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“SI CAMMINA A MERLINO”

APPUNTI DA VEDERE

MERLINO CAPOLUOGO

Il luogo di Merlino compare sulle pergamene finora edite e conosciute, per la prima volta, in un atto dell’ottobre del 1142. Un Merlae Locus che ispira alla fantasia del favoloso Mago Merlino delle saghe bretoni e celtiche, o dai tanti merli che assieme alle mandrie vi dimoravano.Comprende le frazioni di Marzano, Vaiano e Cazzano o Cazzanello. Posto fra Adda e Muzza sul balcone naturale che un tempo era la riva del Lago Gerundo. Comune appartenente alla provincia di Lodi.Da Merlino trassero il cognome i conti di Merlino, fra i quali è notevole nella storia lodigiana Alberico vescovo di Lodi ai tempi di Federico Barbarossa.L’anno 1370 questa terra, unitamente alle altre, fu da Barnabò Visconti donata a Regina della Scala sua moglie. Nel 1647 il feudo di Merlino fu conferito al conte Barbiano di Belgioioso, nella cui famiglia durò fino al 1782.

Di origine romana sono le località di Marzano e Vaiano, come probabilmente l’estinto paese di Bariano, l’antica plebe posta nei pressi settentrionali di Merlino, ove alcuni campi portano ancora questo nome. Aveva nella sua giurisdizione dodici altre località dei dintorni con rispettive chiese di cui faceva parte anche Paullo. Della plebis Bariani e la sua chiesa titolata a sancte Euphemie se ne fa riferimento già nel 1065. Di questo fantomatico e misterioso paese non si ha più traccia dal 1574 anno della sua totale estinzione.

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PALAZZO CARCASSOLA – GRUGNI

“Una massiccia ed imponente costruzione che sovrasta il piccolo borgo di Marzano senza peraltro soffocarlo”. Così riassume Stefania Biancossi nella sua pubblicazione dedicata al Palazzo del 2005.

Si tratta di un fabbricato tardo rinascimentale, come testimonia la simmetria rigorosa. Il cortile interno è chiuso da alte facciate con decorazioni che incorniciano tutte le numerose aperture, una balconata in marmo richiama i davanzali delle finestre superiori. Le stanze sono una quarantina, ben illuminate dalle numerose finestre ariose disposte con ordine e regolarità sulle facciate lisce. Le sale, in buona parte affrescate con decorazioni e dipinti sono ispirati alla pittura classica del Cinquecento, con paesaggi, fiori e scene arcaiche.Gli alti soffitti in legno, a cassettoni, tutti decorati e rimasti intatti nel tempo. E’ un edificio a pianta rettangolare delle dimensioni di metri 55 x 30, sviluppato su due piani per un’altezza di 14 metri, oltre ad ampi sotterranei, sovrastati da una torre belvedere di forma quadrata di metri 8 x 8 che si eleva sul lato est per oltre 18 metri oltre la linea dei tetti.Questa costruzione, imponente e severa, sorge poco lontana dal centro abitato ma con la sua mole sembra voler proteggere e sorvegliare le case e i campi circostanti.

Il Palazzo di Marzano, meglio conosciuto come “castello”, si trova ai bordi del gradone che sovrasta l’Adda, a circa un chilometro sulla destra idrografica del fiume.

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Per secoli la sponda destra dell’Adda ha costituito una linea di difesa naturale della pianura milanese contro gli attacchi da oriente.Questo portò infatti alla costruzione tra il 1200 ed il 1400, di fortificazioni difensive che seguivano i canoni ed i progressi dell’architettura militare. I castelli sorsero quindi quale baluardo di difesa.I castelli di Trezzo, di Cassano, di Lodi, la Rocca di Maccastorna, disegnano infatti questa barriera, di cui avrebbe fatto parte anche il Castello di Marzano, costruito quasi con certezza su una preesistente opera di difesa, testimoniata dalle mura sui cui sorge ed i sotterranei appartenenti sicuramente all’epoca medioevale.

La storia dell’antico maniero di Marzano ci perviene dalle rovine del castello, che, nel 1370 Bernabò Visconti donò alla moglie Regina Della Scala e che, nel 1420 un altro Visconti, Filippo Maria, regalò come premio di fedeltà a Vincenzo Morliano.La data più rilevante per il Palazzo fu il 1527, quando l’Imperatore Carlo V investì i nobili Carcassola del feudo di cui oltre ad altri paesi ne facevano parte Marzano e Paullo.Alla fine del 1500 su ordine dei Signori Carcassola di Paullo, fu innalzato l’attuale Palazzo di Marzano.

Una residenza di campagna per famiglie nobili, concepita e realizzata con criteri di grandiosità e raffinata signorilità, come si può dedurre dalle dimensioni e dalle rifiniture dei locali destinati, sia alla residenza abituale sia a quelli di ritrovo come luogo ideale per le loro feste, e dall’ampiezza delle aree circostanti adibite a giardini e frutteti.

I signori Carcassola rimasero proprietari del Palazzo molto probabilmente anche dopo aver ceduto gran parte del loro feudo, compreso Paullo, ai nobili Principi Tassis di Napoli, ramo della ricchissima famiglia dei Tassi, ideatori del servizio postale, originaria della Val Brembana.Durante il 1600, però, il castello divenne possedimento dei Ricordi, feudatari di Lodi, e nel 1647 del Conte Barbiano di Belgioioso.Dagli inizi del Settecento risultano proprietari del Palazzo e di quasi tutte le terre di Marzano e Vaiano i Signori Trotti, del ramo di Santa Giuletta, feudatari e Conti di Vimercate.

I terreni di Marzano ed il Palazzo Carcassola vennero poi ceduti alla famiglia Frizzoni di Bergamo.Da questo momento in poi la costruzione inizia il suo declino, caratterizzato da distruzioni e demolizioni. Vengono asportati tutti gli arredi e le suppellettili, vengono successivamente demolite le mura del Palazzo dichiarate in pessimo stato di conservazione. I giardini, il parco, la pescheria, vengono abbandonati e recuperati a terreni agricoli. Il materiale scaturito dalle numerose demolizioni viene utilizzato per costruire l’opificio della Cascina Grugni e per innalzare la Cascina dei Brambilla.

Il Palazzo fu acquistato nei primi del Novecento dai Signori Grugni, agricoltori di Marzano e grazieagli sforzi dell’ingegner Vincenzo Grugni, esso è tornato negli ultimi anni a riprendersi in parte il suo antico splendore.Palazzo Carcassola – Grugni è censito dal Ministero per i beni Culturali “di interesse particolarmente importante” e sottoposto a tutte le disposizioni di tutela.

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DRUIDI CELTI AL CALANDRONE?

Sin dai tempi più remoti, sembra che un’energia misteriosa scorra nelle acque del Calandrone.In qualche modo questo fascino e quest’energia condizionano ancora quanti passano in visita e in pellegrinaggio nel luogo riservato al Santuario di S. Giovanni Battista posto sulla riva del Calandrone.Il Calandrone rappresentato ora dalla sua fonte taumaturgica, in realtà, è una forza viva.Innumerevoli le leggende e credenze che riguardano le guarigioni miracolose delle fonti.I Celti, antichi abitanti delle sponde dell’Adda, erano soprannominati “popolo delle fonti” proprio per il loro culto delle acque sacre, cui attribuivano la funzione di tramite con le divinità. Così corsi d’acqua, fiumi, fonti erano considerati ingressi per un Altro Mondo, posto al di la delle nuvole, tra piogge e tempeste. Il passaggio del Mondo Inferiore era sotto le fonti e la superficie delle acque, per cui l’acqua da bere e in cui si bagnava era elemento di forte valore rituale, simbolo di rinascita e rigenerazione. Attraverso l’acqua il druido entrava in contatto con ogni punto dell’universo fisico, perché l’acqua scende dal cielo come pioggia, si raccoglie in falde che alimentano laghi e fiumi, lascia la terra sotto forma di nebbia e vapore e ritorna in cielo chiudendo per poi ripetere il suo ciclo. Fonti e sorgenti erano quindi il simbolo di questo cerchio vitale.Presso i Celti erano catalogate tutte le fonti sacre con le rispettive proprietà e passarono nelle credenze popolari giungendo in qualche modo sino a noi.Figura centrale della liturgia celtica dell’acqua era la Dama del Lago, sacerdotessa o dea protettrice della fonte. Nelle saghe e leggende posteriori queste figure divennero ben presto fate e poi sante con varie e molteplici sovrapposizioni. Dove non demonizzò questi culti, l’avvento della religione cristiana cercò di adeguarli alla propria liturgia, integrando la tradizione pagana e costruendo spesso, presso fonti e pozzi sede di culto celtico, statue e cappelle dedicate a vari santi ma soprattutto alle Madonne cristiane.Avendo presente tutto ciò si può risalire al punto in cui inizia il Calandrone nelle vicinanze di Merlino, per meglio capire l’origine della magia e del mistero di questa terra attraversata dalle acque.

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ECCLESIA SANCTI JOHANNIS AD CALENDONUMChiesa di S. Giovanni Battista al Calandrone

Per il Comune di Merlino che lo ospita, il Santuario di San Giovanni Battista al Calandrone, l’unico nel lodigiano a non essere dedicato alla Madonna, bensì proprio a un santo.

Costituisce la perla più preziosa, faro di fede e di spiritualità che si irradia tutt’intorno, trovando estimatori non solo nella provincia di Lodi, ma anche in quelle di Milano e Cremona e di altre località più lontane.Soprattutto in occasione della ricorrenza della Natività di San Giovanni Battista, 24 giugno, accorrono numerosi alla chiesetta sperduta nei campi, in fondo a quel sentiero, isola di grazia e di speranza.

Così si narra nella Storia del Santuario edita da Sergio Leondi: L’indicazione più antica di questa chiesa risale al 1261.

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Se proprio a San Giovanni, oltre all’Oratorio, è esistito dell’altro, doveva trattarsi di qualcosa di natura laica, forse una cascina, magari impiantata sulle rovine di una villa rustica dei tempi lontani, pre medioevali: cioè dell’epoca romana. Nonostante le variazioni intervenute nell’arco di due millenni, è ancora abbastanza facile individuare gli assi portanti del sistema della centuriazione, attuata dagli agrimensori romani, in cui ancora corrispondono nella suddivisione del territorio, sulla linea di un ex cardo o decumano; località, cascine o paesi ancora ben esistenti.Le due vasche storiche, poste ai lati del Santuario, sono i realtà una coppia di sarcofagi di età romana, uno di essi con coperchio, visto il peso eccezionale, non dovrebbe essere stato scoperto lontano, ma bensì trovato sul posto e nelle immediate vicinanze.Da esso sgorga l’acqua considerata miracolosa e benedetta.Di tutte le voci riportate sul nome Calandrone, una in particolare richiama al significato di sorgente calda, pensando quindi che il Rio Calandrone fosse chiamato così perché in qualche suo tratto, in un determinato posto, trovava alimento in una sorgente di acqua calda, donde le sue virtù terapeutiche.

Tramontato l’impero romano con le proprie credenze pagane, il ricordo e l’uso pratico sarebbe passato nella nuova religione cristiana, con il culto rinnovato dalle potenzialità miracolose dell’acqua del Calandrone.

A testimonianza della fede e riconoscenza, nutrita da oltre otto secoli verso il romito Santuario del Calandrone, restano le indulgenze concesse da sommi Pontefici, dai legati delle messe, dagli ex-voti, rappresentati dai quadretti appesi alle pareti dell’oratorio e della sacristia, tutti allusivi alle grazie ricevute.Più di tutto, apparivano in segno di grazia numerose grucce e bastoni di ogni sorta, lasciati dai devoti pellegrini esauditi nelle loro preghiere e voti.Sulla rottura del secondo avello, posto al lato sud del Santuario, la tradizione ci riferisce di un caso molto strano, che così racconta:Un cacciatore col cane ammalato passando vicino all’avello pieno d’acqua, prende il proprio cane e ve lo immerge, dicendo in dialetto lodigiano “Se te fe guarì i cristian fa guarì anca el me can”. A quest’atto l’avello si spezzò e l’acqua si sparse nel terreno circostante.Una lapide posta testimonia il fatto.

A conferma nel detto lodigiano che narra: “Il fonte di Giovan doppie ha le palme / Lava il morbo alle membra, e il vizio all’alme”, la grande affluenza del popolo che vi accorre da ogni parte alla ricorrenza della festa di San Giovanni.

Non pochi intraprendono il pellegrinaggio anche a piedi, per avere maggior merito, e quasi certamente non sono i più vicini, ma persone che arrivano anche da oltre trenta chilometri, non certamente per semplice divertimento ma, andando a San Giovanni nessuno si stanca, tanto da crearne nel tempo un motto che dice: “A San Giovanni del Calandrone, chi non può andare a piedi, vada a carponi”.

Sarà stato per il nome di battesimo che portava, sarà stato qualcos’altro, fatto sta che il Cardinale Arcivescovo di Milano Giovanni Battista Montini, poi Papa Paolo VI, fu assiduo frequentatore e benefattore della chiesetta del Calandrone, come documentano il testo della lapide e il suo stemma pontificio, immortalati sulle pareti del Santuario.

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RIVO O RIO CALANDRONE

L’Alto Lodigiano, come tutta la nostra pianura è sempre stato attraversato da numerosi corsi d’acqua, naturali o artificiali. Il Rio Calandrone viene definito come un fiumicello ridotto ora a poco più che un ruscello. Lo si trova rammentato spesse volte nelle antiche carte col nome di Rivus Calendonum, o con varianti quali: Colendone, Carrendone ed attualmente Calandrone.Il rio Calandrone fu senza dubbio molto più ricco d’acque che non attualmente, lo dimostra la depressione delle sue sponde, provenendo dal Santuario di S. Giovanni, nell’attraversamento del territorio di Marzano, proseguendo verso Cassanello e confluendo nelle acque dell’Adda in prossimità del ponte di Bisnate. Le sue acque volte ad uso dell’agricoltura, furono utilizzate nei campi circostanti, fungendo anche da colatore nel riceverne nell’antico letto gli scolaticci pluviali.Un luogo dove fermarsi e godersi un paesaggio ed un’atmosfera davvero unici è la Lanca e il Saliceto del Calandrone. Un luogo da esplorare.Là dove il rio si getta in Adda, l’habitat è caratterizzato da acqua limpida ricambiata, ricca di vegetazione formata da un saliceto e da un canneto, con una buona presenza della quasi scomparsa typha. E’ possibile fare ottime osservazioni. Migliarini di palude e Cannaiole, anche l’Airone bianco maggiore si fa volentieri vedere. Nel bosco non mancano i Picchi rossi e verdi, e in primavera risuona il canto del Cuculo.

Siamo nell’ambito del Parco Adda Sud, nel suo saliente settentrionale, caratterizzato da un ambiente, da una flora e da una fauna da far invidia ai parchi più celebri, specie per quanto concerne le zone umide. La lanca di Merlino – Comazzo, grande raccolta d’acqua con ripe parzialmente boscate, dove le differenti profondità consentono una discreta varietà di vegetazione acquatica e ricche presenze avifaunistiche. Frequente l’incontro con lo Svasso Maggiore, con il Germano, i numerosi Tuffetti, Folaghe e Garzette. In questa parte del fiume, l’Adda cede parte della sua acqua al canale Vacchelli che possiamo vedere proprio di fronte a noi, dove forma una suggestiva chiusa e una piccola cascata.Conosciuto anche con il nome di Canale Marzano, fu realizzato verso la fine dell’Ottocento dall’ingegnere, Senatore Pietro Vacchelli. Ha una capacità irrigua di circa ottantamila ettari di terreno, tutti in territorio cremonese sviluppati su un tracciato di 34 chilometri percorribili a piedi o in bicicletta alternandone le sponde. Interessanti le bocche d’entrata del canale, che si configurano quasi come un ponte coperto, di aggraziata architettura stile liberty.

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I MULINI AD ACQUA

Quella dei mulini idraulici è una pietra miliare nella storia dell’umanità. Liberando forze sino ad allora obbligate al massacrante lavoro della macina manuale, i mulini con ciò hanno fatto compiere alla società un balzo in avanti prodigioso.Le ruote idrauliche, specie nel Medioevo in avanti, oltre che a far macinare i cereali, azionarono frantoi, pestelli, folle, gualchiere per carta e panni, magli e mantici da fabbri, segherie per legname e pietre, filatoi e telai meccanici.

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A Merlino e nelle sue contrade, nei secoli passati si sono contati diversi mulini.Col nome mulino genericamente si intende sia il fabbricato, sia le macchine che al suo interno riducono il grano in farina. Deriva dal latino molinum, a sua volta proveniente da mola, disco in pietra per mòlere, macinare i cereali e le varianti più diffuse pista o pila, torchio e folla.

Nel Settecento a Merlino vi operavano anche dei torchi. Uno di essi ha dato il nome all’intero caseggiato in cui stava collocato. “IL MULINO DEL TORCHIO” appunto situato a sud-ovest della frazione di Vaiano, bagnato su due lati da altrettanti corsi d’acqua: la roggia Molina e la roggia Brivia, che servivano ad azionare l’ottocentesca ruota idraulica; li avveniva la spremitura dei semi di lino e ravizzone o colza,da cui si ricavava dell’olio adoperato a scopo alimentare o artigianale-industriale. Nel medesimo Mulino del Torchio avvenivano inoltre le più comuni lavorazioni del grano e del riso, ma serviva anche da folla, che per mezzo di gualchiere si produceva pure la carta o i panni in feltro.La proprietà di tutto l’abitato della Cascina Torchio come quasi la maggior parte del territorio di Merlino apparteneva ai Conti Barbiano di Belgioioso.Recentemente recuperato a nuova vita, con importanti lavori di ristrutturazione e adeguamento, il Mulino Torchio è ora un’irrinunciabile tappa del tour turistico nel territorio dell’Alto Lodigiano, che collega arte e cultura a pochi minuti da Milano, Cremona Pavia.Trasformato in Bed & Breakfast, comprende di otto camere, complete di tutti i confort. Si apprezza cibo sano e naturale con prodotti genuini per fare scorta di energie. Funge inoltre da Bike Point attrezzato, con bici a disposizione per inoltrarsi in una varietà di ciclo pedonali che arricchiscono la bellezza di questo territorio, compreso tra il fiume Adda e il canale Muzza.

Un altro mulino più classico, per la produzione di farina da grano, esisteva all’interno della Cascina Maggiore, antistante il Municipio di Merlino. Sopravvivono la mastodontica ruota idraulica in ferro e un impianto tradizionale per la macinazione, due mole su pulpito anch’esse ottocentesche. Nel 1721 le ruote idrauliche risultavano due.Poco resta invece del mulino di Marzano se non il caseggiato e i segni esterni dell’impianto. Notevole il salto d’acqua, con ripida cascata creata dalla roggia Brivia. Il medesimo corso d’acqua azionava un tempo l’altro mulino di Marzano, nella corte della cascina Grande: il nervile adesso è all’asciutto, altrettanto dicasi della ruota idraulica, assai antica con pale in legno e immobili con avanzi dei macchinari interni.Del mulino di Cazzanello azionato dalle acque del Calandrone, al confine con Zelo Buon Persico, rimangono solo tre macine in pietra e qualche ingranaggio metallico.

Dentro al locale del mulino, l’elemento più appariscente, oltre alle ruote dentate e piatte, le cinghie di trasmissione, appare il pulpito, formato da una incastellatura in legno o ghisa, sopra a cui giacciono le due macine, entrambe forate al centro: quella inferiore è fissa, attraversata da un palo in ferro, l’albero motore verticale, il quale a sua volta è innestato nella macina soprastante, mobile. Quando gira l’albero gira pure la mola superiore. La mola o macina o palmento nel milanese e lodigiano arrivano da cave situate sull’arco alpino. La tramoggia, una specie di imbuto sospeso sopra al pulpito, somministra gradualmente il frumento o il granturco, fatto cadere nell’occhio o bocca del palmento rotante. Scivolando nell’interstizio tra le due mole, il grano, per sfregamento, viene convertito in farina, convogliata infine in un cassone, pronta per essere messa nei sacchi.La farina di frumento è integrale se contiene la crusca; può essere vagliata con una macchina apposita, il buratto, capace di togliere la crusca e di suddividere in base alla finezza la farina depurata.Quando incontriamo il vocabolo pila o pista, dobbiamo intendere un impianto nel quale si lavorava innanzitutto il riso, più cereali quali orzo, miglio, panico. I loro chicchi sono rivestiti da una scorza

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tenace che occorre staccare. Quanto descritto è il classico mulino idraulico per macinare, presente nelle zone di pianura come la nostra.

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LA FILANDA DI MARZANO

Prima dei Signori Grugni, i terreni ed il Palazzo di Marzano, appartenevano ai Conti Frizzoni di Bergamo, la cui attività principale era la filatura e la tessitura della seta.Questi non utilizzarono mai il Palazzo come residenza, ma solo per la lavorazione preliminare dei bozzoli da seta in vasta scala.In quel periodo furono piantati molti gelsi, utili per le foglie che alimentavano i bachi.I bozzoli venuti a maturazione venivano arrostiti in un forno appositamente costruito per far morire la crisalide, poi conservati e lavorati, successivamente venivano trasferiti a Bergamo dove i Frizzoni erano proprietari di industrie tessili.

“Sotto l’ombra del gelso” Già nel Settecento la coltura del gelso era florida, le colture più diffuse erano il grano, il granoturco, il foraggio e la vite, ma i maggiori proventi della rendita agraria derivavano proprio dalla gelsicoltura. Nella seconda metà dell’Ottocento, la seta, costituiva il 32% delle esportazioni italiane, e nella Lombardia si concentrò il maggior incremento della filatura grazie agli ingenti guadagni dovuti all’aumento del prezzo dei bozzoli.

“L’ombra del gelso è l’ombra dell’oro”, così si diceva.Per molte famiglie contadine, l’allevamento dei bachi da seta e la vendita dei bozzoli costituiva un’importante fonte di reddito.L’allevamento del baco da seta continuò ad essere un’attività largamente praticata dalle famiglie contadine anche nel primo decennio del Novecento e la gelsi bachicoltura fu promossa, durante il regime fascista, dalle campagne bacologiche intraprese da Mussolini, che miravano ad incentivare l’industria serica, considerata tra le più caratteristiche attività economiche italiane.Con l’entrata in guerra dell’Italia, nel giugno del 1940, le campagne bacologiche vennero ulteriormente intensificate, si vietava sia l’abbattimento dei gelsi vivi, sia il taglio invernale dei rami, e addirittura si sottoponevano a requisizione le foglie dei gelsi non utilizzate per l’allevamento dei bachi. La grande crisi del 1929 e il secondo conflitto mondiale ridussero drasticamente il consumo di un bene di lusso come la seta.Successivamente, a causa della concorrenza del Giappone e della Cina, oltre che alle fibre sintetiche, l’Europa finì per abbandonare la produzione della seta.

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Antonio Ferrarese

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