Voci - Numero 1 Anno 2 - Amnesty International in Sicilia

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DIAMO VOCE AI DIRITTI UMANI i fatti e le idee GENNAIO 2016 NUMERO 1 - ANNO 2 «Quando ho acceso la prima candela di Amnesty avevo in mente un vecchio proverbio cinese: “Meglio accendere una candela che maledire l’oscurità” Questo è oggi il motto per noi di Amnesty» (Peter Benenson) I DIRITTI UMANI Difendere VOCI

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D I A M O V O C E A I D I R I T T I U M A N Ii f a t t i e l e i d e e

GENNAIO 2016 NUMERO 1 - ANNO 2

«Quando ho acceso la prima candela di Amnesty avevo in mente un vecchio proverbio cinese: “Meglio accendere una candela che maledire l’oscurità” Questo è oggi il motto per noi di Amnesty»

(Peter Benenson)

I DIRITTI UMANIDifendere

VOCI

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Difensori dei Diritti Umani ed Hate Speech 3di Liliana Maniscalco

Côte D’Ivoire: Giustizia, Amnistia, Riconciliazione 6di Mouhamed Cissé

Storie di difensori dei Diritti Umani in Europa 9di Giuseppe Provenza

In memoria di Andrey Mironov 13di Giuliano Prandini

Cina: la difficile professione di avvocato 14di Andrea Pira

Bambini in pericolo: non è un viaggio, è una fuga 16di Giovanna Cernigliaro

Diritti umani e diseguaglianze economiche 18di Vincenzo Fazio

Hic sunt leones. Diritti Umani in terra di mafia 20di Vincenzo Ceruso

Se l’arte feconda la rivoluzione 21di Paola Caridi

Buone notizie 23di Giuseppe Provenza

GENNAIO 2016 N. 1 / A.2 - Voci

Rivista del Centro di Documentazione per la Promozione e l’Educazione alla

Tutela dei Diritti Umani “Peter Benenson”

COMITATO DI REDAZIONE

Giuseppe Provenza Responsabile della Redazione

Liliana ManiscalcoResponsabile Regionale di Amnesty International

Daniela ConteResponsabile del

Centro di Documentazione per la Promozione e l’Educazione alla

Tutela dei Diritti Umani “Peter Benenson”

Emanuele Maria MarinoResponsabile Relazioni Esterne

e Comunicazione di Amnesty International in Sicilia

Silvia Intravaia Grafiche e D.T.P.

COLLABORANO

Aurelio Angelini, Clelia Bartoli, Giorgio Beretta, Daniela Brignone,

Paola Caridi, Francesco Castracane, Giovanna Cernigliaro, Vincenzo

Ceruso, Cissé Mouhamed, Coordinamento America Latina

- Amnesty International Sezione Italiana, Marta D’Alia, Aristide

Donadio, Vincenzo Fazio, Maurizio Gemelli, Javier Gonzalez Diez,

Giuseppe Carlo Marino, Maria Grazia Patronaggio, Paolo Pobbiati,

Rossella Puccio, Bruno Schivo, Daniela Tomasino, Fulvio Vassallo

Paleologo

VOCI

[email protected]

-Via Benedetto d’Acquisto 30

90141 Palermo

IN QUESTO NUMERO

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TUTTI I GIORNI

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Le opinioni espresse negli articoli presenti in questo numero non necessariamente rispecchiano le posizioni di Amnesty International.

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Amnesty In Sicilia

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www.amnestysicilia.it

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EDITORIAlE

GENNAIO 2016 N. 1 / A.2 - Voci3

Quando si affronta il tema della libertà di espressione si entra nel cuore pulsante della mission di Amnesty International.

Non a caso l’organizzazione nasce a seguito di un fatto legato alla manifestazione del pensiero di due giovani studenti portoghesi che, appreso della liberazione delle colonie sotto la dittatura di Salazar, brindavano alla loro indipendenza e venivano così imprigionati per avere esposto un’idea contraria a quella governativa.

E non causalmente Amnesty nasce da un articolo su un giornale, l’Observer, dove Peter Benenson esponeva il caso dei due e di tutte le molte altre vittime di scomparsa ad opera degli Stati: i prigionieri dimenticati, coloro che per le proprie opinioni e appartenenze ideologiche, sessuali, religiose, politiche che non avevano fatto uso e non avevano promosso l’uso della violenza erano stati incarcerati.

Da allora il movimento continua a tutelare la libertà di espressione.

Sono stati innumerevoli i casi affrontati, in cinquanta anni cinquantamila liberazioni.

Al momento a livello mondiale Amnesty tutela Zunar disegnatore malese di vignette ironiche sui politici del suo paese, vittima per questo di intimidazioni.

Nel 2009 è stato arrestato e ha subito pressioni a causa dei suoi disegni. I suoi libri satirici sono stati vietati, banditi dalle librerie, persino le tipografie che li stampavano sono state minacciate di chiusura. Ma neanche questo ha fermato la sua penna. Anzi oggi grazie ai social network le sue vignette sono ancora più popolari. A febbraio 2015, dopo che Zunar ha scritto dei tweet contro l’arresto del leader dell’opposizione, la polizia ha fatto irruzione nel suo appartamento, lo ha ammanettato e lo ha arrestato. Adesso rischia molti anni di carcere.

Nonostante l’evidenza di dove alberghi la giustizia, e l’ingiustizia, spesso l’opinione pubblica si è interrogata se un linguaggio molto audace a tratti aggressivo non possa essere foriero di violazioni dei diritti umani e andare oltre il dovuto rispetto della cosiddetta libertà di espressione, intaccandone per certi verso la legittimità.

Rinomato è in tal senso il caso di Charlie Hebdo. Una rivista come questa di solito è controversa, scandalosa, e spesso offensiva, nella sua critica sociale e politica. Questa è l’essenza della satira. Ma molti musulmani si sono ritenuti offesi da alcune delle sue pubblicazioni perché la tradizione vieta qualsiasi raffigurazione del profeta Maometto.

DIFENSORI DEI DIRITTI UMANI ED HATE SPEECHdi Liliana Maniscalco

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Amnesty International non ha effettuato un’analisi completa della produzione di Charlie Hebdo e il contesto in cui è stata concepita come satira politica e sociale ma ritiene che i giornalisti e i fumettisti che lavorano con la rivista abbiano legittimamente esercitato, e non sarebbe dovuto essere impedito loro di farlo, il diritto alla libertà di espressione.

Come spesso ribadito dalla Corte europea dei diritti umani, la libertà di espressione, mentre può essere sottoposta a talune restrizioni legittime, non vale solo per informazioni o idee che vengono accolte con favore o considerate come inoffensive o indifferenti dal pubblico, ma anche per quelle che offendono, urtano o disturbano lo Stato o qualsiasi gruppo sociale.

Questa impostazione dipende dalla Dichiarazione Universale dei diritti umani e dagli standard internazionali conseguenti. Qui si afferma che ogni individuo ha diritto alla libertà di opinione e di espressione incluso il diritto di non essere molestato per queste e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere.

Se la Dichiarazione non costituisce se non un documento morale di grande rilevanza privo di potere coercitivo nei confronti degli Stati sottoscrittori, il Patto Internazionale dei diritti civili e politici invece è legge e richiama i medesimi concetti. La libertà di espressione è anche qui strettamente connessa agli aspetti identitari e della dignità dell’essere umano ma anche alla questione del diritto all’informazione. Il diritto alla libertà di espressione esercitato da ciascun individuo, infatti, consente l’esercizio della libertà di acquisire e assumere informazioni e costituirsi un’opinione su qualsiasi fatto da parte degli altri.

Gli stessi concetti sono esposti in altri standard internazionali come la Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti umani e delle libertà fondamentali e la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.

Gli standard internazionali provano anche a delimitare dei confini per la libertà di espressione che in linea teorica dovrebbe venir meno se e causasse un abuso per una data categoria di soggetti o per un soggetto e ove questo risultasse essere più grave della limitazione alla libertà di espressione stessa.

Per esempio sempre nel Patto Internazionale sui diritti civili e politici si stabilisce che l’esercizio delle libertà di espressione comporta doveri e responsabilità speciali e può essere perciò sottoposto ad alcune restrizioni che però devono essere espressamente stabilite dalla legge e necessarie al rispetto dei diritti o della reputazione altrui e alla salvaguardia della sicurezza nazionale, dell’ordine pubblico, della salute o della morale pubbliche e che qualsiasi appello all’odio nazionale, razziale o religioso che costituisca incitamento all’odio, all’ostilità o alla violenza deve essere vietato dalla legge.

Gli stessi concetti vengono sviluppati in altri standard.

Amnesty International ritiene che la libertà di espressione possa essere limitata solo al verificarsi di alcune condizioni eccezionali.

L’ esperienza e la ricerca dell’organizzazione hanno indicato che il discorso pregiudizievole può alimentare la discriminazione e altre violazioni dei diritti umani, ma anche che una solida protezione della libertà di espressione costituisce uno strumento potente ed essenziale per la lotta agli abusi particolare riferimento alla discriminazione. Gli sforzi per vietare i “discorsi di odio” dovrebbero riflettere il principio che tutti i diritti umani sono universali, indivisibili, interdipendenti e interconnessi. La libertà di espressione è legata ad altri diritti ed è essenziale per la loro realizzazione. Restrizioni eccessive potrebbero comprometterne il godimento.

L’interdipendenza tra i diritti alla libertà di espressione e alla non discriminazione impone agli Stati di prestare attenzione alle leggi e alle politiche in materia di

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Editoriale

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GENNAIO 2016 N. 1 / A.2 - Voci5

Editoriale

Vincitore premio popolare di “RISCATTATI”, la seconda edizione del concorso fotografico del Gruppo Italia 290 di Amnesty International.

Titolo: Tazzine

Autore: Sofia Giacalone

Motivazione: “La foto si rivela adatta per una campagna di comunicazione sociale quale strumento importante per sfidare e contrastare i pregiudizi. L’idea delle tazzine del caffè è semplice quanto ingegnosa, pubblicitaria e di effetto.”

“discorsi di odio”. E’ necessario che vengano emanate leggi e politiche redatte con rigore e precisione affinchè non diano adito ad un’ ampia interpretatività che accidentalmente possa violare la libertà di espressione e costituire uno sforzo controproducente. Di conseguenza, Amnesty International sollecita che le restrizioni debbano come minimo essere finalizzate ad uno scopo legittimo, mantenere chiaro un legame di proporzionalità tra la violazione e la misura punitiva, presentare un approccio olistico alla questione della discriminazione considerando il contrasto all’hate speech solo uno degli aspetti di una strategia complessiva.

Appaiono infatti vincenti gli obblighi postivi dell’articolo 7 della Convenzione internazionale sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale. In base a questi per garantire che le misure per prevenire l’incitamento all’odio razziale siano efficaci, bisogna evitare la dipendenza esclusiva da indebite misure

punitive e piuttosto adottare approcci complessivi per la lotta contro i pregiudizi e la discriminazione, con particolare attenzione alla formazione.

L’ incitamento all’odio non è che un sintomo, la manifestazione esterna di qualcosa di molto più profondo e le risposte giuridiche da sole sono ben lungi dall’essere sufficienti per apportare cambiamenti reali di mentalità, percezioni e discorsi.

Amnesty International sollecita gli Stati e continuare a sottolineare che l’educazione è la chiave perché, come direbbe il premio Nobel Malala: “un bambino, un insegnante, un libro e una penna possono cambiare il mondo”.

Liliana ManiscalcoResponsabile Regionale

di Amnesty International

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ATTUAlITà

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AttualitàATTUAlITà

Africa e Medio Oriente

A seguito di conflitti interni, l’obiettivo principale dei governanti consiste nel trovare gli strumenti adeguati per superare il dramma del passato e orientarsi verso il futuro e una pace duratura. In Côte d’Ivoire, come in tanti altri paesi che hanno subito il trauma di una guerra fratricida, un tessuto sociale distrutto, un esercito diviso, una classe politica continuamente impegnata a manipolare l’opinione dei suoi seguaci, tale esercizio è stato alquanto difficile.

Si trattava infatti di stabilire un complicato equilibrio tra la ricerca della verità fattuale e giudiziaria, le riparazioni per le vittime, la necessaria riconciliazione, l’adozione di leggi di amnistia, giustizia interna e internazionale. In altri termini, la questione cruciale di stabilire quale era lo strumento da mettere in opera per uscire dal periodo bellico in modo duraturo e definitivo.

In questa scelta tutto dipende dall’orientamento prediletto dai governanti nonché dalla loro capacità di applicare le loro decisioni.

Il 24 dicembre 1999, la Côte d’Ivoire conobbe il suo primo colpo di Stato contro il presidente Henri Konan Bédié. Il Generale Guéi Robert, a capo della fase di transizione militare durata 10 mesi fu quindi incaricato di organizzare le elezioni. Le elezioni presidenziali furono organizzate nel 2000 dopo il rigetto delle candidature dei leader dei partiti storici: il PDCI di Henri K. Bédié e l’RDR di Alassane D. Ouattara. Laurent Gbagbo del FPI vinse le elezioni

contro il generale Guéi. Quest’ultimo, non volendo riconoscere la sua sconfitta fu costretto dai militari a rifugiarsi nel suo villaggio, nel Nord del paese. In seguito, dopo l’appello lanciato dal leader dell’RDR per la riorganizzazione di un’elezione più inclusiva, i sostenitori di Ouattara furono uccisi, feriti e costretti all’esilio.

Il 22 settembre 2002, un tentativo fallito di colpo di stato divise il paese in due tra un nord prevalentemente pro-Ouattara e un sud prevalentemente pro-Gbagbo. Durante questo evento, il generale Guei e la sua famiglia furono massacrati. Dopo un lungo periodo di negoziati e vari accordi, delle nuove elezioni furono finalmente organizzate nel novembre 2011. La vittoria di Alassane Ouattara fu pronunciata dalla Commissione Elettorale Indipendente e confermata dal rappresentante del Segretario Generale delle Nazioni Unite. Laurent Gbagbo non volle riconoscere la vittoria del suo avversario dando luogo cosi ad una crisi drammatica il cui esito, dopo più di 3.000 morti, fu il suo arresto e il trasferimento presso la prigione della Corte Penale Internazionale.

Durante la presidenza Gbagbo, durata dal 2000 al 2011, al fine di avviare un processo di riconciliazione, fu istituito un Forum per la riconciliazione nazionale (FNR) 1 il 28 agosto 2001. Il FNR, durato 2 mesi, aveva per missione di analizzare in profondità le cause delle tensioni sociopolitiche che prevalevano in

1 - Decreto n. 2001-510 del 28 agosto 2001

CÔTE D’IVOIRE: GIUSTIZIA, AMNISTIA, RICONCIlIAZIONEdi Mouhamed Cissé

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GENNAIO 2016 N. 1 / A.2 - Voci7

Africa e Medio Oriente

Côte d’Ivoire e di proporre al Capo dello Stato delle soluzioni in vista di ridurre la crisi sociale, politica ed economica, al fine di riconciliare tra di loro tutte le componenti della società ivoriana. Il 18 aprile 2003, la Côte d’Ivoire, pur non essendone ancora parte, riconobbe la competenza della Corte Penale Internazionale ad indagare per i fatti relativi ai crimini commessi dal 19 settembre 2002 2. Nonostante ciò, sulla questione delicata delle vittime, egli sostenne che non si sarebbe cercato di pagare le vittime perché, ai suoi occhi, l’indennizzo non sarebbe servito a resuscitare i morti. “Sono le nostre parole che dovrebbero liberare i cuori e gli spiriti feriti di tutti coloro che si sentono vittime” 3. Altrimenti si sarebbe dovuto indennizzare tutte le vittime della storia ivoriana a partire dagli anni ‘60 4. A conclusione del forum, egli affermò che “la riconciliazione non è un atto puntuale che uno attua una volta per tutte. È un lungo processo.” 5 Inoltre, il 6 agosto 2003, i deputati ivoriani adottarono quasi all’unanimità (meno due voti), una legge che amnistiava i responsabili di tutte le violazioni contro la sicurezza dello stato commessi tra il 17 settembre 2000 e il 19 settembre 2002. In seguito, l’allora Presidente Gbagbo promulgò il 13 aprile 2007 una legge di amnistia per la maggior parte dei crimini commessi sia dalla parte governativa sia dai ribelli durante la crisi ivoriana del 2000. La misura, che aveva per obiettivo di accelerare il processo di riconciliazione, era stata stabilita nell’accordo di pace tra l’allora Presidente Laurent Gbagbo e l’allora capo della ribellione e attuale presidente dell’Assemblea Nazionale Guillaume Soro, a Ouagadougou (Burkina Faso) il 4 marzo 2007. La nuova legge, non escludendo espressamente i crimini di guerra e i crimini contro l’umanità, aprì la via all’impunità di coloro che avevano commesso gravi violazioni dei diritti umani commesse durante le fasi di conflitto come i massacri commessi contro l’opposizione dal campo presidenziale, alle forze armate nazionali dai ribelli oppure tra i ribelli stessi. Di fatto, nessun reale processo né inchiesta nazionale o internazionale fu messa in piedi. Né sulla morte del Generale Guei, né sui morti della fossa comune di Yopougon, quartiere popolare di Abidjan (fossa trovata all’indomani della manifestazione pro-Ouattara per la richiesta della ripresa delle elezioni).

Tutta la storia ivoriana avvenuta a seguito di questa fase porta a constatare che un mero riconoscimento della competenza della Corte Penale Internazionale senza una reale collaborazione investigativa e politica da parte dello Stato, l’emanazione di una legge

2 - https://www.icc-cpi.int/NR/rdonlyres/CBE1F16B-5712-4452-87E7-4FD-DE5DD70D9/279779/ICDE1.pdf

3 - Forum National de la Réconciliation, Laurent Gbagbo p. 106

4 - Forum National de la Réconciliation, Laurent Gbagbo p. 108

5 - Forum National de la Réconciliation, Laurent Gbagbo p. 106

di amnistia e l’organizzazione di un forum per la riconciliazione non furono sufficienti alla Côte d’Ivoire per un’ uscita definitiva dalla guerra civile. Alla fine del Forum, Laurent Gbagbo chiamò al perdono sapendo di non poter chiedere di dimenticare 6. Il Direttorio del Forum fece 14 raccomandazioni. Nessuna di queste parlava in modo approfondito delle vittime. Nonostante si parlò di giustizia interna, non fu un tema sollevato dal Presidente della Repubblica che, al contrario, criticò il lavoro della giustizia incapace di trovare appunto i colpevoli della fossa comune trovata a Yopougon, senza fare però leva sulla Corte Penale Internazionale.

Il Presidente Alassane Ouattara ha optato per un altro approccio non appena insediato. In primo luogo, ha confermato il riconoscimento della competenza della Corte Penale Internazionale in una lettera diretta ai tre organi della Corte il 14 dicembre 2010, dando così la possibilità alla Corte penale di fare le sue indagini in Côte d’Ivoire. Ciò ha portato all’arresto 7 e al trasferimento di Laurent Gbagbo alla prigione di Scheveninghen (L’Aia) 8. Quest’ultimo è stato successivamente seguito dal suo braccio destro Blé Goudé a seguito del mandato d’arresto internazionale emesso il 21 dicembre 2011 9. Quest’ultimo è stato trasferito alla corte il 22 marzo 2014 10. Un mandato d’arresto è stato lanciato contro Mme Simone Gbagbo, l’ex first lady emesso 22 febbraio 2012 11. Ulteriori indagini della CPI sarebbero in corso contro i comandanti pro-Ouattara ma per ora nessun mandato d’arresto è stato emesso contro di loro.

Inoltre, l’istituzione di una Commissione Dialogo Verità e Riconciliazione (CDVR) è stata per l’attuale Presidente Ouattara, un obiettivo importante. La commissione, creata il 13 maggio 2011, ha iniziato i suoi lavori nel settembre 2011 con il compito di stabilire le cause delle crisi passate e di fare la luce su tutte le violazioni gravi dei diritti dell’uomo commesse tra il 1990 e il 2011, cioè dall’inizio del multipartitismo fino alla crisi post-elettorale. La commissione ha ricevuto mandato per operare in tutta indipendenza alla riconciliazione e al rafforzamento della coesione sociale tra tutte le comunità viventi in Côte d’Ivoire. Le competenze della Commissione erano tra l’altro di adottare delle misure d’istruzione, di valutare se sentire le testimonianze delle vittime pubblicamente o in via privata, di procurarsi tutti

6 - Forum National de la Réconciliation, Laurent Gbagbo p. 110

7 - https://www.icc-cpi.int/iccdocs/doc/doc1276752.pdf

8 - https://www.icc-cpi.int/fr_menus/icc/situations%20and%20cases/situations/icc0211/Pages/situation%20index.aspx

9 - https://www.icc-cpi.int/iccdocs/doc/doc1292853.pdf

10 - https://www.icc-cpi.int/fr_menus/icc/situations%20and%20cases/situations/icc0211/Pages/situation%20index.aspx

11 - https://www.icc-cpi.int/iccdocs/doc/doc1344440.pdf

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Africa e Medio Oriente

i documenti necessari per stabilire la verità. Con decreto presidenziale del 24 marzo 2015 12, alla fine del mandato e alla presentazione delle conclusioni dei lavori della CDVR è subentrata la commissione Nazionale per la Riconciliazione e per l’indennizzo delle vittime delle crisi verificatesi in Côte d’Ivoire. La Conariv ha per missione di completare il lavoro della CDVR, sia per la ricerca e il censimento delle vittime e degli aventi diritto non ancora censiti, sia per fare delle proposte pertinenti in vista della riparazione dei pregiudizi consecutivi alle violazioni delle persone ed ai beni causate durante le crisi in Côte d’Ivoire 13.

Visto che la crisi post elettorale vide il moltiplicarsi di rapporti da parte di organizzazioni di difesa dei diritti dell’uomo nazionali ed internazionali, il Presidente Ouattara decise di istituire la Commissione Nazionale d’Inchiesta (CNE) incaricata di condurre su tutto il territorio nazionale delle inchieste non giudiziarie relativamente alle violazioni dei diritti dell’uomo e del diritto internazionale umanitario 14. Le inchieste portavano sulle violazioni commesse nel periodo dal 31 ottobre 2010 al 15 maggio 2011. La CNE era composta da 17 membri di cui un presidente della stessa, tutti di nomina presidenziale. I commissari rappresentano il governo, l’Assemblea Nazionale, gli ordini professionali e le vittime 15. In aggiunta a queste iniziative prese dal governo ivoriano per la ricerca e la ricostruzione della pace, nel dicembre 2012, l’Assemblea Nazionale ha votato una legge che prevede la ratificazione dello Statuto di Roma (statuto della corte penale internazionale).

Nonostante tutte queste azioni lodevoli, una grande parte della popolazione continua ad avere un sentimento di ingiustizia, tanto da parlare di giustizia dei vincitori. Nel suo rapporto intitolato “ Côte d’Ivoire, choisir entre la justice et l’impunité” 16 la Federazione Ivoriana dei Diritti dell’Uomo disegna un quadro al quanto negativo. Secondo quest’ultima, solo una reale volontà politica ai più alti livelli dello Stato sarà in grado di superare i blocchi, permettendo da un lato di giudicare i militanti pro-Gbagbo in modo irreprensibile e fare vedere cosi il ruolo del FPI, partito di Laurent Gbagbo e dei suoi alleati nei crimini commessi durante la crisi post-elettorale; ma, dall’altro lato, pure di superare l’impunità degli elementi delle FRCI (Forces Republicaines de Côte d’Ivoire) che si sono resi responsabili di crimini internazionali 17.

Diversi tentativi di rovesciare il potere attuale sono

12 - Ordonnance N°2015 del 24 marzo 2015

13 - http://conariv.ci/index.php/explore

14 - Decreto N° 2011- 176 in data del 20 luglio 2011

15 - https://www.fidh.org/IMG/pdf/cne_resume_rapport_d_enquete.pdf

16 - https://www.fidh.org/IMG/pdf/co_te_d_ivoire_652f_web.pdf

17 - Idem , p.5

stati effettuati dagli presunti esponenti pro-Gbagbo. L’esercito, principalmente nella frontiera con la Liberia, subisce dei attacchi mortali. Grazie ad una riforma dell’esercito e delle forze dell’ordine, questi riescono a fare fronte a questi attacchi. Ma ciò dimostra come l’adozione di sole iniziative di peacebuilding non sono mai sufficienti. La crescita economica e le buone prospettive di uno sviluppo sostanziale sono fondamentali affinché le misure di peace building possano dare i loro frutti. Considerando per esempio il settore della giustizia in Côte d’Ivoire, i mezzi devono essere messi a disposizione della giustizia per svolgere le sue indagini. La giustizia deve essere effettivamente indipendente e non essere soggetta a pressioni di nessun tipo. Nello specifico, la posizione di massimo prestigio degli ex comandanti della ribellione non deve impedire che questi siano ascoltati, e in caso, portati davanti al giudice per il loro ruolo durante le varie crisi.

La giustizia ivoriana dovrebbe essere coadiuvata da esperti internazionali per la buona conduzione dei processi relativi ai crimini di guerra e le violazione dei diritti umani. In ogni caso, prima di criticare le autorità ivoriane per la lentezza dei processi degli esponenti pro-Ouattara, bisogna considerare che la stessa Corte Penale Internazionale non ha emesso nessuno mandato d’arresto contro i pro-Ouattara dopo più di cinque anni di inchieste. Ciò vuol dire che tanto per i tribunali internazionali quanto per quelli nazionali la giustizia ha i suoi tempi.

Le organizzazioni internazionali, dal canto loro, non devono limitarsi ad accusare e criticare. In effetti i loro rapporti, seppur utilissimi e fondamentali per la denuncia di situazioni spesso taciute, a volte possono essere oggetto di una cattiva interpretazione e esacerbare le tensioni. “I vincitori”, allo stesso modo, devono mantenere un profilo basso affinché la riconciliazione sia possibile.

Lo svolgimento libero e pacifico delle elezioni presidenziali tenutesi in Côte d’Ivoire nel mese di novembre 2015 fa ben sperare, se non proprio ad un superamento definitivo della crisi, sicuramente a un successo delle misure di peacebuilding adottate dal governo. I candidati sconfitti hanno immediatamente riconosciuto la vittoria del vincitore. Si può dire che dopo più di 15 anni di crisi, la Côte d’Ivoire ha imboccato la via della normalizzazione anche se molto deve essere ancora fatto.

Mouhamed CisséConsulente per i diritti umani del

Comune di Palermo

Direttore della MhD Consulting

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APPROFONDIMENTI

GENNAIO 2016 N. 1 / A.2 - Voci9

Europa e Asia Centrale

La marcia verso la democrazia ed il rispetto dei diritti umani è, purtroppo, una strada ancora lunga da percorrere in buona parte del mondo. Sono tanti i paesi in cui le libertà fondamentali sono poco rispettate, oppure totalmente calpestate. Malgrado ciò, in molti di quei paesi sono sorte Organizzazioni per la difesa dei Diritti Umani in cui operano donne ed uomini coraggiosi che affrontano quotidianamente i regimi totalitari in nome della libertà, del diritto, della giustizia, subendo violenze, vessazioni, privazioni della libertà e perfino la perdita della vita. Vogliamo qui rendere omaggio ad alcuni di questi coraggiosi, che operano o hanno operato in Europa, raccontandone, sia pure in breve, le vicende sempre drammatiche e talvolta tragiche.

Fra i paesi europei, un triste primato di persecuzioni e perfino di uccisioni di difensori dei diritti umani, spetta alla Federazione Russa, ricordando che fra i difensori dei diritti umani e fra i giornalisti indipendenti, certamente decine e probabilmente centinaia sono quelli che sono rimasti uccisi da un regime intollerante nei confronti del dissenso. Due nomi spiccano fra tutti, sono quelli di due donne barbaramente uccise: Anna Politkovskaia e Natalia Estemirova.

Anna Politkovskaia era una giornalista che aveva criticato senza timori il governo russo durante il conflitto ceceno del 1999, accusandolo di violazioni dei diritti umani, come tortura, violenze e sparizioni. Per tale suo giornalismo libero aveva subito gravi minacce in Russia, mentre riceveva riconoscimenti a livello internazionale, fra cui il premio per il giornalismo in difesa dei diritti umani di Amnesty International (Global Award for Human Rights Journalism – 2001).

Anche negli anni successivi, il suo giornalismo di denuncia nei confronti del regime russo non ebbe

flessioni, malgrado continuasse a subire vessazioni e perfino l’arresto, fino a giungere alla conclusione tragica della sua vita con l’uccisione, avvenuta nell’ottobre del 2006.

Ma la vicenda non finì con la sua morte, infatti negli anni successivi al suo omicidio, alcuni presunti colpevoli, giudicati in due processi, furono assolti o perché ritenuti estranei alla vicenda o perché non erano state raccolte prove sufficienti.

Finalmente nel giugno del 2014, otto anni dopo l’omicidio, in seguito ad un nuovo processo, il terzo, si è giunti alla condanna di cinque accusati, due all’ergastolo e tre a pene minori. Un sesto accusato è stato condannato in un processo separato. Sono in corso i processi d’appello.

Queste condanne sono da considerarsi soltanto un parziale successo della giustizia, visto che non è stato possibile risalire ai mandanti dell’assassinio, in relazione anche all’atteggiamento degli imputati, che si sono sempre dichiarati innocenti.

Natalia Estemirova era un’attivista per i diritti umani che aveva affiancato Anna Politkovskaia nella sua attività di denuncia delle violazioni dei diritti umani compiute durante il secondo conflitto ceceno, quello del 1999, e in relazione a ciò aveva subito ripetutamente vessazioni e gravi minacce che l’avevano anche costretta, per un breve periodo, a fuggire all’estero.

Tornata coraggiosamente in Cecenia, nel luglio del 2009 fu rapita all’uscita dalla sua abitazione. Qualche giorno dopo fu rinvenuto il suo cadavere. Le avevano sparato.

Purtroppo dopo oltre sei anni dall’omicidio nessuna luce è stata fatta e l’inchiesta è ancora al punto di

STORIE DI DIFENSORI DEI DIRITTI UMANI IN EUROPAdi Giuseppe Provenza

Anna Politkovskaia Natalia Estemirova

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Voci - GENNAIO 2016 N. 1 / A.2 10

Europa e Asia Centrale

partenza, malgrado non siano mai venute meno le pressioni sulle autorità da parte delle maggiori ONG per i Diritti Umani, in primo luogo Amnesty International, perché i colpevoli vengano individuati e sottoposti ad un giusto processo.

Fra i tanti difensori dei diritti umani che operano in Russia, particolare clamore internazionale hanno suscitato Yevgeniy Vitishko e Dmitrii Kraiukhin.

Yevgeniy Vitishko è un ambientalista che, per almeno dieci anni, ha condotto campagne per la protezione della natura che l’hanno portato a scontrarsi con gli interessi di grosse compagnie, in particolare del settore petrolifero. Ma ciò che probabilmente gli ha causato i più gravi guai con la giustizia è stato l’aver pesantemente criticato i giochi olimpici invernali di Sochi, del 2014, facendo riferimento sia ai danni all’ambiente, sia alla corruzione nella realizzazione delle relative opere.

Per effetto di questa sua lunga battaglia in difesa della salute pubblica, nel febbraio del 2014 fu arrestato e condannato, una prima volta a 15 giorni di carcere e successivamente a tre anni con accuse pretestuose di teppismo, di aver spruzzato con lo spray uno slogan su un muro e di aver bestemmiato in pubblico.

Le sue vicissitudini non erano però finite. La sua detenzione si è rivelata, infatti, uno strumento per vessarlo e tormentarlo. Gli sono state mosse a più riprese contestazioni tanto ridicole ed irrilevanti da far apparire con chiarezza l’intento di rendergli dura la vita perfino in carcere.

Tuttavia il sostegno e la solidarietà delle ONG per i diritti umani del mondo libero, a cominciare da Amnesty International, ha, anche nel caso Vitishko, giocato un ruolo determinante. Va segnalato, in particolare, che Amnesty International, Sezione Italiana, ha raccolto, fra marzo ed aprile 2015, numerose firme su una petizione con cui si chiedeva alle autorità della Federazione Russa il rilascio di Vitishko, adottato dalla Organizzazione quale prigioniero di coscienza,

suscitando, sembra, l’intervento dello stesso presidente Putin. L’effetto delle pressioni pervenute da ogni parte dell’Europa libera si è presto fatto sentire. Nel novembre del 2015, quando Vitishko aveva scontato circa la metà della pena, il Tribunale competente ne ha ordinato la scarcerazione.

Dmitrii Kraiukhin è un giornalista che ha dedicato la propria attività professionale alla denuncia degli atti di intolleranza razziale.

Già da anni questa sua attività giornalistica gli aveva procurato ripetutamente serie minacce da parte di aderenti a formazioni politiche neo-naziste, tanto che nel 2004 Amnesty International aveva rivolto un appello urgente (EUR 46/042/2004) alla Procura della sua regione, Orel, affinché avviasse un’inchiesta in merito ed assicurasse a Kraiukhin adeguata protezione.

Il culmine degli attacchi nei suoi confronti si raggiunse il 1° agosto del 2008, quando venne dato fuoco al suo appartamento mentre i suoi familiari erano in casa, bloccando la porta d’ingresso per impedirne la fuga. Per fortuna i suoi familiari riuscirono a chiamare i vigili del fuoco in tempo per salvarsi.

A distanza di anni, malgrado gli appelli rivolti alle autorità da Amnesty International, non si è ancora giunti alla individuazione, da parte della Procura, dei colpevoli dell’incendio e di tutte le altre intimidazioni nei riguardi di Kraiukhin.

Negli ultimi anni un altro paese, come la Federazione Russa a cavallo fra Europa e Russia, ha intrapreso una strada che la allontana sempre più dal rispetto dei diritti umani, la Turchia, dove solo pochi giorni fa è rimasto ucciso l’avvocato curdo Tahir Elçi, e dove da anni opera, e viene sistematicamente vessata, l’avvocata Eren Keskin.

Tahir Elçi era un avvocato curdo ben noto per il suo impegno nella difesa dei diritti umani dentro e fuori dei tribunali. Fu lui, infatti, a contribuire a far nascere la sezione turca di Amnesty International.

Yevgeniy Vitishko Dmitrii Kraiukhin

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Europa e Asia Centrale

Da almeno un quarto di secolo Tahir Elçi si dedicava alla difesa di vittime di detenzioni arbitrarie e torture, rischiando, spesso, la sua stessa incolumità.

Nell’ottobre scorso le minacce nei suoi confronti raggiunsero il culmine dopo aver affermato che il PKK non è un’organizzazione terroristica, ma un movimento politico armato, criticando in questo modo il governo turco e la sua intransigenza nei confronti della popolazione curda, notoriamente protesa alla conquista dell’unità nazionale (essendo divisa fra Turchia, Iraq e Siria) in un paese indipendente.

In seguito a queste sue affermazioni era stato oggetto di una pesante campagna intimidatoria attraverso i social media anche con minacce di morte ed aveva persino subito l’arresto per “propaganda per un’organizzazione terroristica”.

Il 28 novembre la campagna persecutoria nei suoi confronti ha toccato il culmine con il suo assassinio avvenuto al termine di una sua conferenza stampa nella città dove viveva e svolgeva la sua attività di avvocato, Diyarbakır, importante centro a maggioranza curda del sud-est della Turchia.

Eren Keskin è un’avvocata che da trent’anni si dedica alla difesa dei diritti umani in Turchia, essendo anche importante esponente dell’IHD, una delle maggiori organizzazioni per la difesa dei diritti umani del suo paese. In particolare la sua attività è stata dedicata alla difesa delle donne rimaste vittime di stupri e violenze e alla difesa dei curdi.

Questa sua ammirevole dedizione alla difesa dei diritti umani le ha procurato, negli anni, numerose vessazioni, fino alla vera e propria persecuzione politica da parte dell’autorità turca, essendo stata condannata a pene detentive, poi commutate in pene pecuniarie o sospese, per “reati d’opinione”, ossia per aver espresso il proprio pensiero riguardo agli atteggiamenti dell’esercito turco nei confronti dei curdi e, in particolare, delle donne curde, spesso vittime di stupri.

Quel che è più grave, se possibile, è che lo stesso ordine degli avvocati della Turchia l’abbia anche sospesa dall’attività professionale in seguito alle condanne subite per semplici motivi d’opinione. In merito si attende che diventi esecutiva la condanna penale e l’esito del ricorso di Eren Keskin.

Sulla vicenda si è anche pronunciata la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che ha accusato la Turchia di aver violato l’articolo 10 della Convenzione Europea per i Diritti dell’Uomo, che sancisce il diritto alla libertà d’espressione.

Altri paesi europei “vantano” il poco pregevole primato nel numero dei difensori dei diritti umani perseguitati, paesi come la Bielorussia, o rientranti politicamente nell’area Europea, in relazione alla loro provenienza dalla disciolta Unione Sovietica, come l’Uzbekistan ed il Kirghizistan, ma, per motivi di spazio, vogliamo qui limitarci a citare due rilevanti casi riguardanti un paese che, sia pur piccolo, riveste una particolare importanza economica essendo un produttore di petrolio e di gas che gli assicurano una indebita tolleranza internazionale nei riguardi delle rilevanti violazioni dei diritti umani di cui il suo regime politico si rende responsabile, l’Azerbaijan. Fra i tanti, troppi, difensori dei diritti umani vittime del duro regime azero, riteniamo particolarmente degni di menzione i casi dei coniugi Leyla e Arif Yunus e di Khadija Ismayilova.

Leyla Yunus è presidente della ONG “Istituto per la Pace e la Democrazia” fin dalla sua fondazione nel 1995. Il marito, Arif, è attivista della stessa organizzazione.

L’Istituto per la Pace e la Democrazia ha come scopo fondamentale la lotta contro ogni forma di violazione dei diritti umani: persecuzioni politiche, violenza sulle donne, sgomberi illegali, corruzione. Si è inoltre prodigato per la soluzione pacifica del conflitto fra Azerbaijan ed Armenia per il Nagorno-Karabakh, la regione contesa fra i due paesi. È proprio quest’ultima attività che ha fornito alle autorità azere lo spunto per

Tahir Elçi Eren Keskin

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Voci - GENNAIO 2016 N. 1 / A.2 12

Europa e Asia Centrale

formulare l’accusa più grave, quella di tradimento nei confronti dei coniugi Yunus, a cui si aggiungono quelle per evasione fiscale e frode.

In relazione a queste accuse Leyla ed Arif Yunus furono arrestati rispettivamente il 30 luglio 2014 ed il 5 agosto dello stesso anno e il 13 agosto del 2015 sono stati rispettivamente condannati a otto anni e mezzo e a sette anni di carcere.

Alla gravità della detenzione di due attivisti dei diritti umani con accuse del tutto prive di fondamento ed inventate soltanto per impedire la formulazione di qualsiasi critica al governo, si aggiunge lo stato di salute di entrambi i coniugi. Leyla soffre di diabete ed Arif di pressione alta ed entrambi avrebbero bisogno di cure specialistiche non possibili in carcere.

Proprio in relazione alle loro precarie condizioni di salute, entrambi i coniugi a fine 2015 sono stati rilasciati in libertà provvisoria

Khadija Ismayilova è una giornalista di Radio Free Europe che ha, negli ultimi anni, ripetutamente denunciato le violazioni dei diritti umani in Azerbaijan e la corruzione della famiglia del presidente azero Ilham Aliyev.

Ciò le ha procurato svariate minacce scritte. Fra le altre, particolarmente rilevante fu quella ricevuta nel 2012, quando sconosciuti installarono una telecamera nascosta nel suo appartamento e le inviarono immagini di suoi rapporti sessuali con la minaccia di renderle pubbliche se non avesse abbandonato la sua attività giornalistica. Lei si rifiutò e rese pubblico il ricatto.

Successivamente fu avviato nei suoi confronti un procedimento penale con l’accusa di diffamazione.

Nel dicembre del 2014 Khadija Ismayilova fu arrestata con l’accusa di aver istigato al suicidio il

suo ex collega e compagno. L’accusa cadde durante il processo in seguito alle dichiarazioni a discolpa pronunciate dalla presunta vittima.

In seguito a quest’ultimo episodio Amnesty International, promosse un’azione urgente (EUR 55/023/2014), considerando Khadija Ismayilova prigioniero di coscienza, vittima di accuse motivate politicamente, al fine di mettere a tacere il suo giornalismo di denuncia.

Il 1° settembre 2015 Khadija Ismayilova è stata condannata a sette anni e mezzo di carcere per evasione fiscale, appropriazione indebita, abuso di potere ed attività economica illegale, accuse comunemente utilizzate dal regime azero nei confronti dei difensori dei diritti umani e dei dissidenti in genere.

Malgrado le evidenti e ben note violazioni dei diritti umani da parte dell’Azerbaijan, quest’ultimo paese continua ad aver assegnate importanti manifestazioni europee.

Ha ospitato nel giugno 2015 i primi Giochi Europei, nel 2016 ospiterà il suo primo gran premio di formula 1, nel 2020 ospiterà i campionati europei di calcio.

Come è possibile tutto ciò? La spiegazione sta nell’importanza che hanno ormai assunto per l’Europa il petrolio ed il metano dell’Azerbaijan, in concorrenza con quello proveniente dalla Russia, a dimostrazione che, per molti, in posizioni di potere, rivestono più importanza le valutazioni economiche piuttosto che il rispetto per i diritti umani, e quindi la dignità dell’uomo.

Giuseppe ProvenzaResponsabile Gruppo Italia 243

di Amnesty International Sezione Italiana

Membro del Coordinamento Europa di Amnesty International Sezione Italiana

Leyla e Arif Yunus Khadija Ismayilova

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APPROFONDIMENTI

GENNAIO 2016 N. 1 / A.2 - Voci13

Europa e Asia Centrale

Andrey Mironov era giornalista, ex-dissidente e prigioniero politico sovietico, appartenente all’associazione Memorial.

L’avevo incontrato a Mosca alcuni anni fa nella sede di Memorial, dove si stava allestendo il museo del Gulag e Andrey faceva da interprete alla direttrice Svetlana Fedotova.

Raccontò che dopo un anno di pedinamenti, nel 1985, fu arrestato dalla polizia segreta Kgb con l’accusa di aver rivelato una notevole diminuzione dell’estrazione di petrolio, da cui l’economia sovietica dipendeva totalmente, di aver distribuito clandestinamente (samizdat) “I racconti della Kolyma” di Varlam Salamov e criticato il governo, in particolare riguardo l’invasione dell’Afghanistan e della Cecoslovacchia e la mancanza di democrazia nell’Urss.

Durante il processo venne simulata un’impiccagione, che gli fece perdere i sensi. Il suo processo si concluse con una condanna a quattro anni di detenzione e tre di esilio interno per propaganda sovversiva antisovietica in base all’art. 70 del codice penale. La condanna portava la firma di Gorbaciov (ritrovata negli archivi del Kgb, dopo il golpe di stato fallito nel 1991).

Spedito in un campo di lavoro (Glavnoe upravlenie ispravitelno-trudovykh lagerej, “Direzione principale dei campi di lavoro correttivi”) destinato ad autori di reati contro lo stato considerati particolarmente pericolosi, lo Zh Kh 385/3-5 in Mordovia, a circa 600 chilometri a est di Mosca, fu rinchiuso in cella di punizione per sei volte. Il cibo che riceveva era immangiabile e pieno di vermi e l’acqua sporca. Gli impedivano di dormire prima delle udienze in tribunale e lo lasciavano al freddo insopportabile nelle celle di punizione.

Nel 1986 viene liberato quando, a seguito dell’incontro tra il presidente statunitense Reagan e quello sovietico Gorbaciov, si decise la scarcerazione di 140 detenuti, tra cui Mironov.

Dopo la liberazione, cominciò il suo lavoro in difesa dei diritti umani.

“Non credo si possa difendere i diritti umani come un concetto astratto, ma solo come diritti di una persona concreta. Io mi concentro sui singoli casi, uno per uno”.

Dal 1991 iniziò a lavorare come ricercatore specializzato in diritti umani per diversi media e dall’anno

successivo lavorò in diverse zone di conflitto, come Nagorno Karabakh, Tagikistan, Cecenia e Afghanistan.

Durante la guerra in Cecenia, Mironov organizzò incontri tra rappresentanti ceceni e deputati russi per una soluzione pacifica del conflitto. Le sue iniziative furono in contrasto con i piani governativi di reprimere con la forza l’insurrezione.

Nel 2003, Andrei Mironov fu nuovamente preso di mira: a Mosca, il 3 luglio, venne aggredito. Il ministero degli Interni bloccò le indagini nonostante le prove rivelassero l’identità dell’aggressore.

Parlava bene l’italiano, l’aveva imparato frequentando studenti italiani all’istituto Puskin di Mosca, in Italia aveva numerosi amici, vi era venuto più volte. Con la Sezione Nazionale organizzammo la sua visita a diversi gruppi.

Avevamo lunghe telefonate, mi aggiornava sulla situazione in Russia, sugli arresti illegali, sui processi iniqui come quelli contro i manifestanti di piazza Bolotnaya del 7 maggio 2012 per la rielezione di Putin, ammirava il coraggio delle Pussy Riot, denunciava l’invio di Mikhail Kosenko in un ospedale psichiatrico, come nel periodo sovietico, era preoccupato per il lungo sciopero della fame di Sergei Krivov. Ma parlavamo anche di storia, di letteratura, del futurismo, dei profughi giuliani e dalmati... era interessato a tutto.

Nei primi mesi del 2014 era stato in Crimea, a Kiev, brevemente in Italia, e poi di nuovo in Ucraina, nella zona di Sloviansk dove ha trovato la morte, il 24 maggio, con il fotoreporter italiano Andrea Rocchelli.

Un uomo pulito, coraggioso, con un’indole mite e pacifista, una vita dedicata agli altri senza mai apparire. La Sezione Italiana gli ha dedicato l’archivio storico, sono stati organizzati eventi. Come per la Politkovskaya e la Estemirova continuiamo a ricordare Andrey e seguire l’esempio della sua integrità, attivismo instancabile, stile di vita frugale.

IN MEMORIA DI ANDREY MIRONOVdi Giuliano Prandini

Giuliano PrandiniMembro del Coordinamento Europa della Sezione Italiana di Amnesty International

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APPROFONDIMENTI

Voci - GENNAIO 2016 N. 1 / A.2 14

Estremo Oriente

CINA: lA DIFFICIlE PROFESSIONE DI AVVOCATOdi Andrea Pira

Quando in un lancio su Twitter uno degli organi di stampa ufficiali cinesi ha messo tra virgolette il termine “rule of law”, tra i commenti non è mancata l’ironia. D’altra parte, almeno dal punto di vista dell’osservatore occidentale, quando si ha a che fare con il sistema giudiziario della Repubblica popolare, più che di Stato di diritto, sarebbe meglio parlare di “rule by law”, ossia di un sistema governato secondo le leggi in vigore. E a volte anche queste sono disattese e infrante dalla stessa autorità.

D’altronde, “in un sistema dove anche gli avvocati finiscono per essere torturati dalla polizia, che speranza possono avere gli imputati comuni?”, si chiede Patrick Poon, ricercatore specializzato sulla realtà cinese di Amnesty International. La considerazione è a commento dell’ultimo rapporto dell’organizzazione sulla pratica ancora diffusa in Cina di estorcere confessioni ai sospettati anche attraverso la tortura. No End in Sight, pubblicato a metà novembre, ha messo in evidenza come le riforme della giustizia sbandierate da Pechino non stiano avendo effetto nello sradicare abusi e violenza, nonostante, almeno nelle intenzioni, siano state concepite per fare passi avanti nella tutela degli imputati. Il governo cinese rimarca invece dal canto suo il sostegno dato agli avvocati nello svolgere il proprio dovere “in accordo con la legge”.

Le testimonianze raccolte da Amnesty raccontano però un’ altra storia. Su 37 avvocati intervistati dall’organizzazione, dieci sono stati vittime di torture o violenza. I principali bersagli sono gli esponenti del cosiddetto movimento weiquan (diritto alla difesa). Si tratta degli avvocati impegnati nel difendere i cittadini dall’arbitrarietà del potere o dall’uso improprio della giustizia. Diversi tra gli intervistati hanno spiegato di essere diventati a loro volta vittime per aver cercato di indagare sulle violenze subite dai propri assistiti. L’avvocato pechinese Zhang Keke ha raccontato di aver subito un fermo di 24 ore il 13 maggio del 2013, per aver preso parte a un’indagine assieme ad alcuni colleghi su un centro a Ziyang, nella provincia del Sichuan, dove sarebbero stati rinchiusi diversi membri del Falun Gong e petizionisti, ossia cittadini che, avendo subito un torto magari a livello locale, cercano di portare il loro caso fino a un’autorità di più alto livello e per questo sono spesso fermati o imprigionati senza processo.

Zhang ha denunciato di essere stato picchiato dalla polizia e, una volta portato al commissariato locale, sottoposto a privazione del sonno e interrogato per otto

ore consecutive. Sulla stessa linea è la testimonianza di Tang Jitian, ex procuratore e avvocato di Pechino, che spiega di aver trattato diversi casi di confessioni forzate e di essere stato torturato a sua volta tra il 2011, nel periodo della cosiddetta Rivoluzione dei gelsomini in Cina, e il 2014. Uno degli episodi denunciati risale a marzo del 2014, quando fu arrestato e picchiato assieme ad altri colleghi (Jiang Tianyong, Wang Chegn e Zhang Junjie) durante un’inchiesta su una cosiddetta black jail, non vere e proprie prigioni, ma luoghi, spesso scantinati, alberghi, residenze abbandonati, usati per far sparire le persone scomode.

Nella Cina dell’era Xi Jinping si sta assistendo a uno strano cortocircuito. Nel corso degli ultimi anni sono state prese diverse iniziative per avvicinare il Paese allo Stato di diritto o a essere una nazione governata con il diritto. Nel 2013, ad esempio, la Corte suprema ha stabilito che nei processi le confessioni estorte con la tortura non possono essere utilizzate come prova. Allo stesso tempo va avanti il tentativo di affrancare i tribunali dall’ingerenza dei funzionari e dei politici locali. L’intero sistema risente però della mancanza di una separazione tra poteri e, in particolare, dal potere principale: quello del Partito comunista. Tant’è che negli ultimi anni si è sviluppata una profonda discussione attorno al costituzionalismo, ossia sulla

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GENNAIO 2016 N. 1 / A.2 - Voci15

Estremo Oriente

necessità che l’autorità rispetti i diritti sanciti dalla Carta fondamentale, spesso disattesi nella pratica.

La Cina si muove inoltre in un nuovo contesto. La Repubblica popolare sembra aver abbandonato la reticenza della passata amministrazione a guida Hu Jintao e Wen Jiabao e sta rivendicando con maggior vigore il proprio ruolo. A questo corrisponde uno rinnovato sforzo riformista, in particolare in campo economico. L’altra priorità della dirigenza insediatasi a novembre del 2012 è la lotta contro la corruzione. La campagna contro il malaffare è in parte dovuta alla necessità di ripulire l’immagine del Partito, per non intaccarne la legittimità. Non di rado si è però anche rivelato uno strumento di lotta politica, come dimostrato dall’epurazione di Zhou Yongkang, ex componente del passato comitato permanente del Pcc, ossia il gotha del potere cinese, e zar della sicurezza interna, attorno al quale si era coagulata una delle fazioni ostili alla dirigenza Xi. Terzo pilastro è la stretta contro il dissenso. L’ondata di arresti, fermi, interrogatori contro gli avvocati impegnati in casi “sensibili” e attivisti per i diritti umani e civili, che ha segnato questa estate, è parte di questa strategia di mantenimento dell’ordine.

Nel cosiddetto “lunedì nero” del 13 luglio, l’ondata repressiva si è abbattuta su centinaia di cittadini. Al momento in cui questo articolo è stato scritto, secondo i dati del China Human Rights Lawyers Concern Group, sono almeno 307 le persone cui è stato vietato l’espatrio o che sono state arrestate, interrogate, convocate dalla polizia, messe agli arresti domiciliari o sotto sorveglianza, oppure sono scomparse. Non si tratta soltanto di attivisti, avvocati o dipendenti di studi legali. Le misure ristrettive hanno infatti toccato anche i loro familiari. Nei giorni immediatamente successivi il Quotidiano del popolo, organo ufficiale del Pcc, ha motivato fermi e arresti con ipotetici complotti per organizzare proteste che avrebbero potuto turbare l’ordine pubblico. Molti tra gli avvocati coinvolti, ricordava il Wall Street Journal, erano tra i firmatari di una lettera per chiedere il rilascio di Wang Yu, un loro collega scomparso in quei giorni e ritenuto sotto detenzione.

L’intera vicenda si sovrapponeva ai timori per le conseguenze sul piano politico dell’esplosione della bolla azionaria. Nei mesi precedenti, anche su sollecitazione del governo, i piccoli risparmiatori erano stati il motore della crescita dei listini di Shanghai e Shenzhen, crollati però del 40% tra giugno e luglio. Pechino è pertanto dovuta intervenire per risollevare le borse, dando tuttavia l’impressione di non essere completamente in grado di gestire la situazione e tutelare i propri cittadini.

Risale invece allo scorso novembre l’ennesimo rinvio del processo contro Pu Zhiqiang. Il caso è considerato alla stregua di un simbolo della stretta contro gli attivisti della società civile. Rinomato avvocato, che tra gli altri ha difeso l’artista e dissidente Ai Weiwei, Pu è da maggio del 2014 agli arresti in attesa di processo, dopo aver partecipato a un celebrazione per ricordare i 25 anni dai fatti di piazza Tian’anmen. Le accuse nei suoi confronti, per le quali rischia fino a otto anni di carcere, sono di insulti e incitamento all’odio etnico. Pu, ricorda il South China Moring Post, è infatti critico verso le politiche del governo centrale in Tibet e, soprattutto nello Xinjiang, che considera causa del risentimento della minoranza musulmana e turcofona degli uiguri e che possono aver fomentato l’insorgere della violenza.

L’avvocato non ha, inoltre, mai lesinato stoccate al Partito stesso. “Dal vertice alla base, non può sopravvivere senza bugie”, ha commentato su internet, puntando poi l’attenzione su specifici funzionari: abbastanza perché le autorità lo ritengano un pericolo per l’ordine sociale, da tenere quindi sotto controllo. I continui rinvii sono sembrati quindi un modo per prolungarne la detenzione. Alla fine Pu è andato a processo il 14 dicembre e il 22 è arrivata la condanna a 3 anni con sospensione della pena, più lieve degli 8 anni di detenzione cui l’avvocato sarebbe potuto andare incontro. Ma la “clemenza” dei giudici ha un suo lato oscuro. Come sottolineato in un commento sul sito China File dal professore Hu Yong dell’università di Pechino, la condanna porterà infatti con sé la probabile revoca dell’autorizzazione a esercitare la professione impedendo a Pu di continuare a battersi per la libertà di parola come fatto per un decennio.

Quando non agiscono con il pugno di ferro, le autorità giocano con le regole per limitare gli spazi di agibilità. L’ultima proposta in ordine di tempo illustrata durante un simposio a Guanzhou dal giurista dell’università Renmin di Pechino, Chen Weidong, è di stilare una classifica dei legali, cosicché soltanto quelli di più alto livello possano essere assegnati ai casi più importanti nei tribunali di più alto grado. Per il professor Chen gli avvocati dovrebbero, inoltre, aver specifiche qualifiche per difendere determinati clienti, ad esempio imputati che rischiano la pena di morte. Per i fautori di tali provvedimenti, le novità servirebbero a garantire che a occuparsi dei casi più delicati sino i migliori. Per i critici invece è un modo per escludere i legali non graditi all’autorità.

Andrea PiraGiornalista Sinologo, ha vissuto in Cina. Scrive su varie testate su diritti umani,

libertà civili e cooperazione

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L’UNICEF Italia ha lanciato l’appello “Non è un viaggio. E’ una fuga. AIUTA I BAMBINI IN PERICOLO” a sostegno dei bambini rifugiati e migranti, per proteggere e aiutare tutti i bambini in fuga e in cerca di protezione.”

Fino ad ora, per quest’anno, i bambini costituiscono già un quarto di tutte le persone alla ricerca di asilo in Europa tra gennaio e luglio 2015, 133.000 bambini hanno cercato asilo nell’Unione Europea in media 19.00 bambini al mese, la maggior parte provengono da Siria, Iraq e Afghanistan – un aumento di quasi il 75% rispetto al 2014.

“Proteggere i bambini rifugiati e migranti da pericoli, in particolar modo con l’arrivo dell’inverno, deve essere la questione principale della risposta dell’Europa. Tutti questi bambini, che hanno già sofferto tanto, hanno il diritto di essere protetti e che la loro dignità venga rispettata. Adesso è il tempo di rendere concreti questi diritti.”

Le azioni più urgenti per i bambini sono:

f Tenere le famiglie insieme in ogni momento, attraverso programmi di localizzazione e ricongiungimento familiare per i bambini che arrivano non accompagnati o che sono stati separati durante il viaggio.

f Accesso alle procedure di asilo, che devono essere intraprese dando sempre priorità al superiore interesse dei bambini.

f Garantire supporto professionale ai bambini e alle loro famiglie, che tuteli i diritti dell’infanzia, qualunque sia il loro status legale e durante ogni passo del percorso.

f Investimenti economici sufficienti nei sistemi di protezione dell’infanzia, nei servizi e nelle risorse, cosicché i bambini vegano supportati da esperti per il benessere dei minorenni, con gli stessi alti standard delle cure che vengono garantite ai bambini degli Stati Membri.

f Impegni continui per ridurre la minaccia di traffico e altri rischi. Tutti i bambini, soprattutto quelli non accompagnati o separati dalle loro famiglie, sono più vulnerabili a sfruttamento, violenza e abuso, in transito e una volta arrivati nei paesi di destinazione.

f Progettare programmi di trasferimento e reinsediamento e strutture di accoglienza che siano a misura di bambino; che comprendano anche appropriati servizi sanitari, attività scolastiche e ricreative e di sostegno per affrontare i traumi che i bambini hanno subìto durante il loro viaggio.

APPROFONDIMENTI

Voci - GENNAIO 2016 N. 1 / A.2 16

Minori

BAMBINI IN PERICOlO: NON È UN VIAGGIO, E’ UNA FUGAdi Giovanna Cernigliaro

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GENNAIO 2016 N. 1 / A.2 - Voci17

Minori

Nonostante si stia facendo di più per proteggere e prendersi cura dei bambini che arrivano e si muovono all’interno dell’Europa, è comunque necessario un continuo sostegno internazionale alle azioni umanitarie e di sviluppo nei paesi di origine, insieme agli impegni per porre fine ai conflitti e contrastare la povertà che sta costringendo così tante famiglie a intraprendere un viaggio pericoloso alla ricerca di sicurezza e opportunità.

Tra le differenti tipologie di assistenza che l’UNICEF può fornire, l’appello per i prossimi 12 mesi è destinato a:

f Supportare servizi come Spazi a Misura di Bambino presso i centri di accoglienza.

f Fornire alle famiglie informazioni sulla salute e la nutrizione dei bambini.

f Garantire programmi d’istruzione e apprendimento.

f Dare supporto tecnico e assistenza ai governi e altri partner, in aree come la protezione e i diritti dei bambini, garantendo supporto psicologico, prevenzione, risposta alla violenza e protezione dal traffico.

f Sostenere e proteggere i bambini non accompagnati e separati.

Poiché il numero di bambini rifugiati e migranti in arrivo in Europa è incrementato negli ultimi mesi, l’UNICEF sta già aumentando il suo sostegno in Croazia, Serbia e Repubblica ex Jugoslava di Macedonia e sta dando il nuovo supporto ai governi e partner locali per identificare le necessità in Grecia, Ungheria, Slovenia e Austria.

Nell’ambito della Campagna “Bambini in pericolo - Non è un viaggio. E’ una fuga” l’UNICEF Italia ha lanciato la petizione “Indignamoci!” per i diritti dei bambini migranti e rifugiati. E’ possibile aderire on-line www.unicef.it/indigniamoci

Giovanna CernigliaroVolontaria presso il Comitato Italiano

per l’UNICEF ONLUS e Presidente del Comitato Provinciale di Palermo

Nell’ambito della Campagna

“Bambini in pericolo: Non è un viaggio. E’ una fuga”

l’UNICEF Italia ha lanciato la petizione “INDIGNAMOCI!”

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APPROFONDIMENTI

Voci - GENNAIO 2016 N. 1 / A.2 18

Diritti Economici e Sociali

DIRITTI UMANI E DISEGUAGlIANZE ECONOMICHEdi Vincenzo Fazio

La connessione tra la concreta possibilità di esercitare i fondamentali diritti umani e l’esistenza di diseguaglianze economiche all’interno di una società non è del tutto pacifica.

Occorre riconoscere con realismo che forme di diseguaglianze nella ricchezza e nella produzione del reddito sono non soltanto ineliminabili ed in certo qual modo naturali, essendo la ineliminabile conseguenza della diversa capacità degli esseri umani, della diversa fortuna, delle differenti opportunità contingenti, ma sono in qualche misura funzionali allo sviluppo stesso della società, favorendo i processi di accumulazione che possono agevolare la realizzazione di investimenti per lo sviluppo futuro.

Tuttavia vi è un limite oltre il quale le diseguaglianze economiche divengono il contrario di tutto questo e causano un reale ostacolo alla concreta possibilità di esercitare i diritti umani costringendo una parte della società - la più povera - a divenire schiava del bisogno e l’altra parte - la più ricca - ad essere non proprio felice non soltanto perché la ricchezza non dà la felicità, ma perché diviene oggetto di invidia, quando non si scatenano contro di essa odio e violenza.

Questo limite dipende dalla entità delle diseguaglianze e dalla conoscenza che se ne diffonde da parte dei mezzi di informazione, nonché dalla loro correttezza.

Nel mondo occidentale, gli squilibri nella distribuzione della ricchezza si sono accresciuti enormemente nel corso degli ultimi decenni, causando un reale diffuso impoverimento del cosiddetto ceto medio.

Le ricadute sulla concreta fruizione di diritti fondamentali quali la tutela della salute, la prosecuzione dell’istruzione, le speranze di mantenere il proprio lavoro e la carenza di prospettive di occupazione per i propri figli, ecc.. Quindi le gravi lesioni della dignità della persona, fanno parte ormai non soltanto della esperienza comune, ma anche delle statistiche ufficiali italiane e del mondo occidentale più in generale.

Nei paesi emergenti, invece, gli squilibri nella distribuzione dei redditi sono pure in grande espansione, anche se si accompagnano ad una sostanziale riduzione della povertà.

Le analisi di economisti e di sociologi, non sempre prive di substrati ideologici, si susseguono con apporti sempre più interessanti, come pure non mancano i suggerimenti che cercano di dare una risposta concreta al problema.

Recentemente hanno attratto l’attenzione dell’opinione pubblica italiana più informata due pubblicazioni molto interessanti e di grande suggestione per profondità di analisi e ricchezza di argomentazioni a favore delle tesi sostenute:

f il volume di T. Piketty “ Il capitale nel XXI secolo” (ed. Bompiani, 2014);

f il volume di A. Deaton ( premio nobel per l’economia 2015 ) “La grande fuga. Salute, ricchezza e origini della disuguaglianza” (ed. Il Mulino, 2015).

Le due pubblicazioni, invero, sono comparse in edizioni originali già nel 2013.

Entrambi gli autori, nell’affrontare il tema delle disuguaglianze economiche conducono un’ analisi che si estende anche ai secoli passati e investe la quasi totalità dei paesi, dandoci delle ricostruzioni pregevoli per l’organicità e l’accuratezza delle informazioni su di un tema di scottante attualità. Diversi sono invece i dati utilizzati. Piketty usa grandezze economiche aggregate (redditi di capitale e redditi di lavoro); Deaton invece fa riferimento a valori medi individuali (reddito pro-capite).

Entrambi concordano nel rilevare le gravi disuguaglianze venutesi a creare sopratutto nel recente passato Differenti però sono la spiegazione delle cause e le soluzioni proposte.

Piketty rileva la diversa maggiore redditività del capitale investito nel corso del tempo rispetto all’andamento dei redditi da lavoro, suggerendo un riequilibrio basato sulla manovra fiscale.

Deaton attribuisce le diseguaglianze alla diversa capacità individuale, all’impegno e alla fortuna riscontrata nell’ uscir fuori dalle situazioni di marginalità in cui ci si trova dalla nascita. La storia

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Diritti Economici e Sociali

dell’uomo sarebbe dunque una specie di “gara della vita” in cui alcuni riescono a fuggire e raggiungere la vittoria, mentre altri non ce la fanno o per sfortuna o per incapacità.

Pur nei dubbi e nelle incertezze del presente, guardando indietro nella storia, Deaton è però ottimista per il futuro: “la scienza indubbiamente funziona”, il futuro proseguirà per il meglio.

Indubbiamente, chi ottimista non è, potrebbe obiettare subito che non è scientificamente dimostrabile che ciò che è stato vero per il passato sarà vero anche per il futuro.

Dubbi certamente giustificati potrebbero esprimersi anche in ordine al fatto che gli squilibri formatesi nel corso della storia siano il frutto soltanto della fortuna o della capacità e del coraggio di chi è riuscito ad impegnarsi nella “fuga per la vittoria”.

Ritornando al discorso di Piketty ci si potrebbe ad esempio chiedere se la maggiore redditività del capitale investito rispetto al lavoro sia il frutto della fortuna, della capacità e dell’impegno. Ma il discorso a questo punto si farebbe molto complesso e soprattutto non ci darebbe molto aiuto a guardare il futuro per trovare le ragioni della speranza.

Oggi sono in molti a pensare che bisogna puntare sull’innovazione e sulla conoscenza, fattori che incorporano quel “progresso” che può salvare il futuro dell’umanità.

Negare che tutto ciò è profondamente vero significherebbe dire che si debba vivere nell’ignoranza e nella stagnazione.

Contemporaneamente non si può negare che innovazione e conoscenza sono fattori cumulativi, cioè sono più a portata di mano di chi ce l’ha già e quindi la loro evoluzione naturale non può da sola ridurre gli squilibri, ma più probabilmente li accentua.

Allora cosa fare?

Occorre certamente puntare su questi due fattori, ma porre nel contempo la premessa per la loro diffusione anche a favore di coloro che sono rimasti indietro nella “fuga per la vittoria”, cioè di coloro che sono prigionieri della miseria, della guerra disumana, di una criminalità che si ammanta di valori religiosi per ripetere atrocità che distruggono la stessa fiducia nel futuro.

Ciò significa, in altri termini, pensare innanzi tutto alla sopravvivenza dei poveri e degli emarginati, come premessa necessaria per dare successivamente all’innovazione e alla conoscenza una base più ampia di quella che, allo stato attuale, si trova a disposizione

di una cerchia sempre più stretta di soggetti, quindi in un contesto che va ampliando il divario tra ricchi e poveri.

Ciò peraltro è imposto dai tempi lunghi che occorrono per mettere a frutto innovazioni e conoscenza e dall’impellenza di evitare l’aggravarsi degli squilibri sociali.

Occorre però un chiarimento di fondo e pensare ad una strategia.

Il chiarimento di fondo consiste nel dimostrare che la riduzione degli squilibri, specialmente nella forma che hanno raggiunto recentemente, non è solo un problema di carità o di solidarietà morale, ma è una questione imposta dalla razionalità.

Se non si riesce ad ampliare la dimensione del mercato creando occupazione per la forza lavoro inutilizzata, difficilmente lo sviluppo creato con l’innovazione e la conoscenza può reggersi solo sui consumi della parte più ricca, ma sempre meno numerosa, della società. Lo sviluppo accompagnato da crescenti squilibri, come si riscontra nelle tendenze attuali, diviene insostenibile, quindi è irrazionale non affrontare con una visione globale il problema.

La strategia consiste quindi nel predisporre e avviare da subito, nei luoghi ove è possibile, gli interventi che progressivamente consentano di mettere a frutto la forza lavoro che si trova nei paesi poveri: innanzi tutto l’acqua, la sanità, l’istruzione e i trasporti.

Grandi investimenti, quindi, dei paesi ricchi che troveranno in tal modo anche la possibilità di impiegare le accumulazioni pregresse, anziché in attività speculative che causano nuovi squilibri e nuove forme di povertà, in investimenti certamente di lunga e bassa redditività ma che creano sviluppo vero e anche a loro vantaggio.

Risulterebbe in tal modo possibile anche impiegare la disoccupazione intellettuale esistente nei paesi sviluppati dando dignità e futuro alle nuove generazioni e creare una base più ampia alla diffusione delle tecnologie e delle innovazioni, cioè sviluppo vero.

Così la solidarietà diventa razionalità!

La storia passata non ci autorizza, come dice Deaton, ad essere pessimisti; ma i processi di globalizzazione in atto senza una visione globale non lasciano molti spazi ad una speranza priva di angosce.

Vincenzo FazioDocente di Economia della Cultura

presso l’Università di Palermo

Consulente giudiziario del Tribunale di Palermo

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APPROFONDIMENTI

Voci - GENNAIO 2016 N. 1 / A.2 20

Crimine Organizzato

HIC SUNT lEONES. I DIRITTI UMANI IN TERRA DI MAFIAdi Vincenzo Ceruso

In quel prezioso libro che è L’età dei diritti, Norberto Bobbio ha posto in termini chiari la riflessione odierna sui diritti umani: “Il problema di fondo relativo ai diritti dell’uomo è oggi non tanto quello di giustificarli, quanto quello di proteggerli. È un problema non filosofico ma politico” 1.

Quella sollevata dal grande filosofo torinese è una preoccupazione che riguarda solo alcune aree del mondo, in particolare quei paesi che si trovano al di fuori del perimetro occidentale? L’Occidente ama associare la sua identità alla storia dei diritti umani e alla costruzione di una società in cui la tutela di questi stessi diritti sia garantita. Al di là delle zone d’ombra che hanno reso questo processo tutt’altro che lineare, chi guardi alla mappa dell’Europa non può non considerare la presenza di vasti territori in cui la protezione dei diritti umani non è un dato consolidato.

Sono le terre in cui le organizzazioni mafiose hanno esteso il proprio dominio nell’arco di un periodo che, secondo le stime più prudenti, si avvia verso i due secoli di vita. Hic sunt leones. Qui vi è un’opacità dei diritti, che è l’altra faccia dell’opacità del potere. Qui i diritti sono sottoposti ad una continua e logorante transazione. È un aspetto che la storia della mafia ha spesso trascurato, preferendo soffermarsi sulla virulenza della violenza mafiosa e sul susseguirsi di fatti di sangue 2.

Una delle non minori conseguenze di una presenza criminale estesa e radicata è che la protezione della legge non riesce a garantire del tutto agli individui quelle stesse libertà che, altrove, sono date per scontate. Il diritto alla vita, a non essere sottoposto a tortura, il diritto alla libertà d’espressione e di

1 - N. Bobbio, L’età dei diritti, Einaudi, Torino, 1990, p. 16.

2 - Negli ultimi decenni è sorta una storiografia sulla mafia che ha prodotto opere notevoli, tra cui vanno segnalate almeno le ricerche di Salvatore Lupo e Giuseppe Carlo Marino. D’altro canto, non si può dimenticare il carattere violento delle organizzazioni mafiose, la cui azione non può essere ridotta a quella di una lobby affaristico – finanziaria; cfr. il mio I delitti della Sicilia, Newton Compton, Roma, 2015.

associazione, solo per citarne alcuni, hanno trovato in terra di mafia una tutela parziale e limitata.

La storia dell’antimafia è la storia dei testimoni di questa lotta per i diritti umani. Pensiamo all’epopea dei contadini e dei sindacalisti uccisi da Cosa nostra nel secondo dopoguerra. Uomini come Salvatore Carnevale, ucciso a Sciara nel 1955, facevano coincidere la loro militanza sindacale con la lotta per condizioni lavorative dignitose. Garantire la legalità dell’impresa e del lavoro era allora, e per molto tempo ancora, un’aspirazione rivoluzionaria, che poteva costare la vita.

Sul versante della libertà d’espressione, basterebbe considerare l’elevato numero di giornalisti assassinati da Cosa nostra solo per avere svolto liberamente la propria professione. Recentemente, un’aula di tribunale ha condannato, seppure in primo grado, il capomafia trapanese Vincenzo Virga e Vito Mazzara, rispettivamente quale mandante ed esecutore del delitto Rostagno 3. Nelle motivazioni della sentenza i magistrati hanno individuato chiaramente la matrice mafiosa del delitto e hanno ricondotto le ragioni dell’azione omicida all’attività giornalistica di Mauro Rostagno, in particolare al bisogno della famiglia trapanese “di mettere a tacere per sempre quella voce che come un tarlo insidiava e minava la sicurezza degli affari (illeciti) e le trame collusive delle cosche mafiose con altri ambienti di potere accomunati a quello mafioso dalla pretesa di affrancarsi dal rispetto della legalità e creare un proprio ordine” 4.

Ancora all’inizio degli anni Novanta del Novecento, a Palermo, Libero Grassi rivendicava pubblicamente il suo diritto ad esercitare la libertà d’impresa, senza subire l’imposizione della tassa mafiosa sulle proprie attività. Il coraggioso imprenditore, che aveva scritto una lettera sul giornale cittadino in cui si rivolgeva al “Caro estortore”, veniva ucciso nell’estate del 1991. Sono solo tre esempi, tra i più noti, di come l’antimafia, quella vera, sia sempre stata un’antimafia dei diritti dell’individuo.

È bene ricordarlo, in tempi in cui viene messa sotto accusa, giustamente, l’antimafia degli affari e delle clientele.

3 - Corte d’Assise di Trapani, prima sezione, 27 luglio 2015.

4 - Idem, p. 2983

Vincenzo CerusoDocente di Filosofia del Diritto alla Link

Campus University di Catania

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APPROFONDIMENTI

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Teatro e Letteratura

SE l’ARTE FECONDA lA RIVOlUZIONEdi Paola Caridi

La sequenza di angeli lungo il muro di via Mohamed Mahmoud era struggente. Ragazzi, tutti sorridenti, immortalati sul muro di uno dei più importanti centri culturali del Cairo, l’American University, a due passi da piazza Tahrir. Molti di loro, molti dei ragazzi, erano stati uccisi proprio a piazza Tahrir, quando era cominciata la rivoluzione, nel gennaio 2011. E altri erano stati protagonisti di una sanguinosa battaglia nell’autunno dello stesso anno con le forze di sicurezza egiziane proprio su quella via. Via Mohammed Mahmoud. Di loro, dunque, non ci si doveva dimenticare, e così Ammar Abo Bakr li aveva cristallizzati nei suoi inimitabili graffiti. Anche i graffiti, però, possono essere politica, e così nel corso degli anni gli angeli-martiri di Ammar Abo Bakr sono stati via via coperti di bianco, come per nascondere il prezzo di sangue che i ragazzi egiziani hanno pagato.

Ammar Abo Bakr era venuto da Luxor al Cairo. Aveva lasciato il suo lavoro, di insegnante di arte, e se ne era andato nel cuore della rivoluzione. E della rivoluzione è diventato il cantore attraverso la street art. Un cantore che con la sua arte dà fastidio alla vulgata perfettamente controllata dal regime egiziano.

L’arte, insomma, può dare - e dà ancora - molto fastidio al potere autoritario di turno, nella regione araba. Dà fastidio non solo per la sua testimonianza, per l’abilità di raccontare con altri termini la Storia, e anche per il rapporto empatico con la gente che popola le strade.

Questi elementi raccontano solo una parte della storia recente, al Cairo e a Damasco, a Beirut e a Tunisi.

Tutto parte da molti anni prima. Da quando la nascita dell’era digitale e di una tecnologia più abbordabile (anche in termini economici) ha creato le condizioni per produrre idee, arte, letteratura attraverso computer, internet, social. Da allora, in particolare dal 2005 a oggi, il web arabo è stato un giardino pieno di germogli buoni, sani. Blog, grafica e design digitali, comics, letteratura, poesia. Il web arabo non ha insomma avuto solo un parte - estremamente minoritaria - di pagine radicali e fondamentaliste. Ha avuto, soprattutto, una rinascita artistica di tutto rispetto, che ha riguardato molti settori artistici e della comunicazione. E laddove questa (ri)nascita artistica è stata più profonda, ha influenzato con più forza i percorsi politici delle generazioni più giovani (e native digitali) e le stesse basi teoriche delle rivoluzioni.

Troppa importanza ai graffiti di Ammar Abo Bakr o all’arte digitale di Ganzeer, entrambi artisti digitali egiziani? Troppo valore al percorso di una rivista di fumetti come la libanese Samandal? Troppa enfasi sul ruolo dei giovani scrittori che hanno aggirato gli ostacoli della censura e dell’editoria tradizionale attraverso i loro blog? No, quello che è successo, da parte degli osservatori e degli analisti (sia europei sia arabi) è stata semmai una sottovalutazione della produzione artistica giovanile araba, spesso

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Voci - GENNAIO 2016 N. 1 / A.2 22

Teatro e Letteratura

sconosciuta ai più. Laddove è stata più interessante bella, anzi, ha prodotto una base culturale ineludibile per le rivolte/rivoluzioni del 2011. Gli esempi sono tanti, e sono in gran parte proprio sulla piattaforma digitale. Sono esempi che parlano di una dimensione artistica da una parte individuale, e su un altro fronte influenzata da diverse sollecitazioni, provenienti da tutto il mondo. Una dimensione artistica non chiusa, anzi, anche quando a viverla sono ragazzi che vivono in luogo totalmente conchiusi, persino sotto embargo.

A dare conferma di un legame stretto tra arte e rivoluzione, per quanto riguarda il Secondo Risveglio arabo del 2011, è quello che sta succedendo dopo vuoi le restaurazioni, vuoi le trasformazioni delle rivolte iniziali in guerre civili. È soprattutto in Europa che si sono formate diaspore di giovani arabi, in gran parte artisti e intellettuali. Sono diaspore in crescita, formate da studiosi, videomaker, street artist, legate a un humus culturale nei paesi di provenienza che sempre più deve contrastare gli attacchi alla libertà di espressione.

Due i casi più recenti che danno il senso di quanto i regimi considerino un pericolo non più solo l’opposizione politica in senso stretto, e poi l’informazione indipendente. Ora è il tempo

dell’espressione artistica, ormai considerata una sfida al sistema. E per entrambi i casi lo strumento di pressione utilizzato è quello giudiziario. Il primo caso è quello di Samandal, una rivista rivoluzionaria nel campo dei comics in Libano: la rivista rischia di chiudere per una querela e i relativi costi. Il secondo caso è quello di Ahmed Nagy, giovane scrittore egiziano, anche lui portato di fronte a un tribunale per la denuncia di un lettore riguardo ai contenuti di un suo romanzo.

Difficile, anzi, impossibile però imbrigliare una elaborazione culturale, prima ancora che artistica. Difficile, anzi, impossibile, imprigionare intere generazioni che stanno cambiando, e che stanno esprimendo un diverso sentire dei diritti e delle libertà. La vera domanda è: troveranno ascolto sulle nostre sponde, nelle nostre piazze (anche virtuali)? O rimarremo sordi a guardare un mondo attraverso gli stereotipi e le legittime paure?

Paola CaridiGiornalista e storica, esperta di sistemi politici del Medio Oriente e Nord Africa

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GENNAIO 2016 N. 1 / A.2 - Voci23

Buone Notizie

Il 2 ottobre 2015 il Governatore del Missouri (USA) ha commutato la condanna a morte di Kimber Edwards in carcere a vita senza possibilità di libertà condizionale.

Era stato accusato di aver assoldato nel 2000 un killer per uccidere l’ex compagna. L’assassino reo confesso aveva in un primo tempo accusato l’Edwards, per poi ritrattare, sotto giuramento, spiegando la precedente accusa con l’intento di non essere condannato alla pena capitale, cosa che ottenne, avendo avuto inflitto l’ergastolo.

Il 23 settembre 2015 il giornalista di al-Jazeera Mohamed Fahmy è stato graziato dal Presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi.

Fahmy ed altri due giornalisti erano stati arrestati nel 2013. Fahmy era stato condannato nel giugno 2014 a sette anni di carcere. Rilasciato su cauzione nel febbraio 2015, era stato nuovamente processato e condannato a tre anni di carcere nell’agosto 2015. Era accusato di collaborazione con il movimento fuorilegge “Fratelli Musulmani”.

Dopo la liberazione Fahmy ha dichiarato: “Desidero ringraziare Amnesty International per l’incessante sostegno che mi ha dato e per aver tenuto alta l’attenzione”.

I coniugi azeri Leyla ed Arif Yunus sono stati rimessi in libertà rispettivamente il 9 dicembre 2015 e il 12 novembre 2015.

Leyla è presidente ed Arif attivista dell’ONG azera “Istituto per la Pace e la Democrazia”, che da anni si batte per il rispetto dei diritti umani e per la pace con l’Armenia. Entrambi sono considerati da Amnesty International prigionieri di coscienza.

Leyla ed Arif nell’agosto del 2015 erano stati condannati rispettivamente ad otto anni e mezzo e a sette anni di carcere per tradimento, in relazione alla loro attività per la pace con l’Armenia.

La loro liberazione, a sostegno della quale Amnesty International ha promosso svariati appelli, è stata motivata con il precario stato della salute di entrambi.

Shaker Aamer il 30 ottobre 2015 è stato liberato dal carcere di Guantanamo dove era stato internato nel febbraio del 2002.

Era stato arrestato in Afghanistan nel 2001 con l’accusa di avere legami con Al Qaeda, tuttavia in questi 13 anni l’accusa non è stata mai formalizzata e, conseguentemente, non è stato mai avviato un processo nei suoi confronti. In relazione a ciò Aamer è diventato un vero e proprio simbolo delle violazioni dei diritti umani perpetrate nel carcere di Guantanamo.

La sera del 22 dicembre è stato rilasciato Yevgeniy Vitishko, un importante esponente dell’org. ambientale “Vigilanza

Ambientale per il Caucaso del Nord” (Ecologicheskaya Vakhtapo Severnomu Kavkazu).

Egli è stato attivamente coinvolto nelle proteste sulla deforestazione e su costruzioni e recinzioni illegali in aree protette nella Regione di Krasnodar. Inoltre, durante la fase preparatoria delle Olimpiadi Invernali di Sochi, Vitishko ed altri membri della sua organizzazione furono continuamente sottoposti ad una campagna di molestie da parte della autorità russe a causa delle sue accuse di corruzione nei lavori preparatori delle Olimpiadi.

Nel giugno 2012 fu condannato da un tribunale di Tuapse, con un processo considerato iniquo da Amnesty International, a tre anni di reclusione in una colonia penale, con la sospensione con la condizionale. Tuttavia, nel dicembre 2013, con l’accusa di aver violato la condizionale, il tribunale ordinò l’esecuzione della pena fino a dicembre 2016.

Il 15 aprile la Corte Distrettuale di Kirsanovskii, nella Regione di Tambov, aveva respinto la richiesta di libertà condizionale.

BUONENOTIZIE

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«Io ho un sogno, che un giorno questa nazione si leverà in piedi

e vivrà fino in fondo il senso delle sue condizioni: noi riteniamo

ovvia questa verità, che tutti gli uomini sono creati uguali.»

(Martin Luter King – Washington – 28 agosto 1963)

www.amnestysicilia.it

D I A M O V O C E A I D I R I T T I U M A N Ii f a t t i e l e i d e e

VOCI