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Parlamento e Governo I. Il Parlamento 1. Il Parlamento Unico organo eletto direttamente dal popolo, il Parlamento, come siamo venuti dicendo, rappresenta, nel disegno costituzionale originario, il perno o il centro della vita politica. Condiziona l’esistenza in carica e l’indirizzo politico del Governo, ed approva le leggi, che sono i più importanti atti normativi dopo la Costituzione. Istituzione dedicata alla discussione, al dibattito, al confronto dialettico tra opinioni e interessi diversi, il Parlamento ripropone nella dinamica istituzionale l’archetipo del ‘processo’, del metodo, cioè, di giungere a decisioni ponderate mediante leali confronti di opinione. La sua centralità nella vita democratica testimonia l’importanza accordata a che la decisione sia preceduta da discussioni che permettono di illuminare diversi interessi e punti di vista : nel procedimento parlamentare, cioè, riconosciamo la permanenza di una dimensione ‘giurisdizionalistica’ del potere. Al contempo, il nesso di ‘fiduciache lega la maggioranza al Governo chiama in causa per il buon funzionamento del Parlamento qualità che richiamano virtù cavalleresche di lealtà e fedeltà alla parola data. Come vedremo, il Parlamento in Italia non conserva però, pur continuando a essere l’unico organo eletto direttamente dal popolo, e dunque quello più legittimato, quasi più nulla di questa sua importanza: ciò può essere l’effetto del prevalere di concezioni ‘decisioniste’ del potere pubblico, e il prezzo pagato a prassi abusive che hanno frainteso e distorto l’importanza e le prerogative dell’organo parlamentare. Con la legge di revisione costituzionale Renzi-Boschi il tramonto del ruolo del Parlamento viene definitivamente sancito: le implicazioni della nuova legge elettorale, che abbiamo descritto nelle pagine precedenti, e che consistono nello ‘svuotare’ il Parlamento di potere davanti al Governo, vengono approfondite dalla revisione costituzionale che tende a ridurre il procedimento parlamentare a un ruolo di ratifica delle decisioni del Governo. 2.Le funzioni del Parlamento

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Parlamento e Governo

I. Il Parlamento

1. Il Parlamento

Unico organo eletto direttamente dal popolo, il Parlamento, come siamo venuti dicendo, rappresenta, nel disegno costituzionale originario, il perno o il centro della vita politica. Condiziona l’esistenza in carica e l’indirizzo politico del Governo, ed approva le leggi, che sono i più importanti atti normativi dopo la Costituzione. Istituzione dedicata alla discussione, al dibattito, al confronto dialettico tra opinioni e interessi diversi, il Parlamento ripropone nella dinamica istituzionale l’archetipo del ‘processo’, del metodo, cioè, di giungere a decisioni ponderate mediante leali confronti di opinione. La sua centralità nella vita democratica testimonia l’importanza accordata a che la decisione sia preceduta da discussioni che permettono di illuminare diversi interessi e punti di vista: nel procedimento parlamentare, cioè, riconosciamo la permanenza di una dimensione ‘giurisdizionalistica’ del potere. Al contempo, il nesso di ‘fiducia’ che lega la maggioranza al Governo chiama in causa per il buon funzionamento del Parlamento qualità che richiamano virtù cavalleresche di lealtà e fedeltà alla parola data. Come vedremo, il Parlamento in Italia non conserva però, pur continuando a essere l’unico organo eletto direttamente dal popolo, e dunque quello più legittimato, quasi più nulla di questa sua importanza: ciò può essere l’effetto del prevalere di concezioni ‘decisioniste’ del potere pubblico, e il prezzo pagato a prassi abusive che hanno frainteso e distorto l’importanza e le prerogative dell’organo parlamentare.

Con la legge di revisione costituzionale Renzi-Boschi il tramonto del ruolo del Parlamento viene definitivamente sancito: le implicazioni della nuova legge elettorale, che abbiamo descritto nelle pagine precedenti, e che consistono nello ‘svuotare’ il Parlamento di potere davanti al Governo, vengono approfondite dalla revisione costituzionale che tende a ridurre il procedimento parlamentare a un ruolo di ratifica delle decisioni del Governo.

2.Le funzioni del Parlamento

Il Parlamento ha due principali funzioni, attribuite dalla Costituzione repubblicana a ciascuna delle due Camere:

1. La funzione legislativa (che denomineremo anche “lavoro legislativo” delle Camere):

In questa funzione rientrano: l’ approvazione delle leggi costituzionali e di revisione costituzionale l’ approvazione delle leggi ordinarie

2. La funzione di indirizzo e controllo nei confronti del Governo (che denomineremo anche “lavoro politico” delle Camere):

In questa funzione rientrano gli atti in cui si svolge il rapporto fiduciario tra parlamento e governo:

mozione di fiducia mozione di sfiducia interrogazioni, interpellanze, mozioni, ordini del giorno.

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3.L’organizzazione e il funzionamento delle Camere. Caratteri fondamentali

3.1. Bicameralismo

Il Parlamento è composto di due Camere, la Camera dei Deputati e la Camera dei senatori. Le due Camere sono diverse per numero di componenti (la Camera dei deputati ha 630 componenti mentre il Senato ne ha 315), e per alcuni altri aspetti della loro composizione (in particolare, per votare alle elezioni della Camera – elettorato attivo - basta avere 18 anni mentre per votare per il Senato occorre avere compiuto 25 anni, ciò significa che la base elettorale della Camera e quella del Senato non coincidono pienamente; per essere eletto deputato – elettorato passivo - basta avere compiuto 25 anni mentre per essere eletti al senato occorre avere compiuto 40 anni, differenze queste non più contemplate nella riforma costituzionale).

Una differenza tra Camera e Senato, che però non incide sulle loro funzioni, è anche che il Senato annovera tra i suoi membri i senatori a vita, nominati dal capo dello stato. Inoltre è senatore a vita, salvo rinunzia, chi è stato Presidente della Repubblica (art. 59 Cost.).

Per il resto però, Camera e Senato hanno le medesime funzioni. Il nostro sistema è un bicameralismo perfetto: si basa su due Camere che hanno le stesse prerogative e gli stessi compiti. Questo si ripercuote :

o sul procedimento legislativo, dal momento che ogni progetto di legge, per diventare legge, deve essere votato nello stesso testo da tutte e due le Camere (cd. ‘navette’);

o sul rapporto fiduciario, perché entrambe le Camere sono titolari del rapporto fiduciario, perciò la fiducia o sfiducia al Governo può essere votata in ciascuna delle due indifferentemente lo stesso vale per tutti gli atti di indirizzo e controllo sul Governo.

Essendo ambedue elette dal corpo elettorale nazionale, le due Camere (precisamente: ogni membro di ciascuna di esse) rappresentano la Nazione nella sua interezza. La Costituzione del 1948 non prescelse il modello di altri paesi, in cui una delle due camere, detta di solito “la seconda camera” rappresenta gli enti territoriali, perché composta da membri dei governi o delle assemblee legislative regionali.

E’ vero, però, che il Senato è, secondo la Costituzione, “eletto a base regionale”, ma questa prescrizione è stata attuata, sinora, solo nel senso che le circoscrizioni elettorali del Senato corrispondono con le Regioni, non nel senso di dare al Senato il ruolo di rappresentare le Regioni e gli enti territoriali, un ruolo cui esso, come diremo, non addiviene neppure con la riforma costituzionale Renzi-Boschi.

Il testo originario della Costituzione, come diremo subito, prevedeva un’altra importante differenza tra le due Camere, cioè la durata della legislatura, ma questa differenza non è mai stata operativa.

Dal Bicameralismo paritario al Monocameralismo di fatto al Bicameralismo inegualeLa scelta dei Costituenti per il bicameralismo si riannodava alla tradizione del Regno d’Italia e prima ancora del Piemonte Statutario, ma non era propriamente una scelta per un bicameralismo ‘perfetto’: il Senato, secondo il testo originario della nostra Costituzione, doveva durare 6 anni (contro i 5 della legislatura della Camera dei deputati) e avere un numero di componenti variabile in funzione della ampiezza del corpo elettorale regionale. E’ vero che si trattava comunque di differenze molto limitate che lasciavano il tratto di fondo del bicameralismo ‘paritario’: le due Camere rappresentano gli stessi interessi, quelli espressi per la via della rappresentanza politica dei partiti.

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Come ricorda Andrea Pisaneschi nel suo Corso di diritto costituzionale (2014), era stata la recente esperienza del Fascismo (che aveva istituito la Camera dei Fasci e delle Corporazioni) a sconsigliare ai Costituenti di differenziare le due Camere dal punto di vista degli interessi che rappresentavano; è vero inoltre che la Costituzione scelse un modello regionalista, ma tali erano, nei partiti, le incertezze sul se e come attivarlo, che le Regioni furono istituite solo a partire dal 1972-1976, quando furono approvati i primi decreti di trasferimento di funzioni amministrative dallo Stato alle Regioni. E’ noto, inoltre, che, istituendo le Regioni, i Costituenti volevano esprimere una differenziazione tra la nuova Repubblica democratica e il vecchio Regno accentratore, ma è anche vero che i partiti temevano, col dar vita alle elezioni regionali e ai corpi politici delle singole regioni, che i loro equilibri si spaccassero, o si complicassero: si temeva in particolare che a un governo statale guidato dalla Democrazia Cristiana potessero affiancarsi, a livello regionale, rappresentanze più orientate verso la sinistra. Con le Regioni tenute, diciamo così, ‘nel congelatore’, era impossibile pensare a dare una consistenza alla previsione per cui ‘il senato è eletto a base regionale’ che non andasse oltre il disegno delle circoscrizioni elettorali del Senato, che sono sempre state coincidenti con le Regioni. Di fatto, il sistema dei partiti italiano non ha sopportato neppure la differenza di durata tra le due Camere, e la durata del Senato è stata riportata alla durata della Camera prima sciogliendo il Senato anticipatamente quando finiva la legislatura della Camera, o sciogliendo entrambe le Camere anticipatamente, poi con una legge di revisione costituzionale n. 2 del 1963.

In altri termini, il bicameralismo paritario scelto dalla Costituzione è stato trasformato in un bicameralismo perfetto dalle prassi e dalle convenienze del sistema dei partiti (lo sfasamento elettorale tra Camera e Senato poteva produrre nelle due Camere maggioranze diverse, e questo appariva un problema per la stabilità del Governo: se, durante la legislatura della Camera con un partito A con la maggioranza e al Governo, si svolgevano le elezioni per il Senato e il partito A perdeva, ecco pronta la crisi di Governo).

Il bicameralismo disegnato in Costituzione si avviò così a funzionare come un monocameralismo di fatto.

Ritorniamo ora a riflettere sul punto che accennavamo poco sopra: le ragioni che spinsero il Costituente verso il bicameralismo paritario furono che il dislocarsi del processo legislativo e politico su due Camere poteva favorire una vita politica, e decisioni legislative, più riflettute e condivise. Ma vi era certamente anche la coscienza, da parte dei partiti che sedevano in Assemblea Costituente, di quella che sarebbe stata la dinamica che ne avrebbe caratterizzato i rapporti. Già durante i lavori dell’Assemblea Costituente, nel 1947, dopo un viaggio del leader democristiano Alcide De Gasperi negli Stati Uniti, il partito comunista, che inizialmente componeva i ‘governi di unità nazionale’ del periodo post-bellico, venne escluso dal governo.

Tutta la prima fase dell’esperienza repubblicana è stata condizionata dalla cd. conventio ad excludendum che in quel momento si delineò: dei due maggiori partiti in cui l’elettorato italiano si divideva, la Democrazia Cristiana e il Partito comunista italiano, la prima sarebbe sempre stata al Governo, contornata da altri partiti minori che le permettessero di avere la maggioranza parlamentare, il secondo sarebbe sempre stato ‘all’opposizione’, cioè rappresentato solo in Parlamento. L’impossibilità tacita per un partito dall’enorme seguito popolare di salire al governo veniva compensata con la ‘centralità parlamentare’: soprattutto a partire dalla seconda metà del 1960, tutte le decisioni di indirizzo si prendevano effettivamente in Parlamento, e vedevano la necessaria collaborazione di quello che in teoria era il partito di opposizione (cd. consociativismo). I taciti accordi di convivenza tra il partito di governo e quello cd di opposizione hanno permeato, nel nostro paese, innumerevoli istituti parlamentari e democratici. A partire dalla prassi, ricostruita in un

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bel libro da Antonio Bevere, per cui il Parlamento, fino a pochi anni fa, non concedeva mai la autorizzazione alla autorità giudiziaria necessaria per procedere contro membri del Parlamento. Aiutati inizialmente dalla DC a non vedere votata l’autorizzazione a procedere contro propri deputati e senatori perseguiti per esempio per avere organizzato a una festa dell’Unità una lotteria non autorizzata, i comunisti ripagarono i colleghi negando l’autorizzazione a procedere per i deputati e senatori democristiani per qualunque reato fossero inquisiti, e lo stesso valse quando furono i comunisti e specialmente i socialisti a loro volta a essere inquisiti per reati meno nobili delle lotterie degli anni ’50.

Per effetto del sistema elettorale proporzionale inoltre la composizione politica delle due Camere era pressoché identica, le diverse forze politiche erano rappresentate nello stesso modo sia al Senato sia alla Camera.

Questo significa che per tutta la fase consociativa e oltre, sino all’abrogazione del sistema elettorale proporzionale, il sistema bicamerale ha in realtà funzionato, come anticipavo poco sopra, come un monocameralismo di fatto.

Il Governo aveva davanti, alla Camera e al Senato, una situazione identica.

Questo è cambiato con l’adozione dei sistemi elettorali maggioritari che, come detto, sono stati sempre in Italia caratterizzati da una sorta di contraddizione: mentre un sistema maggioritario dovrebbe servire a creare una maggioranza stabile, i nostri sono sempre stati congegnati in modo da azzoppare al Senato la maggioranza che si formava alla Camera, esempio massimo e plateale il Porcellum, dal quale usciva di necessità al Senato una maggioranza comunque debolissima rispetto a quella che si affermava alla Camera, per effetto del diverso sistema di calcolo e distribuzione dei premi di maggioranza.

La crisi del nostro sistema bicamerale è dunque un risultato non delle scelte della Costituzione repubblicana, cioè dei meccanismi da essa approntati ma delle scelte operate dai partiti politici, in particolare nel momento dell’adozione dei sistemi elettorali, scelte che si spiegano tutte con il timore che un partito potesse effettivamente diventare più forte degli altri, almeno nello spazio della legislatura.

Infatti, una importante caratteristica del nostro sistema, è che i partiti politici hanno sempre operato come se spettasse allo stesso sistema dei partiti (anziché alle istituzioni) fungere da ‘pesi e contrappesi’, e questo ha finito per sacrificare il senso e la funzione delle istituzioni repubblicane alle convenienze politiche.

Per tutta una prima fase della vita repubblicana, anziché alla istituzione di prassi che assicurassero la distinzione e la dialettica tra Parlamento (nelle sue funzioni di indirizzo e di controllo) e Governo, i partiti si sono dimostrati, tutti, interessati piuttosto a concorrere nelle scelte di governo pur stando formalmente all’opposizione (questo il senso della ‘consociazione’) ciò che ha inevitabilmente indebolito e corroso il senso della autonomia e della dignità del ruolo del Parlamento (se il partito di opposizione è tutto teso a ottenere dal Governo leggi che esso condivide, come potrà poi criticarlo efficacemente per il suo operato, quando pure ce ne sarebbe bisogno?).

Analogamente, nella fase ‘maggioritaria’ non si è pensato di bilanciare un Governo forte con un Parlamento forte, ma si è preferito lasciare il Governo ‘sotto il tiro’ delle altre forze politiche, le minoranze rimanendo sempre in grado di condizionare l’esecutivo quanto meno dal Senato.

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Il carattere correntizio dei nostri partiti (cioè l’essere composti da tante ‘anime’ diverse al loro interno: questo carattere, un tempo tipico della Democrazia Cristiana, è divenuto poi il contrassegno della Partito Democratico) ha concorso al determinarsi di questa situazione, favorevole al peso delle le minoranze interne a un partito. E’ possibile che l’emergere, nelle elezioni del 2013, di una forza politica che si caratterizza ed è percepita dalle altre forze politiche come estranea a tutte, quale è il M5Stelle, abbia fatto sentire ai partiti politici tradizionali che alla conservazione del potere non erano più sufficienti i meccanismi e le prassi che sono state finora descritte, in ciò potendosi vedere una spinta a dare vita insieme alla revisione costituzionale.

La retorica che accusa il sistema bicamerale adottato dalla Costituzione di essere responsabile della lungaggine del processo legislativo, o della debolezza dell’esecutivo, ci aiuta veramente poco a capire la sostanza dei problemi che hanno caratterizzato la nostra forma di governo. Non solo le leggi, per effetto dei meccanismi che descriveremo tra breve, si approvano fin troppo in fretta, quando si vuole, sacrificando la dialettica parlamentare e l’esigenza di approfondita conoscenza, da parte dei parlamentari, dei problemi su cui si pronunciano, ma ad aver voluto un esecutivo debole sono stati proprio i partiti politici.

In primo luogo il bicameralismo perfetto che i partiti hanno costruito per, diciamo così, semplificare la vita a se stessi e al Governo è diventato a sua volta una fonte di problemi, nella misura in cui ha permesso ai partiti e ai parlamentari di enfatizzare quelle possibilità di condizionamento, di ricatto, di ‘mercanteggiamento’ del voto che ha finito per essere sentito come un ostacolo alla capacità del partito che esprime la maggioranza, che sale al Governo, di governare efficacemente. C’è poi un secondo aspetto da considerare. Con la loro struttura correntizia, i partiti politici italiani hanno rappresentato la via, sia pure non di rado patologica, di condurre fino alle istituzioni una pluralità di esigenze, di interessi, di visioni del mondo, che si articolano nella società. La retorica antiparlamentare già al tempo dello statuto albertino colpiva in realtà l’idea stessa di rappresentanza, e questo, verosimilmente, è quanto accade oggi.

Gli innegabili fallimenti del nostro sistema rappresentativo non devono impedirci di cogliere che le vere ‘vittime’ della attuale retorica antiparlamentare e anti-politica, cavalcata paradossalmente dagli stessi partiti di governo (che si vantano di avere approvato una riforma costituzionale che ‘riduce i politici’) sono i partiti, ossia gli strumenti della rappresentanza politica del popolo sovrano. E’ in effetti quest’ultima che vede diminuita la propria forza nel quadro attuale.

Gli interrogativi di una costituzione in cambiamento

La riforma costituzionale del 2016 si rivolge a garantire stabilità al governo in particolare eliminando l’elettività della seconda camera e togliendole la titolarità del rapporto fiduciario, che rimane solo alla Camera.

I perni di questa riforma sono:

a) sottrarre al Senato il rapporto fiduciario, di cui resterebbe titolare la sola Camera; b) escludere il Senato dalla approvazione delle leggi ordinarie, riservando ad esso, peraltro, un ruolo nell’approvazione delle leggi costituzionali (il cui procedimento di formazione non cambierebbe rispetto a quello attuale) e di alcune leggi ‘bicamerali’ (che richiederebbero la doppia approvazione di Camera e Senato mentre su tutte le altre leggi il Senato potrebbe solo esprimere un parere, eventuale e non vincolante per l’altra Camera;

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c) associare il Senato alla Camera nelle attività di controllo sulla attuazione delle leggi dello Stato da parte delle pubbliche amministrazioni, in particolare incaricando il Senato della attività di valutazione delle politiche pubbliche e nelle attività di raccordo tra Stato e enti locali e Unione europea. d) prevedere la partecipazione del Senato alla elezione del Capo dello Stato (nel Parlamento in seduta comune) e riservare al Senato la nomina di due sui cinque giudici costituzionali di estrazione parlamentare.

Il Senato non sarebbe più eletto a suffragio universale e diretto, ma sarebbe composto da consiglieri regionali e sindaci eletti dai consigli regionali. Continuerebbero, inoltre, a far parte del Senato gli ex presidenti della repubblica e i senatori di nomina presidenziale, non più a vita, ma destinati a rimanere in carica sette anni.

Il Senato diventerebbe organo ‘rappresentativo delle istituzioni territoriali’; tuttavia i suoi membri, che agiscono ‘senza vincolo di mandato’ non saranno chiamati a esprimere il punto di vista dei territori, ma verosimilmente si organizzeranno secondo logiche partitiche, non però in forza di una elezione popolare diretta. In questo è possibile riconoscere il ritornare del fenomeno statutario del ‘partito parlamentare’. Infatti un tratto saliente della riforma è che la composizione del Senato non rifletterà in alcun modo gli orientamenti politici dell’elettorato nazionale, in quanto i consiglieri-senatori saranno rinnovati ad ogni scadenza dei consigli regionali.

Alcuni autori hanno commentato:

“La perdita di rappresentatività nazionale del Senato, unita al mantenimento di funzioni costituzionali nazionali [come l’approvazione delle leggi costituzionali e delle leggi bicamerali], indebolisce (se non addirittura smentisce) il principio supremo dell’art. 1 della Costituzione dell’appartenenza al popolo della sovranità, se non altro perché funzioni rilevantissime, quali quella legislativa-costituzionale e legislativa ordinaria, ed equilibri politici fondamentali, quali quelli che mettono capo alla posizione del Presidente della Repubblica e della Corte costituzionale, risultano almeno in parte affidati a un organo non rappresentativo.”1

L’esclusione del Senato dal rapporto fiduciario e la moltiplicazione di procedimenti legislativi incrociati tra le due Camere era già prevista dalla riforma costituzionale promossa dal Governo Berlusconi nel 2005 e bocciata dal corpo elettorale nel 2006.In quella riforma il Senato era detto “Senato federale” ed esso veniva eletto a suffragio universale e diretto su base regionale, con elezione contestuale a quella dei singoli consigli. Era prevista la partecipazione al senato federale, senza diritto di voto, di rappresentanti delle Regioni e delle autonomie locali, e veniva istituito un sistema di pareri che ogni consiglio regionale poteva esprimere sui disegni di legge esaminati dal Senato e aventi attinenza con le competenze regionali. Il numero complessivo dei parlamentari veniva ridotto di circa 150 unità. Anche i Senatori come i deputati rappresentavano la Nazione e non avevano vincolo di mandato.

(Continua)

1 F. Sorrentino, Sulla ‘rappresentatività’ del Senato nel progetto di riforma costituzionale, in Rivista AIC, 4 maggio 2015.

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I nuovi intendenti? Questa volta a spese dell’amministrazione, e per un’amministrazione più forte e più centralizzata

Il nuovo Senato appare a molti un organo debole e incerto ma potrebbe diventare facilmente il vero perno della vita istituzionale, perché è quello più in sintonia con le emergenti tendenze storiche di organizzazione del potere legate alla globalizzazione.

Le sue importanti funzioni di ‘valutazione delle politiche pubbliche e dell’attività delle pubbliche amministrazioni e di verifica dell’impatto delle politiche dell’Unione europea sui territori” ne fanno un organo centrale se si pensa che l’Unione europea, che non ha una propria amministrazione, ‘usa’ le amministrazioni degli stati membri, che sono dunque uno snodo centrale per il perseguimento efficace delle politiche europee (tra cui quelle incidenti sul mercato del lavoro, il sistema produttivo, i meccanismi sociali come le misure previdenziali, nonché le politiche fiscali e di spesa). Il controllo della pubblica amministrazione diviene in questo quadro un obiettivo prioritario: ma la pubblica amministrazione, come si sa, dispone di una sfera di discrezionalità (come tale insindacabile davanti al giudice), e, nel nostro paese, è espressione di enti territoriali con poteri di autogoverno. La nuova funzione senatoria di valutazione delle politiche pubbliche potrebbe risultare un’importante strumento per indirizzare e controllare la discrezionalità, dunque le scelte, delle amministrazioni statali (che pure sono sotto la responsabilità del Governo) e di quelle locali (che pure sono elettive ed espressione dei relativi territori).Una delle caratteristiche della riforma del 2016 è la comparsa della ‘valutazione delle politiche pubbliche’ come funzione del Senato.L’ambito di tecniche di governo (o di ‘governance’) che va sotto il nome di ‘valutazione delle politiche pubbliche’ è il terreno in cui si sviluppano le modalità contemporanee di contenimento e controllo della discrezionalità amministrativa spettante a organismi territoriali o a branche dello stato, allo scopo di rafforzare gli indirizzi provenienti dall’alto, in questo caso dalla Ue.

Nel nostro ordinamento, un primo significativo campo di esperienze orientate a ridurre/orientare l’esercizio della discrezionalità amministrativa si è registrato negli anni recenti con l’Anac, l’autorità nazionale anti-corruzione (così denominata nel 2013, ma nata nel 2009 come Commissione per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche), che ha assunto molto estesi poteri di controllo e indirizzo sulle politiche locali di spesa, ed è considerata un esempio molto significativo di una nuova tipologia di poteri, che hanno un grande ruolo politico ma davanti ai quali vi è una insufficienza di garanzie (Longobardi). Titolare di un ruolo che la legge definisce come ‘collaborativo’ nei confronti delle ‘stazioni appaltanti’ (vale a dire gli enti locali e le amministrazioni statali e autonome dello stato), l’Anac ha, per esempio, il potere di ‘invitare’ le amministrazioni a revocare atti che abbiano già adottato e che la stessa autorità non condivide, nonostante essi siano legittimi. Si sposta così sulla autorità un potere di annullamento ‘mascherato’ (Longobardi), mentre con le sue ‘linee guida’, che valgono in realtà come norme obbligatorie e rappresentano un potere normativo che l’Anac esercita grazie a una ‘delega in bianco’ da parte del legislatore (Deodato), l’Autorità conforma gli atti degli enti locali e, stabilendo le qualificazioni delle imprese e i requisiti di partecipazione alle procedure, così limitando e condizionando l’accesso degli imprenditori al mercato degli appalti pubblici e conseguentemente l’esercizio del diritto di impresa (Longobardi).

Con questa esperienza (e altre analoghe) il nostro sistema si è abituato alla esistenza di norme dettate da organi del tutto sprovvisti di legittimazione democratica che conformano diritti e libertà o introducono obblighi e doveri, e che in effetti ‘governano’ interi settori, realizzandosi la sostituzione della tecnocrazia alla democrazia (Deodato).

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Il nuovo Senato, organo permanente (non può mai essere sciolto), ma politicamente irresponsabile, sembra destinato, per come è costruito, a costituire il punto di raccordo tra le tecnocrazie europee e quelle nazionali (quali l’Anac) con la precisa funzione di garantire alle prime il controllo sulle amministrazioni nazionali e un controllo che sia il più possibile immune dai condizionamenti dell’opinione pubblica, del voto e delle indicazioni degli elettori, della volontà popolare.

Questi potrebbe significare, dunque, che mentre agli elettori viene ‘lasciato’ di votare alle elezioni politiche condizionando la scelta della maggioranza di Governo, quello che davvero conta, cioè l’implementazione di politiche che non sono prese a livello nazionale e che incidono nel modo più concreto sui diritti delle persone, viene riservato a un organo che, non a caso, è ‘estraneo all’indirizzo politico’.

3.3.Il parlamento in seduta comune

Il Parlamento in seduta comune è un organo distinto dalle due Camere e che risulta dalla riunione di esse. Ha alcune rilevanti e specifiche funzioni costituzionali: in particolare: è l’organo che ha la funzione di votare per l’elezione del Capo dello Stato, eleggere cinque giudici costituzionali, mettere il Capo dello Stato in stato d’accusa.

Questo organo viene mantenuto nella legge di revisione costituzionale, che modifica peraltro le maggioranze necessarie alle elezione del Presidente della Repubblica (ne parleremo quando studieremo questo organo) e ripartisce tra le due Camere l’elezione dei cinque giudici costituzionali di estrazione parlamentare (tre saranno eletti dalla Camera, due dal Senato; taluni hanno notato la sproporzione secondo cui la Camera, composta da 630 deputati e rappresentativa del popolo, elegge solo un giudice in più del Senato, composto da 95 delegati di partito).

3.4.La legislatura

Secondo la Costituzione repubblicana, e per effetto delle modifiche costituzionali, molto risalenti, di cui abbiamo parlato sopra, le Camere hanno la stessa durata, di 5 anni, il che significa che normalmente tra una elezione e la successiva devono intercorre 5 anni. Tuttavia le Camere possono essere sciolte anche anticipatamente, cioè prima di questo tempo, quando sia necessario “ricorrere alle urne”, fare una nuova consultazione elettorale, perché dagli schieramenti politici che in un dato momento sono rappresentati in Parlamento non è più possibile ricavare un sostegno stabile a un esecutivo.

La durata delle Camere si chiama legislatura.

3.5.Lo scioglimento delle Camere

Lo scioglimento delle Camere è un atto di competenza del Capo dello Stato: secondo l’articolo 88 della Costituzione “Il Capo dello Stato può, sentiti i Presidenti delle Camere, sciogliere le Camere o anche una sola di esse”.

Lo scioglimento è un atto dovuto, cioè è un atto costituzionalmente necessario, doveroso (non compierlo esporrebbe il Capo dello Stato alla responsabilità per attentato alla Costituzione), quando la legislatura giunge a scadenza.

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In una democrazia, è necessario accertare la corrispondenza tra la composizione delle Camere e il corpo elettorale, per questo le Camere hanno una durata prefissata oltre la quale devono essere sciolte e si deve procedere a nuove elezioni. La decisione dello scioglimento è stata affidata dalla nostra Costituzione a un organo imparziale come il Capo dello Stato (che non è espresso dalla maggioranza al governo e non è portatore di un proprio indirizzo politico), anziché lasciare alle Camere la decisione del proprio scioglimento, o affidarla al governo. Questa scelta, che rappresenta uno dei meccanismi di razionalizzazione della forma di governo parlamentare adottati dalla nostra Costituzione, è dovuto alla consapevolezza che, in alcuni casi, il Parlamento o il Governo, quando la legislatura finisce, potrebbero non avere interesse allo scioglimento. Un Governo che gode di una salda maggioranza in Parlamento, e teme invece alle elezioni di perdere voti, avrebbe tutto l’interesse a non sciogliere, a tenere in vita le Camere che gli sono favorevoli. Camere che “tengono in ostaggio” un Governo minoritario e debole, potrebbero anch’esse non volersi sciogliere.

Per evitare ciò, la decisione di sciogliere le Camere è stata resa un “atto presidenziale”, sia pure del tipo ‘complesso’ (occorre che il Presidente senta i Presidenti delle Camere e anche il Governo) che ha carattere di doverosità quando le Camere sono “scadute” (e cioè quando la legislatura è finita).

Il Capo dello stato può sciogliere le Camere anche prima della scadenza, e cioè in corso di legislatura, quando si siano determinate circostanze e precisamente: quando vi sia stata una crisi di governo e non sia possibile dare vita a un nuovo gGoverno che abbia una maggioranza in Parlamento.

3.6.Il semestre biancoLa decisione dello scioglimento è molto delicata, come si comprende, perché ha grandi conseguenze politiche. E’ necessario che il Capo dello stato sia nelle condizioni di compierla nella massima imparzialità, cioè senza avere il benché minimo interesse proprio nel fatto che ci siano o non ci siano elezioni anticipate. Questo ci spiega la previsione dell’art. 88 secondo comma, per il quale il Capo dello Stato non può sciogliere le Camere negli ultimi sei mesi del suo mandato, salvo che essi coincidano in tutto o in parte con la fine della legislatura (cd. semestre bianco). Durante gli ultimi sei mesi del suo mandato, il Presidente potrebbe essere tentato di valutare se sciogliere o meno con un occhio buttato al tipo di maggioranza che potrebbe uscire dalle nuove elezioni, e che potrebbe apparire più o meno favorevole a una sua rielezione. Se però durante gli ultimi sei mesi del mandato presidenziale le Camere giungono alla scadenza naturale il Capo dello Stato deve sciogliere. La previsione del ‘semestre bianco’ non fa parte del tessuto originario della nostra Costituzione ma è stata introdotta con legge di revisione costituzionale n. 1/1991 quando era Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, che si era adoperato per sottolineare l’importanza di questa condizione, sotto il profilo della salvaguardia della indipendenza della figura presidenziale.

Con la riforma, la legislatura della Camera durerà ancora 5 anni mentre il Senato diviene un organo permanente, i suoi membri singolarmente si rinnovano alla scadenza del loro mandato regionale o locale, ma il Senato come tale non può essere sciolto (non è neppure prevista l’ipotesi dello scioglimento ‘sanzionatorio’, nel caso che l’organo si renda responsabile di una violazione della Costituzione.Lo stesso accadeva nella riforma Berlusconi del 2005, respinta dal corpo elettorale nel 2006.

3.7. L’autonomia delle Camere: un valore incompreso e abusato

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Le Camere godono, in base alla Costituzione repubblicana, di un elevatissimo tasso di autonomia, che intende proteggere la attività che si svolge al loro interno (il dibattito politico) da ogni possibile rischio di interferenza, che potrebbe comprimere la libertà politica, e così attentare alla democrazia. Secondo i principi, dal momento che le Camere sono rappresentative del popolo, la loro libertà è garanzia della libertà politica della Nazione.

L’autonomia delle Camere, quali organi rappresentativi del popolo sovrano, è un fondamentale valore democratico: nel Parlamento si esprime la rappresentanza della Nazione e le prerogative delle Camere proteggono la libertà politica della Nazione.

La storia repubblicana ci mette davanti, però, a una triste narrazione: quella dell’abuso, da parte degli eletti, dell’autonomia di cui godono, che ha generato l’incomprensione del senso profondo di essa e dunque la continua diminuzione, in fatto o in diritto, delle prerogative che la proteggono.

Per una curiosa, ma significativa coincidenza, gli anni recenti hanno visto molte volte il Presidente della Repubblica impegnato nella difesa delle sue prerogative; e hanno visto invece quelle delle Camere venire erose in maniera clamorosa, non solo nel silenzio, ma anche nella generale approvazione: le Camere, a ragione o a torto, sono diventate il simbolo dell’eccessivo potere dei partiti che frena l’azione del Governo, mentre il primo è sentito come il disvalore, il secondo (che il Governo possa agire, decidere, ‘fare’) è sentito come un valore, e pertanto viene favorito.

Ma, per andare per ordine nel nostro discorso, dobbiamo cominciare col dire che, tra le manifestazioni di autonomia delle Camere deve essere ricordata la autodichia o giurisdizione domestica, che è il potere

o di giudicare le controversie con i propri dipendenti, o e di essere il solo giudice della esistenza di cause di ineleggibilità, incompatibilità

preesistenti o sopravvenute di deputati e senatori (cd. verifica dei poteri). L’autodichia è ‘la più contesta delle prerogative parlamentari, perché priva di fondamento costituzionale. Purtroppo, dopo la seconda metà degli anni ’90 del Novecento, essa è stata ampliata dalle Camere sino ‘al contenzioso sulle gare d’appalto e altri atti amministrativi comunque non riguardanti i dipendenti’, laddove questi atti avrebbero a buon diritto dovuto essere considerati conoscibili dal giudice amministrativo” (M. Midiri, Quaderni del Filangieri 2012-2013, p. 248).

Entrambe queste prerogative sono garantite, a entrambe le Camere, e nonostante il Senato non sia più rappresentativo della Nazione, nella riforma del 2016.

La principale manifestazione di autonomia delle Camere è quella regolamentare.

3.8.Il regolamento parlamentare

Autonomia regolamentare vuol dire che le Camere danno a se stesse le norme in base alle quali funzionano. Le norme che le Camere osservano nello svolgimento delle loro attività sono definite nelle grandissime linee in Costituzione (art. 70-82) e poi sono precisate nel regolamento parlamentare, che è l’unica fonte, oltre alla Costituzione, in grado di dettare norme sulla attività e organizzazione delle Camere. Ciascuna Camera ha il suo regolamento; il regolamento dispone nel dettaglio in ordine allo svolgimento delle attività delle Camere (quanto tempo si ha a disposizione per illustrare un emendamento o una interrogazione; in quali casi è ammesso il voto segreto, ecc.). Il regolamento viene approvato a maggioranza assoluta (metà più uno degli aventi diritto al voto) dei membri di ciascuna Camera.

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Nel prevedere che le norme sul funzionamento delle Camere e il procedimento legislativo possano essere contenute solo nel regolamento parlamentare la Costituzione, dunque, riserva questa materia al regolamento parlamentare. Il regolamento parlamentare è una fonte “riservataria”: titolare di una propria competenza che è definita dalla Costituzione e sulla quale altre fonti non possono intervenire pena la loro illegittimità.

In base al principio degli ‘interna corporis’ (irrilevanza nell’ordinamento giuridico generale degli atti compiuti all’interno di un organo autonomo), la Corte costituzionale ha sempre ritenuto di non poter sindacare una legge per essere stata approvata in modo difforme al regolamento, o altre ipotesi di violazione del regolamento.

Il motivo per cui per l’approvazione del regolamento parlamentare è richiesta la maggioranza assoluta è sottrarre le norme regolamentari dalla disposizione della sola maggioranza di governo (che potrebbe volerle sempre modificare a proprio favore, e può in ogni momento direttamente derogarvi semplicemente non osservandole). In effetti però, nel nostro sistema, mentre fino agli anni ’90 del Novecento era molto difficile che una sola forza politica, o una coalizione di forze, disponesse della maggioranza assoluta, questo è avvenuto tipicamente in tutto il periodo successivo.

Ciò a portato a modifiche dei regolamenti che hanno reso le regole, in base alle quali le Camere operano, sempre più funzionali alla attuazione dell’indirizzo politico di maggioranza e sempre meno garantiste verso le minoranze.

Nella revisione costituzionale il regolamento parlamentare conserva e anzi rafforza il suo ruolo decisivo di conformazione degli istituti democratici.

Ciascuna Camera continuerà ad avere un proprio regolamento, anche se nel caso del Senato, che non rappresenta la Nazione, il motivo per cui esso mantiene questa prerogativa altissima di autonomia non è ben spiegabile.

Nel nuovo testo, l’art. 64 Cost. dovrebbe prevedere che ‘i regolamenti parlamentati garantiscono i diritti delle minoranze parlamentari. Il regolamento della Camera dei deputati disciplina lo statuto delle opposizioni”. Si noti che i diritti delle minoranze e delle opposizioni sono rimessi alla maggioranza (il regolamento è approvato a maggioranza assoluta), il che non rappresenta certamente una efficace garanzia. La riforma del 2016 non dà alcuna indicazione ai regolamenti parlamentari su come garantire i diritti delle opposizioni; si spingeva più avanti, in modo più garantistico, la riforma del 2005 del Governo Berlusconi, respinta dal referendum popolare del 2006, prevedendo che ai gruppi di opposizione alla Camera dovesse essere comunque riservata la presidenza di alcune commissioni.

Come già ricordato, inoltre, il nuovo Senato conserva anche le garanzie di autodichia e giurisdizione domestica di cui è titolare l’attuale.

4.La struttura interna delle Camere

Le più importanti articolazioni interne delle Camere sono:

4.1.Il Presidente d’Assemblea

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Il Presidente della Camera e del Senato è l’organo che dirige le sedute, mantiene l’ordine ed ha una funzione preminente nella definizione del calendario dei lavori (cioè nella programmazione dei lavori parlamentari, l’attività che stabilisce l’ordine di tempo in cui le Camere lavorano intorno ai provvedimenti di loro competenza).

Il Presidente viene eletto a inizio della legislatura dalla Camera di appartenenza. L’aspetto più delicato e importante delle sue funzioni è il suo ruolo di interprete del regolamento. In caso di dubbio, infatti, spetta al Presidente stabilire se una norma regolamentare va o meno applicata, e come, cioè quale significato attribuirle.

Per tutta una prima fase dell’esperienza repubblicana, la prassi voleva che il Presidente d’assemblea fosse un esponente di una forza politica di opposizione. Si intendeva così sottolineare il suo carattere imparziale, abbastanza logicamente corrispondente alle sue delicate funzioni di interpretazione del regolamento. A partire dalla ‘svolta maggioritaria’ della metà degli anni ’90 i Presidenti di Assemblea sono stati espressi dai partiti di maggioranza e l’opinione dottrinale corrente non manca di sottolineare che essi hanno esercitato il loro ruolo di ‘giudici del regolamento’ in maniera sempre più politicizzata, il che ne ha notevolmente attenuato la capacità di svolgere un ruolo di controllo effettivo sulla regolarità dei lavori, e ha contribuito al complessivo scadimento delle prassi osservate in Parlamento.

Il Presidente dell’Assemblea, come torneremo a dire parlando della programmazione dei lavori, è attualmente il titolare della decisione in ordine alla programmazione dei lavori e l’interprete del regolamento (per esempio decide i casi in cui un emendamento è ammissibile o meno): si tratta dunque di una figura chiave negli equilibri tra Governo e Parlamento e negli equilibri interni alla maggioranza di governo.

Il Presidente d’assemblea è ormai il garante dell’indirizzo politico di maggioranza nelle Camere.

I regolamenti parlamentari hanno allargato a dismisura i poteri del Presidente di direzione dei lavori d’assemblea e di interpretazione del regolamento.

Essi riservano al Presidente decisioni dall’influenza nodale sulla sorte dei provvedimenti in votazione, come la tecnica del ‘canguro’ nella votazione degli emendamenti, che consiste nel votare tutti insieme gli emendamenti che rispondono ‘a uno stesso principio ispiratore’ secondo l’insindacabile decisione del Presidente d’Assemblea. Il rischio che la dottrina ravvisa nella crescita in senso politico del ruolo del Presidente d’Assemblea è l’eccessiva contrazione dei diritti delle opposizioni, che, in teoria, il Presidente d’Assemblea dovrebbe garantire.

C’è infatti il pericolo che i poteri, nella programmazione e nella interpretazione del regolamento, che questa carica detiene ormai in solitudine, siano esercitati in modo del tutto squilibrato nel solo interesse del Governo. Si ricordi che le decisioni del Presidente d’Assemblea sono insindacabili, non sono sindacabili né dall’Assemblea né, per il principio degli ‘interna corporis’ dalla Corte costituzionale.

Da diversi anni la dottrina sottolinea la necessità di procedere a una revisione degli attuali poteri del Presidente d’Assemblea, per “restituire al Presidente d’Assemblea parlamentare la propria posizione centrale ed equidistante nell’ordinamento parlamentare, questa sì veramente irrinunciabile” (E. Gianfrancesco, op. cit., p. 239).

L’importanza acquisita dalla carica, che ne ha sottolineato la politicità, rende abbastanza insensato, a giudizio di molti studiosi, che ai presidenti delle Camere spesso siano riservati poteri di nomina che

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dovrebbero invece servire a garantire che in certe cariche siano poste persone indipendenti dall’indirizzo politico. Si pensi in particolare alla nomina dei presidenti e dei membri delle Autorità indipendenti (Antitrust, Garante della Privacy, Consob), tipicamente affidati ai Presidenti delle Camere, nomine che questi ultimi hanno effettuato, secondo la dottrina, in un senso ‘politico e politicizzato’2.

Con la revisione costituzionale, l’importanza dei Presidenti delle Camere cresce enormemente, il che, considerata la ormai acquisita politicizzazione di questi organi, può dare da pensare.

In particolare, è rimesso ai Presidenti delle Camere di decidere, di intesa tra loro, le eventuali questioni di competenza (che sorgano tra Camera e Senato in particolare in ordine al procedimento legislativo), sollevate ‘secondo le norme dei relativi regolamenti’.

Non è chiaro come questa competenza dei Presidenti si accordi con quella della Corte costituzionale a decidere i conflitti tra i poteri dello Stato (di cui parleremo più avanti), ma la tendenza è chiaramente a sostituire a una garanzia giurisdizionale (il conflitto tra i poteri) una ‘garanzia’ politica.

E’ chiaro inoltre che la tendenza che ha visto i Presidenti diventare sostanzialmente i ‘domini’ della vita delle rispettive Camere (con i poteri insindacabili di interpretazione del regolamento, di cui abbiamo parlato poco sopra) viene coronata dalla riforma costituzionale che rimette l’ampiezza e l’effettività delle competenze delle Camere, compresa quella rappresentativa, al ‘placet’ dei rispettivi Presidenti (così potrà accadere che il Presidente della Camera rappresentativa del popolo rinunci ad una attribuzione di questa, e dunque del popolo, in favore della Camera ‘rappresentativa delle istituzioni territoriali’, e non elettiva).

Anche la riforma promossa nel 2005 dal Governo Berlusconi, e respinta dal referendum popolare del 2006, prevedeva l’intesa tra i Presidenti per dirimere le eventuali questioni di competenza delle due Camere, che anche in quella riforma avevano competenze intrecciate. Tuttavia era almeno previsto che i Presidenti potessero, anziché decidere ‘in solitudine’, deferire la decisione a un comitato paritetico di quattro senatori e quattro deputati. Era espressamente previsto quanto rimane implicito nella riforma del 2016, e cioè che ‘la decisione dei presidenti e del comitato non è sindacabile in alcuna sede”.

4.2.I singoli parlamentari. Lo status del parlamentare

La condizione giuridica (status) del singolo parlamentare è circondata da alcune peculiari garanzie, che intendono proteggere l’autonomia e la libertà politica del parlamentare (e, attraverso essa, la libertà del dibattito e del confronto politico intero, la libertà della funzione parlamentare e dunque la pienezza dei processi democratici). I parlamentari infatti, benché eletti nelle liste dei singoli partiti, sono qualificati dalla Costituzione come ‘rappresentanti della Nazione’. Le garanzie dei parlamentari sono comuni a ogni democrazia parlamentare; nel nostro Paese però è innegabile che si siano prestate ad abusi e strumentalizzazioni, che oggi forniscono una facile giustificazione a riforme tendenti a ridurre il ruolo del parlamento e l’autonomia dei parlamentari.

A favore di deputati e senatori la Costituzione repubblicana istituisce la garanzia della insindacabilità e nella garanzia dell’inviolabilità.

2 M. Manetti, in Il Filangieri Quaderno 2012-2013, p. 180

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4.2.1.InsindacabilitàSecondo l’art. 68 Cost. primo comma, i parlamentari non sono responsabili per le opinioni espresse e i voti dati nell’esercizio delle loro funzioni (e, questo, anche successivamente alla cessazione dalla carica).Lo scopo della norma è proteggere la libertà del dibattito politico. La protezione si estende anche al periodo in cui il parlamentare sia cessato dalla carica e ricorre nei limiti del “nesso funzionale” (deve trattarsi di voti e opinioni espresse nello svolgimento di attività proprie del parlamentare). Nel corso del tempo, c’è stata una forte tendenza a attrarre nella sfera dell’immunità anche qualsiasi forma di esercizio dell’attività politica svolta dai componenti delle Camere fuori dal momento in cui svolgono le loro tipiche funzioni (momento che coincide con la partecipazione al lavoro legislativo e politico delle Camere). L’argomento per giustificare questa estensione della sfera dell’immunità era che anche in queste ipotesi ricorre un ‘nesso funzionale’ con le funzioni proprie del parlamentare. Di fronte a casi di parlamentari che, per esempio durante dibattiti televisivi, hanno rilasciato dichiarazioni offensive della reputazione di una terza persona, gli interessati hanno cercato tutela denunciando il parlamentare. Spetta alla Camera di appartenenza stabilire se il comportamento denunciato rientra o non nell’ “esercizio delle funzioni” proprie del parlamentare; e se la Camera ritiene così (l’organo competente è la Giunta per le autorizzazioni, v. sotto), il procedimento giudiziario deve interrompersi. Al giudice rimane però la possibilità di sollevare un conflitto tra poteri dello stato davanti alla Corte costituzionale, se ritiene che la deliberazione della Camera che ha riconosciuto il ricorrere della prerogativa della insindacabilità fosse infondata (e perciò lesiva delle attribuzioni della magistratura). Le Camere hanno ha sempre riconosciuto la sussistenza della insindacabilità anche in casi in cui il nesso funzionale appariva molto dubbio. Chiamata a decidere i conflitti di attribuzione sollevati dai giudici la Corte costituzionale ha precisato che il nesso funzionale sussiste quando le opinioni espresse nella sede ‘esterna’ (es. appunto in televisione) abbiano un contenuto “sostanzialmente identico” a opinioni che il parlamentare ha precedentemente espresso in sede parlamentare (per esempio tramite una interrogazione o una interpellanza). Questo ha portato la Corte costituzionale ad annullare, in più di un caso, la delibera camerale di insindacabilità e a ristabilire una certa possibilità di tutela dei diritti dei terzi offesi dalle “manifestazioni del pensiero” di un parlamentare. (Ma non ha certamente impedito che il parlamentare, sapendosi regolarmente invitato a una trasmissione televisiva, esprimesse certe opinioni in una interpellanza solo allo scopo di ‘coprirsi’ da eventuali azioni giudiziarie promosse da coloro che si sarebbero ritenuti offesi dalle opinioni espresse in sede televisiva.)

4.2.2.InviolabilitàLa garanzia della inviolabilità ha lo scopo di proteggere il parlamentare da interventi dell’autorità giudiziaria che abbiano scopo intimidatorio o persecutorio.Secondo l’originario testo dell’art. 68 secondo comma, l’autorità giudiziaria che intendesse aprire un procedimento penale nei confronti di un parlamentare doveva chiedere l’autorizzazione (autorizzazione a procedere) alla Camera di appartenenza. Nel 1993 questa previsione è stata abrogata e sostituita con una diversa, per cui l’autorità giudiziaria deve chiedere l’autorizzazione alle Camere solo quando intenda procedere, nei confronti del parlamentare inquisito, a particolari tipi di indagini o specifiche misure limitative della libertà personale (perquisizione personale o domiciliare – arresto - intercettazioni in qualsiasi forma di conversazioni e comunicazioni – sequestro di corrispondenza). Per questa sua diversa estensione la prerogativa della inviolabilità, che un tempo era conosciuta come “improcedibilità” oggi è nota come “garanzia dagli arresti”. La garanzia (a differenza della immunità per i voti espressi e le opinioni date nell’esercizio delle funzioni parlamentari) vale solo per il tempo in cui il parlamentare riveste effettivamente la carica. Lo scopo della riforma del ’93 era quello di ridurre l’ambito della protezione dei parlamentari nei confronti del procedimento penale; paradossalmente, però, essa ha sortito l’effetto di ampliarla. Infatti, “prescrivendo la previa autorizzazione delle Camere in caso di perquisizione o intercettazione, o di sequestro della corrispondenza del parlamentare, la nuova normativa finisce per vanificare

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l’utilità di questi procedimenti, la cui efficacia è evidentemente e strettamente legata al fatto che essi vengano adottati all’insaputa dell’interessato”3.

5.I gruppi parlamentari Storicamente, i gruppi parlamentari sono le “proiezioni dei partiti all’interno delle Camere”. Non si tratta di veri e propri organi delle Camere perché i gruppi non svolgono funzioni né adottano atti in nome e per conto delle Camere (non discutono o votano leggi, non votano mozioni ecc.) ; tuttavia, i gruppi sono strutture molto rilevanti nel funzionamento delle Camere; anche la Costituzione li menziona per dire che le commissioni parlamentari deliberanti devono essere composte in modo da rispettare la composizione dei gruppi. Un altro indice dell’importanza dei gruppi nel lavoro parlamentare è che, secondo i regolamenti di Camera e Senato, i presidenti dei gruppi devono essere sentiti dal Presidente d’Assemblea per decidere la programmazione dei lavori parlamentari. L’origine dei gruppi parlamentari è tradizionale: da sempre, dove c’è un Parlamento ci sono i gruppi. I deputati o i senatori eletti sono, ovviamente, stati eletti all’interno di partiti politici che, come singoli o alleati tra loro, si sono presentati alle elezioni. Una volta eletti, dentro la Camera o dentro il Senato, deputati e senatori si raggruppano secondo le loro affinità politiche. I deputati del partito A , che sono poniamo 70, si siedono tutti vicini tra loro e quelli del partito B, che sono poniamo 45, si siedono a loro volta tutti vicini tra loro. Il “gruppo parlamentare” alla Camera del partito A è dato da quei 70 deputati che sono stati eletti nelle liste del partito A e che, dopo la elezione, hanno afferito al gruppo del partito A. L’aula parlamentare è un emiciclo, un semicerchio, e per tradizione si siedono a destra i deputati o senatori di partiti di destra, o conservatori, poi verso il centro quelli più “progressisti” e a sinistra dell’emiciclo le forze di sinistra. I gruppi servono fondamentalmente a mantenere nell’aula parlamentare la “disciplina di partito”. Ogni gruppo ha capogruppo (Presidente del Gruppo parlamentare) che, in occasione delle votazioni e dei vari momenti dei lavori parlamentari comunica a tutti gli altri la linea del partito. Il capogruppo convoca tutti i membri del gruppo, e li convince a votare tutti in un modo o tutti in un altro. Fa parte del “pittoresco” o del “folclore” parlamentare la figura del “peone”. I peones sono i deputati o senatori del gruppo, quelli che votano non secondo quello che pensano, ma secondo quello che viene detto loro di votare. D’altra parte, essi sono stati eletti certamente grazie alle loro qualità personali, ma soprattutto col sostegno del partito che li ha candidati, e che mette in moto, e finanzia, tutta l’organizzazione della campagna elettorale e tutte le attività che ogni candidato deve fare se vuol essere eletto. In cambio, il partito si aspetta una certa fedeltà, che d’altronde è ovvio attendersi (se una persona si è fatta eleggere nelle liste di un certo partito, è presumibile che ne condivida le visioni e gli orientamenti rispetto ai singoli problemi). Il “capogruppo” non è un “peone”: è uno che dà la linea, e che ha una posizione importantissima nel partito. E’ stato spesso notato che un effetto molto negativo della abolizione delle preferenze nel sistema elettorale adottato nel 2005 (e dichiarato incostituzionale nel 2014), è che i deputati e i senatori sanno di dovere la loro elezione (e la loro eventuale rielezione) in tutto e per tutto al partito (perché essa dipende dal fatto che sono messi in lista in una certa posizione) e non agli elettori, che votano la lista e non i candidati. Questa situazione rende gli eletti molto più passivi, remissivi e obbedienti nei confronti del gruppo, dunque del partito. Può vedersi, in questo, un utile rafforzamento della disciplina di partito, ma certamente non si è trattato di ottenere quella “obbedienza nella libertà” (l’unica pregevole, ci ha insegnato Tocqueville), cioè una lealtà che convive nel deputato e nel senatore col senso della propria responsabilità verso la Nazione.

Secondo una proiezione, col sistema elettorale Italicum più del 60% dei deputati alla Camera saranno stati eletti – tra i partiti rappresentati - quali ‘capilista bloccati’, cioè candidati sui quali l’elettore non può esprimere una preferenza ma vengono eletti ‘automaticamente’.

3 V.. in questo senso, tra i molti, P. Carnevale, in F. Modugno (cur.), Lineamenti di diritto pubblico, Torino, 2008.

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5.1.Divieto di mandato imperativo e disciplina di gruppoBisogna ricordare che, secondo la Costituzione, “deputati e senatori rappresentano tutta la nazione, senza vincolo di mandato” (Art. 67 Cost.) Questa espressione esprime un principio caratteristico delle democrazie contemporanee: il divieto di mandato imperativo, intende salvaguardare l’autonomia politica del parlamento. Il divieto di mandato imperativo è funzionale all’idea, su cui la democrazia parlamentare si fonda, che il Parlamento – e non il corpo elettorale - è il luogo in cui si forma la volontà politica della Nazione, in modo libero da ogni condizionamento, nel confronto e nel dibattito tra i parlamentari. Il divieto di mandato imperativo intende assicurare una certa libertà al deputato e senatore rispetto al partito nelle cui liste è stato eletto e al gruppo parlamentare cui appartiene e vuole con questo salvaguardare che l’interesse della Nazione non sia sacrificato all’interesse del partito. Come si conciliano il divieto di mandato imperativo con la disciplina di gruppo? Con questo criterio: che la sorte di un uomo politico come membro di un partito e come membro del Parlamento possono seguire strade diverse. Il deputato o senatore che vota in modo difforme al gruppo di appartenenza può essere invitato a dimettersi e lasciare il gruppo. Risente cioè delle conseguenze della sua “ribellione” per tutto ciò che concerne il rapporto col suo partito, e col suo gruppo parlamentare, ma non ne risente come “eletto”, come deputato o senatore (perché non ha fatto che esercitare la sua “libertà di mandato”) e mentre magari viene radiato dal partito, resta però in Parlamento (salvo che non decida di dimettersi). A quel punto, può aderire a un altro gruppo. Oppure può aderire al “gruppo misto.Nel periodo recente, si è avvertita una decisa tendenza a piegare la organizzazione parlamentare ad una sorta di principio per cui la disciplina di partito dovrebbe pienamente sovrapporsi alla disciplina di gruppo ed esprimersi direttamente come fatto organizzativo e funzionale all’interno del procedimento legislativo. Nella attuale legislatura, parlamentari membri di commissioni che avevano all’esame provvedimenti di iniziativa governativa, e che quei parlamentari non condividevano (pur essendo membri dello stesso partito che esprime il Governo), sono stati sostituiti in Commissione da altri, appartenenti allo stesso gruppo, e più in linea con l’indirizzo politico del Governo, sostituzione che è stata temporanea, cioè durata solo il tempo in cui il provvedimento controverso è rimasto all’esame della Commissione. Sarebbe stato più consono con i principi del diritto parlamentare che i deputati ‘dissenzienti’ fossero stati invitati a lasciare il gruppo, e non la Commissione, perché la disciplina di partito si può esprimere nel e attraverso il gruppo parlamentare, che è proiezione del partito nell’organizzazione e funzionamento della Camera, ma non direttamente nella Commissione, che è organo della Camera. Episodi di questa natura si sono presentati sia nel procedimento di approvazione della legge elettorale ‘Italicum’ sia nel procedimento di approvazione della legge di revisione costituzionale.

5.2.Il gruppo mistoIl “gruppo misto” è composto da tutti quei deputati (o senatori) che dopo essere stati eletti, pur essendo ovviamente stati eletti nelle liste di un partito, poi non aderiscono al gruppo di quel partito, ma, appunto, danno vita a un gruppo di “non schierati”. Si tratta in genere di un gruppo piccolo, che si presta anche alle esigenze di coloro che, come è accaduto a certi grandi intellettuali nel nostro paese, scelgono di farsi eleggere, e perciò si candidano nelle liste di un certo partito, però non vogliono identificarsi troppo con quel partito, perché uomini di partito non sono, hanno un’altra formazione, un’altra storia personale. (Al partito, d’altra parte, può sempre convenire di mettere tra i suoi candidati un premio Nobel o un intellettuale di fama che ogni giorno scrive sui giornali, anche sapendo che poi egli afferirà al gruppo degli indipendenti, perché intanto “porta voti”). Oppure il gruppo misto può servire a contenere quei deputati o senatori che si dissociano dal gruppo di riferimento del loro partito per sopravvenuti contrasti o quelli che sono stati eletti nelle file di un partito, che però ha avuto troppo pochi eletti per formare un gruppo autonomo.

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Secondo il regolamento della Camera, infatti, occorrono almeno venti deputati per formare un gruppo, e secondo il regolamento del Senato, almeno dieci senatori. Riassumendo: i gruppi sono strutture che nel Parlamento fanno funzionare la logica politico-partitica degli schieramenti; non hanno direttamente funzioni nel procedimento legislativo o nelle altre funzioni delle Camere, però indirettamente hanno rilievo sotto numerosi aspetti della organizzazione e funzionamento delle camere: come abbiamo detto, le commissioni parlamentari (v. sotto) devono essere composte in modo proporzionale alla consistenza dei gruppi; inoltre, i presidenti dei gruppi hanno un ruolo importante nella programmazione dei lavori parlamentari.

5.3. Gruppi parlamentari e pratiche trasformistiche vecchie e nuoveNumero e consistenza dei gruppi parlamentari tendono caratteristicamente a cambiare, durante ogni legislatura. La formazione di un nuovo gruppo parlamentare originata dall’abbandono di alcuni deputati o senatori del gruppo o dei gruppi corrispondenti al partito o ai partiti in cui erano stati eletti, può annunciare la nascita di una nuova formazione politica che si presenterà alle elezioni successive (questa costante della nostra storia è una interessante testimonianza di come si ripresenti la figura del partito parlamentare, del partito cioè che nasce all’interno del Parlamento e come risultato di problemi di riequilibrio tra le forze politiche, e non come riflesso di effettivi movimenti sociali). Non sempre però i parlamentari che fuoriescono dal loro gruppo originario e ne formano uno nuovo intendono veramente staccarsi dal partito cui appartengono, e dare vita a una nuova formazione politica. Al contrario, un nuovo gruppo può nascere anche al solo scopo di permettere a un medesimo partito di assumere due comportamenti contrastanti, ritenuti entrambi tatticamente utili: quello dell’opposizione (che sarà esercitata dal tronco originario del gruppo, e, magari, sbandierata davanti all’opinione pubblica per ottenere consenso elettorale) e quello del sostegno al governo (che sarà esercitata dal nuovo gruppo, e garantirà all’intero partito un rapporto di favore con la maggioranza). In ogni caso, la ‘mappa’ dei gruppi parlamentari a fine legislatura non è mai corrispondente a quella che era all’inizio. Il gruppo parlamentare e le sue dinamiche è l’ambito in cui si manifestano nel modo più diretto le pratiche trasformistiche che, sin dall’epoca statutaria, hanno caratterizzato le prassi politico-parlamentari in Italia.

Le garanzie di insindacabilità e inviolabilità sono mantenute nella revisione costituzionale anche a favore dei senatori, sebbene questi ultimi non siano qualificati come rappresentanti della Nazione. Non avendo i senatori questo ruolo, la previsione, anche a loro favore, del divieto di mandato imperativo sembra spiegarsi con la volontà di evitare che si consolidino prassi che vedano il Senato effettivamente responsivo verso gli enti territoriali che lo esprimono.

Il regolamento del nuovo Senato dovrà anche stabilire come si organizzeranno i gruppi parlamentari, ma viene già dato per certo, dagli studiosi, che si tratterà di gruppi di tipo partitico.

6.Le commissioni parlamentari permanenti La Camera dei deputati è composta da più di 600 deputati e il Senato da più di 300. Far lavorare sempre tutte insieme tutte queste persone sarebbe difficile e allungherebbe moltissimo i tempi richiesti per lo svolgimento delle funzioni parlamentari. Perciò, le Camere danno vita a proprie articolazioni interne, dette appunto commissioni (permanenti). Le commissioni parlamentari permanenti sono articolazioni interne della Camera o del Senato, nelle quali si svolge una parte del lavoro legislativo e una parte del lavoro politico della Camera o del Senato. A differenza dei gruppi, le Commissioni sono veri e propri “organi” della Camera

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e del Senato perché svolgono funzioni che sono proprie della Camera e del Senato. Ogni membro del Senato o della Camera è anche membro di una commissione.Le Commissioni si differenziano per competenza, nel senso che sono ciascuna competente per una certa materia: e le “materie” di cui si occupano le Commissioni corrispondono alle ripartizioni delle attività e competenze dello Stato, quali risultano dalla suddivisione dei Ministeri in cui è organizzato il Governo. Così come il Governo ha un Ministro per l’Economia, esiste una Commissione competente sugli Affari Economici; Ministero per la Famiglia, Commissione per la Famiglia, e così via: Affari interni, affari esteri, rapporti con l’Unione europea, Sanità, Lavoro, Istruzione. Inoltre, esistono commissioni che si occupano di materie trasversali, cioè di risvolti o aspetti che ciascuna materia presenta, e sono le Commissioni Affari Costituzionali; Bilancio e Rapporti con l’Unione europea. Per tutti i provvedimenti all’esame delle Camere si presentano aspetti costituzionali (si pone cioè il problema di verificare la loro conformità a Costituzione); e per tutti i provvedimenti all’esame delle Camere si presentano aspetti collegati al bilancio. Il bilancio è il conto annuale delle spese e delle entrate dello stato: per ogni provvedimento si pone il problema della sua ricaduta sul bilancio (e precisamente dei suoi costi, dei fondi con cui coprire le spese che ne deriveranno ecc.). Infine, per tutti i provvedimenti all’esame delle Camere si presentano aspetti relativi alla loro conformità al diritto europeo (a tenore dell’art. 117 Cost. infatti la funzione legislativa è esercitata nel rispetto “dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario”). Le Commissioni Affari Costituzionali, Bilancio e Rapporti con l’Unione europea esaminano tutti i provvedimenti di cui la Camera o il Senato sono investiti, dal punto di vista della loro conformità a Costituzione, regolarità rispetto al bilancio, conformità all’ordinamento comunitario. Esse sono dette perciò anche commissioni “filtro”, perché ogni provvedimento non può procedere se non supera l’esame in queste commissioni. Le commissioni vengono composte in proporzione alla consistenza dei gruppi parlamentari, in modo che tendenzialmente rispecchino la composizione dell’assemblea di appartenenza (cioè della Camera o del Cenato). Supponiamo che la Camera abbia 100 deputati, di cui 40, cioè il 40% sono il gruppo dei A, 30, il 30% il gruppo B, 20, cioè il 20% il gruppo C e 10, il 10% il gruppo D, per comporre le commissioni, che supponiamo composte da 10 deputati ciascuna, dovranno essere inseriti 4 membri del gruppo A, 3 del gruppo B, 2 del gruppo C e 1 del gruppo D, così la commissione rispecchia, in piccolo, la composizione dell’assemblea. Da notare che questo, in cui rappresentano il punto di riferimento numerico o quantitativo per la composizione delle commissioni, è uno dei momenti in cui i gruppi assumono una certa indiretta rilevanza nella organizzazione e funzionamento delle Camere. E’ grazie al fatto che la commissione riproduce lo stesso rapporto maggioranza-opposizione che c’è in assemblea, che è possibile spostare in commissione, come vedremo, lo svolgimento di compiti dell’assemblea. Bisogna anche dire, però, che questo rispecchiamento è tendenziale, perché i numeri possono, di fatto, renderlo non sempre possibile. Nel nostro esempio, siccome le Commissioni sono un numero superiore a 10, il gruppo D non potrà avere un proprio rappresentante in ogni Commissione. Poiché ogni deputato o senatore è contemporaneamente membro dell’assemblea e membro di una commissione, assemblea e commissioni devono lavorare in giorni diversi. Infatti alla Camera e al Senato ci sono giorni della settimana dedicati al lavoro “in Aula” (cioè in assemblea, tutti riuniti) e altri dedicati al lavoro in Commissione.Bisogna ricordare che le commissioni svolgono le stesse attività dell’’assemblea: lavoro legislativo e lavoro politico (che descriveremo più avanti).

7. Le Giunte parlamentari

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Oltre alle Commissioni permanenti, sono organi delle Camere le Giunte. Le Giunte sono organi collegiali che esercitano funzioni diverse da quelle attinenti al lavoro legislativo e al lavoro politico delle Camere, e precisamente: a) si occupano della redazione e delle modifiche dei regolamenti parlamentari (Giunta per il regolamento); b) verificano l’esistenza di cause di ineleggibilità, incompatibilità, e la sussistenza delle condizioni richieste per le garanzie di status dei parlamentari, immunità e improcedibilità (Giunta per le autorizzazioni a procedere).

8.Le Commissioni bicamerali e le Commissioni temporaneeLe commissioni permanenti sono organi necessari al lavoro delle Camere ed esistono in ogni legislatura. Le camere possono, però, anche dare vita, con legge o con altro atto, a commissioni temporanee, incaricate di approfondire, studiare un certo problema, anche ricorrendo a audizioni con esperti. Per esempio, in vista di una riforma importante, si può nominare una commissione di studio che indaghi preliminarmente i vari aspetti, vantaggi e svantaggi della riforma, i suggerimenti di coloro che, per lavoro o per studio, quotidianamente si misurano con quella certa materia. Ciascuna Camera ha le sue commissioni, ma esistono anche commissioni bicamerali, composte cioè da rappresentanti di entrambe le Camere, e che possono essere istituite per legge. E’ il caso della Commissione di vigilanza sui servizi radiotelevisivi e del Comitato per i servizi di sicurezza; la prima vigila sul pluralismo dell’informazione nel servizio televisivo pubblico, la seconda conosce l’andamento dei servizi di informazione e sicurezza dello stato. Come le giunte, le commissioni bicamerali e temporanee non hanno un ruolo nel procedimento legislativo e nel lavoro politico ordinario delle Camere.

La struttura interna del nuovo Senato sarà stabilita dal suo nuovo regolamento; in materia di inchieste parlamentari l’art. 82 nel testo riformato prevede che la Camera dei deputati può disporre inchieste su materie ‘di pubblico interesse’ e il Senato ‘ su materie di pubblico interesse concernenti le autonomie territoriali’; allo scopo ciascuna Camera nomina tra i propri componenti una Commissione, che, come già oggi avviene per le commissioni parlamentari di inchiesta, ‘procede alle indagini con gli stessi poteri e le stesse limitazioni dell’autorità giudiziaria”, ma a solo per la Camera dei deputati è previsto che essa debba essere formata in modo da rispecchiare la proporzione dei vari gruppi.

9.Principi del funzionamento del Parlamento: La programmazione dei lavori Come siamo venuti dicendo, ciascuna delle due Camere lavora dividendo il proprio carico tra l’assemblea e le commissioni e poi dividendo il tempo di lavoro tra lavoro legislativo e lavoro politico. Il lavoro in assemblea e in commissione e il lavoro politico e quello legislativo – oltre alle riunioni delle giunte e delle commissioni temporanee e bicamerali – sono distribuiti nei giorni della settimana e nelle parti della giornata secondo una programmazione, cioè una calendarizzazione. La programmazione divide i giorni di lavoro e i tipi di attività (politica e legislativa) tra assemblea e commissione e, su base annuale, mensile e settimanale, distribuisce i provvedimenti da esaminare e votare. Su base annuale si sa che certi periodi dell’anno sono dedicati all’esame della legge di bilancio e della legge di stabilità, e di altre leggi che vengono approvate tutti gli anni, come la legge europea, dedicata al recepimento delle direttive comunitarie. Dunque, nel calendario annuale si riservano per ciascuna di queste attività due, tre o quattro settimane; poi, su base mensile e settimanale, si stabilisce quando sarà esaminati i singoli progetti o disegni di legge che vertono su altre e disparate materie (per es. il tale progetto in materia di scuola o il tale progetto in materia di trasporti).

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La programmazione dei lavori è un atto di importantissima natura politica perché definisce le priorità: se oggi sono presentati alle camere dieci progetti di legge, cinque del Governo e cinque di iniziativa parlamentare, su dieci materie diverse, si deve decidere se mandarli in commissione referente, redigente o deliberante e poi come scadenzare la loro votazione in assemblea; si darà in genere la precedenza ai progetti del Governo, e poi si stabilirà quali degli altri sono più o meno urgenti. La programmazione viene fatta, a determinate scadenze temporali, dal presidente d’Assemblea sentiti i presidenti delle Commissioni e i presidenti dei gruppi parlamentari (cd. Conferenza dei capigruppo). La presenza dei gruppi in conferenza assicura alle diverse forze politiche, ciascuna interessata in maniera diversa alla sorte dei vari provvedimenti, di pesare sulla loro calendarizzazione. Il presidente del gruppo parlamentare A, di minoranza, insisterà perché i progetti di legge presentati dalla minoranza non siano messi troppo indietro in calendario, altri vorranno invece il contrario, si discute e alla fine si forma il calendario. Alla conferenza dei capigruppo partecipa il Governo (generalmente tramite il Ministro per i rapporti col Parlamento).La programmazione dei lavori rappresenta un nodo assolutamente cruciale nel complesso equilibrio tra autonomia delle Camere e ruolo del Governo nell’indirizzo politico. E’ il momento del ‘raccordo’ tra attività delle Camere e indirizzo politico del Governo. Già il regolamento della Camera dei deputati del Regno faceva riferimento, agli ‘opportuni concerti’ tra presidente della Camera e Ministri. Il fascismo, nel 1925, introdusse invece il principio del necessario assenso del Governo per poter inserire qualunque argomento all’ordine del giorno delle Camere. Quel momento, che annientò la autonomia parlamentare nel porre nel nulla la capacità del Parlamento di programmare i propri lavori, viene ricordato come ‘il momento dell’impossessamento, da parte del Regime, di uno dei gangli costituzionali vitali dello Stato’4. All’estremo opposto si situano i casi in cui il potere di programmazione delle Camere è attribuito in tutto e per tutto alle Camere stesse, e in particolare ai loro Presidenti, in piena ‘autonomia’ dal Governo. Queste ipotesi ricorrono nelle forme di governo dualiste, come quella presidenziale americana, ma non sono ammissibili nelle forme parlamentari, che presumono una collaborazione tra parlamento e governo nell’indirizzo politico. Nel nostro sistema d’epoca repubblicana, il punto di equilibrio è stato trovato, come detto sopra, prevedendo che la programmazione è sì decisa dal presidente, ma in sede di conferenza dei capigruppo e con la partecipazione di un rappresentante del Governo. Fino agli anni ’90, nel caso in cui in conferenza non si raggiungesse l’unanimità sulla programmazione, la decisione veniva rimessa all’Aula, cioè alla Camera, e, questo, per garantire le opposizioni. Con i regolamenti dei primi anni ’90 è stato introdotto un importante cambiamento, ossia che quando in Conferenza non si raggiunge l’unanimità sulla programmazione, il calendario e l’ordine del giorno sono approvati dal solo Presidente senza rimessione all’aula. E’ nata così quella che la dottrina chiama una programmazione puramente presidenziale, che esalta il ruolo del presidente d’Assemblea e l’importanza di avere, in quel luogo, un esponente della maggioranza o comunque che esibisca sensibilità alle esigenze della maggioranza.

Una importante incidenza del Governo sulla programmazione dei lavori nelle Camere, ulteriore a quella già importante che i regolamenti attuali garantiscono all’Esecutivo è rappresentata dalla previsione, nella riforma del 2016, della cd legge prioritaria, previsto al comma 5 del nuovo art. 72. “Esclusi i casi di cui all’art. 70 primo comma [leggi costituzionali e leggi bicamerali] e le leggi di cui agli art 79 e 81 sesto comma [leggi di amnistia e indulto, e legge sui contenuti della legge di bilancio], il Governo può chiedere alla Camera dei deputati di deliberare, entro cinque giorni dalla richiesta, che un disegno di legge indicato come essenziale per l’attuazione del programma di governo sia iscritto con priorità all’ordine del giorno e sottoposto alla pronuncia della Camera dei deputati entro il termine di settanta giorni dalla deliberazione. In tali casi i termini di cui all’art. 70, terzo comma [tempi per l’espressione del parere del Senato] sono ridotti della metà [15 gg.]. “

4 Così E. Gianfrancesco, in Il Filangieri, Quaderno 2012-2013, p. 218.

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10.Il lavoro politico delle Camere: l’attività di indirizzo e controllo sul Governo

Premessa: le maggioranze in ParlamentoAffinché una votazione in Parlamento sia valida, occorre che sia presente il numero legale, ossia che sia presente la maggioranza assoluta, vale a dire la metà più uno dei componenti di ciascuna Camera. Il numero legale è presunto, ma ciascun deputato o senatore può fare richiesta che venga verificato prima di procedere a una votazione.Le maggioranze di voto sono: maggioranza semplice, che corrisponde al 50%+1 dei presenti alla votazione. La maggioranza semplice è quella su cui si svolge la vita politica quotidiana, si votano le leggi, la fiducia al Governo, ecc. (Fatta base 100, presente il numero legale di 51, la maggioranza è 26).Maggioranza assoluta: 50%+1 degli aventi diritto al voto (fatta base 100, presente il numero legale di 60, la maggioranza è 51).Maggioranza qualificata: ogni maggioranza superiore alla maggioranza assoluta.

Lavoro politicoIl lavoro politico delle Camere consiste in una continua attività di controllo e indirizzo del Parlamento nei confronti del Governo, attraverso la quale si svolge il ‘rapporto fiduciario’ tra Parlamento e Governo. Come sappiamo, il perno della forma di governo parlamentare è che tra Parlamento e Governo esiste un nesso fiduciario per cui il Governo può esercitare le sue funzioni a condizione di avere la fiducia delle Camere e deve dimettersi quando perde questa fiducia. La fiducia iniziale delle Camere sul Governo, le persone che lo compongono e il programma che intende perseguire è espressa in una mozione di fiducia, che è un atto con cui appunto ciascuna delle due Camere esprime la propria fiducia al Governo, atto che viene approvato dalla maggioranza semplice. La fiducia al Governo implica: approvazione del programma di governo e impegno a sostenerlo, approvazione delle persone che compongono il Governo, come idonee a rivestire il ministero loro assegnato.Quando le Camere intendono revocare la propria fiducia al governo devono, secondo la Costituzione, votare una mozione contraria, che si chiama mozione di sfiducia. La mozione di sfiducia deve essere proposta da almeno un decimo dei componenti di ciascuna Camera, e deve essere messa ai voti non prima di tre giorni dalla sua presentazione. Questo è per dare un certo tempo al Governo in carica di cercare di fare in modo che la mozione venga respinta, cosa che il Governo farà cercando di convincere tutti i deputati e senatori che originariamente gli avevano votato la fiducia, a non votare per la sfiducia.La necessità di motivazione significa che non si può mettere ai voti la semplice dichiarazione di dare (o revocare) la fiducia al Governo, ma anche le ragioni per le quali questo voto viene espresso. Il voto per appello nominale è una forma di voto palese. Il voto palese può essere espresso o “per alzata di mano” o, appunto, “per appello nominale”. In questo caso ogni deputato e senatore viene chiamato per nome e deve dichiarare la sua volontà di voto. I regolamenti prevedono anche ipotesi di voto segreto (in cui non si può risalire all’identità di chi ha votato in un senso o in un altro), ma in un numero molto ristretto di casi, che generalmente corrispondono alle votazioni su materie relative a diritti fondamentali, in cui problemi di coscienza che possono portare un deputato o senatore a dissociarsi dalla linea del suo gruppo e ad avere interesse a vedere coperta da riservatezza la sua scelta sono giustificabili. La limitazione dei casi in cui è possibile ricorrere al voto segreto (un tempo molto numerosi) è stata una importante tappa della lunga partita che, nel corso degli ultimi trent’anni, ha garantito alla maggioranza di Governo il controllo sui lavori parlamentari.L’appello nominale serve a responsabilizzare i singoli parlamentari nei confronti dei Governo e dell’opinione pubblica, che conosce chi ha voluto sostenere il Governo e chi no, e può giudicare

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anche la coerenza dei singoli deputati o senatori, in particolare, con riferimento alla fiducia iniziale, se essi nel prosieguo delle loro attività parlamentari saranno coerenti o meno con il voto espresso al momento della fiducia. La mozione di fiducia e la mozione di sfiducia sono i due atti fondamentali attraverso i quali si svolge il rapporto fiduciario. Ad essi se ne aggiunge un terzo, che non è un atto preso a iniziativa delle camere, ma un atto preso a iniziativa del governo, non previsto dalla Costituzione, ma nato nella prassi, e che si chiama questione di fiducia. La questione di fiducia ricorre quanto il Governo, in vista della votazione di un disegno di legge alla cui approvazione tiene molto, e quando ha però qualche motivo di temere che le Camere non lo approvino, dichiara che considererà l’eventuale rigetto del provvedimento come una manifestazione di sfiducia delle camere e si dimetterà. Questa sorta di minaccia tende ad ottenere l’effetto di sollecitare i deputati e i senatori che appartengono ai gruppi parlamentari corrispondenti ai partiti che sostengono il Governo di votare nel senso voluto da quest’ultimo, perché altrimenti si rischia la crisi di governo e, in prospettiva, lo scioglimento delle Camere e nuove elezioni. La mozione di fiducia, la mozione di sfiducia, e la questione di fiducia possono essere votate solo in Assemblea, dal plenum della Camera o del Senato, non possono essere votate in Commissione: sono gli atti di indirizzo e controllo riservati all’Assemblea.Tra il momento iniziale (mozione di fiducia) e il momento finale (mozione di sfiducia) della vita del governo si svolge tra quest’ultimo e le camere un rapporto di indirizzo e controllo continuo che serve a permettere alle camere di conoscere ciò che il governo fa, di chiedergli spiegazioni, di indirizzargli suggerimenti, consigli o indicazioni; attraverso questo rapporto, in altri termini, le Camere, in modo continuativo, indirizzano e controllano il governo.Gli atti caratteristici di questa funzione delle Camere sono le interrogazioni, le interpellanze, le mozioni e gli ordini del giorno.Con le interrogazioni e le interpellanze uno o più deputati possono chiedere, oralmente o per iscritto, a un ministro o a tutto il Governo informazioni e chiarimenti su un fatto accaduto, sui motivi di quel fatto, sul comportamento che il governo intende tenere al riguardo. Il Governo è tenuto a rispondere. La mozione è una dichiarazione di volontà che le Camere votano e nel quale possono esprimere approvazione, disapprovazione, soddisfazione, scontento verso il Governo o raccomandargli di fare o non fare certe cose. Per esempio, dopo la risposta che il Governo ha dato su una interrogazione o interpellanza, può essere votata una mozione che esprime l’insoddisfazione delle Camere per la risposta ricevuta.L’ordine del giorno è una dichiarazione di volontà che di solito viene votata in accompagnamento a una legge approvata dalle Camere e che serve a raccomandare al Governo di, per esempio, procedere rapidamente all’esecuzione di quella legge.

Interpellanze, interrogazioni, mozioni e ordini del giorno possono essere discussi e votati sia in assemblea che in Commissione.

Si noti che si parla di ordine del giorno in due significati distinti: come calendario delle votazioni e delle attività di una singola giornata; come atto di indirizzo e controllo.

Nella riforma del 2016 è previsto che, poiché la relazione fiduciaria sarà riservata alla Camera dei deputati, ogni atto di indirizzo (mozione di fiducia, di sfiducia, e questione di fiducia) potrà essere votato solo in questa Camera. Piuttosto ambiguo e problematico è invece il tema del controllo. Finora si è sempre pensato che ‘indirizzo e controllo’ fossero due facce di una stessa medaglia; mentre con la riforma costituzionale il Senato manterrà le funzioni di controllo, pur non avendo funzioni di indirizzo. Questo, come dicevamo in precedenza, può spiegarsi, sfortunatamente, solo con la limitazione che l’indirizzo politico (quale espressione della sovranità popolare) subisce nel quadro della ‘costituzione’ riformata,

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la quale prende atto che moltissime materie sono oggi sottratte all’indirizzo politico nazionale, risalente alla sovranità popolare, e sono state trasferite al circuito decisionale che fa capo all’Unione europea, e agli occhi del quale è molto più importante il controllo (del rispetto delle decisioni prese in Europa) che non l’indirizzo.

11. Il lavoro legislativo delle Camere: il procedimento di approvazione delle leggi ordinarie Il “lavoro legislativo” delle Camere consiste nell’esame e nella deliberazione dei progetti di legge ordinaria, costituzionale e di revisione costituzionale. Abbiamo già descritto in altro capitolo il procedimento di approvazione delle leggi costituzionali e di revisione costituzionale, ora descriveremo il procedimento di formazione della legge ordinaria.L’approvazione di una legge segue un iter, un procedimento, che è composto di diverse fasi:

1. Iniziativa: un progetto di legge viene presentato alla Camera o al Senato; Il potere di iniziativa spetta: al Governo e a ciascun deputato o senatore; inoltre, progetti di legge possono essere presentati dai consigli regionali. Il corpo elettorale può esercitare la iniziativa legislativa tramite la presentazione di una proposta sottoscritta da almeno cinquecentomila elettori (v. art. 71 della Costituzione).

2. Esame: il progetto di legge viene discusso, vengono proposte e votate le proposte di modifica (emendamenti);

3. Votazione o Deliberazione: il testo del progetto di legge viene votato; se raggiunge la maggioranza richiesta (normalmente la maggioranza semplice) lo si considera approvato. Il testo così approvato da una delle Camere viene trasmesso all’altra, che a sua volta lo esamina e lo vota. Il testo passa da una Camera all’altra finché non viene approvato da entrambe nello stesso testo. A questo punto viene trasmesso al Presidente della Repubblica per la

4. Promulgazione, che è l’atto formale con cui il Presidente della Repubblica, preso atto che l’atto è stato votato dalle due Camere, dichiara che esso è una legge dello stato e ne ordina la

5. Pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica. La pubblicazione in Gazzetta serve a rendere l’atto noto a tutti; le leggi entrano normalmente in vigore dopo 15 giorni dalla pubblicazione in gazzetta, ma eccezionalmente possono entrare in vigore il giorno stesso della pubblicazione (questo viene detto, in caso, nella legge stessa), ma nessuna legge può entrare in vigore senza pubblicazione, dunque la pubblicazione viene considerata un atto integrativo dell’efficacia della legge, nel senso che è un atto necessario perché la legge acquisti la sua piena efficacia.

Nella riforma costituzionale del 2015 i singoli senatori perdono il potere di iniziativa legislativa, che può invece essere esercitato dall’organo nel suo complesso con la richiesta alla Camera, adottata con ‘deliberazione adottata a maggioranza assoluta dei suoi componenti’ di procedere all’esame di un disegno di legge. In tal caso ‘la Camera procede all’esame e si pronuncia entro il termine di sei mesi dalla data della deliberazione del Senato della Repubblica” (art. 71 nel testo riformato).

Il numero degli elettori firmatari necessario per presentare un disegno di legge di iniziativa popolare sale, dagli attuali cinquantamila, a centocinquantamila. E’ rimesso ai regolamenti delle due Camere ‘garantire tempi forme e limiti’ delle proposte di legge di iniziativa popolare.

Il Governo, già titolare esclusivo del potere di iniziativa per le leggi di bilancio, acquista un nuovo potere riservato di iniziativa legislativa, che è quello di proporre alle Camere la cd. legge di supremazia, ossia la legge dello Stato che interviene in materie non riservate alla

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legislazione statale (ossia spettanti alle Regioni) “quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale” (art. 117 nel testo riformato, comma 3).

Incide sul potere di iniziativa anche la nuova figura della legge c.d. prioritaria , da noi già ricordata, in base alla quale ‘il Governo può chiedere alla Camera dei deputati di deliberare, entro cinque giorni dalla richiesta, che un disegno di legge indicato come essenziale per l’attuazione del programma di governo sia iscritto con priorità all’ordine del giorno e sottoposto alla pronuncia in via definitiva della Camera dei deputati entro il termine di settanta giorni dalla deliberazione.” Si tratta di un caso di iniziativa legislativa ‘rafforzata’ perché il disegno di legge governativo prende in questi casi la precedenza nei lavori delle Camere.

11.1. Il ruolo delle commissioni nel procedimento legislativo

La fase dell’esame e della votazione non avvengono necessariamente e per intero in assemblea, nel plenum; normalmente si svolgono in parte in commissione e in parte in assemblea e qualche volta possono avvenire solo in commissione.

Nel procedimento di formazione della legge le commissioni possono infatti svolgere uno di questi tre ruoli:

- Referente (commissione in sede referente). Dopo avere ricevuto il progetto di legge, il Presidente della Camera (o del Senato) lo assegna alla commissione competente per materia (per esempio: se il progetto di legge è in materia di salute, alla commissione salute) per l’esame in sede referente e alle tre commissioni “filtro”.Quando le viene attribuito il ruolo referente, la commissione competente per materia deve solo esaminare il progetto e preparare una relazione nella quale ne illustra le caratteristiche ed esprime un proprio parere; fatto questo, la commissione restituisce il progetto alla Camera (o al Senato) e tutto il resto dell’esame e della votazione avviene in assemblea, alla quale riferiscono anche le tre commissioni filtro, le quali diranno per esempio: questo progetto di legge presenta dei problemi di costituzionalità, che potrebbero essere risolti introducendo questa e questa modifica; non presenta (oppure presenta) problemi con riferimento al bilancio dello stato, e se sì, quali; presenta (oppure non presenta) problemi di conformità con l’ordinamento comunitario. Da questo punto in poi, entra in scena l’assemblea, dove si svolge l’esame e la votazione dei singoli articoli e dell’intero testo. Questa è la procedura normale di approvazione delle leggi.

- Redigente (commissione in sede redigente). Dopo avere ricevuto il progetto di legge, il Presidente della Camera (o del Senato) lo assegna prima all’assemblea che lo discute nelle linee generali, dopo il testo viene trasmesso alla commissione competente per materia (per esempio: se il progetto di legge è in materia di salute, alla commissione salute) per l’esame in sede redigente. In questo caso la commissione ha il compito di redigere e approvare i singoli articoli poi il testo torna in assemblea per venire votato nel suo insieme. Nella sua attività di redazione dei singoli articoli la commissione discute, vota sulle varie proposte di modifica presentate dai suoi membri finché perviene alla redazione di un testo redatto in articoli (un “articolato”) che viene approvato dalla maggioranza della commissione. Quando il testo torna in assemblea quest’ultima vota il testo che le viene trasmesso dalla commissione, senza possibilità di introdurre ulteriori emendamenti. Quando si adotta il procedimento con commissione in sede redigente, le tre commissioni filtro danno il loro parere alla Commissione competente per materia.

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- Deliberante (commissione in sede deliberante o “legislativa”). Dopo avere ricevuto il progetto di legge, il presidente della Camera (o del Senato) lo assegna prima all’assemblea che lo discute nelle linee generali, poi il testo viene trasmesso alla commissione competente per materia per l’esame e l’approvazione in sede deliberante. In questa ipotesi tutta la vicenda della proposta di legge (esame, discussione, votazione dei singoli articoli e del testo finale) avviene in commissione, cioè non è l’assemblea che alla fine vota il testo definitivo ma la votazione definitiva avviene in commissione. A certe condizioni (se lo chiedono il Governo, o un decimo dei componenti della Camera o un quinto dei membri della Commissione) si può in ogni momento chiedere il ritorno alla procedura normale, con la restituzione all’assemblea del potere di approvare o meno la proposta. Anche quando si adotta il procedimento con commissione in sede deliberante, le tre commissioni filtro danno il loro parere alla Commissione competente per materia.

11.2.Riserva di assemblea

Non è ammesso il procedimento in commissione deliberante e redigente per i disegni di legge in materia costituzionale ed elettorale e per quelli di delegazione legislativa, di autorizzazione alla ratifica di trattati internazionale di approvazione di bilanci e consuntivi. In questi casi, dispone l’art. 72 ult.co. Cost., è necessaria la procedura normale di esame e approvazione, quella che prevede la commissione referente. Si dice pertanto che le leggi nelle materie elencate nell’art. 72 ult.co. sono sottoposte a una riserva di assemblea (devono essere votate articolo per articolo e nel testo finale in assemblea).

La riserva di assemblea è mantenuta nella legge di riforma della Costituzione, che aggiunge il caso delle leggi di conversione del decreti legge.

Le commissioni permanenti possono anche essere chiamate a svolgere una funzione consultiva, cioè a esprimere pareri, su determinati atti del governo.

11.3.L’ordine del votoVa ricordato che la regola generale dei lavori parlamentari è che nell’esame di una legge prima si discutono e votano i singoli articoli, poi il testo finale. La discussione e votazione dei singoli articoli include la discussione e votazione degli emendamenti, che si fa partendo dagli emendamenti il cui contenuto è più lontano e contrastante con quello della disposizione cui si riferiscono (si comincia infatti dagli emendamenti ‘soppressivi’) per venire via via a quelli che contengono modifiche meno incisive.La discussione degli emendamenti avviene normalmente in Commissione, ma può essere riproposta anche in Assemblea.

11.4.Il procedimento legislativo come mera ‘ratifica’ delle decisioni del GovernoIn tema di procedimento legislativo, è importante ricordare che, benché secondo la nostra Costituzione l’iniziativa delle leggi spetti (anche) ai singoli parlamentari, gli attuali regolamenti non garantiscono tempi certi per la messa in discussione dei disegni di legge presentati dall’opposizione, li lasciano emendabili a tutto campo dalla maggioranza che può arrivare a stravolgerli e portare in votazione quei provvedimenti in un senso del tutto diverso da come l’opposizione li aveva redatti, e che vede poi l’opposizione, pertanto, non votarli più. Si tratta di un aspetto che può spiegare la ‘crisi della legge’, la sfiducia nel procedimento legislativo che non appare più un ‘bene’ meritevole di difesa neppure da parte delle opposizioni (E. Gianfrancesco, op. cit., p. 236). Sulla discussione dei disegni di legge di maggioranza è previsto invece, dagli attuali regolamenti di Camera e Senato, il ‘contingentamento’ dei tempi di discussione e una attenta selezione degli

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emendamenti che possono essere posti in discussione, compresa la tecnica, sopra citata, del ‘canguro’. Sebbene un certo favore per gli atti di iniziativa del Governo sia normale nel procedimento legislativo di una democrazia parlamentare, è difficile considerare fisiologico l’ annullamento pressoché completo dei poteri dell’opposizione.

11.5. (continua) La crisi della legge come crisi della procedura parlamentareSi deve anche notare che, oggi, il procedimento legislativo viene usato quasi esclusivamente per l’esame di disegni di legge del Governo e in particolare per l’esame di disegni di legge di conversione dei decreti legge e di disegni di legge in materia finanziaria (che sono sempre più spesso, a loro volta, disegni legge di conversione di decreti legge perché, a partire dal 2008, il ricorso da parte del Governo a decreti legge in materia finanziaria e di bilancio è divenuto normale). Sulla conversione dei decreti legge il Governo pone ritualmente la questione di fiducia accompagnata da un maxi-emendamento che riassume il testo del decreto per come il Governo vuol farlo approvare (facendo cadere ogni altro emendamento). L’ammissibilità sia della questione di fiducia che del maxi-emendamento è decisa dal Presidente d’Assemblea, e questa decisione “costituisce l’unico e ultimo freno parlamentare rispetto alla approvazione di un testo legislativo la cui formazione è in genere rimessa al presentatore del maxi-emendamento e cioè al Governo”.5 In sostanza, nel procedimento legislativo utilizzato per la conversione dei decreti legge, tutto il ruolo giocato dall’Assemblea legislativa si riduce attualmente alla decisione del suo Presidente di autorizzare il Governo a porre la fiducia su un suo maxi-emendamento. Si noti che la Costituzione, all’art. 72, prevede che le leggi devono essere votate ‘articolo per articolo’, mentre il maxi emendamento è un voto unico su un articolato anche enorme. Secondo molti autori, ‘agevolando, o, almeno non adeguatamente ostacolando, il ricorso alla posizione della questione di fiducia su maxi-emendamenti’ i Presidenti d’assemblea hanno dunque agevolato la costruzione di una prassi in ‘palese violazione dell’art. 72 Cost.”.6

Nonostante, infatti, nel corso del tempo il Governo abbia ottenuto norme procedimentali sempre più favorevoli (cioè: che danno priorità ai provvedimenti a iniziativa governativa nell’esame delle Camere; che hanno ridotto, sino a eliminarlo, il voto segreto, occasione di ‘tradimenti’ e voti incrociati; che hanno ridotto le possibilità per le opposizioni di rallentare o ostacolare l’esame dei provvedimenti della maggioranza) il Governo non ha mai abbandonato, ma anzi ha rafforzato, una sua tendenza a portare avanti il suo indirizzo politico non con le leggi ordinarie, che ne sarebbero lo strumento naturale, ma con i decreti legge. Le modifiche al regolamento dell’organo legislativo, cioè del Parlamento, sono andate sempre a favore dell’esercizio del Governo dei suoi poteri normativi. Per questo oggi si dice senza mezzi termini che le Camere hanno ormai solo il ruolo di ‘ratificare’ le decisioni del Governo: questo adotta i decreti, li presenta alle Camere per la conversione, i tempi della discussione sono ‘contingentati’ ed ogni eventuale modifica che le Camere facciano al decreto può essere fatta cadere dal Governo presentando una ‘questione di fiducia’ che li fa decadere e fa equivalere l’approvazione del decreto a una conferma della fiducia al governo (ovvero fa equivalere una eventuale bocciatura del decreto a una mozione di sfiducia contro il Governo). Le Camere hanno favorito recentemente in modo ulteriore questo processo introducendo l’istituto cd. della ‘ghigliottina’, una decisione del Presidente dell’Assemblea che impedisce la discussione degli emendamenti che prolungherebbero ‘troppo’ la discussione parlamentare.

Secondo la legge di riforma costituzionale del 2016, quando il Governo presenta una iniziativa di legge ordinaria, può chiedere e ottenere che il parlamento voti entro 70 giorni, il che significa eliminare, all’atto pratico, la possibilità che il Parlamento introduca modifiche (la formulazione del

5 N. Lupo, in Quaderni del Filangieri 2012-2013, p. 195.

6 N. Lupo, op. cit., p. 196.

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nuovo testo dell’art. 70, prevendendo che il Governo chiederà che la Camera ‘si pronunci in via definitiva’, può lasciare adito a interpretazioni secondo le quali la Camera può soltanto accettare o respingere il testo predisposto dal Governo). Con la legge prioritaria una legge ordinaria verrebbe approvata con lo stesso procedimento che oggi si è instaurato per i decreti legge, e che, come abbiamo detto, si riduce a una decisione del Presidente d’assemblea di votare sulla proposta del Governo tal quale è stata presentata. Il Governo entra nell’esercizio della funzione legislativa come un co-titolare.Un meccanismo simile alla legge prioritaria, non tanto sotto il profilo del contingentamento dei tempi, quanto sotto il profilo della ‘confusione’ a livello di titolarità della funzione legislativa figura della legge prioritaria era già previsto nella riforma costituzionale approvata dal Governo Berlusconi nel 2005 e respinta dal referendum costituzionale del 2006, dove si prevedeva che se, a giudizio del Governo, dovessero essere apportate modifiche ‘essenziali per l’attuazione del suo programma’ a un progetto di legge sottoposto all’esame del ‘Senato federale’ (che la riforma introduceva), il Presidente della repubblica, verificati i presupposti costituzionali, poteva autorizzare il Primo ministro a esporre le sue motivazioni al Senato, e, se le modifiche proposte dal Governo non venivano accolte entro 30 giorni, il disegno di legge veniva trasmesso alla Camera che decideva in via definitiva a maggioranza assoluta sulle modifiche proposte.

11.6. Approvazione della legge con strappo alla Costituzione. Il caso dell’Italicum (rinvio)I problemi della procedura parlamentare corrispondono ad altrettanti problemi politici e risalgono al carattere non coeso della maggioranza: il Governo non ha una maggioranza solida perché anche all’interno dello stesso partito di maggioranza vi sono visioni molto diverse. Non riuscendo a creare un reale consenso intorno alle sue iniziative, il Governo cerca di ottenerne l’approvazione forzando le procedure parlamentari. Recentemente – nel corso del procedimento di approvazione della legge elettorale per la Camera dei Deputati ‘Italicum’ – si è manifestato un nuovo metodo di forzatura della procedura parlamentare per aggirare le difficoltà politiche (del partito di maggioranza e quindi del) Governo. Poiché l’Italicum non riusciva a trovare in commissione referente un consenso sufficiente, il Governo ha ottenuto dal Presidente d’Assemblea che il progetto fosse portato in Aula senza l’accompagnamento della relazione della Commissione (nonostante l’art. 72 della Costituzione imponga l’adozione della procedura normale, con esame in sede referente, in caso di leggi elettorali). Poi, anziché mettere il testo in votazione secondo l’ordine normale (e costituzionalmente prescritto: è la Costituzione che stabilisce che ogni disegno di legge deve essere approvato articolo per articolo e con votazione finale), è stato messo ai voti un ‘emendamento’ presentato dal gruppo parlamentare di maggioranza, che riassumeva il contenuto dell’intera legge (cd. Emendamento Esposito, dal nome del primo presentatore). Come ha osservato il costituzionalista Gaetano Azzariti, la ratio della disposizione costituzionale che impone prima di votare articolo per articolo e poi di votare il testo finale è stata ribaltata: “si è imposta anzitutto una sorta di ‘votazione finale’ per poi obbligare i nostri parlamentari ad adeguarsi nelle successive votazioni articolo per articolo. Contro ogni tecnica di buona legislazione si è fatta premettere alla legge una disposizione (significativamente indicata come articolo 01) che non ha nessun contenuto precettivo, bensì si limita a riassumere per intero i principi che devono essere contenuti nelle successive disposizioni. Si pensa così di avere trovato il modo di impedire ogni possibile ulteriore discussione, votazione ed eventuale approvazione di articoli non conformi (secondo il regolamento del Senato, non sono ammessi emendamenti in contrasto con deliberazioni già adottate sull’argomento nel corso della discussione).”7

La procedura legislativa è altamente interessata dalla riforma costituzionale, che non prevede più la partecipazione paritetica delle due Camere alla approvazione delle leggi. In generale, è l’intero ruolo della legge a essere modificato, risultando la legge un atto per più versi ‘secondario’ rispetto al

7 G. Azzariti, Se il Parlamento diventa una bisca, in Il Manifesto, 22.1.2015, p. 2.

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decreto legge del Governo, e la funzione legislativa nel suo complesso ‘assoggettata’ all’Esecutivo. Esamineremo pertanto la ‘nuova’ funzione legislativa solo dopo avere appreso di più sul Governo e i suoi poteri nella nostra esperienza, mentre qui ci limitiamo a riprodurre il testo che l’art. 70 assumerebbe secondo la legge di riforma.

II. Il Governo

1.La composizione del GovernoSecondo l’art. 92 della nostra Costituzione, il Governo della Repubblica è composto da Presidente del Consiglio, che “dirige e coordina l’attività dei ministri e mantiene l’unità di indirizzo politico e amministrativo”Ministri, che sono i vertici delle singole amministrazioni dello statoConsiglio dei Ministri, organo che riunisce il Presidente del Consiglio e i Ministri e nel quale vengono prese le decisioni e le scelte che impegnano il Governo come tale, cioè nella sua interezza. Il governo è, pertanto, secondo la Costituzione, un organo collegiale (ricordiamoci sempre che, come abbiamo appreso, ‘collegialità’ enfatizza la ‘rappresentatività’ di un organo).

2.La formazione del Governo, la crisi di Governo

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Art. 92.2. Cost. Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei Ministri, e, su proposta di questi, i Ministri.Art. 93. Il Presidente del Consiglio dei ministri e i ministri, prima di assumere le funzioni, prestano giuramento nelle mani del Presidente della Repubblica.Art. 94. Il Governo deve avere la fiducia delle Camere. Ciascuna Camera accorda o revoca la fiducia mediante mozione motivata e votata per appello nominale.Il voto contrario di una o entrambe le Camere su una proposta del Governo non importa obbligo di dimissioni.

Il Governo, a differenza delle Camere, non ha una durata in carica prefissata: dura fino a quando ha la fiducia delle Camere. Per comprendere i ritmi della vita del Governo, occorre poi tenere distinti due aspetti: l’essere in carica e l’essere nella pienezza delle funzioni. La condizione per cui il Governo è in carica inizia a decorrere nel momento in cui il Governo è nominato, dal Capo dello Stato, e presta giuramento di fedeltà alla Repubblica nelle sue mani, e cessa nel momento in cui entra in carica il successivo Governo.La condizione per cui il Governo ha la pienezza delle funzioni inizia nel momento in cui il Governo riceve la fiducia delle Camere, e cessa nel momento in cui il Governo si dimette. Pertanto, vi sono momenti in cui il Governo è in carica ma non ha la pienezza delle funzioni, e questi momenti sono quelli del Governo in attesa di fiducia e del Governo dimissionario.

Il Governo in attesa di fiducia e il Governo dimissionario possono compiere solo atti di ordinaria amministrazione, cioè atti già previsti, che rappresentano esecuzione di scelte già deliberate o adempimento di impegni già presi, e previsti dalla legge o dalla Costituzione; inoltre, possono adottare atti improcrastinabili, necessari e urgenti (decreti legge). Invece, gli atti di indirizzo politico, (come la presentazione di un disegno di legge attuativo di un aspetto del programma del Governo) sono riservati al Governo che abbia la fiducia delle Camere. Dunque, quando c’è la crisi di governo significa che il Governo in carica è dimissionario, e cioè è in carica solo per l’ordinaria amministrazione o “compimento degli affari correnti”. Facciamo l’esempio che per il 18 ottobre sia previsto un Consiglio dei ministri a Bruxelles, e per il 20 ottobre un vertice internazionale in Italia. Il 16 ottobre il Governo si dimette. I suoi ministri possono andare a Bruxelles? Il Presidente del Consiglio “uscente” può presiedere il vertice? Sì, perché sono gli ‘affari correnti’; certo però potrà dire niente di vincolante per il Paese, non potrà stipulare accordi nuovi, perché non ha la fiducia.

Ciò detto sulle due diverse legittimazioni del Governo, che dipendono dall’avere o meno la fiducia, occorre chiedersi quando si forma un nuovo Governo, quali sono le condizioni e le circostanze che conducono all’esigenza di formare un nuovo Governo. La formazione del nuovo Governo, ovviamente, è necessaria quando il Governo in carica è dimissionario.

Bisogna però distinguere i casi in cui il Governo ha l’obbligo di dimettersi da quelli in cui si dimette per una sua spontanea valutazione.

2.1. Dimissioni del Governo: obbligatorie e spontaneeIl governo ha l’obbligo di dimettersi in tutte le situazioni in cui non può esservi dubbio che il rapporto fiduciario è venuto meno. Tra queste situazioni una sola è obiettivamente prescritta in Costituzione e cioè

a. quando, in corso di legislatura, il Governo ha ricevuto un voto di sfiducia delle Camere (crisi parlamentare), situazione che evidenzia in modo inequivocabile che la condizione per la permanenza in carica del Governo, e cioè l’esistenza del rapporto fiduciario, è venuta meno.

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Tuttavia, si ritiene principio inerente la logica della forma di governo parlamentare che il governo sia obbligato a dimettersi anche nei seguenti due casi:

b. in caso di morte o impedimento permanente del Presidente Consiglio. Il Presidente del Consiglio essendo la figura più eminente del Governo, si presume che la sua scomparsa determini il venir meno del rapporto fiduciario.

c. Dopo lo svolgimento delle elezioni, quando si è formata una nuova rappresentanza parlamentare.

I Governi repubblicani si sono tutti dimessi dopo le elezioni, tranne il Governo De Gasperi VII, primo della storia repubblicana (porta il numero VII perché si contano anche i Governi del periodo costituzionale transitorio, precedente l’entrata in vigore della Costituzione), che rimase in carica a cavallo delle elezioni del 18 aprile 1948. Le dimissioni del Governo davanti alle nuove Camere sono un potente riconoscimento della primarietà della rappresentanza parlamentare nella forma di governo, e della ‘dipendenza’ del governo da essa. (I governi del periodo statutario non si dimettevano mai dopo le elezioni.) Dopo il 1948 l’unico Governo che non ha dato le dimissioni davanti alle Camere neo-elette è stato il Governo ‘tecnico’ Monti (febbraio 2013), che arrivò alle elezioni dimissionario, ma senza che questa sua condizione fosse mai stata accertata con una discussione in Parlamento.Il Governo può inoltre decidere spontaneamente di dimettersi quando avverte di avere perduto il sostegno della maggioranza in Parlamento anche se ciò non è stato formalizzato da un voto di sfiducia. In questi casi si parla di dimissioni spontanee dovute a una crisi extraparlamentare (che cioè non è stata sancita in parlamento da un voto di sfiducia). Un voto contrario in Parlamento non determina obbligo di dimissioni, dice espressamente la Costituzione. Se il Governo, durante una votazione in Parlamento, va in minoranza, non significa che sia obbligato a dimettersi. Tuttavia una serie di voti contrari possono essere presi dal Governo come indice che la sua maggioranza non è più coesa, è venuta meno, e indurlo a presentare spontaneamente le dimissioni.La differenza tra il caso in cui il Governo ha l’obbligo di dimettersi e quello in cui esso si dimette spontaneamente è che nel primo caso il Capo dello Stato ha l’obbligo di accettare le dimissioni del Governo (che avranno effetto a partire dalla nomina del nuovo). Nel secondo caso no, e può invitare il Governo a riflettere, e soprattutto lo può invitare a presentarsi in Parlamento per ufficializzare le ragioni delle proprie dimissioni (parlamentarizzazione della crisi), e accettare le dimissioni solo dopo che questo è avvenuto. La parlamentarizzazione della crisi è una prassi che risponde all’esigenza di chiarire in modo pubblico le ragioni politiche e le responsabilità di una crisi di governo avvenuta dietro le quinte.

2.2.Prassi recenti in materia di dimissioni del GovernoLa regola costituzionale secondo cui il governo non ha l’obbligo di dimettersi a seguito di voto contrario delle camere significa che il governo non può pretendere dal parlamento che sia sempre d’accordo con lui: non si può arrivare al punto, cioè, che per timore che il governo si dimetta, per timore di provocare una crisi di governo la dialettica parlamentare venga completamente esautorata .

Oggi questa componente del nostro disegno costituzionale è oggi in grande sofferenza: l’esigenza di cd. ‘governabilità’ (cioè che il governo attui comunque il suo indirizzo, anche se non è condiviso dalle Camere) e quella di stabilità (cioè che non vi sia crisi di governo, anche se le Camere, e dunque il Paese, che esse rappresentano, non sono in sintonia col Governo) hanno preso il sopravvento rispetto al favore per la dialettica politica che certamente segna la nostra Costituzione.

Infatti, la regola appena citata, e il preciso significato ordinamentale che incorpora (che si può, sia pure con un po’ di brutale semplificazione, esprimere dicendo che il Parlamento non è agli ordini del

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governo, o il ratificatore delle sue decisioni) è apertamente contraddetta dalla tendenza degli esecutivi a porre molto frequentemente la questione di fiducia, “minacciando” il Parlamento di dare le dimissioni se il provvedimento su cui il Governo ha posto la fiducia non viene approvato.

Bisogna anche ricordare che nel nostro ordinamento costituzionale non è il Governo, ma il Capo dello Stato, che scioglie le Camere. Di conseguenza le dimissioni del Governo non possono essere date col motivo (e neppure con l’intento, almeno non con intento giuridicamente rilevante, seppure è certo ammissibile che il Governo possa politicamente perseguire questo scopo) di provocare lo scioglimento delle Camere e il ricorso a nuove elezioni, poiché la valutazione intorno alla doverosità e correttezza dello scioglimento non spetta al Governo, ma ad altro organo costituzionale, e inoltre, apertasi la crisi di Governo, la prima valutazione da fare è comunque se sia possibile ricostituire un altro Governo (e, in caso di dimissioni spontanee, anche se sia possibile per il Governo ritrovare la sfiducia delle Camere). Anche sotto questo profilo rappresentarono il segno di prassi innovative le dimissioni del Governo Monti, che, trovandosi a fine legislatura e in un contesto in cui un eventuale anticipo della data delle elezioni politiche era nei fatti in discussione, furono rese nella consapevolezza di provocare lo scioglimento anticipato delle Camere. Notevole caratteristica delle dimissioni del Governo Monti, significativa dell’affermarsi di nuove ‘culture’ costituzionali, fu anche la circostanza, resa pubblica dallo stesso Presidente del Consiglio, per cui egli comunicò al Quirinale la sua intenzione di dimettersi ma non la comunicò preventivamente ai suoi Ministri. Oltre a confermare la particolare relazione di fiducia personale che, non in accordo con la configurazione costituzionale dei rapporti tra questi due organi, ha legato il Presidente del Consiglio Monti al Presidente della Repubblica Napolitano, questa circostanza equivale a una decisa interpretazione in senso monistico e gerarchico dell’organo ‘Governo’. Una evoluzione lunga ormai almeno vent’anni vede l’affermarsi, nei fatti, di una posizione di preminenza del Presidente del Consiglio sulle altre componenti del Governo, non del tutto armonica con il disegno paritario e collegiale che dell’organo la Costituzione disegna, tuttavia una simile completa esautorazione della collegialità dell’Esecutivo, se si vuole un simile declassamento del ruolo costituzionale dei singoli ministri e del Consiglio dei ministri si fece registrare come un dato notevole. Questa nuova prassi che va in una con le tendenze alla ‘personalizzazione’ del potere (la riduzione dell’articolazione pluralistica dello Stato alla volontà e personalità o carisma di un singolo), tendenze che erano state contrastate dalla Costituzione (che voleva, con questo, differenziarsi dalle esperienze autoritarie del Regno e del Fascismo). Sappiamo infatti sin dalla Rivoluzione francese, e lo ricordavamo anche in apertura, che rinunciare alla collegialità di un organo a favore della logica monocratica tende a ridurre, nell’organo considerato, la rappresentatività a favore della decisionalità.

2.2.2. La nuova ‘sfiducia dei mercati’ e la vecchia ‘sfiducia del partito’Una significativa nuova prassi in materia di dimissioni del Governo è quella delle dimissioni ‘annunciate’ o ‘sotto condizione’. Sia nel caso del Governo Berlusconi nel 2011, sia in quello del Governo Monti nel 2012, il Governo annunciò che si sarebbe dimesso dopo l’approvazione in Parlamento della Legge di Stabilità. Le ‘dimissioni del governo sotto condizione’ sono una novità che genera ambiguità in quanto, fino a che la condizione sospensiva non si produce, il Governo è nella pienezza delle funzioni; ma indubbiamente, nelle cose, è anche un po’ dimissionario, ciò che non facilita la individuazione dei corretti limiti della sua azione, mentre in uno stato di diritto, e in una democrazia, è importante avere chiarezza sulla condizione giuridica di questo o quell’organo, perché è necessario che vi sia la possibilità di controllare la correttezza del suo operato.Un’altra significativa recente “innovazione” nelle prassi inerenti le dimissioni e la crisi del Governo fu segnata dalle circostanze in cui cadde il governo Berlusconi nel novembre 2011: il motivo di quelle dimissioni fu visto da tutti nella ‘caduta dello spread’ l’indicatore del tasso di fiducia che gli

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investitori internazionali hanno nei confronti del nostro paese, e precisamente nella sua capacità di onorare il proprio ‘debito pubblico’. Si è trattato, insomma, del primo caso conclamato di sfiducia dettata dai mercati, che avverte in modo molto chiaro di come i poteri economici influenzano attualmente le vicende politiche e istituzionali interne. Le dimissioni del Governo Letta (succeduto a Monti) nella primavera 2014 furono dovute a un ‘terremoto’ interno al partito di cui il Presidente del Consiglio era espressione (il PD), e cioè all’affermazione di Matteo Renzi nelle ‘primarie’ del PD (successo nel partito, cosa che, è diversa da una affermazione elettorale). Alcuni hanno notato che è risaltata, in quella circostanza, la confusione tra vicende di un partito e vicende delle istituzioni, che si è presentata spesso, sotto varie forme, nel nostro Paese.In sintesi, il fatto che la Costituzione, o una serie di norme convenzionali o di prassi, in chiara opposizione alla prassi statutaria, indichino quando il Governo deve o si può dimettere, serve a dire che il Governo non può rimanere in carica a piacer suo; il che implica anche che neppure il Governo può dimettersi a piacer suo, ossia dare le dimissioni per motivi futili, per motivi che restano non chiari all’opinione pubblica e al Parlamento, o che possono apparire irrilevanti rispetto alla sua missione e mandato specifici (se tecnico), o che dipendono da guerre interne a un partito per la conquista del potere al suo interno. Ma, nelle cose, e del tutto analogamente alla prassi statutaria, le dimissioni del Governo (così come, in parallelo, la nomina del Governo) hanno dimostrato nell’esperienza repubblicana di rispondere a molteplici e variabili criteri, ancorati in modo contingente all’andamento dei rapporti tra i partiti e alla decisione che il Presidente della Repubblica prende circa il modo di rapportarsi ad essi.

2.3. La formazione del nuovo GovernoUna volta che il Governo è dimissionario si deve dunque procedere alla formazione del nuovo. Dal punto di vista formale, cioè degli adempimenti che devono essere effettuati, le tappe sono le seguenti: il Presidente della Repubblica nomina un certo uomo politico “Presidente del Consiglio incaricato”, incaricato cioè di formare il nuovo Governo. Questi “accetta l’incarico con riserva”, con riserva cioè di riuscire davvero nell’intento. Si tratta di stilare il programma di Governo e formare la lista dei Ministri e dei Sottosegretari (che sono gli immediati collaboratori dei Ministri e rappresentano cariche molto importanti politicamente), nonché dell’eventuale Vice Presidente del Consiglio, che è una carica non costituzionalmente necessaria che però talvolta viene affidata (per rispondere a esigenze di equilibrio politico, cioè di rappresentanza nel Governo di esponenti forze politiche che lo sostengono). Ciò fatto, il Presidente del Consiglio incaricato torna al Quirinale (ma negli ultimi anni, durante la Presidenza di Giorgio Napolitano, la scelta dei Ministri è avvenuta sentendo molto da vicino e soprattutto il Capo dello Stato), scioglie la riserva e accetta l’incarico di Presidente del Consiglio, quindi egli, insieme ai Ministri, giura fedeltà alla Repubblica nelle mani del Capo dello Stato. In questo momento (quello del giuramento) il nuovo Governo è formato ed entra in carica (e le dimissioni del vecchio Governo, rimasto sino a questo momento in carica per gli affari correnti, hanno effetto) e iniziano a decorrere i 10 giorni entro i quali il Governo deve presentarsi alle Camere per avere la fiducia. Una volta ricevuta la fiducia, il Governo assume la pienezza delle funzioni e può cominciare a porre in essere atti di indirizzo politico, che saranno gli atti volti all’attuazione del suo programma. La Costituzione è chiara nel dire che il Governo deve avere la fiducia delle Camere (cioè dei partiti politici rappresentati in Parlamento, e precisamente di quello o di quelli che hanno la maggioranza), e non del Presidente della Repubblica; tuttavia, nel corso del tempo, sono state numerose le esperienze di governi cd ‘tecnici’ sostenuti dalla sola, o preminente, fiducia del Presidente che ne ha scelto o ha contribuito a sceglierne i componenti. Con il Governo Renzi, il principio per cui il Governo deve avere la fiducia delle Camere ha trovato una attuazione invero complessa, posto che il Governo si appoggiò espressamente su un accordo (noto all’opinione pubblica come Il Patto del Nazareno) con il maggiore esponente di un partito, Forza Italia, che è all’opposizione. Questo ha ricordato molto da vicino le prassi ‘consociative’ che caratterizzavano il periodo anteriore alla riforma elettorale del

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1993, quando la Democrazia Cristiana, perpetuamente alla guida di Governi di coalizione in cui si alleava con piccoli partiti satellite, viveva dell’appoggio che in Parlamento le dava il maggior partito di opposizione, cioè il Partito Comunista Italiano. Allora come ora, il contenuto degli accordi in cui si cementa la alleanza tra le forze politiche, non è peraltro noto all’opinione pubblica.

3.Le funzioni del Governo: quadro d’insiemeIl Governo ha molte e importanti funzioni, che possiamo così elencare:

Funzione di indirizzo politico Funzioni normative Funzioni di direzione della pubblica amministrazione Svolgimento dei rapporti tra l’Italia e l’Unione Europea e con l’estero Svolgimento dei rapporti con le Regioni e le autonomie locali

3.1. Funzione di indirizzo politicoE’ la funzione di individuare e perseguire le finalità e gli obiettivi verso cui indirizzare la vita nazionale, coerenti con la visione politica dell’Esecutivo, e di individuare le modalità con cui affrontare problemi o situazioni nuove che si presentino mentre il Governo è in carica, anche se si tratta di scelte non previste al momento dell’insediamento. Il Governo impronta tutta la sua attività, tutte le sue diverse funzioni intorno al proprio indirizzo politico, tranne quelle che lo impegnano all’esecuzione del diritto vigente.Anche se si può dire che, fatta l’eccezione appena detta, e sulla quale torneremo parlando del lavoro dei Ministri, tutta l’attività del Governo è espressione di indirizzo politico, esistono alcuni atti che sono specificamente espressione di questa funzione e questi atti sono due:

- il programma di Governo, che contiene gli obiettivi che il Governo si propone di raggiungere e che il Governo sottopone alle Camere quando chiede la fiducia e, prima di farlo, fa appunto, tramite il Presidente del Consiglio, le proprie “dichiarazioni programmatiche”;

- gli atti di attuazione del programma di Governo e tra questi, tipicamente e in modo eminente, gli atti di iniziativa legislativa, cioè la presentazione di progetti di legge al Parlamento. Es.: Il governo, avendo messo tra i suoi obiettivi di programma una riforma della scuola superiore, per attuare questo obiettivo deve arrivare all’approvazione di una legge che riformi la scuola superiore, perciò presenta un progetto di legge alle Camere contenente questa riforma.

3.2.Funzioni normative. Decreti legge, decreti delegati e regolamentiNel nostro sistema la funzione legislativa, la funzione di adottare leggi, è riservata alle Camere, al Parlamento. Tuttavia atti normativi, atti contenenti norme giuridiche obbligatorie, diversi dalla legge ordinaria (cioè dalla legge adottata dal Parlamento) possono essere adottati da altri soggetti, e in particolare dal Governo. La funzione di adottare atti con contenuto ed efficacia normativa, ma diversi dalla legge (cioè adottati da un organo diverso dal Parlamento e, di conseguenza, con un procedimento diverso da quello legislativo) è appunto la funzione normativa. La funzione normativa del Governo è molto ampia e molto importante e comprende due tipologie di atti:a) atti equiparati alla legge (atti “primari”), dotati cioè della forza e del valore di legge, che per brevità sono spesso indicati come atti con forza di legge: si tratta del decreto delegato e decreto legge;b) atti privi di forza e valore di legge, chiamati regolamenti (regolamenti governativi, quando emanati dal Consiglio dei Ministri; regolamenti ministeriali, se emanati dal singolo ministro, e regolamenti del Presidente del Consiglio dei Ministri quando emanati da quest’ultimo.

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3.3.Funzioni di direzione della pubblica amministrazioneLa pubblica amministrazione è il complesso degli apparati che sono preposti alla cura degli interessi pubblici. Il Governo ne ha la direzione e la responsabilità.La struttura normale, tradizionale, nel senso di storicamente più antica, in cui avviene la gestione dei servizi pubblici è il “ministero”. Il ministero è un apparato al cui vertice è collocato un Ministro, un membro del Governo, e che è composto di uffici, personale, risorse attraverso le quali si provvede alla organizzazione, offerta e gestione dell’interesse che è oggetto dell’attività del Ministero. Prendiamo per esempio, ancora, il ministero dell’Istruzione: al vertice c’è il Ministro, con la sua sede a Roma dove stanno tutti gli uffici centrali del Ministero, e poi nel territorio sono distribuiti uffici periferici (i provveditorati e i singoli istituti) che svolgono una serie di funzioni (per esempio: di gestione del personale: nomina degli insegnanti, formazione delle graduatorie), che sono riferite al funzionamento del servizio scolastico in un ambito territoriale determinato (la provincia e il comune). Oppure, pensiamo alle funzioni di ordine pubblico interno, che sono assicurate dal Ministero dell’interno, i cui uffici periferici sono le prefetture. Una delle funzioni più tradizionali e importanti del Ministero dell’Interno ricorre in concomitanza con lo svolgimento delle elezioni politiche: i dati elettorali sono raccolti dalle prefetture e inviati a Roma al Ministero dell’Interno, per conteggi e la dichiarazione ufficiale dei risultati. Ai Ministri competono anche funzioni riferite a enti, agenzie, società per azioni in mano pubblica, vale a dire a quelle figure dell’organizzazione amministrativa che sono distinte dai Ministeri, perché hanno una organizzazione autonoma rispetto ad essi, ma sono comunque raccordate allo Stato e il cui operato (nomine, atti di indirizzo, atti di organizzazione) ricade nella responsabilità del Governo. (Ad esempio: la Rai).I singoli componenti del Governo, i Ministri, sono dunque ciascuno a capo di un Ministero. Compito di ciascun Ministro è dirigere il Ministero cui è preposto; questo significa sia assicurare che il Ministero svolga correttamente, efficacemente i compiti che ad esso sono già affidati alla legge (e questo è il lavoro amministrativo del Ministro), sia proporre eventuali modifiche, innovazioni, aggiornamenti nella legislazione che regola quel ministero e i suoi compiti (e questo è il lavoro politico del Ministro).

3.3.1.Il lavoro politico del MinistroLa presentazione di progetti di legge volti a modificare le norme che sono relative alla attività del ministero è il principale lavoro politico del Ministro. Del lavoro politico del ministro fa anche parte il dovere di interloquire col Parlamento, e di rispondere alle interrogazioni e alle interpellanze attraverso le quali il Parlamento voglia conoscere dal Ministro lo stato di un problema che riguarda o che è di competenza del ministero da questi diretto, le ragioni per cui una certa situazione si è determinata, le iniziative che il Ministro intende prendere con riferimento a una certa questione, ecc.

3.3.2.Il lavoro amministrativo del MinistroGarantire che il ministero assolva i compiti che la legge ad esso attribuisce è il principale compito e responsabilità amministrativa del Ministro. Fa parte di questi compiti il rivolgere gli uffici che dipendono dal ministero “istruzioni”, ordini o raccomandazioni, delucidazioni o spiegazioni circa il modo in cui i compiti degli uffici devono essere svolti, alla luce delle leggi vigenti. Atti caratteristici con cui il Ministro svolge questa funzione sono le circolari e le direttive. Per esempio, supponiamo per esempio che un articolo di una legge che riguarda gli esami di maturità crei dubbi interpretativi: a causa del modo in cui la legge è formulata, non si capisce bene se i membri della commissione devono essere nominati tra insegnanti di scuole diverse, ma tutte della stessa provincia, oppure se li si può scegliere anche fuori provincia, e i vari provveditorati si comportano in modo diverso il che crea vari problemi. In casi del genere il ministro adotta una “circolare”, un provvedimento in cui dà la sua interpretazione del punto controverso e raccomanda ai provveditorati di interpretare quel punto nel modo chiarito dalla circolare.

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Il lavoro politico e quello amministrativo di un ministro possono intrecciarsi in vario modo. Per esempio il Parlamento può chiedere ragione al Ministro del contenuto della circolare che ha adottato, criticarlo e chiedergli di modificarla. Se, per esempio su un problema di questo genere, nasce un contrasto tra Parlamento e Ministro (quest’ultimo non vuole ritirare la circolare) che rischia di diventare un problema politico grosso, il Presidente del Consiglio può chiedere al Ministro di adeguarsi a quello che il Parlamento gli chiede, può consigliargli il contrario, può convocare una riunione del Consiglio dei ministri per discutere tutti insieme sulla linea che il Ministro deve tenere. I contrasti tra singoli Ministri e Parlamento possono, in altri termini, influire sul generale rapporto fiduciario che lega Governo e Parlamento, possono incrinarlo o indebolirlo (fino a una questione di sfiducia individuale presentata alle Camere e diretta a ottenere le dimissioni del Ministro), ed è compito del Presidente del Consiglio fare in modo che il Governo proceda in modo unitario, e che i Ministri non facciano ciascuno quello che secondo loro è meglio, ma svolgano i loro compiti in coerenza col generale indirizzo del Governo.

3.4.Legalità e indirizzo politico: i due poli dell’attività del GovernoI due aspetti del lavoro del Ministro che abbiamo illustrato fin qui esemplificano come l’attività del Governo si collochi, caratteristicamente, tra due grandi stelle polari: quella dell’indirizzo politico e quella della legalità (ordinaria e costituzionale). In quanto organo di indirizzo politico il Governo, per sua natura e posizione istituzionale (è l’organo espressivo di una maggioranza politica, è portatore cioè di certi e non altri orientamenti, interessi, visioni, finalità ed obiettivi), ha il compito, il potere e il dovere di perseguire la realizzazione degli obiettivi conformi alle scelte di cui è portatore e dunque di tendere alla trasformazione dell’ordinamento vigente, delle leggi che già ci sono, degli istituti esistenti.D’altra parte il Governo, in forza del principio di legalità, per cui tutti i poteri devono essere esercitati nel rispetto del diritto vigente, e in quanto, in particolare, organo direttamente responsabile delle attività dello Stato, è tenuto nel suo operare a rispettare e a far rispettare il diritto vigente per come è e nel modo migliore e più efficiente ed efficace. Il Governo può agire per il cambiamento dell’ordinamento, delle leggi ecc., ma, finché non le cambia, deve farle rispettare, anche se non le condivide, e cioè deve in primo luogo rispettarle esso stesso. Questo è il portato del principio di legalità, che è legalità ordinaria (rispetto del diritto legislativo) e legalità costituzionale, rispetto delle procedure stabilite dalla Costituzione e dei contenuti di essa. Anche nell’esercizio della sua libertà di indirizzo politico, infatti, il Governo deve rispettare i procedimenti fissati dal diritto, e dal diritto costituzionale in particolare: per modificare le leggi è necessario che siano approvate nuove leggi, o atti equiparati: non sono sufficienti, né accettabili, atti diversi. E’ per proteggere questo delicato e importantissimo equilibrio di libertà politica e soggezione al diritto in cui il Governo si trova, che è previsto che esso, quando viene nominato, giuri fedeltà alla Repubblica, alla Costituzione e alle leggi, perché l’insieme dei poteri di cui il Governo dispone è tale che il rischio è sempre aperto che esso usi la sua libertà politica in danno del rispetto delle leggi e del diritto.

3.5.Svolgimento dei rapporti tra l’Italia e l’Unione Europea e con l’esteroTradizionale compito dell’Esecutivo è mantenere i rapporti coi Paesi esteri (dipende dal Ministero degli Esteri tutto l’apparato della diplomazia), dai quali dipendono non solo pace e guerra, ma andamento dei commerci, delle importazioni e delle esportazioni, la stipula di accordi internazionali e di trattati il cui contenuto può essere economico, oppure culturale (accordi sulla restituzione di certi beni artistici conservati nel nostro Paese ai paesi ai quali sono stati “sottratti” durante per esempio la fase coloniale italiana), ecc. Da quando il nostro Paese appartiene all’Unione europea, a questo tradizionale compito se ne affianca uno più specifico che è quello della partecipazione agli organi dell’Unione. In questi organi il Governo è protagonista, perché il Consiglio dei ministri dell’unione europea è composto dai Ministri dei Governi nazionali competenti sulle materie di volta in volta in deliberazione, dunque

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ogni Ministro del nostro Governo è anche membro del Consiglio dei ministri dell’Unione europea; e il Consiglio europeo, l’organo che definisce periodicamente gli indirizzi generali della UE, è composto dai Capi di stato e di governo dei paesi membri, dunque il Presidente del Consiglio ne fa parte di diritto.Il fatto di essere l’unico organo nazionale direttamente parte degli organi comunitari ha contribuito, nel tempo, a rafforzare molto l’importanza del Governo e la sua forza nei confronti del Parlamento. Spesso il Governo, nel presentare alle Camere un progetto di legge, afferma che esso è in linea con gli indirizzi delle politiche comunitarie, è importante per mantenere il nostro Paese convergente con gli obiettivi e le politiche dell’Unione, e questo rafforza l’autorevolezza di quel progetto e le sue chances di essere approvato.

3.6.Svolgimento dei rapporti con le Regioni e le autonomie locali. La Conferenza Stato-RegioniCome abbiamo visto parlando delle Regioni, le competenze normative e amministrative dello stato e quelle delle Regioni e degli enti locali si intrecciano molto spesso, a cominciare dai problemi del bilancio e della spesa. Buona parte delle risorse della Regione, Provincia e Comune vengono dal bilancio dello Stato, che è predisposto dal Governo. Le scelte finanziarie del governo condizionano la possibilità degli enti locali di svolgere le loro funzioni. Perciò, è necessario un “coordinamento”, un momento di incontro in cui le intenzioni, necessità e strategie del Governo e le necessità, intenzioni e preferenze delle Regioni e degli enti locali si possano confrontare. Non esistendo nel nostro ordinamento una Camera che rappresenti le autonomie locali, a questa funzione servono organi che sono stati creati sul finire degli anni ’90 (un periodo nel quale le funzioni degli enti locali sono cresciute moltissimo per quantità e importanza) e che si chiamano Conferenze. Conferenza vuol dire qui “riunione”. La più importante è la Conferenza Stato-Regione, in cui si riuniscono il Governo dello Stato (rappresentato dal Presidente del consiglio, dal Ministro per gli affari regionali ed eventualmente dal o dai Ministri di volta in volta interessati alle materie in discussione, per esempio il Ministro delle finanze) e i Presidenti delle giunte regionali. Gli indirizzi che vengono concordati in Conferenza (per esempio, le Regioni riescono a ‘strappare’ al Governo la promessa di un certo stanziamento di fondi per le Regioni nella legge finanziaria) sono considerati vincolanti (il Governo difenderà in Parlamento la norma del progetto di legge finanziaria che assicura certi fondi alle Regioni).

La Conferenza Stato-Regioni, istituita con legge ordinaria, è destinata a sopravvivere anche quando dovesse entrare in vigore la riforma del Senato, e nonostante il fatto che quest’ultimo acquisterebbe la definizione di organo rappresentativo delle ‘Istituzioni territoriali’.

4.Il potere normativo del Governo

A.Gli atti del Governo con forza di leggeI due principali atti del Governo con forza di legge previsti nel nostro ordinamento sono: il decreto delegato e il decreto legge.

1.La delegazione legislativa (art. 76 Cost.)Secondo l’art. 76 della Costituzione:“L’esercizio della funzione legislativa non può essere delegato al Governo se non con determinazione di principi e criteri direttivi e soltanto per tempo limitato e per oggetti definiti”Il Parlamento è il titolare della funzione legislativa. A determinate condizioni, indicate nell’art. 76, esso può delegarne l’esercizio al Governo, cioè incaricare il Governo di adottare atti che hanno la stessa forza e valore della legge. Infatti, è un principio generale nel diritto che chi è titolare di una funzione o di una facoltà, possa delegare altri ad esercitarla per suo conto, salvo che non sia previsto espressamente il contrario.

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La delega è l’atto con cui il titolare di una funzione, diritto o facoltà, ne trasferisce l’esercizio ad altri, conservandone però la titolarità. Esercitando il proprio potere di delega, il Parlamento non trasferisce al Governo la funzione legislativa, della quale il Parlamento resta il solo titolare, ma ne trasferisce solo l’esercizio con riferimento a un oggetto definito, per un tempo determinato e previa indicazione di principi e criteri direttivi. Una volta che il Governo ha esercitato la delega, cioè ha emanato i decreti necessari a regolare l’oggetto che era stato chiamato a regolare, nei tempi stabiliti e secondo i principi e criteri fissati dal Parlamento, la delega si esaurisce e per esercitare nuovamente la funzione legislativa il Governo ha bisogno di una nuova delega. La delega si esaurisce automaticamente anche se, allo spirare del termine, il governo non ha emanato i decreti.

La delegazione legislativa è un istituto molto importante, che si origina nella prassi statutaria quando nacque per consentire al Governo di ‘aggirare’ un Parlamento ostile o recalcitrante. Prevedendolo e regolamentandolo come lo ha regolamentato (in particolare con il divieto di ‘delega in bianco’), la Costituzione ha ‘reinterpretato’ la delegazione legislativa facendone uno strumento che risponde a una esigenza di divisione del lavoro tra due organi in posizione collaborativa, Parlamento e Governo, legati tra loro dal rapporto fiduciario. Per affrontare provvedimenti normativi ampi, complessi, la cui stesura richiede lunghi e complessi approfondimenti tecnici, il Parlamento può ritenere opportuno, anziché affrontare esso direttamente il lavoro legislativo corrispondente, che potrebbe a lungo sospendere o rallentare l’esame di altri provvedimenti, incaricare (delegare) il governo a adottare esso gli atti necessari. Sono stati approvati come leggi delegate tutti i codici e innumerevoli leggi di grande rilievo e ampiezza. Come vedremo, peraltro, la delegazione legislativa ha ripreso moltissimo, specialmente negli ultimi anni, delle sue antiche e originarie vocazioni: lasciare al Governo uno spazio di decisione ‘indipendente’ dalle dinamiche parlamentari.

1.2. La legge di delegazione (legge-delega)Per procedere alla delegazione legislativa, il Parlamento approva una legge, detta legge di delegazione con la quale attribuisce al Governo la delega a adottare uno o più decreti

a) su una certa materia (l’ oggetto definito di cui parla l’art. 76), b) entro un certo termine temporale (il tempo limitato di cui parla l’art. 76) c) e rispettando/eseguendo una serie di principi e criteri direttivi.

Questi requisiti servono a salvaguardare il punto fondamentale e cioè che il titolare della funzione legislativa resta il Parlamento: come dicevamo, non sono ammesse ‘deleghe in bianco’. E’ il Parlamento a definire l’oggetto, ossia la materia su cui il Governo acquista l’esercizio della funzione legislativa; questo esercizio, il Governo lo detiene solo entro il termine indicato; se entro il termine non adotta i decreti, la delega spira e il Governo non può più esercitarla, a meno che non venga ad esso nuovamente conferita; quanto ai contenuti che i decreti dovranno avere, certo li deciderà il governo, ma non con una piena libertà di scelta: esso è tenuto ad attenersi ai principi e criteri direttivi che il Parlamento ha dettato, e la cui presenza serve a far sì che le scelte fondamentali in materia siano quelle del Parlamento.L’iniziativa delle legge di delegazione può essere presa dal Parlamento, ma anche dal Governo, che può presentare, e di fatto presenta spesso, un disegno di legge delega col quale chiede al Parlamento di essere delegato a legiferare su una certa materia, dopo è il Parlamento a decidere se è il caso, a precisare l’oggetto se necessario, il termine e a definire i contenuti di principio della delega.La legge di delegazione è dunque una legge con un contenuto necessario che consiste nella attribuzione della delega, indicazione dell’oggetto, del tempo, dei principi e criteri direttivi. La legge di delegazione ha anche un importante requisito formale, che cioè attiene al suo procedimento di formazione: secondo l’art. 72, la legge di delegazione può essere approvata solo con il procedimento ordinario, e cioè con il procedimento in commissione referente, mai in commissione redigente/deliberante, perché si tratta di una legge delicata e importante, in quanto implica l’attribuzione al Governo dell’esercizio della funzione legislativa, e perciò deve essere decisa

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dall’intera assemblea (quando una legge non può essere approvata in commissione deliberante/redigente si dice, lo ricordiamo, che essa è soggetta a una riserva di assemblea).

Si noti che la delega può essere contenuta nel corpo di una legge che ha anche altri contenuti: per esempio, una legge introduce nuove regole in materia di conservatori ed enti musicali; per una certa parte, la nuova disciplina dei conservatori e enti musicali è dettata direttamente nella legge, per una certa altra parte, la legge delega il Governo a completare la disciplina. In questo caso, le parti della legge che non contengono la delega possono essere approvate con il procedimento con commissione redigente/deliberante, ma quelle che contengono la delega sono soggette alla riserva di assemblea. Vedremo più avanti che questa risalente prassi di unire nello stesso testo disposizioni sostanziali (che disciplinano direttamente una materia) e disposizioni di delega, ha alcune implicazioni negative.

Nell’approvare la legge di delegazione, il Parlamento può prevedere che il Governo, una volta predisposti i decreti attuativi, prima di emanarli li faccia esaminare alle Commissioni parlamentari competenti per materia per ricevere un loro parere. In questi casi le commissioni parlamentari operano in sede consultiva (cioè come organi che danno appunto un parere) e il loro coinvolgimento serve anche ad assicurare una migliore conoscenza, da parte del Parlamento, del modo in cui il Governo ha eseguito la delega. La previsione dell’esame dei decreti in commissione consultiva è un contenuto eventuale della legge di delega; eventuale, in questo contesto, significa non necessario, non imposto dalla Costituzione, ma possibile, e una volta che la legge di delega lo preveda esso diventa obbligatorio per il Governo come il rispetto dell’oggetto, del tempo, dei principi e criteri direttivi. Anche sulla implicazioni non del tutto positive di questa prassi torneremo più avanti.Dopo che la legge di delegazione entra in vigore, il Governo può cominciare il procedimento che porterà alla emanazione dei decreti legislativi.

1.3. I decreti legislativi (o decreti delegati)Il procedimento di formazione dei decreti delegati è il seguente:

il Ministro competente per materia, o i Ministri competenti, se la materia oggetto della delega rientra tra le competenze di più di un Ministero, preparano lo schema di decreto;

questo viene sottoposto alla approvazione del Consiglio dei Ministri; una volta ottenuta questa approvazione il decreto viene sottoposto all’esame - eventuale -

delle commissioni parlamentari e ad ogni altro eventuale adempimento procedurale che sia richiesto dalla delega (pareri di organi specializzati, ecc.);

quindi il decreto viene emanato, come tutti gli atti del Governo, da parte del Presidente della Repubblica ed una volta pubblicato e entrato in vigore acquista forza e valore di legge.

I decreti del Governo in attuazione della delega sono atti con forza di legge , cioè sono subordinati alla Costituzione e pertanto sindacabili da parte della Corte costituzionale per eventuale loro contrarietà a Costituzione. Tuttavia, i decreti sono anche tenuti a rispettare la legge di delegazione, nei suoi contenuti essenziali ed eventuali: i decreti, cioè, devono anche mantenersi nei limiti dell’oggetto della delega, rispettare i limiti di tempo, attenersi ai principi e criteri direttivi che la legge di delega stabilisce e, se è previsto l’esame dei decreti in commissione, essi devono rispettare anche questa condizione. Se i decreti non rispettano la legge di delegazione questo costituisce un loro vizio peculiare di costituzionalità, che si chiama eccesso di delega e consiste nell’avere ecceduto i limiti del potere delegato ricevuto. Così, i decreti, che sono atti con forza di legge, oltre a dover rispettare la Costituzione, che è una fonte superiore, devono anche rispettare la legge di delega, che è una fonte loro equiordinata, e nel caso presentino un vizio di eccesso di delega il giudice componente è sempre la Corte costituzionale.

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Siccome l’art. 76 impone in generale a tutti i decreti delegati del Governo di rispettare la legge di delegazione, ogni decreto deve essere conforme alla sua corrispondente singola legge di delegazione, e, se non lo fa, esso viola indirettamente l’art. 76 della Costituzione. Perciò la legge di delegazione è considerata, rispetto ai decreti, una norma interposta, cioè collocata tra la Costituzione e loro, perché la legge di delegazione specifica, per ciascun decreto, i limiti che in generale circondano l’esercizio da parte del governo del potere legislativo delegato, e la violazione della delega implica violazione dell’art. 76 Cost.

2.La decretazione d’urgenzaSecondo l’art. 77 della nostra Costituzione:

Il Governo non può, senza delegazione delle Camere, emanare decreti che abbiano valore di legge ordinaria. Quando, in casi straordinari di necessità e d’urgenza, il Governo adotta, sotto la propria responsabilità, provvedimenti provvisori con forza di legge, deve il giorno stesso presentarli per la conversione alle Camere, che, anche se sciolte, sono convocate e si riuniscono entro cinque giorni.I decreti perdono efficacia sin dall’inizio se non sono convertiti in legge entro sessanta giorni dalla loro pubblicazione. Le Camere possono tuttavia regolare con legge i rapporti giuridici sorti sulla base dei decreti non convertiti.

Possono verificarsi eventi imprevisti e straordinari (un terremoto, una epidemia, un crollo delle borse mondiali), per fronteggiare i quali sia necessario adottare norme dotate della forza di abrogare, sospendere, derogare norme di legge vigenti, ma che richiedono anche un intervento immediato, che né la legge né la delegazione legislativa possono costituire, in quanto questi atti richiedono tempo, per essere emanati. La Costituzione consente, in questi casi, di ricorrere al decreto legge.

Anche il decreto legge era sorto in via di prassi durante il Regno, per permettere al Governo di adottare norme che non riusciva a far approvare dal Parlamento, per affrontare i problemi di ordine pubblico legati alla ‘crisi di fine secolo’ e per governare durante lo stato di guerra. Il decreto legge divenne lo strumento prediletto del Fascismo, che, fin quando le mantenne formalmente in vita, legiferò sempre senza le Camere. La nostra Costituzione regolamenta il decreto legge allo scopo di circoscrivere le ipotesi di ricorso ad esso, e di sottoporlo a norme procedimentali rigorose, perché lo considera uno strumento eccezionale che deroga al normale equilibrio tra Governo e Parlamento e alla regola fondamentale per cui la funzione legislativa spetta alle Camere, rappresentative del corpo elettorale. Il modo in cui la norma dell’art. 77 è formulata (“Il governo non può…”) rivela chiaramente la volontà di sottolineare l’eccezionalità del ricorso al decreto legge.

2.1.Decreto legge e indirizzo politicoCome le caratteristiche del decreto legge dovrebbero rendere piuttosto evidente, il decreto legge non è un atto pensato per servire alla funzione di indirizzo politico del Governo. Per attuare il proprio programma, per compiere scelte politiche, il Governo ha a disposizione l’iniziativa legislativa, o anche la decretazione delegata (può cioè chiedere una delega legislativa), mentre il decreto legge è lo strumento pensato apposta per fronteggiare circostanze che per definizione, in quanto straordinarie ed eccezionali, non possono essere preventivamente annoverate tra gli obiettivi e i fini della azione politica del Governo. E’ naturale peraltro che ogni singolo Governo che si trovi ad affrontare una emergenza, e che la affronterà con le mentalità, i punti di vista e i valori di cui esso è politicamente portatore. Il fatto d’altro canto che il decreto legge sia uno strumento pensato per fronteggiare situazioni eccezionali fa sì che ad esso possa fare ricorso anche il governo dimissionario, cioè il

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Governo che non è più sostenuto dalla fiducia delle Camere e attende di essere sostituito da un nuovo Governo.Il collocarsi del decreto legge fuori dalla sfera dell’indirizzo politico del Governo è denotata dal fatto che la responsabilità per l’adozione del decreto è sua, propria del Governo. Esso adotta il decreto, dice la Costituzione, “sotto la sua responsabilità”, ossia senza impegnare il rapporto fiduciario, perché è ovvio che quando le Camere hanno dato la fiducia al Governo, non possono averla data anche con riguardo al modo in cui il Governo poi si è improvvisamente trovato ad affrontare una certa circostanza. Dunque la maggioranza che sostiene il Governo è libera di votare contro la conversione del decreto (v. però quanto diremo tra breve), perché esso non impegna il rapporto fiduciario. Tutto questo è vero nel senso che è con queste caratteristiche che l’istituto è stato concepito, ma, come vedremo, esso ha funzionato in modo del tutto opposto, diventando una sorta di strumento ordinario di legislazione cui il Governo ricorre ben al di là dei presupposti straordinari di necessità e di urgenza e, invece, per attuare proprie scelte programmatiche.

2.2.Il procedimento di adozione del decreto leggeDunque, di fronte a eventi straordinari che rendano necessario provvedere immediatamente, il Governo (il Consiglio dei Ministri) può deliberare un decreto, il quale viene, come tutti gli atti del Governo, emanato dal Capo dello Stato, viene immediatamente pubblicato ed entra in vigore.Il giorno stesso della pubblicazione, il decreto, che nel frattempo inizia a produrre i suoi effetti normativi, deve essere presentato alle Camere per l’esame in vista della sua eventuale conversione in legge. In sostanza, il Governo presenta alle Camere un disegno di legge, composto di un solo articolo, il quale recita: “E’ convertito in legge il decreto tale, emanato in data tale, concernente questo problema” e allega a questo disegno di legge viene fornito il testo del decreto. Inizia così un procedimento legislativo, le Camere esaminano il disegno di legge, e hanno 60 giorni di tempo per concludere l’esame, approvarlo, inviarlo al Capo dello Stato per la promulgazione (che deve anch’essa avvenire entro i 60 giorni). Se il decreto viene convertito, al suo posto esisterà una legge (legge di conversione del decreto legge), che si “salda” al decreto già esistente, altrimenti, il decreto decade e i suoi effetti vengono meno. Le Camere possono non convertire il decreto per due ragioni:

o perché non vogliono farlo, ritenendo che il decreto non meriti di essere convertito; o perché non fanno in tempo a farlo, non esauriscono l’esame entro i 60 giorni, pur essendo

intenzionate a convertirlo.

2.3.La decadenza del decreto non convertito in leggeIl decreto che non viene convertito in legge decade, cioè vengono meno gli effetti da esso prodotti fin dal momento della sua emanazione. Come dice la Costituzione, esso “perde efficacia sin dall’inizio”, ovverosia: se per 60 giorni di tempo, durante la vigenza del decreto, una norma di legge era stata sospesa, essa rivive, e non rivive solo per il futuro, ma anche per il passato, è come se fosse rimasta pienamente in vigore anche durante i 60 giorni di vigenza provvisoria del decreto. Se il decreto aveva, sempre per esempio, introdotto una tassa straordinaria, che i cittadini avevano pagato, e poi il decreto decade, lo Stato deve restituire le somme incassate; se per eseguire il decreto erano stati emanati altri provvedimenti questi vengono meno. Tutto ciò può avere conseguenze molto complesse. Per esempio, durante la vigenza del decreto viene sospesa una norma di legge che vieta la vendita degli alcolici ai minori; il gestore di un bar, come conseguenza, vende alcolici a minori; poi il decreto decade e il gestore del bar si trova nella condizione di avere tenuto un comportamento illecito, perché la norma che vietava la vendita degli alcolici rivive anche per il passato.

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2.4.La regolazione degli effetti del decreto non convertito in leggeIn considerazione del fatto che la non conversione del decreto può avere conseguenze complesse e irrazionali, la Costituzione autorizza le Camere a “regolare con legge i rapporti giuridici sorti sulla base del decreto non convertito”. Si può per esempio fare una legge di sanatoria, la quale stabilisce che, per i sessanta giorni in cui il decreto è stato in vigore, i suoi effetti restano fermi (invece di essere travolti), o individuare altre modalità regolative per fronteggiare i problemi connessi alla decadenza del decreto.

B.Gli atti del governo privi di forza di leggeI regolamenti dell’Esecutivo sono atti privi di forza e valore di legge.Ne esistono tre tipologie:

regolamenti governativi (deliberati dal Consiglio dei Ministri ed emanati dal Presidente della Repubblica)

regolamenti ministeriali (deliberati dal singolo Ministro) regolamenti del Presidente del Consiglio (deliberati dal Consiglio dei Ministri).

I regolamenti del Presidente del Consiglio sono una ipotesi residuale che verte su un numero ristretto, per quanto rilevante, di ipotesi (es. l’organizzazione e il funzionamento della presidenza del consiglio). In questa sede ci riferiremo normalmente ai regolamenti governativi, con qualche riferimento anche ai regolamenti ministeriali.

1.Il potere regolamentare dell’EsecutivoA differenza dello Statuto albertino, che lasciava al Re una propria sfera di prerogativa, cioè ambiti nei quali esso poteva adottare regolamenti senza bisogno di una autorizzazione legislativa (dalla legislazione araldica ad alcune materie di interesse militare e di ordine pubblico fino alla organizzazione dei ministeri), la nostra Costituzione attuale sembra invece, questo è stato sempre il giudizio prevalente degli studiosi, non lasciare al Governo alcuna sfera di competenza normativa propria, esercitabile in assenza di previa norma di legge, dunque dell’antica “prerogativa regia” il Costituente non volle lasciar traccia; in altri Paesi l’assetto è ben diverso, per esempio in Francia esistono materie riservate alla competenza regolamentare dell’esecutivo, e che riguardano principalmente l’organizzazione e il funzionamento della pubblica amministrazione, dove l’Esecutivo può adottare regolamenti anche in deroga alle leggi e senza bisogno di autorizzazione legislativa. L’organizzazione dei Ministeri e degli apparati dipendenti dallo Stato è in effetti una delle materie “classicamente proprie” dell’Esecutivo.

Il potere regolamentare dell’Esecutivo consiste dunque nel potere del Governo di adottare norme giuridiche che sono subordinate alla legge, in quando necessariamente fondate su una previa norma di legge che al Governo attribuisce il relativo potere, e va visto all’interno di un processo storico nel corso del quale i poteri normativi che - come sappiamo dai tempi in cui abbiamo studiato la Police - sono inerenti alla natura stessa dell’attività amministrativa, sono stati “subordinati” alla legge, in nome del principio di legalità, in base al quale tutti gli atti di ogni potere, e tra questi in primo luogo gli atti dell’Esecutivo, devono trovare la propria legittimazione in una previa norma di legge. In una democrazia costituzionale, inoltre, la legge non è del tutto libera di creare poteri normativi in capo al Governo; ossia, ha una ampia facoltà di farlo ma vi sono materie ed ambiti, individuati dalla Costituzione e nati storicamente, sulle quali la legge non può creare poteri normativi in capo al Governo.La subordinazione dei regolamenti alla legge consiste dunque nel fatto che la legge regola l’esistenza e l’estensione dei poteri normativi del Governo nei limiti in cui la Costituzione la autorizza a farlo.

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La subordinazione dei regolamenti alla legge si traduce nel fatto che essi, siccome nella legge devono trovare la propria autorizzazione e il proprio fondamento, in caso di contrasto con la legge non sono in grado di abrogarla, ma sono invece viziati.

2.Il legame tra legge e regolamento: le riserve di leggeOra dobbiamo soffermarci sul tipo di rapporti che possono esistere tra la legge e il regolamento, cioè sul senso che dobbiamo dare all’espressione per cui “il potere regolamentare del Governo deve trovare nella legge la propria autorizzazione e il proprio fondamento” e alla espressione per cui la legge “non è del tutto libera di creare poteri normativi in capo al governo ma deve rispettare in questo i limiti costituzionali”.

a) Il potere regolamentare del Governo deve trovare nella legge la propria autorizzazione e il proprio fondamento.Il significato di questo principio è che il Governo non può auto-assumersi poteri normativi. Occorre una legge che glieli conferisca. Questa ipotesi generale può tradursi in situazioni molto diverse, ed in effetti il legame tra legge e regolamento è molto variegato. Si può andare da un legame molto stretto e individuato, per cui una legge, regolando una certa materia, autorizza il Governo a completare, dettagliare, specificare o integrare i propri contenuti. Questo può rendersi opportuno, e di fatto si rende opportuno, quando la legge dispone su materie tecniche che richiedono approfondimenti specialistici, istruttorie e studi e soprattutto aggiornamento continuo. Non sarebbe conveniente disciplinare questi aspetti con legge, perché per cambiarli occorrerebbe una nuova legge, mentre, una volta incaricato il Governo di occuparsi del tema con regolamento, ad ogni occorrenza il Governo, con una semplice riunione in Consiglio dei ministri, può dettare una nuova e aggiornata disciplina. Integrare, completare o dettagliare una disciplina di legge nei suoi aspetti tecnici può peraltro significare l’esercizio di valutazioni discrezionali anche molto ampie del Governo. Un conto è che la legge dica: “è introdotto l’obbligo di effettuare la messa a terra degli impianti elettrici domestici. Il Governo con propri regolamenti detterà i requisiti tecnici degli impianti, le modalità di certificazione e le sanzioni amministrative in caso di inosservanza”.Altro conto è che la legge dica: “le coppie infertili sono autorizzate a effettuare trattamenti di procreazione medicalmente assistita presso le strutture sanitarie pubbliche. Questi trattamenti devono rispettare il diritto alla vita dell’embrione, la salute della donna, tutti gli interessi coinvolti. Il Governo con propri regolamenti definisce, avvalendosi dell’Istituto superiore di Sanità e previo parere del Consiglio superiore di Sanità, linee guida contenenti l’indicazione delle procedure e delle tecniche di procreazione medicalmente assistita. Dette linee guida sono vincolanti per tutte le strutture autorizzate. Le linee guida sono aggiornate periodicamente, almeno ogni tre anni, in rapporti all’evoluzione tecnico-scientifica, con le medesime procedure “ (così il tenore originario dell’art. 7 della legge n. 40 del 19 febbraio 2004, n. 40. Questa previsione, che peraltro, per la precisione, attribuisce il potere regolamentare al Ministro della sanità e non all’intero Governo, viene qui portata ad esempio dell’ampiezza di contenuti, dunque di scelte discrezionali, che possono essere rimessi a un regolamento).

a) Nel conferire poteri normativi al Governo la legge deve rispettare limiti costituzionali (che sono anche limiti storici e culturali).

Quali sono, e come si individuano, i limiti del potere regolamentare del Governo?In teoria, una legge può semplicemente attribuire al Governo il potere di adottare regolamenti in certe materie: possiamo ipotizzare una disposizione di legge che dice “il Governo, con propri regolamenti, disciplina il numero la struttura e la forma organizzativa delle direzioni generali dei ministeri “, con il che tutta questa materia (numero, struttura e forma organizzativa delle direzioni generali dei Ministeri) viene attribuita alla competenza del Governo, il quale potrà emanare non solo i primi

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regolamenti attuativi, ma anche tutti i successivi che si rendano necessari per adattare la disciplina a nuove esigenze, senza più bisogno di ricevere una nuova autorizzazione, finché una legge non abroghi quella che ha attribuito al Governo la competenza, e gliela revochi. L’ampiezza delle materie che la legge può attribuire alla competenza regolamentare del governo è segnata dalle riserve di legge esistenti in Costituzione, cioè dai casi in cui la Costituzione espressamente dice che una certa materia può essere disciplinata solo con legge, e soprattutto da una importante tradizione storica, comune al nostro come ad altri paesi, che tende a riservare alla legge la disciplina delle materie che incidono sulle libertà personali e sugli aspetti della vita collettiva più delicati e pertanto sono considerate inidonee a essere rilasciate all’Esecutivo, che potrebbe avere interesse a manipolarli secondo la propria convenienza politica.E’ possibile per esempio (meglio sarebbe dire, è legittimo?) che la legge incarichi il Governo di definire con regolamento una fattispecie di reato? No, perché secondo gli art. 13 e 25 della nostra Costituzione, e secondo una antichissima tradizione, la materia è riservata in modo assoluto alla legge, cioè solo la legge può creare reati e ne deve dettare tutti gli aspetti ( Art. 13: La libertà personale è inviolabile: non è ammessa forma alcuna di detenzione ecc. se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge”. Art. 25 comma 2: “Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”). Può la legge incaricare il Governo di dettare regolamenti sulla organizzazione della magistratura? No, perché secondo l’art. 108: “Le norme sull’ordinamento giudiziario e su ogni magistratura sono stabilite con legge”. Una legge che ciò facesse sarebbe incostituzionale per avere assunto contenuti (l’autorizzazione al Governo di intervenire con regolamento in materia riservata alla legge) che la Costituzione le vieta.Parliamo di riserve assolute di legge per indicare le materie in cui, secondo la Costituzione, non è ammesso il ricorso ai regolamenti, e di riserve relative di legge nei casi in cui i regolamenti sono ammessi, ma entro certi limiti.Un “luogo naturale” di esplicazione del potere regolamentare del Governo è l’organizzazione dei ministeri e della pubblica amministrazione, cioè degli apparati che dal Governo dipendono. In Francia per esempio, come ho detto, questa materia è attribuita per costituzione alla competenza dell’Esecutivo. La nostra Costituzione ha fatto una scelta diversa: recita infatti l’art. 97 della Costituzione: “ I pubblici uffici sono organizzati in base a disposizioni di legge. Nel caso di di materie sottoposte a riserva relativa di legge, la legge deve: regolare la materia nelle linee generali, e può rimettere al regolamento il proprio completamento. Questo è un esempio di riserva relativa di legge, mentre l’art. 13 o 25.2 sono esempi di riserve assolute, materie in cui il regolamento non può entrare.

3.La delegificazioneNel rispetto dei principi sin qui esposti, la legge può anche attribuire una materia, che oggi è regolata con legge, alla competenza dei regolamenti. Come principio generale, i regolamenti non hanno la forza di abrogare le leggi, perché le sono subordinati, sicché, nel caso un regolamento contrasti con una legge (ad esso precedente, perché la legge successiva ha da sola la forza di abrogare il regolamento) il regolamento è viziato. Per cui se una legge autorizza un regolamento a intervenire in una certa materia, il regolamento potrà disciplinarla solo nei limiti in cui la nuova disciplina introdotta dal Governo non costituisca deroga o modifica di previgenti disposizioni di legge. Se una materia è oggi disciplinata in modo compiuto e dettagliato con leggi, l’unico modo di dettare una nuova disciplina è intervenire con nuove leggi; oppure, si possono abrogare le leggi preesistenti, e autorizzare l’intervento, nella materia, di regolamenti. Questa è la delegificazione, che viene realizzata in questo modo: il legislatore decide che una materia, oggi regolata con legge, dovrà essere da ora in poi attribuita ai regolamenti. Su quella

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materia ci sono una o più d’una legge oggi vigenti. Il legislatore adotta una legge che disciplina nelle grandi linee la materia, secondo i criteri oggi ritenuti validi. Questa legge contiene una disposizione che autorizza il Governo a emanare uno o più regolamenti su quella materia. Questa stessa disposizione stabilisce anche che, alla data di entrata in vigore dei regolamenti, le leggi previgenti in materia sono abrogate, indicando puntualmente quali articoli saranno abrogati. In tal modo, l’effetto abrogativo è prodotto dalla legge, e l’emanazione dei regolamenti è soltanto la condizione al verificarsi della quale è subordinato il prodursi dell’effetto abrogativo. Una volta ‘delegificata’ una materia può essere nuovamente regolata con successivi regolamenti senza più bisogno dell’intervento del legislatore. In teoria esso potrebbe ‘riappropriarsi’ della materia semplicemente emanando una legge su di essa; ma, in pratica, la delegificazione funziona come lo spostamento di intere materie alla ‘libera’ competenza normativa del Governo.

La delegificazione consiste dunque nel cambiare la fonte della disciplina di una materia dalla legge al regolamento. Nell’ultimo quarto di secolo ha avuto una enorme espansione nel nostro ordinamento, specialmente nel campo della organizzazione e funzionamento degli apparati dipendenti dal Governo (Ministeri e pubblica amministrazione in generale).

4.Regolamenti indipendentiSecondo i principi ogni regolamento dovrebbe essere collegato a una legge che ha attribuito al governo il relativo potere, cioè la disciplina di ogni materia dovrebbe essere fatta così: legge, che disciplina in modo più o meno dettagliato la materia+ regolamento che integra la disciplina di legge, limitandosi alla mera esecuzione o anche assumendo contenuti ampi (questo dipende da quanto dettagliatamente la legge disciplina la materia considerata).In verità, possono esistere anche materia in cui l’unica disciplina è dettata con regolamento, e nessuna legge pone neppure un piccolo scampolo di disciplina. Questa ipotesi è ammissibile e legittima a condizione che vi sia almeno una norma di legge che prevede e delimita la potestà regolamentare. Se esiste una norma di legge che dice: il Governo può fare regolamenti in materie non regolate con legge, ecco che il potere regolamentare ha la sua base legislativa necessaria, per quanto minima. I regolamenti che si fondano su questo tipo di autorizzazione sono detti “indipendenti” e non sono ammissibili nelle materie sulle quali la Costituzione pone una riserva assoluta o relativa di legge.

5.I singoli regolamenti governativi nel nostro ordinamento: l’art. 17 della legge n. 400 del 1988Poiché ormai sappiamo che il potere regolamentare del Governo deve trovare la propria autorizzazione nella legge, non ci stupirà l’apprendere che esiste nel nostro ordinamento una disposizione legislativa che definisce i tipi di regolamento che il Governo può adottare e fissa i termini in cui ai diversi tipi di regolamento le leggi possono fare ricorso. Questa disposizione è l’art. 17 della legge n. 400 del 1988, la legge generale che – prendendo il posto della legge previgente in materia, la n. 100 del 1926, emanata durante il fascismo - disciplina l’organizzazione e il funzionamento del Governo, che ha dato per la prima volta in età repubblicana una disciplina generale al potere regolamentare, che in precedenza si basava su spezzoni di leggi anche molto risalenti nel tempo.

Possiamo provare a riconoscere tra le diverse ipotesi di potere regolamentare che la legge n. 400 individua, le varie ipotesi che abbiamo fatto anche noi.

Secondo l’art. 17 i regolamenti del governo possono disciplinare:

a) l’esecuzione delle leggi e dei decreti legislativi nonché dei regolamenti comunitarib) l’attuazione e l’integrazione delle leggi e dei decreti legislativi recanti norme di principio,

esclusi quelli relativi a materie riservate alla competenza regionale;

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c) le materie in cui manchi la disciplina di leggi o atti aventi forza di legge, sempre che non si tratti di materie comunque riservate alla legge;

d) l’organizzazione e il funzionamento delle amministrazioni pubbliche secondo le disposizioni dettate dalla legge.

Questo elenco è integrato dal secondo comma dello stesso articolo 17 che introduce una ulteriore ipotesi, quella dei

e) Regolamenti per la disciplina delle materie, non coperte da riserva assoluta di legge prevista dalla Costituzione, per le quali le leggi della Repubblica, autorizzando l’esercizio della potestà regolamentare del Governo, determinano le norme generali regolatrici della materia e dispongono l’abrogazione delle norme vigenti con effetto dall’entrata in vigore delle norme regolamentari.

I regolamenti indicati nella lettera a) e b) corrispondono ai regolamenti che integrano la disciplina introdotta da una legge: i regolamenti “per l’esecuzione” (lett. a) sono quelli dotati dei contenuti meno creativi, più di dettaglio, mentre i regolamenti “per l’attuazione e l’integrazione” (lett. b) sono quelli con cui il governo esercita valutazioni politiche e discrezionali più ampie, compie scelte di contenuto importanti e caratterizzanti.

I regolamenti indicati nella lettera d) (organizzazione e funzionamento delle amministrazioni pubbliche secondo le disposizioni dettate dalla legge) sono una forma particolare dei regolamenti per l’attuazione e integrazione, che viene menzionata a parte per via della materia, quella della organizzazione della pubblica amministrazione, di tradizionale importanza nel campo del potere regolamentare del governo.

I regolamenti indicati nella lettera c) sono i regolamenti indipendenti.

I regolamenti indicati nella lettera e) (secondo comma dell’art. 17) sono i regolamenti di delegificazione.

6.Il procedimento di formazione dei regolamentiI regolamenti del Governo seguono questo procedimento di formazione:

deliberazione del Consiglio dei Ministri, su proposta di uno o più Ministri (quelli competenti per materia), previo parere del Consiglio di Stato (e il parere di tutti gli altri eventuali organi che la legge prescriva al Governo di ascoltare);

parere delle commissioni parlamentari competenti per materia (se le singole leggi autorizzative lo prevedono);

emanazione con decreto del Presidente della Repubblica;

controllo di legittimità della Corte dei Conti;

pubblicazione.

La Corte dei Conti è un organo con numerose e ampie funzioni; oltre al controllo (preventivo) della legittimità degli atti del Governo, merita qui ricordare il controllo sulla gestione del bilancio dello stato. Ogni anno, la legge di bilancio stabilisce, per l’anno a venire, entrate e spese dello stato. A fine anno, la Corte controlla spese e gestioni finanziarie effettuate dallo stato e dalle pubbliche

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amministrazioni nel corso dell’anno, sotto il profilo della loro corrispondenza alle previsioni di bilancio (e anche della qualità della gestione: efficienza, economicità). Il Consiglio di Stato, oltre a essere l’organo suprema di giustizia amministrativa, è anche l’organo di consulenza giuridico-amministrativa del Governo. In questa sua funzione consultiva si colloca il ruolo di dare pareri al Governo sugli schemi di decreti, pareri che concernono la legittimità delle previsioni introdotte nei decreti, loro eventuali vizi, modi di migliorarne il drafting, cioè la redazione. Spesso il ruolo del Consiglio di Stato si spinge a predisporre gli schemi dei decreti, cioè in sostanza a scriverli. Il ruolo del Consiglio di Stato nel procedimento di formazione dei regolamenti del Governo solleva dubbi di opportunità dal momento che, come organo supremo di giustizia amministrativa, il Consiglio di Stato può sempre essere chiamato a pronunciarsi, in sede di ricorso, sulla legittimità di un regolamento sul quale aveva già dato il suo parere o che aveva addirittura redatto.

C.I poteri normativi del Governo nell’effettività

1. Il potere regolamentareDalla legge n. 400 in poi il ricorso del Governo ai poteri regolamentari è enormemente cresciuto. La legge n. 400 ha funzionato come una generale autorizzazione del Governo a ricorrere a regolamenti, sebbene sia frequentissimo il caso di regolamenti ‘atipici’ cioè che non rispettano i requisiti di forma e di contenuto previsti dalla legge 400. Si è parlato anzi, sin da anni ormai lontani di un fenomeno di vera e propria ‘fuga’ dal regolamento, nel senso che il Governo tende ad adottare atti normativi senza rispettare i procedimenti stabiliti dalla legge n. 400 (per esempio, omettendo la auto-qualificazione di ‘regolamento’). Questo ha generato enormi problemi, a cominciare da quello di stabilire quando si è davanti a un regolamento e quando a un provvedimento del Governo di carattere non normativo, problema molto delicato, dal momento che molto diverse sono le possibilità di intervento del giudice nell’un caso e nell’altro.

Di grande rilievo è stato poi lo strumento della delegificazione. Le leggi che autorizzano il Governo alla delegificazione dovrebbero essere (secondo la legge n. 400 e secondo i principi costituzionali sul rapporto tra Parlamento e Governo) norme che vincolano la discrezionalità dell’Esecutivo. Analogamente alle leggi di delegazione, dovrebbero definire oggetto e fini della delegificazione,e, in più elencare analiticamente le norme destinate all’abrogazione (perché solo la legge può abrogare un’altra legge).

Viceversa:“A partire dalla legge n. 537 del 1993 (legge finanziaria per il 1994), le leggi delegificanti hanno iniziato a perdere il carattere di ‘norme generali regolatrici della materia’ previsto dall’art. 17 della legge n. 400. Esse sono caratterizzate da un richiamo a ‘obiettivi generici’ o a non ben definiti ‘ principi e criteri direttivi’ in certi casi omettendo di indicare in maniera espressa le disposizioni legislative oggetto della delegificazione. “Per effetto di questo modo di operare, il Governo risulta nella sostanza libero di operare scelte non condizionate dalle norme generali regolatrici della materia, addirittura determinando in via autonomo le fonti – primarie – oggetto di abrogazione.La delegificazione, a sua volta, è spesso contenuta in decreti legge o in decreti legislativi, con i quali praticamente il Governo autorizza se stesso a modificare o abrogare la disciplina legislativa di un certo settore”. (A. Pisaneschi, 2014).

2.La delegazione legislativaLa Costituzione disegna la legge di delegazione come un atto con il quale le Camere delegano il Governo a emanare decreti su una materia definita, entro un dato termine e all’interno di precisi criteri e principi direttivi: la legge di delegazione, da un lato, deve limitare la discrezionalità del

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Governo, dall’altro lato, deve spostare sul Governo la definizione dei contenuti normativi, che ricadono nella scelta e nella responsabilità del Governo.Viceversa, per prassi ormai costante, le leggi delega, da una parte, a) contengono principi genericissimi o del tutto assenti; b) contengono norme che disciplinano in parte la materia che delegano al Governo ; o prevedono che, fatti gli schemi di decreto, questi siano sottoposti dal Governo all’esame delle competenti commissioni parlamentari. c) con il metodo della delega rinnovabile, il Governo viene autorizzato a intervenire sulla stessa materia con decreti che correggono, modificano, integrano i primi già emanati.

La delegazione legislativa ha istituito così un procedimento ad alto grado di ‘confusione’ istituzionale tra Parlamento e Governo, uno dei cui effetti è che i principi orientativi della delega, al pari della materia su cui incide e del tempo entro cui la delega deve essere esaurita precipitano nella indistinzione, possono essere rivisti e modificati nel corso del tempo.

Così, la funzione della legge di delegazione di norma interposta che dovrebbe servire a controllare la correttezza dell’esercizio della delega da parte del Governo viene resa inoperante e impossibile.

Nell’ottobre 2014 si è assistito al primo caso dichiarato di delega priva di oggetto o ‘in bianco’, in occasione dell’approvazione del c.d. ‘Jobs Act’. Per molti giorni la discussione, almeno davanti all’opinione pubblica, è stata incentrata sull’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, la norma sui licenziamenti, che il Governo voleva modificare, eliminando l’ipotesi di reintegro nel posto di lavoro del lavoratore illegittimamente licenziato. Nel disegno di legge di delegazione che, come ormai si usa, il Governo stesso ha predisposto e sottoposto alla Camera, non vi era menzione dell’art. 18. Tuttavia, il Governo ha diramato alle agenzie di stampa queste letterali parole: “l’art. 18 c’è, la delega è su tutto”. Su tutto? Si ripresenta così il concetto di ‘delega in bianco’.

3.Il decreto legge

Fin da anni ormai risalentissimi, il Governo ‘abusa’ del decreto legge facendovi ricorso non ‘in casi straordinari di necessità ed urgenza’ ma per perseguire il suo indirizzo politico.

All’epoca dei governi di coalizione, formati da fragili alleanze, il Governo si trovava di fronte alla quasi certezza che qualunque atto di iniziativa legislativa avesse presentato esso sarebbe stato insabbiato o stravolto dalla sua stessa maggioranza. Così, invalse la prassi che tutte quelle misure che erano necessarie non per fronteggiare situazioni straordinarie, ma per governare il paese, e che avrebbe richiesto troppo tempo approvare con legge, venivano adottate con decreto legge. Questo era politicamente conveniente per due motivi: intanto, il decreto è immediatamente in vigore e quindi è, di fatto, un modo per “fare qualcosa”, per provvedere; poi, siccome per convertire il decreto legge il Parlamento ha un certo tempo a disposizione, ma non moltissimo, durante il procedimento di conversione le varie forze politiche presenti in Parlamento erano più interessate a “saltare sulla diligenza” (la diligenza è, in questa espressione, il decreto legge che passa velocemente in Parlamento) e cercare, con modifiche ed emendamenti, di introdurre nel decreto disposizioni gradite a sé, al proprio elettorato, che sarebbero abbastanza rapidamente entrate in vigore. La prassi dell’abuso del decreto legge nasce dunque da una ‘complicità’ tra il Governo e il Parlamento.

Nacquero in quell’epoca e grazie a quella ‘complicità’ i “decreti omnibus” (i decreti fatti di tutto): il Governo faceva un decreto legge in materia di edilizia, per dare un sostegno al settore edilizio, e usciva una legge di conversione che conteneva norme in materia di edilizia, e di ogni altra cosa

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potesse in qualche modo esservi pur lontanamente connessa (parcheggi, svincoli stradali, tariffe, concessioni, sanità).

Si cominciò poi a verificare il caso sempre più frequente che, proprio per la ricchezza di “manipolazioni” di cui i decreti erano oggetto, che i sessanta giorni non bastassero per l’esame, e allora, per non far decadere il decreto, il Governo lo ritirava dall’esame delle Camere un giorno prima della scadenza e il giorno stesso ripresentava un altro decreto, e relativo disegno di conversione, con identico contenuto, che ripartiva il suo iter (che andava a saldarsi a quello già in corso). Con questo sistema (prassi della reiterazione del decreto legge) i decreti restavano “provvisoriamente” in vigore anche per un paio d’anni.

Invalse inoltre la prassi, a noi ormai ben nota, per cui il Governo, vedendo che il decreto in corso di conversione assumeva contenuti troppo lontani da quelli che il Governo aveva effettivamente inteso dettare, oppure che i tempi della conversione diventavano imprevedibili, lunghissimi, iniziò a porre la questione di fiducia sulla conversione del decreto (sono sottoposti a fiducia, negli ultimi anni, il 90% dei decreti, e, per quanto riguarda il Governo attualmente in carica, il 100%).

Il fatto singolare, è che il ricorso al decreto legge non solo è rimasto, ma si è accresciuto, dopo che, con il nuovo sistema elettorale maggioritario e i nuovi regolamenti parlamentari, i Governi dispongono di una forte maggioranza e di procedure parlamentari a loro favorevoli.

Negli anni 2000, il ricorso al decreto legge ha assunto carattere sistematico, specialmente per i grandi interventi in materia economico finanziaria. Si calcola che circa il 95% delle decisioni di spesa approvate in Parlamento dal 2006 al 2010 sia passato per disposizioni contenute in un decreto legge. Si sono così consolidate:

- la prassi delle ‘catene di decreti legge’ (decreti legge con cui si interviene più volte sulla stessa materia);

- la prassi dei decreti legge adottati per prorogare la scadenza di termini previsti dalla legislazione vigente;

- la prassi dei decreti che sono tanto poco straordinari e urgenti da contenere disposizioni ad attuazione differita;

- la prassi dei decreti legge trasmessi al Presidente della Repubblica per l’emanazione dopo un certo tempo, per esempio una settimana ,dalla loro approvazione in Consiglio dei Ministri, che è una approvazione fatta ‘salvo intese’, vale fatta su una mera ‘bozza’ di decreto, dopodiché il contenuto del decreto viene deciso nel dettaglio fuori dal Consiglio dei Ministri, e cioè dal singolo ministro e dai suoi apparati tecnici e nel ‘dialogo’ con i portatori di interessi coinvolti;

- il genere, antichissimo, dei decreti legge che contengono disposizioni eterogenee (decreti omnibus, oggi chiamati ‘decreti a contenuto plurimo’) si è arricchito nelle ultime due legislature di un nuovo tipo, definito decreto ‘rampino’ con il quale si introducono in un decreto legge disposizioni di contenuto limitato al fine di consentire, in sede di conversione, che ad esse si ‘aggancino’ intere normative di più ampio rilievo. Per esempio, il decreto-legge 30 dicembre 2005 n. 272, recante misure urgenti per garantire la sicurezza e i finanziamenti per le Olimpiadi di Torino, nel quale fu sin dall’origine inserito un articolo contenente ‘disposizioni per favorire il recupero di tossicodipendenti recidivi’, il che ha consentito, in sede di conversione, di introdurre una cospicua serie di modifiche al testo unico sugli stupefacenti, modifiche a loro volta già previste in un altro disegno di legge del Governo, e che si è trovato ‘agganciato’ al rampino della conversione.

-Il carattere multiforme dei contenuti dei decreti legge spiega anche come mai recentemente si usi, da parte del Governo, indicarli con denominazioni sintetiche (Salva Italia, Sblocca Italia, ecc.). Questo

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non sarebbe dovuto tanto “a una operazione di marketing politico o comunicativo, ma all’oggettiva impossibilità di trovare formule riassuntive di tutte le materie toccate dalle disposizioni del provvedimento’ ricorda in una puntuale analisi del 2014 Roberta Calvano, che porta ad esempio come il decreto ‘Destinazione Italia’ del 2014, recasse la ‘vera’ intitolazione di “Interventi urgenti idi avvio del Piano Destinazione Italia, per il contenimento delle tariffe elettriche e del Gas, per la riduzione dei premi di RC auto, per l’internazionalizzazione, lo sviluppo e la digitalizzazione delle imprese, nonché misure per la realizzazione di opere pubbliche e di EXPO 2015”. Il decreto legge n. 93 del 2013, noto come ‘decreto contro il femminicidio’ conteneva ‘norme in materia di sicurezza e e per il contrasto della violenza di genere nonché in tema di protezione civile e di commissariamento delle province”. Il decreto conteneva, anche e per esempio, norme sulla messa in sicurezza dei cantieri del Tav, sull’emergenza in Nord Africa, sul potenziamento dei vigili del fuoco. Sono coacervi di questo genere che, con la posizione della questione di fiducia, vengono sottoposti in blocco al ‘sì’ o ‘no’ del Parlamento. Il che rappresenta certamente un paradosso, se si pensa che, in materia di referendum abrogativo, la Corte costituzionale ha sempre ritenuto essenziale l’omogeneità del quesito e dichiarato inammissibili i referendum che vertessero su questioni diverse, perché sarebbe lesivo della libertà di voto dell’elettore, il quale potrebbe poter votare sì a punto del quesito e no a un altro. E’ un esempio di come il nostro ordinamento sia retto da principi contrastanti, contraddittori, ciò che mina profondamente da un lato sia la certezza del diritto sia l’eguaglianza tra governanti e governati.

Sebbene la Corte costituzionale abbia ricordato più volte che ciò non è legittimo, il decreto legge ha ormai conquistato le materie cd ‘ordinamentali’ cioè quelle naturalmente riservate alla legge ordinaria perché la loro natura e l’importanza dei valori costituzionali coinvolti impone una disciplina sistematica alla quale il decreto legge è per definizione inadatto. Negli ultimi anni si sono ripetuti i decreti sulle autonomie territoriali e locali, e si è intervenuti con decreto legge sullo status dei magistrati (materia addirittura coperta in Costituzione da una ‘riserva di ordinamento giudiziario’ cioè che dovrebbe non solo essere regolata con legge ma da legge organicamente rivolta a regolamentare lo status dei magistrati).

E’ diventato abituale che con decreto il Governo si attribuisca deleghe legislative, autorizzi la ratifica di trattati internazionali, o, cosa veramente singolare, si impegni a emanare futuri decreti legge entro un certo tempo (così l’art. 7 comma 1 del decreto legge 201 del 2011 cd Cresci Italia).

Non è infrequente il caso che, nel procedimento di conversione, il Governo chieda e ottenga di accorpare più decreti, sottoposti così tutti insieme all’ “esame” (meglio sarebbe dire al “voto di ratifica”) delle Camere. Nel corso della storia repubblicana, il ricorso al decreto legge fuori dai casi di necessità e urgenza è sempre stato guardato, dalla dottrina, come un abuso che sia il Governo che il Parlamento fanno delle proprie prerogative e doveri costituzionali. E’ vero infatti che il Governo abusa presentando i decreti fuori dai requisiti costituzionali; ma altrettanto abusa il Parlamento, che non si è mai rifiutato di convertire un decreto. Si è istituita così una sorta di convenzione, di prassi, che vede il potere legislativo spostarsi sul Governo.

L’abuso del decreto legge è dunque una continuità nella storia repubblicana, ma sarebbe sbagliato pensare che siamo davanti a un fenomeno sempre uguale a se stesso . Se i fragili Governi degli anni ’70 e ’80 con la loro (agli occhi di oggi quanto modesta e piccola!) prassi d’abuso del decreto legge cercavano di aggirare maggioranze riottose e contrattare con esse, oggi tutti gli osservatori concordano che sempre più spesso ciò che il Governo scrive nei decreti è “eterodeterminato”. I Governi portano all’approvazione delle Camere contenuti che non riflettono tanto il loro indirizzo politico, quanto impegni assunti con le organizzazioni sovranazionali, come la

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Ue, la Banca Centrale Europea, il Fondo Monetario internazionale e dunque con gli interessi che queste istituzioni rappresentano. La crescita del decreto legge, in altri termini, oggi viene messa in relazione con la perdita di sovranità collegata alla globalizzazione e alla integrazione sovranazionale. e viene vista come una incisione non solo sulla forma di governo, ma sulla stessa forma di stato democratica.

A conferma di questo cambiamento di senso che il decreto legge, e il suo abuso, ha assunto sta l’insorgere ormai deciso di un atteggiamento interpretativo, sostenuto dal Presidente della Repubblica, dai Presidenti di Assemblea Parlamentare e dal Governo, che il Parlamento deve convertire i decreti senza emendarli (nonostante che, nel procedimento di conversione, eserciti in maniera piena la potestà legislativa).

La definitiva sanzione di questa torsione interpretativa è venuta dalla sentenza n. 22 del 2012 della Corte costituzionale che ha qualificato la legge di conversione una legge a competenza limitata, ‘funzionalizzata alla stabilizzazione del decreto legge’.

Come ha scritto Giuseppe Filippetta in una nota del 2014, questo orientamento della Corte costituzionale “per il suo essere apertamente in contrasto con la lettera della Costituzione, e con la ratio dell’art. 77 Cost. risultante dai lavori preparatori e da oltre mezzo secolo di concordi riflessioni dottrinali, prassi parlamentari e decisioni della stessa Corte costituzionale sembra porsi come una sostanziale riscrittura dell’art. 77, che da disposizione sui limiti del potere governativo di decretazione d’urgenza diviene disposizione sui limiti del potere parlamentare di conversione”.

4.Una nuova “cultura costituzionale”?Per spiegarsi un simile salto, per spiegarsi come sia possibile che il garante della legalità costituzionale abbia dato alla Costituzione una interpretazione ‘contra rationem’ (cioè palesemente in contrasto con quello che la Costituzione intende dire quando parla dei decreti legge), questo Autore pensa che si sia ormai affermata una ‘cultura costituzionale’ talmente diversa da quella che ha presieduto non solo all’elaborazione della Costituzione ma anche alla vita repubblicana fino a pochissimi anni fa “da consegnare al passato, un passato che, nella decisione della Corte, non è neppure ricordato, ma semplicemente ignorato, ciò che i Costituenti avevano voluto consegnare al futuro, cioè la esclusiva spettanza alle Camere del potere legislativo”. Che cosa è riflesso in questa nuova ‘cultura costituzionale’ che vede come normale titolare della funzione legislativa il Governo e come modo normale di legiferare l’urgenza, la mancanza di discussione, la confusione che mette in un unico provvedimento una miriade di disposizioni diverse, che restano sconosciute all’organo che le vota, cioè il Parlamento e che porta con sé lo scavalcamento e l’annullamento di ogni procedura, di ogni regola messa alla ‘decisione’?Secondo Filippetta questa ‘nuova cultura costituzionale’ riflette:

“La definitiva crisi di rappresentatività dei partiti e l’affermarsi, con la globalizzazione e la digitalizzazione, di una nuova, iperaccelerata temporalità dell’esperienza individuale e sociale che spingono con forza irresistibile le istituzioni , le procedure, le mediazioni parlamentari ai margini dello Stato, inteso come machina legislatoria (macchina per produrre leggi). Oggi il tempo necessario per prendere una decisione è un aspetto fondamentale della qualità della decisione stessa. Oggi – come ha sottolineato nel 2011 l’allora Governatore della Banca d’Italia Mario Draghi – le strutture transgovernative nelle quali si discutono le riforme economiche in campo internazionale (dal FMI all’Ocse al G20) prefigurano “nuovi modi con cui esplicare la sovranità, che viene per loro tramite disarticolata funzionalmente, prospettando una forma di politica pubblica globale e determinando lo sviluppo di capacità decisionali sussidiarie su scala internazionale “su cui i Governi nazionali si riservano solo un potere di ratifica ex post”.

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L’abuso del decreto legge un tempo poteva essere letto come la perdita di potere del Parlamento davanti al Governo; oggi, esso segnala la perdita di potere di entrambi, come istituzioni rappresentative, davanti alle istituzioni e alle forze che detengono il potere di governo nella globalizzazione.

L’esperienza della democrazia costituzionale congiunge epoche, culture, situazioni economiche e politiche molto diverse come quella dell’immediato secondo dopoguerra e l’attuale: essa aveva forgiato una idea di stato democratico, limitato da una legalità ‘costituzionale’, intriso di pluralismo, fortemente aperto all’integrazione sovranazionale. Il pluralismo è un bene, ma anche una via per ‘ridurre lo stato a una istituzione tra altre’ e permettere l’affermazione di gruppi di interesse più potenti di altri; l’integrazione sovranazionale uno strumento di pace e sviluppo, ma anche di affermazione di poteri nuovi non sempre armonici con le caratteristiche di un ordinamento fondato sulla sovranità popolare.

Il percorso appena descritto viene coronato dalla riforma costituzionale, che sanziona la perdita di importanza della legge e della funzione legislativa, a tutto favore del Governo.Il Governo diviene dominus delle procedimento legislativo e assiste alla trasformazione del decreto legge nell’atto normativo più importante dell’ordinamento.

Le disposizioni-chiave a questo riguardo sono il nuovo art. 70, 72 e 77.

1. L'articolo 70 della Costituzione è sostituito dal seguente:«Art. 70. – La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere per le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali, e soltanto per le leggi di attuazione delle disposizioni costituzionali concernenti la tutela delle minoranze linguistiche, i referendum popolari, le altre forme di consultazione di cui all'articolo 71, per le leggi che determinano l'ordinamento, la legislazione elettorale, gli organi di governo, le funzioni fondamentali dei Comuni e delle Città metropolitane e le disposizioni di principio sulle forme associative dei Comuni, per la legge che stabilisce le norme generali, le forme e i termini della partecipazione dell'Italia alla formazione e all'attuazione della normativa e delle politiche dell'Unione europea, per quella che determina i casi di ineleggibilità e di incompatibilità con l'ufficio di senatore di cui all'articolo 65, primo comma, e per le leggi di cui agli articoli 57, sesto comma, 80, secondo periodo, 114, terzo comma, 116, terzo comma, 117, quinto e nono comma, 119, sesto comma, 120, secondo comma, 122, primo comma, e 132, secondo comma. Le stesse leggi, ciascuna con oggetto proprio, possono essere abrogate, modificate o derogate solo in forma espressa e da leggi approvate a norma del presente comma.Le altre leggi sono approvate dalla Camera dei deputati.Ogni disegno di legge approvato dalla Camera dei deputati è immediatamente trasmesso al Senato della Repubblica che, entro dieci giorni, su richiesta di un terzo dei suoi componenti, può disporre di esaminarlo. Nei trenta giorni successivi il Senato della Repubblica può deliberare proposte di modificazione del testo, sulle quali la Camera dei deputati si pronuncia in via definitiva. Qualora il Senato della Repubblica non disponga di procedere all'esame o sia inutilmente decorso il termine per deliberare, ovvero quando la Camera dei deputati si sia pronunciata in via definitiva, la legge può essere promulgata. L'esame del Senato della Repubblica per le leggi che danno attuazione all'articolo 117, quarto comma, è disposto nel termine di dieci giorni dalla data di trasmissione. Per i medesimi disegni di legge, la Camera dei deputati può non conformarsi alle modificazioni proposte dal Senato della Repubblica a maggioranza assoluta dei suoi componenti, solo pronunciandosi nella votazione finale a maggioranza assoluta dei propri componenti. I disegni di legge di cui all'articolo 81, quarto comma, approvati dalla Camera dei deputati, sono esaminati dal Senato della Repubblica, che può deliberare proposte di modificazione entro quindici giorni dalla data della trasmissione. I Presidenti delle Camere decidono, d'intesa tra loro, le eventuali questioni di competenza, sollevate secondo le norme dei rispettivi regolamenti. Il Senato della Repubblica può, secondo quanto previsto dal proprio regolamento, svolgere attività conoscitive, nonché formulare osservazioni su atti o documenti all'esame della Camera dei deputati».

L’atto fonte ‘ legge’ si articola in diversi sotto-tipi:1) le leggi bicamerali, cui concorrono le due camere in modo paritario (sebbene il Senato non sia più elettivo e soprattutto non sia chiaro davanti a chi sia responsabile del proprio operato), e tra le quali rientrano le leggi di revisione costituzionale:2) le leggi per le quali l’esame del Senato è obbligatorio, sebbene non vincolante (leggi che danno attuazione all’art.

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117/4 comma cioè dettano le procedure per la partecipazione delle province autonome di Trento e Bolzano alla formazione degli atti della Ue) comma cioè esercitano la potestà legislativa statale)M disegni di legge in materia di bilancio;3) le leggi per le quali il parere del Senato è eventuale (tutte le altre).

Per le sole leggi bicamerali è stabilito che a) devono avere ciascuna un ‘oggetto proprio’; e b) possono essere abrogate, modificate o derogate solo in forma espressa e da leggi approvate con lo stesso procedimento (pertanto è da ritenere siano tutte sottratte a referendum abrogativo). Questa disposizione sottrae all’autorità giudiziaria potere interpretativo e intende protegge l’indirizzo politico statale.

«Art. 72. – Ogni disegno di legge di cui all'articolo 70, primo comma, presentato ad una Camera, è, secondo le norme del suo regolamento, esaminato da una Commissione e poi dalla Camera stessa, che l'approva articolo per articolo e con votazione finale.Ogni altro disegno di legge è presentato alla Camera dei deputati e, secondo le norme del suo regolamento, esaminato da una Commissione e poi dalla Camera stessa, che l'approva articolo per articolo e con votazione finale.I regolamenti stabiliscono procedimenti abbreviati per i disegni di legge dei quali è dichiarata l'urgenza.Possono altresì stabilire in quali casi e forme l'esame e l'approvazione dei disegni di legge sono deferiti a Commissioni, anche permanenti, che, alla Camera dei deputati, sono composte in modo da rispecchiare la proporzione dei gruppi parlamentari. Anche in tali casi, fino al momento della sua approvazione definitiva, il disegno di legge è rimesso alla Camera, se il Governo o un decimo dei componenti della Camera o un quinto della Commissione richiedono che sia discusso e votato dalla Camera stessa oppure che sia sottoposto alla sua approvazione finale con sole dichiarazioni di voto. I regolamenti determinano le forme di pubblicità dei lavori delle Commissioni. La procedura normale di esame e di approvazione diretta da parte della Camera è sempre adottata per i disegni di legge in materia costituzionale ed elettorale, per quelli di delegazione legislativa, per quelli di conversione in legge di decreti, per quelli di autorizzazione a ratificare trattati internazionali e per quelli di approvazione di bilanci e consuntivi. Il regolamento del Senato della Repubblica disciplina le modalità di esame dei disegni di legge trasmessi dalla Camera dei deputati ai sensi dell'articolo 70. Esclusi i casi di cui all'articolo 70, primo comma, e, in ogni caso, le leggi in materia elettorale, le leggi di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali e le leggi di cui agli articoli 79 e 81, sesto comma, il Governo può chiedere alla Camera dei deputati di deliberare, entro cinque giorni dalla richiesta, che un disegno di legge indicato come essenziale per l'attuazione del programma di governo sia iscritto con priorità all'ordine del giorno e sottoposto alla pronuncia in via definitiva della Camera dei deputati entro il termine di settanta giorni dalla deliberazione. In tali casi, i termini di cui all'articolo 70, terzo comma, sono ridotti della metà. Il termine può essere differito di non oltre quindici giorni, in relazione ai tempi di esame da parte della Commissione nonché alla complessità del disegno di legge. Il regolamento della Camera dei deputati stabilisce le modalità e i limiti del procedimento, anche con riferimento all'omogeneità del disegno di legge».

Con la nuova ipotesi della ‘legge prioritaria’ la riforma attribuisce al governo il potere di condizionare l’andamento dei lavori della Camera imponendo un termine entro il quale l’esame di un disegno di legge deve essere concluso.

All'articolo 77 della Costituzione sono apportate le seguenti modificazioni:«Il Governo non può, mediante provvedimenti provvisori con forza di legge: disciplinare le materie indicate nell'articolo 72, quinto comma, con esclusione, per la materia elettorale, della disciplina dell'organizzazione del procedimento elettorale e dello svolgimento delle elezioni; reiterare disposizioni adottate con decreti non convertiti in legge e regolare i rapporti giuridici sorti sulla base dei medesimi; ripristinare l'efficacia di norme di legge o di atti aventi forza di legge che la Corte costituzionale ha dichiarato illegittimi per vizi non attinenti al procedimento.I decreti recano misure di immediata applicazione e di contenuto specifico, omogeneo e corrispondente al titolo.

L'esame, a norma dell'articolo 70, terzo e quarto comma, dei disegni di legge di conversione dei decreti è disposto dal Senato della Repubblica entro trenta giorni dalla loro presentazione alla Camera dei deputati. Le proposte di modificazione possono essere deliberate entro dieci giorni dalla data di trasmissione del disegno di legge di conversione, che deve avvenire non oltre quaranta giorni dalla presentazione.

Nel corso dell'esame dei disegni di legge di conversione dei decreti non possono essere approvate disposizioni estranee all'oggetto o alle finalità del decreto».

La prima parte di questa disposizione ripete limiti alla decretazione d’urgenza introdotti nel nostro

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ordinamento dalla legge n. 400 del 1988 e pertanto già esistenti. L’ultimo comma invece costituzionalizza la giurisprudenza costituzionale che abbiamo illustrato nelle pagine precedenti, e che ha ridotto la legge di conversione a una legge a competenza limitata nella quale il Parlamento oggi (domani, la Camera dei deputati) non esercita la piena funzione legislativa ma una funzione molto più ridotta consistente nel limitarsi ad approvare o meno il decreto adottato dal Governo.

Di notevole, in questo itinerario, è la definitiva promozione del decreto legge a atto normativo dotato di un proprio oggetto e di proprie finalità che ne fa espressamente un atto di indirizzo politico, nonostante la Costituzione, così aggravandosi il tasso di ‘confusione’ che regna nel nostro ordinamento, continui a definirlo possibile solo ‘in casi straordinari di necessità e urgenza’).

Da notare che con decreto legge il Governo potrà intervenire nelle materie riservate alla legislazione bicamerale. Il decreto, infatti, deve essere presentato per la conversione alla sola Camera dei deputati ‘anche quando la funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere’ e del resto la conversione dei decreti legge non rientra nelle materie assegnate alla competenza bicamerale, neppure per l’ipotesi di decreti che vertano su materie bicamerali.

Il Presidente della Repubblica

Secondo una tradizionale definizione, il Presidente della Repubblica assolve nella nostra forma di governo alla funzione di organo imparziale chiamato a garantire il corretto svolgimento della vita istituzionale. Questa importante funzione è il tessuto connettore delle numerose attribuzioni del Capo dello Stato e viene esercitata sia attraverso il compimento di atti formali (come il rinvio di una legge per il nuovo esame alle Camere o lo scioglimento delle Camere), sia attraverso una attività informale fatta di contatti, sollecitazioni, messaggi scritti o anche “esternazioni”, come vengono chiamate le prese di posizione pubblica del Capo dello Stato su questioni di volta in volta rilevanti. Gli atti formali sono

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quelli previsti e descritti in Costituzione e che devono seguire certe procedure e rispettare certi requisiti (ad es. per sciogliere le Camere il Presidente deve sentire i loro Presidenti: art. 88 Cost.) ; gli atti informali sono quelli cui il Presidente dà vita in assenza di una previsione che li definisca. Nello svolgimento della sua funzione, il Capo dello stato ha attribuzioni che lo mettono in contatto con i tre poteri dello stato, legislativo, esecutivo e giudiziario.

Rispetto al potere legislativo, spetta al Capo dello Stato, in particolare: sciogliere le Camere (art. 88); indire nuove elezioni e fissarne la prima riunione (art. 87), in

modo che questa delicata scelta non sia rimessa alle valutazioni di opportunità dei due organi che vedono da queste scelte direttamente condizionata la loro esistenza in vita e la propria possibilità di rielezione, il Parlamento e il Governo;

promulgare le leggi (art. 87) svolgendo una valutazione sulla loro correttezza costituzionale che può tradursi nel rinvio della legge per un nuovo esame alle Camere (art. 74) (le quali possono peraltro riapprovare la legge senza tener conto delle osservazioni del Capo dello Stato, che è tenuto in questo caso a promulgarla senza ulteriore indugio);

indirizzare messaggi alle Camere (art. 87). Col potere di ‘messaggio’ il Capo dello Stato può sottoporre alle Camere un problema o una serie di problemi che a suo avviso dovrebbero essere urgentemente considerati dalle Camere stesse nella loro attività legislativa, indicando anche i modi con cui a suo avviso il problema dovrebbe essere affrontato. Per esempio, nel suo unico messaggio alle Camere, dell’8 ottobre 2013, il Presidente Giorgio Napolitano si è occupato della questione del sovraffollamento carcerario, prendendo spunto da decisioni della Corte europea dei diritti dell’uomo che hanno condannato il nostro paese per la disumanità delle condizioni delle nostre carceri, e ha indicato una serie di strumenti molto puntuali con cui future leggi avrebbero dovuto a suo avviso affrontare il problema8 . Il potere di messaggio è un potere estremamente delicato, che i Presidenti esercitano molto raramente, anche perché vi è il rischio che il messaggio del Presidente cada per così dire nel vuoto, non abbia seguito da parte delle Camere, il che può nuocere all’immagine istituzionale del Capo dello Stato, indebolendone il prestigio e l’autorevolezza.

Rispetto al Governo, spetta al Capo dello Stato, in particolare: ricevere le dimissioni del Governo e nominare il Presidente del consiglio e i ministri (art. 92 e

93 Cost.), svolgendo le delicate valutazioni che a questo riguardo possono essere implicate da una crisi di governo in corso di legislatura;

emanare gli atti del Governo (che assumono la forma di decreti del Presidente della Repubblica) e autorizzare la presentazione da parte del Governo di disegni di legge alle Camere (art. 87). Delicatissima in questo campo è la valutazione che spetta al capo dello stato

8 Li menzioniamo per dare l’idea della precisione e del grado di dettaglio che le indicazioni presidenziali possono raggiungere nel contesto di un messaggio alle Camere. Il Presidente raccomandava: “1). L'introduzione di meccanismi di probation, [cioè] per taluni reati e in caso di assenza di pericolosità sociale, la possibilità per il giudice di applicare direttamente la "messa alla prova" come pena principale. In tal modo il condannato eviterà l'ingresso in carcere venendo, da subito, assegnato a un percorso di reinserimento; 2) la previsione di pene limitative della libertà personale, ma "non carcerarie" ("reclusione presso il domicilio"); 3) la riduzione dell'area applicativa della custodia cautelare in carcere; 4) l'accrescimento dello sforzo diretto a far sì che i detenuti stranieri possano espiare la pena inflitta in Italia nei loro Paesi di origine. 5) l'attenuazione degli effetti della recidiva quale presupposto ostativo per l'ammissione dei condannati alle misure alternative alla detenzione carceraria; modifiche all'istituto della liberazione anticipata [per] detrarre dalla pena da espiare i periodi di "buona condotta" riferibili al tempo trascorso in "custodia cautelare", aumentando così le possibilità di accesso ai benefici penitenziari; 6) infine, una incisiva depenalizzazione dei reati, per i quali la previsione di una sanzione diversa da quella penale può avere una efficacia di prevenzione generale non minore. Il testo completo del messaggio, insieme a una ricca documentazione sugli atti presidenziali, è reperibile nel sito della Presidenza della Repubblica.

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sulla emanazione di decreti legge e sulla presentazione alle Camere del relativo disegno di legge di conversione.

Strettissimamente confinanti con quelle del Governo sono le attribuzioni che il Presidente ha nel campo della politica estera. Il Presidente accredita e riceve i rappresentanti diplomatici, ratifica i trattati internazionali previa, quando occorra, l’autorizzazione delle Camere, ha il comando delle Forze Armate , presiede il Consiglio Supremo di Difesa e dichiara lo stato di guerra deliberato dalle due Camere (art. 87).

Rispetto alla Magistratura, spetta al Capo dello Stato esercitare la presidenza del Consiglio Superiore della Magistratura, l’organo di autogoverno

della magistratura ordinaria (art. 104).

Il Presidente inoltre ha il potere di grazia (“può concedere la grazia e commutare le pene”: art. 87) che è un potere confinante con il campo proprio della giurisdizione. Il Presidente della Repubblica indice il referendum popolare (87).Ha importanti poteri di nomina. In particolare, ha il potere di scegliere cinque ‘senatori a vita’ (“Il Presidente della Repubblica può nominare senatori a vita cinque cittadini che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario”, art. 59 comma 2 Cost.;) e un terzo dei componenti la Corte costituzionale (art. 134).Il Presidente della Repubblica dopo la scadere del suo mandato è di diritto senatore a vita (art. 59 comma 1).

E’ molto importante tenere presente che, proprio in virtù del ruolo di garanzia che è chiamato a esercitare, il Presidente della Repubblica non è un organo di indirizzo politico. Egli non viene eletto in considerazione delle sue visioni politiche né tanto meno è portatore di un proprio programma, di propri obiettivi politici. Conseguentemente, il Capo dello Stato è un organo privo di responsabilità politica. La responsabilità politica consiste nel rispondere per l’opportunità delle proprie azioni. La responsabilità politica lega il Governo al Parlamento ed è sancita dal nesso fiduciario: con il voto di fiducia, le Camere autorizzano il Governo a porre in essere il suo programma politico ma qualora il Governo si allontani dal programma che aveva promesso di perseguire o compia azioni che le Camere considerano inopportune, sbagliate, ingiuste – politicamente non condivisibili – esse possono chiamarlo a rispondere fino al punto di farlo cadere con il voto di sfiducia. Un nesso di responsabilità politica lega le Camere all’elettorato, che può far sentire il proprio dissenso verso il modo in cui i rappresentanti eletti in Parlamento hanno svolto le loro funzioni con la critica e non votandoli più. Essendo privo di poteri di indirizzo politico, il Capo dello Stato non può essere chiamato a rispondere per il senso politico delle proprie azioni, per la loro opportunità. Non vi sono, del resto, nel suo caso, promesse fatte in sede elettorale o dichiarazioni programmatiche (come avviene per i membri del Parlamento e per il Governo). Secondo l’art. 90 della Costituzione, “Il Presidente della Repubblica non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per attentato alla Costituzione”.L’unico tipo di responsabilità specifica prevista per il Capo dello Stato è la responsabilità, penale, per il reato di alto tradimento e attentato alla Costituzione, due reati che possono essere compiuti solo dal Capo dello Stato e che implicano l’essere venuto meno agli obblighi costituzionali inerenti la sua funzione (il giudizio su questi reati è, come abbiamo visto, di competenza della Corte costituzionale (cd. Giudizio sulle accuse: art. 90 comma 1 Cost.). Il reato di alto tradimento e attentato alla Costituzione sono definiti “reati funzionali” cioè reati che solo il presidente della repubblica può compiere in quanto consistenti in attività connesse alla sua funzione. La maggioranza della dottrina ha sempre ritenuto che mentre per questi reati funzionali

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esiste la speciale procedura appena descritta, per i reati, o per i fatti illeciti, ‘extrafunzionali’ cioè per qualunque reato si renda responsabile, o meglio possa essere imputata o chiamata a rispondere la persona fisica che riveste la carica di presidente della Repubblica, non esiste alcuna speciale immunità, e si applicherebbe il diritto comune. Il Presidente dunque godrebbe di una speciale posizione nell’ordinamento che consiste nell’assenza di responsabilità politica e di responsabilità civile e penale per tutti gli atti connessi alla sua funzione, ma avrebbe una posizione del tutto analoga a ogni altro consociato per gli atti non connessi alla sua funzione.In questo momento ci preme sottolineare il punto della estraneità del Capo dello Stato dal circuito della responsabilità politica che lega il Governo al Parlamento e quest’ultimo al corpo elettorale. Tale estraneità, ha sottolineato nel corso del tempo la dottrina, è segnalata anche dalle modalità di elezione e durata in carica del Capo dello Stato. La durata in carica è fissata a 7 anni ed eccede perciò la durata di una legislatura (il capo dello stato è eletto da maggioranze politiche che non corrispondono necessariamente a quelle in carica a un dato momento della sua presidenza) e per la sua elezione sono richieste maggioranze superiori alla maggioranza semplice (la maggioranza che sostiene il governo non è sufficiente per eleggere il capo dello stato) e per la precisione i due terzi nella prima e seconda votazione e la maggioranza assoluta a partire dalla terza votazione. Il Presidente non è dunque l’espressione di una maggioranza, non riceve un ‘mandato’, non viene eletto per un suo programma politico, non è neppure l’espressione di una volontà delle sole forze politiche, ma dell’intera Repubblica: infatti il parlamento in seduta comune, organo competente per la sua elezione, è integrato dalla presenza di tre rappresentanti per ogni regione (uno per la Valle d’Aosta). Questo è il senso che viene attribuito alla espressione della Costituzione che lo definisce come “rappresentante dell’unità nazionale” (art. 87).

Nella nuova ‘costituzione’…

La riforma costituzionale introduce una importante modificazione relativamente alle elezione del Capo dello Stato, allorché prevede che ‘dal quarto scrutinio è sufficiente la maggioranza dei tre quinti dell’assemblea. Dal settimo scrutinio è sufficiente la maggioranza dei tre quinti dei votanti’, laddove secondo la Costituzione vigente si richiede la maggioranza dei due terzi dell’assemblea o la maggioranza assoluta dopo il terzo scrutinio. La maggioranza richiesta per eleggere il Capo dello Stato dunque si abbassa e tende a coincidere con la maggioranza assoluta, il che può rimettere al partito di maggioranza la scelta del Presidente, cosa in contraddizione col suo ruolo neutrale e super partes. Alcuni osservatori temono che il nuovo Presidente della Repubblica possa trasformarsi o in una sorta di espressione e di ostaggio della maggioranza di governo, ciò che ne annullerebbe il ruolo dialettico e di garanzia super partes; non è escluso però, anche in considerazione delle trasformazioni che hanno interessato negli ultimi anni la figura presidenziale, e di cui renderemo conto nelle prossime pagine, che il nuovo Capo dello Stato si riveli come capo effettivo della maggioranza, aprendosi in tal modo la via a una trasformazione implicita della forma di governo in senso presidenzialista.

2.1.La controfirma degli atti del Presidente della RepubblicaAlla irresponsabilità politica del Capo dello Stato si lega all’istituto della controfirma. “Nessun atto del Presidente è valido se non è controfirmato dai ministri proponenti, che se ne assumono la responsabilità” dice l’art. 89, specificando che gli atti che hanno valore legislativo e altri atti indicati dalla legge sono controfirmati anche dal Presidente del Consiglio dei Ministri.Gli atti del Presidente devono essere controfirmati dal Ministro proponente, di modo che è il governo ad assumersi la responsabilità di essi. La controfirma significa in primo luogo che il Governo ha preso conoscenza dell’atto presidenziale.In certi casi, l’atto che il presidente firma e il governo controfirma è in realtà un atto governativo, un atto cioè il cui contenuto è stato voluto dal Governo (si parla in questi casi di atti

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formalmente presidenziali e sostanzialmente governativi). Si pensi all’autorizzazione alla presentazione di disegni di legge o alla emanazione dei decreti legge. In queste ipotesi il soggetto controfirmante, cioè il ministro e per esso il Governo, è in realtà l’autore dell’atto e la firma del Presidente sta a significare che il Presidente ha visto l’atto, e ritiene che non abbia difetti o vizi talmente significativi da precludergli di darvi corso. E’ chiaro che il potere di firmare gli atti del Governo, di autorizzarne l’emanazione o la presentazione, permette al Presidente di mettersi in dialogo con il Governo, di far notare cose che a suo giudizio non vanno, di chiedere modifiche. In questi casi al compimento di un atto formale (l’emanazione del decreto, per esempio), si mescola una attività informale fatta di contatti e scambi di informazioni e di opinione, suggerimenti e consigli più o meno perentori che il Presidente può indirizzare al Governo per condizionare la propria autorizzazione di un atto dell’esecutivo (è una attività informale che viene spesso designata ‘moral suasion’).Tra gli atti di competenza del Presidente, alcuni sono però considerati veri e propri atti presidenziali, cioè atti il cui contenuto è deciso dal presidente della Repubblica da solo (si parla in questi casi di atti formalmente e sostanzialmente presidenziali). Questo è il caso ad esempio delle nomine dei giudici costituzionali, una competenza che è rimessa al Presidente proprio per la sua posizione di indipendenza ed imparzialità. In queste ipotesi, la firma del presidente equivale a vera e propria sottoscrizione dell’atto da parte del suo autore, e la controfirma esprime la presa d’atto e l’assunzione di responsabilità da parte del Governo, che però non ha il potere di influire sul contenuto dell’atto come lo ha individuato il Presidente. Vi sono poi atti, che la dottrina ha definito talvolta atti ‘misti’ o ‘duali’ o ‘complessi’, in cui la controfirma esprime un ulteriore e diverso significato. Si tratta di atti che sono ‘codecisi’ dal Presidente e dal Governo, atti nei quali cioè, a differenza che nel caso degli atti “tutti presidenziali” o degli atti “tutti governativi”, è richiesto, per formare il contenuto dell’atto, il concorso delle volontà del Presidente e del Governo. Esempio tipico di questo tipo di atti è lo scioglimento delle Camere, che si ritiene corretto il Presidente decida con il consenso e il concorso del Governo. Decidere di sciogliere le camere e andare ad elezioni contro la volontà del Governo sarebbe infatti, da parte del Presidente, una decisione così carica di politicità da cozzare contro il suo ruolo di garanzia. In generale, si considera ragionevole ed accettabile che il Presidente esprima una influenza sulle decisioni del Governo, in quanto questa influenza può servire a far valere nei confronti del Governo valutazioni sulla legittimità, correttezza, e financo opportunità dei suoi atti che, data la posizione del Presidente, non dovrebbero rispondere ad altro che a imparziali considerazioni circa ciò che va nell’interesse della nazione e della sua unità, che il Presidente rappresenta. E’ molto meno ragionevole ed accettabile che il Governo, essendo per definizione organo di parte, influenzi gli atti del Presidente, perché questo minerebbe la funzione imparziale e riequilibratrice che le decisioni e gli atti del Presidente dovrebbero svolgere. Per questo è accettata e anzi fisiologica, entro certi limiti, la ‘moral suasion’ del Presidente nei confronti del Governo, e non il contrario (e che cioè sia il Governo a fare ‘moral suasion’ sul Presidente). E’ anche vero, però, che il Presidente non può esercitare le sue funzioni come se fosse una ‘monade’ che non tiene conto di che cosa il Governo fa, della fase politica, ecc., perché questo le renderebbe disfunzionali. La controfirma dunque delinea come una sfera mobile e porosa che corre lungo le attribuzioni presidenziali e nella quale avvengono contatti col Governo, contatti continui e di diversa intensità, ed è una sfera che indica il peso rispettivo del Governo – e cioè dei partiti politici - e del Presidente nella dinamica politica e della forma di governo. E’ importante tener presente, infatti, che la Costituzione non stabilisce quali atti del presidente sono ‘presidenziali’, quali ‘governativi’, quali ‘duali’ o ‘misti’. Il ‘giusto peso’ dell’uno o dell’altro organo in ciascun atto viene tracciato dalla giurisprudenza costituzionale e dagli studiosi tenendo conto di molti elementi, e la lista degli atti presidenziali duali o governativi può cambiare, o essere stilata in modo diverso in diversi periodi o a seconda dei punti di vista di studiosi diversi. Per esempio, chi assume in modo molto rigoroso alcuni principi, e cioè che la forma di governo è parlamentare, il governo è responsabile davanti alle

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Camere, il presidente è un organo privo di responsabilità politica e pertanto non ha poteri di indirizzo, tenderà a considerare più ampia la lista degli atti governativi e duali e più ridotta quella degli atti presidenziali. Nei fatti, il progressivo indebolimento dei partiti politici, il ruolo crescente acquistato dal presidente della repubblica nella forma di governo che si è delineato negli ultimi anni, e su cui torneremo, si è tradotto anche in un significativo allargamento del novero degli atti ‘tutti presidenziali’.Ci riferiamo, in particolare, al provvedimento di concessione della grazia. La grazia era sempre stata considerata dalla maggior parte degli studiosi un atto squisitamente duale, misto. La grazia è un provvedimento di clemenza che può avere grandi implicazioni e risonanza politica, per questo motivo si riteneva che fosse equilibrato richiedere, nella decisione sulla grazia, il convergere della valutazione imparziale del capo dello stato e della sensibilità politica del Governo. Nei primi anni 2000 l’allora Presidente della Repubblica Ciampi e l’allora Guardasigilli Castelli, esponente del Partito delle Libertà, si trovarono in dissenso in ordine al se dare o meno seguito alla richiesta di grazia presentata da Ovidio Bompressi. In gioventù esponente della formazione politica di estrema sinistra Lotta Continua, Bompressi era in carcere per il suo coinvolgimento nell’assassinio del commissario Calabresi, avvenuto nel 1972, uno degli episodi più tragici degli ‘anni di piombo’; gravemente ammalato, chiedeva la grazia. Mentre Ciampi era orientato per concederla Castelli era contrario, esprimendo anche l’orientamento del Governo. La grazia a Bompressi sarebbe stata una decisione sgradita all’elettorato che sosteneva le forze politiche allora al Governo, e quest’ultimo, pertanto, si opponeva. Ciampi sollevò allora un conflitto di attribuzione davanti alla Corte costituzionale per vedere sancito a chi spetta secondo la Costituzione la decisione della grazia. Con la sentenza n. 200/2006 (emessa quando ormai era Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano) la Corte costituzionale sancì che il potere di grazia è un potere squisitamente ed esclusivamente presidenziale, dunque il Ministro di Grazia e Giustizia non può opporsi alla decisione del Capo dello Stato. La Corte costituzionale motivò quella decisione dicendo che la grazia è un atto che risponde solo ed esclusivamente a motivazioni umanitarie, non politiche, e per questo è rimessa al Capo dello Stato.

Sotto un certo profilo, la sentenza della Corte costituzionale appare certamente ricca di significato e di senso. Se considerazioni di opportunità politica, come per esempio quelle di non scontentare il proprio elettorato, potessero prevalere sulle ragioni umanitarie, quali quelle di alleviare le sofferenze di un detenuto ormai moribondo, questo non significherebbe subordinare la dignità dell’uomo e il valore della vita umana al calcolo di utilità politica? E’ anche sensato attribuire a un organo che secondo la Costituzione è imparziale e non fa una propria politica, come il Capo dello Stato, il compito di dare spazio a quelle valutazioni che l’atto di clemenza racchiude, cioè il perdono, valutazioni che in tanto possono essere tali in quanto sono libere da secondi fini. E’ un fatto però che il risultato della sentenza n. 200 del 2006 è stato semplicemente che il Presidente concede la grazia autonomamente, per decisione propria, e per valutazioni espressamente politiche e non ‘umanitarie’. Il Presidente Napolitano ha fatto molto discutere quando, nel 2013, ha concesso la grazia al colonnello americano Joseph Romano III, condannato in contumacia (dunque non era neppure detenuto) per avere rapito, su ordine dei servizi segreti americani e nell’ambito della lotta al terrorismo islamico, un religioso musulmano, Abu Omar, nel nostro territorio. In quella occasione i presupposti umanitari mancavano del tutto (come detto il colonello americano non era neppure detenuto), e dichiaratamente l’obiettivo della grazia è stato quello tutto politico di mantenere buone le nostre relazioni con gli Stati Uniti9. Il caso del potere di grazia, passato da potere ‘duale’ a potere ‘presidenziale’ è la cartina di tornasole di un aumento dei poteri del Presidente, che, in particolare con la Presidenza Napolitano, ha acquisito un ruolo autonomo di decisione e di indirizzo, forse senza precedenti. Soprattutto, 9 Nel provvedimento si legge che “L’esercizio del potere di clemenza ha ovviato a una situazione di evidente delicatezza sotto il profilo delle relazioni bilaterali con un Paese amico, con il quale intercorrono rapporti di alleanza e dunque di stretta cooperazione in funzione dei comuni obiettivi di promozione della democrazia e di tutela della sicurezza”.

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l’esempio del potere di grazia ci avverte che la classificazione degli atti del Capo dello Stato in presidenziali duali e misti non solo non è fissa e sancita una volta per tutte a priori, ma descrive di periodo in periodo lo spazio e il ruolo giocati dal Capo dello Stato nella forma di governo.

2.2.Il ruolo del Capo dello Stato

Le considerazioni fatte sin qui e le nozioni sin qui raccolte ci permettono di cogliere che il Presidente della Repubblica è dunque un organo estremamente complesso: la sua attività è intrisa di politicità, ma egli non è politicamente responsabile. E’ un paradosso, perché un principio dello stato di diritto imporrebbe che dove c’è potere vi sia responsabilità (L. Carlassare).

La dottrina costituzionalistica italiana ha cercato di spiegare questo paradosso seguendo due principali filoni interpretativi sul ruolo del Capo dello Stato.

Secondo una corrente di studi il Presidente della Repubblica non va considerato un organo non-politico, ma un organo portatore di un suo particolare indirizzo politico, il cd. indirizzo politico costituzionale. Questo lo renderebbe interprete delle esigenze profonde e durature della Nazione davanti e in dialettica con le forze politiche di maggioranza. Per esempio, un Presidente convinto che il bene dell’Italia sia rimanere nella Ue, approfondire i legami con questo ordinamento ecc., potrebbe nel corso della sua presidenza muoversi, nella scelta del presidente del consiglio, nelle sue esternazioni, nelle nomine, ecc. sviluppando costantemente questa sua visione, cercando di imporla ai diversi governi. La sfera della sua politicità sarebbe superiore agli indirizzi politici contingenti portati avanti dai vari Governi, e starebbe tutta intorno e al di sopra di essi . Mentre il Governo sarebbe legittimato dal rapporto con le Camere, che lo lega solo a una maggioranza, il Presidente, eletto da una maggioranza più alta, riceverebbe, quale ‘rappresentante dell’unità nazionale’ una sorta di mandato a sviluppare e garantire le scelte che consolidano gli interessi della Nazione, al di là del cambiamento delle maggioranze e dei contingenti indirizzi politici. L’archetipo istituzionale al quale la figura del presidente della Repubblica si ispirerebbe sarebbe dunque quello del Re, immagine vivente di una unità della Nazione che permane nelle diverse fasi politiche, sovrasta la diversità di schieramenti partitici, ne contiene e armonizza le dinamiche, capisce e vede ‘di più’, e più lontano, circa ciò che è bene per la Nazione, di quello che le singole parti, cioè i partiti, il governo, e il parlamento riescono a vedere.

A questa tesi si è tradizionalmente opposta l’altra, che ha spiegato il ruolo del Presidente della Repubblica nei termini di una funzione maieutica. Secondo questa tesi il Presidente è un tramite imparziale che permette la ricerca di soluzioni ai conflitti che agitano la vita politica, un facilitatore di decisioni che mette la sua posizione terza e neutrale al servizio di una elaborazione dialettica e pacifica dei vari e numerosi snodi che la vita politica e istituzionale incontra. Chi ha sostenuto questa tesi ha esaltato il legame tra Presidente e partiti politici: quando si elegge un presidente, i partiti vanno alla ricerca di una figura ben inserita nella vita politica, che può mettersi in rapporto con tutti, perché? Perché chi è in grado di dialogare con tutti, di mediare, di fare in modo che diversi interessi e visioni entrino in relazione, può permettere a quegli interessi e a quelle visioni, di cui sono portatori i partiti, di esprimersi fattivamente senza rimanere paralizzati in conflitti e divisioni. Secondo queste interpretazioni vi è un solo indirizzo politico, quello che si sviluppa tra parlamento e governo in funzione delle indicazioni dell’elettorato, e il Capo dello Stato ha il ruolo di facilitare lo svolgimento dell’indirizzo politico mettendo le sue risorse di mediazione e dialogo a disposizione delle parti. L’archetipo della figura presidenziale, nel caso di queste tesi, le quali non a caso si avvalgono, per descrivere il ruolo del Presidente, di espressioni come ‘magistratura di influenza’ o ‘potere terzo e intermediario’, è quello del giudice, che esercita la virtù ‘allotria’ (rivolta al vantaggio di altri, non al vantaggio proprio) della giustizia dando a ciascuno il suo, oppure quella del Re-giudice di medievale memoria, che garantisce il mutuo rispetto tra tutti gli attori.

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Le interpretazioni dottrinali sul ruolo di un organo costituzionale, in questo caso del Presidente, non sono vuote esercitazioni intellettuali ma altrettanti tentativi di offrire chiavi per affrontare problemi pratici: come è corretto, opportuno, che il Presidente si comporti in certi casi? Quanto ampia è la sua discrezionalità nel compiere certi atti? E’ ammissibile che nomini ‘governi di sua fiducia’, o deve sempre rimettersi alle scelte dei partiti, anche se non le condivide?

Le capacità ricostruttive (cioè di aderire alla realtà, spiegarne le componenti, offrire indirizzi convincenti ed efficaci per la soluzione di problemi pratici) delle diverse tesi interpretative variano nel tempo, perché nel tempo mutano le circostanze, i contesti, in cui i problemi si presentano, e mutano le sensibilità, cioè i giudizi diffusi su ciò che, in un certo ordinamento, è importante, pregevole e deve essere salvaguardato.

Le capacità ricostruttive della tesi delle funzioni maieutiche sono state molto forti finché è esistito in Italia un sistema dei partiti funzionante sulla base di certe regolarità ed effettivo protagonista della vita politica: una fase che non è andata oltre i primi anni ’90 dello scorso secolo. Da allora i partiti vivendo crisi e trasformazioni molteplici, il Presidente sembra diventato molto spesso più un decisore che un maieuta. La tesi dell’indirizzo politico costituzionale sembrerebbe qualche volta confermata dalle dinamiche più recenti, e tuttavia essa presenta un fianco scoperto molto forte, che è quello della mancanza di responsabilità politica del Capo dello Stato. Un potere politico irresponsabile (‘sacra e inviolabile’ era la persona del Re statutario) cozza secondo molti contro le premesse di una democrazia costituzionale: se la tesi dell’indirizzo politico costituzionale fosse venuta a corrispondere al vero, questo potrebbe implicare, alcuni temono, un cedimento della tenuta delle idee di fondo di quel modello organizzativo.

Coloro che si sono sforzati di interpretare la figura presidenziale in termini armonici con le premesse delle democrazie costituzionali (ricordiamo che: “ad ogni potere corrisponde responsabilità”) hanno infatti non solo rifiutato l’idea del Presidente-Re, ma hanno anche sviluppato la tesi che il Presidente è soggetto a una forma peculiare di responsabilità, la cd responsabilità diffusa, consistente nel, e garantita dal, dibattito delle opinioni, sui giornali, nei mass media, in ordine alle sue azioni e alla opportunità di esse. La differenza tra il Re statutario e il Presidente correrebbe molto su questo: del primo non si poteva parlare criticamente (semmai si potevano criticare i suoi governi), del secondo invece si può parlare criticamente senza incorrere in un delitto di ‘lesa maestà’.Alla crescita del ruolo del Presidente segnata – come unanimemente rilevato – dalla presidenza di Giorgio Napolitano, ha coinciso però un accentuato restringimento della pubblicità della sua azione e del dibattito intorno ad essa. Un episodio molto rilevante in questo senso è stato quello inerente la utilizzabilità o meno, nel processo penale, di registrazioni telefoniche in cui –casualmente - era rimasta incisa la voce del Presidente della Repubblica. All’interno delle indagini che hanno condotto al processo che indaga su fatti di mafia e terrorismo degli anni ’90 (noto all’opinione pubblica come il processo sulla “Trattativa” perché si ipotizza che cariche dello stato siano state indotte ad attenuare le condizioni carcerarie di condannati per mafia dal ricatto, della mafia stessa, di compiere atti stragisti in caso contrario, di cui l’espressione ‘Trattativa’), i pubblici ministeri avevano infatti raccolto anche registrazioni siffatte. Gli stessi pubblici ministeri avevano valutato quelle registrazioni irrilevanti ai fini del processo, e la loro intenzione era distruggerle. La legge però, in omaggio ai principi del processo accusatorio, prevede che tutte le prove in possesso del pubblico ministero siano portate a conoscenza degli imputati e solo dopo questa udienza esse possano essere distrutte. Infatti, può darsi benissimo che il pubblico ministero distruggerebbe altrimenti, definendola ‘irrilevante’, una prova controproducente per l’accusa, ma per lo stesso motivo interessante per gli imputati. La difesa di questi ultimi infatti può avvalersi anche delle prove raccolte dal pubblico ministero. Sicché il problema era: possono i nastri contenenti la voce del presidente essere ascoltati in

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questa udienza (aperta solo alle parti ossia ai loro avvocati), come tutte le altre prove raccolte dal pm, per essere poi distrutte insieme a tutte le altre prove che pubblica accusa e parti private hanno convenuto di ritenere irrilevanti? Il Presidente della Repubblica ritenne in questa circostanza di sollevare conflitto di attribuzione, davanti alla Corte costituzionale, contro la procura di Palermo, cui appartenevano i pubblici ministeri che avevano raccolto le prove suddette. Nell’ipotesi che i nastri fossero ascoltati, e in questo senso resi pubblici (per quanto l’udienza per la distruzione delle prove sia aperta non al pubblico, ma solo alle parti), il Presidente ravvisava una lesione della propria sfera di competenza, del proprio ruolo costituzionalmente garantito. La Corte costituzionale, con la sent. n.1 del 2013, ha dato ragione al Presidente, ritenendo che il suo ruolo costituzionale richieda che egli sia assistito, nel compimento di tutti i suoi atti, compresi in modo particolare quelli ‘informali’, di una “sfera particolarmente qualificata di riservatezza”.

Successivamente a questa sentenza, i Presidenti delle Camere in più di una occasione hanno proibito che all’interno delle Camere si svolgessero discussioni sul Presidente della Repubblica, sostenendo che sarebbe ‘vietato’ parlare del Presidente della Repubblica nelle aule parlamentari o addirittura sarebbe proibito nominarlo.

Una tesi sicuramente ardita, quanto meno se si considera che il Parlamento ha il potere di mettere in stato d’accusa il Capo dello Stato per i delitti di alto tradimento e di attentato alla Costituzione, e non si vede come il Parlamento potrebbe arrivare a votare una simile mozione se prima i parlamentari non ne discutessero.

Stranamente dunque, proprio in corrispondenza con una fase di crescita dei poteri del Presidente e della loro incisività sulle relazioni politiche (si torni a pensare alla decisione del Presidente Napolitano di non sciogliere le Camere dopo la crisi del Governo Berlusconi nel 2012, ma di dare l’incarico a Mario Monti, nominato dallo stesso presidente pochi giorni prima senatore a vita, di formare un governo ‘tecnico’) il sindacato (dell’opinione pubblica, delle forze politiche rappresentate in Parlamento, e della giurisdizione) sul suo operato ha conosciuto una notevole contrazione. Si è ormai delineata la tesi che siccome il Presidente è un organo di garanzia, allora i suoi atti sono sottratti a sindacato.

Una tesi che troviamo espressa a chiare lettere nella motivazione della sentenza con cui il Tar del Lazio, nell’ottobre 2016, ha negato di avere giurisdizione su un ricorso che tendeva all’annullamento del decreto presidenziale di indizione del referendum sulla legge di revisione costituzionale Renzi-Boschi, e delle corrispondenti ordinanze dell’ufficio centrale per il referendum presso la Corte di Cassazione, ritenuti dai ricorrenti illegittimi perché non contenenti, come la legge sul referendum invece prescrive, l’indicazione puntuale delle norme (in tutto 47) oggetto di revisione. Il Tar del Lazio ha affermato che "Sia le ordinanze dell'Ufficio Centrale per il Referendum" che hanno predisposto il quesito referendario, "sia il decreto presidenziale nella parte in cui recepisce il quesito sono espressione di un ruolo di garanzia, nella prospettiva della tutela generale dell'ordinamento, e si caratterizzano per la loro assoluta neutralità, che li sottrae al sindacato giurisdizionale".

Anche questa una tesi veramente ardita, se si considera, quantomeno, che proprio nello sforzo di ‘giurisdizionalizzare’ cioè regolare con norme giustiziabili, i pubblici poteri, un grande costituzionalista, Vezio Crisafulli, aveva visto un tratto caratteristico della nostra Costituzione, facendone oggetto delle sue Lezioni di diritto costituzionale, pubblicate per la prima volta alla fine degli anni ’60 del Novecento, e sulle quali si sono formate generazioni di giuristi; e se si considera d’altro canto che il diritto di agire in giudizio in difesa dei propri diritti e interessi legittimi in ogni stadio e grado del processo (art. 24 Cost. ) è tradizionalmente considerato il fondamento dei

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fondamenti dei diritti costituzionali dei cittadini, secondo una dottrina accolta con vigore dalla stessa Corte costituzionale da diversi decenni.

4 . Uno strumento di democrazia diretta in un sistema imperniato sulla democrazia rappresentativa: il referendum abrogativoInsieme al referendum sulle leggi costituzionali e di revisione costituzionale, il referendum abrogativo è l’unico strumento di democrazia diretta previsto dalla nostra Costituzione ed è uno strumento attraverso il quale il corpo elettorale si esprime, anziché eleggendo i propri rappresentanti, direttamente su una certa questione. Vediamone il funzionamento.

4.1.ll procedimento referendario Secondo l’art. 75 della nostra Costituzione “E’ indetto referendum popolare per deliberare l’abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge, quando lo richiedono cinquecentomila elettori o cinque consigli regionali. “Non è ammesso referendum per le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e indulto, di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali. “Hanno diritto a partecipare al referendum tutti i cittadini chiamati ad eleggere la Camera dei deputati. “La proposta soggetta a referendum è approvata se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto, e se si è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi. La Costituzione istituisce il referendum e ne pone, nelle grandi linee, il procedimento; dice inoltre che certi tipi di legge non sono sottoposti a referendum. La legge costituzionale del 1948 che regola i procedimenti davanti alla Corte costituzionale previde inoltre che il giudizio sulla ammissibilità del referendum spettasse a quest’ultima. Ma per fare funzionare effettivamente l’istituto occorreva una legge che lo regolasse nel dettaglio, e questa legge è stata approvata solo nel 1970 (prima di allora, dunque, il referendum era un istituto esistente solo ‘sulla carta’). In base al combinato disposto della Costituzione, della legge costituzionale sul funzionamento della Corte costituzionale e della legge ordinaria sul referendum, il procedimento referendario è il seguente: a dare il via al procedimento è il comitato promotore, un gruppo di persone che individua il quesito referendario, cioè la legge da abrogare e le parti di essa che si intende abrogare e predispone la domanda che si sottoporrà al corpo elettorale. Il comitato procede alla raccolta delle firme; una volta raccolte le firme, il quesito e le firme vengono depositati presso un organo appositamente istituito, l’Ufficio centrale per il referendum presso la Corte di Cassazione, che esamina la regolarità delle firme, e controlla inoltre che il quesito riguardi disposizioni di legge effettivamente in vigore. (Se il referendum è a iniziativa regionale il procedimento non richiede raccolta di firme e inizia con l’esame del quesito e della sua regolarità da parte dell’Ufficio centrale). Una volta superato il controllo presso l’Ufficio centrale, il quesito passa alla Corte costituzionale, che esamina l’ammissibilità. Se il quesito supera l’esame di ammissibilità, che deve concludersi entro il 10 febbraio, la consultazione referendaria viene fissata in una domenica tra il 15 aprile e il 15 giugno successivi. Bisogna tenere presente che durante tutto il corso del procedimento referendario il parlamento rimane in grado di modificare la legge sottoposta a referendum. Originariamente la legge del 1970 prevedeva che qualunque modifica apportata alla legge sottoposta al referendum comportasse l’automatica cessazione del procedimento referendario, anche se il referendum era già stato indetto. In tal modo si faceva salva la possibilità di evitare il referendum approvando una modifica anche solo apparente della legge sulla quale il referendum era stato richiesto. In seguito a una pronuncia della Corte costituzionale è stato chiarito che se la legge sottoposta a referendum viene modificata nell’intervallo tra il giudizio di ammissibilità e la data delle operazioni di voto, l’Ufficio centrale per il referendum

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deve esaminare la nuova legge e, a meno che quest’ultima non rappresenti una modifica reale della legge previgente, esso trasferisce il quesito sulla nuova legge.

4.2.Requisiti di ammissibilità del referendum Con una importantissima decisione del 1976, la Corte costituzionale ha anche dettato una serie di principi sulla ammissibilità del referendum, che integrano le previsioni dell’art. 75 Cost. Si è trattato di una sentenza-legge, cioè di una sentenza che ha stabilito che per i casi futuri la Corte avrebbe osservato, nel sindacare la ammissibilità del referendum, tutta una serie di criteri che non stanno scritti nell’art. 75 ma che la Corte, nella sua sentenza, concepisce come logicamente discendenti da quello che nell’art. 75 è detto espressamente. L’art. 75 stabilisce due criteri: che il referendum deve avere ad oggetto leggi o atti aventi forza di legge (decreti legge e leggi delegate) e che esso non può riguardare leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e indulto, di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali. Il motivo per cui queste categorie di leggi non possono essere sottoposte al referendum è che nel primo caso (leggi tributarie) sarebbe fin troppo prevedibile che leggi che prevedono tasse sarebbero abrogate; nell’ultimo (leggi di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali) l’abrogazione potrebbe esporre lo stato, firmatario di un trattato, a una responsabilità internazionale; inoltre, tutte queste leggi hanno a che vedere con le manifestazioni fondamentali della sovranità (la potestà finanziaria e impositiva, la potestà punitiva e di clemenza in materia penale, il potere estero). Partendo dai due criteri esplicitamente posti dall’art. 75 la Corte ha desunto che devono altresì considerarsi esclusi dal referendum: a) Le leggi costituzionali e di revisione costituzionale e gli atti regolamentari (in quanto sono ammesse solo le leggi e gli atti aventi forza di legge, dunque devono ritenersi esclusi da referendum tutti gli altri atti normativi); b) Le leggi costituzionale e di revisione costituzionale e leggi ordinarie che hanno una particolare connessione con la Costituzione, e cioè : b1) le leggi costituzionalmente necessarie, e b2) le leggi a contenuto costituzionalmente vincolato. Le leggi costituzionalmente necessarie sono le leggi ordinarie che sono necessarie a permettere il funzionamento di organi o istituti costituzionali. Rientra tra queste la legge elettorale, non potendosi ammettere in una democrazia, ha detto più volte la Corte, che anche per un solo giorno manchi la legge che rende possibile lo svolgimento delle elezioni. Tuttavia, di fronte a richieste di referendum di tale forza politica (come quelle che hanno teso all’abrogazione della legge elettorale proporzionale del 1993) che non sarebbe stato possibile, sensato arginarle dichiarando inammissibile il referendum (ciò che sarebbe suonato come una autoritaria limitazione della possibilità per il popolo di esprimersi su una materia molto importante), la Corte ha in seguito precisato che, in caso di referendum che hanno ad oggetto leggi elettorali, occorre che il quesito sia formulato in modo tale che dall’eventuale abrogazione esca una normativa in grado di funzionare. Perciò, il quesito referendario in caso di referendum su legge elettorale deve essere un quesito ‘manipolativo’: un quesito che toglie varie parti alla legge elettorale vigente e le toglie in modo che quello che resta disegni una legge elettorale funzionante (e diversa da quella vigente). Le leggi a contenuto costituzionalmente vincolato sono le leggi ordinarie che contengono alcune scelte così corrispondenti ai principi e ai valori costituzionali che devono essere considerate come loro attuazione e pertanto indisponibili. Per esempio, la Corte costituzionale ha dato applicazione a questo criterio nel 2004 in occasione dei referendum sulla legge sulla fecondazione assistita. Erano stati presentati diversi quesiti, uno dei quali prevedeva l’abrogazione della parte della legge in cui si parla di “interesse dell’embrione”, considerando l’embrione come un essere vivente che ha diritto alla vita. Questo quesito è stato considerato inammissibile perché ‘costituzionalmente vincolato’ nel senso che la protezione dell’interesse dell’embrione è, a giudizio della Corte, una scelta che non riflette le sole preferenze della maggioranza che ha approvato la legge sulla fecondazione assistita, ma il valore costituzionale della protezione della vita.

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c) Le leggi ‘connesse’ a quelle espressamente enunciate nell’art. 75 Cost., cioè che hanno caratteristiche, contenuti e finalità analoghe; per esempio la legge finanziaria (ora legge di stabilità) come legge connessa a quella di bilancio. Altri limiti sono stati dedotti dall’art. 48 che riguarda il diritto di voto e che dice che il voto è ‘personale, uguale, libero e segreto’. Dal principio di libertà del voto la Corte ha dedotto il criterio secondo cui il quesito referendario deve essere univoco, chiaro ed omogeneo. Infatti, se all’elettore viene sottoposto un quesito non chiaro, oppure se gli si sottopone, nello stesso quesito, la domanda se abrogare parti diverse di una legge, la libertà del voto è coartata, in quanto l’elettore potrebbe voler abrogare una parte della legge, ma non l’altra parte, ma, se le due parti sono investite da un unico quesito, all’elettore non rimane che dire sì o no all’abrogazione di tutte e due le parti, così vedendo impedita la propria libertà di scelta.

4.3.L’innesto del referendum nella forma di governo In Italia è stata molto discussa e studiata una tematica che va sotto il nome di ‘innesto’ del referendum nella forma di governo: strumento di democrazia diretta inserito in una democrazia rappresentativa, il referendum esprime funzioni molto complesse dovute al fatto che esso realizza una interazione (o una ‘inteferenza’) del corpo elettorale nell’agenda dei partiti e delle istituzioni rappresentative, e questa interazione può avere vari effetti ed esiti. Nel suo Manuale di diritto costituzionale, il costituzionalista Francesco Bilancia individua queste diverse possibilità di “innesto”: a) Il referendum può determinare l’ingresso nell’arena politica di nuovi soggetti, gruppi, partiti, che non erano rappresentati fino a quel momento in Parlamento. Si può pensare all’esempio del Partito radicale, nato di fatto come movimento di opinione ed affermatosi poi nel sistema politico rappresentativo proprio grazie al sistematico ricorso all’istituto del referendum, a partire alla metà degli anni 1970. Oppure, più di recente, primi anni 1990, al movimento per la riforma elettorale in senso maggioritario: il comitato promotore aveva tutte le premesse per dare vita a una nuova forza politica, che però poi si è ‘sciolta’ all’interno di diversi partiti. b) Il referendum può essere utilizzato dai partiti, da soli o in alleanza con gruppi spontanei della società civile, per ottenere certi effetti all’interno o nei confronti del sistema dei partiti. Il referendum sul divorzio, primo referendum della storia del Paese (1974) si risolse in parte in un attacco alle componenti più conservatrici della Democrazia cristiana, attacco nato anche all’interno della stessa DC, le cui correnti più progressiste e favorevoli a una futura alleanza con il PCI favorirono il referendum, sperando che la vittoria dei no all’abrogazione del divorzio indebolisse le correnti più conservatrici; il referendum sull’aborto (1978) originò da una iniziativa dei Radicali e di forze di estrema sinistra anche come attacco al Partito comunista, che non intendeva affrontare il tema dell’aborto né altri temi che lo avrebbero troppo diviso dalla Democrazia cristiana rallentando o impedendo la strategia del compromesso storico, e che veniva perciò ‘denunciato’ come troppo poco sensibile a temi progressisti; i referendum elettorali del 1993 (che per la loro importanza costituiscono peraltro un caso a sé) hanno determinato una radicale trasformazione dell’intero sistema politico italiano; in altri casi a noi più recenti, il referendum in materia elettorale è stato strumentalizzato, scrive Bilancia, dai partiti di maggioranza relativa allo scopo di sovra-rappresentare se stessi in Parlamento, mediante l’accentuazione dei caratteri maggioritari del sistema elettorale. E' stato il caso dei referendum del 2009 coi quali si intendeva abrogare la parte della legge elettorale che richiede ai partiti di allearsi in coalizioni prima delle elezioni, e pertanto divide tra i partner della coalizione il premio elettorale. Se il referendum fosse passato, questo avrebbe garantito una sovra-rappresentazione al partito che ottenesse più voti, sostanzialmente nullificando il peso di tutti gli altri partiti. In quel caso non si raggiunse il quorum necessario a rendere valido il referendum (come ricordiamo, è necessario infatti che al referendum partecipi la maggioranza degli elettori, altrimenti le operazioni non sono valide). c) Ci sono però anche i casi in cui il referendum esprime più direttamente quella che in fondo dovrebbe essere la sua funzione più autentica, vale a dire i casi di referendum come strumento che

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consente a una minoranza di costringere la maggioranza parlamentare a tenere conto, nella propria agenda, “di argomenti, materie che altrimenti non otterrebbero alcuna attenzione o spazio nel dibattito politico. Oppure ancora per costringere gli sviluppi della legislazione futura nel quadro di opzioni politiche determinate”, come è stato il caso dei referendum del 2010 su energia nucleare, servizi pubblici locali e legittimo impedimento, che non solo hanno abrogato leggi vigenti ma hanno valso a indicare una volontà piuttosto netta del corpo elettorale verso scelte, come l’esclusione del ricorso all’energia nucleare, che dovrebbero vincolare anche il legislatore futuro. I tipi di referendum a) e b) sono quelli in cui esso è, in verità, strumento di riorganizzazione del sistema dei partiti e proseguimento di lotte ad esso interne; il caso c) quello in cui esso dà voce all’opinione pubblica aprendo varchi in un dibattito politico qualche volta autoreferenziale.

Il referendum abrogativo e gli strumenti di democrazia diretta e partecipativa nella nuova ‘costituzione’

La legge di revisione costituzionale, con riferimento al referendum abrogativo, mantiene la regola per cui se a presentare la richiesta sono 500.000 elettori, la validità della votazioni richiede la partecipazione della metà più uno degli aventi diritto al voto; ma prevede anche che, se i firmatari sono invece almeno 800.000, il quorum referendario scende alla percentuale dei votanti delle più recenti elezioni politiche. La modifica, che appare ad alcuni palesemente irragionevole (un referendum richiesto da 799.999 elettori deve sottostare al quorum, e uno che ha un elettore in più non) non si propone, evidentemente, di rivitalizzare l’istituto referendario, riformulandone le condizioni in un modo coerente con gli atteggiamenti di disaffezione dell’elettorato, e cercando di renderlo uno strumento efficace di dialettica tra corpo elettorale e partiti. Al contrario, essa tende a trasformare definitivamente il referendum in una sorta di secondo canale di politica partitica, a questa parallelo e subordinato.Considerato quanto da noi stampa e televisione sono sensibili alla maggioranza, e quanto è fragile l’associazionismo che non risale ai partiti, o alla Chiesa, da chi, se non dai partiti, saranno sponsorizzati, direttamente o indirettamente, i referendum ‘agevolati’ degli 800.000? L’innovazione costituzionale relativa al referendum sembra intesa a privilegiare i referendum che i partiti appoggiano, usano, o tollerano, ossia tende a fare del voto referendario – più di quanto non sia mai stato, purtroppo, sinora - un duplicato del voto elettorale, nel senso di un voto orientato dai e ai partiti, destinato a iterare la dinamica ‘partito che vince partito che perde’ , che ispira la legge elettorale Italicum e già pervade la nostra vita politica, certamente non ad arieggiarla con l’ingresso di istanze asimmetriche e impreviste.

Inoltre, nonostante ciò non venga detto espressamente, il referendum abrogativo conosce un nuovo limite, perché tutte le leggi bicamerali, cioè tutte le leggi alla cui approvazione abbia concorso anche il Senato, saranno quasi certamente ritenute sottratte al referendum, dal momento che per esse è previsto che possano essere abrogate solo da una legge bicamerale che ne rechi abrogazione espressa.

Quanto alle leggi di iniziativa popolare, non corrisponde affatto al vero l’affermazione di certa propaganda, secondo cui esse conquistano almeno la garanzia di un esame in tempi certi. La legge di riforma afferma che “La discussione e la deliberazione sulle proposte di legge d’iniziativa popolare sono garantite nei tempi, nelle forme e nei limiti stabiliti dai regolamenti parlamentari”, che significa che il regolamento parlamentare è, come del resto è già, l’unico atto che può regolare questo tema; e significa anche, siccome il regolamento è votato dalla maggioranza (assoluta) della Camera, ed è dalla stessa, com’è noto, derogabile, che la maggioranza di governo dispone di tempi forme e limiti delle leggi di iniziativa popolare. Siccome però, d’altro canto, l’autonomia regolamentare delle Camere esiste, questa disposizione sancisce che nessun governo potrà mettere nel suo programma l’attuazione del nuovo precetto, o venir considerato responsabile se rimane sul binario morto.

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Consideriamo poi che regolamenti parlamentari non sono sindacabili dalla Corte costituzionale, e che l’idea di attribuire alle minoranze il diritto di impugnarli non ha sfiorato il riformatore, che però, quando premeva, non ha esitato a sostituirsi direttamente al regolamento (per esempio: per creare le leggi prioritarie, di cui parleremo in seguito), comprendiamo che la la riforma garantisce le leggi di iniziativa popolare nella misura che coinciderà, di volta in volta, con gli interessi del partito di maggioranza. Inoltre, le firme necessarie a proporre una legge di iniziativa popolare crescono da cinquantamila a centocinquantamila, ciò che certamente non favorisce l’esercizio di questo diritto.

L’atteggiamento della revisione costituzionale nei confronti degli strumenti di democrazia diretta e partecipativa sembra dominato dalla preoccupazione di evitare che nel dibattito pubblico entrino questioni esterne al flusso regolato e controllato dal partito di maggioranza e dalla dinamica apicale maggioranza/opposizione. Questo vale anche per i nuovi istituti rappresentati dai cd referendum popolari propositivi e di consultazione. Non si tratta, propriamente, di strumenti di democrazia diretta (si potranno consultare anche le formazioni sociali, col che siamo fuori dall’esercizio del diritto politico di voto), e, veramente non è neppur è chiaro se siano strumenti di democrazia. Essi serviranno “a favorire la partecipazione dei cittadini alla determinazione delle politiche pubbliche” le quali sono quegli insiemi, o ‘reti’, di provvedimenti e azioni che attuano un indirizzo politico già stabilito, un obiettivo già individuato. Il termine ‘politiche pubbliche’, che entra con la revisione costituzionale per la prima volta nella nostra Costituzione, appartiene alle ideologie e pratiche di governo dette post-democratiche, espressione, a loro volta, del tramonto dell’idea che le decisioni e gli indirizzi siano liberi e nascano nel confronto aperto delle opinioni, nel conflitto tra interessi diversi.

Le nuove ideologie post-democratiche lasciano alle comunità la funzione di pronunciarsi, al massimo, sui mezzi, certo non sui fini, allo scopo di costruire consenso e neutralizzare i conflitti: a questo servono i referendum consultivi e propositivi della ‘nuova’ Costituzione, ai quali comunque la riforma, forse temendo che riescano a diventare terreno di critica e dissenso, si avvicina coi piedi di piombo: una legge costituzionale futura ci vorrà per istituirli, e una legge bicamerale per attuarli, anche se potrebbero risolversi in qualche forum su internet. Una cautela effettivamente singolare se si pensa che si tratta di atti che verosimilmente non potranno proporre leggi o altrimenti incidere sugli indirizzi politici, e che dunque potrebbero essere creati da subito con legge ordinaria.

L’effettività degli strumenti di democrazia diretta nel nostro sistema è sempre stata molto debole e una riprova viene dalla vicenda dell’acqua pubblica, oggetto sia di un referendum che ha abrogato norme volte alla privatizzazione del servizio, sia una legge di iniziativa popolare che intendeva tradurre in pratica la volontà referendaria.

In un articolo di giornale il costituzionalista Alberto Lucarelli ha recentemente svolto queste osservazioni:

“La Camera dei deputati nell’aprile 2016, in prima lettura, ha privatizzato il sistema idrico integrato. Tale voto si pone in assoluto contrasto con la legge di iniziativa popolare che voleva la gestione dell’acqua attraverso enti di diritto pubblico.”

Lucarelli così prosegue: “Proviamo adesso a fare una simulazione, immaginando già di stare in un modello costituzionale che attribuisce a una sola Camera il potere legislativo. Cosa succederebbe in ordine all’acqua pubblica? Non ci sarebbe più la possibilità di impedire che il referendum sull’acqua bene comune venga calpestato e con esso la volontà di 27 milioni di cittadini che nel giugno del 2011 votarono contro la svendita dei servizi pubblici essenziali.

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“Il bicameralismo perfetto, che in passato, proprio attraverso la tanto deprecata ‘navetta’ era riuscito a recuperare ‘sbandate’ o ‘atti di forza’ di una delle due camere, non potrà più svolgere questa azione di ripensamento e di pressione contro indirizzi politici dominanti”10.

10 A. Lucarelli, Il governo chiude l’acqua pubblica, in Il Manifesto, 29 ottobre 2016, p. 15.