febbraio 1966, suonò tutti i lunedi sera al Village Vanguard di New York). Durante gli anni ’70, quell’orchestra divenne famosissima, e diede l’opportunità a Thad Jones di impreziosire ulteriormente il suo stile compositivo: due esempi su tutti, “A Child Is Born” e “Kids Are Pretty People”, mentre fra le trombe che militarono in quell’orchestra, si possono citare Bill Berry, Danny Stiles, Richard Williams, Marvin Stamm, Snnoky Young e Jon Faddis.

Inaspettatamente, nel 1978 Jones lasciò l’orchestra per trasferirsi in Danimarca, senza dare spiegazioni: scrisse per un’orchestra radiofonica e diresse un

proprio gruppo, chiamato Eclipse; alla fine del 1984 prese la direzione della big band di Count Basie, appena deceduto, ma nel giro di un anno la sua salute si aggravò al tal punto che si dovette ritirare.

BIG ED LEWIS (Edward Lewis; Eagle City, Oklahoma, 22.01.1909 – Blooming Grove, New

York, 18.09.1985)

Iniziò a suonare il flicorno baritono, e con questo strumento si esibì in duo col pianista Jerry Westbrooks, a Kansas City, a soli quindici anni; l’anno successivo prese la tromba, lavorando prima con Paul Banks (altro pianista) poi con Laura Rucker (pianista e cantante). Dal 1926 inizia a lavorare nelle orchestre: fu membro, in successione, delle formazioni di Bennie Moten, Thamon Hayes, Harlan Leonard, Jay Mc Shann e, infine, nel 1937, Count Basie: con lui rimase fino al 1948, anno in cui abbandonò la musica per svolgere l’attività di tassista.

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Dopo pochi anni, però, trasferitosi a New York, riprese l’attività artistica, formando una big band a proprio nome e mantenendola in vita praticamente fino al suo ritiro definitivo, dovuto a problemi di salute. La sua ultima apparizione è stata in occasione della tournèe europea dei “Countsmen” del 1984, come tributo all’appena scomparso bandleader.

Inizialmente influenzato dagli stili di Joe Smith, Red Nichols e Bix Beiderbecke, fu uno dei solisti principali dell’orchestra di Moten del primo periodo, ma a partire dal 1930 diventò addetto a suonale la Lead, pertanto, nel prosieguo della sua carriera, raramente improvviserà ancora.

JIMMY MAXWELL Trombettista molto dotato tecnicamente, con un suono attraente, Jimmy Maxwell è stato un

validissimo musicista, a suo agio in situazioni live come in studio; iniziò in tenera età a suonare la cornetta, ed ebbe per due anni come insegnante, un luminare del trumpet teaching americano del calibro

di Herbert L Clarke. Le prime esperienze professionali di Maxwell furono con Jimmy

Dorsey, Maxine Sullivan e Skinnay Ennis, ma la notorietà gli arrivò grazie alla collaborazione con Benny Goodman, collaborazione che fu stabile dal 1939 al ’43 e occasionale negli anni successivi, ivi compresa la tournèe in Unione Sovietica del 1963; la sua carriera di studio musician iniziò invece nel 1943, per la CBS; tra le altre sue occupazioni, vanno anche annoverate le partecipazioni a show televisivi molto seguiti negli Stati Uniti, come il Perry Como Show (1945 – ’63) ed il Tonight Show di Johnny Carson (dal ’63 al ’73).

Spesso, inoltre, gli capitò di lavorare come sostituto nelle formazioni di Woody Herman, Count Basie, Duke Ellington, Oliver Nelson, Gerry Mulligan, nei New York Jazz Repertory Company e nel Chuck Israel’s National Jazz Ensemble.

Dal 1950 in poi, Maxwell portò avanti la carriera di insegnante, mentre nel 1977 ebbe modo di realizzare un disco a proprio nome, per l’etichetta Circle.

AL PORCINO

Un valido punto di riferimento per molte big bands durante gli anni della sua carriera. Carriera che iniziò nel 1943, con le formazioni di Georgie Auld, Louis Prima, Jerry Wald, Tommy Dorsey, Gene Krupa e Chubby Jackson.

Il suo nome è però meglio ricordato per la sua militanza nell’orchestra di Woody Herman, negli anni 1946, 1949-50 e 1954.

Inoltre, Porcino lavorò, sempre negli anni ’50, con Pete Rugolo, Count Basie, Elliot Lawrence e Charlie Barnet, fra gli altri. Trasferitosi a Los Angeles nel 1957, lavorò saltuariamente in studio di registrazione, e lo si trova nella Dream Band di Terry Gibbs dal 1959 al 1962. Fu molto impegnato durante gli anni Sessanta, in quanto suonò spesso in orchestre che accompagnavano cantanti: le più significative militanze furnon quelle con Buddy Rich (1968), Thad Jones e Mel Lewis (1969-1970), e di nuovo con Herman (1972).

Condusse una formazione a suo nome nella metà degli anni Settanta, accompagnando anche Mel Tormè; più tardi, Porcino si trasferì in Europa: visse in Germania e continuò a capeggiare varie big bands per i due decenni successivi.

Nel 1986, diresse un concerto al Jazz Mark di New York, e la sua big band accompagnò, l’anno seguente, Al Cohn in una delle ultime registrazioni del tenorsassofonista. Al Porcino, durante la sua carriera, raramente suonò dei soli, e si può pertanto definire una vera Lead Trumpet: ciononostante il suo suono e la sua grande estensione e facilità nel registro sovracuto costituì una sorta di plusvalore delle bands nelle quali suonò.

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ERNIE ROYAL (Ernest Andrew Royal; Los Angeles, 02.06.1921 – New York, 16.03.1983)

Fratello minore del sassofonista Marshall, fece le sue prime apparizioni con le formazioni di

Les Hite (estate del 1937), Britt Woodman e Cee Pee Johnson (1938 – ’39) e Lionel Hampton (dal settembre 1940 al 1942); dopo il servizio militare, prestato nei tre anni successivi, lavorò in duo col pianista Phil Moore: fino a questo punto, la sua attività si allontanò da quella del fratello, a seguito della convocazione di Woody Herman: lavorando regolarmente col suo Secondo Gregge dall’autunno del 1947 all’agosto del 1949, Ernie Royal fu il primo musicista afro – americano dell’orchestra.

In seguito, suonò con Charlie Barnet, fece una tournèe in Europa con Duke Ellington e, nel 1951, venne convocato da un bandleader francese (Jacques Hèlian) per suonare nel film Musique en tête; rientrato negli U.S.A., diresse una band a proprio nome insieme a Wardell Gray, partecipò ad un tour statunitense con Stan Kenton nel 1953, quindi lavorò come free lance a New York.

Dal 1957 al 1972 fece parte, in pianta stabile, dello staff musicale della radio – televisione A.B.C.: nello stesso periodo, parallelamente, lavorò ed incise con Gil Evans, Miles Davis (nel disco Miles Ahead+19), con la big band di Clark Terry, e partecipò a numerosissime sedute di incisione a nome di Quincy Jones (1955 – ’64), Oliver Nelson (1961 – ’67) e Friedrich Gulda (1966).

Specializzato nel registro sovracuto, si dimostrò anche un creativo ed immaginifico improvvisatore: insomma, un trombettista versatile, qualità, questa, che lo fece apprezzare molto, come si può ben vedere dalle prestigiose collaborazioni.

CARL HILDING “DOC” SEVERINSEN

(Arlington, Oregon, 07.07.1927)

Per un quarto di secolo, Doc Severinsen è stato di certo il trombettista più famoso d’America, grazie alle sue apparizioni televisive come leader della Tonight Show Band, una formazione che, nonostante l’esiguo spazio a disposizione, ebbe modo di mostrare e far ascoltare della buona e piacevole musica. Nell’ambiente dei jazzisti, Severinsen ebbe molti detrattori, che lo criticavano di suonare musica troppo commerciali e di “esporsi” troppo

poco in prima persona, ma egli era comunque, oltre che uno stimato e rispettato professionista, un abile improvvisatore, di estrazione bop, con una estensione ampissima ed un registro acuto molto chiaro e penetrante. Iniziò a studiare il trombone a sette anni, contro il volere del padre (dentista con l’hobby del violino); passato alla tromba, a dodici anni vinse il Music Educators’ National Contest, e compì diversi tour con l’orchestra di Ted Fio Rito durante gli anni della high school. Al termine degli studi, prese parte a diverse orchestre quali Tommy Dorsey, Charlie Barnet, Benny Goodman e Noro Morales. Stabilitosi a New York nel 1949, divenne un musicista da studio per la NBC,

accompagnando Dinah Washington e Anita O’Day; tre anni più tardi, entrò nello staff della televisione, apparendo nel Tonight Show sotto la direzione di Skitch Henderson, il quale gliela cedette nel 1962: la sua prima mossa fu quella di allargare l’organico dell’orchestra, comprendendovi strumenti diversi e più utilizzati nella musica pop, ed in questo venne coadiuvato dall’arrangiatore Dick Hyman. L’orchestra dello show entrò in studio di registrazione per un disco a proprio nome soltanto nel 1986, e tanta attesa venne ripagata con il Grammy Award per il migliore disco di formazione jazz allargata.

L’esperienza televisiva si concluse nel 1992, quando il presentatore “storico” Johnny Carson se ne andò; ciononostante, la sua attività continuò, anche in veste di direttore di grandi orchestre sinfoniche; in questo ultimo decennio, ha tenuto numerose master classes e si è dedicato alla costruzione di strumenti musicali ed accessori.

RUSSELL “PAPA” SMITH (Russell Taylor Smith; Ripley, Ohio, 05.02.1890 – Los Angeles, 27.03.1966)

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Dopo aver studiato il flicorno contralto, passò alla tromba a quattordici anni, ed ottenne i suoi

primi ingaggi professionali tre anni più tardi; intorno al 1910 si trasferì a New York, e cinque anni più tardi si esibì a Londra con la Joe Jordan’s Syncopated Orchestra.

Dopo il servizio militare, prestato in una formazione musicale dell’esercito, venne ingaggiato nel 1925 da Fletcher Henderson, e seguì le vicende del suo capo – orchestra fino al 1941, suonando (quasi) sempre la parte della Lead Trumpet; durante quegli anni, di tanto in tanto, lasciò l’orchestra per partecipare a diversi film, e per suonare con Horace Henderson, Benny Carter e Claude Hopkins. Dal 1941 al 1946 militò nelle file della big band di Cab Calloway, e prima di trasferirsi in California (verso la metà degli anni ’50) suonò con Noble Sissle; nell’area di Los Angeles, lavorò come free lance e come insegnante.

La sua tecnica sicura e la sua nonchalance nella lettura della parte di Prima Tromba erano caratteristiche ammirate dai colleghi, ma molti critici denigrarono il suo staccato troppo duro delle registrazioni con Fletcher Henderson; Russell Smith suonò per diversi anni prima della “rivoluzione” armstronghiana della seconda metà degli anni Venti, dimostrandosi spesso molto vicino allo stile di Satchmo specialmente nel fraseggio. Il suo impeccabile ed esemplare lavoro di Lead Trumpet non ha mai ricevuto la dovuta gratificazione.

LEW SOLOFF (Lewis Michael Soloff; New York, 20.02.1944)

Uno specialista del registro sovracuto e delle sordine (specialmente della plunger), che inizia a

studiare a cinque anni e imbraccia la tromba a dieci; l’attività del padre, ballerino professionista e gestore di un night club, gli permette di ascoltare musica dal vivo fin dalla tenera età, così, dopo aver studiato

nelle prestigiose scuole di musica Juilliard e Eastman, a 19 anni si diploma e dirige un quartetto.

Le sue collaborazioni sono fin da subito di altissimo livello: Tony Scott, Machito, Gil Evans, Tito Puente, Joe Henderson e Kenny Dorham; nel maggio del ’68 sostituisce Randy Brecker nel gruppo Blood, Sweat and Tears, e con quella band compie diversi tour internazionali e incide parecchi dischi, fino al settembre del 1973. Contemporaneamente, suona con Clark Terry, registra con Mongo Santamaria e, saltuariamente, viene chiamato da Thad Jones e Mel Lewis nella loro big band. Con un curriculum così, le richieste per le sue performances in studio crescono a dismisura: nel 1974 partecipa ad un disco di Robin Kenyatta e Stanley Clarke, e l’anno dopo con Jon Faddis in quintetto; a cascata, negli anni successivi, registra con Sony Stitt, Stanley Turrentine, George Russell, Spyro Gyra, Teo Macero, Franco Ambrosetti e Bill

Evans. Negli anni Ottanta, suona con Ornette Coleman, il Manhattan Jazz Quintet di David Matthews,

e con Carla Bley: in quella formazione, diventa quasi subito un punto di riferimento; nel ’92 suona con la Lincoln Center Jazz Orchestra, l’anno seguente con la Mingus Big Band, sempre in veste di lead trumpet, mentre a partire dalla metà degli anni ’90 inizia a suonare per lo più in piccolo – medio gruppo (sestetto, settetto, decimino), sia a proprio nome che sotto nome altrui (Peter Erskine, Daniel Schnyder, Charles Earland, John Clark, Paquito d’Rivera.

Dotato di un’eccellente tecnica e d un registro sovracuto molto potente e penetrante, Soloff è uno splendido “esemplare” di jazz trumpet, a suo agio sia a suonare la parte di Prima sia parti interne; i suoi soli sono carichi di creatività e inventiva. Ultimamente, così come Jon Faddis, sempre più spesso usa la tromba piccola (in gergo trombino74) nei soli: un intelligente modo di interpretare il registro sovracuto con minore potenza fisica ma con maggior stile ed eleganza, avvalendosi della sonorità di uno strumento utilizzato per lo più nel repertorio barocco.

74 La dizione corretta è tromba in Si bemolle acuto: il suo tubo è lungo esattamente la metà(70 centimetri contro 140, all’incirca) rispetto a quello della tromba in Si bemolle che tutti conosciamo, pertanto i suoni che si ottengono sono all’ottava superiore.

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MARVIN STAMM

Un eccellente trombettista con una solida preparazione bop ed un attivissimo session man durante tutta la sua carriera o quasi, Marvin Stamm è stato per lungo tempo un musicista molto versatile. Iniziò a studiare la tromba a dodici anni, e più tardi studiò alla North Texas State University; dal 1961 al ’63 suonò nella Stan Kenton’s Mellophonium Orchestra, prendendovi occasionalmente qualche solo, mentre nel ’65 e nel ’66 collaborò con Woody Herman.

Guadagnò in popolarità per la sua partecipazione all’attività della big band di Thad Jones e Mel Lewis (1966 – ’72), tanto che, nei due decenni successivi, fu impegnatissimo e richiestissimo negli studi di registrazione.

Stamm, dopo Benny Goodman (1974 – ’75) e le tournèes con la George Gruntz’s Concert Jazz Band, si è concentrato maggiormente al jazz playing piuttosto che ai lavori da session man, ed i Music Masters Releases ne sono ottimi esempi.

BYRON STRIPLING (Byron Lloyd Stripling; Atlanta, 24.04.1961)

Cresce in una famiglia di musicisti nel Kentucky e a Boulder, Colorado, suona la tromba e canta

nella chiesa di St. Paul, Minnesota, dopo il loro trasferimento in quella città. Dal 1978 al ’79 studia alla Interlochen Academy, e alla Eastman School of Music nel triennio successivo. Assunto da Lionel Hampton nel 1984, suona poi, in qualità di Lead Trumpet, con le orchestre di Woody Herman e Count Basie, quest’ultima sotto le direzioni di Eric Dixon, Thad Jones e Frank Foster (nel 1987 registra un disco con Diane Schuur). Partecipa alle riprese del film Satchmo e, verso la fine degli anni ’80, incide copiosamente con la formazione di Foster. Nel decennio successivo, lo si vede impegnato, sempre come Prima Tromba, in svariati shows di Broadway, e con l’American Jazz Orchestra, la Lincoln Center Jazz Orchestra, la Carnegie Hall Jazz Band, la GRP All Star Big Band, la David Matthews Manhattan Jazz Orchestra. Nel 1999 produce il suo primo lavoro discografico a proprio nome, e negli ultimi anni si dedica anche all’insegnamento.

All’occorrenza valido ed accattivante cantante, Stripling, inizialmente, ha subìto l’influenza stilistica di Armstrong, poi ha sviluppato un proprio linguaggio, che unisce Satchmo agli stilemi del be bop.

EUGENE “SNOOKY” YOUNG

Un grande “stilista” della tromba, l’assoluto maestro della sordina plunger, una star, insomma. La sua tromba è capace di parlare, urlare, ruggire e sospirare, sempre con una carica enorme di swing; inoltre, se si esclude l’esperienza della big band a suo nome, diretta a Daytona, sua città natale, dal 1947

al 1957, Young costruì la propria reputazione quasi esclusivamente grazie alle orchestre che lo assunsero, con le quali si legò a filo doppio.

Snooky Young si accostò alla tromba a cinque anni, ed iniziò a farsi un nome, non ancora diciannovenne (!), come Prima Tromba dell’orchestra di Jimmie Lunceford, dal 1939 al 1942; in seguito, suonò per breve tempo con Count Basie, poi con Lionel Hampton e Gerald Wilson, per poi ritornare con Basie dal ’45 al ’47 e di nuovo dal ‘57 al’62.

Dopo aver lasciato Basie, divenne musicista da studio per la NBC, un membro fondatore della big band di Thad Jones e Mel Lewis: in quegli anni, le richieste per le sue prestazioni si mantennero altissime, in tutti i tipi di sessions. Dai primi anni ’70, entrò a far parte della Tonight Show Band di Doc Severinsen, uscendone dopo una ventina d’anni (1992). A Los Angeles e dintorni, lavorò molto e spesso, apparendo regolarmente, come Lead Trumpet, in numerose formazioni locali, mentre come solista ha pubblicato soltanto tre dischi.

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RAY WETZEL (Parkersburg, West Virginia, 1924 – Sedgwick, Colorado, 17.08.1951)

Sebbene la sua vita venne stroncata troppo presto da un incidente d’auto, Ray Wetzel ebbe

modo di suonare ed incidere, come lead trumpet, con le big bands di Woody Herman (dalla fine del 1943 all’estate del ’45), Stan Kenton (fino al ’48), Vido Musso, Neal Hefti, Metronome All Stars, Charlie Barnet (1949 – ’50) e, dopo il trasferimento a Los Angeles con la famiglia, anche con Tommy Dorsey (1950) e nuovamente con Stan Kenton (’51). Con l’orchestra di Barnet diede prova anche di una raffinata capacità improvvisativa, come testimonia il suo solo in “Over the Rainbow” del ’49.

Prima della morte, partecipò ad alcuni tour ancora con l’orchestra di Tommy Dorsey.

LAMMAR WRIGHT SR. (Texarkana, Texas, 20.06.1905 o 1907 – New York, 13.04.1973)

Trascorse i primi anni della sua vita a Kansas City, città nella quale, nel 1923, ricevette un

ingaggio da Bennie Moten al Panama Club; quattro anni dopo, andò a New York per suonare con i Missourians, fino a quando Cab Calloway prese in blocco quel gruppo per fondare la sua prima formazione. Lammar Wright Sr., diventato ormai uno specialista del registro sovracuto, rimase con Calloway e lavorò regolarmente con lui come Prima Tromba fino al 1942, nel seguito del decennio la militanza si fece intermittente, a causa delle partecipazioni del trombettista ai lavori delle orchestre di Don Redman (’43), Claude Hopkins (’45 – ’46), Cootie Williams (’44), Lucky Millinder (saltuariamente dal ’46 al ’52), Sy Oliver (’47) e Louis Armstrong. Sempre in maniera occasionale, Wright diresse una band a proprio nome, e negli anni ’50 e ’60, mentre lavorava come insegnante, diventò un musicista molto richiesto in studio di registrazione, e si esibì in concerti live con Arnet t Cobb, Count Basie e Sauter – Finegan Orchestra.

Ebbe due figli, Lammar Jr. (Kansas City, 26.09.1924 – Los Angeles, 08.07.1983), e Elmon (Kansas City, 27.10.1929 – 1984), entrambi validi trombettisti con curricula molto prestigiosi, esattamente come il padre.

Meritano, infine, almeno una menzione, in conclusione del presente capitolo: • Clyde Hurley (1916 – 1963): uno dei principali solisti di Glenn Miller nel periodo pre –

militare e valida Prima Tromba con Ben Pollack e Tommy Dorsey; • Albert Killian (1916 – 1950): vita breve ma ricca di collaborazioni prestigiose, nel

periodo a cavallo tra il 1940 ed il 1950. Suonò infatt i con Teddy Hill, Don Redman, Claude Hopkins, Count Basie, Charlie Barnet, Lionel Hampton, e Billy Eckstine;

• Nate Kazebier (1912 – 1969): si fa ricordare per la militanza con Gene Krupa e Benny Goodman, col quale realizzò il famoso film The Big Broadcast of 1937;

• Paul Webster (1909 – 1966): fu Jimmie Lunceford, indirettamente, a spingerlo verso la specializzazione nel registro sovracuto e nel ruolo di Prima Tromba, nella prima metà degli anni Trenta. Successivamente collaborò con Cab Calloway, Charlie Barnet, Sy Oliver, Count Basie;

• Arnie Chycoski: fece parte, come Lead Trumpet, della breve ma entusiasmante esperienza del gruppo “Rob Mc Connell and the Boss Brass”;

• Jerry Hay: una Prima Tromba specializzata nell’incisione di colonne sonore per film, sia in big bands che in orchestre più grandi;

• Chuck Findley: si è imposto nella scena rock come capo sezione dei fiati del gruppo The Imperials;

• Randy Brecker (1945): noto per le incisioni con il gruppo Blood Sweat and Tears e con il fratello Michael (tenorsassofonista), ha partecipato, all’inizio degli anni ’90, alle attività della Mingus Big Band. E’ principalmente un improvvisatore;

• Don Fagerquist (1927 – 1974): altra valida Jazz Trumpet, offrì i suoi servigi nelle orchestre di Artie Shaw, Woody Herman, e nei piccoli gruppi di Shelly Manne, Pete Rugolo, Louie Bellson;

• Albert Snaer (1902 – 1962);

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• Howard Mc Ghee (1918 – 1987); • Langston Curl (1899 – 1991); • Ted Curson (1935); • John Nesbitt (1900 – 1935); • Natty Dominique (1894 – 1982); • Alan Elsdon (1934).

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VI

LEAD TRUMPETS IN TRICOLORE

Prime Trombe Italiane

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E in Italia? Come accolsero i musicisti di casa nostra la ventata di novità della musica jazz? E come la accolse il pubblico, in senso lato? Quante domande…

È stato appena pubblicato il libro “Il jazz in Italia”, scritto da Adriano Mazzoletti ed edito dalla EDT75; alla sua lettura si rimandano coloro che volessero approfondire questo argomento, nel quale storia, leggenda, credenze popolari e vita quotidiana si mescolano in un cocktail i cui colori sono il bianco, il nero ed il seppia delle foto sbiadite e mezzo rovinate di inizio secolo scorso. Il testo di Mazzoletti, in questo senso, è risultato molto utile, se non addirittura fondamentale, per reperire nomi, luoghi, date ed immagini, e quant’altro facesse riferimento ai musicisti che, per primi, si cimentarono con il nuovo stile, iniziando la grande avventura del jazz italiano. In virtù di questi motivi, sebbene in forma necessariamente sintetica, pare giusto dare alcuni ragguagli sulla vicenda e i protagonisti dell’ingresso della “musica sincopata” in Italia.

BREVI CENNI STORICI SUL JAZZ IN ITALIA Le prime apparizioni europee di artisti ed uomini di spettacolo, che proponevano forme d’arte

pre – jazzistiche di intrattenimento, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, non ebbero l’Italia tra i loro palcoscenici, stando alle informazioni derivanti dalle cronache dell’epoca; questa carenza di esibizioni creò, come effetto primario, un ritardo di almeno una ventina d’anni dei musicisti di casa nostra, rispetto agli altri. Contemporaneamente, iniziò la fase più cospicua del fenomeno migratorio che portò centinaia di migliaia di nostri connazionali al di là dell’oceano in cerca di lavoro: tra questa miriade di persone, arrivarono negli Stati Uniti numerosi musicisti, ed alcuni di essi vengono ricordati per il loro significativo apporto allo sviluppo del jazz, allora in fase ancora embrionale. Alcuni nomi qua e là: Johnny e Vincent Provenzano, Arnold e Bud Loyacano, Jack Laine (al secolo Giorgio Vitale), Ernest Giardina, Giuseppe Alessandra, Nick La Rocca.

Un paio di decenni più tardi, arrivò l’epoca dei cosiddetti “balli nuovi”, i cui nomi potevano essere cake walk, fox trot, one – step, two – step, ragtime, e che arrivarono dapprima nelle grandi città italiane quasi con timidezza, grazie a uomini a metà tra la realtà e la leggenda urbana (Nicola Moleti e Arturo Agazzi detto “Mirador” a Milano, Vittorio Spina e Alfredo Gangi a Roma, Edgardo Greppi e Agostino Valdambrini, padre di Oscar, a Torino). Proprio grazie alla Prima Guerra Mondiale, all’intervento americano nel conflitto e alla crescente diffusione dei mezzi di comunicazione di massa (radio e disco76), il nuovo stile giunse ed ottenne la giusta considerazione. Nel periodo immediatamente a ridosso dell’inizio della dittatura fascista, si assistette ad un periodo di sperimentazione e ricerca. È oggi riconosciuto che quei tentativi arrivarono raramente ai risultati sperati, ma è altrettanto noto, oltreché tangibile attraverso le incisioni, che la musica suonata ed ascoltata in quel periodo aveva dentro di sé una carica di eccitazione e di novità mai vista prima, il che ebbe grande presa emotiva sul pubblico e diede spunto ai musicisti di perseguire. Campioni di quel periodo “empirico” furono: il già citato “Mirador”, Milietto Nervetti, Carlo Benzi, Adolfo Egidi, Gigi Ferracioli, Luigi Mojetta, Ugo Filippini, Amedeo Escobar, Felice Barboni, mentre un’analisi attenta ed oculata del nuovo stile venne eseguita, mediante articoli su periodici torinesi, dal compositore Alfredo Casella.

La costituzione dell’U.R.I. (Unione Radiofonica Italiana), il 27 agosto del 1924, costituì una ghiotta opportunità di lavoro per i musicisti; di lì a poco, infatti, vennero formate le orchestre radiofoniche (prima piccoli gruppi, poi organici sempre più grandi), ed anche formazioni più piccole ebbero subito un discreto spazio a disposizione, all’interno dei palinsesti delle trasmissioni, sia che si trattasse di registrazioni che di esibizioni in diretta, da sale da concerto, teatri, alberghi, locali da ballo; stazioni radio vennero installate anche in città dapprima estranee al fenomeno del jazz delle origini: Genova, Sanremo, Firenze. 75 Adriano Mazzoletti, “Il jazz in Italia – Dalle origini alle grandi orchestre”, E.D.T. Torino, 2004 76 Sarebbe più corretto parlare di rulli, perché il disco venne brevettato poco tempo dopo.

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Quella musica, però, rispecchiava abbastanza fedelmente il jazz di New York, e prendeva (involontariamente, peraltro) le distanze dalla musica suonata dai grandi solisti di colore, anche per ragioni non prettamente musicali: cataloghi di edizioni riservate al pubblico nero, grosse fette di mercato in mano a pochi editori discografici bianchi, tradizioni e discendenze genealogiche italo – americane dei musicisti newyorkesi. Ad ogni buon conto, grazie all’interessamento di musicisti, musicologi e carta stampata, il jazz divenne una moda, e come tale ebbe estimatori e delatori: grande eco ebbero due interventi screditanti di Pietro Mascagni, uno del 1926 ed il secondo del 1929.

A questo punto (e siamo alla fine degli Anni Venti), comunque, finisce la fase pionieristica, ed inizia quella della “maturità”, durante la quale i musicisti diedero prova di saper suonare jazz vero. Il periodo che va dal 1930 al 1935 fu, difatti, una tappa fondamentale per il jazz italiano: i dischi dei grandi artisti neri (Armstrong, Fletcher Henderson, Cab Calloway, Ellington, ecc.) iniziarono ad arrivare, sostituendosi a quelli dei bianchi del periodo precedente, in modo tale che i musicisti della nuova generazione si formasse, artisticamente, sull’ascolto di questi e dei musicisti stranieri che venivano a suonare in Italia prima della “messa al bando” della musica afro – americana da parte dei vertici del regime fascista.

Il ritardo al quale si faceva riferimento all’inizio di questo paragrafo si può facilmente riscontrare nei dieci anni (!) di distanza che separano la formazione delle big bands americane da quella delle orchestre italiane ad organico allargato (radiofoniche e non), le quali ci interessano maggiormente da vicino.

All’inizio del 1930, si poteva ascoltare la formazione del Jazz Sinfonico di Gigi Ferracioli, la quale si esibiva nei migliori locali di Milano. Alla fine dell’anno seguente, compaiono sul catalogo della Columbia diverse incisioni di una resident band che portava lo stesso nome, diretta da Edoardo De Risi: costui va ricordato perché riunì, proprio sotto il nome di Orchestra Jazz Columbia, quella che viene segnalata come la prima grande formazione italiana, con organico e struttura marcatamente jazzistici. Altra orchestra che incise molto per la Columbia fu quella diretta da Vittorio Mascheroni: dall’originario quintetto che suonò al Palais Hotel di Merano nel settembre 1924, il pianista si trovò a dirigere una band più grande, che annoverava due trombe. Nei quattro anni dal ’28 al ‘32 si assistette al boom delle vendite di dischi e grammofoni, e contemporaneamente alla nascita di numerose orchestre, sulla scia degli “esperimenti” della Columbia: molte di esse avevano una spiccata impronta commerciale, ma non di rado, nelle facciate incise, si potevano sentire solisti che suonavano jazz. I nomi dei direttori di tali formazioni si sprecano: Ernesto Marchi, Vittorio Mascheroni, Eugenio Mignone, Stefano Ferruzzi. Queste formazioni, però, non si esibirono quasi mai in pubblico, lavorando pressoché stabilmente in studio di registrazione, così come l’orchestra Italiana Fortis, il Jazz Sinfonico Cannobbiana ed il Jazz Sinfonico Excelsior di Carlo Bracale, formatesi dopo il 1935 e che vennero frequentate da due storiche Prime Trombe italiane, delle quali si parlerà più diffusamente in seguito: Baldo Panfili e Nino Impallomeni.

Ben diversa vita ebbero, invece, oltre ai già citati complessi di Ferracioli e De Risi, anche quelli di Armando Di Piramo, Pippo Barzizza (i famosi Blue Star), il Royal Perroquet Jazz di Cinico Angelini, l’Orchestra Pieraldo e le bands di Alberto Semprini, Edgardo Greppi e Priamo Gnecco: tutti questi gruppi, prima del 1933, si esibirono ripetutamente in pubblico, riscuotendo larghi consensi di pubblico.

Il 1933 viene preso come riferimento, in quanto il 15 ottobre di quell’anno si assistette alla nascita dell’Orchestra Radiofonica dell’E.I.A.R., denominata “Orchestra CETRA”; dopo Tito Petralia e Claude Bampton77, nel giugno del 1936 arrivò, come direttore, Pippo Barzizza, e fu l’inizio di una rivoluzione che portò, nel giro di pochi mesi, alla creazione di una “macchina” da jazz perfettamente funzionante, che riuniva ottimi solisti e validi session men.

Nel periodo immediatamente a ridosso dello scoppio del secondo conflitto mondiale, l’operato altamente professionale (e professionalizzante) di Barzizza si ripercosse positivamente su tutte le altre formazioni che lavoravano negli studi radiofonici, al punto che queste si rivelarono un efficacissimo banco di prova per i musicisti di quel periodo, i quali, grazie anche all’aiuto di coloro che avevano suonato in orchestre straniere (quali ad esempio i trombettisti Emanuele Giudice e Gaetano Gimelli, ed i trombonisti Beppe e Luigi Mojetta,), impararono, con non poche difficoltà ma con ottimi risultati, le norme che regolano il duro lavoro del musicista di sezione.

A seguito dei bombardamenti su Torino dell’8 dicembre 1942, durante i quali venne completamente distrutta la sede dell’E.I.A.R., le orchestre radiofoniche (Angelini e Zeme) vennero trasferite, prima a Bologna, poi a Montecatini. La guerra ebbe conseguenze disastrose sulle orchestre

77 Furono i primi due direttori di quell’Orchestra: l’italiano dalla costituzione al 1° luglio 1935, data in cui subentrò l’inglese.

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radiofoniche, che in quel periodo lavorarono a singhiozzo ed in condizioni a volte disperate; a distanza di più di sessant’anni, poi, ci si accorge piuttosto facilmente che le distruzioni belliche hanno avuto conseguenze molto negative anche per gli studiosi ed i musicologi, dato che numerosi archivi e intere discoteche vennero letteralmente spazzati via, sotto i colpi delle bombe. Finita la guerra, l’obiettivo primario era la ricostruzione, che doveva essere il più possibile indolore per un rapido ritorno alla normalità; la forte presenza degli alleati sul territorio italiano non fece mancare dischi di jazz, e le orchestre, svincolate da qualsiasi restrizione di carattere ideologico e politico, poterono suonare la loro musica preferita, finalmente con i titoli in inglese (!)…

Le prime edizioni del Festival della Canzone Italiana di Sanremo, a partire dal 1951, videro, sul palco del Teatro Ariston, il ritorno in grande stile delle orchestre ritmico – sinfoniche, praticamente big bands affiancate da una sezione d’archi, che accompagnavano i cantanti di successo del momento; il livello musicale di quelle formazioni era piuttosto alto, poiché riuniva sia validissimi musicisti già attivi prima del conflitto, sia nuovi e promettenti talenti. L’avvento degli strumenti elettrici, però, non giovò a quelle orchestre; sebbene continuarono ad essere impiegate per i varietà televisivi, ad esse venne lasciato sempre minor spazio: in quest’ottica seguirono lo stesso cammino delle big bands americane, anche in questo caso con una decina d’anni di ritardo.

Il resto è storia conosciuta degli ultimi trent’anni: i piccoli gruppi la fanno da padrone a scapito delle grandi formazioni alle quali viene riservato poco spazio e, in ogni caso, sempre su iniziativa di pochi eroici musicisti78. Le grandi orchestre ritmico – sinfoniche (secondo una terminologia tutta italiana) trovarono ancora qualche fortuna nei varietà televisivi, come ad esempio Studio Uno, fino a quando l’avvento del playback e i sempre meno cospicui investimenti ne sancirono l’inesorabile oblio per almeno vent’anni: dalla fine degli anni Settanta e per tutto il decennio successivo, anche al Festival di Sanremo si cantava in playback, il che è tutto un dire…

Oggi – ormai da qualche anno – si assiste ad una inversione di tendenza: sempre più spesso, negli spettacoli, si vedono, alle spalle del/della cantante o showman/showgirl di turno, orchestre che suonano dal vivo, con fiati, archi e sezione ritmica. I corsi e ricorsi storici…

LEAD TRUMPETS ITALIANE Dalla consultazione della completa ed esaustiva discografia presente sul testo

di Mazzoletti, si possono trarre molte ed interessanti notizie a riguardo degli organici delle incisioni jazzistiche italiane, a partire dagli ultimi anni del XIX secolo fino al 1950 circa. Va detto, ad onor del vero, che le esibizioni dal vivo superavano di gran lunga, in numero, le sedute di incisione, se non altro agli inizi; nonostante questa endemica incompletezza delle informazioni, è lecito pensare, statisticamente ed induttivamente parlando, che i musicisti indicati sulle facciate dei dischi siano grosso modo gli stessi che poi si esibivano dal vivo nei teatri di rivista, negli alberghi, nelle sale da concerto e nelle piazze. Inoltre, si devono fare i conti anche con il pessimo stato di conservazione di alcune matrici e delle loro copertine, cosa che rende di fatto illeggibili, talvolta, i nomi dei musicisti.

Altro elemento che si potrà notare è l’ampliamento delle sezioni da tre a quattro trombe, a partire da un certo periodo in poi, individuabile negli anni immediatamente successivi al secondo conflitto mondiale: anche questo fattore tecnico – artistico è riconducibile al parallelismo delle grandi formazioni jazzistiche italiane con quelle statunitensi, sebbene con l’ormai noto ritardo cronico.

La speranza di tutti (addetti ai lavori e semplici appassionati) è quella di vedere ripubblicate le incisioni a cui si accennava prima, come è stato recentemente fatto

78 Cfr. Prefazione.

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per una cospicua parte della discografia di Gorni Kramer dalla Riviera Jazz Records79, così da poter assaporare nuovamente, dopo un periodo di oblio imperdonabilmente lungo, il raffinato gusto musicale degli musicisti italiani di quel periodo, che in molti casi nulla avevano da invidiare ai loro colleghi a stelle e strisce.

Ad ogni buon conto, il lavoro di ricerca effettuato è risultato molto stimolante; i nomi che si incontrano più frequentemente, ovviamente legati a filo doppio con i nomi delle orchestre in cui hanno militato, sono elencati di seguito, con un’avvertenza: mentre nel capitolo dedicato alle Prime Trombe americane ho rispettato diligentemente l’ordine alfabetico, nel caso di quelle italiane ho preferito seguire un ordine cronologico non proprio strettissimo, anche in virtù del fatto che le informazioni raccolte – ed il modo in cui sono state reperite – rendevano questa scelta la più sensata, se non addirittura obbligatoria.

• Ulisse Siciliani, nato a L’Aquila nel 1897, fu il primo a suonare la cornetta

e la tromba in un complesso da ballo, precorrendo e segnando la strada a tutti i suoi colleghi coevi;

• Aldo Capperucci e Goffredo Titti, entrambi nati a Roma: si contesero a lungo, verso la fine degli Anni Venti, la palma di miglior trombettista della capitale, avvicinandosi più di tutti allo stile nero;

• Giovanni Miglio, genovese come Tombelli e Pernigotti; insieme a Luigi Urbani e Giuseppe Alù prima, Giuseppe Sordini e Carini poi, costituì la sezione delle trombe dei Blue Star di Pippo Barzizza;

• Alfredo Marzaroli, molto vicino allo stile di Bix Beiderbecke, con un suono limpido, potente e deciso, come forse nessun altro in Europa a quel tempo (e siamo alla fine degli anni Venti; lavorò con orchestre di prestigio, come quelle di Carlo Benzi e Piero Rizza;

• Caveziel e “Rajah” Marconi, una affiatata coppia di trombe che si esibì ed incise con molte orchestre di grido già a partire dalla seconda metà degli Anni Venti (Mediolana Band, Domenico Lombardo, Eugenio Mignone, Orchestra Italiana da Ballo;

• Pernigotti, figura quasi leggendaria, fu uno dei pionieri, tant’è che suonava la cornetta: legò il suo nome alle formazioni di DiPiramo;

• Oscar Maresca, che fece parte della Ambassador’s Syncopated Orchestra, delle varie formazioni di Stefano Ferruzzi, del Jazz Sinfonico di Mascheroni

• Angelo Gori, il quale spesso lavorava in coppia con Maresca, e che incise dodici matrici nel 1932 con Alfredo Spezialetti per la Columbia ed altre sette matrici per la Pathè nel 1933 con il Jazz Sinfonico Excelsior di Carlo Bracale;

• Lo stesso Bracale, che condusse la sua orchestra non prima di aver maturato una lunga esperienza con le formazioni di Edoardo De Risi e di Piero Rizza;

79 La collana è denominata “Jazz in Italy in the 30’s and 40’s”, ed i primi tre CD contengono molti dei brani incisi nelle sedute milanesi dalle formazioni del fisarmonicista mantovano.

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• Giuseppe Alù, a suo agio più spesso con parti diverse dalla Lead, ma che suonò in tale ruolo con le Orchestre di Barzizza, Ferracioli, Mariotti e Semprini: suonò spesso in coppia con Loreto Ficorilli;

• Mattea e Ferri, trombettisti dei quali non si conoscono i nomi ma di cui si sa che fecero parte di una delle prime orchestre riunite da Cinico Angelini, sul finire degli anni Venti: altre matrici sono presenti a nome “Jazz Orchestra Columbia diretta dal M° Angelini” nel 1932;

• Pippo Renna, altro pioniere, pugliese di nascita, che prese parte alle sedute di incisione delle bands di Del Mestre, Harry Flemming e di Mario Consiglio ed accompagnò le esibizioni di famosi cantanti americani alla fine degli anni Venti, come Lydia Johnson e i Riviera Five;

• Italo Scotti, valida lead trumpet romana che però voleva sempre suonare la parte della Terza Tromba, poiché era anche un validissimo improvvisatore, migliore di molti suoi colleghi: lo si può ascoltare nelle incisioni a nome di Costantino Ferri e Vittorio Spina;

• Mario Morricone, padre del più famoso Ennio, il notissimo compositore di musiche da film che tutti conosciamo; spesso, diede il cambio allo stesso Scotti, quando quest’ultimo prendeva un solo, alla guida della sezione delle orchestre citate in precedenza;

• Umberto Semproni, il quale si diede al jazz dopo aver militato come prima tromba nell’orchestra dell’Augusteo, e fu il primo a Roma a suonare col sistema no pressure di provenienza statunitense. Non improvvisò quasi mai, dedicandosi esclusivamente, o quasi, alla parte di Prima Tromba;

• “Maurice” Baldisseri, tornato a Roma verso il 1935 dall’Inghilterra con un notevole bagaglio di esperienza (da solista e in sezione) nelle orchestre d’oltremanica;

• Emanuele Giudice, una delle migliori lead trumpet del periodo pre – bellico, che insegnò i trucchi del mestiere a due grandi come Oscar Valdambrini e Sergio Fanni. Iniziò la propria carriera nei primi Anni Venti, e con Armando Della Casa si diede spesso il cambio alla guida della sezione delle trombe delle orchestre radiofoniche dirette da Petralia, Bampton, Montagnini. Suonò anche in formazioni più piccole, come il Sestetto Orchestrale Cetra;

• Gaetano Gimelli: si auto – celebrava come “l’unico americano”80: nato nel 1905 a Portofino, suonò con diverse formazioni (Flemming, Douglas, Link, Spezialetti, Orchestra CETRA di Barzizza, formazioni più piccole), trovandosi a proprio agio in tutte le parti e suonando magnificamente quella della Prima, come si può facilmente notare dagli organici delle matrici;

• Michele Garabello e Claudio Pasquali: completavano la collaudatissima sezione delle trombe preferita da Pippo Barzizza, con Giudice e Gimelli;

• Giovanni D’Ovidio, Raffaele Lo Staglio e Battista Nizza: un’altra sezione molto affiatata, spesso ampliata a quattro elementi con l’inserimento di Antonio Alessio, che prese parte a numerosissime incisioni dell’orchestra diretta da

80 Secondo quanto dice Giancarlo Gazzani, che ebbe modo di conoscerlo.

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Cinico Angelini. Dopo la guerra, Nizza si diede il cambio con Sergio Fanni, mentre Lo Staglio venne spesso rimpiazzato da Sante Jottini;

• Lo stesso Sergio Fanni, punto di riferimento delle orchestre ritmico – sinfoniche della R.A.I. per anni: preferiva suonare la parte di terza tromba, che gli consentiva di fare i soli, ma anche come lead sapeva il fatto suo. Partecipò, nel 1979, ad un concerto storico con Chet Baker al Festival Jazz di Ivrea;

• Nino Culasso: ottima Prima Tromba, lavorò saltuariamente nel periodo bellico, in quanto stava svolgendo il servizio militare; nel ‘44 entrò a far parte, in pianta stabile, dell’orchestra di Carlo Zeme – che iniziò a suonare per le radio a partire dal 1939 – suonando fianco a fianco ad Oscar Valdambrini ed imponendosi, in breve tempo, come valida alternativa all’altro capo – sezione storico, Baldo Panfili;

• Nino Impallomeni, classe 1917, che, come Fanni, si fece valere come eccellente solista, diligente section trumpeter e, all’occorrenza, splendida lead, in tutte le orchestre che lo ebbero in organico: Dino Olivieri, Ambassador’s, Orchestra Italiana Fortis, Orchestra Cetra diretta da Carlo Zeme, un’orchestra radiofonica di Berlino. Nel ’68 entrò a far parte dell’Orchestra Radiosa di Mario Robbiani, per poi ritirarsi nel Canton Ticino, ove visse gli ultimi anni della sua vita;

• Baldo Panfili, milanese di nascita come Impallomeni, si trasferì in Germania nel 1924; qui studiò la batteria e la tromba, per tornare nove anni dopo in Italia. Forse la migliore Prima Tromba italiana del periodo a cavallo della Seconda Guerra Mondiale, come dimostrano le sue numerose e prestigiose collaborazioni: Carlo Zeme, Dino Olivieri, Orchestra Columbia da Ballo, Orchestra Italiana Fortis, Orchestra Pieraldo.

Culasso, Impallomeni e Panfili sono senza dubbio le migliori lead trumpets del periodo pre – bellico, e anche in seguito (almeno fino alla metà degli anni Settanta) furono dei punti di riferimento nel panorama musicale italiano, per sonorità, gusto musicale, capacità di lettura, versatilità e modo di concepire la parte di Prima Tromba.

• Anche Oscar Valdambrini, in alcune occasioni e non poco volentieri, vestì i panni della lead: rimangono, in questo ambito, cinque matrici (tra il ’42 ed il ’43) per la Cetra, con Angelo Gori seconda ed Elettro Bartolucci terza tromba, ed altre quattordici matrici, sempre con etichetta Cetra, tra il febbraio ’44 ed il novembre ’45, con Nino Culasso seconda, Elettro Bartolucci terza e Ferri quarta tromba;

• Cicci Santucci si presentò al grande pubblico con un’incisione della “Modern Jazz Gang” del 1959, ed in breve tempo si guadagnò una buona notorietà, soprattutto negli ambienti che gravitavano attorno ai varietà televisivi della metà degli anni ’60;

• Un altro elemento molto versatile era Fermo Lini, a suo agio in tutte le parti della sezione. Lavorò moltissimo a Milano a partire dai primi anni ’50, incidendo, tra gli altri, con Angelo Brigada (pianista, arrangiatore e direttore), Gianfranco Intra (pianista e compositore, padre di Enrico), Dino Olivieri (nel ‘48

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riunì una grande orchestra per una lunga tournèe in Italia: la lead di riferimento era Impallomeni);

• Nini Rosso, soprannominato “Tricheco” per via dei suoi lunghi baffi, militò per tanti anni nelle orchestre radio – televisive, delle quali fu un’eccellente Lead Trumpet, ma ottenne un più ampio consenso grazie ad alcune sue incisioni di carattere commerciale;

• Al Corvini, argentino trapiantato a Roma, caposezione molto valido e richiesto in tutte le situazioni (studio, televisione e live). I suoi due figli (trombettista e trombonista) sono degni della fama del padre;

• A partire dalla fine degli anni ’60 circa, si impose all’attenzione di tutti Emilio Soana, il quale tuttora ci offre performances di altissimo livello, sia in sezione che da solista. Per me è un punto d’onore poter dire che, nella Bansigu Big Band di Genova, siedo al posto che fu suo, qualche anno indietro: non si hanno tutti i torti, infatti, se si afferma che Soana è la migliore lead trumpet italiana degli ultimi trent’anni, oltre ad essere un improvvisatore di grande levatura ed un attento didatta (ha infatti scritto un metodo edito da Ricordi).

Non era una vera e propria lead, ma merita una menzione particolare Giulio

Libano, trombettista, vibrafonista ed arrangiatore di qualità superiore. Oltre alle sue grandi doti di competenza, conoscenza e gusto musicale (aveva studiato composizione al Conservatorio di Milano), che gli consentivano di suonare tromba, vibrafono, ma anche pianoforte e celesta in modo eccezionale, egli si fa ricordare per i suoi splendidi arrangiamenti81: nelle tournèes che Chet Baker fece in Italia nella prima metà degli anni ’50, Libano ed Ezio Leoni (pianista, altrimenti noto come Len Mercer) furono i suoi arrangiatori preferiti82.

NOTA CONCLUSIVA Come si può notare, tra le Prime Trombe italiane non si è quasi mai vista

l’esasperata corsa alla specializzazione nel ruolo: a tutti piaceva (e piace…) improvvisare ed essere al centro dell’attenzione, e la capacità di “fare le note acute” è stata vista quasi sempre (almeno in certi ambienti…) come un mero plusvalore e nulla più, e non come un capitale da – e sul quale – investire, come dovrebbe essere. Ma le note acute non bastano, se prese come una cosa sé, come abbondantemente esposto nel cap. IV.

Inoltre, “il solo è il premio per tutto quel che di buono è stato fatto prima”… Gazzani docet. 81 Impressioni confermate da Cesare Marchini, che lo conobbe e lavorò con lui a Milano negli anni ’50. 82 Un aneddoto ci fa sapere che, alla Bussola, a Forte dei Marmi, locale notturno molto famoso all’epoca, suonavano contemporaneamente tre orchestre, nelle diverse sale; Marchini, non appena finiva il turno con la sua, scappava al piano superiore, per sentire Chet Baker con il suo gruppo. I brani arrangiati (pochi) filavano via lisci, mentre in quelli da jam (la maggior parte) i musicisti che accompagnavano Baker erano sempre sulla corda, in quanto il trombettista, che magari cinque minuti prima era nei bagni a “farsi nelle vene”, attaccava, ad esempio, il tema di Laura in Mi maggiore invece che in Fa……

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Chi ha ragione? Forse tutti, in misura proporzionale. Con questo voglio dire che tutti coloro che sono stati menzionati in questo

capitolo riuscirono a comprendere meglio di altri l’importanza del ruolo, riuscendo a calarvisi in modo impeccabile e con risultati sempre più che soddisfacenti; le loro doti personali di intercambiabilità, versatilità, disciplina, ma soprattutto di professionalità non fecero altro che aggiungersi a quelle, più spiccatamente artistiche, di gusto e musicalità, che tutti costoro seppero dimostrare in anni e anni di onorata e prestigiosa carriera musicale.

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VII

DAI FRATELLI A CARLA PASSANDO PER L’ALTALENA

Biografia musicale semiseria dell’Autore

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La mattina di Capodanno del 1986, alle ore 10 (mamma, che levataccia!!), la sede del Corpo Bandistico “G. Verdi” di Albenga era abbastanza affollata di persone in abito color carta zucchero che si apprestavano a dare un saluto musicale all’anno appena iniziato, con una sfilata per le vie della città.

Dopo qualche anno, questa barbara usanza venne abbandonata, causa la scarsa partecipazione di musicisti e di pubblico, ma ad ogni buon conto quello fu il mio primo servizio con la Banda.

All’epoca non ne ero conscio al cento per cento, ma avere iniziato a studiare musica in un ambiente di quel tipo significava fare una scelta ben precisa, dettata anche da fattori di tipo genetico: io ero infatti il terzo componente della mia famiglia, dopo mio padre e mio fratello, a far parte della banda; questa scelta prevedeva, molto semplicemente, abbracciare un tipo di repertorio forse “chiassoso” ma non per questo meno nobile ed appagante: trascrizioni di sinfonie e pezzi d’insieme tratti da opere liriche, musiche originali per assieme di fiati, repertorio canzonettistico popolare di tutti i tempi, e via di questo passo.

Se a questa forma mentis aggiungiamo che mio fratello, il mio primo insegnante, avendo dieci anni più di me, suonava già in una orchestra che, pur senza grosse pretese, faceva da colonna sonora negli spettacoli di canto e di ballo che si tenevano nei dintorni di Albenga (la città in provincia di Savona dove siamo entrambi nati, da genitori siciliani), pareva dunque inevitabile che, mentre i miei compagni delle scuole medie passavano i loro pomeriggi guardando “Deejay Television” ed impazzendo per gli pseudo – divi del momento, i quali oggi fanno felici soltanto gli spettatori di trasmissioni televisive come “Meteore” (qualche nome: Sandy Marton, Tracy Spencer, Nick Kamen……) – io, a tredici anni, suscitavo le loro ilarità, e mi beavo con i vinili di Count Basie, Glenn Miller, dei Manhattan Transfers, di Dizzy Gillespie e del pianoless quartet di Mulligan con Chet Baker.......e pensare che, fino ad allora, il mio repertorio d’ascolto comprendeva Verdi, Puccini, Rossini, a causa dei nobili gusti musicali di mio padre.

Nonostante tutto ciò, sono cresciuto fisicamente e psicologicamente sano. Anzi, con l’andare del tempo e delle delusioni amorose, il mio ego musicale metabolizzava i diversi stilemi e le diverse estetiche di ciò che ascoltavo – d’altronde, è cosa risaputa che si suona quel che si ascolta – ed il mio carattere estroverso con qualche punta di esibizionismo, che rifiutava e rifiuta tuttora ogni tipo di isolamento sociale, fece il resto: ascoltando una big band – quindi un collettivo di strumentisti a fiato e non – finivo inesorabilmente in brodo di giuggiole quando sentivo che, dalla poderosa massa swingante dei sassofoni e dei tromboni, si ergeva, a mo’ di faro nella notte, la voce squillante ed argentina della Prima Tromba, che ora evidenziava una kick83 della batteria e ora lanciava, assieme alle altre due o tre o addirittura quattro (Bill Holman, l’arrangiatore storico di Stan Kenton, scriveva per cinque trombe), un ruggente assolo di sax tenore.

83 Una kick è una figurazione ritmica, isolata o ripetuta, molto breve che funziona per variare timbricamente, ad esempio, uno special di sassofoni, o un background di un solo, e spessissimo viene eseguita dalle trombe, dai tromboni e dalla batteria.

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La mia prima esperienza in una big band fu quella in seno alla “All Brothers

B.B.”: un gruppo di jazzofili albenganesi che si riunivano il lunedi sera e, senza grosse velleità ma con impegno e devozione da vendere, si divertivano a suonare arrangiamenti originali e stamponi da proporre durante l’estate in giro per la Riviera Ligure di Ponente; essendo mio fratello a suonare la Prima, io mi cimentavo con la parte di Seconda Tromba. La classica e ben nota gavetta………

Un paio di stagioni e una decina di concerti all’attivo: non male per un neofita come il sottoscritto, che all’epoca aveva poco meno di diciott’anni.

Col finire dell’estate 1994, però, la big band si sciolse, e nel periodo universitario (1994 – 1997) sbarcai il lunario in un complessino da ballo semi – amatoriale, degno soltanto di suonare alle sagre ed alle feste di paese, data l’evidente scarsezza di mezzi musicali del batterista e del bassista.

L’unico insegnamento che questa quadriennale esperienza mi fornì fu la consapevolezza che mai avrei raggiunto un livello artistico così basso: presentavo i pezzi, intrattenevo il pubblico, compilavo il bourdereaux (il famigerato foglio della S.I.A.E. che i musicisti conoscono bene…), facevo il pagliaccio sul palco e, forse e non troppo spesso, suonavo il mio strumento.

Eppure, non ho il coraggio di rinnegare quel periodo………per un motivo molto semplice.

Suonando in quel genere di situazione che tutto era tranne che artisticamente elevata e gratificante, mi appassionai ad un locale da ballo, situato ad una manciata di chilometri da Albenga, dove si esibivano le migliori orchestre da ballo provenienti dal Piemonte e dalla Lombardia: in una di queste, ebbi la fortuna di conoscere Sergio Bongiovanni e Michele Lazzarini, rispettivamente trombettista e sassofonista.

Prima di allora, non avevo mai sentito nulla di simile: una sezione energica e muscolosa, nei suoi interventi, con un sound carico di armonici, quintali di groove e un modo di fraseggiare assolutamente unico: i due classici fiori nati dal letame, per citare Fabrizio De Andrè.

Involontariamente, il buon Sergio fu la mia Musa ispiratrice: un trombettista completo, versatile, un suono enorme, bello stile improvvisativo, e per finire una perniciosa attrazione per le note acute. Un vero e proprio maestro, senza che abbia mai fatto una lezione a casa sua.

Grazie a Michele, poi, ebbi l’opportunità di conoscere e collaborare con Piero Vallero ed il suo “Progetto Labirinto”. Una energica dance band che riproponeva, e lo fa tuttora, successi internazionali appartenenti al filone della disco music anni ’70 e ‘80, rhythm and blues, una bellissima esperienza di accrescimento del mio bagaglio artistico; anche in virtù di questo impegno, per fortuna, il purgatorio lisciarolo finì, e il giorno dell’Epifania del 1998 ebbi un’altra grande occasione: conoscere e conversare con un musicista del calibro di Riccardo Zegna, torinese trapiantato a Loano (dieci chilometri da casa mia, verso Genova), il quale mi informò del suo progetto “Unit Line Jazz Orchestra”, assieme al coro delle allieve di Danila Satragno. Chiesi se potevo parteciparvi e lui rispose che la porta era aperta………

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Inverno e primavera di studio, poi l’estate: in tutto cinque esibizioni pubbliche, delle quali memorabile rimane quello di Varese Ligure: nel primo tempo di quel concerto, il buon Zegna si sciroppò TUTTA la “Rhapsody in Blue”, riletta alla sua maniera, poi band e coro proposero Gershwin ed Ellington.

Con il grande Zegna, poi, ci divertivamo a suonare brani originali, come la “Ornette Coleman’ Suite”, “Calypso” e “Belo Horizonte”: di questa composizione rimane una registrazione dal vivo (Vispa di Carcare (SV), 21 giugno 1998), con un intervento del sottoscritto con il flicorno soprano; dovetti fare il solo perché ero costretto, in quanto il buon Casati era bloccato in treno a Roma, o chissà dove, ma la tensione mi aiutò, tanto che, a distanza di anni, faccio fatica a credere di essere davvero io. Prime glorie improvvisative.

La grande fortuna di far parte di quella band, per me, fu quella di conoscere proprio Giampaolo Casati, trombettista genovese molto famoso a livello italiano ma non solo, un uomo di poche parole ma riconoscente delle qualità dei musicisti che gli suonavano intorno.

Sulle prime c’era un po’ di tangibile astio, forse perché il galletto giovane ed inesperto che aveva la mania delle arrampicate sui tagli addizionali (cioè io) infastidiva il grande improvvisatore smaliziato (lui)……tant’è che, una mattina di ottobre del 1998 ricevo una telefonata.

Dall’altro capo della linea mi parlava Attilio Profumo, il sassofonista che avevo conosciuto in estate proprio durante i concerti con Zegna e che suonava la parte di Lead Alto84 nella Bansigu Big Band, l’Orchestra Jazz di Genova. Fino ad allora, di questa big band, io ne avevo sempre e soltanto sentito parlare, molto bene peraltro: oltre ai già citati Casati e Profumo, vi suonavano musicisti del calibro di Cesare Marchini, Alfred Kramer, Paolo Silvestri, Aldo Zunino, Piero Leveratto, tutti nomi affermati del jazz sotto la Lanterna.

Il buon Attilio, dopo i convenevoli di rito, mi disse: “La Bansigu prova tutti i lunedi. Se vuoi essere dei nostri……”. Risposi ovviamente di si, e in cuor mio pensai due cose: che il lunedi è il giorno preferito dalle big bands per le prove, e che Casati aveva parlato bene di me.

La prima prova fu emozionante. Non conoscevo quasi nessuno, eppure mi

trovai subito a mio agio: le individualità sopracitate si mescolavano a meraviglia con le voci degli altri musicisti, magari meno conosciuti ma non per questo meno validi ed utili alla causa comune del gruppo, dote fondamentale di un musicista che suoni in una big band.

Purtroppo, però, lo Stato si ricordò della mia domanda di rinuncia al rinvio del servizio militare per motivi di studio (il 19 giugno 1998 avevo superato l’esame di Armonia Complementare, e il 14 luglio avevo discusso la tesi in Ingegneria: gli ultimi due appuntamenti importanti della mia permanenza torinese……), e l’antipasto della mia esperienza in Bansigu si interruppe il 23 marzo del 1999, data dell’incorporazione al 72° Reggimento “Puglie” di Albenga. Dopo un mese di addestramento, il

84 Il “Lead Alto” è la parte del Primo Sax Contralto, quella più acuta della sezione dei saxofoni.

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giuramento e la notizia bomba: sarei stato aggregato alla Banda dell’Artiglieria Contraerei di Padova. Accolsi la notizia con tutta la rabbia di cui ero capace, visto che avevo la quasi matematica certezza di rimanere a casa, ma un paio d’ore dopo l’arrivo nella caserma patavina ero già conscio del fatto che sarei stato bene. Ed infatti, quell’esperienza in uniforme e strumento in mano otto ore al giorno fu talmente positiva che riuscii a diplomarmi al Conservatorio, grazie anche alle indicazioni del Maresciallo Capo Musica Ermanno Pantini, eccellente trombettista e persona squisita dal punto di vista umano. Praticamente, passai nove mesi di campeggio, altro che depressione in anfibi e verde oliva.

Leitmotiv del periodo: Stardust, che suonai in concerto quasi fino alla nausea, se un brano come quello può dar nausea…

Mi congedai martedi 18 gennaio 2000, non senza dispiacere per le soddisfazioni avute (come ad esempio un colloquio privato, avuto qualche giorno prima, col Comandante dell’Artiglieria, Generale Giuseppe Morea, che si complimentò con me per i miei successi artistici e mi fece dono di un crest con lo stemma dell’Arma); puntualmente, lunedi 24, sei giorni dopo, ero di nuovo nella sala prove della Bansigu: il 26 febbraio c’era da fare un concerto in un auditorium di Voltri85 . Da allora il filo non si è più spezzato: sebbene Genova non sembra tenere in buona considerazione la SUA big band, le occasioni di esibirsi non sono mancate, e anche fuori dalle mura domestiche abbiamo sempre fatto la nostra bella figura. Ad onor del vero, il 2002 non è stato un granché, a livello di concerti: se si eccettuano due “marchettoni” (come si dice in gergo) in un jazz club-ristorante di Sturla86, ci siamo presi un anno sabbatico, ma le mie soddisfazioni me le sarei prese ugualmente.

Durante una prova, Casati mi dice: “Belìn87, Sandoval88…… devo andare a suonare in Veneto con la Big Band di Marcello e Pietro Tonolo, il 28 e il 30 marzo. Gli ospiti sono Carla Bley e Steve Swallow. Ho visto le parti, e mi sembrano fatte apposta per te. Se vuoi venire, potrebbe essere una bella esperienza……”. Manco farselo dire due volte: chiedo un permesso a scuola e parto, forse in maniera un po’ incosciente, ma con la consapevolezza che mi sarei divertito, avrei suonato dell’ottima musica, sarei stato diretto da uno dei personaggi più eclettici del jazz americano degli ultimi 30 anni, ma soprattutto che avrei suonato le stesse parti di un ometto non tanto alto, un po’ stempiato, che si chiama Lew Soloff……

Non dovetti invece chiedere alcun permesso artistico al Preside (chiedo scusa: Dirigente Scolastico……) della scuola dove insegnavo per poter andare a seguire i corsi di SienaJazz 2003: dal 24 luglio al 7 agosto le scuole sono chiuse……Esperienza stimolante all’inverosimile, non fosse altro che per quindici giorni si ha la possibilità di lavorare a stretto contatto con i migliori jazzisti italiani: tanto per fare qualche esempio, i miei due insegnanti di Strumento sono stati Paolo 85 Quartiere ponentino, l’ultimo del territorio del Comune di Genova. 86 Quartiere levantino genovese. 5 Intercalare tipico ligure, letteralmente “organo genitale maschile”. 6 Soprannome affibbiatomi da Riccardo Zegna per la mia smania di suonare nel registro sovracuto.

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Fresu e Marco Tamburini, ho fatto Musica d’Insieme con Claudio Fasoli, ho seguito le lezioni di Teoria e di Analisi di Stefano Zenni, ho avuto il piacere di prendere parte ad un concerto durante il quale è stato eseguito un brano scritto il giorno prima da Giancarlo Schiaffini (soltanto l’organico era già tutto un programma: flicorno soprano, sax baritono, quattro tromboni, arpa, voce – complimenti, Simona! - ……), e poi si chiacchierava allegramente, magari davanti ad un bicchiere di buon vino, con Paolo Birro, Pietro Tonolo, Furio Di Castri, Ettore Fioravanti (che diceva di amarmi…….), Massimo Manzi, Franco D’Andrea……per l’elenco completo vedere i manifesti dell’edizione 2003.

A questo seppur lacunoso appello manca il nome di Giancarlo Gazzani, col quale abbiamo condiviso le gioie di un gran bel concerto in Piazza del Duomo, il giorno 7 agosto: il cartellone annunciava che prima si sarebbe esibita l’Orchesra Laboratorio diretta da Mario Raja, quindi la SienaJazz Big Band diretta dal sopracitato Gazzani.

Un set breve ma intenso, un’oretta scarsa durante la quale è stato omaggiato Bill Evans con due arrangiamenti del genovese Dani Lamberti sui temi di “Waltz for Debby” (con un mio solo di flicorno soprano) e “Funkallero”, dopo un’apertura al fulmicotone con “Fascinating Rhythm” rivisitato dal buon Sammy Nestico alla sua maniera; a seguire, in ordine sparso, "On Green Dolphin Street”, “Seven Steps to Heaven” e due sconfinamenti nel free con “St. James Infirmary” e “Come Sunday” nelle versioni targate Instabile Orchestra, per poi concludere con un tiratissimo “Cherokee”.

E tutto questo soltanto qualche mese prima dell’uscita del disco che la Bansigu ha inciso con……udite udite…….Lee Konitz!

Eh, sì: abbiamo registrato il disco nel febbraio del 2003, e lo abbiamo presentato, con il nostro illustre ospite, il 20 marzo del 2004, in un entusiasmante concerto alla Sala Maestrale (presso i Magazzini del Cotone, nell’Area del Porto Antico di Genova). Alla faccia di quelli a cui non piace il disco e di quelli che pensano che siamo dilettanti che hanno coronato il sogno di suonare con il Grande Vecchio…

Quante cose, in poco meno di quattro anni di servizio come Prima Tromba…

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RIFERIMENTI DISCOGRAFICI

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Premessa: stilare una discografia completa delle numerosissime big bands dagli anni Venti ad oggi è un’impresa titanica; anche dopo mesi e mesi di duro lavoro di ricerche di archivio sonoro e di biblioteca non si avrebbe ancora il quadro completo, perché bisognerebbe, ad esempio, visionare anche decine e decine di films girati prima e dopo la Seconda Guerra Mondiale, per non parlare dei concerti ripresi dal vivo. Ciononostante, però, anche in un lavoro monografico come questo, è necessario se non doveroso dare qualche riferimento, se non altro per permettere ad un ipotetico neofita del genere di sapere cosa comprare.

Per quanto riguarda le origini e la swing era, sugli scaffali di un qualsiasi negozio di dischi

mediamente fornito si possono trovare raccolte (più o meno autorizzate, più o meno interessanti) delle hit di successo delle formazioni di Fletcher Henderson (interessante quella della collana “Perfect Past”, con la copertina in bassorilievo argentato), Andy Kirk and His Twelve Clouds of Joy, Cab Calloway (molto bella la raccolta “Hi – De – Ho Man” della Columbia), Don Redman, McKinney’s Cotton Pickers, Benny Carter, Teddy Hill, Bennie Moten, Duke Ellington, Earl Hines, Teddy Wilson, Jimmie Lunceford: di tutti questi e di molti altri, si possono trovare raccolte cronologiche divise su più CD, edite dalla francese Classic Records; un’altra raccolta molto “saporita” è quella della Naxos dedicata a Paul Whiteman: in essa si trovano anche i primi brani incisi, sul finire dei “roaring Twenties”, da Bing Crosby, Hoagy Carmichael e Bix Beiderbecke assieme all’orchestra del famoso bandleader bianco, portabandiera del symphonic jazz.

Anche Glenn Miller, Duke Ellington, Artie Shaw, Benny Goodman (chissà perché…) hanno una cospicua presenza nei cataloghi di tutto il mondo; onde evitare di riempire i propri mobili con dischi pieni di doppioni, si invitano il lettore curioso e l’amante delle rarità a cercare titoli diversi dai soliti: imperdibili, in tal senso:

• il CD con le colonne sonore dei films “Orchestra Wives” e “Sun Valley Serenade”, nei quali la protagonista assoluta era la big band di Glenn Miller;

• il doppio con la registrazione del celeberrimo concerto che la big band di Goodman tenne alla Carnegie Hall nel ’38 (Columbia Records);

• un “Greatest Hits” di Artie Shaw contenente il famoso “Clarinet Concerto” e “Frenesi”;

• Blues in Orbit, la registrazione del concerto parigino del 29 ottobre 195889, “Togo Brava Suite”, i Concerti Sacri, “Black Brown and Beige”, “Black And Tan Fantasy”, “The Tattooed Bride”, senza dimenticare le raccolte dell’epoca del Cotton Club e del jungle style, per quanto riguarda Duke Ellington; ma qui si entra nella Storia del Jazz…

Lo stesso trattamento è riservato alle raccolte dedicate alle big band di Woody Herman,

Dizzy Gillespie, Charlie Barnet, Lionel Hampton, Erskine Hawkins, Illinois Jacquet: di recente, la Emarcy sta ripubblicando, in collana economica, numerose incisioni di alcune di quelle orchestre. Occhio alle offerte, quindi…

Tra le innumerevoli produzioni di Count Basie, si vogliono qui suggerire “Basie Straight Ahead”, “Kansas City Suite”, “Montreux ‘77”, “Standing Ovation”, “Basie Big Band”, “Have A Nice Day” e “Broadway Basie Way”, “On The Road” ed un live a Parigi del 17 aprile 197290.

89 Questo doppio disco fa parte della collana “Paris Jazz Concert”, pubblicata dalla Casa Discografica tedesca Europe 1 nel 2002: i titoli pubblicati, tutti molto belli, mostrano l’interesse sempre vivo, nelle diverse epoche, dei francesi per le star internazionali dei jazz. 90 V. nota precedente.

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Al contrario suo, Gil Evans non incise molto, come già detto nel cap. III: ciononostante, i già citati, in quella sede, “Out Of The Cool”, il live in Germania del 1978 e “Miles Ahead”, nonché “New Bottle Old Wine” e “Happy Frame of Mind”, sono molto interessanti, specialmente quando si vogliano approfondire le tematiche dei colori orchestrali, un campo nel quale Gil Evans fu maestro quasi insuperato.

L’introduzione del Long Playing, in un certo senso, ci facilita, nella ricerca discografica, in quanto un titolo solo ne racchiude tanti. Da comprare subito: “The Birth Of a Band”, “The Quintessence”, “Big Band Bossa Nova” e “Strike Up The Band”, tutti registrati a nome di Quincy Jones tra la fine degli anni ’50 e l’inizio dei ‘60; “Artistry in Rhythm”, “Contemporary Concepts” e “Standards”, incisi dall’orchestra di Stan Kenton, così come lo “stagionale” ma non per questo meno interessante “Merry Christmas”; “The Raven Speaks”, “Heard at Montreux” e “My Kind of Broadway”, oltre ai classici “greatest hits”, per Woody Herman

Da consigliare caldamente anche “Swinging Kicks”, un disco “strano”, registrato nel dicembre del 1956 da Buddy Bregman per la Verve. Questo personaggio, molto presente sulla scena musicale dell’immediato dopoguerra, scrisse molto per gli spettacoli televisivi della N.B.C. e per film musicali dell’epoca: il disco menzionato nasce come “riduzione” per big band classica – tra i componenti della quale spiccano Maynard Ferguson, Conrad Gozzo, Frank Rosolino, Bud Shank, Jimmy Giuffrè – di alcuni suoi lavori realizzati originariamente per grande orchestra, e la stranezza sta proprio in questo, oltre che nelle sonorità, che si collocano a metà strada tra il Secondo Gregge di Woody Herman e il primo Kenton. Ascoltare per credere.

Invece, i dischi del periodo post – swing da includere in una discoteca ben fornita e degna di tale nome sono i seguenti:

• “Rich in London” e “The Roar of ‘74”, di Buddy Rich; • “Conquistador”, “The Blues Roar”, “Live at Jimmy’s”, dell’orchestra di Maynard “The

Boss” Ferguson; • i diversi volumi dei brani registrati in occasione delle numerose edizioni televisive del

“Tonight Show”, con la big band diretta da Doc Severinsen; • “The Great Concert of Charles Mingus”, “Mingus Big Band 1993”, “Honeybuns”,

“Mingus Dynasty”, a nome del grande contrabbassista: le esibizioni della big band che egli stesso fondò, verso la metà degli anni ’70, continuano ancora oggi;

• “Presenting”, “Consummation”, “Live at Village Vanguard”, “New Life”, “Suite for Pops” ed il cofanetto di cinque CD messo in vendita dalla Mosaic, pieno di rarità inedite, rappresentano sostanzialmente l’opera omnia dell’orchestra riunita da Thad Jones e Mel Lewis: chi non avesse problemi a spendere un po’ di più può pensare a comprarli tutti, e ne varrebbe la pena;

• “The Very Big Carla Bley Band” e “Big Band Goes To The Church” sono le due produzioni discografiche più significative della bandleader dalla chioma inconfondibile;

• “All In Good Time” e “The Boss Brass Live In Digital” rappresentano le “cime” artistiche più elevate del gruppo “Boss Brass”, riunito e diretto da Rob Mc Connell, gruppo del quale la lead trumpet è stata quasi sempre Arnie Chycosky.

Per concludere, un avviso. Da un po’ di tempo a questa parte, si assiste ad un prepotente ritorno di immagine del

fenomeno dei crooners, cantanti che si esibiscono e/o registrano dischi avendo alle spalle una grande orchestra (big band classica e archi): Robbie Williams, col suo “Swing When You’re Winning”, pubblicato un paio di anni fa, ha espresso in musica il suo personale tributo a Frank Sinatra, e, recentemente, anche Michael Bublè ha voluto dire la sua.

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Non voglio in questa sede esprimere giudizi su queste due operazioni discografiche: non sarebbe appropriato nei confronti dello spirito del lavoro svolto e dei suoi obiettivi.

La speranza, mia e di tutti gli appassionati (credo…), è che questi dischi servano da punto di partenza di un cammino che porti alla riscoperta del crooner style, per un pubblico sempre più vasto di estimatori: in questo senso, confido nei gusti altrui e mi auguro che le discoteche dei jazzofili, accanto ai CD dei giovani virgulti Williams e Bublè, possano annoverare (se già non fosse così…) anche le raccolte delle incisioni delle grandi voci americane del passato (il già citato Sinatra, Sarah Vaughan, Ella Fitzgerald, Sammy Davis Jr., Dean Martin91, Dinah Washington, i Mills Brothers, Jimmy Rushing, Big Joe Turner, e tanti altri ancora), incisioni che troppo spesso sono state tacciate di un’eccessiva impronta commerciale ma che, di sicuro, hanno contribuito alla divulgazione del jazz come forma d’arte, e non soltanto come mera forma di intrattenimento.

91 A tal proposito, è stato recentemente messo in vendita un cofanetto contenente un DVD ed un CD con la registrazione di un famoso concerto che Sammy Davis Jr., Dean Martin e Frank Sinatra tennero verso la metà degli anni ’60, accompagnati dalla big band di Count Basie.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

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Ediz. Italiana: “L’Arrangiatore Moderno”, traduzione di Massimo Mescia, Edizioni Curci, Milano. SPERA Dominic, “Take the Lead – A Basic Manual for the Lead Trumpet in The Jazz

Ensemble”, Houston Publishing Inc, Lebanon, IN, U.S.A., 1992 VESSELLA Alessandro, “Studi di Strumentazione per Banda”, con compendio di Alamiro

Giampieri, Ricordi, Milano, 1954. ZORN Jay D., “Esplorando il registro superiore della tromba”, Fenwood Music Inc., 1975 -

Ed. Italiana: Edizioni P.C.N.M.M.

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RINGRAZIAMENTI

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Alla realizzazione di questo lavoro hanno contribuito, in maniera più o meno diretta, le seguenti persone o gruppi di esse, elencate in scrupoloso ed equo ordine alfabetico:

• La Bansigu Big Band, l’orchestra che somiglia ad un gatto: sembra che

dorma, ma è sempre pronta a graffiare. Peccato che le occasioni di esibirsi siano sempre troppo poche…

• Sergio Bongiovanni, colui che mi ha messo la pulce nell’orecchio del registro sovracuto, e colui dal quale ho appreso molto senza mai aver preso una lezione: la tradizione orale del jazz vince ancora…

• Giampaolo Casati, il quale ha suggerito ed avallato il mio ingresso nell’organico della Bansigu Big Band, valorizzando per primo le mie doti e consigliandomi caldamente di specializzarmi nel ruolo, difficile e troppo poco spesso gratificante, della Prima Tromba;

• Il Corpo Bandistico “Giuseppe Verdi” di Albenga: grazie alla sua Scuola, ho avuto modo di muovere i primi passi nel mondo della Musica;

• Giancarlo Gazzani, che in me ha visto, e vede, le qualità di grandi Prime Trombe del passato, da lui conosciute nella sua lunga e prestigiosa carriera;

• Michele Lazzarini, amico sassofonista, il primo a svelarmi alcuni segreti del pentagramma;

• Piero Leveratto, il mio insegnante nei tre anni di Corso di Conservatorio e direttore della Bansigu per due anni: una miniera di preziosissime informazioni, che hanno contribuito alla mia crescita musicale di questi ultimi tempi;

• Nico Lo Bello, mio fratello e mio primo insegnante: i metodi bucati a colpi di matita sono serviti a qualcosa;

• Michele Mannucci, per avermi gentilmente fornito alcuni testi piuttosto vecchi ma oltremodo interessanti e funzionali al lavoro svolto;

• Cesare Marchini, il grande veterano del jazz genovese dai modi forse poco ortodossi ma sempre mirati ad ottenere il meglio dai suoi “allievi” (volontari ed involontari): i suoi consigli del tutto spassionati sulle più diverse problematiche della professione di musicista mi sono tornati molto utili, così come i racconti di pezzi della sua vita;

• Il Museo del Jazz “Gianni Dagnino” di Genova, nelle persone di Guido Festinese, Giorgio Lombardi ed Adriano Mazzoletti (ma non dimentichiamo la sempre sorridente Pamela ed il competente Marco) per la gentile collaborazione offertami in fase di raccolta di informazioni sul jazz italiano;

• Ermanno Pantini, ottimo musicista e persona squisita, prima che Maresciallo Direttore della Banda dell’Artiglieria Contraerei di stanza a Padova: grazie a quell’esperienza, ho iniziato ad assaporare le gioie (e i dolori…) di una vita a stretto contatto con la Musica;

• Piero Vallero, poli – strumentista che vanta un curriculum invidiabilissimo (vedere il sito Internet per credere…): a volte un po’ testardo, conoscendolo ho avuto la possibilità di capire, tra le altre cose, il modo di “tenere il palco”, come si dice in gergo;

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Vorrei, in questa sede, ringraziare anche tutte quelle persone che, pur essendo musicisti di alto livello (o forse proprio grazie al loro valore…), hanno capito che il mondo non finisce con la campana del proprio strumento.

Nella fattispecie: Elia Savino, Insegnante di Tromba del Conservatorio “Paganini” di Genova, per i suoi sempre preziosi consigli tecnico – strumentali e per le belle e gioviali chiacchierate; Paolo Fresu e Marco Tamburini, per le loro splendide lezioni di strumento ai Seminari estivi di Sienajazz 2003; Claudio Fasoli, sempre prodigo di consigli e critiche costruttive, nella classe di Musica d’Insieme di Siena; Giancarlo Schiaffini, musicista a tutto tondo che ha ampliato le mie conoscenze nello spinoso campo della musica contemporanea; Oscar Meana, fagottista dell’Orchestra dei Pomeriggi Musicali per trent’anni e Docente del suo strumento presso il Conservatorio di Milano: un’altra persona con cui si può parlare di musica senza pregiudizi, da Orlando di Lasso a Duke Ellington.

Una menzione particolare la merita Stefano Zenni, formidabile esempio di studioso di jazz e, nondimeno, persona disponibile e competente oltre ogni limite: gli stimoli che mi ha dato sono impagabili.

Serbo gli ultimi ringraziamenti ai miei genitori. I motivi sono molto importanti: mi hanno trasmesso l’amore per la Musica

(soprattutto mio padre), mi hanno insegnato ad affrontare la vita con umiltà, dignità e rispetto di sé stessi e degli altri, e mi hanno appoggiato nelle scelte importanti, non senza accesi scambi di opinioni ma sempre in nome della mia buona realizzazione e del bene comune e personale.