VESPERTILLA Numero Intermedio 1-2012 (settembre-ottobre)

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Periodico di approfondimento culturale - Anno IX - supplemento n° 4 luglio-agosto 2012- Prezzo € 5 Periodico romano di approfondimento culturale: arti, lettere, spettacolo “...non più una cul- tura che consoli nel- le sofferenze, ma una cultura che protegga dalle sofferenze, che le combatta e le eli- mini...” Elio Vittorini, 1945 “Scrivere non è descri- vere. Dipingere non è rappresentare.” George Braque

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Vespertilla intende offrire un nuovo servizio ai propri lettori: la rivista uscirà infatti nei mesi intermedi al numero ordinario bimestrale con una pubblicazione più breve, in cui saranno segnalati, tramite anticipazioni, presentazioni e approfondimenti, film, spettacoli teatrali e mostre che, secondo la redazione, rivestono particolare interesse.

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Periodico romano di approfondimento culturale: arti, lettere, spettacolo

“...non più una cul-tura che consoli nel-le sofferenze, ma unacultura che proteggadalle sofferenze, chele combatta e le eli-mini...”

Elio Vittorini, 1945

“Scrivere non è descri-vere. Dipingere non èrappresentare.”

George Braque

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VESPERTILLADirettore Responsabile: Serena PetriniDirettore Editoriale: Luigi SilviCondirettore: Ilaria LombardiVicedirettori: Serena Epifani, Francesca MartelliniSegretaria di Direzione: Maria Pia MonteduroResponsabile settore teatro: Mariella DemicheleHanno collaborato a questo numero: Serena Epifani, Ilaria Lombardi,Francesca Martellini, Maria Pia Monteduro, Luigi Silvi.La collaborazione sotto ogni forma è gratuitaImpaginazione grafica: Maria Pia MonteduroEditore: Associazione Culturale ANTICAMente via Sannio 21, 00183 RomaINFO 3476885334 - [email protected] - [email protected] registrata presso il Tribunale Civile di Roma n. 335-05.08.2004Stampa: Copypoint - via dei Funari 25, 00186 Roma

SOMMARIOTEATROPRESENTAZIONI SPETTACOLI PAG. 3

ARCHEOLOGIAPRESENTAZIONI MOSTRE PAG. 6

ARTEPRESENTAZIONI MOSTRE PAG. 10

CINEMAPRESENTAZIONI FILM PAG. 14

Doganalisti specializzati in Mostre d’ArtePadova Rovigo Vicenza

Tutte le operazioni doganali e le istanzepresso la Sovrintendenza al le Bel le Artiper reperti archeologici e opere d’arteprovenient i dal l ’es tero e inviat i a l l ’e -stero per esposizioni e scambi cultural i .

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Padana Spedizioni S.a.S. PER ALLARGARE LO SPETTRO DELLE INFORMAZIONIE PER CONOSCERE IN ANTICIPO I RETROSCENAVespertilla intende offrire un nuovo servizio ai proprilettori: la rivista uscirà infatti, nei mesi intermedi alnumero ordinario bimestrale, con una pubblicazionepiù breve, in cui saranno segnalati, tramite anticipa-zioni, presentazioni e approfondimenti, film, spetta-coli teatrali e mostre che, secondo la redazione,rivestono particolare interesse. Questi eventi sarannoillustrati inquadrandoli storicamente, si riferirà suiprecedenti e sulle fasi di lavorazione e preparazione,e, in base a note di regia, rassegne stampa e altrefonti, si analizzeranno le premesse su cui gli autoridell’evento dichiarano di voler lavorare, valutandonecondivisibilità, credibilità e scientificità. Si verifi-cherà poi nell’intervento sul numero ordinario se talipremesse siano state rispettate o disattese e se glistrumenti registici, per cinema e teatro, e le operescelte per l’esposizione nel caso di mostre, siano i piùcorretti per dimostrare la validità delle tesi che l’au-tore dell’evento e/o dell’opera sottopone al vaglio dipubblico e critica. L’obiettivo è quello di dare mag-gior informazione possibile, assieme al maggior nu-mero di notizie disponibili, utili alla valutazione ealla comprensione dell’evento stesso, attraverso unaconoscenza più diffusa della storia, delle opere, degliautori, dei registi e dei curatori, e nel caso di testi,soggetti e opere non inediti i precedenti più significa-tivi, per permettere al pubblico di partecipare aglieventi con l’analisi di tutto quello che concorre allaformazione dell’evento in questione. Si spera checome tutte le modifiche, correzioni, aggiunte, chehanno accompagnato questi dieci anni di attività edi-toriale, anche questa possa godere dell’approvazionee dell’interesse di tutti i lettori di Vespertilla.

Luigi Silvi

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John Gabriel Borkman è la penultima opera composta daHenrik Ibsen nel 1896. I grandi capolavori del dramma-turgo norvegese sono stati già scritti, già rappresentati ehanno già fatto discutere la società borghese europea.Ibsen, che da giovane farmacista ha scelto la precarietàdel teatro per affermare le proprie idee, ha già scosso leplatee presentano personaggi dibattuti, angosciati, avolte sconfitti ma che anelano alla libertà. O meglio chedecidono di viere, come il suo autore, la propria voca-zione. L’antagonista del protagonista in Ibsen è il de-stino, tema già caro a Kirkegaard, che l’autore norvegeseha letto, meditato, metabolizzato molto attentamente.Ibsen cerca nel suo teatro di opporsi a stilemi conven-zioni statiche e precostituite: il caso più noto è certa-mente Casa di bambola (1879), ma in tutta la suadrammaturgia l’anelito a rompere schemi e gabbie èforte, pur se non sempre il personaggio riesce a “vin-cere” la propria battaglia personale. Ma la cifra interpre-tativa del teatro ibseniana è il rigore. Un rigore da viverepur infrangendo le regole, o cercando di farlo. Chi sba-glia, sottolinea Ibsen, prima o poi paga, chi ha disattesoa questo rigore, morale, civile, etico, civico, paga. E JohnGabriel Borkman ha pagato. Ha trascorso degli anni inprigione per aver speculato illegalmente con i soldi deisuoi investitori (superfluo sottolineare l’agghiaccianteattualità del tema…), ha perciò pagato il prezzo alla so-cietà, come si suol dire; è, si potrebbe dire, un fallito, maegli invece non si sente vinto, ma addirittura si reputaun genio creativo della finanza, quasi l’affarista Merca-det di Balzac. Egli, ex-personaggio vincente, ora fallito,cerca di affrancare la propria vita dalla propria co-scienza, accorgendosi però che svincolata la coscienzaperde spessore quella stessa vita amorale e libera daogni tipo di regola, tanto agognata. L’analisi sociale cheIbsen delinea è, come sempre nel suo teatro, lucida,quasi spietata, ma si avverte qui una vena quasi tragico-mica, nella prevaricazione continua e pressante che ognipersonaggio svolge su se stesso e sugli altri, reciproca-mente. Così illustra il regista, Piero Maccarinelli: “Bork-man presta un ineguagliabile volto poetico a queldestino che fa di ognuno un prevaricatore e un umiliatoe offeso.” Il regista punta sulla modernità del tema e lodeclina nel contemporaneo, stimolato dalla nuova tra-duzione di Claudio Magris, uno tra i maggiori studiosidel drammaturgo norvegese; e questa modernità vieneanche sottolineata da un’ambientazione essenziale,quasi minimalista, molto vicina al sentire dell’oggi. An-cora Maccarinelli: “La classicità sembra dissolversi inun presente bruciante, l’unità del reale disintegrarsi. Larealtà della vita brucia in una contemporaneità che nonha bisogno di essere resa contemporanea esterior-mente.” In scena tre grandi interpeti: Massimo Popoli-zio, Manuela Mandracchia, Lucrezia Lante DellaRovere. La scheda illustrativa dell’Eliseo sottolinea chequesti attori appartengono a quella generazione di at-tori che ha potuto sfiorare le utopie da un lato e che neha visto la devastazione dall’altro”. Questa afferma-zione, pur vera, sembra quasi far torto a questi inter-preti, che sanno andare anche ben oltre alle proprieesperienze personali generazioniali vissute.

Maria Pia Monteduro

JOHN GABRIEL BORKMAN, in scena alTeatro Eliseo dal 16 ottobre al 4 novembre 2012

Henrik Ibsen in una fotografia di Kohlenberg (1895).

John Gabriel Borkman di Henrik Ibsen, Copenha-gen (1896).

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Teatro

Re Lear ha un inizio da favola, un evolversi di degenerata sof-ferenza, un finale di morte non salvifica. Preparandosi a ve-derlo in scena, o a leggerne il testo, è opportuno farlo come senon si conoscesse la storia, dimenticando la malvagità dei figlie la “cecità” dei padri: solo così si comprenderà come Shake-speare, sin dall’inizio, tenga le redini della vicenda, compo-nendo battute e scene con un acume così sottile da guidare ilpubblico in una direzione totalmente opposta rispetto allarealtà dei fatti. La storia di Lear proviene da un repertorio diantiche leggende britanniche, patrimonio dal sapore mitolo-gico in cui il pubblico del tempo riconosceva autentici avve-nimenti fondativi; Shakespeare trasforma il “materialenarrativo” in una tragedia dell’esistenza, delle generazioniumane, del decadimento morale. Niente di tutto questo si per-cepisce dalla prime scene, dove, al contrario, in un inizio unpo’magico e rituale s’innesta una scintilla che ne incrina l’ar-monia, ma non spezza l’incantesimo. Il vecchio Lear, decisoa lasciare il trono e a dividere il regno fra le tre figlie, chiedeloro di dimostrare l’amore che provano per il padre; Gonerile Regan si “esibiscono” in atti di sottomissione, mentre Cor-delia, la minore, dichiara di usare sincerità dove il padre vedeoffesa: “Amo Vostra Maestà secondo il mio dovere: né più némeno”. La reazione del re, che ripudia e caccia la figlia, e l’im-passibilità delle sorelle davanti alla severa sentenza, appaionomanifestazioni di follia e insensibilità, ma Shakespeare,grande conoscitore della natura umana, chiede al pubblico, al-meno per il momento, di giustificare i personaggi. Goneril eRegan danno prova di ipocrisia e insensibilità, ma nel drammanon si leggerà mai di manifestazioni di affetto o tenerezza neiloro confronti, mentre abbonderanno gli autocompiacimenti diLear per quanto ha fatto per loro. Al termine della prima scena,le stesse Goneril e Regan si mostrano stupite dalla reazionerabbiosa del padre, furioso nonostante abbia sempre “amatonostra sorella più di tutte”, e anche nelle future scelte (in pri-mis, ridurre il numero dei cavalieri richiesto dal sovrano,obiettivamente gravoso sul bilancio domestico e motivo di di-sordine a palazzo) più che di cattiveria gratuita sembrerebbefacciano uso di un senso di realtà che a Lear sfugge (se si parlatanto spesso di “vecchiaia capricciosa”, il carattere del sovranonon è mai stato facile). Senz’altro le due donne sono poco sen-sibili, ma pratiche, cresciute nell’ombra, e hanno ben capitoche dovranno stare in guardia per impedire al re scatti incon-trollabili come quello nei confronti di Cordelia. Similmente,si cerca di comprendere come il tradimento di Edmund neiconfronti del padre e del fratello, vera trama secondaria, nonsia del tutto immotivato. Prima dell’ingresso di Lear, il contedi Gloucester, quasi vantandosi davanti al servitore Kent, ri-percorre i natali del figlio illegittimo: “Sua madre era una bel-lezza. Ce la spassammo nel farlo, e il figlio di puttana variconosciuto”. Si ricordi che Edmund è il terzo uomo in scena,presente all’imbarazzante racconto del padre, che avrà sentitochissà quante volte: alla fine del dramma, nonostante sia in-discutibile condannare un tale personaggio dalla moralità ne-gativa, si può comprendere lo stato di frustrazione e vergognache ha alimentato il suo tradimento. “Il piano della vecchiaiae della giovinezza. [] Il vecchio e il giovane come storia”, scri-veva Giorgio Strehler negli appunti di regia per il suo Re Lear,rappresentato al Piccolo Teatro di Milano nel 1973. I due“vecchi”, Gloucester e Lear, appaiono personaggi deboli esciocchi in mezzo a tanti “giovani” «agili e crudeli e voraci”– continua Strehler – ma è solo nella scena che conclude il se-condo atto che i personaggi si schierano definitivamente comepedine bianche e nere su una scacchiera. Shakespeare ha mo-strato le debolezze umane che hanno innescato il precipitaredegli eventi (gelosia, rancore, senso di frustrazione, lussuria)ma non è più ammissibile alcuna comprensione quando si ini-zia a realizzare, insieme ai personaggi, ciò che finora è sfug-gito agli stessi protagonisti. Quando Regan e Gonerilchiudono la porta al padre, davanti alla tempesta, sarà Glau-cester a palesare che “le figlie lo vogliono morto”. Durante edopo l’uragano i personaggi rivelano la vera natura, e ha ini-zio la discesa fisica, psicologica, morale che la natura impie-

RE LEAR, in scena al Teatro Qurino dal 16 al 28 ottobre 2012

Lear (Tino Carraro), il Matto (Ottavia Piccolo), Re Lear, regiadi Giorgio Strehler (1973).

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tosa simboleggia. “Lear è circondato dal mondo ostile e, den-tro, dal suo mondo ostile che frana. Il tutto però potrà dareanche una sensazione abbastanza semplice di ‘tempesta’, fattadi scrosci, grida di vento, scoppi, sibili” (Strehler). In una tra-gedia in cui la natura sembra essere del tutto indifferente allasorte umana, l’uragano è presagio di un mondo “strano”(Glaucester), “basso” (Kent), da cui difendersi. Sotto la piog-gia si compie la discesa di due personaggi, Lear e Edgard,quest’ultimo costretto a (s)vestire i panni del folle poveroTom per fuggire al disegno ordito dal fratello Edmund. “Nonson più niente”, realizza nell’atto IV, re Lear cacciato dallefiglie alle quali ha dato tutto. La battuta riporta al Riccardo II,ancora una tragedia della privazione sociale e dell’identità diun individuo. Per il re Riccardo in cella, un sovrano chemuore ancora investito del suo potere è pur sempre qualcosa,mentre un re privato della propria sovranità è un niente, so-prattutto se rimane in vita. Edgar pronuncia le stesse parolenello straziante monologo con cui si prepara a immedesimarsinel soggetto rifiutato della società: “Povero Tom! Ma tu seiancora qualcosa. Io, Edgar, non sono niente, io!”. PeterBrook, nella trasposizione filmica del King Lear (1971), ri-prende l’incontro di Lear e di Tom sotto una pioggia scro-sciante, quasi una cascata, ove i personaggi stanno immobilie le immagini si compongono a tratti veloci, a tratti lente, mo-strando frammenti ripresi da più punti di vista. L’annulla-mento dell’io nella pazzia sembra, nell’assurdo, unacondizione inevitabile per giungere alla comprensione. Learha perso la propria natura regale, Edgard lo status di figlioprediletto, ma entrambi finiscono per acquisire dimensioni“grandi” che non sono quelle del re, o dell’eroe, ma del-l’uomo che soffre e si riconosce nel dolore altrui. Il tema dellapazzia è molto delicato e ricco di sfumature, a partire dal fattoche l’appellativo “matto” è riferito a ciascun personaggio.Lear teme di impazzire, così come Glaucester, che non rico-nosce più il mondo in cui il padre è contro la figlia, e il figliocontro il padre; Goneril accusa Albany di essere uno “scioccomoralista”, lo sposo diviene come Edgard “matto” nel sensodi “vittima della propria ingenuità”. Il Matto vero e proprio,allo stato naturale, è la voce della coscienza che affianca Learnelle sue disgrazie, personaggio al contempo tragico e co-mico perché legittimato, dal suo ruolo, a non porre filtri aipropri pensieri. In tanto caos, mentale e gerarchico, Cordeliatorna come un’apparizione salvifica, presenza che redime laforza insensata della natura. Non è un caso che Strehler abbiaaffidato alla stessa attrice, una straordinaria Ottavia Piccolo,il ruolo della figlia minore e del Matto: nello stesso personag-gio si componevano le due opposte facce della stessa meda-glia, “ruota di questo duro mondo”, ricorda Kent, destinata agirare senza preavviso. La morte, nel finale, dimostra dinuovo la grande ambiguità della tragedia, dove arriva tantocome punizione per i “cattivi” quanto come “condanna” peri giusti. Regan muore avvelenata, Goneril si suicida, Edmondè punito, Cordelia è impiccata, Lear si spenge dopo averlaportata in scena tra le braccia. Mettere oggi in scena Re Learvuol dire rappresentare l’allegoria della potere “marcio” ma,soprattutto, del dolore, che rende ciechi tanto più si è statiprima incapaci di vedere. Oltre alle regie di Brook e Strehler,si ricorda un eccezionale Roberto Herlitzka diretto da Anto-nio Calenda (2004), creazione memorabile in cui forza e de-bolezza si mostrano in uno stesso personaggio dallemolteplici sfumature. La vecchiaia del sovrano, lo sbiadirsidella gloria, l’incedere lento verso l’oblio fecero da cornice aicento anni del Museo Stibbert di Firenze, dove, nel 2006, Ste-fano Massini allestì un itinerante adattamento del testo shake-speariano (Il Re è solo) tra le collezioni di armi, armature,arazzi, costumi, divenuti silenziose e complici scenografie.Siamo per gli dei come le mosche per i ragazzini, dice Glou-cester: “ci ammazzano per divertirsi”. Il mondo in cui agi-scono i personaggi di Re Lear è astratto, lontano nel tempo,ma forse per questo un testo così segnato da malvagità, cru-dezza e violenza di atti e parole ben si presta a ricalcare unmessaggio di desolazione umana universale.

Francesca Martellini

Teatro

King Lear (Paul Sconfield) in King Lear, regia di Peter Brook(1971).

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Archeologia

Secondo lo storico Livio la potenza univer-sale di Roma – come viene percepita nell’im-maginario collettivo ancora oggi – era statagià anticipata da una profezia di Romolo che,disceso dal cielo e rivoltosi a un romano, pro-nunciò le seguenti parole: “Va’, annuncia airomani che gli dèi celesti vogliono che la miaRoma sia a capitale del mondo; perciò colti-vino l’arte militare e sappiano, e tramandinoanche ai posteri, che nessuna potenza umanapotrà resistere alle armi dei romani”. Tra-dotto in guerre di rapina, sofferenze perpe-trate contro i popoli sottomessi, schiavitù, ilbrutale dominio romano, mai negato dallastoria, seppure tra mille contraddizioni pro-cede di pari passo con la politica di integra-zione che i romani seppero attuare di volta involta. Non era infatti Roma – e si provi a cer-care un riscontro che non si troverà nella sto-ria universale – una città che fin dalle originiseppe accogliere nel suo grembo genti prove-nienti dai luoghi più disparati? Prerogativaperaltro rimasta immutata della città contem-poranea. Il mito narra che al momento dellafondazione della città Romolo invitò coloroche a lui si erano uniti per creare una nuovaciviltà, una nuova identità politica sul terri-torio dell’antico Lazio, a deporre prodotti inuna fossa, insieme a zolle dei rispettivi terri-tori di origine. Detto bothros, denominatomundus (un termine che starebbe a indicare,secondo il parere di taluni studiosi, sia ilcielo che la terra, e che indicherebbe pertantol’orbis), era posizionato non sul Palatino, main corrispondenza del Comitium nel Foro. Ilrimescolamento e la fusione di terre venuteda lontano rispecchia perfettamente il pro-cesso che caratterizza l’asylum. Dominio e in-tegrazione dunque. Questi i due aspettiintorno ai quali ruota l’esposizione allestitaal Colosseo, alla Curia Iulia e al tempio delDivo Romolo al Foro Romano, sull’Urbe e lasua espansione politica e militare nel Medi-terraneo. L’obiettivo dei curatori AndreaGiardina, storico e professore presso l’Isti-tuto Italiano di Scienze Umane e e la ScuolaSuperiore Normale di Pisa, e di Fabrizio Pe-sando, archeologo e professore presso l’Uni-versità degli Studi di Napoli L’Orientale, èquello di fornire al pubblico una visione po-liedrica del mondo romano. A tale scopo ven-gono mostrate nelle tre prestigiose sediindividuate nell’area archeologica centralepiù di un centinaio di opere, che pongonol’enfasi sull’espansione non sempre pacificaattuata dai romani nel Mediterraneo e sulprocesso di integrazione delle genti di voltain volta sottomesse.

Serena Epifani

ROMA CAPUT MUNDI. UNA CITTÀ TRA DOMINIO E INTEGRAZIONE, Colosseo e Foro Romano, 10 ottobre2012-10 marzo 2013

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Archeologia

Ratto di Palladio,affresco, 20-37 d.C., da Pompei, casa degli attori (I, 2, 6) Napoli, Museo Archeologico Nazio-nale

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Nell’ambito del progetto quinquennale Igiorni di Roma, che ha già visto ai museiCapitolini le mostre L’età della conquista. Ilfascino dell’arte greca a Roma (2010) e Ri-tratti, le tante facce del potere (2011), è lavolta dell’esposizione incentrata su unafase dell’impero romano dove protagoni-sti furono Traiano, Adriano, Antonino Pio,Marco Aurelio. Si tratta degli “imperatoribuoni”, coloro i quali condussero e gover-narono un impero al massimo della suaespansione territoriale. Negli intenti deicuratori – Eugenio La Rocca e Claudio Pa-risi Presicce – analizzare una fase dellastoria romana che non si ripeté più neltempo, caratterizzata dall’avvenuta matu-razione di una politica di dominazioneavente come effetti la pace nel bacino delMediterraneo, l’unificazione dello spaziomonetario, la diffusione del sistema legi-slativo e giudiziario romano, e del mo-dello di vita urbano in ogni luogodell’impero, anche quello più distante daRoma. Infatti, se durante il principato diOttaviano Augusto gli antichi romani,dopo il sanguinoso periodo delle guerrecivili che avevano insanguinato Roma, co-nobbero quaranta anni di pace – non acaso tale arco temporale venne chiamatogià in antico “età aurea dell’impero” – congli imperatori che gli succedettero si visseun’epoca all’insegna di un clima di con-senso politico e dell’equilibrio, parolachiave quest’ultima che compare anchenel titolo della mostra. Cinque le sezioniattraverso le quali si effettua il tentativo diinquadrare detta fase storica, i Felicia tem-pora, come la definivano gli stessi romani,nella quale dominarono concetti di paca-tezza, classicità, eleganza formale; I prota-gonisti, con numerosissimi ritratti deisuddetti imperatori e delle rispettivemogli e famiglie, ma anche quelli dei pri-vati cittadini, da cui si evince la volonta-ria assimilazione alle immagini degliimperatori regnanti; Il linguaggio artistico,dove si fa il punto sulla assimilazione erielaborazione dell’arte greca; Ville e di-more, in cui si illustrano i luoghi che feceroda sfondo a queste vite celebri comequinte teatrali capaci di dare il giusto ri-salto allo status di chi lì abitava; I rilievistorici, sezione dove si focalizzano i diversiaspetti della vita pubblica (l’educazionedei giovani, l’evergetismo pubblico e pri-vato, le opere realizzate per il popolo, imonumenti statali); Vincitori e vinti, chemette in evidenza tutte le attività connessealla guerra; Le tombe, settore della mostradove si inquadrano i temi sui costumi fu-nerari e che si conclude con la ricostru-zione di due mausolei privati: il sepolcrodegli Haterii, dalla Casilina, e il mausoleodi Claudia Semne dalla via Appia.

Serena Epifani

L’ETÀ DELL’EQUILIBRIO. TRAIANO, ADRIANO, ANTONINO PIO, MARCO AURELIO, Musei Capitolini,4 ottobre 201 - 5 maggio 2013

Statua femminile come Faustina Maggiore, II secolo, marmo, h cm197, Roma, Musei Capitolini, Palazzo Nuovo.

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Archeologia

Fauno ebbro, marmo rosso, II secolo, h. cm 50 cm, largh. cm 203, Roma, Musei Capitolini, Palazzo Nuovo.

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Arte

La Galleria d’Arte Moderna di Roma si assumel’onere e l’onore di mostrare al grande pubblicol’opera di Paul Klee. La mostra, se non deluderàle aspettative, darà la giusta rilevanza a un arti-sta iper-conosciuto tra gli addetti ai lavori, mache rappresenta poco più di un nome per chi lastoria dell’arte non l’ha studiata a fondo. Non siè di fronte a un’antologia, ma a un percorso spe-cifico che vuole indagare il rapporto tra il nostropaese e l’artista svizzero (naturalizzato tedesco).Il legame tra i due è stato fecondo e armoniosoda entrambe le parti. Klee, da sempre affascinatodell’ambiente mediterraneo, compie sei viaggi inItalia; il primo di questi nel 1902 secondo lo spi-rito del Grand Tour in compagnia di Goethe eBurckard che devono essere stati gli accompa-gnatori ideali nella scoperta del mondo classico!Nonostante per Paul Klee sia stato fondamentaleil viaggio in Tunisia, durante il quale è rimastorapito dalla potenza del colore, l’Italia ha rappre-sentato per lui un bacino inesauribile d’ispira-zione. Sebbene alcuni dei sei viaggi si sianosucceduti a poco distanza l’uno dall’altro, ognivolta Klee veniva a contatto con una realtà cul-turale e sociale differente. Il futurismo imprime

alle sue opere un nuovo dinamismo e un puntodi vista totalmente diverso con cui guardare al-l’architettura, mentre i mosaici di Ravenna inci-dono a tal punto da far sviluppare una nuovafase in cui recupera la lezione pointelliste. Al-cune opere sono direttamente ispirate all’Italia enate dalla visione del paesaggio, come ad esem-pio Mazzarò (1924) con una villa siciliana, o Co-struzione portuale (1926) eseguito durante ilsoggiorno sull’Isola D’Elba; altre. invece risen-tono del messaggio trasmesso per il sapore di cuisono fatte (i colori tipici del sud o i profumi dellenotti d’estate). Ci si auspica che delle cento operein mostra almeno alcune di queste appartenganoalla fase interamente astrattista, così da poter te-stimoniare che l’Italia non è presente solo inquanto “bel paesaggio” da riprodurre, ma potercomprendere quanto sia penetrato a fondo nellapoetica di Klee. “L’arte è un mezzo attraverso ilquale si indaga la verità delle cose che risiedenell’invisibile”: questo rispondeva Klee quandogli si chiedeva quale fosse il significato delle sueopere, ed è questo che bisogna ricercare ancoraoggi nella sua arte.

Ilaria Lombardi

PAUL KLEE E L’ITALIA, Galleria Nazionale d’Arte Moderna, 9 ottobre 2012 - 27 gennaio 2013

Paul Klee (Münchenbuchsee 1879, Muralto 1940), Mazzarò, pittura a olio, 1924.

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A cent’anni dalla morte, Roma dedica una retrospettivaa Renato Guttuso, l’artista siciliano, che a Roma visse peroltre cinquant’anni. Una retrospettiva su Guttuso do-vrebbe essere l’occasione per entrare nelle controversiedel dibattito sulla sua opera, con studi, ricerche e ap-profondimenti, perché Guttuso è autore decantato, maanche discusso e controverso, sia per ragioni artistichesia per motivi di pensiero: le sue nature morte con bucra-nio su tavolino di netta, chiara e dichiarata ascendenzapicassiana e braquiana fanno ancora discutere; e restanell’occhio del ciclone la sua mancata evoluzione per l’u-scita polemica dal Fronte Nuovo delle Arti, cui aderi-vano tutti gli autori che volevano uscire dall’alloraprovincialismo della pittura italiana, in seguito all’accet-tazione, seppur critica, del nefando “richiamo-invitopressante” di ritorno all’ordine, che Guttuso accettò, purin polemica con “il migliore”, rivendicando la necessitàdi un confronto con le nuove esperienze europee. Ri-spose alle sirene togliattiane, versione italiana dello zda-novismo sovietico, attento e severo custode della retoricapropagandistica del realismo socialista, anche perchéera difficile rinunciare alla potente macchina pubblicita-ria del partito comunista e della sua stampa, e al gran-dioso mercato per multipli, offerto dalle Feste dell’Unitàe dalle manifestazioni culturali del partito, dove folle diproletari imborghesiti aspiravano ad appendere nel sa-lotto buono una delle centinaia di repliche di un’inci-sione del compagno artista amico dei compagni Picasso,Neruda e Moravia. Questi temi irrisolti dovrebbero es-sere al centro dell’analisi dell’opera di Guttuso attraverso

una sua retrospettiva, che pare, invece, almeno dalleprime anticipazioni, proporre una lettura della sua operaattraverso una serie di “manifesti”, vale a dire le sueopere più note e famose, quasi ad attirare l’attenzione suiriflettori della ribalta, più che sulle problematiche scien-tifiche e di contenuto. Si è abituati alle mostre del Vitto-riano, dove spesso un grande nome e le sue opere piùfamose ed eclatanti servono a richiamare sciami di turi-sti e di appassionati, che, in buona fede, credono di assi-stere a un importante evento culturale, senza rendersiconto, che trattasi di evento mondano, che in realtà si li-mita a movimentare opere d’arte, spesso di altissimo li-vello, col solo obiettivo del botteghino e del “lauto pasto”dell’indotto. Visionando il materiale diffuso alla stampadagli organizzatori, tutte le indicazioni vanno in questosenso, segnate dal deprimente metodo di ampliare ilvero oltre il reale, che deprime il diritto all’informazione,e il metro di giudizio usato nella valutazione delle opereè l’appartenenza o meno ai musei e alle collezioni pri-vate “più grandi del mondo”. Si assiste pure all’esalta-zione retorica e acritica dell’impegno civile di Guttuso,quasi fosse l’unico artista a porsi problematiche sociali,basti, invece, ricordare, tra i molti, Emilio Vedova con lasua commossa e partecipata adesione concreta e perso-nale a tante battaglie, ben diversa da quella elitaria, salot-tiera e leggermente snob di Guttuso. Questo servilemodo di scrivere, pubblicizzare e diffondere da parte distuoli di lacchè obbedienti e servili, che non smette diamareggiare è, salvo voci isolate, ormai la regola e non faben sperare per la mostra: si attende però, di prenderne

GUTTUSO. 1912-2012, Complesso del Vittoriano,.12 ottobre 2012 - 10 febbraio 2013

Renato Guttuso (Bagheria 1912, Roma 1987), I funerali di Togliatti, 1972, acrilico e collage di carte stampate su cartaincollata su quattro pannelli di compensato, cm 340 x 440, MAMbo, Museo d'Arte Moderna di Bologna.

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Arte

A cent’anni dalla morte dell’artistafriulano, il Museo Bilotti propone,da ottobre a gennaio, una mostradal taglio inusuale che si prean-nuncia, se sarà correttamente co-struita, di squisita peculiarità edarà un sicuro contributo alla cono-scenza dell’opera dell’artista. La cu-ratrice della mostra Barbara Drudiabbandona la scontata idea dellagrande retrospettiva e sceglie dipresentare solo sei opere indicativedell’evolversi del fare artistico diAfro: dalle prime prove espressa-mente naturaliste, alla rivisitazionetutta personale delle avanguardiestoriche, per seguirne poi l’operaattraverso il complesso e lungo, masicuro, processo di astrazione chegiunge a compimento nella matu-rità artistica. Le opere saranno ac-compagnate ognuna da una serie diprove e schizzi preparatori che,partendo sempre dal reale, giun-gono all’esito finale, formale oastratto, che sia. Se l’esito finale cor-risponderà alle premesse teoriche,risulterà un contributo decisivo allacomprensione del processo forma-tivo di ogni singola opera e di tuttala produzione dell’autore e anchedel percorso che porta Afro a essereuno dei principali esecutori inter-nazionali dell’astrattismo. Si potràcosì mettere in luce la grande im-portanza rivestita da una program-mazione rigorosa e precisa da partedi tutti gli autori dell’astrattismoitaliano: si pensi a Emilio Vedova ea Fausto Melotti, o ad Alberto Ma-gnelli. Nel caso di esito positivo esoddisfacente si potrebbe essere difronte a un nuovo metodo di inda-gine su un autore attraverso l’ana-lisi del come l’autore giunga allacostruzione di una singola opera e,attraverso rimandi e confronti, ana-lizzare anche l’elaborazione di tuttala visione e l’interpretazione delsuo fare artistico, oltre che essereun buon viatico, in tempo di crisiper mostre a basso costo e nel con-tempo di alto interesse scientifico.Roma rende omaggio ad Afroanche con una mostra alla CasinaGiustiniani, sempre nel parco diVilla Borghese, che ricorda le opererealizzate a Roma in edifici pub-blici, proponendo così nuovi itine-rari alla serie già ricchissima dellacittà eterna, e presenta inoltre unaserie di ritratti fotografici di Afrorealizzati da importanti autori.

Luigi Silvi

AFRO. DAL PROGETTO ALL’OPERA. 1951-1975, Museo Carlo Bilotti, 11 ottobre 2012 - 6 gennaio 2013

Imogen Cunningham (Portland 1883, San Francisco 1976), Afro (particolare), 1958.

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Afro (pseudonimo di Afro Libio Basaldella (Udine 1912, Zurigo 1976), Negro della Luoisiana, 1951, tecnica mista,cm 150 x 100, Collezione privata.

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Di Reality, l’ultimo film di Matteo Gar-rone, si è parlato e scritto molto benprima della sua uscita. All’inizio aleg-giava un certo mistero attorno al tema,gli interpreti, al plot. Poi con il titoloprovvisorio di Big House è emerso che lavicenda gira attorno al mondo fittizio,illusorio e mendace della televisione edei suoi reality. In seguito è giunta noti-zia che interprete principale del lungo-metraggio sarebbe stato un attore dellaCompagnia della Fortezza di ArmandoPunzo, vale a dire un recluso del carceredi Volterra, nel caso specifico un erga-stolano, un “fine-pena-mai”, AnielloArena. Poi il film è arrivato a Cannes etutti i misteri si sono svelati: il tema con-duttore è la malia che esercita il GrandeFratello, Aniello Arena è un attore conl’A maiuscola, la vicenda si svolge a Na-poli, città prediletta da Garrone. È unaNapoli barocca e insieme squallida,madre ma anche matrigna, genera fa-scino e disgusto assieme, è attraente enel contempo repellente: una Napolinon banale, non macchietta, o per lomeno non solo. Garrone è attratto e affa-scinato da Napoli e in ugual misura daltrash e kitsch della televisione odierna,che è specchio della vita di oggi, delquotidiano, spesso della politica: unasocietà, creata a plasmata a tavolinoproprio su modelli televisivi, dove ap-parire non solo conta più dell’essere, maè la sola cosa che conta. Ma in Garronenon c’è moralismo o voglia di sputarsentenze: la sua è un’analisi, vestita unpo’ da fiaba: il pescivendolo Luciano(Arena), Pinocchio contemporaneo checrede ancora alle favole, appena intra-vede la possibilità di partecipare al GF,“perde il ben dell’intelletto”, coadiuvatoda tutti gli amici, i colleghi, i familiari,l’ambiente sociale che frequenta e chegià lo vede un divo solo per aver parte-cipato ai provini del Grande Fratello. Ilfinale, amaro, ma poetico, ricorda chevicende analoghe, con tutte le variazionidel caso e del diverso momento storico esociale, erano state già condotte, adesempio, da Visconti in Bellissima. In-dubbiamente per Garrone non sarà statofacile girare un film dopo il tanto cele-brato Gomorra, e infatti quest’opera ar-riva dopo quattro anni. Soggettocompletamente diverso, ma inalterata latecnica registica di Garrone, fatta diprimi piani, telecamera a spalla, veduteaeree e celebrazione di dettagli intimi-stici: quello stile che fa di lui un registaimmediatamente riconoscibile, pur nelladiversità delle storie e degli ambientiche tratteggia. Cannes gli ha tributato ilGrand Prix della Giuria, ma poi non èparso opportuno (!) inserirlo nella cin-quina italiana per gli Oscar…

Maria Pia Monteduro

REALITIY, MATTEO GARRONE

Luciano (Aniello Arena).

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Dopo le tante sterili polemiche che lo hanno ac-compagnato fin dalla lavorazione il film diMarco Belocchio esce nelle sale in attesa di tuttoil livore che lo accompagnerà. Si scatenerà loschieramento di tutte quelle forze che dal neo-realismo in poi, passando per la felliniana Dolcevita e per tutta l’opera di Pier Paolo Pasolini si èdimostrato nemico della libertà di espressione,della chiarezza, della verità, della cultura e delcinema italiano in particolare. Belocchio è sem-pre attento, a quello che succede nella società, aquello che in fondo e ai margini di essa si muovee si agita, da riesce a mettere a nudo, con corag-gio e lucidità le ipocrisie, le insicurezze, le ansieche temi fondamentali accendono e provocano.E stato così per tutta la sua carriera in cui ha in-dagato le tensioni all’interno della famiglia in-tesa come il luogo dove si nascondono i fantasmidelle ipocrisie e gli egoismi, le problematiche piùlaceranti provocate dalle malattie incurabili in Ipugni in tasca, ha smascherato i limiti profondi diun’istruzione slegata dalla realtà e dalle esigenzee aspirazioni di chi studiava e insegnava e di unmetodo didattico coercitivo privo di dialogo econfronto, autoritario e antidemocratico, che im-

pediva la libera formazione di coscienze dotatedi senso critico e autonomo in Nel nome del Padre,sulla falsità e la capacità di distorcere il reale diun uso utilitaristico del diritto di cronaca, chestravolge ogni senso del diritto all’informazionedi fatto negandolo in Sbatti il mostro in prima pa-gina, o denunciando la violenza e l’inattualità delmondo militare e delle gerarchie dell’esercito inMarcia trionfale. Da un quarto di secolo Belocchiocon lucidità e chiarezza dice la verità, una veritàscomoda, ma necessaria, indispensabile quasi. Inquesta occasione il regista non condanna e nondenuncia, come egli stesso asserisce, ma si limitaa guardare pur ispirandosi a un tema chesmuove e mette in difficoltà tutte le coscienze,ispirandosi alla difficile vicenda di Eluana En-glaro, medita sul senso della vita e della mortesulla dignità e sulla libertà. Ma chi scrive non in-tende essere come l’on. Gasparri, che, palese-mente pur non conoscendo palesemente lasceneggiatura sostiene, che il film sia la cronisto-ria della vicenda della giovane Eluana, e attendela visione dell’opera per esprimere il propriogiudizio sia sul film che sui suoi contenuti.

Luigi Silvi

“... La vera terra dei barbari non è quella che non ha mai conosciutol’arte, ma quella che, disseminata di capolavori, non sa né apprezzarliné conservarli...” (Marcel Proust)

BELLA ADDORMENTATA, MARCO BELLOCCHIO

Marco Bellocchio.

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