Virginia e il Natale

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Magia del Natale (Virginia e i Jethro Tull) Immagini e statuine di Gian Piero Chiavini Virginia era ancora in quinta elementare quando si sottopose al test d’entrata al “corso musicale” nella scuola media Pertini. Era una scuola un po’ particolare, probabilmente all’avanguardia, dove l’apprendimento della musica, e di uno strumento in particolare, costituiva vera materia scolastica. L’intento era di fornire ai ragazzi interessati, o soltanto curiosi, la possibilità di ricevere in tre anni una formazione di base, ma calata sullo studio di uno dei quattro “attrezzi” disponibili, la chitarra, il piano, il violino e il flauto traverso.

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Magia del Natale (Virginia e i Jethro Tull)

Immagini e statuine di Gian Piero Chiavini

Virginia era ancora in quinta elementare quando si sottopose al test d’entrata al “corso musicale” nella scuola media Pertini.

Era una scuola un po’ particolare, probabilmente all’avanguardia, dove l’apprendimento della musica, e di uno strumento in particolare, costituiva vera materia scolastica.

L’intento era di fornire ai ragazzi interessati, o soltanto curiosi, la possibilità di ricevere in tre anni una formazione di base, ma calata sullo studio di uno dei quattro “attrezzi” disponibili, la chitarra, il piano, il violino e il flauto traverso.

Essendo i fondi limitati, era obbligatoria una prova atta a testare le eventuali predisposizioni naturali, arrivando ad un minimo di selezione.

Gli studenti finali, per la prima media, dovevano risultare una ventina per tipologia di strumento.

Era un pomeriggio di febbraio quando Virginia si presentò nell’aula delle audizioni, accompagnata dalla mamma.

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Per la verità c’era una discreta rappresentanza, formata da compagni di classe e amici vari, ma essendo un test fatto alla persona, e non alla collettività, aleggiava una certa tensione.

Virginia aveva sempre respirato musica, grazie alla presenza di un padre che non aveva mai perso l’entusiasmo antico, e oltre a cercare di rivivere il suo passato musicale esercitava una certa pressione, in buona fede, nel tentativo di coinvolgere qualche componente della casa.

Qualche seme lo aveva gettato per cui adesso, avendo l’opportunità di frequentare questa meraviglia di scuola, il problema era nato… iscriversi o non iscriversi?

Sembrava un segno del destino: la scuola, che molti avrebbero scelto per le sue caratteristiche, macinando chilometri al giorno per frequentarla, era a due passi da casa, a portata di mano… da rifletterci su!

Però la cosa aveva fatto discutere, pensando ad ore di impegno supplementare per una materia che materia non e’, con il rischio di trascurare il resto.

Il gruppo di lavoro familiare, formatosi per arrivare alla soluzione del dilemma, aveva decretato che era giusto dare nuovi stimoli e aprire nuove porte, il tempo

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avrebbe suggerito le opportune correzioni, e ritornare sui binari lasciati non sembrava complicato.

“Ma poi, non credi che sia bello imparare a suonare uno strumento? Non credi sia formativo, come lo sono altre scienze tradizionali?”

Si era dunque arrivati al giorno dell’audizione, più o meno convinti, con molta tensione per Virginia.

Il primo round era la prova di “Pianoforte”.

“Come ti chiami?” “Bene Virginia, io simulerò la nota con la mia voce, tu dovrai ricercarla sulla tastiera… ok?”

Furono dieci minuti tutti uguali, con tante note… diverse.

Il passaggio successivo fu il violino.

Stessi convenevoli.

Qualche pizzicata sulle corde e via.

“Ma come farà a valutarmi in questo poco tempo!?”

La chitarra era la cosa che prediligeva perchè ogni tanto maltrattava quella elettrica del padre.

“Suona la corda più piccola a vuoto… brava. Con la mano sinistra premi forte la stessa corda, sul secondo tasto in alto…”

Sembravano sciocchezze per lei, ma probabilmente erano elementi importanti per il valutatore.

Arrivò l’ultima terribile prova.

Un flauto traverso da tenere in mano.

Non ne aveva mai visto uno, se non alla TV, anche se occasionalmente aveva fischiettato un flauto dolce, senza peraltro avere grande successo.

Ma conosceva il suono alla perfezione, soprattutto quello di “ Boure’e ”.

Classico esempio di colpe dei padri che ricadono sui figli.

Eh sì, a forza di risentire le stesse note, qualcosa rimane, e in quella casa il padre era una specie di “dolce tiranno”, che con tutta l’esperienza derivante dalla maturità, riusciva ad imporre la SUA musica.

Ci provava con la convinzione di chi crede che con la decisione anche le montagne possono smuoversi, ma era in grado di riconoscere certi fallimenti, quando capiva che i figli fingevano la condivisione, per paura di deluderlo.

In quelle occasioni sapeva fare un passo indietro, riconoscendo la meritata sconfitta, ma… un seme oggi ed uno domani… chissà…

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L’insegnante le passò quel tubo pieno di tappi .

“Ora dovrai solo provare a far uscire un suono distinguibile, seguendo semplici istruzioni”.

Virginia ripercorse con la mente i test appena fatti, domandandosi ancora una volta come potevano essere tratte conclusioni.

Forse un esperto riesce ad intravedere doti che solo gli addetti ai lavori percepiscono?

O forse era solo un banale metodo per promuovere uno su tre!?

“Sorreggi il flauto con entrambi le mani. Appoggia il labbro inferiore sul bordo del foro. Ora prova quasi a sorridere e soffia dolcemente, senza coprire troppo il foro”.

Ne uscì una nota magica, per lei non identificabile, ma si sentì soddisfatta .

Riprovò, come da “ordini” e riuscì la stessa nota, ancora limpida.

“Bene Virginia, puoi andare.”

La giornata finì così e la bambina terminò le sue forti emozioni, che nulla avevano a che fare con la musica, ma erano legate ad una delle tante prove, più o meno importanti, che la vita ci riserva.

Passarono mesi e si arrivò alla fine dell’anno scolastico.

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L’inizio delle vacanze coincise anche con la pubblicizzazione del risultato dei test.

Ma l’impatto con i tabelloni non ci fu perchè i risultati furono telefonati a casa, quando era presente solo la mamma di Virginia.

Ormai il dado era tratto e si sperava di arrivare sino in fondo.

E poi essere rifiutati dopo un test non è cosa che un bambino possa razionalizzare facilmente!

“Signora, le telefono per il risultato relativo alle prove di musicale.”

Era andata male in piano, malino in violino e sufficiente in chitarra che era poi ciò che lei voleva.

Ma il risultato migliore arrivò sorprendentemente nel flauto.

Nulla di trascendentale, un quinto posto con onore, ma che pose ancora il problema della scelta… chitarra o flauto?

In quella settimana di transizione Virginia ci pensò, cercando aiuto tra i genitori che la spingevano a decidere da sola.

In fondo la cosa a cui tenevano davvero era tastare certe sensibilità forse latenti, e stimolare la curiosità, sperando magari in un eventuale talento, che anche dal punto di vista pratico, in prospettiva futura, poteva rappresentare un’alternativa in un mondo così difficile.

Ma la passione per la musica, così come per altre cose, o ce l’hai o non ce l’hai.

E Virginia, da questo punto di vista, era ancora una scatola nera.

In quei giorni il papà di Virginia rincasava stranamente in orario, come se gli impegni di lavoro fossero improvvisamente diminuiti.

La stagione estiva non era ancora esplosa e quando lui rientrava, attorno elle diciotto, trovava la famiglia al completo, di ritorno dalla spiaggia.

“Siediti con me che parliamo un pò. Ti dispiace se metto un pò di musica? Questa la ascoltavo a sedici anni, si chiama “Living in the Past”.

Ed il flauto partiva.

Era gettare l’amo nel tentativo che il pesce abboccasse.

Virginia era una bambina intelligente e certe dinamiche le appartenevano già.

Ma non fu merito o colpa del padre se alla fine di quella settimana decretò la sua sentenza:

“Suonerò il flauto traverso”.

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Come sempre accade per chi vive la musica, il sentimento aveva prevalso sulla razionalità, e la miscela di una voce, un flauto ed una chitarra, avevano compiuto una magia.

Nessun atto di fede, come spesso capita agli adulti, per carità, ma solo una scintilla che aveva guidato Virginia alla decisione finale.

Poi di flauto e di strumenti in genere non si parlò più per tutta l’estate.

L’inizio dei corsi musicali era programmato nella prima settimana di scuola.

L’impostazione di base, per qualunque strumento, prevedeva un impegno di due ore da passare in gruppo, e un’ ora differenziata, con lezione ad personam.

Per quanto riguardava l’attrezzatura, nel corso del primo anno si poteva usufruire di un prestito, ma in famiglia si pensava ad un acquisto, inteso/sperato come moltiplicatore di sensibilità e motivazione.

Virginia non chiese niente, ma il papà si mise alla ricerca on line, e dopo pochi giorni in casa entrò un meraviglioso flauto, laccato blu.

L’aggettivo meraviglioso era quello coniato da Virginia ed era rivolto all’estetica. La qualità era davvero poca cosa. Sufficiente comunque per iniziare.

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L’insegnante non fece commenti e promosse la compera.

“Iniziamo con un pò di nozioni base. Il suono è prodotto dall’aria contenuta nel tubo dello strumento, che vibra in seguito alla pressione che su di essa esercita l’immissione di una nuova colonna d’aria…”

“Che rotturaaaaaa”

“L’altezza dei suoni è determinata dalla lunghezza della colonna d’aria…”

Non fu un inizio facile.

Il flauto blu si dimostrò un fallimento e cominciò a perdere la laccatura sul trombino dopo soli dieci giorni.

Anche on line si può comprare onestamente ed in tre giorni ecco la sostituzione con un nuovo strumento, questa volta argentato.

“Ora si che sembra un vero flauto!!!!!”

Fu questo l’inizio di un amore importante, inaspettato e non cercato, almeno da parte di Virginia.

Il primo anno fu caratterizzato da un paio di saggi e dall’apprendimento dei rudimenti “del mestiere”.

L’impegno della piccola si impennò col passare dei mesi, proporzionale all’amore per il flauto che aumentava a dismisura.

Ogni attimo libero era dedicato a qualche prova.

Anche nei momenti impensati afferrava il tubo argentato ed era consueto vederla soffiare sorridente, tra una pubblicità e l’altra del film del momento.

Qualche volta si “esibiva” anche in bagno, ma di questo nessuno si stupiva , essendo pratica già adottata dal padre con la chitarra.

Il solfeggio si alternava ai suoni e Virginia era guardata quasi con ammirazione quando leggeva ed interpretava uno spartito come fosse un fumetto.

In quei giorni per Virginia sentire i Jethro Tull non fu più una gentile concessione al padre maniaco.

Non si buttò su tutto l’esistente, ma chiedeva le canzoni più semplici, più facilmente riproducibili.

La famiglia è importante e occorre sempre trovare il cemento per farla crescere, dove e come possibile.

Virginia ed il papà si misero d’accordo per provare una canzone che non prevedeva l’uso del flauto.

Si chiamava “Wond’ ring aloud” e quella sera la suonarono in quattro .

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Chitarra a papà, un fraseggio di flauto per Virginia, un testo da cantare per la mamma e un tamburello per il fratellino .

Che importa il risultato?!

L’atmosfera diventa magica ed essere su di un palco non è poi così importante.

“Questa Virginia è la magia della musica… ne sei convinta?”

Virginia non chiedeva mai niente, si sedeva sul divano con le sue cuffiette e ascoltava musica vecchia e nuova, cercando di trarre qualche spunto interessante.

Ma spesso era solo immergersi in un mondo che la faceva sognare.

Le leggi della giovinezza le avrebbero impedito di ascoltare dei suoni così antichi, così fuori corso per chi ha appena iniziato a volare.

E’ la norma attribuire ad ogni fascia di età determinati usi e costumi, decidendo a priori ciò che è appropriato o inadeguato, in funzione del dato anagrafico.

Ma forse la musica riesce ad essere un’eccezione.

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E questa non è solo un’opinione se si pensa a melodie che si ascoltano da centinaia di anni.

Virginia aveva assimilato alcune idea del papà, andando decisamente controcorrente, e non si sentiva fuori posto se, nonostante la presenza di coetanei, il lettore mp3 suonava “Life is a long song”.

Restava comunque molto critica sulla parte più visibile di un mondo che certo non poteva capire, ma evitava accuratamente ogni confronto tra generi diversi ed ogni tipo di discussione sull’argomento.

Anche per lei la musica era un fatto di pancia e cuore… e non di testa.

“Papà, mi porterai un giorno a vedere un concerto?”

“Certo … ma uno qualsiasi?”

“Sììì... però … potendo scegliere... ma no, fa tu”.

In quella città non c’erano molte occasioni e per poter assistere ad un concerto era necessario spostarsi, cosa non facile da programmare, con impegni familiari, di lavoro e scolastici.

“Forse d’estate sarà più semplice Virgi.”

Era l’anno di grazia 2006, l’estate era arrivata, le medie finite, il flauto un compagno quotidiano e Ian Anderson un mito … anche per lei.

Ian Anderson ed i Jethro Tull avevano caratterizzato la vita di Carlo, il papà di Virginia.

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Nell’età in cui tutto sembra più chiaro e i segreti della vita sembrano un pò meno segreti, lui aveva coniato diverse frasi di quelle ad effetto, da esibire nelle occasioni giuste, ma in cui credeva fermamente.

Non erano quasi mai farina del suo sacco, ma erano parole che raccoglieva qua e là e che lo colpivano, come a rivelare ciò che da sempre pensava e che solo in quel momento, con quelle sillabe, trovava: la spiegazione con immagini semplici di stati d’animo spesso complicati.

Ma non si vantava per quello che diceva spacciandolo per proprio, anzi, ci teneva a precisare che certe parole ascoltate per caso, lo avevano quasi folgorato, sulla via di Damasco

Una frase che lo colpì davvero fu quella trovata in un libro, che riportava il seguente concetto:

“Nella vita, l’importante e’ crearsi una colonna sonora”

E lui aveva immediatamente realizzato che la colonna sonora della sua vita erano stati ed erano i Tull.

Non pretendeva di certo che la sua bimba provasse le stesse emozioni, nelle stesse situazioni, ma nemmeno si vergognava nel dimostrarsi così vulnerabile e gli piaceva lasciarsi andare, mettendosi su un piano di assoluta parità.

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Francamente un pò utopistico.

“Papi, non so come spiegarti… questa musica mi fa stare bene, poi mi fa stare male, poi mi fa sorridere, mi fa anche piangere… cosa mi succede?”

“Sai Virgi, chi scrive musica è un uomo come noi, ha dei sentimenti, momenti buoni e cattivi, figli irrequieti, genitori che muoiono, e tutto questo si riversa nella loro arte, e noi persone sensibili, per induzione, subiamo e reagiamo differentemente, a seconda del nostro stato d’animo”

“Ma saranno felici come noi?”

“Come definiresti la felicità piccola?”

“Potrei farti tanti esempi, ma so che sarebbero superficiali… aiutami tu papà ’”.

Come spesso accadeva, arrivarono in soccorso le famose frasi rubate.

“Potrei stupirti con qualche concetto filosofico , ma mi accontenterò di regalarti la saggezza che ho trovato in un bacio perugina. Il biglietto contenuto all’interno diceva più o meno che la vita non è la somma di tanti respiri, ma l’insieme di momenti che ti levano il respiro…. ecco, questo e’ il mio concetto di felicità, rimanere senza respiro dopo una forte emozione… tu rimani senza respiro in qualche occasione?”

“Non saprei…su due piedi…..”

“La musica ti provoca qualcosa del genere?”

“Direi di no”.

“Sentendo Ian Anderson suonare e cantare… provi sentimenti positivi?”

“Si pà… ma non mi manca mai il respiro…”

Che conforto...era una bambina normale!

Anche quell’estate finì.

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Da ormai dieci anni esisteva una comunità il cui collante era la musica dei Jethro Tull.

Un “ritrovo” come molti, probabilmente, ma Carlo non aveva mai pensato che cosa potesse significare un fan club, quali fossero i principi che lo reggevano in piedi e, soprattutto, era un concetto legato a qualcosa di estremamente antico e sicuramente estremo.

Navigando su internet, digitando sui motori di ricerca il nome dei sui sogni, erano comparsi numerosi siti, tra cui quello dedicato ai Tull :”itullians”.

Era entrato per curiosità e aveva scoperto quanti “ragazzi” partecipavano attivamente, alimentando scambi ed opinioni, con un solo unico fine: la musica… un particolare tipo di musica.

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Forse in passato sarebbe stato complicato, ma la tecnologia a disposizione rendeva estremamente semplice e veloce la diffusione delle notizie e l’interscambio di idee .

Da tutto questo emergeva una passione comune smisurata, che un esterno avrebbe potuto scambiare per adorazione /fede per un’entità esistente e ben individuabile.

Eh sì, il merito del gruppo, o di una parte di esso, era l’opera di alchimia che riusciva a compiere nei confronti di persone inavvicinabili, intoccabili, inarrivabili, almeno in apparenza.

Era riuscire a “prendere” eroi che avevano suonato all’isola di Wight (tappa mitica per uomini come Carlo) e portarli tra i comuni mortali, ma non passivamente , non solo per una svogliata raccolta di firme, ma per una presenza concreta e partecipativa, musicale e umana.

Per Carlo era come se gli Dei mostrassero il loro volto terreno, mischiandosi alla gente comune, di ogni genere e razza, di ogni età e cultura .

Tutto azzerato per merito della musica.

Tutto questo era ciò che Carlo percepiva, ma non c’erano verifiche sul campo.

Gli piaceva però pensare che fosse davvero così e siccome sognare costa poco, soprattutto in un mondo virtuale… lui sognava.

La notizia più bella che trovò nel mese di ottobre era in realtà una notizia vecchia, per chi frequentava regolarmente il sito.

Come ogni anno veniva organizzata quelle che in stile americano era definita “Convention”.

Si trattava di un raduno di appassionati che prevedeva la presenza di qualche membro del gruppo, vecchio o nuovo, più autorevoli artisti definiti “Cover Band”, ovvero riproduttori delle musiche dei Jethro.

L’abilità di questi artisti era testimoniata dalla possibilità che essi avevano di interagire con i Tull presenti, esprimendo le loro capacità, sul palco, assieme a loro.

Oltre alla musica con la M maiuscola, c’erano diverse iniziative che avevano uno scopo aggregativo (soprattutto) e, a differenza di un normale concerto, il momento di incontro iniziava nel primo pomeriggio e terminava a tarda sera.

La Convention, normalmente era organizzata nella stagione estiva, ma in questa occasione, era stato deciso il periodo natalizio e precisamente sabato 16 dicembre.

Ma la cosa davvero appetibile era il luogo… Genova, a pochi chilometri da casa.

Il locale dedicato all’evento era inconsueto, il Mazda Palace.

Ma non c’erano poi molte domande da farsi ne sul luogo, ne sull’organizzazione, ne sulle difficoltà di realizzazione e tantomeno sul fatto economico.

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Era un regalo di Natale ed i regali si accettano come tali, senza discussioni.

Carlo informò tutti i familiari, con l’intenzione di arrivare al coinvolgimento totale.

Avvertì che l’unica ovvia risposta entusiastica era quelle di Virginia.

“Ma davvero mi porti? Ma non sono troppo piccola?”

Impossibile non sfruttare la chance.

Virginia stava facendo passi da gigante con il suo flauto ed era in grado di ripetere decentemente i fraseggi di svariate canzoni dei Tull.

A Carlo sembrava che ascoltasse solo quel tipo di musica, ma non ne era certo, e sicuramente non sarebbe stato giusto.

I biglietti vennero trovati miracolosamente, e mentalmente Carlo si preparò all’evento.

Forse anche Virginia ci stava pensando e la settimana prima dell’evento, proprio di sabato, ne parlarono sul divano.

“Ma ci pensi Virgi, tra una settimana a quest’ora…”

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”Pà, ma cosa ci faccio io al pomeriggio… sarò l’unica bimba…”

“Non preoccuparti, se ti annoi … c’e’ il centro commerciale, qualcosa da fare lo troveremo.”

Quel pomeriggio del 16 dicembre partirono presto, attorno alle 14.

L’orario di apertura era previsto alle 15.30 .

In macchina Carlo, tutto eccitato, raccontò che era un’occasione unica, che sarebbe stato presente Ian in persona, e poi Bunker, Cornick….ma a lei i nomi non interessavano… i personaggi non le interessavano… era solo e sempre questione di musica.

Ian era l’eccezione… il simbolo, l’emblema, anima e cuore, cervello e braccia.

E questo lei lo percepiva, a modo suo, ma lo percepiva.

Il parcheggio della Fiumara era pressoché vuoto a quell’ora.

Posteggiarono e da li si diressero in una zona interna al centro commerciale, che era stata dedicata alla formazione di stands per i fans.

In una sala dalle dimensioni sacrificate, erano curiosamente disposti in circolo i vari banchetti in cui si poteva acquistare gadget, musica varia, abbigliamento, un po’ di birra e…tutto ciò che significava Tull.

Nel centro un piccolo palco .

Sarebbe servito per esibizioni acustiche di bravi artisti, che si sarebbero poi rivisti alla sera, in versione più elettrica.

Carlo osservava Virginia senza farsi notare e leggeva un po’ di disagio.

Non era noia , ma il non sentirsi al posto giusto, unica quattordicenne in mezzo a gente navigata.

“Virgi non ti preoccupare, stai con me, guardati attorno, respira l’aria e assapora l’atmosfera. Ciò che ora non capisci sarà rivalutato nel tempo, e nel peggiore dei casi resterà un ricordo indelebile.

“Dai papà, non preoccuparti, non sono più una bambina!!”.

Iniziò la musica e Virginia aveva solo occhi e orecchie per il flautista di turno.

Osservava il movimento delle dita, le labbra appoggiate con delicatezza, i trilli, il parlato dentro al flauto, e…. non fiatava più.

Lei era li per quello, e adesso lo aveva capito.

A fine pomeriggio era euforica.

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Nessuno lo avrebbe pensato, ma Carlo sapeva decodificare perfettamente il comportamento della piccola ed aveva percepito l’arrivo del momento magico.

Il tutto nel contesto che Virginia preferiva: l’atmosfera del Natale.

Quello che per Carlo era diventato il periodo delle riflessioni e della malinconia, per Virginia era fortunatamente il periodo più bello dell’anno.

Anche Carlo era su di giri, dopo autografi e fotografie con “gli ex inavvicinabili”, cosa che mai avrebbe pensato di fare sino al giorno prima.

Ian Anderson non si vide, nemmeno mascherato o travestito, ma la sua presenza era nell’aria.

Iniziò il concerto serale.

La sala era gremita e i posti numerati.

La posizione era un pò decentrata, ma considerato il ritardo con cui si erano acquistati i tickets, non era poi così male.

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Virginia si guardava attorno spaesata, e sembrava che dicesse: ”Allora sono questi i concerti?”

La musica partì, con tutti gli attori previsti.

Al primo colpo di batteria Virginia presa la mano del papà e spalancò gli occhioni blu, come meravigliata dal susseguirsi delle note.

Carlo gongolava doppiamente: per ciò che provava e per quello che immaginava stesse provando la figlia.

La testa di Virginia roteava per captare ogni piccolo particolare e a questo punto non c’era più la preoccupazione dell’età.

Ma appena entrava in scena un flauto, lei si immobilizzava e gli occhi conoscevano un ‘unica direzione.

A metà spettacolo entro in scena Ian Anderson.

Non fu annunciato, entrò in punta di piedi e catturò tutte le attenzioni .

Virginia non riuscì a parlare, ruotò solo leggermente il capo verso il padre e ne uscì un lieve sorriso di complicità.

Sembrava che dovesse succedere qualcosa da un momento all’altro, colpo ad effetto usuale nei film.

Le canzoni si susseguivano tra applausi ed emozioni palesi, e la miscela di suonatori in rapido avvicendamento sul palco era ininfluente sul risultato: musica e magia.

Erano le 22. 30 quando accadde il miracolo di Natale.

Ian fece ciò che non aveva mai fatto .

Era un gesto che Carlo aveva visto fare a Brian Adams nei sui concerti.

A metà serata individuava una ragazza del pubblico e la invitava sul palco.

Si accertava della conoscenza di un particolare testo, ed iniziavano a cantare e ballare assieme.

Era un modo per regalare un momento da cornice, un episodio da raccontare ai nipoti.

In una vita non sono tantissimi i ricordi significativi /positivi e questo proposto da Adams, secondo Carlo, aveva una grande valenza.

O forse era solo tutto proiettato su di sè.

Ian si trasformò per una sera in Brian e si avvicinò al bordo del palco, dopo aver appoggiato il flauto sull’apposito sostegno.

Si guardò attorno, massaggiandosi il mento con la mano destra.

La domanda partì improvvisa.

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Carlo non ebbe bisogno di tradurre per Virginia.

Certe cose si intuiscono e non servono spiegazioni .

Lei alzò d’istinto la mano, incosciente come solo una bambino può essere.

Ian la guardò.

Probabilmente fu incuriosito dalla giovane età e dalla prontezza della risposta.

Forse volle mettere alla prova tanta impudenza.

Ufficialmente, davanti al pubblico, giustificò la scelta con il flash lanciato dagli occhi blu di Virginia.

Lei salì sicura.

Carlo era interdetto, impaurito dal pensiero dei minuti che stavano per arrivare.

Non ebbe la forza di fermarla e ora sperava che per altri cinque minuti si dimostrasse un’adulta.

Poi poteva tornare bambina.

Ian chiese che cosa avrebbe voluto cantare e anche in questo caso non servì la traduzione.

Virginia aveva una discreta voce, non molto potente, ma intonata ed in grado di eseguire qualche falsetto.

D’istinto uscì la canzone che le era familiare.

“Wond’ring aloud”.

Jan si dimostrò felice e prese il suo chitarrino, mentre il pubblico applaudiva la novità.

Virginia rifiutò il testo scritto, che conosceva a memoria e seguì le note proposte dalla chitarra.

Sembrava d’acciaio, senza emozioni.

Anderson forniva il tempo giusto con la testa e lei capiva al volo.

Il tecnico delle luci illuminò solo loro due, in quei pochi minuti che erano diventati secoli.

Mentre erano nell’ovale illuminato, a centro palco, Virginia arrivò all’apice.

Non fece calcoli e se ne fregò del pubblico e di chi la stava accompagnando con la chitarra.

Come in trance, si girò di scatto e prese il flauto posto vicino a lei.

Il flauto di Ian Anderson!!!

Carlo penso’:”Noooooo, non in quella canzoneeeee, non siamo a casaaaa”.

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Ma ormai era partita.

Ian non la fulminò con lo sguardo mentre Virginia si inventava la melodia, invitandolo, attraverso un movimento della testa, a sostituirla nel cantato.

Le mani dei presenti sbattevano con energia mentre Virginia terminava la sua performance, con Ian apparentemente compiaciuto.

Virginia non si era dimostrata un mostro di bravura, ma il coraggio e l’incoscienza nascondevano un amore sviscerato per la musica, soprattutto quella dei Jethro Tull.

Era stato un grande regalo di Natale per Carlo, ma soprattutto per la piccola Virginia.

Ciò che accadde dopo fu carino.

Tutti la fecero sentire come una del gruppo anche se lei sembrava frastornata, come su un altro pianeta.

Le rimase impressa la mano di Ian, quella che difficilmente lui concede.

Quella mano le aveva accarezzato i capelli e forse lei non li avrebbe più tagliati.

Quando entrarono in macchina era l’una passata.

Faceva abbastanza freddo, anche se gli inverni liguri sono spesso miti.

Il Natale era alle porte e lei lo avvertiva.

Virginia non parlava.

Il tragitto verso casa era breve, ma 40 minuti in silenzio erano troppi, dopo simili avvenimenti.

“Allora, Virgi, cosa mi dici, cos’ hai provato?”

“Pà, devo ancora capire quello che e’ successo, forse domani me ne renderò conto.”

“Non vuoi rendermi partecipe?”

“Una cosa te la devo dire. Ti ricordi quando mi hai parlato della felicità, di cosa era per te, del metodo che avevi per individuarne i sintomi?”

“Certo che lo ricordo”.

“Papà, sul palco mi e’ mancato il respiro. Era quella la felicità?”

“Virginiaaaaaaaaaaa, quella era paura, non confondere i sentimenti….ahahaha”, minimizzo’ il padre.

Carlo ando’ a letto leggero quella sera.

Aveva contribuito a costruire un magico Natale.

Il magico Natale di Virginia.

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