Walt Disney. Una storia del cinema

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Roberto Lasagna EDIZIONI FALSOPIANO Wlt Dsney Una toria del cinema Wlt DsneyUna toria del cinema

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I personaggi e i film del più grande regista e autore di animazione

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Roberto Lasagna“È stato il più artista (tutto è disegno, creazione nel suo reame) e insieme il più industriale dei

cineasti: il suo nome compare nella storia dell’arte di Gombrich e sul listino della borsa di NewYork. Il più autore e il più anonimo... È stato il più irrealista dei cineasti (non c’è mai riproduzione fo-tografica della realtà nei suoi film) e il più realista, un maestro del verosimile... Il più darwinista eil più creazionista... Ulteriori paradossi tra provincialismo e cosmopolitismo, e tra finitudine e im-mortalità: Walt è morto quarant’anni fa, ma continua a firmare cartoon in puro stile Disney conla giusta miscela di humour, glamour, horror, musical e fantasy... E ancora contraddizione tra po-pulismo New Deal e conservatorismo filomaccartista... Sono soltanto alcune delle contraddizionitra cui si muove con disinvoltura e competenza Roberto Lasagna, in contrappunto fra storia delcinema, storia economica, e storia politica degli Stati Uniti. Il risultato, per la ricchezza di dati, te-stimonianze e la molteplicità dei punti di vista, somiglia a un romanzo...”

Dalla prefazione di Oreste De Fornari

Roberto Lasagna ha scritto Il cinema americano degli anni novanta (Graphos, 1996), I filmdi Stanley Kubrick (con Saverio Zumbo, Falsopiano, 1997), Martin Scorsese (Gremese, 1998),

America perduta. I film di Michael Cimino (con Massimo Benvegnù, Falsopiano, 1998), Al Pa-cino (Gremese, 2000), Lars Von Trier (Gremese, 2003), Russ Meyer (con Massimo Benvegnù,

Castelvecchi, 2005), I film di Steven Spielberg (Falsopiano, 2006), I Film di Dario Argento(con Lino Molinario, Falsopiano, 2009). Scrive su “Duellanti” e su altre riviste.

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FALSOPIANO

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Roberto Lasagna

Walt DisneyUna storia del cinema

Walt DisneyUna storia del cinema

€ 23,00

ISBN 978-88-89782-33-0

Roberto Lasagn

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© Edizioni Falsopiano - 2011via Bobbio, 14/b

15100 - ALESSANDRIAhttp://www.falsopiano.com

Per le immagini, copyright dei relativi detentoriProgetto grafico e impaginazione: Daniele Allegri - Roberto Dagostini

Stampa: LaserGroup s.r.l. - MilanoPrima edizione - Dicembre 2011

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INDICE

Ouverture

di Oreste De Fornari p. 9

Noi in wonderland p. 11

Capitolo Primo Apprendista stregone p. 18Il prototipo dei prototipi p. 18Dietro le immagini p. 22

Capitolo Secondo La via del cartoon p. 30Hollywood e Walt p. 30La prima protagonista disneyana: Alice p. 35Oswald p. 41Topolino p. 44Paperino p. 48Le Silly Symphonies p. 50“Siam tre piccoli porcellin…” p. 54Tex Avery p. 55Verso Biancaneve p. 58

Capitolo Terzo L’estetica della foresta incantata p. 62American beauty p. 62Lo specchio e il castello p. 65Metamorfosi p. 73Musicalità p. 78I bambini ci guardano p. 85

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Capitolo Quarto Immaginario e potere:

tra new deal e conservatorismo p. 93Un cinema puritano p. 93Fronte del cinema p. 96Guerra e liste nere p. 106

Capitolo Quinto La fabbrica della felicità p. 123Verso gli anni Cinquanta p. 123Il potere delle immagini p. 133Televisione p. 141The Last Picture Show p. 149

Capitolo Sesto Dopo Disney, ancora Disney p. 167Un’eredità difficile p. 167Il vecchio e il nuovo (Anna B. Antonini) p. 172Tempi moderni p. 178Ombre digitali (Anna B. Antonini) p. 186Gli anni Ottanta p. 194

Capitolo Settimo Disneyani e spielberghiani p. 205

La rinascita p. 205Nuovi ruggiti (Massimo Moretti) p. 213Un-happy ending p. 217Hollywood e le tavole della legge p. 222Verso oriente (Anna B. Antonini) p. 225Uomini e no p. 233Un nuovo paradiso di cartoon? p. 238Variazioni sui vecchi temi p. 242Iper-realismo p. 245Fiabe moderne p. 253Generazione Pixar p. 257Attualità p. 265

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Appendici

The Disney Way of Life(Massimo Benvegnù) p. 270The Dark Side of WD (Sergio Arecco) p. 273L’abbandono (Ezio Alberione) p. 279Fantasia vs Realtà (Anna B. Antonini) p. 287Due o tre cose che so di lei (Massimo Alutto) p. 290Alla ricerca dell’identità perduta (Gianluigi Negri) p. 292Disney/Pixar: i film della rivoluzione digitale (Roy Menarini) p. 296La regola dell’eccezione. Pixar e Studio Ghibli a confronto (Anna B. Antonini) p. 301

Postfazione

Walt, la Maschera e il Predicatoredi Danilo Arona p. 317

Filmografia per il grande schermo p. 321

Riferimenti bibliografici p. 339

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Ouverture. La foresta dei paradossi

di Oreste De Fornari

Davanti a contraddizioni, antinomie e paradossi relativi a Walt Disney ci sen-tiamo disorientati come Biancaneve in fuga nel bosco di notte. È stato il più arti-sta (tutto è disegno, creazione nel suo reame) e insieme il più industriale deicineasti: il suo nome compare nella storia dell’arte di Gombrich e sul listino dellaborsa di New York. Il più autore e il più anonimo. È la questione omerica deldisegno animato: chi (quanti) sono gli autori dei suoi film. Per rispondere ade-guatamente ci vorrebbe un cartoon con un carro mascherato che trasporti i colla-boratori (lo stesso si dovrebbe fare con tutti i registi, anche con Fellini, con imascheroni di Mastroianni, Flaiano, Rota e di Fellini nelle varie età). Terzo para-dosso, è stato il più irrealista dei cineasti (non c’è mai riproduzione fotograficadella realtà nei suoi film) e il più realista, un maestro del verosimile. Non pos-siamo dire che i suoi personaggi siano poco somiglianti, visto che non si sa benea chi dovrebbero somigliare, di solito sono animali di fuori e umani di dentro, ei gag sono regolati dal principio aristotelico dell’impossibile plausibile. Il piùdarwinista e il più creazionista. Non c’è molta distanza tra l’uomo e la scimmia,in compenso negli animali e perfino nelle piante e in certi oggetti vibra un rifles-so di umanità: si direbbe che tutto l’universo sia stato creato a immagine del-l’uomo. Ulteriori paradossi tra provincialismo e cosmopolitismo, e tra finitudi-ne e immortalità: Walt è morto quarant’anni fa, ma continua a firmare cartoon inpuro stile Disney con la giusta miscela di humour, glamour, horror, musical efantasy. E ancora contraddizione tra populismo New Deal e conservatorismofilomaccartista. Va ricordato che insieme alle simpatie politiche dell’autore eranogli interessi dell’azienda a influenzare il contenuto dei film, come per Spirit of’43, commissionato dal Dipartimento del Tesoro, un originale esempio di propa-ganda dove Paperino esorta gli americani a pagare le tasse per finanziare l’indu-stria bellica (“Spend for the Axis or Save for Taxes” è lo slogan). Per concludereregista per l’infanzia o invece per eterni adolescenti incuriositi dai risvolti mali-

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ziosi. Una chiave di lettura che può vantare fautori illustri, a partire da ErwinPanowsky, e che continua a raccogliere nuovi adepti: l’attrice Valentina Cervi hadichiarato tempo fa che il suo Disney preferito è Dumbo, “sovversivo e lisergico”.

Sono soltanto alcune delle contraddizioni tra cui si muove con disinvoltura ecompetenza Roberto Lasagna, in contrappunto fra storia del cinema, storia eco-nomica, e storia politica degli Stati Uniti. Il risultato, per la ricchezza di dati,testimonianze e la  molteplicità dei punti di vista,  somiglia a un romanzo, unromanzo che incomincia ai primi del Novecento e arriva agli anni Novanta, conla geopolitica terzomondista di Aladin,  Mulan e del  Re leone (che RobertoLasagna mi rimprovera di non avere apprezzato abbastanza e forse ha ragionelui). Poi si prosegue con i film in 3D coprodotti dalla Pixar, occasione per nuovesfide estetiche, come la scelta di personaggi meno graziosi e meno antropomor-fici del solito (i giocattoli di Toy Story, le automobili di Cars) tenendo ferma lapredilezione per gli irregolari, gli svantaggiati e i brutti anatroccoli: memorabilil’anziano scorbutico venditore di palloncini di Up e il robot spazzino di Wall-e,icona di solitudine cosmica.

Già da questi pochi esempi si può dedurre come la Disney stia adempiendooltre ogni attesa ai doveri umanistici che Walt si era dato ottant’anni fa.

Sul rinnovarsi della morale della favola devo però confessare che la sorpre-sa per me più gradita è arrivata dal finale di Shrek, dove la principessa, liberata dal-l’incantesimo, anziché tornare bella, rimane un’orchessa per non separarsi dal suoamato orco verde (da qui la scritta “E vissero per sempre orrendi e contenti”). Inrealtà Shrek è stato prodotto dalla Dreamworks di Spielberg, forse i colleghi dellaDisney non avrebbero osato tanto. Ma sono certo che Walt da lassù mi vorrà per-donare per questa piccola infedeltà. Cerco di propiziare la sua benevolenza ricor-dandogli che sono un suo vecchio spettatore: Cenerentola l’ho visto qualche setti-mana prima di nascere (così almeno mi ha raccontato mia madre).

Se mi è venuta da fare questa confessione e questi confronti e se ho ripreso atenermi aggiornato sui film di Disney il merito evidentemente va alla lettura delsaggio di Roberto Lasagna. Servono anche a questo i libri, a non smettere di farsidelle domande.

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Noi in Wonderland

Questo libro ripercorre la vicenda del cinema disneyano dalle origini ai gior-ni nostri, affontando il discorso sull’evoluzione dei linguaggi e quello sui possi-bili significati suggeriti all’analisi dai singoli film. La trattazione procede in unaprospettiva fluida e composita: da una parte, le opere disneyane sono collocatein un contesto storico generale che comprende le molte espressioni dell’industriaculturale di matrice statunitense, parimenti, viene avviato un costante riferimen-to al significato più “intimo” di ogni singolo film che, nel caso di Disney, si con-fronta sia con una vocazione espressiva particolarissima, sia con la letteratura perl’infanzia e con l’universo archetipico delle fiabe. Durante la nostra esposizione,abbiamo cercato di tenere nell’adeguata considerazione l’accoglienza critica chei film di Disney hanno suscitato lungo gli anni, nella consapevolezza che proprioil cinema “infantile” e “istintivo” del padre di Topolino si sia prestato ad una ven-tata di accuse che hanno visto confluire vecchie prurigini politiche e nuovi affla-ti di spiritualità, aventi quali bersagli il materialismo capitalistico e le minacceincombenti di una talvolta malcompresa globalizzazione. Nulla di tutto questoimpedisce infatti di riconoscere con franchezza che Disney rappresenti uno deigrandi temi dell’industria dello spettacolo statunitense, un paradigma illustre eanche controverso della cultura dell’intrattenimento, tanto più che i suoi moltifilm (e i numerosi lungometraggi d’animazione realizzati dallo Studio che anchedopo la morte di Walt continua a portare il suo nome) rivendicano, oggi comeieri, la loro collocazione eccentrica eppure così nevralgica all’interno del merca-to cinematografico mondiale.

Se a detta di molti i film di Disney sono come il panettone o i regali di Natale,in altre parole i simboli di un tradizionalismo che non sembra conoscere tra-sgressioni, in realtà questi oggetti sono il frutto di una lunga vicenda che viaggiaparallela alle trasformazioni del gusto e del costume in un arco di tempo che anti-cipa la Grande Depressione e arriva fino ai giorni nostri. Questi oggetti sono deifilm, dunque. E, nello stesso tempo, questi film sono degli oggetti, i prodotti col-laudati di un celeberrimo “artista seriale” che ha scelto di rifiutare, con intuito espirito d’indipendenza, l’etichetta dell’artista isolato di stampo ottocentesco. Unindipendente ad oltranza, dimostratosi tale anche quando per altri sarebbe statofacile cedere alle lusinghe di partner economici ben più agguerriti. Walt Disneydeve alla sua esuberante inventiva e alla sua originalità il fatto di essere consi-derato un “evergreen”, circostanza che si perpetua ben oltre il pregiudizio con cuila cultura europea ha guardato sovente al suo cinema soprattutto in seguito aglianni bui del maccartismo, una stagione terribile dalla quale il cartoonist ebbe da

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perdere molto in fatto di credibilità culturale. Ma tant’è. Il pregiudizio venne adaumentare in virtù della concezione seriale del lavoro dell’artista, per la divisio-ne in “due tempi” della produzione filmica (ad un cinema strettamente intesocome “di” Walt Disney sarebbe succeduto, dopo la morte del cartoonist nel 1966,un cinema post-disneyano del quale sarebbe stato talvolta facile non voler coglie-re le differenze rispetto al modello “progenitore”), e per la patente di invadenzache il marchio Disney ha finito per ritagliarsi nel panorama della cinematografiamondiale. Disney è diventato dunque un’idea, un concetto di cinema e di intrat-tenimento. Ma occorre andare alle origini del cinema disneyano per riconsidera-re, al di là di qualsiasi facile collocazione, la vocazione più attendibile del cinea-sta; Walt Disney, uomo di cinema inventore di mondi possibili, è l’appassionatodi caricature che vedrà nel “vagabondo” di Charles Chaplin uno degli ispiratoriautentici di Topolino (proprio Chaplin che, ironia della sorte, verrà allontanatodagli Usa negli anni Cinquanta del maccartismo), l’animatore di cinema che dàvita agli oggetti molti anni prima di John Lassater, il “prototipo” di un’attitudineinventiva la cui effervescenza confluisce nella dimensione seduttiva del cinemahollywoodiano degli anni Trenta. Disney ha lasciato un’opera sfaccettata, mul-tiforme e significativa; un territorio di ombre, qualche volta ambigue, qualchealtra perfino troppo chiare, la cui apparente nebulosità merita una nuova atten-zione, anche alla luce dell’enorme credito popolare tributato ai più recenti car-toon disneyani (rilanciati dal marchio Pixar) e in virtù di un gusto estetico con-temporaneo in cui si fanno sempre più frequenti le contaminazioni reciproche trail cartoon, la computer graphic e il cinema dal vero. Abbiamo quindi operatonella convinzione che un approccio di questo tipo potesse rivelare un senso pro-ficuo quale chiave di accesso al meccanismo di manipolazione/seduzione chel’industria dello spettacolo opera sul fronte dell’immaginario, e questo libro èsoltanto uno dei molti tentativi che si rendono necessari, oggi, per salvaguardarel’attenzione critica in un universo seriale che ci sembra troppo facile mistificarecome incomprensibile. Sullo sfondo, non dimentichiamolo, permane la strutturasociale con i suoi condizionamenti, seppure “abbelliti”, in un cartoon, attraversouna seducente forma di intrattenimento.

Abbiamo dunque cercato di esaudire un intento divulgativo che aiutasse acomprendere il fenomeno Disney sotto un profilo antropologico-culturale e con-tribuisse a dipanare i soliti luoghi comuni: alla luce di questo proposito, il nostroringraziamento va agli autori che con i loro interventi hanno condiviso il nostrointento di fare luce sull’universo della serialità disneyana. I loro contributi inse-guono un’idea ampiamente condivisa dall’autore di questo scritto: il cinema diDisney, mentre si offre come un’involontaria parodia dell’occidente industrializ-zato, è un compendio paradigmatico delle suggestioni che caratterizzano la sto-

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ria della cinematografia statunitense, la fabbrica dell’intrattenimento popolareresponsabile dell’affermarsi, nel racconto filmico, di un’attitudine manipolato-rio/seduttiva che si presenta in ultima analisi come un osservatorio di tensioniantropo-sociali, siano esse latenti o potenziali.

Il cinema di Disney è quindi suscettibile di un’ampia rilettura psicoanalitica:basti pensare che molti personaggi dei cartoon si confrontano sovente con la per-dita precoce di un genitore che diverrà un ricordo idealizzato della loro vita futu-ra, mentre al posto di una figura genitoriale “buona” s’installa molto presto, nel-l’ordinaria quotidianità di una vita angosciosa combattuta al suono di speranza eottimismo, un tutore sgradevole e ingrato, spesso una matrigna invidiosa (comein Cenerentola), o un individuo incapace d’amore (come ne Il gobbo di Notre-Dame). Al personaggio, dunque, il compito di muoversi all’interno di una scenanella quale paiono alquanto sottolineati i legami affettivi, qualche volta simbo-lizzati qualche altra direttamente evocati. In quest’itinerario graduale di costru-zione di un’identità stabile viene annunciato con perenne fiducia il mito di un’al-tra famiglia, una nuova isola di sogno da contrapporre alla grigia routine del-l’oppressione quotidiana (e la famiglia, in Disney, è da intendersi in un sensolato, quale rappresentazione metaforica di un’armonia sociale che può benissimosottintendere anche un capitalismo non parassitario ma produttivo e vitalistico).In tal modo Disney inscena una sorta di cinema-rivendicazione che ha fatto stor-cere il naso alla critica più smaliziata. Ma può essere utile guardare anche oltrela figura di Walt Disney, superando le resistenze che frenano l’analisi: a quelpunto non affiorerà unicamente un proposito artistico ma, in senso ampio, unadimensione culturale. Attraverso la bottega del cartoonist seriale, infatti, si sonorispecchiati in ben oltre ottant’anni di storia i gusti e le aspettative di un pubbli-co che si è detto sovente entusiasta dei film disneyani: c’è sembrato allora inte-ressante muoverci dentro e oltre i confini dell’immaginario cinematografico diDisney, con il proposito di scorgerne gli archetipi ma evitando al contempo direstare succubi di un’analisi parimenti “incantata”. Abbiamo dunque cercato difare breccia tra i significati dei racconti, analizzando l’eventuale manicheismo ela semplificazione ma anche la complessità del linguaggio.

A molti europei (ma non soltanto a loro) il successo dei film disneyani è sem-brato uno scoraggiante segnale di imbarbarimento culturale, e il presunto schema-tismo con il quale sarebbero state rilette molte fiabe è stato accolto come un dichia-rato proposito disfattista, il tangibile modello di infantilismo propagandato da unacultura imperialista per vocazione. Il nostro punto di vista è che una siffatta cultu-ra non si sia affermata unicamente in virtù di un modello di semplificazione, poi-ché la forza della cultura di massa risiede semmai nella sua complessità struttura-le; una complessità che trova piena espressione in quella dialettica di produzio-

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ne/consumo dei beni culturali di cui il cinema di Disney rappresenta al contempoun caso esemplare e una variante eccentrica. Da qui, la singolare natura dell’operadisneyana, quale corpus espressivo che vanta una connaturata tensione tra origina-lità e standardizzazione, tra intuizione spiazzante e trionfo del cliché: un’operaaperta, in senso sociologico-culturale, che mentre anticipa il futuro rivendica il pas-sato, e propone un modello di presente meno uniforme di quanto possa apparire adun’analisi critica imbavagliata dai giudizi preconfezionati. Anche attraverso il cine-ma di Disney ha trovato strada lo sviluppo della mondializzazione, il cosmopoli-stismo appunto, in altre parole la promozione di un tipo di uomo che aspira ad unavita migliore, attraverso un’idea di felicità personale che invece di manifestarsicome indissolubilmente saldata all’americanismo o all’individualismo, viene amettere in crisi proprio i valori di quel puritanesimo borghese che assicurano l’e-gemonia alle borghesie e alle classi medie occidentali.

La caratteristica sociologica dell’opera disneyana si dà come evidente inmaniera particolare proprio attraverso la storia del suo successo nel mercato dellesale cinematografiche italiane. L’avvento di Disney nel nostro paese, l’ingressodei suoi celeberrimi “classici”, è contestuale al fiorire di quella corrente neorea-lista che in seguito alla Liberazione rappresenta un formidabile impulso all’esa-me di coscienza e il prioritario ritorno alla realtà di un cinema che i suoi arteficiritengono al servizio dell’uomo. Fra il 1945 e il 1950, il neorealismo è definitorivoluzionario da alcuni, mentre da altri è considerato un’esperienza di cinemasociale. I temi della guerra (Paisà di Rossellini), del sottosviluppo delMezzogiorno (La terra trema di Visconti, Non c’è pace tra gli ulivi di De Santis),della disoccupazione urbana (Ladri di biciclette di De Sica, Roma ore undici diDe Santis), della condizione dei vecchi e degli emarginati in genere (Umberto D.di De Sica, Un marito per Anna Zaccheo di De Santis), suscitano un ampio dibat-tito critico e consentono al cinema italiano di esportare le sue opere perfino inAmerica, per quanto il potere politico abbia spesso deplorato che si esibissero inmodo così evidente le ombre e le miserie del paese. A due anni dalla difficileavanzata delle truppe americane in Italia, anche i film di Hollywood trovanoaffermazione, e per molti critici italiani la scelta è tra il sogno d’evasione disim-pegnata e puerile dei prodotti americani e le opere partecipi e progressiste delneorealismo nazionale. L’ottimismo e l’opulenza che traspaiono dai film hol-lywoodiani diffondono miraggi di benessere in una nazione ancora piegata dallelacerazioni della guerra, eppure quel cinema che allo sguardo degli intellettualiappare ingenuo e irritante esprime un tratto dominante della cultura di massa sta-tunitense, un elemento “strategico” che definisce al contempo la singolarità diuna condotta comportamentale e spiega in parte il successo di Hollywood: si trat-ta di una focalizzazione sull’ottimismo, in altre parole sui modi attraverso i quali

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si rende possibile superare attivamente gli ostacoli quotidiani dell’esistenza. Nederiva un atteggiamento conflittuale di quella cinematografia seppure “astratta”e altisonante, uno spirito battagliero che guarda con orgoglio al futuro non fer-mandosi dinanzi alle magagne del contingente. Conflittuali sono anche i rappor-ti sociali raffigurati, le tensioni affettive descritte. Il tutto attraverso la nuova tec-nica cinematografica statunitense, che nella sua esibita “professionalità” rischiasecondo alcuni di far sembrare ogni film simile ad un altro, in evidente contrastocon il senso di “autenticità” sbandierato dalle opere della corrente neorealista.Figuriamoci quale accoglienza potesse ricevere il cinema “per bambini” di WaltDisney in un simile contesto. Anch’esso, tuttavia, rientrava pienamente in questecategorie sociologiche, e anche le fiabe disneyane propongono un modello d’in-trattenimento meno pacificato ed edulcorato di quanto potesse apparire aglisguardi comprensibilmente timorosi degli italiani bastonati dalla Storia.

Topolino è anzi un figlio non accreditato dell’epoca che conduce alla “GrandeDepressione” e questo libro intende proporsi come un contributo alla compren-sione, nel tentativo di indurre ad evitare le facili generalizzazioni. Ci sono oggi,e ci sono stati anche in passato, numerosi modelli di differenti cinematografieche ci sembra sia importante valorizzare attraverso campagne di diffusione e pro-poste di letture critiche. Altri modi di intendere l’opera cinematografica (e l’ideastessa di mondo) che ruotano magari al margine del sistema, oppure all’internodi quei regimi di cui proprio il cinema meno allineato riesce a mettere in mostrale incrinature democratiche. Al critico, oggi, è delegato questo prezioso compitodi archeologo-investigatore di opere significative e particolari. Questo libro,invece, concentra l’attenzione sul modello cinematografico americano, chesecondo un punto di vista a lungo sopravvissuto avrebbe rappresentato in parte(e per qualcuno rappresenta ancora) l’impronta indelebile della massificazione,ovvero dell’omologazione dello sguardo. Tanto più che il cinema americanosembrerebbe riflettere spesso il “sistema”, le tendenze dominanti e un gusto diconservazione. Abbiamo dunque cercato di cogliere le ombre e le contraddizio-ni del “sistema Disney” anche attraverso una disamina delle vicissitudini stori-co-economiche che hanno segnato la vicenda dello Studio che porta questonome; non dimenticando una particolare attenzione alla pagina buia del maccar-tismo, di cui abbiamo riproposto alcuni momenti salienti e un resoconto dellevicende che coinvolsero Walt Disney durante la “caccia alle streghe”. Il nostroproposito non è quello di rafforzare pregiudizi e posizioni acquisite, ma di aiuta-re a guardare oltre, cercando di comprendere la complessità del cinema disneya-no (e l’originalità del suo artefice) e di collocarlo all’interno delle multiformisfaccettature che caratterizzano la storia dello spettacolo e del cinema americanonel suo complesso.

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E’ nostra convinzione che il cinema americano non rappresenti un’entitàastratta e totalitaria, ma che, attraverso le sue qualità popolari, esprima la dialet-tica tra i consumi e i bisogni culturali di milioni di persone, e si proponga in defi-nitiva come un vettore sociologico di valori, gusti e aspettative. Un vettore cheevidenzia lo spirito dei tempi, il grado di soddisfazione o di insoddisfazionesuscettibile di caratterizzare lo stato emotivo di milioni di persone, il bisogno,più o meno accentuato, di cambiamenti personali e trasformazioni collettive. Allaluce di queste considerazioni, ci sembra che il cinema hollywoodiano non debbaessere considerato sbrigativamente e in maniera un po’ apocalittica come unomologo del fantomatico “sistema”. Piuttosto, si tratta della grande industria del-l’immaginario, la vetrina dello spettacolo che, con spirito scientista, sciorinapuntualmente i suoi conti, i suoi bilanci, le sue previsioni, ma tali ragionamentisi applicano pur sempre sulle aspettative e i gusti in atto, ed è importante rico-noscere “a che punto siamo” sul fronte della manipolazione della nostra imma-gine nel (del) mondo, magari aiutati da idonei percorsi critici. Perché è comun-que vero che il rischio dell’omologazione risulta sempre presente, ed esso vaindividuato attraverso un’attenzione vigile, mentre può risultare addirittura con-troproducente un atteggiamento di chiusura preconcetta.

La storia del cinema americano è anche la vicenda degli scontri e delle ten-sioni per l’accaparramento delle innovazioni tecniche. Proprio in questi ultimianni, in seguito all’affermarsi delle tecnologie digitali, la competizione tecnicaha raggiunto nuovi livelli di accelerazione, quasi come durante gli anni Venti,cioè agli esordi del cinema d’animazione su scala industriale. In questa com-plessa dinamica i nuovi prodotti cinematografici della Disney non hanno rinun-ciato alla loro vocazione cosmopolita planetaria (un altro tratto, questo, cheappartiene di diritto al cinema statunitense delle grandi Major), con un occhio diriguardo ai nuovi orizzonti di espansione (Hercules, Il gobbo di Notre-Dame,Mulan), senza però perdere di vista una dimensione più autoriflessiva o addirit-tura pedagogica funzionale a tenere alto il marchio di una ditta celeberrima peril suo presunto spirito moralizzatore (Pocahontas). La storia del recente cinemad’animazione è inoltre legata a filo doppio con le trasformazioni del cinema dalvero, e per lungo tempo la Disney, anche attraverso il marchio TouchstonePictures, ha portato avanti una produzione parallela con soggetti e storie dalsapore vagamente liberal. Nell’assecondare questa linea, durante l’estate del2000 la Disney ha prodotto il film di Brian De Palma Mission to Mars, nel qualesi respira un particolare senso di rivendicazione/nostalgia per un cinema archeti-pico che tratti i massimi sistemi e, nello stesso tempo, raggiunga il cuore degliindividui attraverso un linguaggio diretto; si tratta di un sentimento particolareche De Palma sa tradurre in sequenze intense attraverso un’esortazione a sentir-

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ci “fratelli di un solo cosmo”: gli astronauti che nel film vanno a cercare la vitasu Marte sono mossi dal desiderio di provare che “la vita va verso la vita”, inaltre parole sono tentati dalla suggestione cosmologica per cui “la vita è coesio-ne, non dispersione”. E’ un epiteto quasi disneyano, che un regista ispirato comeBrian De Palma sa rendere particolarmente pregnante: un monito a non fermar-si, a procedere fiduciosi, nella buona e nella cattiva sorte, guardando dentro efuori di noi. Una tensione all’unione, oltre i confini territoriali e le regole dellaragione: una rivendicazione d’immaginario (collettivo e individuale) che dev’es-sere piaciuta molto ai produttori della Disney. Uno sguardo verso “l’altro da sé”che riappare vistosamente anche nei film ipertecnologici della Disney-Pixar,devoti allo spirito d’un tempo nel rinverdire l’attualità di un sogno che è unascommessa nel futuro. Un cinema orgogliosamente “moderno” che meritaanch’esso una precisa attenzione, al quale fanno innegabilmente riferimento oggigli animatori e gli inventori dei sogni di celluloide, nell’era della pixillation e delredivivo effetto tridimensionale rilanciato da Avatar & co.

Questa “Storia del cinema” di Disney amplia e rivede la precedente pubbli-cazione Walt Disney e il cinema (Falsopiano, 2001). Un ringraziamento ad AnnaB. Antonini, a Oreste De Fornari e a Danilo Arona per i loro contributi.

Il libro è dedicato a quattro amici che ci hanno lasciato: Ezio Alberione,Francesco Franco, Lino Molinario, Valentino Ricci.

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Capitolo Primo

APPRENDISTA STREGONE

Il prototipo dei prototipi

L’animazione comincia ad essere una pratica comune nell’industria cinema-tografica americana proprio negli anni in cui prende forma la specializzazionenelle varie fasi della lavorazione del film. La divisione del lavoro, introdottaanche nei disegni animati, permette l’individuazione di fasi distinte e autonomefavorendo tempi di lavorazione più rapidi ed economici; si viene così a ripro-durre una netta suddivisione dei compiti: gli animatori principali salvaguarde-ranno l’ideazione e il controllo del lavoro, mentre altri disegnatori “operativi”saranno preposti alla realizzazione dei disegni necessari ai fini della configura-zione del movimento. La razionalizzazione trova accesso sostanzialmente neglianni Dieci, periodo nel quale sono introdotte tecniche innovative quali l’uso deitrasparenti, la stampa automatica degli sfondi e lo slash system, processi che con-tribuiranno non poco ad accelerare il lavoro tecnico.

Agli albori del disegno animato, i primi grandi animatori, tra cui Emile Cohle Windsor McCay, sono noti artefici di una grandissima quantità di lavoro.Entrambi realizzano un gran numero di disegni. Gli animatori americani delperiodo muto possono essere grosso modo divisi in due categorie. All’una appar-tiene Winsor McCay - il creatore del dinosauro Gertie e di Little Nemo - model-lo di una tradizione legata al prassinoscopio. L’altra categoria è rappresentata daJ. R. Bray, autore della serie incentrata sul colonnello Heeza Liar, che introducenuove tecniche di velocizzazione cercando di rendere più economica la produ-zione dei disegni animati mediante l’applicazione di principi industriali. McCaysi serve di un solo assistente per tracciare gli sfondi su carta. Disegna, con cer-tosina pazienza e senza il ricorso a formule semplificatrici, tutte le immagini deisuoi film. Lavori fantasiosi eseguiti con dovizia di particolari, spesso senza bada-re ai tempi di realizzazione. Nel 1913 Bray individua un metodo per automatiz-zare il processo di animazione; The Artist’s Dream (Il sogno dell’artista) è rea-lizzato stampando lo stesso sfondo su diversi fogli, e animando le forme dipintesu quest’unico sfondo. I lavori di Bray non possono vantare la cura e l’artisticitàdi McCay: l’amore per l’animazione dei due pionieri manifesta pertanto voca-zioni distinte. Sarà McCay a trasformare l’animazione in un’attività redditiziapoiché egli è in grado di produrre disegni animati in tempi brevi rispettando ledate necessarie alla regolarità della distribuzione nelle sale. Bray diviene, ine-

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quivocabilmente, un modello per la maggior parte dei produttori statunitensi dicinema d’animazione. Per Disney in primo luogo. In effetti, il padre diBiancaneve, sin dagli esordi nell’animazione, accetta senza riserve gli accorgi-menti tecnici di Bray, i suoi precetti tesi a ridurre i tempi di esecuzione.

La razionalizzazione, alla base dell’industria cinematografica americana, è inDisney particolarmente accentuata. I suoi primi film si caratterizzano per l’ade-sione a cicli (Laugh-O-Grams, Alice Comedies) che esprimono bene l’idea diserialità inseguita agli albori del mainstream cinematografico. Ma la particolareelaborazione del lavoro disneyano punta sin dall’inizio ad uno standard qualita-tivo sempre più elevato: ricchezza di particolari, disegni migliori, maggiori gage più curate.

La dialettica tra invenzione e standardizzazione, incarnata dall’industria cine-matografica statunitense, trova in Disney uno dei suoi più celebri paradigmi. Artee industria. Poesia e commercio. Favola e marketing. Intorno alla metà degli anniTrenta egli avrà ottenuto di fondere e sistematizzare i principi teorizzati da McCay con quelli di Bray. A quel punto Disney sarà soprattutto il nome di un’a-zienda del cinema statunitense, capace come le altre Major di garantire l’uscitaregolare dei propri film; un’industria dello spettacolo gerarchizzata e complessa,organizzata in funzione di un grande numero di artisti e tecnici, fucina di talentidestinati a confrontarsi con regole produttive e censure più o meno dirette. Unafabbrica creativa che farà scuola. Innegabilmente, lo Studio Disney vive dellavoro, molto generoso, dei suoi collaboratori, e si mostra in grado di favorire losviluppo e la crescita di ognuno di loro.

Prima di Disney, Bray era stato fondatore di un proprio Studio di animazio-ne, nel 1914. Il giovane Earl Hurd, collaboratore di Bray, brevettò un sistema dianimazione che permetteva di disegnare le figure su fogli di celluloide traspa-rente (i singoli fogli erano chiamati cels, in italiano rodovetri); mentre lo sfondorimaneva costante, ogni particolare delle parti in movimento era disegnato sufogli separati. In questo periodo Hurd sperimenta con grande successo il suometodo nella serie Bobby Bumps da lui ideata. Nel frattempo un altro animatore,Raul Barré, congegna un altro procedimento fondamentale, destinato a trovareimpiego ancora oggi: lo slash system, in italiano “strappo”. Barré, dopo averedisegnato la figura sul foglio, taglia la parte che deve compiere il movimento ela ridisegna su un altro foglio mantenuto al di sotto della parte fissa. Il metodo diBarré permette di omogeneizzare le singole scene disegnate dai diversi animato-ri: a questo scopo il tecnico fissa i fogli con dei fermagli alle estremità del dise-gno, controllando la regolarità e la coincidenza delle forme sovrapposte. Questatecnica fu utilizzata per creare una breve serie di Animated Grouch Chasers(scacciapensieri animati) per la Edison: brevi film con sequenze animate.

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Se le tecniche fondamentali del cinema d’animazione sono introdotte duran-te gli anni Dieci, il periodo seguente la prima guerra mondiale registra un’enor-me espansione del settore. La specializzazione del lavoro è contestuale al gran-de numero di case che si affacciano sul mercato in questi anni, applicando meto-di di divisione del lavoro più efficienti. In breve tempo, si diffonde un sistemache garantisce l’uscita mensile o bisettimanale di serie a disegni animati: il capoanimatore traccia lo schema con i movimenti e le pose basilari di ciascuna scena,quindi, altri disegnatori realizzano disegni suppletivi per il movimento che sonoriprodotti su singoli fogli trasparenti; infine, la sintesi conclusiva, dopo aversistemato il colore, consiste nel fotografare uno ad uno i singoli fotogrammi.

Le compagnie che producono le pellicole si fanno subito concorrenza nell’i-deazione e nella realizzazione di serial con gli stessi temi e gli stessi personag-gi. La distribuzione è affidata a operatori indipendenti, legati per contratto ad unadelle grandi compagnie. Negli anni Venti, il più affermato e temuto tra questidistributori indipendenti è Margaret J. Winkler Mintz, che proprio in questoperiodo inizia a finanziare e distribuire le serie di cartoon più celebri del decen-nio: Mutt and Jeff di Bud Fisher, Out of the Inkwell (Fuori dalla boccetta d’in-chiostro), dei fratelli Fleischer, e i primi lavori di Walt Disney.

Nel 1915, i fratelli Max e Dave Fleischer avevano brevettato una tecnica chia-mata “rotoscopio” che consiste nello scontornare su dei fogli di carta le sceneriprese dal vero; una tecnica minuziosa che permette di tracciare i contorni dellefigure fotogramma per fotogramma. Inizialmente, i Fleischer avevano pensato adun impiego della loro tecnica per scopi militari, ma la guerra ritardò il suo uti-lizzo. Dopo la guerra, Max e Dave tornano al lavoro con una nuova metodolo-gia: mescolano le figure riprese dal vero ai disegni animati. Nel prologo del cele-berrimo serial Out of the Inkwell, Max Fleischer riveste i panni dell’inventore delclown Koko. Il loro primo cartoon è distribuito alla fine del 1919. Il loro impe-gno non ha come scopo unicamente l’aumento dell’efficienza produttiva. IFleischer, artisti prima che imprenditori, guardano all’evoluzione dell’espressi-vità, alla naturalezza dei movimenti. Con loro è superata la meccanicità dell’ef-fetto ottenuto ridisegnando sui singoli trasparenti la parte in movimento: lanuova tecnica del rotoscopio, con cui si ricalca l’intera figura (o l’intera imma-gine), ottiene che il personaggio si muova come una figura intera, dunque conuna naturalezza inedita e una maggiore precisione formale.

Il clown Koko, cavallo di battaglia dei Fleischer, con la particolarità di muo-versi su sfondi fotografati, continua il suo successo fino alla fine degli anni Venti,cioè fino agli albori del sonoro. A quel punto nuovi personaggi (Betty Boop ePopeye) faranno sentire le loro voci. Il mondo dell’animazione prende spesso ispi-razione da una strip dei fumetti, mentre il cinema finisce per produrre nuovo mate-

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riale ad uso e consumo delle tavole disegnate. La serie Mutt and Jeff diviene popo-lare come strip comica nel 1911, grazie alla simpatia dei suoi due baffuti e sfortu-nati personaggi, uno alto e l’altro basso. Nel 1916 l’autore del disegno, BudFischer, concede l’autorizzazione per trasporre la strip su grande schermo. Comesuccederà con Disney, il suo nome resterà legato nel corso degli anni alla serie Muttand Jeff, anche se si avvicenderanno spesso nuovi realizzatori effettivi, tra cui iveterani Raoul Barré e Charles Bowers. Margaret J. Winkler Mintz, attraverso laFox, distribuirà per tutti gli anni Venti questa serie di grande popolarità.

Walt Disney e il suo amico Ub Iwerks lavorano assieme già dal 1920, guada-gnandosi da vivere a Kansas City, nel campo della pubblicità. All’inizio non èfacile trarre profitti da un’attività così competitiva (disegnano pubblicità pernegozi, teatri, ristoranti), e sono costretti a lavorare per conto della Kansas CityFilm Ad., per la quale realizzano la serie dei Newman’s Laugh-O-Grams, sem-plici film d’animazione senza molte pretese. Quando non lavora nell’agenzia,Disney disegna i Laugh-O-Grams, sorta di cinegiornali dai risvolti satirici sullavita di provincia. È possibile considerarli la prima vera opera di Disney. I Laugh-O-Grams fanno guadagnare al giovane disegnatore i mezzi per mettersi in pro-prio e preparare un progetto più ambizioso: introdurre il mondo delle fiabe neicartoon. Un forte spirito di iniziativa, e l’idea che sia necessario investire econo-micamente rischiando di volta in volta il tutto per tutto, spronano Disney a nonarrendersi di fronte agli insuccessi. Le sette fiabe celebri che Disney rappresen-ta per la prima volta (tra cui Puss in Boots, cioè Il gatto con gli stivali), inscena-no con disinvoltura un po’ goliardica e sicuramente poco rispettosa lo stileDisney, qui alle prime mosse. Di Perrault resta soprattutto lo spirito, l’ironia del-l’originale. L’ambiente scenografico ha i tratti di un americanismo talmenteappariscente da risultare astratto; i riferimenti al cinema hollywoodiano sonoalquanto esibiti. Il gatto con gli stivali mescola il Perrault della fiaba con la bal-danza di Robin Hood e il carisma latino di Rodolfo Valentino. Nella vicenda rac-contata, l’eroe, un giovanotto aitante che riflette lo stile dei divi del cinema, perconquistare la mano della figlia del re, un industriale cafone che s’ingozza di sal-sicce e porta scritto “king” sulla corona (come altri futuri re disneyani…), simette in mostra fingendosi torero in una strampalata e paradossale corrida, dallaquale uscirà indenne aiutato da un gatto ingegnoso. Già uno spettacolo dentro lospettacolo, una pantomima all’interno della pantomima sociale, Il gatto con glistivali svela la sua natura di prototipo dell’esaltazione di una creatività indivi-duale, quello spirito di iniziativa gioioso che può permettere a un giovanottointraprendente di denigrare lo status di ricchezza del re lasciandogli sfoderaretutto il proprio valore, la propria intraprendenza, nello sport come nell’intuitopersonale. È anche l’esaltazione dell’invenzione, del rischio (il gatto truffaldino

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che trasmette al finto torero il fluido del suo ipnotizzatore magnetico), della favo-la riletta con nuove sfumature, quale territorio da trasgredire nella sola fedeltà alburlesque e allo spirito di uno spettacolo frenetico.

Il lavoro di Disney deve però subire una prima battuta d’arresto: dopo appe-na sette titoli, l’inganno di un distributore newyorkese, che non versa le percen-tuali pattuite, inaugura un periodo di ristrettezze. Disney è costretto a sospende-re temporaneamente il lavoro “artistico” perché occorre guardare ai magri contidelle casse. È una fase di lavori occasionali (realizza perfino un film educativosull’igiene dentaria, commissionato dall’istituto odontoiatrico locale), di provecomunque utili per comprendere le logiche dell’industria cinematografica.Disney, malgrado le circostanze avverse, continua a guardare con ottimismo almondo del cinema. La Mecca è Hollywood e lui lo sa bene. Una mattina delluglio 1923 Walt pone fine ad un periodo buio prendendo un treno di prima clas-se diretto a Los Angeles. Dopo di allora il suo futuro sarà scritto nella storia diHollywood. Ma una domanda sorge spontanea: chi è Walt Disney prima del gran-de successo?

Dietro le immagini

Walter Elias Disney, quarto di cinque fratelli, nasce il 5 dicembre del 1901 aChicago da Elias Disney e Flora Call. La famiglia si trasferisce, pochi anni dopo,in una fattoria nei pressi di Marceline, nel Missouri, e, nel 1910, a Kansas City.Il giovane Walt, assillato da un padre duro e taccagno, per sei anni si alza alle tree mezza assieme al fratello Roy; entrambi sono costretti, prima di recarsi a scuo-la, a consegnare giornali di casa in casa. Il padre non retribuisce i suoi figli, rite-nendo una paga sufficiente il vitto e l’alloggio. Walt, molto portato per il dise-gno, ottiene tuttavia il permesso di frequentare ogni sabato le lezioni del KansasCity Art Institute.

Le prime caricature di Disney riflettono inaspettatamente un’inconsuetaverve “socialista”. I primi tentativi di riproduzione consistono nel ridisegnare levignette che egli trova in Appeal to Reason, il periodico socialista cui suo padre,di idee politiche incostanti, è abbonato. Come ricorda Bob Thomas, biografodisneyano, “Walt divenne bravissimo nel tratteggiare il capitalista in cilindro eorologio d’oro sul ventre rigonfio, e l’operaio sfruttato in tuta” (B. Thomas,Milano, Mondadori, 1980, p. 21). Mentre le lezioni scolastiche procedono nellaroutine, Walt si appassiona ai romanzi di Robert Louis Stevenson, CharlesDickens e Mark Twain. Sono soprattutto le lezioni di disegno ad entusiasmarlo,perché gli permettono di affinare il suo talento per la caricatura. Il primo lavoro

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da “professionista” giunge verso la fine del 1916, quando, dopo aver tratteggia-to i ritratti dei clienti di un barbiere, Disney riceve l’incarico di realizzare ognisettimana una caricatura nuova da esporre in vetrina, in cambio di un taglio gra-tuito di capelli.

Nel 1917 diviene il vignettista ufficiale del giornale scolastico, malgradol’opposizione del padre. A questo punto Disney ha già maturato la decisione didiventare cartoonist, disegnatore di vignette e caricaturista. Finite le scuole, sibutta nella ricerca di lavoretti saltuari, e, contemporaneamente, frequenta lelezioni serali presso l’Istituto d’Arte di Chicago, dove studia anatomia, grafica edisegno. Per tre sere alla settimana Disney si forma alla scuola di Carey Orr eLeroi Gossit, vignettisti del Tribune e dello Herald. L’estate seguente cerca diarruolarsi, senza riuscirci, nell’esercito. Ottiene comunque di essere accettatodalla Croce Rossa come autista d’ambulanza. Partirà per la Francia il 18 novem-bre e vi rimarrà quasi un anno: la guerra è ormai finita da tempo, e il suo arruo-lamento sembra più una fuga inorgoglita dall’ambiente familiare che un atteg-giamento patriottico. Sul campo, nei momenti liberi, disegna manifesti e carica-ture per i soldati, mentre non dimentica di mantenere una corrispondenza convari settimanali americani, ai quali invia costantemente vignette umoristiche.

Di ritorno in patria, nonostante abbia ricevuto soltanto rifiuti da parte dei set-timanali, è deciso a perseverare nel proposito di diventare disegnatore.Raggiunge il fratello Roy a Kansas City, dopo che questi si è congedato dallaMarina, e si mette alla ricerca di un posto presso uno dei giornali locali. Mostrale sue cartelle allo Star e al Journal, ma nessuno sembra avere bisogno di unvignettista o di un disegnatore. Dopo moltissime delusioni, è assunto comeapprendista in uno studio di pubblicità, il Pesmen-Rubin Commercial Art Studio.Qualche mese dopo è assunto anche un altro giovane, Ub Iwerks (il suo veronome è Ubbe Ert Iwwerks), che stringe subito amicizia con Walt. Nel gennaio del1920 i due decidono di mettersi in proprio, ma la loro società non ha vita lunga.Intimoriti dalle ristrettezze economiche, di comune accordo pensano che almenouno dei due dovrebbe cercare un lavoro più sicuro. Disney accetta quindi unimpiego stabile in una ditta che produce brevi film pubblicitari per i cinemato-grafi, la Kansas City Film Ad Company. I lavori della Film Ad Company consi-stono perlopiù in disegni animati rudimentali realizzati tramite ritagli di cartafotografati a velocità ridotta; un metodo per creare l’illusione del movimento cherisulta artificioso oltre che meccanico, sorpassato dalla nuova modalità di ani-mazione ottenuta attraverso una successione di disegni diversi, certamente piùrealistica seppure più costosa.

La Iwerks-Disney Commercial Artists fallisce anche a causa della scarsaesperienza commerciale dei due, benché gli storici tendano oggi a riconoscere la

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responsabilità dell’insuccesso alla scarsa intraprendenza commerciale del soloIwerks. Ad ogni modo, entrambi, pur dovendo pensare al tornaconto, rimangonoaffascinati dalle possibilità espressive offerte dal disegno animato. Disney recu-pera presso la biblioteca pubblica alcuni testi sull’animazione, tra cui il manualescritto da E. G. Lutz Animated Cartoons: How They Are Made, Their Originsand Development, che offre una panoramica sui trucchi del mestiere ma segnalaanche i principi sottostanti i lavori di McCay e Bray. Da tenace e speranzosoautodidatta, Walt si inventa un proprio studio d’animazione nella rimessa del fra-tello, utilizzando una cinepresa in prestito e rubando il tempo al sonno.

Sin da subito Disney rifiuta l’immagine dell’animatore-artista che avevadistinto la generazione dei disegnatori dell’epoca pre-bellica. Avverte probabil-mente un senso di inferiorità nei riguardi della precedente schiera di artisti, masi tratta di un senso di inferiorità vissuto anche nei confronti dell’originarioambiente familiare: la ribellione contro un padre temuto si tradurrà presto in unaintransigenza nel lavoro, in una forsennata corsa a perfezionare la creazione deidisegni animati. Anche l’immagine dell’artista misterioso, geniale, mago del pro-prio operato, pare messa in discussione da Disney. In questo egli appartiene pie-namente alla sua generazione: una dimensione di transizione tra il vecchio e ilnuovo che restituisce il ritratto di un brillante giovane imprenditore, un artistaperplesso al proprio tavolo di lavoro, un indaffarato illustratore pubblicitario.

Il primo “biglietto da visita” di Disney è una raffigurazione caricaturale di sestesso: si tratta di un effigie che riproduce un giovanotto con i capelli in disordi-ne che fa tutto da solo, mentre i fogli disegnati volano via dal tavolo. Questaprima immagine, si badi bene, è anche una caricatura, questa davvero involonta-ria, dell’America angosciata e produttiva che precede la Grande Depressione:lavorare, produrre, credere in un’operosità che porti armonia ed entusiasmo.Potremmo prendere questa immagine quale simbolo di un’epoca, refrattaria allaregole precostituite, forgiata sull’ideologia del lavoro e spronata da un vitalismoirriducibile. È anche il ritratto di un umanità in eterna fuga, alla quale il lavoroincessante sembra essere la sola concreta possibilità di rivalsa verso una genera-zione di padri ingenerosi.

Disney artista o imprenditore? Per il momento, entrambe le cose. Nel sensoche la sua embrionale fabbrica d’animazione sperimenta il desiderio di una ribel-lione intransigente all’immobilismo dei padri, perseguito attraverso quell’opero-sità creativa e produttiva che rappresenta il “peccato originale” dell’industriacinematografica hollywoodiana. Ma di cultura di massa, in senso sociologico,parleremo oltre. Adesso ci basti sottolineare che Disney coltiva attentamentequest’immagine di solerte illustratore pubblicitario, la sola che sembri dargli unagaranzia di credibilità nell’ambiente dei potenti moguls hollywoodiani. La stes-

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sa caricatura del biglietto da visita ritornerà, speranzosamente, nel 1922, per bril-lare sulle inserzioni pubblicitarie del suo primo studio d’animazione.

In questo periodo Disney progetta di ritagliarsi un proprio spazio nel pro-gramma di comiche, numeri di varietà e attualità che Frank L. Newman, il prin-cipale tra gli esercenti cittadini, proietta settimanalmente nei suoi cinema. ILaugh-O-Grams consistono in una commistione di gag locali e pubblicità, in altritermini, una sorta di “caroselli” cinegiornalistici. Alla base c’è un animatore cheschizza illustrazioni di manie e avvenimenti del momento: un mélange di ani-mazione e riprese dal vero per rendere più espressivo il tono informativo delleimmagini. Il rullo pilota dei Newman Laugh-O-Grams parla del problema dellacriminalità a Kansas City, del dissesto delle strade cittadine, ma anche delle ulti-me novità in fatto di moda, e, nell’unica sequenza animata, della riorganizzazio-ne del corpo di polizia in seguito allo scandalo per corruzione scoppiato nell’in-verno 1920-21. Quest’ultima sequenza risulterebbe interamente animata daDisney. In futuro, nei suoi film risalenti al periodo di Kansas City, l’animazioneverrà eseguita a più mani, e in un secondo tempo, a Hollywood, Disney finirà pernon occuparsene più personalmente. Nel frattempo, questa breve sequenza è tuttadi suo pugno.

Sotto il profilo stilistico, i Laugh-O-Grams non rappresentano alcunché diinnovativo: l’idea di schizzare una figura e farle prendere vita risale ai lightningsketches, le fulminee caricature dei disegnatori di fine secolo; un pratica comu-ne all’animazione già dagli anni Dieci, quando Earl Hurd la inserisce nella serieBobby Bumps, mentre i fratelli Fleischer vi si ispirano in abbondanza per i loroOut of the Inkwell. L’approccio di Disney è tuttavia diverso nel taglio informati-vo e nel supplemento di realismo che ispira il suo lavoro: i disegni devono com-mentare gli avvenimenti cittadini in una sorta di cinegiornale animato, versioneaggiornata e ovattata dei programmi di informazione locale sfornati in ogniangolo degli States. Una simile pratica espressiva non risulta tuttavia secondarianella definizione del “Disney style”. In essa, infatti, possiamo scorgere una forteinfluenza dell’ecologia socio-culturale nell’organizzazione della creazione filmi-ca nonché un primo indice di realismo. Pertanto, mentre i Fleischer prediligonol’autoreferenzialità del cartoon, Disney è il disegnatore più compromesso conl’industria dello spettacolo; la sua produzione, che cercherà sempre il grandeimpatto popolare, propone in maniera esemplare l’arcaica alternativa: da unaparte il cinema è un’industria, cosa che esclude l’arte, dall’altra è un’arte, cosache esclude l’industria. Propone questa alternativa nel momento in cui esprimecome, secondo il paradigma hollywoodiano, industria e arte siano invece con-giunte in un rapporto non solo concorrenziale e antagonistico, ma di vera e pro-pria complementarietà. Sin dalle origini, il cinema di Disney si configura come

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un prodotto relativamente autonomo (il cineasta si può permettere di scegliere tranumerosi soggetti purché potenzialmente “di massa”), e, alla stregua di ognifenomeno autonomo, può rendersi e mantenersi tale solo grazie all’ecologiasocio-culturale che interviene nella sua organizzazione (per cui Disney è il cinea-sta che, pena il disinteresse del pubblico, non può evitare di gettare uno sguardosulle attitudini condivise dal popolo degli spettatori). Come vedremo, il cinemadisneyano resisterà negli anni perché riuscirà ad articolarsi e a connettersi comeun sistema aperto alla dimensione culturale e sociale del popolo di spettatori.Questa consapevolezza d’azione, che è innanzitutto consapevolezza del pubbli-co a cui si fa riferimento, richiede di sapere integrare la produzione e la produt-tività dell’immaginario nella realtà sociale, pretende di sapere come quella chepotremmo chiamare la realtà antropo-sociale sia fatta di mescolamenti, trasmu-tazioni, intermittenze tra reale e immaginario. Ma Disney è anche il cineasta con-sapevole di essere artefice e insieme testimone dei mutamenti che attraversanol’immaginario cinematografico. Come per George Lucas o Steven Spielbergdunque, nipotini spirituali di Disney, non ha senso parlare di realismo se non inuna maniera del tutto diversa da come intendono questo termine i critici chevogliono nel cinema un’adesione concreta ai fatti; in Disney, più che in altri, l’u-nica realtà di cui siamo sicuri è l’immagine: “il reale emerge alla realtà soloquando è intessuto di immaginario, che lo solidifica, gli dà consistenza e spesso-re, in altre parole lo reifica” 1. Con questo reale reificato, dunque, sarà opportunofare i conti nell’analisi del cinema disneyano.

Il rullo pilota dei Newman Laugh-O-Grams è l’unico sopravvissuto all’usuradel tempo. Esso mette Disney in contatto con Rudolph Ising, destinato anch’eglia lasciare il segno nel campo dell’animazione. Quando Ising inizia a lavorare conDisney, questi ha nel frattempo adottato una tecnica fondamentale: esegue l’in-tero disegno di animazione con un lapis blu chiaro che non impressiona la pelli-cola ortocromatica. Si tratta di un lavoro che Disney esegue di notte, essendo digiorno ancora impegnato alla Kansas City Film Ad. Ising posiziona il disegnosotto la cinepresa e muove la foto della mano lungo i contorni della figura dise-gnata. Ripassa i contorni e riprende i fotogrammi in successione. Per ottenere unmaggiore contrasto, Disney è solito riprendere i film su positivo, una procedurache verrà seguita durante tutto il periodo muto.

A proposito di questi Newman Laugh-O-Grams così scrive Bob Thomas:“Poiché a Disney occorre un argomento in grado di catturare l’attenzione citta-dina, decise di sfruttare il malumore locale sullo stato delle strade. Nello stileiperbolico che contrassegnava le sue prime animazioni, raffigurò automobilistiche perdevano i denti finendo in una buca e autocarri che sprofondavano in vora-gini improvvise” (op.cit., pag. 28). Milton Fed, direttore di tre cinema di Kansas

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City, dopo avere visionato il rullo pilota, chiede a Disney quanto costano i suoifilm. Al prezzo di un dollaro al metro, Disney ottiene subito il suo compenso.Soltanto in un secondo tempo si accorge che una simile cifra basta unicamente acoprire le spese vive e non lascia alcun margine di guadagno. La sua ostinazio-ne lo porta comunque a perseverare: per un certo periodo continua a lavorare allaKansas City Film Ad Company, realizzando di notte i suoi brevi film. Quando,nel maggio del 1922, Disney lascia il proprio lavoro per dare vita alla Laugh-O-Grams Films, assumendo assieme all’amico Ub Iwerks anche Hugh Harman,Rupolph Ising e altri animatori, inizia a produrre la già citata serie di disegni ani-mati basati sulle fiabe tradizionali: un progetto apparentemente tradizionale viva-cizzato e modernizzato da molte invenzioni comiche. La truffa di un distributo-re newyorkese, Pictorial Clubs, che promette undicimila dollari per sei cortome-traggi e fallisce senza che sia inviato un solo dollaro a Disney, interrompe il com-pletamento del programma. Non riuscendo a trovare un’altra società interessataal suo lavoro, a Disney non resta che inventarsi una valida alternativa.

La più esemplare delle produzioni Laugh-O-Gram Films, e probabilmente lapiù significativa fra le opere realizzate da Disney a Kansas City, prende spuntonella primavera del 1923. La scoperta di Disney, annunciata con largo anticipo aidistributori (“Abbiamo appena scoperto qualcosa di nuovo e di geniale per l’ani-mazione”), consiste nel sovvertimento di una tecnica già in uso da tempo: lacombinazione di disegni animati e azione dal vero. La serie Out of the Inkwell,dei fratelli Fleischer, presenta personaggi animati che superano i confini del loromondo per entrare in quello reale. Molti altri film del periodo presentano situa-zioni analoghe. Disney sovverte il procedimento perché inserisce un personaggiovero nel mondo dell’animazione. Alice’s Wonderland è il racconto di una bam-bina che, entusiasta della visita a uno studio di animazione, sogna di raggiunge-re Cartoonlandia a bordo di un treno disegnato. Per interpretare il ruolo di Alice,Disney recluta una bambina di quattro anni, Virginia Davis, piccola ballerina chegode di una certa popolarità come modella e cantante in erba. Virginia Davisaveva lavorato per la Kansas City Film Ad: Disney la vede per la prima volta inuna pubblicità del pane Warneker, si mette in contatto con i genitori della bimbae stipula un contratto in data 13 aprile 1923, che prevede per Virginia una per-centuale del cinque per cento sugli incassi di Alice’s Wonderland.

Il serial di Alice, primo successo firmato da Walt Disney, nasce dall’idea diproporre una valida alternativa a Koko the Clown, cavallo di battaglia dei fratel-li Fleischer, cartoon che ha la caratteristica di muoversi su sfondi fotografati.Alice, inserita in uno zoo di animali disegnati, è un volto circondato da boccolid’oro, indossa abiti alla marinara e sciorina mossette ammiccanti. Disney si buttaa capofitto nel progetto di Alice, consapevole che potrebbe essere la sua ultima

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occasione. Come sarà sua consuetudine anche in futuro, si mostra deciso a nonrisparmiare sui mezzi a disposizione. A questo proposito Disney prepara una sce-neggiatura molto elaborata, impreziosita dei più eclatanti effetti speciali. Alcunesequenze del sogno di Alice si presentano di estrema complessità: la loro realiz-zazione è resa possibile “animando” delle fotografie della piccola Virginia Davisassieme alla parte disegnata. In altre sequenze l’effetto di verosimiglianza, in uncontesto di “impossibile plausibile”, è rafforzato dall’inserimento di un gattovero aizzato da un topo spadaccino disegnato (e Disney ritiene opportuno segna-lare nel cartello di apertura che tali scene sono state “realizzate con un procedi-mento Laugh-O-Gram”). Il risultato finale è decisamente trionfale, addiritturaopulento. Secondo Oreste De Fornari, Alice appare in uno “zoo di scarabocchigrigio scuri (…) forse più vicina ai gusti di Carroll fotografo che alle visioni diCarroll scrittore” 2.

Lo sforzo di Alice’s Wonderland mostra tutti i suoi risultati espressivi, la sualussureggiante fantasia; Disney, in grosse difficoltà economiche, reagisce nonapportando tagli alla produzione, proprio come farà all’epoca di Biancaneve e isette nani. Pone cioè la basi per una filmografia che i successivi staff di anima-tori e registi amplificheranno nei decenni, rispettando lo spirito e soprattutto il“marchio Disney”. Le prime fasi disneyane sono rappresentate da momenti ditemerarietà e incontri sfortunati con scaltri operatori commerciali. È fin troppofacile supporre cosa avrebbe potuto accadere se le cose fossero andate diversa-mente: se la Pictorial Clubs avesse versato almeno una parte del dovuto, laLaugh-O-Gram Films avrebbe potuto sopravvivere togliendo Disney dalle moltedifficoltà. Il suo spirito d’iniziativa, tuttavia, si è sempre espresso su più fronti:questo è il motivo della sua fortuna. Non solo Disney si mostra capace di conce-pire nuove serie nei momenti in cui sarebbe facile farsi prendere dallo sconforto:riesce anche a recuperare nuovi finanziatori per una compagnia le cui risorsevanno lentamente scemando. Fra l’ottobre del 1922 e il giugno del 1923 laLaugh-O-Gram Films, con l’intento di far fronte ai propri debiti, ricorre aisostanziosi prestiti di due investitori, il dottor John V. Cowles, un chirurgo diKansas City, e J. Fred Schmeltz, gestore di un negozio di ferramenta. Questi, unoscaltro affarista, ottiene come garanzia ipoteche sui beni mobili della Laugh-O-Gram Films. Nel 1923 J. Fred Schmeltz diviene proprietario di tutta l’apparec-chiatura dello Studio nonché del contratto con la Pictorial Clubs. Nell’estate del1923 la compagnia, costretta dalle ristrettezze, si trasferisce in una sede menocostosa ubicata a Wirthman Building. Nel frattempo Disney continua a spedirerichieste ai potenziali distributori, dimostrando un irriducibile ottimismo. Nelmaggio del 1923 giunge una risposta, quella di Margaret J. Winkler.

Winkler non è un distributore qualsiasi. Rappresenta anzi la massima autorità

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americana in fatto di animazione, poiché distribuisce la popolare serie di PatSullivan con il gatto Felix (in Italia Mio Mao) e gli Out of the Inkwell dei fratel-li Fleischer. La popolarità di Felix è legata strettamente all’impegno di MargaretJ. Winkler che aveva saputo pianificare un’efficace campagna pubblicitariaquando il personaggio di Pat Sullivan era ancora poco noto, ottenendo un suc-cesso di pubblico senza precedenti. Avere i propri film distribuiti da MargaretWinkler rappresenta una garanzia sufficiente. Ma Alice’s Wonderland sarà pron-to soltanto ad agosto, e la compagnia non può vivere di solo ottimismo.

Nel giugno del 1923 Disney decide che non è più possibile ignorare l’enormeindebitamento finanziario, e si trasferisce a Hollywood. Come scrive BobThomas: “il suo unico problema era come pagarsi il biglietto ferroviario. Passòdi porta in porta a filmare i bambini, poi vendette la cinepresa e acquistò unbiglietto di sola andata per la California. Lasciò Kansas City in luglio, con indos-so una giacca a quadri e la sua valigia di finto cuoio conteneva solo una camicia,due paia di mutande, due paia di calze e materiale da disegno. Ma il biglietto perla California lo comprò di prima classe” (op.cit., pag. 31). Nel 1923 tutta l’indu-stria dell’animazione è concentrata a New York City, e la scelta di raggiungereHollywood non appare affatto scontata. Sembra che la decisione di Walt sia statainfluenzata dal fratello maggiore Roy, il quale, ferito in guerra e convalescentein California, si trovava all’ospedale per reduci di Sawtelle. Roy è convinto che,unendo le idee e la creatività di Walt al suo spirito per gli affari, potranno affer-marsi nel mondo del cinema. Scrive a Walt lettere piene di entusiasmo, e lo sol-lecita a raggiungerlo; inoltre, Walt, se lo vorrà, potrà soggiornare presso loro zioRobert, che ha una casa a Hollywood, in Kingswell Avenue.

Negli ultimi mesi La Laugh-O-Gram Films era sopravvissuta attraverso lavo-ri collaterali. Disney e Red Lyon prestavano il loro operato ai cinegiornali Pathée Universal, andando a riprendere gli accadimenti a Kansas City. L’autunno pre-cedente si erano messi a fare addirittura riprese di bambini, organizzando per igenitori la proiezione a domicilio del relativo filmato. Questi esigui introiti eranoserviti per raggranellare qualche denaro, compresi i fondi necessari per la par-tenza di Walt verso la California.

Note

1 Edgar Morin, Il cinema o l’uomo immaginario, Feltrinelli, 1982, p. 21.

2 Oreste De Fornari, Walt Disney, Editrice Il Castoro, Milano, 1995, p. 14.

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Capitolo Secondo

LA VIA DEL CARTOON

Hollywood e Walt

Quando Disney lascia Kansas City per la California, nell’agosto del 1923, siporta appresso poche cose. Secondo le fonti più accreditate, soltanto quarantadollari e una copia completa di Alice’s Wonderland. Seppure la Laugh-O-GramFilms sia ancora fortemente indebitata, Disney, che ha in programma un’interaserie con Alice, ottiene dai creditori il permesso di utilizzare a scopo dimostrati-vo questo primo titolo. La Pictorial Clubs dovrebbe versare entro cinque mesi gli11.000 dollari pattuiti, ma Disney si dimostra lungimirante nel partire in questomomento.

Di fatto, la filiale del Tennessee è stata liquidata da tempo, mentre la sede diNew York ne ha acquisito i beni, non mostrando alcuna intenzione di onorare isuoi debiti. Solo dopo le pressioni di uno studio legale, che dureranno oltre treanni, Disney riuscirà a costringere la Pictorial Clubs a pagare. Nel frattempoDisney si sarà stabilito definitivamente a Hollywood. Quando giunge a LosAngeles per la prima volta, una delle sue prime decisioni è di acquistare unaPeterson’s Camera Exchange, una macchina da presa Pathé del costo di duecen-to dollari. Portando con sé la copia di Alice’s Wonderland, inizia anche a fare ilgiro dei potenziali distributori. Nel frattempo continua il rapporto epistolare conMargaret Winkler, per cercare di mantenere viva l’attenzione rivolta al suo lavo-ro. Le lettere forbite che Walt invia alla Winkler tentano di fare colpo su di lei:non menzionano mai il fallimento della Laugh-O-Gram Films e motivano ladecisione del trasferimento in California con l’intento di voler potenziare la pro-pria struttura operativa. In altre parole Disney nasconde alla potente interlocutri-ce la sua reale situazione economica dietro peraltro effettivi buoni propositi. Egli,a questo punto, si accorge di avere ancora una possibilità: può giocare la chancedi mostrare alla Winkler la copia completata di Alice’s Wonderland. Le coinci-denze favorevoli, questa volta, sembrano volgere nettamente in suo favore.Infatti, durante i primi giorni del settembre 1923, Margaret Winkler viene coin-volta in una vertenza contrattuale con Sullivan che le contesta per nove mesi ladistribuzione di Felix the Cat. Verso la metà di ottobre Disney riceve un tele-gramma con cui la Winkler si dimostra abbastanza soddisfatta del primo Alice egli propone un contratto. A questo punto Disney, al culmine della gioia, si trovaperò alle prese con un problema della massima urgenza: è senza staff, senza

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Studio e senza film (una volta avviata la procedura di fallimento della Laugh-O-Gram Films, anche Alice’s Wonderland resta escluso dalla distribuzione com-merciale). Gli impegni con la Winkler prevedono la fornitura di dodici shorts: iprimi sei verranno pagati millecinquecento dollari l’uno; in un secondo tempo laWinkler potrà decidere se esercitare o no l’opzione sugli altri sei titoli. Il primocartoon dovrà essere consegnato entro il 15 dicembre. I tempi a disposizionesono strettissimi, soprattutto in ragione della completa assenza di una vera strut-tura operativa. A questo punto Walt e Roy, di nuovo uniti, decidono che è arri-vato il momento di mettersi al lavoro.

Il nuovo Studio consiste in un piccolo ufficio, affittato a dieci dollari al mese,ubicato a due isolati dall’abitazione dello zio Robert. Il 16 ottobre Disney scrivealla madre di Virginia Davis, la piccola interprete di Alice’s Wonderland, propo-nendole un contratto per un anno in cambio della disponibilità della figlia a tor-nare sul set. Nella sua lettera, molto convincente, Disney conferma le sue doti dicomunicatore; mentre la realizzazione della serie appare ancora incerta, egli scri-ve: “sarebbe una grande occasione per Virginia, le permetterebbe di iniziare unacarriera come capita a pochi bambini”. In un’altra lettera, scritta poco tempodopo, Disney rincara la dose: “È un’occasione che si presenta di rado, con tuttele madri che vogliono far lavorare i loro figli nel cinema”. Dopo pochissimo Walte Roy ricevono un telegramma della signora Davis che comunica la disponibilitàdella sua famiglia a trasferirsi in California. Disney si dimostra un vero magodella persuasione, anche se i Davis sembrano avere altre motivazioni oltre l’or-goglio di fare lavorare la loro piccola nel cinema. Più tardi Virginia Davis spie-gherà: “Penso sia stata una combinazione di fattori. Tanto per cominciare, avevorischiato di morire di polmonite e, come aveva detto il medico, un clima asciut-to mi avrebbe giovato. Quanto a papà, faceva il commesso viaggiatore; era unrappresentante di mobili, girava con un campionario. I miei genitori devonoessersi detti, beh, perché restare, possiamo anche trasferirci lì dove c’è un buonclima e dove Gini può fare questa cosa”. A questo punto, risolte le formalità con-trattuali con la famiglia Davis, viene deciso anche il titolo del nuovo episodio:Alice’s Day at Sea.

Sono anni fondamentali per il cinema d’animazione. Le Alice Comedies, chedureranno tre anni e mezzo e segneranno una tappa decisiva nella vicendadisneyana, trasformano l’intraprendente artigiano in un tenace produttore cine-matografico; una situazione che presto si estenderà ben oltre il solo cinema d’a-nimazione. La United Artists, casa di produzione “indipendente” fondata nel1919 da Charles Chaplin, Mary Pickford, Douglas Fairbanks e David W. Griffith- cioè alcuni dei nomi più autorevoli del cinema americano - vedrà Walt Disneye Darryl F. Zanuck tra i nuovi partner produttivi sul finire degli anni Venti. In

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breve tempo Disney viene a capo di un impero cinematografico che farà concor-renza alle altre Major, e in questa dialettica di concorrenza/complementarietà ilnuovo cineasta individua una vocazione originale: fornire al cartoon tratti espres-sivi e tematici che appartengono al cinema “adulto” americano, e, nello stessotempo, rileggere con spirito favolistico la dimensione mitopoietica delle coordi-nate estetiche hollywoodiane.

Dopo l’intervento vittorioso degli Stati Uniti nella prima guerra mondiale(1917), il cinema americano conferma la sua forza economica e diventa un impe-ro insuperato. L’Europa è costretta a cedere il passo in tutti i settori: a poco ser-virà la concorrenza dei film mitologici italiani e delle produzioni francesi dellaPathé e della Gamount. Tra il 1914 e il 1918 Hollywood, con le sue comiche e isuoi film di genere, prepara il terreno alle produzioni che arriveranno dopo ilripristino della pace. L’industria hollywoodiana presenta una fisionomia benstrutturata: sin dalla metà degli anni Venti pionieristici imprenditori entrano afare parte di una gerarchia flessibile che vede al suo vertice alcune grandi case diproduzione come la Fox o la Paramount, mentre, ad un secondo livello, operanosocietà di media importanza come la Universal, e, in fondo alla gerarchia, unagrossa quantità di produttori di piccole dimensioni. Soltanto le grandi case sonoin grado di realizzare dei film a grosso budget interpretati da star; le grandiMajor, inoltre, restano tali anche perché si possono permettere di controllare lesale di prima visione nelle città più importanti. Le altre case di produzione, tracui la Columbia o, a un livello qualitativamente inferiore, la Monogram e laRepublic, devono dipendere dai grandi distributori che noleggiano i film aigestori più o meno grandi sparsi negli States.

Alle origini, Disney si trova a competere con queste case di produzione sfa-vorite da margini ridotti, dalla difficoltà di ottenere prestiti bancari e dalla mino-re importanza contrattuale. Le piccole case realizzano prevalentemente deiquickies, cioè film a basso costo realizzati in tempi ridotti, con attori poco noti ovecchie glorie dimenticate. La particolarità di Disney è da leggersi pertanto nelsettore cinematografico specifico: l’animazione. Il disegno animato permette larealizzazione di un sogno che appartiene agli illusionisti del cinema: riprodurreil movimento e con esso la vita e la sua rappresentazione figurata. Se è vero chele origini del disegno animato si perdono nelle grotte della preistoria - come notaanche De Fornari, gli antichi cacciatori fissavano sulle pareti le loro imprese permezzo di immagini ordinate in progressione - la vocazione disneyana fonde illu-sionismo e vocazione realista nel segno di un dominio assoluto dell’autore suimateriali espressivi. Soltanto che: “al dominio assoluto dell’autore sui materiali,corrisponde l’assoluta falsità di questi materiali. Come nella pittura, appunto” 3.E a proposito di questo supposto concetto di falsità, introdotto nell’estetica fil-

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mica, sarà meglio apportare alcune precisazioni. I disegni animati, rispetto allameccanica del cinema tradizionale, impongono inizialmente una pratica più labo-riosa e al contempo più creativa: essi, infatti, si girano a “passo uno”, dunque lamano dell’uomo interviene direttamente su ogni singolo fotogramma. La falsitàdel disegno è allora da intendersi piuttosto come reinterpretazione fantasiosa, ela supposta falsità si eleva a nuovo realismo nella dimensione del meraviglioso edel sensazionale. “Di qui, in tutti i registi, il desiderio di riscattare la falsità conla meraviglia e anche con una certa coerenza della meraviglia: coerenza che è giàun embrione di realismo” 4. Quindi, realismo e invenzione riflettono, nel cinemad’animazione e più in generale nella fiction cinematografica, i due volti di unun’espressività che si nutre, in misure differenti e rielaborate, di entrambi questipresupposti, suggerendo in ultima analisi formule d’interpretazione meno sche-matiche e manichee. Nel tono fiabesco del cartoon, peraltro, la meraviglia è ciòche rende plausibile l’impossibile fino a restituire l’illusione realistica (perchéefficacemente espressa) di un sogno, di una tensione immaginativa: “Le voyagedans la lune di Méliès, con l’astronave che si conficca nell’occhio destro di unaluna umanizzata, prova lampante, sebbene assurda, che il contatto è avvenutonon è più inattendibile del documentario girato dagli astronauti dell’Apollo 11(stando alle immagini, potrebbero avere girato sulla terra)” 5.

Con Disney il cinema d’animazione ritorna ad essere illusione, paradosso,fantasmagoria. Egli è l’intraprendente creativo (l’artigiano apprezzato daAristotele…) per il quale l’immaginario della fiaba, nel suo itinerario simbolicoche contempla il fantastico, diviene presto il tema prediletto. In questa prospetti-va la sua filmografia rappresenta un modello di come il cinema, e l’industriadello spettacolo, abbiano saputo riprodurre il mito. Accogliendo la concezionejunghiana di fiaba quale manifestazione più pura dei processi psichici dell’in-conscio collettivo (in essa, infatti, l’elemento culturale, cioè sovradeterminato, èridotto al minimo), il cinema disneyano si fa a tratti espressione degli archetipidella fiaba e, nella dimensione planetaria del consenso riconosciuto ai lungome-traggi, possiamo leggervi l’espressione di un significato prevalente: il Sé, intesoal contempo quale totalità psichica dell’individuo e quale centro regolatore del-l’inconscio collettivo. Veniamo inoltre a disporre di un indicatore delle istanzeantropo-sociali rispecchiate dall’industria culturale, fucina di elaborazione esedimentazione dell’immaginario collettivo.

Disney è dunque il cineasta americano che forgia le sue fantasie fiabeschesulle prospettive del grande pubblico cinematografico. L’industria culturale, d’al-tro canto, tende al pubblico universale. La grande produzione hollywoodianacome la co-produzione cosmopolita si rivolgono evidentemente a tutti e a nessu-no in particolare. Una delle implicazioni logiche più lampanti di ciò è l’ecletti-

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smo sistematico che fa sì che anche i film standard offrano, secondo pesi e misu-re suscettibili di ampie oscillazioni, amore, azione, humour, erotismo (si pensialmeno, in Disney, alle ninfette paradisiache di Fantasia, alla coniglietta provo-cante di Bambi, alla signorinetta morigerata di Cenerentola, oppure all’erotismo“negato” dei personaggi del neo-disneyano Tarzan, alle smanie eterosessuali deLa sirenetta, alle grazie sensuali di Pocahontas…); la varietà tra contenuti virilie sentimentali, temi di tipo giovanile e adulto, ambisce ovviamente a soddisfareogni tipo di interesse e di gusto, con l’obiettivo ultimo del massimo dei consumi.Questa varietà è metodicamente omogeneizzata e il termine più adatto per iden-tificare la tendenza a portare sotto un comune denominatore la diversità dei con-tenuti è sincretismo. Il fatto che la maggior parte di film sincretizzano temi mol-teplici nell’ambito dei grandi generi riflette l’esigenza che ogni messaggio siaespresso chiaramente; lo stile cioè deve permettere l’immediata intelligibilità diquanto si intende comunicare.

Il sincretismo è la caratteristica saliente anche perché tende a unificare in unacerta misura i due settori in cui Edgar Morin divide la cultura industriale: il set-tore dell’informazione e quello del romanzesco. Nel settore dell’informazionesono continuamente privilegiati i fatti di cronaca (dove l’inatteso e l’avventuradeterminano lo sguardo sulla vita quotidiana) e la componente divistica, la sferacioè di chi sembra vivere al di sopra della realtà di tutti i giorni. Nello stessotempo nel settore dell’immaginario è il realismo a farla da padrone, dunque gliintrecci raccontati sembrano riprodurre fedelmente la realtà. La situazione parecomplicarsi proprio nel cinema d’animazione, allorquando il racconto sembririprodurre una sorta di sur-realtà. Ma questa collocazione eccentrica all’internodell’industria dello spettacolo non fa che tradurne una variante peculiare: “la cul-tura di massa è animata da questo duplice movimento: l’immaginario mima ilreale, e il reale assume i colori dell’immaginario” 6.

La nuova industria genera anche nuove stratificazioni: negli anni Venti si svi-luppano una stampa femminile e una per l’infanzia che conquistano un pubblicospecifico; l’esistenza di una stampa di massa per l’infanzia (cui presto il nomeDisney diverrà un marchio leader) testimonia il fatto che la struttura industrialedirige la diversificazione e assume che l’età di accesso alla cultura di massa pergli adulti sia attorno ai quattordici anni. Ne deriva che l’omogeneizzazione dellaproduzione e la sua conseguenza evidente, quella dei consumi, tendono a livel-lare le barriere tra le età; in definitiva, la generale uniformazione delle età tendead affermare la dominante giovanile, che risulta elemento fondamentale dellanuova cultura. I temi sono “giovani” e inoltre i giovani sono i maggiori consu-matori del materiale proposto dalla cultura di massa.

Di fronte alla stratificazione sociale, la cultura di massa e lo spettacolo sem-

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brano assai avvertiti. Se la cultura tradizionale e quella umanistica sono general-mente portate ad arrestarsi di fronte alle frontiere di classe, il cinema invece è laprima forma di comunicazione a far confluire nelle platee spettatori di tutte leclassi, urbane prima e agricole poi, e inchieste sociologiche condotte negli StatiUniti, in Inghilterra e in Francia dimostrano come la percentuale di frequenza perclassi sociali sia grosso modo la stessa. Le conclusioni a cui giunge Edgar Morina proposito del grande pubblico della cultura di massa offrono un terreno favo-revole a rivalutarla. Essa infatti ha forme fenomeniche internazionali, che ledanno una forte tendenza al sincretismo-eclettismo e all’omogeneizzazione.Questa tendenza ha anche un segno cosmopolita, mira ad attenuare le differenzeculturali nazionali, sottraendo alle differenti tradizioni temi che rende universalie aggiungendovene di nuovi. La cultura di massa prende l’aspetto di una culturadelle grandi aree trans-nazionali. Ciò non comporta la distruzione del folklore:agli antichi folklori si sostituisce un nuovo folklore cosmopolita. È solo il casodi segnalare, per esempio, come il nuovo cinema diventi strutturalmente cosmo-polita quando appare come il frutto di co-produzioni e si serva, oltre che di capi-tali provenienti da paesi differenti, anche di una troupe cosmopolita; poi, sulpiano del racconto, le leggende biblico-cristiane, le storie di gladiatori, le fiabedisneyane, le epopee western, l’eroismo di “fratello” Tarzan e di “sorella” Mulan,testimoniano come la predominante hollywoodiana porti con sé tratti di culturedifferenti, in un amalgama di folklori.

Sul piano economico-sociale, Morin riconosce come la cultura di massa sia ilprodotto di una dialettica produzione-consumo che resta aperta. Il problema allo-ra non è tanto quello di decidere se sia il mezzo (cinema, stampa, radio, ecc.) afare il pubblico o piuttosto il pubblico a fare il mezzo; è più pertinente indirizza-re l’attenzione sul modo in cui si esprime la dialettica tra il sistema di produzio-ne culturale e i bisogni culturali dei consumatori. Si tratta invero di una dialetti-ca assai delicata che passa attraverso le regole dell’industria, del mercato e delloStato, e che si esprime sempre con la mediazione del prodotto commerciale.Dunque essa, pur connotata da due termini specificamente economici (produzio-ne e consumo), è il prodotto della più vasta dialettica della società nella sua glo-balità.

La prima protagonista disneyana: Alice

Walt e Roy Disney, come prevedibile, devono operare all’inizio con risorseridotte, non potendo permettersi gli eccessi di ottimismo che avevano caratteriz-zato il periodo di Kansas City. Le Alice Comedies paiono dunque prendere le

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mosse in un momento di alti e bassi. La nuova compagnia viene chiamata“Disney Bros. Studio” e ai primi due film partecipano unicamente i due fratelli.Walt deve eseguire da solo tutti i disegni, seguendo un ritmo di lavoro massa-crante. Mentre i disegni e l’animazione di Alice’s Wonderland erano stati il frut-to del lavoro collettivo di sette artisti, Walt Disney si trova a sceneggiare, dise-gnare e animare Alice’s Day at Sea completamente da solo. Roy, dal canto suo,si occuperà prevalentemente delle riprese, sia per quanto riguarda le parti ani-mate sia per quelle dal vero. Ad ogni modo, Walt rimarrà il regista di entrambe.Le riprese dal vero, poiché si dimostrano più facili da realizzare, si ritaglianoall’inizio un ruolo più importante. Quasi delle cornici delle parti animate, esseservono ai Disney per rappresentare delle storie interpretate da attori in erba,reclutati, ad eccezione di Virginia Davis, fra i ragazzini dei dintorni.

Alice Day at Sea, una volta pronto, giunge nell’ufficio newyorkese dellaWinkler il 26 dicembre, con undici giorni di ritardo. Walt riceve poco dopo untelegramma della Winkler in cui gli viene chiesto di spedire sia il positivo che ilnegativo: “riteniamo che il film potrebbe migliorare se lo rimontassimo qui. (…)Le nostre pellicole vengono sempre rimontate a New York. (…) Suggerirei diintrodurre il maggior numero possibile di trovate comiche, come materiale diriserva in caso di eventuali situazioni di emergenza”.

Il secondo film, Alice Hunting in Africa, arriva a New York verso la fine digennaio, e riceve un’accoglienza analoga al precedente. La Winkler, pur ricono-scendo il maggior ritmo del cartoon, non si mostra ancora soddisfatta del livellodi comicità raggiunto. È interessante rilevare come la concorrenza in fatto di ani-mazione sia correlata in questi anni all’evoluzione delle comiche, e la ricerca dinuove gag è un elemento che assilla costantemente il cartoonist. Invece, il trat-tamento che Disney riceve dalla Winkler rende conto della vera natura dei suoirapporti con la compagnia distributrice. Egli non viene trattato come un verosocio d’affari, ma come un bambino da educare al linguaggio del cinema. Il tele-gramma della Winkler, pertanto, continua su questo tono: “Mi permetta di insi-stere sulla necessità che le sue prossime pellicole siano di livello decisamentesuperiore a quanto visto sinora”. All’inizio, le Alice Comedies presentano, nelleparti delle cornici interpretate da bambini, qualche analogia con le comiche dellaserie Our Gang di Hal Roach, il produttore di Laurel e Hardy: un gioco di rife-rimenti indiretti a quanto pare caldeggiato dallo stesso Walt, che non dimenticamai di guardarsi attorno per cercare di aumentare il livello qualitativo e le attrat-tive del suo lavoro. Nel frattempo si rende necessario aumentare il personaledello Studio e disporre di un nuovo spazio adeguato al numero dei dipendenti.Viene utilizzato un vicino negozio, al n. 4649 di Kingswell Avenue, e viene presain locazione anche una rimessa.

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Alice’s Spooky Adventure, il terzo titolo, viene realizzato con un certo ritar-do, a causa delle pessime condizioni atmosferiche che rallentano la realizzazio-ne delle parti dal vero. Ciononostante, Margaret Winkler accoglie con più evi-dente entusiasmo il nuovo lavoro: “In tutta franchezza le devo dire che aspetta-vo proprio una pellicola come Alice’s Spooky Adventure per mettermi veramen-te in moto e piazzarla su tutti i mercati internazionali”. Dopo questo incoraggia-mento Disney mette subito in cantiere il successivo Alice’s Wild West Show.

Disney, in un momento tanto delicato, si rende conto che i suoi film richie-dono il contributo di un autentico creativo dell’animazione: gli torna in mente ilvecchio amico Ubbe Iwerks, rimasto a Kansas City alla United Film Ad (exKansas City Film Ad). All’inizio dell’anno Walt inizia a scrivergli invitandolo atrasferirsi in California e a lavorare nel suo nuovo Studio. Iwerks, che accetta laproposta dell’amico, lo raggiunge verso la fine di luglio e inizia subito a lavora-re. Le Alice Comedies ne traggono un immediato giovamento. A partire da que-sto momento, fino all’avvento del sonoro, Iwerks sarà il vero nome di riferimen-to tra gli animatori disneyani. Con un talento come il suo la realizzazione delleparti animate diventa decisamente più facile. Peraltro, se a livello di sceneggia-tura e di animazione le cose sembrano progredire, le Alice Comedies mostranoancora un grosso punto debole: le parti dal vero. In particolar modo, difetti comesfarfallii e luci troppo chiare o sgranate rendono precarie le sequenze in cui coe-sistono disegni animati e azione dal vivo. Come ricorderà Rudy Ising, le scenedal vero di Alice vengono filmate per prime, mentre in un secondo tempo si sele-zionano e si stampano le riprese migliori. “Queste venivano inserite nella mac-china da presa e, con l’aggiunta di una fonte di luce, proiettate sul banco di ripre-sa. Dopo di che si scontornava, fotogramma per fotogramma, l’immagine dellaragazzina, ottenendo dei disegni che non servivano all’animazione vera e propria- nella pellicola definitiva la bambina agiva dal vivo. Ma da questi disegni si rica-vava la cosiddetta maschera mobile annerendo, all’interno del contorno, le super-fici sulla carta bianca. Una volta filmate queste silhouettes, si ricavava un nega-tivo di lavoro per il successivo passaggio da farsi, in accoppiamento ad un nega-tivo vergine, nella macchina da presa al momento di filmare l’animazione. Lospazio intorno alla bambina era nero, mentre la parte bianca corrispondente allafigura di lei fungeva da maschera. E allora, stampandola, la si controtipava, otte-nendo il contrario. La maschera mobile andava usata con il negativo dell’anima-zione, mentre il controtipo lo si utilizzava quando si stampavano le due pellico-le sovrapposte” (R. Merrit - J. B. Kaufman, Nel Paese delle meraviglie. I carto-ni animati di Walt Disney, Ed. Biblioteca dell’Immagine, 1992, p. 46). Questatecnica, nei suoi rudimenti, viene applicata per rifare le scene difettose di Alice’sSpooky Adventure e per combinare le riprese dal vero con i disegni animati di

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Alice’s Wild West Show, ottenendo effetti tra i migliori dell’intera serie. TuttaviaDisney, con uno staff così limitato, non avrebbe utilizzato sempre un procedi-mento che risultava troppo costoso per i suoi mezzi. Pare che, non potendo per-mettersi una maschera mobile, avrebbe filmato Virginia Davis contro un fondalebianco in modo che sullo schermo sembrasse muoversi in uno spazio aperto. Ela Winkler si sarebbe più volte lamentata che il corpo di Alice lasciava intrave-dere lo sfondo bianco. Anche le riprese dal vivo, filmate da Roy, lasciano a desi-derare. Walt così ricorderà alla figlia Diane: “Non imparò mai a girare la mano-vella della macchina da presa con il ritmo giusto. E di conseguenza sullo scher-mo ci ritrovavamo con un tempo incerto. Alla fine dovetti assumere un vero ope-ratore, nonostante i maggiori costi che ciò comportava”. Harry Forbes, giàresponsabile della fotografia di lungometraggi Fox e Bluebird (aveva lavorato,fra gli altri, con Rex Ingram) sarà il nuovo responsabile delle riprese dal vero,mentre, dal maggio del 1924, Mike Marcus, con la cinepresa Pathé di Walt,diverrà il nuovo addetto alle riprese delle parti animate.

Nell’ottobre del 1924 un nuovo animatore, Thurston Harper, viene ad accre-scere lo staff dello Studio. A partire da questo momento Disney non si occuperàpiù in prima persona dell’animazione, e, nello stesso tempo, potrà dedicarsi acurare maggiormente la verosimiglianza dell’animazione, riprendendo il proce-dimento a maschera nelle parti di Alice in cui gli elementi dal vero interagisco-no con i disegni animati. Nello stesso mese di ottobre Alice Gets in Dutch escein una sala di prima visione di Broadway, assieme a This Woman, un lungome-traggio della Warner Bros con Irene Rich e Ricardo Cortez. La notizia della pro-grammazione al Piccadilly Theatre, che rappresenta una vera soddisfazione perDisney, viene comunicata da Charles B. Mintz, il marito di Margaret Winkler.Quando, nel novembre del 1923, Margaret e Charles si sposano, Mintz prende inmano la gestione della società, soprattutto nel momento in cui la moglie rimaneincinta.

Durante l’estate del 1924 Disney deve ammettere che il signor Mintz, rima-sto il solo interlocutore della società, si mostra assai più determinato della con-sorte. In agosto Mintz informa Disney che Alice Hunting in Africa ha rappresen-tato un passivo per la compagnia, e che dovrà essere rifatto assieme ad un altrocortometraggio. Disney, seppure con ritardo, nell’autunno del 1924 riesce nel suointento, ma anche in seguito a questo nuovo tentativo il film non ha successo. Inpoco tempo realizza, utilizzando materiale dal vero dei precedenti tentativi,anche un terzo cortometraggio, Alice in the Jungle, che esce nel dicembre del1925 (in questo modo Virginia Davis fa la sua apparizione in un nuovo episodiodella serie, quando ormai non è più alle dipendenze dello Studio).

Disney, a questo punto, non è più tanto soddisfatto delle cornici narrative

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degli Alice, mentre Mintz insiste affinché siano mantenute. Il fatto è che Disneyrafforza in questo periodo la sua vocazione di cartoonist: diventare un produtto-re di Our Gang di serie B, d’altro canto, sembra essere l’ultimo dei suoi propo-siti. Questo è quanto traspare a chiare lettere dalle parole che Disney scrive aMintz in novembre: “questi sono cartoni animati di genere comico, non comme-die per bambini… Ma se ci dobbiamo mettere un inizio e una fine dal vero, nonsaranno che dei prodotti qualsiasi”. In questa ferma opposizione di Disney affio-ra un professionista che conosce il fatto suo. Mintz è costretto ad accettare le ideedel tenace Walt, e verso la fine dell’anno le cornici narrative degli Alice comin-ciano a sparire. Alice the Toreador, di cui Disney sarà molto orgoglioso, è ilprimo episodio in cui il pubblico è rappresentato soprattutto da disegni animati,mentre in precedenza avremmo avuto dei veri bambini. Mintz, tuttavia, nonabbassa la guardia, e, a partire da questo momento, i rapporti con Disney diven-tano più tesi, gli scontri più accesi, e si rende necessario ricorrere ad un media-tore. Un ruolo che viene presto assolto ufficialmente da Nat Levine, futuro pro-duttore cinematografico (fonderà la Mascot Pictures, specializzata in western abasso costo), e collaboratore duraturo del team Disney. In vero, George Winkler,fratello di Margaret, rappresenterà il più diretto legame tra la compagnia di Mintze lo Studio Disney; George possiede una conoscenza del settore che Mintzapprezza e riconosce.

In questo periodo Disney progredisce anche come ideatore cinematografico:gli ingressi di Alice in un mondo tutto disegnato sono rappresentati con soluzio-ni spesso fantasiose, mentre, sul piano della costruzione narrativa, si registra unacerta maturazione, con il passaggio dalle trovate elementari delle prime pellico-le alla complessità di Alice the Peacemaker, in cui si assiste alla suspense dellacarica di un cane poliziotto. Nel frattempo, Disney inizia ad arricchire lo scher-mo di trovate gustose, come sarà nei suoi lungometraggi futuri (si pensi all’inse-gna “Unsafe Safe Co.” - Compagnia Casseforti Insicure - che campeggia inAlice’s Wild West Show), mentre i personaggi cominciamo a manifestare quel-l’astuzia che permetterà loro di salvarsi nelle situazioni più difficili (quello cheaccade in Alice’s Fishy Story o Alice the Peacemaker rappresenta un presagio peri topolini alle prese con il gatto Lucifero in Cenerentola).

Il 31 dicembre del 1924 Disney firma un contratto per una seconda serie diAlice: questa volta i film previsti sono addirittura diciotto, non più soltanto dodi-ci. Disney, non potendo contare più su Virginia Davis, poiché i genitori chiedo-no un aumento eccessivo dell’onorario, si mette alla ricerca di una nuova attrice.Dawn Paris, nota dapprima con lo pseudonimo di Dawn O’Day e più avanti conquello di Anne Shirley, a sei anni è già una piccola veterana. Ha lavorato in alcu-ni film di Herbert Brenon e William de Mille. La piccola lavorerà soltanto in un

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episodio degli Alice Comedies, Alice’s Egg Plant: infatti, anche per Dawn O’Dayle condizioni offerte da Disney suonano ingenerose. Dopo di lei, Disney si rivol-ge a Marge Gay, una vivace pargoletta che aveva già fatto un’apparizione diprova in Alice Solves the Puzzle; diverrà una presenza costante nella maggiorparte degli episodi successivi.

Anche l’animazione registra delle salienti novità: entra in scena il concetto di“banda”, familiare a tutta l’animazione degli anni Trenta e alla futura produzio-ne disneyana; si afferma la figura del cane poliziotto, mentre l’antagonismo delgatto con il topo, che appare in Alice The Peacemaker, rimanda a molto cinemad’animazione contemporaneo (ed è inevitabile il riferimento a Krazy Kat); fa lasua apparizione anche il cane bassotto, un altro membro della “banda” Disney,mentre in Alice Solves the Puzzle fa il suo ingresso “Bootleg Pete” (Pietro con-trabbandiere), il burbero destinato a trasformarsi presto nel temibile “Peg LegPete” (Pietro Gambadilegno). Nel periodo del muto, dunque, la “Banda Disney”mette già a disposizione una nutrita galleria di personaggi esemplari.

Lo “stile Disney” delinea un’animazione morbida e fluida, in cui l’aspettoplastico identifica una ricerca di verosimiglianza. In genere è lo stesso Disney aideare i diversi soggetti. Come ricorda Ising: “Ci riunivamo in ufficio, Walt,Ham, Hugh, e discutevamo assieme le varie gag. A Walt veniva un’idea - beh,qui Alice potrebbe fare il pompiere, oppure potrebbe andare a pesca, e così via.Allora noi cominciavamo a pensare gag imperniate sul fuoco, la pesca, o quelloche era. Poi Walt le metteva insieme, provando a ricavarci una storia che avesseuna sua continuità, calcolava quanto doveva durare una scena e chi la dovevaanimare. O magari ci si trovava una sera a casa sua o nel nostro appartamento ediscutevamo delle gag per il film successivo”.

Gli spunti comici e i motivi narrativi cominciano a definire un quadro omo-geneo: anche in questo senso il tocco di Disney diviene percepibile, e molte ideesaranno rielaborate negli episodi successivi (l’idea di Alice Rattled by Rats vienepraticamente riproposta nel 1929 con il titolo When the Cat’s Away, sesto car-toon con Topolino). Disney si mostra anche attento al cinema del periodo (Alice’sTin Pony richiama nel titolo il lungometraggio di John Ford dell’anno preceden-te, The Iron Horse), e, in una qualche misura, alla realtà contemporanea, trasfi-gurata indirettamente in Alice Solves the Puzzle, in cui si fa riferimento alla que-stione dello spaccio illegale di alcool, due anni prima che un film MetroGoldwyn Meyer, Twelwe Miles Out, affronti più seriamente l’argomento. Disney,infine, risente dell’influenza dei cartoni animati prodotti da altri, a cominciaredal gatto Felix. Si pensi all’uso creativo della coda che Felix ha in comune conJulius, il gatto di Alice: essa diventa un monociclo in Alice Chops the Shuey, unscala e poi addirittura una gru in Alice the Jail Bird; sorta di protesi automatica

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che ritroveremo anche nei cartoon di Topolino (in Gallopin’ Gaucho, ad esem-pio).

Più in generale, il cartoon si precisa come luogo dell’estensione spazio-dina-mica del corpo, teatro immaginifico-spettacolarizzante di una percezione fisicache asseconda un’idea di superamento dei limiti sperimentati, verso una conce-zione di realtà trasfigurata nel segno di un fantastico comunque legato al reale eal contingente. Con Disney non ci troviamo in una dimensione propriamente sur-realista: troppo trasparenti e semplificati paiono gli schemi secondo cui proce-dono i suoi sogni cinematografici. Ma il suo cinema è perlomeno surreale e fan-tasioso.

Disney, almeno all’apparenza, è il paladino di un cinema che, nella sua volut-tuosa solarità, vorrebbe offrirsi a immagine di un vitalismo gioioso e spensiera-to. Ising, a questo proposito, ricorda che gli artisti della Disney mostravano inte-resse per il gatto Felix, mentre non amavano i lavori dello Studio Fleischer: “Ineffetti, la visione del cinema dei newyorkesi non ci è mai piaciuta. Basta guar-dare le loro produzioni per capire che avevano un tipo di umorismo completa-mente diverso, e talvolta un po’ sgradevole”. In verità le cose non vanno proprioin questo modo. Il puritanesimo latente delle produzioni disneyane non impedi-sce che i Fleischer influenzino, con la loro bizzosa corrosività, lo stesso stiledisneyano, che in alcuni momenti si mostra debitore dello Studio newyorkese (sipensi alle trasformazioni “viventi” degli oggetti che a partire dal 1925 ispiranocerte situazioni disneyane). Ma Disney, almeno per l’episodio Alice’s Tin Pony,strizza l’occhio anche al rivale Tex Avery, realizzando una fantasia westerncolma di trovate spiritose. Nel 1927, dopo cinquantasette titoli e una quarta bam-bina chiamata a vestire i panni di Alice, la serie, che ha conosciuto complessiva-mente una buona fortuna, viene interrotta. Le succede il coniglio Oswald.

Oswald

Durante il 1927 Charles Mintz riesce a vendere la serie con Krazy Kat allaParamount Pictures e concorda con la Universal la distribuzione dei cartoonsDisney. Ne derivano per lo Studio una maggiore espansione di mercato e una piùfavorevole posizione contrattuale che garantiranno una circolazione più efficien-te del lavoro disneyano, nonché una promozione commerciale più capillare. Lanascita del coniglio Oswald sembra essere il frutto della collaborazione fraDisney e gli addetti alla pubblicità della Universal. Charles Mintz, con toni nien-te affatto da produttore illuminato, confessa di preferire la perpetuazione dellesole formule collaudate: “fosse per me, lascerei le cose così come stanno”. Il

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primo titolo della serie, Poor Papa, mostra il coniglio Oswald nei panni di unpapà riluttante, che tenta di ostacolare uno stormo di cicogne intento a deposi-targli in casa una sfilata crescente di coniglietti. Lo scontro diviene presto unaguerra accesa, con Oswald che si difende con un fucile, mentre i bebé entrano datutte le parti, dalle finestre, dal rubinetto, dal camino.

Quando Disney, nell’aprile del 1927, recapita il cartoon a Mintz e allaUniversal, riceve come accoglienza un secco rifiuto. Mintz si lamenta perché “cisono tanti di quei personaggi che Oswald non riesce mai ad emergere”, inoltreOswald viene disegnato come un coniglio goffo e paffuto mentre Mintz lo vor-rebbe “giovane ed elegante, con un monocolo”. Anche i dirigenti della Universalsi mostrano insoddisfatti: “L’azione è troppo ripetitiva. Le scene sono tirate trop-po per le lunghe e rallentano considerevolmente il ritmo del cartoon (…) il filmè un succedersi di gag slegate l’una dall’altra, senza la minima traccia di un filoconduttore”. Disney, da buon interlocutore, accetta le critiche rivoltegli, madifende l’operato di Ubbe Iwerks convinto che “in questo campo non sia oggisecondo a nessuno”. Deciso a conferire al coniglio Oswald un aspetto “più gio-vane e più sveglio, vivace, effervescente e avventuroso, nonché di aspetto piùcurato e distinto”, Disney si rimette al lavoro con Trolley Troubles (mentre PoorPapa uscirà senza successo l’anno successivo, e Disney realizzerà una remakecon Topolino nel 1932, Mickey’s Nightmare). Nel nuovo episodio Oswald è unconducente di tram che finisce per somigliare troppo ai personaggi disegnati daFontaine Fox nella striscia Toorneville Trolley. Disney, che si accorge delle somi-glianze con la tavola disegnata, scrive preventivamente a Mintz per comunicar-gli che “il coniglio, così come lo vedrà in questo film, è destinato a cambiare. Nelterzo cartoon gli abbiamo tolto le bretelle e cambiato notevolmente la faccia”. Ilsecondo Oswald viene accolto favorevolmente dalla Universal che prepara unlancio eccezionale facendolo debuttare nelle più importanti sale degli States.

Il coniglio Oswald viene comunemente considerato come un personaggio ditransizione tra il gatto Julius degli Alice Comedies e Topolino. Primo personag-gio disneyano a mostrarsi libero dai vincoli di azione dal vero imposti agli AliceComedies, Oswald è un trionfo di energia e vitalità, elementi che favorisconopresto un successo al di fuori del solo pubblico dell’animazione. Il MotionPicture News trova Great Guns, il quarto episodio della serie, “traboccante dicomicità”, e prefigura che “se viene mantenuto l’attuale livello, questa serie avràsuccesso nei cinema di tutte le categorie”. Una predizione che si rivela alquantoindovinata, perché entro fine anno Oswald riuscirà “nell’incredibile impresa diconquistarsi l’immediato favore delle platee di prima visione”. Il successo diOswald, antesignano dei futuri personaggi disneyani, non è da cogliersi sempli-cemente in una maggiore compiutezza della formula narrativa: Oswald non ha

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successo soltanto perché l’animazione si avvantaggia di maggiore inventiva eritmo, ma perché, in misura ancora maggiore di quanto non facessero gli Alice, inuovi cartoon sposano le convenzioni del cinema hollywoodiano dal vero e lospirito dei tempi. Oswald, diversamente da Julius, diventa presto un romanticodamerino, incapace di resistere alle avventure sentimentali. Se in Poor Papa ilconiglio mostrava una latente misoginia, in Oh, What a Knight mette a repenta-glio la sua esistenza pur di agguantare la bella desiderata. Oswald riesce difficil-mente a controllarsi, come invece saprà fare Topolino nel film d’esordio PlaneCrazy. Oswald rappresenta comunque, seppure involontariamente, il personag-gio di prova per le gesta del futuro Topolino. In tutti gli episodi egli ha una ragaz-za diversa (perfino una gatta, in The Banker’s Daughter o in Oh, What a Knight)ma normalmente la sua compagna è la coniglietta Fanny. Topolino, adulto esem-plare in un mondo di cartoon, sarà tuttavia il solo a dar vita a un singolare e dura-turo rapporto a due: la coppia Topolino-Minnie non avrà più molta della sfortu-na di Oswald, così come Topolino, prototipo dell’eroe razionale, non vestiràcome Oswald i panni del marito bistrattato o dell’innamorato cronico. Attorno adOswald, come già negli Alice Comedies, ritroviamo la “banda” composta tra glialtri dal bassotto il cui corpo si contorce in qualsiasi forma, e dall’immancabilePietro Gambadilegno, adesso presentato, come negli ultimi Alice Comedies, conun aria meno burbera ma più clownesca.

Sotto il profilo produttivo, gli Oswald rappresentano un periodo di decisivetrasformazioni dello staff Disney. Il contratto con la Universal, che prevede larealizzazione di ventisei titoli in un anno, rende obbligatoria la scelta di conse-gnare le pellicole a intervalli di quindici giorni. Per onorare i nuovi impegni,Disney è costretto ad allargare il numero dei suoi collaboratori. Ham Hamilton,Max Maxwell, Les Clark, Johnny Cannon, si affiancano a Ubbe Iwerks e HughHarman, i due animatori di punta dello Studio. Il ricambio porta con sé alcunedefezioni, tra cui quella di Rudy Ising nel marzo del 1927, stanco di essere sol-tanto un cameraman. Il precedente operatore Mike Marcus verrà reintegrato nelsuo vecchio compito appena una settimana dopo la partenza di Ising. L’accordocon la Universal getta le basi per nuove formule che Disney non abbandoneràpiù. In primo luogo, gli Oswald danno il via alla commercializzazione dei per-sonaggi Disney: all’inizio dell’estate del 1927 le fattezze di Oswald compaionosu una tavoletta di cioccolata, ancora prima di poter vedere un cartoon nelle sale;in luglio viene lanciato un distintivo con l’effigie del coniglio e in primavera unaserie di formine con la sua sagoma. Se l’idea dello sfruttamento commerciale deipersonaggi era già presente all’epoca di Alice, ma poi non se ne fece nulla, neglianni Trenta lo Studio Disney sarebbe rimasto a galla grazie alle royalties ricava-te dalla vendita dei prodotti con l’immagine “Mickey Mouse”.

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Gli Oswald rappresentano anche l’ingresso di Disney nel cinema di “serie A”:oltre a favorire una maggiore popolarità, l’accordo con la Universal permette chei nuovi film vengano presentati in anteprima al Colony Theater di New York, unasala di sicuro prestigio. Tutto sembra procedere per il meglio, dunque. Ma ilconiglio Oswald non si dimostra longevo. Dopo un anno Charles Mintz, chedetiene il copyright, licenzia Disney e gli “ruba” quattro collaboratori. Disney,sconfortato, lancia il contrattacco. Dopo tutto, gli Oswald, che debuttano nel set-tembre del 1927 al Colony Theater, dimostrano che Disney può restare nelmondo del cinema; infatti, nel novembre del 1928, appena un anno dopo, alColony Theater debutterà Steamboat Willie, il più celebrato cartoon di Topolino,mentre, nel 1940, sempre nello stesso teatro ribattezzato Broadway, si terrà laprima newyorkese di Fantasia.

Topolino

Disney, come noto, inizia la sua attività di animatore in modo artigianale,come era successo ai più anziani Leon Searl, Earl Hurd, Otto Messmer o i fra-telli Fleischer. Grazie all’apporto di uno straordinario team di talenti, nel corsodei decenni egli riuscirà, forse più di chiunque altro, ad esplorare i confini deicartoon, sebbene al momento del suoi primi cortometraggi la grammatica basila-re del cinema d’animazione sia già stata definita. Ma l’immagine di Walt cam-peggerà su quella di tutti gli altri lavoratori dell’animazione per la capacità diespandere il settore attraverso una continua evoluzione. Si parlerà spesso, soprat-tutto da parte della critica europea, di un cinema infantile, di consumo, elemen-tare; ma si dimenticherà con facilità un’evidenza incontestabile: con Disney l’a-nimazione diviene una costola importante del cinema cosiddetto “alto”, un gene-re capace di coinvolgere lo spettatore al pari dei settori cinematografici più affer-mati. Solo di recente gli animatori disneyani hanno conosciuto una parzialeriscoperta critica: registi, animatori in senso stretto, responsabili di produzione,ignorati per tanto tempo, cominciano oggi a recuperare parte di un doveroso rico-noscimento critico.

Il termine “disneyano”, peraltro, spesso identificato con tutto quanto concer-ne animali antropomorfi o personaggi dai lineamenti morbidi e dai lineamentitondeggianti, ci ricorda che esso agli occhi dei più corrisponde al riconoscimen-to di un genere piuttosto che di uno stile definito. In realtà, nel ripercorrere la fil-mografia dello Studio Disney a confronto con la produzione coeva degli Studiconcorrenti, ci si accorge di come la storia dell’animazione sia stata una vicendacollettiva di artisti che, ognuno per suo conto, rispondevano alle esigenze e allereazioni del pubblico proponendo idee e scoperte destinate a essere mutuate con-

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siderevolmente da Studio a Studio. Lo stesso personaggio più emblematico delloStudio Disney, Mickey Mouse, non rappresenta una novità assoluta: i suoi con-notati sono il risultato di una convergenza di elementi cui il cartoon tiene contoalla fine del secondo decennio del secolo. All’inizio, il perfezionamento dei dise-gni animati poggia sul lavoro di una singola persona, che, assieme ad alcuni assi-stenti, assolve il compito di realizzare circa 1440 immagini differenti al minuto.Così erano nati i cartoon con il gatto Felix nello Studio di Pat Sullivan, e, piùtardi, di Mickey Mouse grazie alla collaborazione tra Ub Iwerks e Walt Disney.Ub Iwerks, uno dei massimi animatori della storia, segue il metodo già diffuso didisegnare i personaggi attraverso dei cerchi-guida che conferiscono loro roton-dità e morbidezza; evita in questo modo di riprodurre gli spigoli dei gomiti o deiginocchi: ciò non favorisce il realismo ma si rivela una scelta che facilita il lavo-ro e ottiene anche i suoi effetti comici. I cerchi, inoltre, sono piuttosto comodi dadisegnare, e il corpo di Mickey ne comprende sei diversi: uno per la testa, unoper il ventre, due per i palmi delle mani, due per le orecchie che a qualche criti-co hanno giustamente ricordato la forma delle bobine di un cineproiettore. Anchela colorazione nera del vello di Mickey Mouse è conseguenza dello stato dell’e-voluzione del cartoon; prima dell’introduzione del colore, infatti, i characters adominante scura creano un efficace contrasto con i fondali grigi di china sfuma-ta, e i principali personaggi degli Studi - Bosko per la Warner Bros, Felix per PatSullivan, Bimbo per Max Fleischer - assumono questa caratteristica; una sem-plice e diffusa stilizzazione che viene adottata anche da Paul Therry quando dise-gna i topi della fattoria del vecchio Alfaalfa.

Occorre poi rammentare che in questi anni il copyright è una regola dai con-torni ancora aleatori: Julius, il gatto del ciclo disneyano Alice in Cartoonland, èun calco di Felix, tanto più che presenta una mimica surrealista somigliante aquella del suo parente cinematografico messmeriano; lo stesso Ub Iwerks faràcompiere a Topolino un gesto che appartiene agli usi di entrambi i gatti: in assen-za di un cappello da togliersi in segno di ossequioso saluto, in The Karnival Kid(1929) il personaggio disneyano non esiterà a sollevarsi uno spicchio della calot-ta cranica.

Lo storico Bill Blackbeard ricorda che il primo Mickey Mouse fa la sua appa-rizione in una serie di racconti per bambini scritti da Johnny Gruelle a cominciareda Good Housekeeping nel 1919. Gruelle, celebre creatore dei fantocci di pezzaAnn e Andy Raggedy, crea un topo accompagnato dalla topolina Minnie Mouse.Disney sviluppa l’idea facendo di Mickey Mouse un personaggio completo, abilee intraprendente “attore” del grande schermo. Nel giro di pochi anni gode di unapopolarità paragonabile a quella di Laurel & Hardy, Chaplin, Keaton. A questopunto Disney decide che è venuto il momento di salvaguardare l’autorevolezza e

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il successo del suo personaggio. Al tempo dell’esordio di Topolino, nel dicembredel 1928, gli animatori degli studi concorrenti avevano continuato a disegnaredei topolini neri con dei calzoncini riportanti grossi bottoni sul davanti. Un filmdello Studio Fleischer, The Grand Uproar (1930), vede un sosia perfetto diMickey tra i musicisti della band, ma gli esempi riferibili sono in realtà moltissi-mi. Disney non intraprenderà alcuna vera azione legale contro gli Studi concor-renti; soltanto nei confronti del caso più spudorato, l’utilizzo di una coppia ditopi assai simili a Mickey e Minnie in alcuni cortometraggi diretti da HarryBaley, Disney si farà sentire. Ma anche in questo caso non porterà avanti alcunarichiesta di risarcimento. Piuttosto, si limiterà a diffondere nell’ambiente dell’a-nimazione un documento ufficiale dello Studio con il quale proibisce formal-mente di impiegare “la raffigurazione grafica di “Mickey Mouse” o qualsiasialtra variazione sul tema così vicina da essere identificata o confusa con la giàmenzionata rappresentazione grafica di “Mickey Mouse”.

Gran parte del successo iniziale di Mickey Mouse è dovuto alla sua primauscita sonorizzata, proprio nello stesso periodo in cui il cinema americano sco-pre il sonoro. Steamboat Willie, distribuito nel 1928 su scala nazionale, grazieall’aura di film singolare che aveva saputo alimentare attorno a sé - sia per l’at-tenzione che la stampa aveva rivolto alla novità, sia per l’entusiasmo che gli spet-tatori sembravano manifestare nei riguardi di un personaggio dell’animazionecapace di parlare e cantare -, lancia con grande enfasi un paladino d’euforia che,seppure avvezzo a vivere gags e avventure non troppo distanti da quelle diOswald The Rabbit, incontra una popolarità del tutto inedita per un cartoon. Ilsuccesso di Mickey Mouse è dunque legato indissolubilmente alla ritrovataatmosfera di sogno che i personaggi vivono all’interno di un film disneyano. Inuovi cartoon introducono le platee in una dimensione mitica che non rinnega itratti impressi dal cinema all’evoluzione dello spettacolo, ma che guarda anchealle atmosfere impalpabili, alle dimensioni assolute e astratte, proprie dei perso-naggi del muto, semidei di ascendenza teatrale. Con Mickey Mouse, dunque, l’o-pera disneyana asseconda figure mitiche a metà strada tra i semidei del muto e ladimensione “terrestre”, più vicina alla vita moderna, degli uomini comuni, gliindividui contemporanei di cui il cinema riflette atteggiamenti e aspettative,facendosi espressione del più diffuso consumo culturale.

Steamboat Willie, in realtà, è il terzo cortometraggio di Mickey Mouse, ma èil primo a incontrare il grande successo, anche per via del fortunato esordiodisneyano nel sonoro. I due precedenti cortometraggi, Plane Crazy e Gallopin’Gaucho (entrambi del 1929), distribuiti dopo Steamboat Willie, andranno incon-tro ad un inaspettato trionfo, forti del consenso guadagnato nel frattempo daMickey Mouse. I due cortometraggi, sonorizzati in un secondo tempo, svelano

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comunque la loro origine muta, visto che gli effetti sonori e la colonna sonora siamalgamano con poca naturalezza ai disegni, mentre i personaggi si rivolgono adun pubblico non ancora incuriosito dalla possibilità di ascoltare le voci e i cantidei suoi beniamini.

I primi cortometraggi di Mickey Mouse vedono Ub Iwerks intento a ottenereil massimo dal punto di vista dell’animazione e del movimento, ma evidenzianoancora una certa difficoltà nell’approfondire adeguatamente la psicologia deipersonaggi così da ottenere delle interessanti caratterizzazioni: una situazioneche verrà risolta dalla futura produzione disneyana, tesa alla ricerca di personag-gi esemplari e grandemente metaforici. Il piccolo Mickey Mouse di Gallopin’Gaucho, ad esempio, somiglia perfino troppo al gattone invaghitosi di Minnie, asua volta assai somigliante a Gambadilegno. La semplicità dei personaggi è tut-tavia riscattata da una neanche tanto latente ambiguità nella rappresentazione deimotivi e degli atteggiamenti che spronano il protagonista: il gaucho Mickey è unavventuriero dalla moralità dubbia che beve, fuma, si esibisce in giochi dasbruffone, agguanta la bella Minnie in un tango passionale e non ha vergogna diapparire completamente nudo dinanzi a lei. Gallopin’ Gaucho, tra la commediae la farsa, ha qualche punto in comune con la sfrontatezza dei film interpretati daldivo Rodolfo Valentino, seppure qui la goliardia prevalga decisamente sul dram-ma: El Gaucho continua a duellare con il suo avversario ma conclude la sfidaincastrando un vaso da notte sulla testa del malcapitato contendente.

Iwerks, in Gallopin’ Gaucho, propone un’animazione di sicuro effetto manon ancora innovativa: gli arti dei personaggi si allungano in modo surreale,come nei personaggi di Fleischer e di Otto Messmer; lo studio naturalistico deimovimenti, assieme ad accorgimenti quali il take e l’anticipation, arriverà piùavanti, quando ormai Disney avrà ripensato le coordinate del suo universo filmi-co in virtù del cosiddetto plausibile-impossibile. Mickey Mouse usa la codacome un lazo e se la arrotola con un legnetto a forma di zeta che poggia poi sul-l’ombelico: è l’ombra del gatto Felix a mostrarsi nelle gags dei primi cortome-traggi di Iwerks. Più in generale, i primi film di Mickey Mouse si basano soprat-tutto su gags comiche, nelle quali il tratto ironico è giocato sulla fisicità degliinterpreti, e questa circostanza rimarrà costante anche dopo la dipartita di Iwerksdal team dello Studio Disney.

In The Beach Party (1931), diretto da Burt Gillett, entra in scena l’intera“banda” Disney, composta di nuovi personaggi: Mickey, Minnie, Pluto,Clarabella, Orazio. Le gags sono ancora comiche, ma si ripartiscono adesso trapiù personaggi. Tra le più frequenti e gustose si ricorda Clarabella quando smar-risce le mutande durante le sue nuotate (una costante comica del primo Disney:si pensi a Minnie che utilizza le sue come paracadute in Plane Crazy); sarà poi

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Mickey a ritrovarle finendovi dentro. Quando, sul finire del cortometraggio, lacomicità lascia il posto al dramma di dovere affrontare una grossa piovra affa-mata, Clarabella verrà addirittura utilizzata come una cannoneggiatrice, mentreOrazio combatterà il nemico sputando addosso alla piovra i semi di un cocome-ro trasformato in un mitra. L’animazione è eccellente, ma non particolarmenteinnovativa. Gli Studi concorrenti, per i quali lavorano tra gli altri Hugh Harman,Rudolph Ising e Isadore Freleng, già animatori per Disney, riescono a confron-tarsi bene con il team disneyano, realizzando delle buone alternative a MickeyMouse come il nero Bosko. È però vero che i cortometraggi di Mickey Mouseinfluenzano in modo determinante le iniziative delle altre case di produzione,costrette ad avvicinarsi il più possibile a Disney facendo bene attenzione a evi-tare il reato di plagio: Bosko non fa eccezione a questa tendenza. Ad ogni modo,il primo Topolino (questo il nome italiano di Mickey Mouse) si caratterizza peri tratti ribelli e spregiudicati, diversamente dai suoi concorrenti cinematografici.Una sottile vena di perfidia, in definitiva, salvaguarda la singolarità del perso-naggio disneyano.

In questo periodo Disney delinea le caratteristiche della produzione successi-va e concentra nel suo Studio gli sforzi dei characters; inoltre, egli pensa conmolta attenzione all’introduzione del colore. La competizione per accaparrarsil’esclusiva del cartoon a colori inizia sin dai primi anni Trenta, quando alcunistudi portano avanti dei tentativi servendosi di un procedimento bicolore brevet-tato dalla Technicolor. Le sfumature presenti sullo schermo sono costituite dallamiscelazione in differenti gradazioni di rossi e di verdi: gli alti costi produttivinon giustificano però a lungo una metodologia così poco soddisfacente. Il suc-cessivo sistema messo a punto dalla Technicolor, basato sulla riproduzione in tri-cromia direttamente su pellicola, si presenta come la decisiva soluzione pernuove sperimentazioni cromatiche: in pratica, con la tricromia il cartoon sigarantisce notevoli vantaggi qualitativi. Walt Disney, nonostante gli alti costi e ilparere inizialmente contrario del fratello Roy, si assicura un contratto in esclusi-va triennale con la Technicolor, impedendo ai concorrenti la possibilità di con-trattaccare, soprattutto dopo il successo del suo primo cartoon a colori Flowersand Trees (1932), che si aggiudicherà l’Oscar come miglior cortometraggio ani-mato dell’anno.

Paperino

Nel 1932 Ub Iwerks, che ormai opera in proprio da più di un anno, per cer-care di stare al passo con Disney cerca di ritagliarsi uno spazio di autonomia con

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cartoon a colori che ricalchino (ma non troppo) le Silly Symphonies disneyaneprive di personaggio fisso. La risposta di Iwerks si chiama Comicolor Shorts,girati in Cinecolor, un procedimento a due colori basato su toni rossi e azzurriche non regge però il confronto con il Technicolor disneyano. Tuttavia, Iwerksriuscirà a precedere di quattro mesi l’ex amico Walt con un cartoon a colori desti-nato a entrare nella storia dell’animazione: The Little Red Hen (1934), trasposi-zione di un racconto moralistico ambientato in un cortile di fattoria. Il team deglianimatori Disney riprenderà la storia di questo racconto popolare per modificar-lo in alcuni punti: una sceneggiatura più incalzante, una maggior antropomorfiz-zazione dei personaggi principali (una gallina, un papero, un porcello); ne deri-verà The Wise Little Hen (1934), in cui prende vita il papero Donald Duck, desti-nato a diventare il principale rivale di Mickey Mouse. Paperino (questo il nomeitaliano) guadagnerà spazio e attenzione del pubblico all’interno della stessaDisney, facendo presto di Topolino un’immagine classica di un recente ma giàlontano passato.

A proposito di Paperino, è interessante la riflessione di Oreste De Fornari,incentrata sulla singolare (per un cartoon) riproposizione del confronto tramaschera e volto: “La testa di Paperino è più da papero che da uomo. Spunta daun tronco umano e da una blusa da marinaio e perciò fa l’effetto di un masche-rone grottesco. Non un vero papero, ma il papero che è in noi, come direbbeOctave Mannoni. Un effetto Hyde, insomma” 7. Può forse suscitare interesseritrovare, all’interno dell’animazione disneyana, un segno ibrido che allude alcontempo all’umano e all’animale, in un’estetica della contaminazione dei corpiche si mostra, seppure come conseguenza della censura puritana che caratterizzaun’epoca e come riflesso di una mitologia rivisitata, in ampio anticipo rispetto aitempi del cosiddetto “cinema delle mutazioni” (Cronenberg, Lynch…); un segnoche è espressione di una dimensione simbolica ibridizzata, attraversata da sug-gestioni contraddittorie e inquietudini profonde, seppure all’interno della piùgenerale cultura di massa di matrice hollywoodiana. Ancora De Fornari:“Paperino, coperto solo a metà (una blusa da marinaio, un berrettino da marinaioe nient’altro), pare si vesta e si spogli in continuazione, anche se in realtà nonmuove un dito. Ispezionandolo dal basso all’alto, sembra che si sia infilato lacamicia, mentre se scivoliamo dall’alto in basso, potremmo giurare che si è appe-na tolto i pantaloni. È solo un disegno, ma contiene un principio di movimentoche lo rende verosimile. (…) Le parti basse, scoperte, appartengono a un anima-le, un papero, mentre il busto, coperto dalla blusa, è eretto come negli uomini evi spuntano due braccia umane. L’elevazione comunque è malsicura, il grossobecco e il grosso sedere minacciano di piegare il busto in linea orizzontale, raso-terra come nelle bestie. Se ne può concludere che non solo l’abito, ma anche il

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