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Wajdi Mouawad Anima Di questo libro – pubblicato da Fazi lo scorso mese di febbraio – hanno scritto in molti e sempre con toni molto positivi. Ho voluto aggiungermi al coro perché la sua bellezza si presta a sostenere molto più di un elogio. Sto parlando di Anima, scritto da Wajdi Mouawad, artista libanese conosciuto e apprezzato, soprattutto in Francia, come autore di teatro. Questo è il suo secondo romanzo. Cinquecento pagine scritte nell’arco di dieci anni che hanno condotto ad un lavoro di rara intensità e pulizia per un tema così cruciale come quello che si affronta. Il libro, di primo acchito, si presenta come un noir: un uomo trova la moglie uccisa barbaramente e decide di partire alla ricerca dell’assassino, non per vendetta, ma perché vuole vedere la faccia di chi ha potuto accanirsi in maniera così brutale sul corpo di una donna incinta e perché quella morte ha iniziato a far riaffiorare in lui ricordi di cui non aveva consapevolezza. Inizia il viaggio e con esso iniziano a dipanarsi le mille sfaccettature del dolore. E’ il grande tema e viene affrontato magistralmente scegliendo di non guardare al dolore solo dal punto di vista umano ma anche da quello degli animali. C’è il dolore ontologico, che fa parte del tessuto della vita che uccide la vita, che di essa si nutre, e c’è quello causato dall’essere umano sulla sua stessa specie e sulle altre specie viventi. Niente è peggio o meglio, tutto è sentito e narrato con eguale partecipazione, asciutta e ricca di pathos. Unica è l’anima in cui tutto risuona, un’anima universale che ci comprende insieme alle anime di un universo animale narrante che costituisce il punto di vista particolare su cui il testo viene costruito. Infatti ogni capitolo porta il nome scientifico dell’animale, – felis sylvestris catus, musca domestica, vespula germanica, equus caballus – che descrive azioni ed emozioni. Su questa scelta stilistica vorrei soffermarmi perché ho trovato veramente grande il modo in cui il dolore umano viene raccontato al pari di quello animale (la descrizione di una femmina di procione uccisa dal viavai delle automobili è toccante tanto quanto quella dell’assassinio della moglie del protagonista e la narrazione della folle disperazione dei cavalli rinchiusi nel camion che li sta trasportando al macello non è da meno di quella della peggiore strage compiuta da esseri umani su altri esseri umani inermi), in un unico “canto animale” che tutto unisce mentre tutto lascia scorrere. Unica è l’anima del mondo, quindi uno è anche il dolore che ci accomuna: questo il messaggio che nel libro passa con molta chiarezza. Sarebbe bello potessimo farlo nostro, intimamente.

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Wajdi Mouawad Anima

Di questo libro – pubblicato da Fazi lo scorso mese di febbraio – hanno scritto in molti e sempre con toni molto positivi. Ho voluto aggiungermi al coro perché la sua bellezza si presta a sostenere molto più di un elogio. Sto parlando di Anima, scritto da Wajdi Mouawad, artista libanese conosciuto e apprezzato, soprattutto in Francia, come autore di teatro. Questo è il suo secondo romanzo. Cinquecento pagine scritte nell’arco di dieci anni che hanno condotto ad un lavoro di rara intensità e pulizia per un tema così cruciale come quello che si affronta. Il libro, di primo acchito, si presenta come un noir: un uomo trova la moglie uccisa barbaramente e decide di partire alla ricerca dell’assassino, non per vendetta, ma perché vuole vedere la faccia di chi ha potuto accanirsi in maniera così brutale sul corpo di una donna incinta e perché quella morte ha iniziato a far riaffiorare in lui ricordi di cui non aveva consapevolezza. Inizia il viaggio e con esso iniziano a dipanarsi le mille sfaccettature del dolore. E’ il grande tema e viene affrontato magistralmente scegliendo di non guardare al dolore solo dal punto di vista umano ma anche da quello degli animali. C’è il dolore ontologico, che fa parte del tessuto della vita che uccide la vita, che di essa si nutre, e c’è quello causato dall’essere umano sulla sua stessa specie e sulle altre specie viventi. Niente è peggio o meglio, tutto è sentito e narrato con eguale partecipazione, asciutta e ricca di pathos. Unica è l’anima in cui tutto risuona, un’anima universale che ci comprende insieme alle anime di un universo animale narrante che costituisce il punto di vista particolare su cui il testo viene costruito. Infatti ogni capitolo porta il nome scientifico dell’animale, – felis sylvestris catus, musca domestica, vespula germanica, equus caballus – che descrive azioni ed emozioni. Su questa scelta stilistica vorrei soffermarmi perché ho trovato veramente grande il modo in cui il dolore umano viene raccontato al pari di quello animale (la descrizione di una femmina di procione uccisa dal viavai delle automobili è toccante tanto quanto quella dell’assassinio della moglie del protagonista e la narrazione della folle disperazione dei cavalli rinchiusi nel camion che li sta trasportando al macello non è da meno di quella della peggiore strage compiuta da esseri umani su altri esseri umani inermi), in un unico “canto animale” che tutto unisce mentre tutto lascia scorrere. Unica è l’anima del mondo, quindi uno è anche il dolore che ci accomuna: questo il messaggio che nel libro passa con molta chiarezza. Sarebbe bello potessimo farlo nostro, intimamente.

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Ascoltiamo la voce di una scimmia: - Gli umani sono soli. Malgrado la pioggia, malgrado gli animali, malgrado i fiumi e gli alberi e il cielo e malgrado il fuoco. Gli umani sono sempre sulla soglia. Hanno avuto il dono della verticalità, e tuttavia conducono la loro esistenza curvi sotto un peso invisibile. C’è qualcosa che li schiaccia. Piove: ecco che corrono. Sperano nella venuta delle divinità, ma non vedono gli occhi degli animali che li guardano. Non sentono il nostro silenzio che li ascolta. Prigionieri della loro ragione, la maggior parte di loro non faranno mai il grande passo dell’irragionevolezza, se non al prezzo di un’illuminazione che li lascerà esangui e folli. Sono assorbiti da ciò che hanno sotto mano e quando le loro mani sono vuote, se le portano al viso e piangono. La solitudine umana è un altro dei temi che si intrecciano, strada facendo, a comporre la molteplice trama di voci, partendo da quella del protagonista – Wahhch Debch, libanese di origini, il cui nome tradotto significherebbe ‘mostruoso brutale’ – che era bambino in Libano all’epoca della strage di Sabra e Chatila. Ci sono i territori delle riserve indiane del Quebec, dove convivono bassezze orribili insieme alla meraviglia della cosmologia dei popoli nativi delle zone che Wahhch attraversa per incontrare l’indiano Mohawk che si sa essere l’assassino di sua moglie. Sono territori di confine, ma il confine, prima di essere quello tra uno stato e l’altro, è quello tra il bene e il male, fra l’identità di un popolo e la sua autodeterminazione, fra ciò che è umano e quello che è disumano, tra umano e animale. Ci si muove in continuazione cercando una spiegazione al male e perciò si sprofonda nelle viscere di un mondo governato da brutalità e perdizione, si scende nel lato oscuro della natura umana, il peggiore. Si attraversano gli stati dell’America alla ricerca della verità sulla storia del protagonista. Bellezza e orrore della natura umana ci accompagnano lungo tutto il viaggiare. Bellezza e brutalità della natura animale con cui siamo portati a fare paragoni. Il protagonista ha un rapporto speciale con gli animali, li vede ed è visto, li rispetta ed è rispettato, li salva ed è salvato in più di un’occasione, quasi come accade nelle favole e questo è commovente in un libro che incalza seguendo il divenire dei fatti tipico della tragedia greca. Si tocca il fondo dell’obbrobrio per arrivare alla catarsi, a una sorta di giustizia finale che Wahhch e gli animali compiono. La storia finisce e la voce narrante del coroner incaricato delle indagini racconta l’epilogo. Un uomo, una donna e un cane continueranno il viaggio dirigendosi verso nord: - Cosa getteranno nel tumulto delle onde? Cosa affideranno agli abissi? Quale dolore? Quale dispiacere? Nelle profondità marine esistono pesci mostruosi dotati di parola, custodi di una lingua antica, dimenticata, parlata ai tempi dei tempi dagli umani e dalle bestie sulle rive dei paradisi perduti. Chi mai oserà immergersi per unirsi a loro e imparare a decifrare e parlare di nuovo quel linguaggio? Quale animale? Quale uomo? Quale donna? Quale essere? Quell’essere, se risalisse in superficie, porterebbe nella propria bocca azzurrata dal freddo i frammenti di una lingua scomparsa di cui tutti noi cerchiamo da sempre, instancabilmente l’alfabeto. Impareremmo di nuovo a parlare. Inventeremmo parole nuove. Wahhch ritroverebbe il suo nome. Non tutto sarebbe perduto.

Silvia Papi

“A/Rivista anarchica”, n.400/estate 2015