VICINANZE E DISTANZE Lettera riepilogativa per me stesso e ... · facendo delle mie riflessioni...

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1 VICINANZE E DISTANZE Lettera riepilogativa per me stesso e per Giorgio Linguaglossa su «La nuova poesia modernista italiana» Caro Giorgio, devo spiegare innanzitutto il perché di questa lettera esorbitante. La lettura del tuo libro s’è, per così dire, intromessa nel bilancio che stavo facendo delle mie riflessioni sulla poesia e dell’attività, qui a Milano, del Laboratorio Moltinpoesia, che curo dal 2006, e mi ha spinto a un confronto con le tue posizioni, rallentato man mano dalla lettura di altri tuoi scritti e interviste 1 e complicatosi per due ragioni. La prima: come reagire di fronte ai tuoi giudizi negativi, drastici e ben pepati su autori, che ancora dominano la scena polverosa e sgangherata della poesia italiana contemporanea, che io ho guardato come minimo con attenzione; e con uno dei quali, Majorino, ho un rapporto di lunga (e non cortigiana) frequentazione? Non che io li apprezzi in toto o non abbia nei loro confronti dubbi, riserve e a volte critiche. A Majorino, in particolare, le mie critiche le ho sempre espresse anche pubblicamente. 2 Ma le mie sono le critiche di un isolato e sono “dialoganti” (per cautela? per spirito mio eccessivamente problematico? per ignoranza o sottovalutazione delle crude logiche delle corporazioni editoriali e universitarie? perché mi muovo, come vedrai verso la fine di questo scritto, in una direzione “utopica”?). Le tue, invece, sono stroncature, a volte sprezzanti (dico la verità), di chi sembra conoscere il pollaio e i suoi polli, ha delle certezze raggiunte con una oculata e ampia documentazione, ha preso partito (per una «nuova poesia modernista italiana») e conduce un’agguerrita polemica contro correnti poetiche avverse alla sua. 1 «Gli stili della stagnazione», intervista di Luciano Troisio; l’intervista di Daniele Santoro del 19 sett. 2009; i vari interventi sul libro apparsi sul sito di Lietocolle o inviatimi attraverso la tua mailing list; ma anche: «L’antologia del riformismo moderato»; «Il minimalismo ovvero il tentato omicidio della poesia» del 23 marzo 2007. 2 Ennio Abate, La poesia da lontano. Qualche ragionamento su Poesie e realtà 1945 - 2000 di Giancarlo Majorino, in «Esercizi critici», 3, 2002. Ennio Abate, SUL VIAGGIO DI MAJORINO (http://www.poliscritture.it/article.php3?id_article=383&var_recherche=Majorino)

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VICINANZE E DISTANZE Lettera riepilogativa per me stesso e per Giorgio Linguaglossa su «La nuova poesia modernista italiana» Caro Giorgio,

devo spiegare innanzitutto il perché di questa lettera esorbitante. La lettura del tuo libro s’è, per così dire, intromessa nel bilancio che stavo

facendo delle mie riflessioni sulla poesia e dell’attività, qui a Milano, del Laboratorio Moltinpoesia, che curo dal 2006, e mi ha spinto a un confronto con le tue posizioni, rallentato man mano dalla lettura di altri tuoi scritti e interviste1 e complicatosi per due ragioni.

La prima: come reagire di fronte ai tuoi giudizi negativi, drastici e ben pepati su autori, che ancora dominano la scena polverosa e sgangherata della poesia italiana contemporanea, che io ho guardato come minimo con attenzione; e con uno dei quali, Majorino, ho un rapporto di lunga (e non cortigiana) frequentazione?

Non che io li apprezzi in toto o non abbia nei loro confronti dubbi, riserve e a volte critiche. A Majorino, in particolare, le mie critiche le ho sempre espresse anche pubblicamente.2 Ma le mie sono le critiche di un isolato e sono “dialoganti” (per cautela? per spirito mio eccessivamente problematico? per ignoranza o sottovalutazione delle crude logiche delle corporazioni editoriali e universitarie? perché mi muovo, come vedrai verso la fine di questo scritto, in una direzione “utopica”?). Le tue, invece, sono stroncature, a volte sprezzanti (dico la verità), di chi sembra conoscere il pollaio e i suoi polli, ha delle certezze raggiunte con una oculata e ampia documentazione, ha preso partito (per una «nuova poesia modernista italiana») e conduce un’agguerrita polemica contro correnti poetiche avverse alla sua.

1 «Gli stili della stagnazione», intervista di Luciano Troisio; l’intervista di Daniele Santoro del 19 sett. 2009; i vari interventi sul libro apparsi sul sito di Lietocolle o inviatimi attraverso la tua mailing list; ma anche: «L’antologia del riformismo moderato»; «Il minimalismo ovvero il tentato omicidio della poesia» del 23 marzo 2007. 2 Ennio Abate, La poesia da lontano. Qualche ragionamento su Poesie e realtà 1945 - 2000 di Giancarlo Majorino, in «Esercizi critici», 3, 2002. Ennio Abate, SUL VIAGGIO DI MAJORINO (http://www.poliscritture.it/article.php3?id_article=383&var_recherche=Majorino)

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La seconda: oggi, rispetto al 2002,3 ho accolto le tue posizioni con maggiore interesse e minore aggressività, prendendo atto di vicinanze di fondo, più nette di quanto allora pensassi, su varie questioni: critica delle scelte inclusive/esclusive dei “manager della poesia”; stato di emarginazione dai circuiti editoriali maggiori sofferta da un certo numero di poeti validi; critica delle correnti spiritualiste; denuncia della falsa «cultura dell’Opposizione». Ma restano le distanze. Ed anche queste mi hanno chiesto una faticosa e non sempre facile misurazione prima di arrivare a una conclusione sul tuo libro.

Che è la seguente. Da quanto ho potuto leggere in queste settimane (sarà poco ed ho già ammesso in una precedente mail la mia ignoranza di gran parte degli autori da te citati, come ammetto di non essere documentato su tutto il tuo precedente lavoro di critico o di Poiesis), dalla risonanza incerta che hanno avuto in me gli stralci di versi che hai riportato nel libro e, a volte, gli stessi argomenti a supporto del valore di questi poeti (forse ipersintetici per ragioni di spazio; mentre gli interventi sul sito di Lietocolle mi paiono più chiari e convincenti), dubito che la nuova Minerva poetica sia già spuntata dalla testa del Giove novecentesco, come tu sostieni; che, cioè, nemmeno in poesia, siamo o cominciamo ad essere oltre il Novecento (come, per la storia umana in generale, auspicava troppo ottimisticamente anche Marco Revelli).

3 Mi sono ricordato di aver già incrociato il tuo nome e di aver forse indirettamente polemizzato anche con te proprio nel 2002, quando così commentai gli interventi del volume collettaneo Linee odierne della poesia italiana a cura di Roberto Bertoldo e Luciano Troisio, «I quaderni di Hebenon» nn.7-8, aprile-ottobre 2001 (dove, leggo oggi, avendo perso il numero della rivista, tu eri presente con il saggio Appunti per la costruzione della nuova poesia):

Nelle due brevi introduzioni dei curatori e nei saggi raccolti salta all’occhio la gabbia di un

linguaggio critico che non collega coerentemente la ricerca poetica all’extra-poetico, cioè al mondo o a quello che ne riusciamo a conoscere, scivolando su formule di comodo: «crollo delle ideologie…naufragio dei codici…declinare delle “poetiche epigoniche”». È un sintomo di come poeti e critici letterari stentino a uscire dal loro specialismo e ad inoltrarsi in esplorazioni, elementari ma indispensabili, dei saperi non strettamente limitrofi al loro. Ma anche in quest’ultimo, la riflessione sullo stato della poesia come istituzione è ormai quasi ignorata3 e prevale il mugugno “da sottocorporazione” sull’inclusione/esclusione dalle graduatorie e dalle antologie dei vip della poesia italiana. Il tono risentito di vari interventi è, infatti, quello di chi, ai margini o “giovane”, cerca il suo “spazio vitale” o, più piattamente, una cooptazione ad un livello più prestigioso: al «centinaio di autori», definiti polemicamente «lo stabilizzato parlamentino dei soliti noti», basterebbe aggiungere le «voci meno citate, specie delle giovani generazioni». Tutti qua i problemi politici dell’istituzione-poesia?

Nel caso di Hebenon, la rivendicazione di più poeti nel “parlamentino” della poesia italiana innalza due bandiere: «ritorno all’ordine» e al «vero» poetico contro «posizioni preconcette, agonismi acidi», cioè i sani (per me) dubbi sulla poesia come valore autonomo; e «superamento della modernità, recuperando una dimensione sacrale dell’esistenza che va oltre l’orizzonte dell’Occidente ellenico e cristiano per riscoprire la vitalità del mondo pagano»3. Molti degli interventi sono diseguali per qualità e ragionamenti: a volte sono farraginosi, allusivi e zeppi di elogi per i poeti preferiti; a volte invece danno un‘idea approssimativa, se non soddisfacente, dei vari arcipelaghi poetanti, sparsi un po’ in ogni città italiana. Prevale, dunque, la frammentarietà. Essa riguarda sia le «linee» poetiche, individuate spesso con categorie enfatiche, sia i giudizi sui singoli spesso fiacchi e impressionistici.

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Tu raccordi la «nuova poesia modernista» al modernismo storico in modi – dico la verità - a me non proprio evidenti.4 Ma il modernismo storico è una delle tante «rovine», magari «buone» (in senso fortiniano), del Novecento; certamente da vagliare ma, malgrado le sue caratteristiche europee e non provinciali, non da considerare più di altre «rovine» fondamentale per un progetto di poesia volta al futuro. La tua proposta, perciò, resta ai miei occhi una interessante ipotesi storico-critica, ben sostenuta da una lettura militante - molto soggettiva ma robusta - della storia del Novecento poetico; ma non mi convince ed io resto perplesso e combattuto tra adesione parziale e rifiuto.

Esaminando le tue critiche, ho la stessa sensazione – un misto di simpatia e disagio - che provo per quelle ormai dilaganti che vengono mosse ai partiti, della sinistra in particolare. Da questa mi sono allontanato da tempo, senza però ritrovarmi con quanti, pur essi fuoriusciti o eretici di quegli stessi partiti, s’impegnano in una polemica a volte feroce contro i loro ex compagni o sodali. È sin troppo facile condividere quasi tutte le tue critiche, a volte nei dettagli.5 Il tuo fare tabula rasa della produzione poetica “ufficiale” degli ultimi trent’anni s’impone per eleganza e spesso per precisione; e le stoccate da critico letterario ben addentro ai testi e alle poetiche, che ho appena letto su Cucchi, Magrelli, Majorino, Zeichen, Ferroni, Berardinelli, le trovo abilissime, a volte esilaranti. Rafforzano la mia insoddisfazione e il dissenso nei confronti dei “ministri” romani e milanesi della poesia italiana. Eppure non posso adagiarmi nel godimento gregario, che si prova quando un contestatore colpisce i “mostri sacri” o i vip. Queste tue «azioni di guerriglia e di disturbo delle istituzioni poetico-letterarie»6 non sfuggono spesso agli stereotipi della lotta che contrappone i microgruppi dei refusés al macrogruppo o alla corporazione degli “arrivati”. Ed ho la sensazione che non provino a sufficienza che la «nuova poesia modernista italiana» si ponga davvero su un terreno nuovo, che non sia invischiata sotterraneamente in vecchie logiche, che i suoi autori e testi parlino da soli e s’impongano per originalità, profondità, generosità. I risultati che tu esponi non mi entusiasmano. Stanno su un’altra strada rispetto a quelle battute da minimalisti e postsperimentali, ma – ripeto - non s’impongono, non appaiono (ma posso sbagliare e approfondirò) davvero più validi di quelli proposti, che so, da «Parola plurale», per fare un esempio di antologia che anni fa ho esaminato. Perciò la tua scelta militante non mi convince.

4 Tra l’altro è un limite, secondo me, non un segno di vigore che la «nuova poesia modernista» stia, come tu dici, di fronte all'oggetto da rappresentare in una «relazione di «desiderio» e di «possesso»», dominata «dalla nostalgia e dalla rivendicazione per il mondo un tempo posseduto e riconosciuto». (Cfr. http://www.lietocolle.info/it/manzi_linguaglossa_noterelle_sulla_situazione_attuale_della_poesia_contemporanea.html) 5 Non condivido invece il richiamo nostalgico alla Tradizione o l’iscrizione del “meglio” della poesia italiana d’oggi nella cultura del Tramonto. No all’idea di tramonto alla Spengler, per favore! (74). 6 http://www.lietocolle.info/it/sc_send_to_friend/il_minimalismo_ovvero_il_tentato_omicidio_della_poesia_g_linguaglossa.htmll minimalismo, ovvero il tentato omicidio della poesia (G.Linguaglossa)

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Fluidità e ambiguità della situazione - siamo storicamente entrati in una crisi lunga e oscura - imporrebbero di mettersi più che mai in ascolto e suggerirebbero di vagliare, criticare sì, ma con un taglio appunto più “dialogante” e non “discriminante”. È bene tener d’occhio il poeta solitario, provinciale isolato (un Toma ad es.) ma anche il poeta metropolitano; e scrutare tra gli autori affermati, ma studiare anche le dinamiche delle “masse scriventi” e quelle dei gruppi, dei partitini, delle cordate in rivista (e delle mafiette amicali) e giudicare, dire le cose che si pensano, come tu richiedi. E di fronte al taglio militante e drastico delle tue scelte resto combattuto. Appena comincio ad apprezzare il tuo discorso sulle poetiche, vedo che assume una piega totalizzante. Come se non ci fossero esempi di risultati poetici positivi anche con poetiche zoppicanti.7 Come se una poetica non potesse essere anche un ostacolo e non sempre una buona cosa. Senza tenere poi conto che spesso essa matura a posteriori e a volte dopo lunghi vagabondaggi. Appena poi mi pare di poter condividere l’esigenza storicizzante di un Bertoldo o le giuste critiche alle desublimazioni più esasperate, vengo bloccato o respinto dalla designazione di Conte a «premessa» o a precursore della nuova poesia.

L’idea di poesia con la P maiuscola, quella che c’era prima dell’imbarbarimento, la trovo ideologica e nostalgica e può portare a vedere la causa di ogni male in qualsiasi contaminazione delle pratiche poetiche (preferisco questo termine a quello di poesia) con l’esistenza, il quotidiano, la narrazione, la cronaca, che minaccerebbero in ogni caso la rappresentazione «artistica». Io non credo di dovermi caricare sulle spalle la Poesia, semmai alcune «buone rovine». La nuova poesia la cerco in avanti, tra le ambivalenze a volte indecifrabili del presente, e non con il volto tutto rivolto al passato (malgrado la mia simpatia per Benjamin).

Esiste (meglio: è esistita) una tradizione poetica con canoni o piccoli canoni; e sono esistite poetiche, che sarebbe bene non ignorare o riconsiderare esteticamente, politicamente, filosoficamente. Perché, però, la Poesia non ha resistito all’assalto dei mass media? A quali spinte reali, vive, hanno pur risposto (in modi forse discutibili e poi standardizzati) quelli che si sono tanto prosaicizzati nel Novecento? Solo a quelle dell’industria culturale? E, d’altra parte limiti non dissimili da quelli che tu vedi in costoro potrebbero essere trovati anche in quelli che giudichi poeti significativi e anticipatori del futuro. Anche la loro lateralità o marginalità ha le sue pecche, i suoi tic, le sue miopie. E il vaglio critico a cui sottoponi esclusivamente quelli che ritieni responsabili dell’«eccidio» dei migliori poeti dell’ultimo trentennio mi pare unilaterale. Mi dirai: ma abbiamo sotto gli occhi i risultati di precise poetiche e sono pessimi. Quelle prevalse ci hanno allontanato da poetiche che avrebbero potuto portare a risultati più alti, seri e significativi (il richiamo a Fortini a Ripellino), non puoi considerarle tutte equivalenti o prive di effetti. Significherebbe cancellare il compito della critica. Vero. La critica deve tornare in campo. Sarei dell’idea che alle pratiche poetiche dei singoli vada riconosciuto uno spazio, dove ciascuno può fare tutti i tentativi che vuole. Ma, quando qualcuno pubblica, va valutato se immette nel fiume, a cui (in teoria) gli altri poeti, come singoli o come categoria, o la società (o

7 Questo ricordo dicesse Fortini a proposito di Sanguineti.

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parti della società) si abbeverano, linguaggi puliti o liquami, sostanze nutrienti o dannose. Quindi delle battaglie vanno condotte. E quella che tu conduci sulla base della «buona rovina» del modernismo, malgrado queste mie riserve, è legittima. Ma è una delle possibili, non la battaglia decisiva alle Termopili.8

Ma provo ad entrare nel dettaglio, misurandomi con alcuni tuoi giudizi sui singoli autori selezionati. Su Giuseppe Conte. Ecco, non riesco a capire come Conte, possa costituire per te la «premessa» per una nuova poesia volta al futuro. Per me è solo il rappresentante (spero sincero) di una nostalgia per l’antico e oppositore, non so quanto coerente, all’«arco costituzionale del conformismo poetico» (42), visto che in vari modi anche lui vi convive e non è certo uno dei tanti emarginati dall’establishment. Tu lo valorizzi per il suo rifiuto dello sperimentalismo e la proposta «coraggiosa» del «mitomodernismo», ma è la mescolanza tra sublimità del mito e modernità ad essere per me un compromesso generico, equivoco e annacquato.9 Che consistenza etica e politica ha avuto quel suo «ritorno a alla civiltà precristiana e alla mitologia classica» (42)? Cosa ha prodotto anche sul piano soltanto poetico la sua «mediazione stilistica tra antico e moderno» (43), che tu vedi presente poi anche in Mussapi?

Anche di quest’ultimo trovo che quella sua «poesia modernistica opportunamente truccata e mascherata»10 non è che una mediazione conciliatoria, 8 Secondo me, ti lasci prendere troppo dallo scontro con i «ministri della poesia» (alcuni in particolare). Per me è un limite ”politicista”. Non vedo quale esercito ti possa sostenere per quella tua immaginosa battaglia alle Termopili, alla quale scherzosamente hai accennato. Non si arruoleranno. Sono dispersi o raggruppati nelle varie parrocchie o invischiati nelle varie cordate, che fanno capo proprio ai “ministri” con cui tu te la prendi. Ascoltano la tua messa (come ascoltavano quella di Fortini), ma poi vanno anche a bussare alle porte che tu vorresti off limits. Siamo – lo dici - alla fine di una civiltà e allora il caos e l’incertezza dominano. La crisi si fa sentire anche con i comportamenti ambivalenti. Il rischio è di fidarti di un esercito raccogliticcio e infido o più eterogeneo di quel che tu sospetta. In questa situazione io tendo ad essere più cauto nel “prendere partito”. Non per timidezza, ma perché già in politica ho assistito al fallimento di tanto “nuovo”, che ha cercato di soppiantare il “vecchio”, mostrandosi poi più vecchio di quello che contrastava. Penso perciò che le proprie preferenze andrebbero relativizzate. E che si debba indagare anche sul modo come la poesia “ufficiale” vive la crisi ed è, magari a tratti, capace di esprimerne aspetti non insignificanti. 9 E poi uno che fa queste dichiarazioni mi fa davvero cadere le braccia: La mia poesia sviluppa temi- la natura, il mito, l’eroismo, l’anima, l’energia cosmica, il desiderio erotico, il viaggio, la riscoperta delle radici celtiche, lontane, l’avventura spirituale- che non hanno una precisa collocazione politica, ma che ambiscono essi stessi a essere una Politica dello Spirito. Ho appreso con un po’ di stupore che tra i poeti prediletti dai giovani di destra vengo subito dopo Pound. Mi sono sentito in colpa verso D’Annunzio, che meriterebbe di più. Evidentemente i giovani di destra sono più individualisti, e dunque più liberi. I giovani inquadrati dalla sinistra sono rintanati nel potere culturale come topi nel formaggio, conformisti, passatisti e se ho di sicuro lettori di Rifondazione comunista e dalemiani, certo che un veltroniano non potrà mai leggermi, oserei dire che non ha il diritto di leggermi.

(http://www.giuseppepuppo.it/conte.html http://www.giuseppepuppo.it/conte.html) 10 Tutte citazioni tratte dalla tua risposta a Ferrari http://www.lietocolle.info/it/mauro_ferrari_vs_linguaglossa.html

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artificiale e spettacolare; e, dunque, ben collocabile in una della tante nicchie o loculi per la poesia che il sistema massmediale (e Radio 3) sempre offre ai poeti-manager.

Maffia. Il suo «policentrismo dell’io» (52) non mi pare così innovativo (tra l’altro il vituperato Majorino non fa che parlarne da Provvisorio, e quindi da decenni). Maffia è poeta che s’interroga in modo radicale sull’Assenza (57) in colloquio con quanto è scomparso (58). Lo fa solo lui? Risponderebbe alla «sfida posta dall’avvento della civiltà telematica» (52 ). Ripeto: solo lui o in modi davvero eclatanti?11 Prende atto della distruzione del Moderno (56). Ancora: solo lui? «Tematizza e treatralizza la situazione storica che il presente impone al logos poetico»(58). Ma, parlando degli scrittori (solo degli scrittori!) del mondo antico, Maffia penetra nel nostro presente o lo elude anche lui in modi più raffinati? Ricongiungerebbe – e qui davvero stupisco e sgomento per la mia ignoranza di un risultato più che epocale - addirittura «la dicotomia del nome e della cosa» (52), di scienza e senso, perché coniuga, sulla scia di Eliot, alto e basso, stile humilis e sublime (52) senza fermarsi al «mero visibile» (come fa il «minimalismo»); e produrrebbe così una «poesia dell’invisibile nutrita di minimalia» (54), conciliando narratività (ovviamente «riflessa») con un «impianto squisitamente poetico»(53). Oltre a porre la questione di un realismo integrale. Cosa sia questo «impianto squisitamente poetico», stento ad afferrarlo. E la stessa categoria di «realismo integrale» (7), che pare tratto distintivo della nuova poesia, non mi pare argomentata a sufficienza (51). Per le “ricongiunzioni” non vorrei che si ripercorressero le nobili ascese del simbolismo con tutti i suoi patemi d’anima. Ma, non essendo riuscito a procurarmi testi di questo autore, sospendo cautamente ogni giudizio e mi limito a queste domande provocatorie ma interlocutorie.

Pedota. Di lui non capisco come abbia fatto a restare «immune da contagi e influenze, da contaminazione e condizionamenti ideologici» (59). Non sarà vissuto sotto teca o in un altro mondo, credo. Probabilmente sarà stato influenzato da altre ideologie rispetto a quelle che andavano per la maggiore in Italia nei suoi anni. Ma esente da tutti i condizionamenti ideologici, non ci credo. E poi come fai a non criticare, ad es., quello che Pedota si permette di dire: «dopo aver letto tutta la poltiglia filosofica»(61)? A me pare una di quelle espressioni megalomani da “piccolo borghese”. E cosa può voler dire «ricongiungersi al moto rotatorio degli astri e dei pianeti» (61)? Io poi non mi affiderei a un poeta che ama il «labirinto» personale (autistico), dove, secondo lui, «l’alfa si tocca con l’omega»(62), senza che altri se ne avvedono.

Altri due esempi, ma non tratti dal libro.12 Scrivi:«Una novità è che i soggetti che abitano questi libri sono proiezioni di un habitat urbano circoscritto e delimitato dalla rivoluzione industriale ormai portata a termine dalla borghesia del triangolo industriale». Embè? Le città, le metropoli, mica sono scomparse e chi ci vive deve

11 Tanto per fare un esempio, ricordo che anche Biagio Cepollaro pose il problema: «Perché i poeti nel tempo del talk-show?» ( Allegoria 14, 1993) 12 Anche questa e la successiva citazione da http://www.lietocolle.info/it/mauro_ferrari_vs_linguaglossa.html

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pur farci i conti. Non mi pare che il tema (in questi casi la città o la periferia) scelto da certi poeti possa essere oggetto di contestazione (se non capisco male).

E ancora: «Toma scrive una poesia lontana anni luce dalla ideologizzazione neosperimentale e dalle poetiche che si andavano elaborando a Roma e a Milano». Se è una constatazione, nulla da eccepire. Ma se si alludesse a una sorta di “merito poetico” per una naïveté provinciale da mettere sotto il muso ai poeti cittadini o metropolitani, avrei molte riserve. Non voglio sentire accuse di ritardo, di arretratezze, ecc. per questo poeta, ma neppure condanne aprioristiche dei poeti alle prese con realtà urbane o metropolitane, che a Toma sfugge e che gli altri colgono (magari in modi discutibili dal punto di vista estetico o poetico, ma colgono…).

Noto comunque, che tutti i tuoi “preferiti” (Maffia, Busacca, Toma, Pedota, (che «scrive in una lingua che abita una terra di nessuno, una specie di extralingua. È questo il segreto della sua forza»), Sicari (con la sua «irragione dell’idioma «privato», scisso da ogni legame con il «pubblico») sono naïf, privati, lirici, provinciali, estranei al tempo e all’ambiente urbano-metropolitano industriale. Ora , ragionando terra terra, se tu stesso sostieni che «tutte le opere di questi autori sono opere «cieche», sono monadi condannate a restare «monadi», sono vasi incomunicanti», puoi anche vederle (o idealizzarle un po’) come il segno di una «rivincita della provincia», che produrrebbe «i risultati più alti della poesia di questi anni», ma in me si rafforza il dubbio sulla loro reale novità e consistenza, proprio per il limite di apertura storico-politica che ci sento.

Il tuo ultimo libro mi pare raccolga e sistemi scritti precedenti (forse apparsi in altra forma su Poiesis) e abbonda di exempla inquadrati in un discorso generale serrato e ambizioso che tocca problemi e attori di tutto l’arco storico del Novecento. Della sua struttura a me non risulta chiaro: a) quali legami abbia la categoria della «nuova poesia modernista italiana» con il «modernismo» storico; b) se davvero tutti gli autori indicati rientrino in modi convincenti nella categoria (in alcuni casi - Servetti, Scotto (66) - ne dubiti tu pure); c) quanto reggano le partizioni che introduci nella «nuova poesia»: Conte + linee laterali; versante femminile (femminista?) della «nuova poesia» (5); versante antimoderno (6); versante postpoetico (6); linea meridionale. E anche del suo discorso generale non mi convincono vari punti: a) La volontà di contrastare la tendenza a «prosaicizzare» la poesia (io, più semplicemente direi ad introdurvi elementi di narrazione). Sui casi da te esaminati si può discutere. Forse davvero in Pagliarani si ha un «passivo adattamento alla invasione dei linguaggi mediatici e informatici» (15). Certo, il modo di usarli in poesia di un Fortini è diverso dall’uso che ne hanno fatto Majorino o Pagliarani o Raboni con il suo «parlato medio-basso» (19). E c’è differenza tra adattarsi (ma quello di Majorino e Pagliarani è adattamento e basta?) alle «esigenze comunicative di una borghesia alle prese con l’inizio del suo sviluppo industriale» (15) e il rifiuto di tali esigenze da parte di Fortini, che ad esse contrappone la «morta lingua borghese». Ma i linguaggi dei mass media ci sono, sono penetrati in mezzo a noi; e,

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per quanto manipolati, non mi sento di negare che anch’essi possano essere materia prima per un poeta.

Raboni (e non solo lui) avrà poi pur messo «in naftalina i linguaggi del neorealismo», ma con la linea meridionale Quasimodo-Gatto-Sinisgalli (20) dove si poteva andare, se a quel loro linguaggio poetico veniva sottratta, con il boom e l’emigrazione, la realtà sociale pre-moderna e contadina, magari povera e dinamica, che lo nutriva?

Non riesco comunque a capire perché tanta ostilità verso la «narratività» o la «pluralità linguistica». Me la spiego con la tua nostalgia di un certo tipo di Poesia capace di tenere le (giuste?) distanze dai processi reali che le pratiche poetiche novecentesche non hanno saputo mantenere. Ma lo stesso non capisco. Perché solo la poesia sarebbe capace di afferrare quella «gran parte dell’esperienza significativa della vita» (36)? Dici: «Sintassi e lessico borghesi impediscono l’accesso a questa parte dell’esperienza» (37). E invece sintassi e lessico della poesia modernista o neomodernista vi hanno di sicuro accesso? Non è che avremmo bisogno di una nuova sintassi o di una nuova grammatica, che però non può venire solo dalla conoscenza del “latino dei dotti novecenteschi” ma, come ai tempi di Dante, da un incontro tra quel che resta di quel “latino” e le pratiche discorsive e poetiche o parapoetiche anche del “volgo” odierno alienato dai mass media? Per me la ricerca di un nuovo linguaggio poetico (o semplicemente più adeguato alla esperienza più significativa della vita d’oggi) richiede legami stretti con i processi vitali dei molti. (ma su questo tornerò più avanti).

b) La cosiddetta «sproblematizzazione».Trovo giusto analizzare il conflitto di

linee estetico-politiche che si sono combattute in passato e si combattono oggi nell’Istituzione-Poesia, ma è necessario capire e spiegare perché hanno vinto i linguaggi mediatici, perché c’è stata quella che tu chiami «invasione demotico-populistica» (23). Le cose sono state nominate in un certo linguaggio e non in un altro (23): nel linguaggio dello sperimentalismo, in quello alla Sereni (24) e non più in quello alla Montale. Fino ad arrivare alla crisi dei linguaggi poetici e di un’intera cultura. Ma si è trattato solo di «sproblematizzazione»?

Io tenderei a pensare che ai nuovi problemi posti dal mutamento della vita sociale e culturale italiana si sono date risposte “vincenti per i vincenti” non del tutto campate in aria. Perché la linea di Ripellino è rimasta laterale? Perché Fortini è rimasto sempre un isolato, un “ospite ingrato” anche tra i “suoi” (nel “manifesto” ad es.)? Davvero tutte «secche» quelle del Novecento sperimentale (25)?

Non voglio giustificare le scelte dei «ministri della poesia» di ieri o di oggi, ma far notare realisticamente ed evitando certe autoconsolazioni moralistiche, che i compromessi da loro accettati, adattandosi all’andazzo (elitario e gerarchico) dei potenti, non erano affatto «sproblematizzanti». Hanno, invece, risposto a un loro problema “vero”: conservare e rafforzare il potere, cooptando anche una buona parte degli oppositori.

Tu dici: «Si imponeva una scelta, ed invece si è scelto di non scegliere» (25). Ma chi era il soggetto che doveva scegliere? I «ministri» della poesia italiana di

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allora e di oggi potevano o possono scegliere altrimenti, se non costretti da qualche situazione eccezionale e da un’opposizione forte e consapevole capace di imporre altre scelte? E poi cosa contavano o contano in quanto «ministri della poesia»? Erano/sono davvero così decisivi o da tempo, al di là delle apparenze, la loro azione “governativa” è diventata precaria e le «patrie lettere» non esistono più?

E ancora: possiamo agire annebbiati dalla nostalgia per i «poeti traliccio» o Maestri? Gli attori - io ne individuo per approssimazione tre: manager della poesia, partitini di poeti, pubblico della poesia (o moltinpoesia) -, che partecipano all’interno o nei paraggi dell’Istituzione-Poesia al conflitto apparentemente “puro” (riguardante i linguaggi) delle poetiche, sono fortemente condizionati dal conflitto più occultato e meno puro per la gestione delle strutture (case editrici, università, fondazioni, ecc).

Su tale conflitto però pesano le volontà di ben altri convitati di pietra: investitori di capitali nell’editoria e nelle università, gestori della merce-libro, ministeri “culturali”. Non hai il dubbio che a volte i veri innovatori di poetiche vadano cercati in queste stanze , a cui i poeti quasi mai hanno accesso?

Al di là di una opposizione etica di singoli (Fortini o Ripellino o altri) negli anni Sessanta, dopo che l’unica reale e consistente opposizione a quest’insieme di poteri simbolici e materiali (il ’68-’69) era stato sconfitto, che opposizione ci poteva essere ? Io non sono neppure d’accordo sulla «dittatura dell’ignoranza», di cui parla oggi Majorino. Usando gli “ignoranti” si fa politica. Non viene il dubbio che agli “ignoranti” l’Opposizione (la cultura d’Opposizione) contrappone un’altra ignoranza: quella dei meccanismi di potere più profondi, che non si ha più il coraggio di nominare; e che gli “ignoranti” dominatori hanno invece ben chiari e usano senza scrupoli? Insomma, certe opposizioni (come la tua) suscitano sempre la mia simpatia, ma non vorrei che gli “eretici”, le “mosche bianche”, si adagiassero nella contemplazione del loro giusto ideale e di tutto incolpassero gli avversari.

c) La risposta prevalentemente filosofica che tu/voi date alla crisi della poesia. Ti confesso che resto freddo di fronte a un discorso sulla poesia retto principalmente – a me così pare - sul piano della filosofia della conoscenza, che poco considera le pratiche reali, in cui gli altri (in questo caso gli stessi poeti o addetti ai lavori dell’Istituzione-Poesia, distribuiti nelle tre fasce che ho detto) sono immersi.

Può darsi che abbia anche una certa diffidenza verso alcuni orientamenti filosofici. Ad es. a volte non riesco a seguirti, non riesco a capire quanto heideggerismo (35) c’è nei tuoi ragionamenti. Mi pare che ce ne sia quando sostieni che la lirica monadologia sarebbe stata scalzata dalla Tecnica (35), che lo sperimentalismo ne sarebbe stato il cavallo di Troia e «l’assunzione della narratività diffusa e della pluralità linguistica» avrebbero affossato in sede estetica ogni possibilità di «rappresentazione poetica»(36). Al pensiero debole (26) opponi un «orizzonte filosofico» alternativo (29), un’«abici del pensiero filosofico» (29), la «fenomenognomica» di Bertoldo. Mi pare insufficiente. Per me è una “filosofia per artisti”, che dà importanza alla ricerca dell’arte, che vuole contrastare la «disartizzazione», come tu dici. Ma temo che salti a piè pari il problema delle ragioni per cui l’arte (o la poesia) sia andata in crisi nelle società di massa. E trascuri quanto

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di buono, di problematico, di giusta critica ai limiti dell’arte e della poesia si sia avuto nel Novecento (e per me il riferimento irrinunciabile resta, Fortini) proprio prendendo atto della massificazione della società e dei problemi inediti che essa pone o porrà. Il rischio è proprio di voler ripristinare qualcosa che ha già dimostrato storicamente la sua insufficienza.

Non credo neppure che possa essere liquidata «definitivamente ogni ipotesi di prassi artistica fondata sull’ideologia», perché l’ideologia non è liquidabile con altra ideologia: si ripresenta travestita anche come non-ideologia. Cos’è poi per te, per Bertoldo, l’ideologia? Dove si arriva accettando il suo «scetticismo integrale per cui l’autenticità sarebbe prima e al di là del segno linguistico» (33)? Inaccertabile, dunque, poiché - sempre se non capisco male - non è possibile stabilire «quel quid di autenticità che costituisce l’arte come oggetto» (30)?

E poi qual è questo Oggetto? E il reale sarebbe solo linguistico (38)? Che ci sia da rendere la “realtà” in linguaggio («linguisticità») non ci piove anche per me . Quindi trovo accettabile che la critica (che dovrebbe mirare alla formazione di un io/noi consapevole) muova guerra all’immediatismo, al contenutismo, al cronachismo (38). Ma il risultato da ottenere (tu lo chiami ancora ‘artistico’) è raggiungibile ripetendoci che bisogna liberare le emozioni dalla «cella dell’io» (39)? Cosa vuole dire di preciso? Cosa c’è fuori dalla «cella dell’io»? Davvero ci troviamo «i mattoni di una nuova parola poetica»(39)? L’altro ostacolo sarebbe stata la «scientificizzazione dell’arte» (39). Penso che ti riferisca allo strutturalismo. Ma davvero c’è stata oltre certe cattedre universitarie una sua profonda influenza in Italia?

d) La risposta , che ritengo velatamente avanguardista, all’«epigonismo». Se realisticamente, come dici, «siamo tutti diventati epigonici» (66), lo resteremo per un bel po’, anche quando tentiamo di uscire da questa “palude” con manifesti o con libri come il tuo, che in qualche modo però ricalcano le forme novecentesche di organizzazione culturale (avanguardistico-militariste) per conquistare l’egemonia su altri gruppi (o corporazioni) intellettuali più in vista o dominanti.

Paradossalmente mi porrei seriamente il compito di essere coerentemente e fino in fondo «epigonici», evitando scorciatoie, strade già battute o forzature per uscire presto e a tutti i costi dall’«epigonismo». A me , infatti, sembra che tu, senza dirlo esplicitamente, nutra ancora l’illusione di organizzare un “partito di poeti”, «una nuova vera avanguardia», che apocalitticamente (e in modo autopunitivo) dovrebbe scegliere oggi «il silenzio compiuto piuttosto che la Parola» (66). Non usi il termine ‘avanguardia’ per indicare la tua azione di “critico militante”, ma il “militarismo” tradizionale delle avanguardie più o meno eroiche fa capolino (cos’altro è il tuo accenno sia pur scherzoso alla improbabile Termopili di valorosi poeti. cui ho già accennato?).

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Ora, lasciando più sullo sfondo il tuo ultimo libro, vorrei toccare la questione Fortini, emersa nel nostro primo scambio e-mail, e alcuni altri temi presenti in tuoi scritti, da me consultati sul Web e che mi hanno particolarmente interessato. Su Fortini

Ripellino è nel tuo libro l’unico, vero «maestro in ombra, il vero architetto di una poesia modernista» (16). Il nome di Fortini non è presente nel suo indice finale, né mi pare operante in qualche modo nei ragionamenti che vi sviluppi. Parto, comunque, dal riconoscimento positivo contenuto nell’intervista a Troisio: «La lezione di Fortini, che è stata rimossa dalla coscienza della poesia italiana».

Mi chiedo però che tipo di lezione ricavi da lui. Se riconosci con me che Fortini è stato un intellettuale marxista impegnato in qualcosa di più di una mera riforma del linguaggio poetico, non vedo come da una rilettura delle sue opere o soltanto di Dei confini della poesia si possa trarre la tua conclusione, per me riduttiva, che «il nodo centrale della crisi della poesia del tardo Novecento va cercato, a ritroso, proprio in quella mancata riforma del linguaggio poetico».

A me pare che Fortini, con oscillazioni nel tempo, abbia sempre mantenuto l'accento forte sul nesso inscindibile tra un'auspicata riforma del linguaggio in generale (e quindi anche di quello poetico) e modificazione dei rapporti sociali di produzione capitalistici. Basti pensare ai suoi numerosi richiami al Brecht del “Compagni, parliamo dei rapporti di produzione”. Oppure alle sue critiche a Sanguineti e alla neoavanguardia, tese a sottolineare quanto fosse insufficiente o sbagliata una rivoluzione del solo linguaggio letterario (e di conseguenza, penso, anche di una sua riforma o, come tu con un certo esclusivismo insisti, del solo linguaggio poetico delle patrie lettere).

Sono dunque abbastanza sicuro che Fortini misurasse continuamente la poesia con i «destini generali»13 per lui assolutamente obbliganti e prioritari anche rispetto a quelli poetici. E mi pare sintomatico che, nell’intervista, Troisio si mostri in disaccordo proprio nei confronti della «diffidenza verso la poesia» tipica del poeta Fortini, senza più intenderne la ragione che lo induceva a sottoporre anche la poesia a una severissima «verifica dei poteri», del tutto esterna ai criteri estetici o anche genericamente filosofici (di filosofia della conoscenza), comunque da Fortini mai ignorati.

Non posso poi che ricordare quante volte Fortini abbia denunciato che alla poesia italiana la storia (meglio: i conflitti della storia) resta ignota, che non si è mai assunta il proprio stato storico14 o troppo disinvoltamente si agghinda col mito (come in Mussapi per essere chiaro!). 13 F. Fortini, I destini generali, in Versi scelti 1939-1989, p. 94, Einaudi, Torino 1990. 14 O che tenda a rinchiudersi nella storia dell’anima, cioè nella non-storia (105) in Saba («gli eventi sovraindividuali – prima guerra mondiale o guerra del «fascista abbietto» e del «tedesco lurco» - restano sullo sfondo»,106), Ungaretti (in lui il tempo è categoria metastorica, neppure psicologica, 106), in Montale (« il tempo si cerca… in prossimità della «crisi» esistenziale… i riferimenti agli eventi sociali e civili s’infittiscono, ma si tratta di un mondo «disertato da esseri umani e attraversato solo da messaggi cifrati, da angeli travestiti da demoni… e da lemuri animali, la riduzione degli eventi umani a quelli naturali e della

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Ho ripercorso in questi giorni anche Dei confini della poesia.15 Di notevole ci ritrovo la registrazione sintetica (senza vaneggiamenti specialistici e lunghe disquisizioni accademiche) di come cominciava ad allargarsi negli anni in cui scrisse quel saggio – siamo nel 1978 - la “palude” in cui oggi siamo immersi;16 la capacità di tenere sempre sotto controllo la propria strumentazione critica,17la drammatica ammissione che la tesi di Adorno - «la specificazione formale [della poesia lirica] si pone come antagonista al mondo storico-sociale circostante» (16) e che «l’oggetto estetico nega e avversa e tende a sconvolgere tutto quel che è accettato, quotidiano, ripetuto» (ciò che, insomma, è più sottomesso al dominio e all’alienazione) e quindi «la funzione sociale della poesia sarebbe sempre rivoluzionaria» (17) - non ha più ragion d’essere.

Fortini, dunque, riconosceva in questo scritto non solo l’illusione in cui erano cadute le avanguardie storiche europee, ma anche le sue, di poeta. E dice quella cosa tremenda per i poeti (e che Troisio – ma credo anche tu - non digerisce…): «la poesia, proprio in quanto forma si oppone al mutamento, ha una sua dimensione conservatrice e conciliatrice, per cui «il canto della poesia e dell’arte è a servizio del dominio non solo perché è frutto dell’agio e del consumo come spreco e piacere». Ecco, questa mi pare la lezione non aggirabile (almeno per me) di Fortini.

A volte, più speranzosamente, ho cercato di attenuare questa diagnosi quasi feroce, dicendomi che , se la poesia ripropone da secoli «fiori sulle catene», non è però colpa dei poeti (o soprattutto dei poeti) e che sono altri – i potenti, i dominanti - a forgiare e stringere ai polsi degli sfruttati quelle catene. Mi sono anche detto che forse in quelle sue drastiche conclusioni c’era dell’autofustigazione. Oppure che la sua era una correzione di rotta troppo brusca rispetto alle precedenti posizioni più vicine ad Adorno e che ora il suo discorso sbandava all’altro estremo: dalla ricerca della forma artistica sempre antagonista e addirittura rivoluzionaria alla forma serva del dominio e basta. E mi è parso di trovare la conferma in quello stesso saggio di un’oscillazione, perché subito dopo Fortini, citando Lukács, ricorda che «se, soprattutto nel corso dell’ultimo secolo, poesia e arte diventano «forma» e «struttura», ciò accade perché appaiono l’ultimo luogo che la sclerosi della reificazione non ha ancora totalmente invaso» (18). Ma non posso negare che le riserve di Fortini nei confronti dell’arte restano. Essa gli appare deviazione dal vero fine: «la proposta di integrità umana» presente in Lukács (18). Resta, comunque, un surrogato della vera formalizzazione, che dovrebbe essere quella della vita e che – vediamo oggi – s’è dileguata come orizzonte o è sempre più appannata utopia: «una trasformazione degli uomini, che li renda capaci di formare intenzionalmente se stessi

guerra a «bufera» è continua e spontanea», 106). (Fortini, Le poesie italiane di questi anni (1959), in Saggi italiani, p. 96, Garzanti, Milano...) 15 F. Fortini, Dei confini della poesia, Edizioni L’obliquo, Brescia 1986. Ora anche Sui confini della poesia, in Saggi Italiani 2, p.313, Garzanti, Milano 1987. 16 in letteratura, poesia e critica letteraria si è avuta una «divaricazione di posizioni : vitalismo esasperato … neosurrealista..oppure formalismo esasperato, indifferente agli aspetti referenziali (11) 17 quell’accenno al fatto che continuiamo ad «impiegare una terminologia relativamente antiquata, parlando di letteratura, arte, poesia» (13) e l’ammissione che la lukacciana «via estetica all’umanesimo» (11) è andata distrutta «realtà socioeconomica del presente».

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e la propria società» (18). Quindi l’arte sempre e soltanto «prova di una ripetuta sconfitta umana» (18). Proprio niente di consolante per chi fa poesia, eh?

E tuttavia Fortini non s’inchina alla cosiddetta «morte dell’arte». Chiede di «mantenere nello stesso tempo tutte e due le istanze» (autonomia/eteronomia dell’arte) e di guardare con attenzione nel campo della critica sia alle correnti formaliste e strutturaliste (allora prevalenti) che a quelle più sensibili ai contesti sociostorici (in declino) – semplificando di brutto: sia alla forma che ai contenuti - e di mediare i due momenti che «sono separati senza dialettica e quindi o dissociati o congiunti senza processo di mediazione»(19). Fino ad enunciare la prospettiva finale, che dà il titolo al saggio e con la quale mi pare tu concorda: quella di una forma come «tensione ad inglobare, affrontare ed elaborare quel che sta oltre le frontiere della forma poetica», per produrre un’opera d’arte che «proprio perché chiusa potrebbe essere arma a comprendere la realtà aperta e informale» (20). La poesia, portandosi «ai propri confini», non si ridurrebbe così a «sovversiva promessa di felicità» ma riaffermerebbe «l’esigenza [rivoluzionaria o no?] che gli uomini raggiungano controllo, comprensione e direzione della propria esistenza» (20). Su Majorino

Ti ho già detto del mio imbarazzo a leggere la critica che muovi a Majorino. Solo in parte giustificata, penso. Perché credo che tu sottovaluti aspetti della sua produzione, che per me invece restano segni di resistenza alla “palude”. In particolare, la categoria della Tecnica,18 che ti guida nel giudicarne l’opera sua (in generale), mi pare davvero una rete a maglie troppo larghe. Anche io ho espresso riserve verso quello che tu chiami il suo non-stile.19Ma ha senso rimproverare alla sua poesia di essere « sempre nuova e sempre uguale, senza progresso e senza regresso»? Se il progresso oggi non pare esistere nella società, come fa ad esserci in poesia (ammesso che ci debba essere)? Anch’io ho visto nel linguaggio di Majorino un sintomo inquietante, un enigma se vuoi, come ha detto Berardinelli a proposito del Viaggio nella presenza del tempo. Va interrogato però e non respinto come lui fa.20

18 «È il ruolo assolutamente preponderante assunto dalla tecnica nell'elaborazione dei testi; la dove la tecnica è servente alle esigenze di funzionalizzazione del linguaggio, questa non si manifesta, non appare in primo piano, non si pavoneggia, non prolifera, non si moltiplica, non invade il tessuto linguistico come una metastasi tumorale come avviene nella poesia» (http://www.lietocolle.info/it/sc_send_to_friend/il_minimalismo_ovvero_il_tentato_omicidio_della_poesia_g_linguaglossa.htmll minimalismo, ovvero il tentato omicidio della poesia (G.Linguaglossa) 19 O «modo stile», come egli preferisce dire: «modo-stile, cioè questo stile diverso, estremamente libero. Quindi uno stile che non abbia paura della variazione continua» (G. Majorino intervistato da A. Inglese in L’immaginazione n. 242, ottobre 2008 ). 20 Ti trascrivo per comodità quanto ho detto in proposito: «La recensione al Viaggio di Alfonso Berardinelli è stata pubblicata su Avvenire (28 feb. 2009) ed è, pur nella sua brevità, esemplare una reazione molto diffusa oggi verso la ricerca di Majorino. Coglie verità evidenti e immediate: è un «poema senza limiti e senza confini: versi e prosa, politica, idee, incontri, sogni, filosofia, appunti»; «il libro ha un “carattere difficile”, chiede troppo al lettore, e non si fa capire». Ma arriva

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Credo poi che tua abbia anche appiattito eccessivamente Majorino sul post-sperimentalismo (categoria anch’essa che mette insieme all’ingrosso autori diversi) e trascuri o non t’interessano i fili, che lo hanno trattenuto almeno fino ad anni recenti a quella che egli ha chiamato «poesia critica» (Fortini, Pasolini) comunque di ascendenza marxista e che a me paiono invece apprezzabili.

Non so stabilire se , come dici, l’«iperrealismo» di Majorino sia accomunabile al «minimalismo», perché tutti i poeti che tu classifichi in tali categorie hanno «l'idea dello spazio come «contenitore» di oggetti, considerati come entità misurabili e calcolabili a-priori, e quindi spostabili e modificabili». So però che Majorino ha certe sue radici nel neorealismo (e politicamente nella “sinistra storica”). e, pur essendosi staccato da Marx per ricongiungersi di più a Nietzsche, esprimendo una medietà (quasi oraziana) continuamente ribadita in vecchiaia dal suo discorso dello spostamento21e che certe sue formule (singoli di molti; corpi di corpi; unica vita) possono servire a riaffermare neutralità, sospensione delle scelte o equidistanza, conserva nei suoi scritti una sua drammaticità ed eticità, che continuo ad apprezzare.

alla diagnosi di una «sconfinata, incurabile patologia», per cui il Viaggio sarebbe un esempio della « paralisi dell’immaginazione e della costruzione letteraria di fronte al mostruoso grigiore del mondo». Il poema – egli sostiene - non avrebbe né forma né luce poetica perché il suo oggetto (la«Milano impiegatizia, commerciale, bancaria, operaia, militante, manageriale, europea») non merita sublimazioni. Majorino sbaglierebbe, dunque, a voler fare testardamente i conti, da poeta, con questo «mostruoso grigiore del mondo» e così «chiede troppo al lettore, e non si fa capire». A me pare, invece, che Berardinelli sia arrivato al rifiuto di leggere le trasformazioni in corso. Avviatosi anche lui sulla strada della contemplazione estatica o disperata del mistero insondabile del mondo, la “realtà” per lui si è ridotta a «un enorme, indomabile inconscio biologico, un inconscio preumano e postumano, dove tutto è in metamorfosi». Ma per questo illeggibile o negata ai poeti? Sarebbe da discutere poi se la poesia, come egli pare sostenere, debba essere sempre o necessariamente sublimazione. Può essere anche desublimazione. Ma soprattutto sarebbe da discutere se il Viaggio abbia assunto questa “forma informe” «senza limiti e senza confini» per semplice mimesi del mondo confuso (o complesso?) d’oggi. Non lo credo. Anche se a volte certe dichiarazioni di Majorino tendono a giustificare la complessità del proprio linguaggio rimandando alla complessità del mondo. A me vengono in mente vecchi discorsi di Benjamin e di Fortini sulla caoticità apparente o reale del mondo (o della “realtà”) e sull’arte, che non ne è mai la semplice mimesi. Per me il Viaggio non è “difficile” solo perché la “realtà” d’oggi lo è ed esso ne ricalchi fedelmente gli ardui contorni. La “realtà” sarà pure complessa o difficilissima da intendere, ma non comanda automaticamente le scelte linguistiche di un poeta. Nel caso di Majorino, queste discendono da preferenze culturali, da modelli di scrittura assorbiti (quelli delle avanguardie novecentesche), dall’influenza della psicanalisi, dall’abbandono dell’opposizione a favore dello spostamento, ecc. Tra la scelta di mantenere la facciata delle forme unitarie della tradizione (la «sublime lingua borghese» di Fortini), magari parodiandole o riempiendone gli “interni” di contenuti moderni o comunque più frammentari e quella di partire dall’esperienza qualsiasi e soggettiva che si ha del mondo costruendo forme, il cui grado di compattezza o frantume non è codificato a priori (o è meno codificato delle forme classiche) Majorino mi pare abbia scelto questa seconda strada, con qualche nostalgia della tradizione, che nel caso del Viaggio l’ha portato a scrivere un poema/non poema, come ho detto». (Ennio Abate, SUL VIAGGIO DI MAJORINO (http://www.poliscritture.it/article.php3?id_article=383&var_recherche=Majorino) 21 Cfr. ancora i miei due scritti citati in nota 2.

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E non vedo molti poeti capaci ancora oggi come lui di evocare non l’Assenza, ma gli assenti dalla nostra spappolata ma ancora pantagruelica polis europea o italiana.22 Sui «quotidianisti»23

Concordo con la polemica contro il «dogma» del quotidiano e con le critiche puntuali e ben calibrate a Santagostini e Fantato. Meno sul principio teorico da cui la fai discendere. Dici: «c'è un abbassamento del linguaggio poetico «al livello della prosa». Il che sembra presupporre una netta e inequivocabile distinzione tra poesia e prosa e una gerarchia, per cui alla prima va riconosciuta sempre una funzione privilegiata. A me prosa e poesia, invece, paiono dimensioni contigue, da tenere (se possibile) distinte, potenzialmente cooperanti tra loro e a cui dare eguale importanza o a cui ricorrere alternativamente a seconda del tipo di rapporto – più intenso, meno intenso; più diretto, più indiretto – che riusciamo a stabilire con la “realtà” (o che la “realtà” ci impone volenti o nolenti). Le vedo come una manifestazione nel linguaggio della tensione io/noi, cioè di questo soggetto pensante-senziente oggi sempre più a doppia faccia (Giano?): l’una rivolta verso la singolarità (cos’è la poesia lirica, se non un’esplorazione di quanto il singolo – apparentemente isolatosi dagli altri - sente o “finge” di dire in solitudine?); e l’altra verso la molteplicità (cos’è la prosa, se non l’esplorazione di quanto condividiamo o dovremmo condividere con altri – vicini o lontani; reali o immaginati – presupponendo la loro presenza o la possibilità di dialogo con loro?).

Ma qui un punto di dissenso: per te «gli oggetti, privi di un correlativo oggettivo, restano muti alla comunicazione estetica». Sarebbero – intendo io - senz'anima. Ed obietto subito: ma il vero problema è il supplemento d'anima che manca ai “quotidianisti”? Non penso. Trovo, dunque, insufficiente la critica ai «quotidianisti» fatta in nome di Montale e del recupero del suo «correlativo oggettivo». Sto qui dalla parte di Fortini e della sua critica alla filosofia aristocratico-liberale di Montale che egli portò a fondo in quel saggio intitolato «Satura» nel 1971.24 Ti seguo, invece, con più convinzione quando imputi a Santagostini e Fantato di aderire all’«ideologia del «quotidiano»». Potrei aggiungere che questi poeti mostrano un loro limite (filosofico, di pensiero) perché trascurano i nessi del quotidiano vero (ma forse si potrebbe dire semplicemente della vita quotidiana) con la vita nel suo insieme; e ignorano o non si curano a sufficienza di tutto ciò (ed è 22 Che scrivano, ad es., cose che a me sembrano ancora decisive come queste:

«È che si discorre, si argomenta, si giudica ma il divario tra chi ha e chi non ha (neppure da mangiare) non diminuisce, non s’attenua, cresce». E nel Viaggio ce ne sono ancora, tanto che l’ho sottolineato così:

«Questi tragici e shakesperiani passi (da tener presente insieme a quelli più “danteschi” e “paradisiaci” dell’ultima parte del poema) sono per me tra i più forti, dolenti e veramente coraggiosi del poema; e del tutto fuori dal coro rispetto al cetomedio “reale” e ai poeti in circolazione oggi, anche giovani, che pur dal ceto medio in buona parte provengono. Perché da una parte trattengono, nei modi stilistici di Majorino, l’acido delle denunce più politiche dell’epoca della «poesia critica» e dall’altra sfiorano più da vicino la condizione degli “altri” che si agitano in quella «infernalità» o in quei paradisi soltanto «nervosi». 23 Citazioni da http://www.lietocolle.info/it/sc_send_to_friend/g_linguaglossa_su_santagostini.html 24 In F. Fortini, Nuovi saggi italiani 2, Garzanti, Milano 1987.

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un’immensità!) che quotidiano non è. La «moltiplicazione di «oggetti» che dall'esterno precipitano nel foglio bianco della pagina scritta» dei «quotidianisti» è, in fondo, una resa anche politica all'evidenza, all'immediato che viene proposto/imposto dai dominatori. In particolare attraverso i mass media, ma non solo. Non possiamo dimenticare che la dimensione del «quotidiano» -questo essere costretti a stare testa in giù nelle minuzie, negli scampoli di vita, nella routine come dannati dell’inferno dantesco - viene imposta anche attraverso il lavoro, il lavoro precario o il non lavoro o le guerre, le scelte finanziarie, ecc.

Non concordo neppure con un altro presupposto implicito in questa tua condanna dei «quotidianisti»: che, per fronteggiare l'assalto incessante della comunicazione mediatica, alla quale essi, quasi per difesa, cercano di opporre il loro «quotidiano» ideologico (il privato), si debba «dare dignità di discorso poetico alla pagina scritta». Come se mirare alla poesia – ricordare il cielo che manca - fosse il vero antidoto a quell’assalto. No, quell’assalto mediatico (e non solo) non può essere contrastato poeticamente, ma solo politicamente. Scrivere poesie contro la comunicazione mediatica (l’ha fatto Magrelli, no?), che vengono poi pubblicate su un giornale o lette alla Rai o alla Tv, aggiunge alimento “intelligente” alla macchina massmediatica populisteggiante.

E, infine, quando affermi a proposito di Santagostini che la sua poesia «sta di fronte al «reale» armata con le faretre del «reale» e fai notare che «questo «reale» nessuno sa che cosa sia» (e, nel suo caso, sospetti che sia soltanto «il «reale» della piccola borghesia che riconosce soltanto il suo «quotidiano» e lo innalza a «quotidiano» universale»), sento una debolezza dell’argomentazione. In due sensi: a) neppure tu (o noi) siamo in grado oggi di precisare cosa sia questo «reale» più universale di quello a cui Santagostini si riferisce; o di rispondere soddisfacentemente alle domande che tu pretendi di rivolgere ai «minimalisti»25; b) «il «reale» della piccola borghesia non è un concetto preciso e affidabile, perché – come dirò adesso – è lo stesso concetto di «piccola borghesia» che nel dibattito politico e letterario in corso non mi sembra più tale, cioè concetto affidabile (ammesso che lo fosse in passato). Sulla “piccola borghesia” Tu non ti limiti a una critica dello stile dei «quotidianisti» (della loro poetica). Accenni a una critica di tipo sociologico (come una volta), richiamando cause storico-sociologiche e affermando – in parte correttamente per me - che non si potranno «ripensare le fondamenta della poesia del secondo Novecento» senza procedere contemporaneamente alla critica dell'«ascesa della piccola borghesia a

25 «E poi, i minimalisti ci dicano finalmente: che cos’è il quotidiano? Siamo sicuri che il «quotidiano» sia quella «cosa» che perimetra il raggio d’azione dell’io nella vita quotidiana? E che cos’è l’io per i minimalisti? E che cos’è la vita quotidiana? È quella dei minimalisti? O è qualcosa di più sottile, sfuggente e complesso? E inafferrabile? Qualcosa che sfugge alla logica indagatoria di ogni filosofia positiva (e/o negativa)?».

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elemento stabilizzatore del quadro politico italiano (DC e PCI) dagli anni Sessanta in poi, con il corollario dei suoi intellettuali di riferimento che ne decantano le lodi e le qualità e le sorti progressive».

A parte il fatto che la storia ci ha fatto rotolare ben oltre questo quadro storico, portandosi via PCI e DC, questo è un punto in cui ti sento abbastanza vicino a Fortini (Insistenze, Extrema ratio). Ma l’uso della parolina ‘piccola borghesia’ da parte tua, a differenza dei discorsi fatti negli anni Settanta da Fortini sull’intellettualità di massa e i fratelli amorevoli, rischia di avere quasi inevitabilmente gli echi equivoci, moralistici e astorici, presenti nell’ Enzensberger degli anni Ottanta e esasperati qui in Italia da un Berardinelli, la cui involuzione per me è stata indecente.26 Ad es. quello che dici di Fiori27si potrebbe dire anche per te (o per me). Certo tu non ti poni nei confronti dei «quotidianisti» su un piedistallo, argomenti le tue critiche con rigore, ma la categoria «piccola borghesia» (o i suoi sinonimi: «quotidianisti», «minimalisti») rischia di diventare anche nel tuo discorso una categoria dello spirito, che non avrebbe più bisogno di essere controllata e si presenta oggi come ovvia, mentre lo è meno che mai.

Per me, invece, l’esigenza di controllare anche in questo caso il nome sulla realtà sussiste. La «piccola borghesia» classica, ottocentesca o primo novecentesca, non esiste più. Si è trasformata in un ceto medio indeterminato e in buona parte impoverito persino rispetto a quello degli anni Cinquanta. Per aver seguito tutto il discorso sul ceto medio di Sergio Bologna,28 che poeti e critici – gli umanisti – sarebbe bene conoscessero, ti inviterei a un approfondimento e almeno a una depurazione del termine dalle sue implicazioni moralistiche, ma anche dagli echi della diffidenza ideologica da vecchio PCI o da snobismo montaliano.

Sono più che convinto che la distanza tra il “noi” della «nuova poesia modernista», che tu stai tentando di costruire, e gli epigoni (quotidianisti, iperrealisti, minimalisti) della poesia “ufficiale” non sia così grande. E mi chiedo se a questa – necessaria, eh! - polemica “endo-ceto medio” (vedi le tue frecciate a Zeichen, Fiori, Majorino, Cucchi, Ferroni, ecc.) giovi ancora il taglio “militante” di una volta, del tutto novecentesco, malgrado la tua dichiarata volontà di andare oltre il Novecento. (Ti preciso, a scanso di equivoci, che sono per una qualche forma di «militanza», ma una militanza - per ora o non so per quanto tempo – che non può più avere lo stile o

26 In proposito cfr. Critici senza mestiere?Meglio se contrabbandieri Su «Alfonso Berardinelli il critico come intruso» a cura di Emanuele Zinato, Le Lettere, Firenze 2007 di Ennio Abate http://www.poliscritture.it/article.php3?id_article=134&var_recherche=Berardinelli 27 « i micrologisti (che sono tutti piccolo-borghesi non più soltanto per estrazione ma per formazione culturale [Nota mia: perché noi da dove veniamo e che formazione abbiamo avuto?], è che tanto più ti avvicini all’oggetto da condannare o da emendare tanto più cresce il risentimento e i bassi istinti nei confronti degli altri visti come «Voi».. A me pare che da questo rischio non si esce assumendo altri modelli di moralismo, che so alto borghese europeo o montaliano. 28 "Ceti medi quale futuro?" Le risposte di Sergio Bologna a 6 domande di Ennio Abate (http://www.poliscritture.it/article.php3?id_article=158&var_recherche=Sergio+Bologna Nuove strategie di libertà. Ritornando su Sergio Bologna e «Ceti medi senza futuro?» di Ennio Abate http://www.poliscritture.it/article.php3?id_article=189&var_recherche=Sergio+Bologna

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il linguaggio del passato, neppure quello di Fortini). Credo, cioè, che ci debba essere una più alta consapevolezza delle ambivalenze della nostra situazione di crisi. Di tutte: di quelle «quotidianiste» o «narrativiste», ma anche di quelle «poetiche», nostalgiche di un « un tempo posseduto e riconosciuto». Dobbiamo esplorare questa nebulosa che designiamo ancora con vecchi termini (piccola borghesia, ceto medio, o moltinpoesia, come dico io) ma, per farlo e non assolutizzarla (o farne l’unico – ideologico -bersaglio), dobbiamo intendere entro quali più potenti nebulose è inclusa.

Quando dici: «siamo sicuri che una poesia del «quotidiano» siffatta non sia, in fin dei conti, ancillare e complementare alla visione (politica) del mondo della piccola borghesia italiana nella sua fase di stagnazione economica?», mi chiedo: ma è solo la piccola borghesia a ristagnare? E cos’è, ad es., per te, quella «borghesia finanziaria» di cui nell’intervista a Santoro auspichi en passant una riforma? Quanto condiziona, ben più della «piccola borghesia», le sorti della poesia?

Insomma, la «piccola borghesia» mi pare un bersaglio troppo facile, ma – ripeto - allo stesso tempo da non scartare, perché bisogna pur indignarsi e criticare quelli a noi più vicini e denunciare questo nuovo populismo della poesia «quotidianista». Ma sapendo che noi stessi che lo denunciamo ne siamo inquinati e perciò spinti ad un quasi inevitabile moralismo elitario, che inquinerà anche la nostra critica (proprio come tu in qualche modo imputi a Fiori). Anche io ho parlato di recente criticamente del «cetomedista» Majorino e mi sono distanziato anche dal «cetomedismo» di Sergio Bologna, ma ho consapevolezza che siamo tutti piccolo borghesi (o cetomedisti). Voglio dire che non sono propenso a uno scontro a testa bassa - tutto endocorporativo (tra poeti) o endo-cetomedio. Se, per cominciare a uscire dalla palude, anche uno scontro interno alla piccola borghesia o ceto medio ci deve essere, deve risultare più chiaro in nome di chi o di cosa va condotto.

Questo oggi è per me il punto più problematico. E mi pare che tu lo copra con un piglio troppo sicuro, sprezzante, eroicistico. Per me c’era una volta la classe operaia e la rivoluzione; e allora la polemica contro la piccola borghesia o la diffidenza verso il ceto medio (da cui comunque io pure provenivo per studi, immaginario, ecc.) fu motivato con un’analisi della realtà classista della società italiana e con agganci all’immaginario marxiano della classe operaia: il punto di vista operaio contro il punto di vista piccolo borghese. Ma oggi?

Sulle antologie dell’ultimo trentennio Mi meraviglia il silenzio o lo sprezzo verso ricerche condotte su altre sponde.

Hai dichiarato nell’intervista a Santoro29: «Credo che l'utilità delle antologie pubblicate negli ultimi trent'anni sia prossima allo zero. Non c'è nessun «punto» della situazione. Quello delle antologie degli ultimi quindici anni è stato uno spettacolo squallido: ognuno ha fatto l'antologia a proprio uso e consumo […] Se guardiamo alla «poesia ufficiale», il quadro che ci si presenta è uno spazio bianco: all'interno non c'è nulla, proprio

29 http://www.lietocolle.info/it/intervista_a_giorgio_linguaglossa_d_santoro.html

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nulla. Se invece guardiamo cosa avviene e cosa è avvenuto fuori dell'editoria ufficiale, allora ci si apre un diverso e più ricco panorama. Innanzitutto, un'area che in un libro di critica in corso di stampa definisco «La Nuova Poesia Modernista Italiana […]Credo che la poesia, quella ufficiale intendo, quella pubblicata dagli editori «a diffusione nazionale», non abbia futuro perché non c'è alcun filtro critico. La poesia-spazzatura dei nostri tempi non ha nessun futuro perché non ha nessun presente».

È solo un’intervista. Ma rende - mi pare (attenuo sempre, quando non ho certezze) - la tua propensione allo sprezzo. Ora in questi anni io, da lettore curioso,ostile agli scompartimenti stagni, un po’ di queste antologie le ho spulciate e non trovo che siano del tutto inutili.

Nel 2000 lessi di Galaverni Nuovi poeti italiani contemporanei, Guaraldi 1996. Lo trovo tra l’altro - oggi che ho conosciuto meglio le tue posizioni - molto vicino a te per la propensione a rivalutare la Poesia e a vedere nella neoavanguardia una mera azione di disturbo. Anche quest’antologia a me offrì l’occasione di constare come la situazione di crisi della poesia viene vissuta dai più giovani. E un minimo di utilità gliela riconobbi.

Come pure, letta nel 2005, trovai fastidiosamente istruttiva una introduzione di Giorgio Caproni a un’antologia di Gioanola.30 Ahimè, quella curvatura elitaria del pur ammirevole poeta livornese (da professionista, da prete rispetto ai laici, da funzionario di partito rispetto alle masse)! E con tutti i suoi saldi corollari gerarchici: 1) la poesia la fanno i poeti, quelli cioè che hanno «un’idea precisa di ciò che sono e devono essere le tagliatelle» poetiche31; 2) gli altri dovrebbero fare i lettori e gli acquirenti; 3) i bravi critici selezionano i «valori reali» e li indicano al «vasto pubblico» agevolando la lettura, anche se parlano (e non possono che parlare) soggettivamente.

Per me la convinzione della complessità e delicatezza del problema dell’inclusione/esclusione (in poesia, in politica, in società) risale al ’68, quando fui colpito da una riflessione di Elvio Fachinelli su gruppo chiuso/gruppo aperto.32 E in Gioanola trovavo un esempio lampante del pressappochismo con cui i critici l’affrontano: «Certo ci sarà qualche nome in più o qualche nome in meno tra quelli che è possibile fare [quindi si tratterebbe solo di altri pochi nomi], ma, insomma, i valori [ecco la parola magica!] sono più o meno [ecco l’impunità del critico che si sente nella botte di ferro dei discorsi che girano nel suo ambiente] questi».33

Sempre nel 2005 mi misurai con una certa attenzione con «Parola plurale»34. Trovai quest’antologia elefantiaca, ma un ibrido interessante rispetto alle altre. Mi

30 In Elio Gioanola, Poesia italiana del Novecento, Librex 1996, p. 6 31 Figurati se la potevo fare io, che, come tu hai scritto – ripeto: in maniera fin troppo lusinghiera - nella recensione che mi hai donato appartengo a « quella schiera di poeti che sono poeti ma non sanno di esserlo, non sanno come mai ad un certo punto sono diventati poeti». 32 Gruppo chiuso o gruppo aperto? in «Quaderni piacentini», novembre ’68 33 Elio Gioanola, Poesia italiana del Novecento, Librex 1996, p. 10 34 AA.VV. , Parola plurale, Sossella 2005

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parve avesse il merito di affacciarsi con più decisione nella nebulosa poetante italiana d’oggi e in modi agguerriti, facendo lavorare in gruppo una schiera di giovani critici. Non mi sfuggirono quelli che a me parvero limiti e compromessi dell’operazione,35 ma non erano tali da farmela ignorare. E del resto anche Cortellessa su certe questioni scriveva cose abbastanza simili alle tue: vedeva la conclusione della neoavanguardia («ultimo tentativo compiuto dal Moderno di rinnovare l’idea di Forma senza allontanarsene del tutto», 20) o individuava, come tu pure fai, l’uscita della Beltà di Zanzotto come momento di deflagrazione della forma della lirica tradizionale e l’inizio di un’altra idea di forma (20). E aggiungeva un’osservazione che a me ha dato da pensare: «caduta del resto in disuso l’idea di Forma, non si vede davvero perché lo spettro .. del ‘pubblico della poesia’ autoreferenziale, diaristico e dunque privo di qualsiasi idea del linguaggio poetico, di qualsiasi bagaglio di cultura poetica – debba essere considerato qualcosa di diverso dai poeti ‘veri’» (22). Sul linguaggio che servirebbe oggi

Sulla tradizionale questione del linguaggio (da rinnovare dall’alto con l’azione illuminata degli intellettuali o che si rinnova per altre vie più complicate?) non ho una visione sistemata. Ma in proposito ho fatto occasionali rilievi, che di seguito ti espongo e sui quali sentirei volentieri la tua opinione:

a) Commentando il Viaggio nella presenza del tempo di Majorino ho scritto:

«È sufficiente – mi chiedo - che la poesia, per resistere alla propria distruzione (e a quella del mondo) si velocizzi, insegua l’atomizzazione, la pluralità o il molteplice, afferri gli istanti al posto dell’insieme (di quello che una volta era la «totalità»)? I poeti oggi devono cercare solo o soprattutto un linguaggio che afferri in qualche modo «questa grande incessante complessità», impegnandosi in una ricerca da laboratorio e necessariamente staccata dai linguaggi

35 Che così sintetizzai: 1) Indica il punto di rottura, la «faglia epocale» [(causa più lontana e profonda il ’68) che ha separato la Poesia Moderna, dotata di una «Idea della Forma», da quella d’oggi.: attorno al 1975 - anno per gli autori fortemente simbolico (Montale ottenne il Nobel, fu ucciso Pasolini e uscì Il pubblico della poesia di Berardinelli e Cordelli, antologia cult da cui questa prende le mosse) – La nuova fase è quella di una «Odissea di Forme»…] ma non spiegava, non ragiona sul perché di questa rottura; 2) Dà una visione della poesia troppo ottimistica:[ «serve, eccome, serve a tutti appunto senza servire nessuno». L’affermazione era generosa e simpaticamente paradossale. Le inquiete interrogazioni di alcuni dimenticati maestri del passato anche recente, qua e là omaggiati, ma in realtà evitati - sono bellamente saltate; 3) Si ha insomma l’impressione che gli autori abbiano troppa fretta di celebrare il nòstos della poesia. Ma in quale Itaca essa torna in tempi di globalizzazione (e di guerra globale)? Sarà un nòstos di resistenza o di accomodamento?; 4) ragiona su una sezione della produzione poetica contemporanea comunque ristretta (anche se onestamente lo dichiara): quella monitorata da alcune cattedre universitarie (Roma in primis) e da alcuni editori “minori”. Anche per Parola plurale resta insondato il cosiddetto “sottobosco”, che finché non mappato convenientemente non andrebbe snobbato o demonizzato ideologicamente; 5) Ultima obiezione imboccata la via del plurale, del molteplice (di Deleuze insomma e sullo sfondo io ci metterei la via della «democrazia assoluta» di Spinoza), non si capisce bene perché i curatori insistano ancora a fare un’antologia, anche se più plurale e seria di quella di altri pluralisti.

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massificati, che sono comunicativi solo in apparenza e in mano ai “dittatori dell’ignoranza”? O dovrebbero collegarsi alle ricerche che puntano a un linguaggio comune (il contrario o qualcosa di diverso da quello dei mass media)? Si può far di più oggi in questa direzione? Anch’io contrasto la pigra opinione che appiattisce la ricerca linguistica di Majorino sul neoavanguardismo degli anni Sessanta. Credo però che, comunque, sui problemi di quella stagione egli pure si sia mosso e che abbia condiviso con il neoavanguardismo un certo “oltranzismo” linguistico. Motivare, infatti, la sconnessione del linguaggio ricorrendo all’inconscio (Zanzotto) o, come fa Majorino, appellandosi alla “realtà”, che si sarebbe messa a correre già dagli anni Cinquanta o all’«epoca del gremito», invece che con l’ideologia (Sanguineti), significa motivare diversamente una stessa esigenza “epocale” variamente sentita da molti scrittori. Questo “oltranzismo” è stato ed è destruens. Non vedo però realizzata nel poema l’operazione che Gardella vi scorge: «la lingua stessa fatta dionisiacamente a pezzi e ricomposta come nuova» (Surliuga, Idem, p. 76). Vedo l’operazione anarchica individuale che tanto entusiasma alcuni giovani critici, ma non la ricomposizione, che forse non può venire da operazioni di tipo individuale o di gruppo. Non mi convince neppure l’estremo relativismo di questa affermazione di Majorino: «perché in fondo le poesie possono andare in tutte le direzioni e ciascuno le deve interpretare» (Surliuga, Idem, p. 78). La plasticità del linguaggio (Finnegan’sWake di Joyce per intenderci) e la sua polisemia portate all’estremo, anche quando l’operazione è compiuta da un grandissimo scrittore, riducono comunque la comunicabilità accertabile. E questo resta un problema per chi non può accontentarsi di un atteggiamento puramente iconoclasta o dionisiaco. Perciò mi sento di contestare una serie di affermazioni. Majorino dice: «[In Alleati viaggiatori] ogni parola, quasi, e sicuramente ogni verso e ogni evento cambia completamente la scena» ( Sur81); «non vi è mai un filo conduttore, in nessuna poesia, anche le più brevi. Questo lo ritengo uno dei caratteri importanti, che ha a che fare con questo “gremito” in cui viviamo. Più che fare un discorso unico, che sento riduttivo, spesso improvvisamente, inaspettatamente, si spalancano una ressa di indicazioni, che filano come frecce» (Surliuga, Idem, p. 85). Mi dico: va bene questo andar dietro alla «ressa di indicazioni» nella fase di ricerca, ma poi uno scrittore si rilegge (si ritrova per così dire dalla parte del lettore) e allora perché non riordinare la ressa, rallentare le «frecce»? Anche la scrittura automatica dei futuristi o dei surrealisti voleva star dietro alla velocità delle macchine o alle proliferazioni dei sogni, ma i risultati furono discutibili. Dice pure Majorino: «Continuo a vedere tutti noi, me incluso, come una sorta di esseri stratificati, la cui identità consiste proprio nell’essere composti. Questa molteplicità e mobilità qui sono molto rappresentate. Addirittura cambiano le parole, come tempi e persone… La famosa globalizzazione è investita dall’interno; non si sa se si parla di uno di tre o di molti, è dovunque»(Surliuga, Idem, p. 23). Obietto io: ma cosa succede nella mente dei lettori quando si trovano di fronte alla giustapposizione di varie voci, senza possibilità di distinzione e, soprattutto, di “traduzione” dei significati nella lingua di cui essi in quel momento dispongono? Resta il fatto che in «questa concentrazione verbale» (Surliuga, Idem, p. 23) il «significato più diffuso» è afferrabile, perché appunto comune, ma i significati aggiuntivi o gli altri sensi delle parole comuni non sono afferrati. E allora quando Majorino dice: «I miei versi esigono perlomeno due tipi di letture: il primo sembra chiaro e per la terminologia e per il ritmo e per la tematica così contemporanei. Il secondo presuppone un addentrarsi in una pluralità spesso solo balenante, affidata quasi sempre a invenzioni o combinazioni linguistiche generanti concetticona e viceversa» (Surliuga, Idem, p. 21), mi viene da chiedere: a chi viene affidato il secondo livello di lettura? Al massimo verrà praticato da pochi studiosi o lettori volenterosi. Perché allora non pensare che è nella stessa fase della ricerca (o subito dopo i suoi primi risultati, come dicevo prima) che il poeta o lo scrittore deve o dovrebbe egli stesso intervenire senza aspettarsi che ci pensino poi glossatori o parafrasatori?

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Majorino dice ancora: «Io mi sento […] all’interno di uno scrivere continuo che non ha termine e che non ha paletti […] Qui la faccenda è andata altrove […] È che la realtà si è messa a correre e muta ininterrottamente (lo si sentiva e comprendeva già negli anni Cinquanta» (Surliuga, Idem, p. 25). Ammettiamo che sia così. Ne discende obbligatoriamente che la scrittura debba necessariamente inseguire il mutamento della “realtà”? Non può, per così dire, attenderla al varco? E può davvero la scrittura inseguire il movimento della “realtà”? O ha dimostrato che lo può solo in quei modi, non del tutto soddisfacenti per me, che approssimativamente chiamiamo “sperimentali”? b) E, prima ancora, in una serie di domande per un’intervista poi mancata a Biagio Cepollaro, chiedevo: Ho riaperto anche «Perché i poeti nel tempo del talk-show?» ( Allegoria 14, 1993). Vi parlavi di «idioletto», inteso come «linguaggio vivo e vivificato dal suo essere al confine, dalla sua posizione critica nel punto di confluenza tra i diversi linguaggi che attraversano il tessuto sociale» e ponevi l’esigenza di «aprirsi alla mescolanza linguistica» per affrontare coraggiosamente la «nuova condizione antropologica» dovuta al mutamento di tecnologie, contesti culturali e condizioni sociali generali. Mi pare che cominciassi così a fare i conti con quella che oggi chiamiamo «mondializzazione». Mi colpisce in questo scritto però l’attenzione rivolta esclusivamente ai linguaggi, ai «linguaggi della realtà» (con il conseguente silenzio o la mancanza d’interrogazione esplicita sulla “realtà”) e alla mescolanza (solo - o soprattutto - dei linguaggi). Poteva, può bastare? [* Nota mia. Mescolare non basta per me. Può essere un segno di apertura, di “buone intenzioni”. Ma l’accostamento caotico – gradevole, sgradevole, sorprendente o seriale – di segni, simboli, significanti non lascia irrisolto il problema ben più grosso e difficile di traduzione tra i linguaggi che si mescolano? “Sotto” (o “indietro”) non restano i significati, un campo dove i conflitti sono più ardui, e questi, a loro volta, non rimandano ai conflitti sociali, materiali, “immateriali”?] c) E, infine, commentando una presa di posizione di Cataldi:

Solo in leggera controtendenza al prevalente discorso sul «declino della poesia» si pongono gli interventi di Pusterla e Cataldi, entrambi sostenitori di una funzione ancora positiva dello stare ai margini della poesia. Il primo ne parla con autoironia: i poeti contemporanei sarebbero ormai dei membri di una sorta di «sacra corona unita della poesia» o coatti di una «resistenza catacombale» al «linguaggio [che] diventa il luogo della produzione»36. Il secondo insiste sul fatto storico che nella modernità il posto della poesia è stato sempre ai margini, perché «parla una lingua antica in mezzo ai moderni», anzi fa sua «la necessità di rivolgersi ai morti in una lingua morta» e, perciò, pur «percepita come un’attività arcaica», essa sarebbe «in alternativa al mercato»37.

parlavo di un linguaggio comune, la cui costruzione però non veniva soltanto o soprattutto dai poeti:

Non si può comunque continuare a difendere in poesia una qualità neutra, una bellezza neutra, che continuano ad avere connotati elitari o sono estensioni “democratiche” di valori nati dai modi di vita delle élite oggi impraticabili. I modelli di questa bellezza neutra, continuamente riusati

36 Fabio Pusterla , in Genealogie etc., pag.139. 37 Cataldi, in Genealogie etc., pag. 154:«Non pensavano forse antico Dante e Leopardi in mezzo a due svolte radicali di modernizzazione?» . Resta il dubbio: non tutto ciò che è marginale è davvero in alternativa (se non ideale forse) al mercato.

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e quindi convalidati socialmente (attraverso la scuola e oggi sempre più i mass media), diventano indiscussi e automaticamente con la loro evidenza materiale impediscono di porre il problema di una qualità e di una bellezza comuni, di tutti e per tutti.

Una bellezza comune, moltitudinaria, per sorgere e affermarsi ha bisogno di un linguaggio comune, moltitudinario. Non è quello semplificato sì, ma inerte, di cui i mass media c’invadono. Non sono le sue regole che possono entrare nella grammatica della moltitudine poetante e farla diventare un De vulgari eloquentia adatto a questi tempi postmoderni. E neppure, credo, quelle novecentesche elaborate dalle neo e postavanguardie contro la banalizzazione mediatica inferta alla lingua di uso.38 Un linguaggio comune può venire solo da una piena espansione delle potenzialità poetiche39 dell’esperienza che come singoli-moltitudine riusciremo a fare nel tempo di vita/lavoro sempre più interconnessi e, in molti casi, già indistinguibili.

Per approssimazioni analogiche esso dovrebbe essere una sorta di nuova koiné planetaria: non un cervellotico esperanto, ma un ibrido di lingue a forte traducibilità e comunicabilità40 ricavabili da un’oralità vis à vis non subordinata ai codici banalizzati, ristretti e fortemente centralizzati, imposti in quasi tutti i mass media, con un possibile coefficiente comune di espressività anch’essa sempre in fluida modificazione, anche quando dovesse rifarsi – com’è prevedibile – a contenuti per noi astorici o distanti dalla nostra “storia”.

Esistono alcune di queste ipotetiche tendenze comuni nella scrittura che già oggi va producendo la moltitudine poetante? È difficile dirlo in mancanza di una analisi sui testi41. A me pare che una prospettiva moltitudinaria in poesia possa essere solo intravista emblematicamente accostando con la forza dell’immaginazione le figure dei migranti, quelle dei lavoratori dell’immateriale e quelle della nebulosa poetante. Sono esse a ricordarci, malgrado fortissime ambivalenze, che viviamo nel tempo dell’esodo e a sollecitare, con la loro presenza spesso troppo muta, la costruzione di una lingua comune, una lingua che sia anche lingua dell’esodo, per fuoriuscire dai limiti delle tradizionali culture nazionali e incontrarci, traducendoci, nella libera circolazione di tutte le istanze fondatrici di nuovi luoghi comuni moltitudinari. Migranti, nuovo proletariato, scriventi poesie: non si può dire con nessuna certezza quanto essi vogliano esodare e quanto invece voglia essere semplicemente riconosciuti dentro il contesto attuale, costruendosi – come si dice – una normale 'identita' con i materiali che riusciranno a raccattare per proprio conto o puntando ad un’autoaffermazione individualistica e circoscritta.

A me sembra di avere in queste note esplicitato alcuni spunti elementari (bisognosi di approfondimenti, meglio se condotti assieme ad altri, scrittori o scriventi) di come si dovrebbe ripensare oggi la questione del linguaggio: - coltivando la volontà di stare addosso alla realtà (quella mondializzata o in via di contorta e mai certa mondializzazione), mirando ad attenderla al varco più che ad inseguirla; - puntando a collegare - legame per me indispensabile e non di semplice mescolanza linguistica, di meticciato come oggi si dice o di accostamento caotico un po’ alla Pound - ricerche di laboratorio (quindi poetiche, ma non solo) e pratiche dei linguaggi massificati, per arrivare a un linguaggio comune, nel doppio senso di praticabile dai molti ma non in maniera irriflessa (come dato ricevuto/imposto) e depurato da specialismi o gerghi corporativi, che lo rendono in-comunicante o 38 Altro discorso farei per le avanguardie storiche che operarono a ridosso della Grande Guerra e della rivoluzione russa del 1917. 39 Qui in senso vasto, che non comprendono dunque esclusivamente la scrittura di poesie 40 In cui entra la macchina, e di certo anche Internet, ma con una funzione parziale di fluidificazione che non può sostituire l’incontro effettivo dei corpi in ambienti fisici anch’essi in mutamento. 41 Da qui l’importanza dell’inchiesta. Quella da noi avviata è solo un prototipo.

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incomprensibile nei propri ambiti vitali, perché mantiene la sua matrice elitaria di linguaggio nato per arrivare a pochi e in ambiti riservati a pochi. (E tra questi ci metto – giustificandone però parzialmente la ragione “storica” - anche l’oltranzismo linguistico anni Sessanta/Settanta di Zanzotto, Sanguineti, ma anche di Majorino, perché solo o soprattutto destruens); - dando importanza alle operazioni intenzionali (cioè desiderate, cercate: sia dall’autore che dai lettori) di traducibilità dei significati (semplici e complessi, letterali e profondi, che sempre rimandano ai conflitti sociali, materiali o “immateriali”); - distanziandomi dalla scelta fortiniana (sostenuta anche da Cataldi) di un uso della «lingua morta» in funzione antimercantile e antimassificazione, che considero comunque elitaria, e tentando di pensare e costruire una bellezza e un linguaggio comuni (qui forte la suggestione della grammatica della moltitudine di Paolo Virno) a forte traducibilità e comunicabilità affidata ai singoli-moltitudine. Sui moltinpoesia («pletora di mediocri»?)

In quest’ultimo titolo sintetizzo il dubbio amletico in cui mi dibatto da un quindicennio circa, cioè da quando ho cominciato a riflettere in ristretti gruppi di amici o redattori di riviste (Inoltre, Il Monte Analogo, Poliscritture) sul senso della poesia d’oggi e anche – dal 2006 come ho detto - in un luogo “aperto a tutti” gli “scriventi versi” (il Laboratorio Moltinpoesia) di “nebulosa poetante” o di “moltitudine poetante”. Poi, per evitare commistioni con la versione negriana di Spinoza, divenuta di moda attorno al 2003, quando avevo scritto Poesia moltitudine esodo, ho preferito il termine più circoscritto di moltinpoesia.

Dal 2003, però, devo ammettere che, tra i poeti e critici “navigati”, ho avuto ben pochi e tiepidi interlocutori interessati a scavare il concetto; mentre la partecipazione al laboratorio di “dilettanti” o “fans” della poesia c’è stata, ma troppo ingenua, volontaristica e a volte, per ambivalenze ed equivoci, imbarazzante per me, che ho tentato praticamente da solo la via di organizzarla in momenti di espressione e riflessione. E mi colpisce amaramente anche la tua posizione.42

Eppure insisto a porre il problema anche con te. Perché vorrei evitare lo stacco tra l’élite dei refusés e la massa dei refusés, convinto che accorgersi di essere molti in poesia e non più pochi ma buoni e organizzarsi per esserlo consapevolmente, non alla selvaggia ma in modi ragionati, comporterebbe – se il processo riuscisse – una profonda democratizzazione del fare (leggere, scrivere, diffondere) poesia.

La tua proposta, invece, mi pare voglia ancora sferrare un attacco alle élites dell’Istituzione-Poesia con un “partito”, quello della «nuova poesia modernista italiana», per ottenere una maggiore “partecipazione” o l’integrazione in quella di un certo numero di poeti validi.

42 «noteremo anche un fenomeno tipico del tardo Novecento: la presenza di una sorta di diffusione di massa della poesia, che viene esercitata da una pletora di addetti sempre più numerosa e confusa» in http://www.lietocolle.info/it/sc_send_to_friend/il_minimalismo_ovvero_il_tentato_omicidio_della_poesia_g_linguaglossa.htmll minimalismo, ovvero il tentato omicidio della poesia (G.Linguaglossa)

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So che, avventurandomi su questo terreno ambiguo, mi sono allontanato un bel po’ da Fortini, resto inascoltato e in attrito latente con poeti e critici di solida formazione e rischio pure di passare per populista. Ma non è così. C’è per me una necessità di allargare lo sguardo, di non fermarsi alla punta dell’iceberg (i manager alla Cucchi, Magrelli ma mettici anche Mussapi) con le loro poetiche e politiche editoriali; né all’area dei poeti più “affini”. Ma di sondare la parte dell’iceberg vasta, inesplorata, che non appare in superficie (quella che chiamo moltinpoesia).

Che conoscenza si ha di questa sorta di “inconscio poetico”? A me pare che tu, come altri in posizione più defilata e marginale, stiate attingendo solo ad alcune zone di questo mare magnum43 del tutto ignorato o svalutato per mero ideologismo elitario. Eppure farei notare che, anche a voler stare negli standard di qualità ritenuti “normali” o “interessanti”, la trentina o cinquantina di poeti che, a seconda delle varie poetiche e logiche editoriali, viene considerata degna d’attenzioneda parte di questo o quest’altro antologizzatore andrebbe moltiplicata (non faccio cifre). E che è troppo comodo, ma anche miope, vedere, oltre ai propri “preferiti”, solo torme di scriventi che al massimo poetano con gli scarti degli addetti ai lavori.

Oltre al ferreo pregiudizio elitario, che rende poco curiosi degli “altri” se non stanno nella ristretta cerchia dei propri conoscenti o colleghi, alla difficoltà obbiettiva di svolgere un’inchiesta seria in proposito per mancanza di fondi e di ricercatori motivati e al rintanarsi dei critici “seri” negli specialismi accademici, quei pochissimi che hanno gettato le reti in alcune aree del suddetto mare magnum si sono limitati a proporre il loro “pescato” secondo la vecchia logica antologizzante di sempre.

Non voglio essere ingeneroso verso il tuo lavoro. Ma temo che, se non ci si attrezzerà per vagliare scientificamente (non paternalisticamente, non populisticamente, non con l’intento commercialistico anche delle “coraggiose” piccole case editrici44) i testi ignoti delle “masse scriventi” (o moltinpoesia) rimarrà intatta la divaricazione (complementare) tra proliferazione poetica/parapoetica selvaggia e verticalizzazione corporativa dei pochi ma buoni. Ci si può lamentare (vanamente) della prima (“tutti scrivono poesie e nessuno legge”) e scantonare sulla seconda? (O trascurare la prima come irrilevante e cercare di correggere un po’ la seconda?). Ci vuole una visione d’insieme. Non si possono continuare a fare discorsi in stanze separate e incomunicanti: qui sulla crisi della poesia (a parte il fatto che alcuni la negano addirittura: questo Gianmario Lucini ad es.); là sulla crisi del linguaggio poetico; qui sulla politica editoriale condizionata dal “mercato” (Cfr. Passigli); là di “parapoesia”, similpoesia”, “poesia espansa”.

Pur avendo presenti tutte – quasi tutte! – le ambiguità e non nascondendomi gli aspetti palesemente deteriori (tumorali) del fenomeno dei moltinpoesia, non riesco tuttavia a sopportare le logiche dello snobismo o dell’invocazione moralistica agli ignoti - emessa quasi all’unisono da vari e insospettabili pulpiti - affinché smettano (solo loro!) di produrre libri “inutili” o gli appelli ripetuti agli scriventi versi a non farlo, se non in privato (come fosse cosa sconveniente o peccaminosa), e a presentarsi

43 Così l’ha definito Berardinelli con la spocchia di chi ha cose più interessanti da pensare. 44 Per divertirti, un giorno ti manderò un mio carteggio anni Novanta con Manni editore!

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invece ai reading dei “veri” poeti (o presunti tali o classificati tali da giurie più o meno serie) come pubblico compìto e magari pagante.

Vorrei – sia chiaro – non contrabbandare per poesia la versificazione scomposta e alienata, ma spingere a un ripensamento totale della Poesia (di qualità e di massa) e degli stessi criteri di valutazione estetica e contenutistica. Non vedo nessun reale miglioramento in una discreta inclusione nella corporazione poetica di una manciata di meritevoli, neppure approntando antologie spostate fuori dalle corporazioni. Mi pare una soluzione vecchia, che non vede, non pensa e non opera sul potenziale aspetto positivo che la superficie (la falsa democratizzazione della poesia) oggi – spero! - copre.

Certo i tempi stanno cambiando ancora (pare in peggio) e sento che lo spazio sia per i sogni che per i ragionamenti sulla mia prospettiva di una profonda democratizzazione di tutte le pratiche poetiche45 si vanno riducendo; e la via delle cordate, dei partitini, sembra più praticabile. Il che aumenta le mie incertezze di “studioso partecipe” (soggetto e oggetto allo stesso tempo del fenomeno che studia). E perciò oscillo tra una visione potenzialmente utopista e una visione più scettica e più disperata: emergerà davvero un potenziale soggetto multiplo per rinnovare la poesia o passerò gli ultimi anni della mia vecchiaia a illudermi di poter convincere ad autorganizzarsi un «ceto medio semicolto», che viene dipinto come il peggio che esista oggi, preda dell’arroganza, del presenzialismo o della «dittatura dell’ignoranza»?

La prima mi spinge a provare e a riprovare. La seconda a cercare la discussione “tra i dotti” magari ancora “militanti” (inter nos comunque). E mi spingo a pensare 45 In una logica che cosi delineavo nel n. 1 de «Il Monte Analogo» (2003): Ancora da Spinoza derivo l’idea della conoscenza (e implicitamente anche della poesia) come perfezionamento continuo della comunicazione che moltiplica la potenza di tutti. «La lingua è conservata contemporaneamente sia dal volgo che dai dotti» - affermava il filosofo - e il senso delle parole è determinato dall’uso comune che ne fanno i «dotti» e gli «ignoranti» in quanto comunicano tra loro. Se alcuni individui conoscono più di altri – aggiungeva - questo non significa che la conoscenza debba servire a istaurare un rapporto di obbedienza tra coloro che sanno e coloro che non sanno. Perciò, il fatto che poeti di lunga pratica e con talento straordinario scrivano ottime poesie o che pochi lavoratori immateriali oggi dominino processi lavorativi veramente poetici può servire alla moltitudine vivente (come a me tornano utili le idee di un grande filosofo come Spinoza). Ma, affinché i molti possano servirsi liberamente nella loro vita e nelle loro attività degli eccellenti percorsi di conoscenza aperti da poeti, filosofi, scienziati, bisogna che venga corretta la divaricazione fra specialismo e dilettantismo, fra «eccellenza» e «mediocrità», fra «uomini di qualità» e «uomini senza qualità». Si tratta di mettere in contatto le singolarità “forti” e quelle “deboli”, affinché rese fluide possano incontrarsi, non irrigidire le loro differenze, e non fissarsi o ignorarsi a vicenda. Una prospettiva moltitudinaria, liberandosi dagli schemi del pensiero elitario (liberale, razzista, classista o sessista), valorizza le singolarità e non irrigidisce le differenze. Essa non abbandona l’ipotesi di una possibile unità delle differenze e l’ipotesi di una base comune, pur nelle differenze, delle singolarità. Punta cioè alla fecondità degli scambi, delle contaminazioni, delle dialettiche (non più a senso unico, come quelle progressiste o pedagogiche, che spesso sono partite dall’alto di una Tradizione per depositarsi nel basso della quotidianità, verniciandone la miseria senza rivitalizzarla). Moltitudine non è caos selvaggio, ma scorrevolezza della comunicazione fra la molteplicità vivente. Elitarismo non è ordine tranquillizzante, ma eliminazione dell’altro da sé e ingessamento di una identità in apparenza splendida ma rigida. In poesia, allora, fra riuscito e non riuscito, fra livelli qualitativamente alti, medi, bassi, una prospettiva moltitudinaria coglie continui rimandi da sviluppare, non da isolare ancor più staccando di netto l’eccellente dal mediocre.

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che l’oscillazione esista anche in te e che tu la copra con un certo eroicismo o stoicismo.

Insomma, vorrei che maggiore attenzione critica fosse rivolta alle zone oscure e ambigue della realtà (sia poetica che sociale). Andrebbero meglio capite – come dicevo - le realtà che corrispondono ai nomi (approssimativi) che usiamo (piccola borghesia, intellettualità di massa, moltitudine: lavorante, scrivente, poetante) di oggi in rapporto ai mutamenti sociali ed economici (scolarizzazione di massa, terziarizzazione, informatizzazione), politici ( crisi del sistema dei partiti, etc) e culturali (marxismo, pensiero debole, postmodernismo).

Andrebbe con più pazienza indagata e compresa la trasformazione non lineare, di un soggetto, che io intuisco scisso e ormai ibrido: una sorta di “io/noi”, che sta cambiando rispetto al passato anche recente (anni Settanta all’incirca), quando l’ io aveva la possibilità di diventare autore, auctoritas, “traliccio”, come tu dici; e il noi facilmente si aggregava attorno a un leader per stilare manifesti, far sorgere gruppi o riviste. Non che oggi queste cose non si tentino o non ci siano. Anzi sono esasperate e confuse pure dalla maggiore disponibilità di strumenti informatici che enfatizzano i narcisismi, i presenzialismi o i gregarismi politici e culturali.

Sarebbe pure da capire meglio come questo soggetto ibrido viva in noi. Quando mi metto di più dalla parte dell’io, vedo i moltinpoesia come un “cattivo soggetto” del tutto incapace di sostituire i (mitici, però) soggetti forti, i «poeti traliccio» o di criticare i «ministri della poesia», intellettuali dopotutto tradizionali per privilegi e prebende. Quando mi metto dalla parte del noi - questa «piccola borghesia», o «ceto medio» o moltinpoesia -, esso mi pare comunque l’unico serbatoio da cui – non so dopo quanti sforzi e fra quanto tempo – ci si può aspettare l’emergere di qualcosa di nuovo per affrontare i problemi della poesia in rapporto realistico col mondo della globalizzazione, della trasformazione dei lavori, dei revanscismi etnici, dei ritorni del sacro, delle guerre ecc.

E, combattendo contro la tentazione di una scelta drastica di un polo o dell’altro (un lavoro tutto da solo o l’adesione ad un gruppo o partito culturale già organizzato e solido), mi sono sforzato di costruire e incoraggiare la costruzione di luoghi comuni (riviste, laboratori), dove questo io/noi possa farsi le ossa o cominciare a depurarsi dell’ “ideologia poetese” che l’affligge. E che è tanta davvero.

Questa uscita dal proprio io per arrivare a riconoscersi io/noi e spingersi al confronto con altri/e su quanto ciascuno scrive e su quanto gli altri scrivono o sui modi di interpretare queste scritture o sulle idee di poesia necessaria non è automaticamente garantita dagli incontri. dalle mail. Ma, se crescesse la consapevolezza politica della necessità di essere positivamente anfibi (di muoversi tra io e noi, tra basso e alto, come afferrato da Spinoza), ogni occasione potrebbe essere buona per mettere in comune e trasformare quello che spesso, visto in solitudine, appare immutabile.

La tensione esistente tra solitudine(io) e cooperazione(noi) resta. È inutile occultarla. Ma potrebbe evolversi positivamente, quando crescesse la consapevolezza che vanno evitate e contrastate sia le tentazioni solipsistiche ed elitarie sia le scorciatoie della «burocratizzazione della poesia».

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Se queste prevalessero, qualsiasi tentativo di discussione o organizzazione diventerebbe amministrazione (fallimentare) di una rendita culturale imbalsamata, gestione del reclutamento di adepti unidimensionali, promozione antologica dei propri amici e conoscenti. Solipsismo e burocratizzazione non hanno nulla a che fare con la dialettica inquieta ma costruttiva che in passato c’è stata tra le ricerche poetiche più orientate allo scavo nell’interiorità, nell’inconscio, nell’esistenziale o nella dimensione metafisica e ricerche proiettate verso la storicità, la socialità, la materialità e quotidianità del vivere. Questa dialettica ha caratterizzato la poesia per tutto il Novecento. Noi la ereditiamo e la dobbiamo vivere a fondo e, se possibile, oltrepassare. Ennio Abate 26 LUGLIO 2010