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158 VERSO UN’ETICA DEL DISCORSO a) Il linguaggio: una sintassi del pensiero? Come abbiamo visto, la considerazione del linguaggio, come specificità della condizione umana nel mondo, riafferma che ogni essere umano trova nella dimensione linguistica la possibilità non solo di relazionarsi agli altri soggetti, ma di rapportarsi a se stesso e di rappresentare a se stesso il proprio mondo. Questo convincimento ci immette al centro dell'intricato binomio pensiero- linguaggio, azione. La centralità del nesso tra pensiero e linguaggio è stata riconosciuta fin dall'antichità come via d'accesso alla chiarificazione delle problematiche filosofiche; ma si può a ragione ritenere che il nostro secolo ha riservato un rinnovato interesse a questo problema 1 , riproponendo, ma anche ricercando in esse nuove vie di speculazione, questioni essenziali riguardo alla necessità per il pensiero di un sistema simbolico per operare, o relativamente alla domanda se il linguaggio sia sempre inderogabilmente connesso ad un sistema di pensiero. E se le svolte linguistiche nella filosofia del Novecento hanno sancito il superamento della considerazione della parola come “cartellino” per 1 La problematicità, e al tempo stesso l'inscindibilità, di pensiero e linguaggio si evince dallo stesso metodo analitico proprio della filosofia analitica. L'analisi linguistica viene ad applicarsi non estrinsecamente ai contenuti della filosofia, ma risulta essere un procedimento che si applica riflessivamente su quella condizione del conoscere e del parlare che in ultima analisi è il pensiero. O la si intenda in senso trascendentale o in senso cartesiano, la via analitica attraverso l’esame del linguaggio opera sul pensiero e per il pensiero. Svincolandosi da ogni forma di mentalismo o psichismo, la questione esige una chiarificazione fondativa. Cosa si deve intendere per pensiero: l'atto soggettivo del pensare, il suo contenuto oggettivo, una precondizione già data e autoevidente? O, come ritiene Wittgenstein, “la proposizione munita di senso”, giacché nel Tractatus scriveva che “il segno proposizionale applicato, pensato, è il pensiero” ? (Cfr. L. WITTGENSTEIN, Tractatus logico-philosophicus, cit., prop. 3-5).

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VERSO UN’ETICA DEL DISCORSO a) Il linguaggio: una sintassi del pensiero?

Come abbiamo visto, la considerazione del linguaggio, come specificità della condizione umana nel mondo, riafferma che ogni essere umano trova nella dimensione linguistica la possibilità non solo di relazionarsi agli altri soggetti, ma di rapportarsi a se stesso e di rappresentare a se stesso il proprio mondo. Questo convincimento ci immette al centro dell'intricato binomio pensiero-linguaggio, azione. La centralità del nesso tra pensiero e linguaggio è stata riconosciuta fin dall'antichità come via d'accesso alla chiarificazione delle problematiche filosofiche; ma si può a ragione ritenere che il nostro secolo ha riservato un rinnovato interesse a questo problema1, riproponendo, ma anche ricercando in esse nuove vie di speculazione, questioni essenziali riguardo alla necessità per il pensiero di un sistema simbolico per operare, o relativamente alla domanda se il linguaggio sia sempre inderogabilmente connesso ad un sistema di pensiero. E se le svolte linguistiche nella filosofia del Novecento hanno sancito il superamento della considerazione della parola come “cartellino” per

1 La problematicità, e al tempo stesso l'inscindibilità, di pensiero e linguaggio si evince dallo stesso metodo analitico proprio della filosofia analitica. L'analisi linguistica viene ad applicarsi non estrinsecamente ai contenuti della filosofia, ma risulta essere un procedimento che si applica riflessivamente su quella condizione del conoscere e del parlare che in ultima analisi è il pensiero. O la si intenda in senso trascendentale o in senso cartesiano, la via analitica attraverso l’esame del linguaggio opera sul pensiero e per il pensiero. Svincolandosi da ogni forma di mentalismo o psichismo, la questione esige una chiarificazione fondativa. Cosa si deve intendere per pensiero: l'atto soggettivo del pensare, il suo contenuto oggettivo, una precondizione già data e autoevidente? O, come ritiene Wittgenstein, “la proposizione munita di senso”, giacché nel Tractatus scriveva che “il segno proposizionale applicato, pensato, è il pensiero” ? (Cfr. L. WITTGENSTEIN, Tractatus logico-philosophicus, cit., prop. 3-5).

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denominare oggetti, la parola è comunque da considerarsi l'etichetta di un concetto2? Il fatto che la parola non sia solo segno ma, come afferma Gadamer, già sempre significato, ci ricollega alla convinzione che essa “ha in sé, in un qualche modo enigmatico, un legame con ciò che essa ‘rappresenta’ ”, ma non in un rapporto speculare con l’oggetto, bensì in un’implicazione profonda con la rappresentazione e con il pensiero. Pertanto, “è una pura astrazione immaginarsi il sistema della verità come un sistema di possibilità tutto dispiegato, a cui dovrebbero essere conformati i segni che poi il soggetto impiegherebbe per cogliere la realtà”3. Ma non solo in ambito filosofico ci si è interessati dei rapporti tra pensiero e linguaggio. Studiosi di aree scientifiche di varia natura hanno insistito sulle implicazioni di tale relazione. Lo studio del linguaggio, sia da prospettiva scientifica che filosofica, si è da sempre interrogato sulla relazione esistente tra strutture del pensiero e sistema linguistico, attraverso la problematizzazione di tale rapporto nei termini di un'indagine sull'effettiva correlazione e l'eventuale priorità da riconoscere all'uno nei confronti dell'altro. La struttura logico-concettuale della proposizione non può ridursi alla semplice emissione di suoni. Considerare il linguaggio come “lo stampo del pensiero”4 vuol dire rilevare al suo interno una inscindibilità, non solo funzionale ma strutturale, con i processi mentali.

Infatti Sapir ritiene che “il pensiero senza il linguaggio sia altrettanto inconcepibile che il ragionamento matematico svolto senza il supporto di un simbolismo matematico adeguato”5. Ed è illusorio pensare che si possa fare a meno del linguaggio per qualsivoglia attività del pensiero, anche se la consueta considerazione della lingua e la confusione che si determina tra immagine e pensiero possono indurci a credere il contrario. “In effetti, appena noi tentiamo di stabilire una consapevole relazione fra un'immagine e l'altra, ci accorgiamo che stiamo scivolando in un flusso di parole silenziose. Può essere che il pensiero sia un'area naturale separata dall'area artificiale del linguaggio, tuttavia il linguaggio sembra essere l'unica via a noi nota che conduce a questo dominio del pensiero”6.

2 Cfr. E. SAPIR, Il linguaggio, tr. it., Einaudi, Torino, 1969, p. 13. 3 H. G. GADAMER, Verità e metodo, cit., p. 478. In questo senso Gadamer intende sottolineare che la parola non è un segno a cui si fa ricorso per un uso meramente estrinseco, cioè qualcosa “che si fa o che si dà a qualcuno”, non può essere presa dal mondo esterno e caricata dell’idealità del significato, che invece risiede nella parola stessa. (Cfr. ivi, p. 479. Si veda anche il rapporto tra linguaggio e formazione del concetto, ivi, pp. 490-502). 4 E. SAPIR, op. cit., p. 21. 5 Ivi, p. 15. 6 Ibidem. Secondo Sapir piuttosto che ritenere la lingua un “ornamento” di cui il pensiero potrebbe anche fare a meno nel momento in cui non è implicata alcuna esigenza comunicativa ed intersoggettiva, ma solo “interna” alla coscienza e ai processi psichici,

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Studiosi come Chase o Peirce sono convinti che parlare sia un processo del pensiero e che il pensiero segua le tracce del linguaggio nel suo incidere sulla realtà e nel suo essere organizzato in funzione di questa7. Ed anche Chomsky afferma l’esistenza di una struttura profonda che lega la natura stessa del linguaggio all’intenzionalità del pensiero8. Vygotsky, dal canto suo, sostiene che il linguaggio porta alla luce il pensiero che, nella sua essenza profonda, è espressione e intenzionalità del significare9. Gli studi condotti da Sapir e Whorf, e soprattutto la loro teoria del relativismo linguistico, come è ben noto, sostengono la capacità del linguaggio di modellare il nostro modo di concepire la realtà, e pertanto ogni linguaggio è un modo di disegnare e concepire un mondo differente o un differente modo di concepire il mondo10.

Partendo, dunque, dalla reciproca implicazione tra processi cognitivi e categorie linguistiche, se è vero che pensare vuol dire leggere e ordinare il mondo in un certo "ordine" di significati e di simboli, il rapporto linguaggio-visione del mondo risulta essere pienamente ascrivibile alla riconsiderazione dell'analisi linguistica come metodo di indagine e chiarificazione logica dei processi conoscitivi. Se infatti il mondo reale viene costruito sulle abitudini linguistiche del soggetto e della collettività, la lingua può essere considerata uno speciale come del pensiero, e il linguaggio si configura, per cosi dire, come sintassi dei processi mentali11. Questa linea interpretativa si viene ad affermare con la progressiva maturazione della svolta pragmatica del pensiero analitico, in cui vengono definitivamente superati sia il presupposto neopositivistico di una formalizzazione linguistica, come pure il processo di svuotamento di ogni intenzionalità comunicativa che in quel paradigma era insito. Va comunque riservato un inciso preliminare alla stessa nozione di “filosofia analitica” per l'aspetto composito che questo movimento

bisognerebbe provare a pensarla come “una strada o un binario già ben preparato”, di cui il pensiero si serve, ma il cui prodotto “cresce insieme con lo strumento” (ivi, p. 15). E spiega ancora Sapir: “La lingua può essere considerata come uno strumento che può essere usato per tutta una serie di usi diversi sul piano psicologico. Essa non soltanto fluisce parallelamente al movimento interno della coscienza, ma, restando parallelo, si muove a livelli diversi, che vanno dalla cognizione in cui la mente è tutta occupata da immagini particolari, fino alla condizione in cui la mente è interamente concentrata su concetti astratti e sulle loro relazioni: quest'ultimo modo di attività è quello che si intende di solito quando si parla di ragionare” (ivi, p. 14). 7 Cfr. S. CHASE, Il potere delle parole, tr. it., Bompiani, Milano, 1966; e C. S. PEIRCE, Collected Papers, a cura di C. Harteshorne, Harward University, 1931-1936. 8 Cfr. N. CHOMSKY, Saggi linguistici, vol. 3, Filosofia del linguaggio: ricerche teoriche e storiche, tr. it., Boringhieri, Torino, 1969. 9 Cfr. L. S. VYGOTSKY, Pensiero e linguaggio, tr. it., La Nuova Italia, Firenze, 1966. 10 Cfr. B. L. WHORF, Linguaggio, pensiero e realtà, tr. it., Boringhieri, Torino, 1970. 11 Cfr. M. BALDINI - D. ANTISERI, Lezioni di filosofia del linguaggio, Nardini, Firenze, 1989.

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filosofico presenta12. La filosofia analitica, nel suo carattere peculiare di approccio ai problemi filosofici, opera con una metodologia, condivisa da tutti gli appartenenti, che presenta l’indagine filosofica come “chiarificatrice o riformatrice”, facendo dell’analisi la chiarificazione logica dei processi linguistici per penetrare all'interno dei processi mentali13. Questo significa più esattamente “trasformare le tradizionali questioni filosofiche in questioni sul senso (da descrivere o da riformare) degli enunciati che valgono ad esprimerle”14. Dunque la “rivoluzione”15a cui si assiste ad opera del movimento analitico

12 È noto che con tale termine si fa riferimento ad un numeroso gruppo di filosofi che, a cominciare dal 1892, anno in cui G. Frege pubblica Senso e denotazione, si estende ed abbraccia posizioni teoriche di varia matrice epistemica. Tralasceremo la fase iniziale rappresentata dalle teorie di Russel e Moore e da quelle note come positivismo logico, centrate su un'impostazione epistemologica dello statuto del linguaggio e avvicinate alle teorie contenute nel Tractatus logico-philosophicus di L. Wittgenstein. Ci riferiremo, invece, a quella fase successiva che determina una cambiamento di direzione degli studi sul linguaggio, rivelandone la portata contestualmente sociale e intenzionale, nota come movimento analitico anglosassone e statunitense, che viene ad affermarsi soprattutto a partire dagli anni Quaranta in poi, anche se il momento di passaggio alla nuova prospettiva viene emblematicamente considerato il ritorno di Wittgenstein a Cambridge nel 1929 e la stesura delle Ricerche filosofiche. Per comprendere il senso della svolta analitica bisogna tener conto del fatto che si viene a determinare quasi un dualismo teorico tra neopositivismo logico e filosofia analitica anglosassone: da un lato le tesi relative alla delineazione di un modello linguistico quale quello scientifico, dall'altro la rilevanza del linguaggio comune con il quale, nel contesto quotidiano, ci si trova a svolgere una molteplicità di operazioni o attività, che corrispondono a quelle famose “forme di vita” di cui ci parla Wittgenstein nelle Ricerche. Si vedano in proposito, M. DUMMET, Alle origini della filosofia analitica, tr. it., Il Mulino, Bologna, 1990; e E. TUGENDHAT, Introduzione alla filosofia analitica, tr. it., Marietti, Genova, 1989. 13 Il processo di analisi può esser pensato come una scomposizione o smontaggio ed una esplicitazione del materiale linguistico, arrivando ad operare un risultato non lontano da quello ottenuto dalle tecniche di interpretazione proprie della filosofia ermeneutica, tanto da far risultare evidente, per alcuni aspetti, un avvicinamento della filosofia analitica all'ermeneutica. La filosofia analitica, in qualità di filosofia linguistica per eccellenza dei primi decenni del secolo, è dunque una filosofia “centrata sull'analisi (o sul problema dell'analisi)” in cui “si conferisce un particolare ruolo esemplificativo alla filosofia “pura”, ossia impegnata in riflessioni sulla natura e i compiti del pensiero, del linguaggio, della logica, e sulla natura e i compiti della filosofia stessa” (F. D'Agostini, Filosofia analitica, Paravia, Torino, 1997, cit. p. 13). 14 V. VILLA , Sulla nozione di “filosofia analitica”, in M. JORI (a cura di), Ermeneutica e filosofia analitica. Due concezioni del diritto a confronto, cit., p. 171. Ma cos'è che l'analisi analizza e come procede nella sua operazione chiarificatoria? L’analisi di cui si occupano i filosofi a Cambridge e ad Oxford si concentra sullo studio del funzionamento del linguaggio ordinario, cioè come è in uso quotidianamente, e non più di un linguaggio ideale o protocollare come accadeva nel Circolo di Vienna. Il metodo analitico deve partire da ciò che abbiamo sottomano nelle esperienze linguistiche di ogni giorno, ed è dunque un'analisi delle proposizioni come esse sono e non come dovrebbero essere. 15 Si veda il volume curato da A AYER, La svolta linguistica in filosofia, tr. it., Città Nuova, Roma, 1975; cfr anche R. RORTY, The Linguist Turn, University of Chicago Press, Chicago, 1968.

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è da intendersi come una rinnovata consapevolezza della specificità linguistica di ogni esperienza umana e dello stesso filosofare: la filosofia deve prendere coscienza che alcuni errori concettuali sono in realtà usi impropri e fuorvianti del linguaggio, il cui arbitrio semantico ha trattato categorie gnoseologiche o metafisiche come fossero oggetti o dati fenomenici, essendo quelle invece irriducibili alla sfera empirico-fattuale ed esigendo una differenziazione, e non già una gerarchizzazione, tra piani semantici e logico-simbolici16. La scelta metodologica dell’analisi linguistica rimanda, tuttavia, ad una sua giustificazione filosofica ulteriore: bisogna risalire alle ragioni del risolversi dei problemi filosofici in problemi di linguaggio. Assumere quella che Villa indica come una definizione “forte” di filosofia analitica porta a trovare la sua caratterizzazione unitaria nell’assunzione di alcuni “postulati filosofici” fondamentali, quali la grande divisione fra linguaggio descrittivo e linguaggio prescrittivo, la dicotomia analitico-sintetico, la distinzione tra metalinguaggio e linguaggio-oggetto, la distinzione tra contesto di giustificazione e contesto di scoperta. Considerare questi assunti come i “nodi tematici fondamentali da cui questo movimento non può prescindere” dovrebbe indurre a rilevare che “l’attenzione nei confronti del linguaggio rappresenta un carattere derivato della filosofia analitica”17. Ma a ben guardare anche questa via definitoria secondo Villa è insoddisfacente, poiché sembra sbilanciare troppo la definizione sul piano delle concezioni più che su quello dei concetti, finendo per identificare la parte con il tutto. Bisogna, dunque, individuare un concetto che abbia costituito il comune presupposto per lo sviluppo di concezioni metodologiche e sostanziali diverse; questo può forse essere reperito, secondo l’indicazione di Dummet, in “certe presupposizioni di fondo”. L’assioma di fondo, che caratterizzerebbe la filosofia analitica, è il rapporto di stretta connessione tra pensiero e linguaggio, intendendo quest’ultimo “come il veicolo necessario del pensiero” e convergendo sulla convinzione che ogni analisi del pensiero passa attraverso l’analisi del linguaggio18.

16 Si delinea, infatti, anche una svolta cognitiva del movimento analitico, che mira appunto ad evidenziare che la correlazione tra processi mentali e strutture linguistiche forma una indissolubile triangolazione con l'esperienza che l'uomo ha del suo mondo e della realtà in cui vive. Lo stesso esercizio del pensiero, di cui disponiamo per riflettere sui suoi contenuti e mezzi espressivi, è operazione metacognitiva e metalinguistica al tempo stesso. (Cfr. D. MARCONI, Semantica cognitiva, in M. SANTAMBROGIO (a cura di), Laterza, Roma-Bari, 1992; si veda anche R. JACKENDOFF, Semantics and Cognition, Cambridge, MIT Press, 1983). 17 V. VILLA , Sulla nozione di “filosofia analitica”, cit., pp. 172-173. 18 Ivi, p. 175. “Si ha qui, pertanto, forse il primo esempio di quello che è, per la filosofia analitica, il modo di trattare i problemi filosofici: quello che consiste nel trasformarli da problemi ontologici a problemi di significato” (ivi, p. 176). Cfr. M. DUMMET, Truth and Other Enigmas, tr. it. parziale, Il Saggiatore, Milano, 1986.

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Possiamo considerare le Ricerche filosofiche l’opera meglio rappresentativa della svolta analitica, ma il valore delle posizioni assunte da Wittgenstein si può cogliere ancor meglio se si tiene conto del confronto con le precedenti tesi del Tractatus19.

Nella Prefazione a quest'opera, Wittgenstein afferma chiaramente di volersi occupare dei problemi filosofici entrando dalla porta principale, cioè del linguaggio, poiché essi si fondano sul fraintendimento della logica del nostro parlare. E per operare in tal senso occorre “tracciare al pensiero un limite”20 tra ciò che ha senso e ciò che non lo ha. Un limite linguistico, dunque, che è circoscrizione delle facoltà del pensiero e della ragione, de-finizione della limitatezza del dicibile e della concepibilità del reale attraverso le parole21. In questa prospettiva, la relazione mondo-linguaggio-pensiero veniva ad articolarsi in una reciproca corrispondenza lineare e descrittiva: con le proposizioni possiamo sensatamente e chiaramente descrivere uno stato di cose e questo è l'ambito entro il quale il pensiero può muoversi e applicarsi con chiarezza ed evidenza.

Dunque il compito del filosofo è, già dalle tesi del Tractatus, la chiarificazione dei concetti, ma nel senso proprio di una loro delimitazione entro l’ambito scientifico: soltanto definendo l'indicibile e l'impensabile, la filosofia potrà mostrare ciò che è pensabile e dicibile22.

19 La scintilla che diede inizio ad un ripensamento delle tesi del Tractatus, dopo una pausa di circa dieci anni, di cui sei dedicati com’è noto all’insegnamento elementare, fu determinata da una conferenza tenuta da L. E. J. Brouwer a Vienna nel 1928. Wittgenstein, assistendo a quella lezione sui fondamenti dell'aritmetica, rimase colpito perché si rese conto che venivano rimesse in discussione alcuni assunti fondamentali del Tractatus. Come riferisce M. Trinchero nella nota introduttiva all'edizione italiana delle Ricerche filosofiche, “l’influenza di Brouwer è evidente, oltre che nella scelta dei temi, nell'abbandono della concezione della logica come linguaggio “fenomenologico” o “primario” e nel riconoscimento che i linguaggi costituiscono una classe, la cui descrizione è il compito essenziale della filosofia” (M. TRINCHERO, Introduzione, in L. WITTGENSTEIN, Ricerche filosofiche, cit., p. XI). Ma il passaggio decisivo per la maturazione della teoria dei giochi linguistici delle Ricerche ed il definitivo distacco dal linguaggio del Tractatus si può cogliere nell'opera Blue Book and Brown Book, tr. it., Torino, Einaudi, 1983. Qui Wittgenstein comincia a tratteggiare il concetto di “gioco linguistico”, che verrà poi sviluppato compiutamente e costituirà la chiave di volta di una nuova e più feconda concezione non solo del linguaggio, ma dell’agire dell'uomo in un mondo non più solo di fatti, bensì di relazioni e rapporti linguistici. 20 L. WITTGENSTEIN, Tractatus, cit., p. 3. 21 Se, infatti, il linguaggio costituisce un limite al pensiero, quest'ultimo non potrà spingersi oltre ciò che può esprimersi con chiarezza. Per questo si arriva alla ormai nota esortazione wittgensteiniana “su ciò di cui non si può parlare si deve tacere” (ivi, p. 82, prop. 7). Anche altrove Wittgenstein dichiara che la tendenza umana è quella di avventarsi contro i limiti del linguaggio21( L. WITTGENSTEIN, Lezioni e conversazioni di etica, religione, economia, cit., pp. 21-22), e quando dal mondo dei fatti ci si spinge ad oltrepassare la referenza empirica delle parole alle cose si producono solo non sensi. 22 Cfr. L. WITTGENSTEIN, Tractatus, cit., p. 28. In queste posizioni si ritrovano alcuni caposaldi del neopositivismo, a cui il giovane Wittgenstein non aderì esplicitamente, ma con cui condivise il valore del paradigma scientifico ed il rifiuto di quei cosiddetti

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I suggerimenti di L. Wittgenstein nelle Ricerche filosofiche sono da considerarsi determinanti: "la filosofia è la battaglia contro lo stregamento del nostro intelletto per mezzo del nostro linguaggio"23. E se il metodo del lavoro filosofico analitico è la chiarificazione logica attraverso l'analisi degli enunciati, lo scopo è "indicare alla mosca la via d'uscita dalla bottiglia"24, poiché i problemi filosofici non sono altro che problemi linguistici, cioè sorti da un errato o non chiaro uso delle parole. Il principio d'uso diventa così il criterio paradigmatico per definire il senso di una parola come di un enunciato: le proposizioni hanno un significato solo se hanno un'applicazione, poiché il "significato di una parola è il suo uso nella lingua". Quindi cercare il modo in cui un termine viene usato in uno specifico contesto di discorso implica trovare anche il significato. In tal modo le espressioni linguistiche diventano delle ipotesi-regole in funzione dell'orientamento dei comportamenti umani e della strutturazione dei sistemi delle aspettative umane. Ciò implica che tutto il problema della verità si lega non solo all’uso, cioè al contesto in cui viene praticato il linguaggio, ma in modo determinante alle convenzioni che regolano l’enunciato o il contesto di discorso, e dunque la totalità del senso è data dalla sua operatività nelle situazioni di interlocuzione, cioè nel tessuto enunciativo intersoggettivo. La forza illocutoria degli atti linguistici diventa così il tema centrale della comunicazione, e quella dualità tra soggetto conoscente e oggetto conosciuto diventa accordo delle intenzioni o scontro delle pretese dei parlanti. La battaglia per la chiarificazione logica del linguaggio si risolve in una battaglia per la chiarezza linguistica, convinzione che comunque aveva caratterizzato anche le tesi del Tractatus ma con sviluppi differenti. In effetti ora questa considerazione consente di guardare alle parole come pezzi degli scacchi25, e il linguaggio può essere pensato come una cassetta di attrezzi da cui, a seconda della funzione e del valore, ognuno tira fuori lo strumento linguistico più adatto per i diversi contesti di applicazione. Pensare quindi al linguaggio, nella molteplicità di funzioni che può pseudoproblemi sorti perché il linguaggio, al di fuori dell'ambito scientifico, perde i requisiti di precisione e chiarezza, e si spinge verso “oscure lontananze e profondità impenetrabili” che nulla hanno a che vedere con una concezione scientifica del mondo. (Cfr. H. HAHN, R. CARNAP, O. NEURATH, La concezione scientifica del mondo, tr. it., Laterza, Bari, 1979, p. 74). Si veda inoltre cosa scrive Carnap riguardo la sostituzione di ogni metafisica, “poesia concettuale”, con una metodologia filosofica strettamente scientifica: quei concetti “che sono irriducibili sia al dato, sia a ciò che è fisico”, sono concetti “ puramente illusori che vanno rigettati dal punto di vista epistemologico, come pure da quello scientifico. Sono parole senza senso, qualunque sia il grado in cui sono santificate dalla tradizione e impregnate di sentimento” (ivi, p. 90); cfr. ID., Meaning Postulates, in “Philosophical Studies”, 1952, pp. 65-73. 23 L. WITTGENSTEIN, Ricerche filosofiche, cit., par. 109. 24 Ivi, par. 309. 25 Ivi, par. 108, p. 66.

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assolvere nei vari contesti di discorso, mette in evidenza, in modo molto plastico, che parlare un linguaggio fa parte di un'attività o forma di vita26, e che l'esperienza umana nel mondo e del mondo comprende un'infinita gamma di attività linguistiche27. Ma in che senso e sotto quali aspetti la giocabilità degli enunciati apre la strada ad una “svolta” in senso pragmatico?

Habermas si sofferma sulla relazione tra gioco linguistico e regola linguistica. Quando Wittgenstein invita a vedere ogni attività linguistica come gioco in cui i partecipanti, nell’atto di linguaggio, interagiscono seguendo le stesse regole linguistiche, “svolge la prova che l’identità dei significati dipende logicamente dalla capacità di seguire regole valide intersoggettivamente insieme ad almeno un altro soggetto; laddove entrambi devono disporre della competenza sia al comportamento guidato da una regola sia al giudizio critico su questo comportamento”28.

In questa elaborazione del concetto di gioco, il senso intenzionale dell’agire è da concepire nel modo di funzionare del linguaggio in cui, come scrive lo stesso Wittgenstein, intenzione e adempimento si toccano29. Comprendere il senso di un’intenzione significa comprendere il ruolo di un enunciato in un sistema linguistico. Infatti, ciò che interessa a Wittgenstein, secondo la ricostruzione di Habermas, non è tanto sottolineare la dimensione propriamente linguistica delle regole, quanto la loro dimensione pragmatica: il concetto di “grammatica” del gioco linguistico non va quindi confuso con il riferimento alla grammatica della lingua30. Pensiamo piuttosto che “la stessa forma di vita comunicativa è dipendente dalla grammatica dei giochi linguistici”31. Inoltre, consideriamo che la regolamentazione linguistica è anche una de-limitazione della partecipazione alla prassi sociale. Nella rielaborazione apeliana tale delimitazione dell’agire attraverso le regole del dire rimanda infatti alla finitezza del vivere intersoggettivo32. 26 Ivi, p. 7, par. 19. 27 "Comandare, Descrivere un oggetto, Costruire un oggetto, Riferire un avvenimento, Far congetture, Recitare in teatro, Cantare, Sciogliere indovinelli” (ivi, par. 23, p. 21). Vi è infatti una varietà di "giochi" quante sono le funzioni e i modi di funzionare del linguaggio, o potremmo dire dei linguaggi, di cui è intrisa ogni esistenza umana. Inoltre, il concetto di gioco linguistico presuppone il fatto che il linguaggio non è dato una volta per tutte, ma nuovi tipi di linguaggio, nuovi "giochi linguistici" sorgono, altri invecchiano e vengono dimenticati. Cfr. ivi, par. 7, 21, 22, 23. 28 J. HABERMAS, Gioco linguistico, intenzione e significato, in. S. CREMASCHI (a cura di), Filosofia analitica e filosofia continentale, La Nuova Italia, Firenze, 1997, p. 87. 29 Cfr. L. WITTGENSTEIN, Ricerche filosofiche, cit., p. 172. 30 Cfr. ivi, p. 90. Cfr. anche L. WITTGENSTEIN, Grammatica filosofica, tr. it., La Nuova Italia, Firenze, parte I, par. 115. 31 Ivi, p. 102. 32 Il mondo oggettivo si costituisce in strutture linguistiche che sono essenzialmente dialogiche e, in senso lato, sociali. I giochi di Wittgenstein, nell’incontro con la comunità illimitata dei ricercatori di Peirce, fecondano l’idea della comunità illimitata della

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Tuttavia, la valenza pragmatica dei giochi wittgensteiniani è da

considerarsi, secondo l’interpretazione apeliana, prettamente comportamentista o pragmatistico-behavioristica. Se, infatti, il compito del filosofo è quello di descrivere il funzionamento dei vari giochi e delle regole che consentono agli uomini di prender parte alla loro giocabilità, non si tiene conto però che tali giochi, se considerati come dati oggettivi, vengono ad essere concepiti atomisticamente e non in relazione di interazione reciproca; inoltre, se non si ammette la cogenza di un gioco linguistico trascendentale, cade anche la possibilità di descrivere il funzionamento delle attività di linguaggio, dal momento che viene meno il riconoscimento di una regola trascendentale che imponga il rispetto delle regole dei giochi stessi33. Sembra quasi che la filosofia per Wittgenstein deve riconoscere solo “che i suoi problemi segnalano l’interrompersi del gioco”e in questa logica “il senso del linguaggio non consiste in nient’altro che nella prassi vivente dell’uso linguistico”34.

Ma la descrizione della prassi linguistica non è di per sé comprensione del comportamento umano che in essa si estrinseca. In Wittgenstein, infatti, non “pervengono al linguaggio né l’intimo impulso di ogni gioco linguistico all’autoriflessione, impulso che rende possibile ogni traduzione e ogni interpretazione da parte delle scienze dello spirito, né la continuità, condizionata proprio da ciò, di un colloquio umano capace di connettere tutti i giochi linguistici”35.

L’influsso della teoria dei giochi e del significato situazionale sul pensiero di Austin è notevole36.

comunicazione come gioco linguistico trascendentale. Come rileva Vattimo, l’attributo di trascendentale non appartiene alla teorizzazione di Wittgenstein, ma il concetto del linguaggio come “giochi linguistici” sancisce un’accentuazione pragmatica nel senso che, studiando il funzionamento effettivo del linguaggio nei vari contesti di vita, si possono riconoscere in esso le regole di comportamento dei partecipanti ai vari “giochi” dell’esistere, ognuno dei quali, nel proprio ambito di significazione, ha legittimità. 33 Cfr. G. VATTIMO , Introduzione, in K.O. APEL, Comunità e comunicazione, cit., p. XXVII. 34 R. BUBNER, Azione, linguaggio e ragione, cit. pp. 142-143. 35 K. O. APEL, Comunità e comunicazione, cit., p. 41. 36 Come per Wittgenstein il linguaggio, in particolare quello della filosofia, è il grande malato e i suoi ingranaggi girano a vuoto necessitando una terapia, anche per Austin tale pratica terapeutica ha il suo fine nel raggiungimento, attraverso la descrizione dei nostri crampi mentali, di una chiarezza completa. Così il compito del filosofo è quello di isolare e descrivere le strutture logiche delle diverse forme di enunciati secondo le loro funzioni. Per operare in questa direzione è necessario però rimuovere l’errore perpetrato dalla tradizione filosofica occidentale della fallacia descrittivistica, che consiste nel considerare lo strumento linguistico nella sola funzione descrittivo-referenziale, inquinando, per così dire, il modo di studiare la struttura del linguaggio e i suoi processi di significazione, e favorendo una lunga serie di interpretazioni restrittive e fuorvianti del fenomeno linguistico

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Il passaggio da un'analisi degli enunciati alla famosa teoria degli atti

linguistici, anche se una vera e propria teoria degli atti linguistici è forse da ricondurre solo a J. Searle37, rivela il percorso di un’analisi del linguaggio sempre più nel senso di un’accentuazione pragmatica. Un'attività linguistica non solo ricorre a certe regole per poter esprimere contenuti o messaggi; ma tali regole, come sintassi linguistica del pensiero, della coscienza e dell'intenzionalità del soggetto, strutturano l'azione dell'uomo, la rendono condivisibile, e ne definiscono il senso, la direzione, l'incontro relazionale con altri soggetti38.

Austin, prima con la distinzione tra performativo e constativo39, poi con le sue indicazioni per una teoria degli atti linguistici40, ci lascia una

e delle sue applicazioni. (Cfr. A. PIERETTI, Il linguaggio come comunicazione, Città Nuova, Roma, 1978, p. 26). 37Cfr. J. R. SEARLE, Atti linguistici, tr. it., Boringhieri, Torino, 1976. “Credo che sia essenziale - afferma infatti Searle - per ogni comunicazione linguistica contenere un atto linguistico. L'unità della comunicazione linguistica non è, come è stato generalmente supposto, il simbolo, la parola, la frase o anche l'enunciato del simbolo, della parola o della frase, ma è piuttosto la produzione dell'enunciato nell'esecuzione dell'atto linguistico che costituisce l'unità fondamentale della comunicazione linguistica. Più precisamente, la produzione dell'enunciato della frase sotto certe condizioni costituisce l'atto allocativo, e l'atto allocativo è l'unità minima della comunicazione linguistica.(...) Eseguire degli atti allocativi significa impegnarsi in una forma di comportamento governata da regole. Sosterrò che fatti come il porre delle domande e il fare delle asserzioni sono governati da regole in una maniera abbastanza simile a quella in cui fare una base nel baseball o muovere un cavallo negli scacchi sono tipi di atti governati da regole” (J. R. SEARLE, Che cos’è un atto linguistico, in P. P. GIGLIOLI , (a cura di), Linguaggio e società, Il Mulino, Bologna, 1973, p. 90). 38 Così Searle: “Io distinguo due tipi di regole: alcune regolano forme di comportamento preesistenti, come ad esempio le regole di etichetta che regolano le relazioni interpersonali; tuttavia queste relazioni esistono indipendentemente dalle regole di etichetta. Vi sono invece altre regole che non regolano soltanto, ma creano e definiscono nuove forme di comportamento. Le regole del rugby, ad esempio, non servono soltanto per regolare il gioco del rugby ma rendono possibile, o definiscono, tale attività. L'attività del gioco del rugby è costituita dall'azione effettuata secondo tali regole; il rugby non esiste senza queste regole. Chiamerò questo tipo di regole costitutive (constitutive rules) e il primo tipo di regole normative (regulative rules)” ( ivi, p. 91). 39E proprio dall'analisi del linguaggio ordinario, il filosofo inglese opera una prima divisione tra enunciati constativi e performativi. I primi rispondono alla funzione descrittiva, i secondi sono quegli enunciati con cui piuttosto che dire qualcosa, facciamo qualcosa, e troviamo infatti in essi il ricorso a verbi come “promettere”, “giurare”, “scusarsi”, “scommettere, e simili. Usare questi verbi sotto determinate condizioni significa espletare un atto umano carico di conseguenze morali, economiche, giuridiche, e via dicendo; per cui ampie zone del linguaggio giuridico, religioso, morale, sono performative. 40 In How to Do Things with Words troviamo la nozione di atto linguistico, secondo cui dire qualcosa implica sempre fare qualcosa. Una locuzione è, infatti, propriamente un atto locutorio; e siccome dire qualcosa corrisponde a svolgere diverse operazioni, come emettere suoni ed articolare parole che appartengono ad un lessico conosciuto conforme ad una grammatica, ogni atto locutorio viene a sua volta ad essere suddiviso in un atto fonetico

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singolare elaborazione della natura pragmatica del linguaggio ordinario, le cui finalità non sono la mera locuzione, ma l'estrinsecazione di una forza, che è diretta ad esercitare un cambiamento del comportamento di chi ascolta41.

Tuttavia affermare che il linguaggio ordinario è la prima parola, ha anche un significato che possiamo definire metodologico per ricondurre l'analisi linguistica alla sua funzione comunicativa. Significa appunto orientare l'attenzione prioritariamente sull'efficacia operativa dell'atto linguistico, che non solo assolve una funzione pragmatica e sociale nell'ambito delle occupazioni quotidiane dell'agire e dell'interagire umano, ma lo configura come azione linguistica, come prassi comunicativa. Anche in questo caso il reperimento di senso, attraverso e ancor più oltre la definizione di significato, va effettuato nell'enunciazione e non nella parola in generale avulsa dal contesto, fino a poterne definire la forza all'interno di ogni atto linguistico come evento in cui la parola stessa si storicizza e si temporalizza, caricandosi di intenzionalità.

Dunque gli enunciati per se stessi non sono né veri né falsi; verità e falsità possono qualificarsi come tali in riferimento alla contestualizzazione di una proposizione, anzi nel suo divenire contesto di comunicazione nel momento stesso in cui è messa in opera42.

(emissione di suoni), fatico (proferire certi vocaboli appartenenti ad un lessico definito con una certa costruzione grammaticale), e retico (dare un certo senso o riferimento all'espressione). Ma accanto agli atti locutori, come abbiamo già detto, esistono quelli che Austin chiama atti illocutori e perlocutori, che per il nostro discorso risultano di grande rilevanza. Va detto che non è sempre chiara la distinzione tra atto illocutorio e perlocutorio, e di questo fu consapevole lo stesso Austin. Si può dire comunque che l'illocuzione si caratterizza per la forza impressa all'enunciato, e che invece la perlocuzione sottolinea l'essere indotti a compiere un'azione. Va aggiunto che l'atto illocutorio, nonostante la sua forza, non prevede necessariamente di avere degli effetti sull'uditorio; mentre 1'atto perlocutorio comporta sempre delle conseguenze, sebbene i suoi effetti non siano sempre facili da stabilire né da prevedere. (Cfr. J. AUSTIN, Come fare cose con le parole, tr. it., Marietti, Genova, 1974.) 41 La ormai nota differenziazione tra locuzione e forza illocutoria e perlocutoria vuole porre 1'accento sulle modalità concrete dell'uso del linguaggio come strumento di scambio delle opinioni, di condivisione di progetti e impegni comuni. Attraverso ciò che si dice, e soprattutto come lo si dice e a chi, si realizza una quantità di operazioni linguistiche, che sono vere e proprie azioni, e che comportano o inducono altre azioni: di accettazione o esclusione, di ripetizione o rimozione, di consenso o rifiuto, ecc. Certo non va dimenticato che il concetto di forza delle proposizioni non può essere confuso con quello di significato. Per questo lo stesso Austin si troverà a dover affrontare il problema relativo alla distinzione tra livello discorsivo del linguaggio come poter fare, e livello metadiscorsivo come poter significare. Il progetto austiniano incontrerà anche per questa divaricazione non poche difficoltà nella risoluzione della dicotomia di fondo performativo-constativo. Si veda in proposito, M. SBISA’ (a cura di), Gli atti linguistici. Aspetti e problemi della filosofia del linguaggio, Feltrinelli, Milano, 1978; e di J. R. SEARLE (a cura di), Austin on Locutionary and Illocutionary Acts, “The Philosophical Review” 77/4, 1968. 42 Austin definisce il suo metodo di indagine del fenomeno linguistico, pur con qualche riserva, “fenomenologico, consistente cioè nell'osservare, descrivere e raccogliere,

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Pertanto possiamo dire che la revisione dell’idea di linguaggio, sia nelle Ricerche che nelle teorie degli atti linguistici, sembra restituire una parola che si protende verso un tessuto intercomunicativo evocativo dell’intenzionalità linguistica.

Ma sul logos in relazione al soggetto e ai suo tratti intersoggettivi, Wittgenstein non pare fornire sostegni giustificativi. L’individuo risulta quasi retrocedere rispetto alla valenza pragmatico-sociale della comunicazione e del gioco dei “giochi” linguistici vari.

Dov’è il soggetto tra i soggetti, e come si muove nel gioco linguistico che gli è proprio tra i tanti giochi dell'esistere? E se la soggettività è un rapportarsi, qual è la coniugazione linguistica di questo rapporto? La domanda pare a Wittgenstein superflua, o comunque non decisiva per la connessione soggetto-linguaggio. A dire il vero è proprio questo innesto che pare dissolversi nella mobilità pragmatica del linguaggio in azione come forma di vita: non vi è discorso giocabile a partire dal soggetto, che recupera la soggettività nella relazione pubblica del comunicare.

Si è affermato che l'uomo è un ente che si progetta. E si riconosce progetto anche per quel poter significare e comunicare che dà senso alla sua libertà come qualificazione ontologica43. In virtù di essa si dà la possibilità della ricerca del posto dell'uomo situato nell’orizzonte finito dell'esistere, che è sempre coesistenziale. “E’ in primo luogo e sempre nel linguaggio - scrive Ricoeur - che viene ad esprimersi ogni comprensione ontica ed ontologica”44. E’ dunque nel linguaggio stesso che bisogna cercare l’indicazione secondo cui il comprendere è un modo di essere: ma di chi?

L'ermeneutica contemporanea richiama ad una visione della storicità umana come dialogo nel conflitto delle interpretazioni45. E con il contributo

ordinandoli, tutti gli usi linguistici quotidiani, attraverso un'analisi che ne comprenda e chiarisca la natura e la funzione, e soprattutto che consenta una sorta di disincantamento e di liberazione da ciò che è illusorio e ingannevole. Come fa notare Pieretti, il carattere della fenomenologia linguistica austiniana non è tuttavia empirico-descrittivo, come compete piuttosto ad un approccio linguistico scientifico, bensì sempre collocato nell'area della ricerca filosofica: lo scopo è la rimozione degli impedimenti semantici alla comprensione ed esatta impostazione dei problemi filosofici stessi. Gli abusi linguistico-concettuali di cui si è macchiata la filosofia occidentale, tra cui la già citata “fallacia descrittivistica”, hanno implicato una erronea impostazione metafisica di tali problemi; pertanto lo scopo dell'operazione austiniana mira “a porre le condizioni linguisticamente più idonee per affrontarli senza pregiudizi, lontano dal rischio di incorrere in fraintendimenti” (A. PIERETTI, Il linguaggio come comunicazione, cit., p. 52). 43 Il linguaggio in Heidegger è “l’espressione del discorso” ed il discorso è “linguaggio esistenziale, perché l’ente di cui esso articola l’apertura in base a significati ha il modo di essere dell’essere-nel-mondo, gettato e confinato nel < mondo>”( M. HEIDEGGER, Essere e tempo, cit., p. 204). 44 P. RICOEUR, Il conflitto delle interpretazioni, tr. it., Jaca Book, Milano, 1986, p. 25. 45 L’idea di un conflitto delle interpretazioni in Ricoeur rimanda proprio al carattere di apertura dell’universo dei segni proprio dell’interpretazione ermeneutica, diversamente da

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di Gadamer viene accentuata la universalità strutturale del linguaggio (si parla con lui di un’accentuazione linguistica in seno all'ermeneutica) come struttura stessa dell'azione dell'uomo in quanto discorsività, e come orizzonte intrascendibile della nostra esperienza del mondo e di ogni movimento di conoscenza ermeneutica. L'universalità di quella conoscenza consegue dal carattere di universalità attribuita all'esperienza linguistica in virtù della sua ontologizzazione. E lo stesso problema della relazione gnoseologica e della verità è da reperire all'interno di una situazione linguistica che è orizzonte del comprendere e dell'agire. Nella circolarità del comprendere ermeneutico si afferma inoltre quel carattere evenemenziale del linguaggio: l’evento del linguaggio è la situazione discorsiva in cui si attua la comprensione e l'intendersi.

Dunque, mentre nell’ottica analitica la proposizione è un segno che rinvia a qualcos'altro da sé, il discorso per l’ermeneutica è prima di tutto un evento oltre che sistema di segni, cioè una situazione conoscitiva relazionale, all'interno della quale si deve cercare il controllo razionale della comunicazione. Il carattere evenemenziale del linguaggio è connesso con quelle coordinate ontologiche storico-temporali entro le quali, ed in virtù delle quali, il soggetto si configura come Da-sein. La relazionalità discorsiva, come circolarità del conoscere e del comprendere, ha sempre luogo in una situazione di interlocuzione, in cui i soggetti impegnati costruiscono contestualmente il suo senso, che non si trova già posto innanzi ad essi.

Il rapporto soggetto-oggetto dell’interpretazione porta inoltre in primo piano l’autonomia del testo rispetto al soggetto-interprete, invitando a letture e interpretazioni molteplici. Ma poiché l’ermeneutica “deve puntare al contenuto oggettuale di un testo che progetta un mondo”, la soggettività viene quasi relegata più al ruolo di discepola che di padrona del testo e “anziché essere il punto di partenza, la soggettività rappresenta la forza realizzatrice grazie alla quale l’ermeneutica conduce all’autocomprensione”46.

In ogni caso, il linguaggio nell’ottica ermeneutica non è semplice strumento espressivo, mero sistema convenzionale di segni oggettivanti, ma è disvelamento di una determinata situazione storica, o di un mondo, come quello spazio in cui gli interpreti partecipano ad un gioco linguistico scommettendo con i loro pregiudizi, e lasciandosi giocare dal linguaggio stesso, il quale si rivolge loro offrendosi e sottraendosi, ponendo domande e

ciò che accade nel campo della linguistica che è invece nell’ottica di una chiusura dell’ universo dei segni. Il carattere di apertura, in cui “la presa del linguaggio sull’essere e dell’essere sul linguaggio, si attua in molti modi” e dà luogo a quella rivalità delle interpretazioni come evento in cui il linguaggio ha incessantemente il potere di scoprire, manifestare, portare alla luce l’equivocità dell’essere, o meglio, aprire la molteplicità del senso sulla equivocità dell’essere ( ivi, pp. 80-82.) 46 J. BLEICHER, L’ermeneutica contemporanea, tr. it., Il Mulino, Bologna, 1986, p. 269.

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dando risposte. L'esperienza ermeneutica, infatti, rivela una chiara struttura dialettica, o meglio dialogica: la logica ermeneutica si configura come logica di domanda e risposta, dialogo dell'interprete con il testo. Così la interpretazione di un testo consiste nel trovare la domanda a cui questo fornisce la risposta e, contemporaneamente, il testo può essere oggetto di interpretazione solo se rivolge una domanda all'interprete47. Senza dimenticare che ciò che è oggetto di interpretazione è sempre e solo il linguaggio, nel senso che ogni incontro con il mondo è sempre e solo linguistico. Non si dà, infatti, esperienza del mondo prelinguistica o extralinguistica, a cui la parola si aggiunga in un secondo momento come mezzo convenzionale di comunicazione.

Dunque la dialettica di domanda e risposta mostra il comprendere come dialogo. “L’attesa di una risposta presuppone già, dal canto suo, che colui che domanda sia toccato e interpellato dalla tradizione. E’ questa la verità della determinazione storica. Essa è la coscienza che ha esperienza della storia; che, proprio nella misura in cui si rifiuta all’ideale fantomatico di un completo illuminismo, è aperta a fare esperienza storica”48. b) Le svolte linguistiche tra emancipazione e terapia. L’analisi critica della società, come impegno di emancipazione dall’ ideologia, è al centro dell’interesse di quell’ermeneutica critica che, attraverso i contributi di Habermas ed Apel, si pone anche il compito di vagliare le possibilità di rifondazione della razionalità per un’etica della comunicazione. Il percorso che conduce alla delineazione di questa proposta di trasformazione della filosofia49, come intende propriamente Apel, si delinea come uno dei progetti più stimolanti del pensiero filosofico del nostro tempo, al cui interno confluiscono e si fondono gli sviluppi della svolta linguistica sia analitica che ermeneutica. L’interesse per 47 Cfr. H. G. GADAMER, Verità e metodo, cit., pp. 418-426 e 427-437. “L’orizzonte della domanda” è propriamente l’orizzonte ermeneutico in cui si decide la “direzione significativa del testo”. Pertanto la comprensione è un “risalire con il domandare al di là di ciò che è detto. Deve comprendere il detto come risposta, in base alla domanda di cui rappresenta la risposta. In questo risalire oltre il detto è però implicito un domandare al di là di esso” (ivi, p. 427). 48 Ivi, p. 436. 49 Cfr. K. O. APEL, Transformation der Philosophie, Suhrkamp, Frankfurt, 1973, ( parzialmente tradotto col titolo Comunità e comunicazione, cit.).

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l’emancipazione dell’uomo da ogni forma di dominio, che è il tratto distintivo delle scienze sociali critiche, chiama in causa quella “autoriflessione liberante il soggetto dalla dipendenza”, intesa come reazione alla “distorsione esercitata sempre dall’azione repressiva dell’autorità”50. Ma ogni progetto emancipativo è anche il tentativo di restituire al soggetto e alla comunità degli uomini la dignità della ragione e della libertà dell’ autodeterminazione. Tale tentativo, che ha anche il senso di una riabilitazione dei fondamenti etici della prassi comunicativa, sbocca, in seno ad un’area del pensiero ermeneutico contemporaneo, nella delineazione di un’etica del discorso, che si propone come ricerca dei fondamenti di una razionalità non più strumentale, ma discorsiva, in grado, almeno in linea di principio, di porsi come garanzia di una normazione comunicativa che sia regola di espressione reciproca di libertà di parola nella libertà dalla parola. Quest’operazione, come dimostrano gli studi di Apel ed Habermas, si rende possibile tenendo conto del confronto serrato tra razionalità analitica e razionalità ermeneutica51, al fine di conferire a quest’ultima quei requisiti di pragmaticità e trascendentalità messi in evidenza soprattutto dalle teorie del secondo Wittgenstein, dalla introduzione del concetto di atti linguistici e dalle tesi di Peirce, secondo quanto gli stessi autori dichiarano nei loro scritti52. In tal senso l’analisi delle regole interne alle forme di azione comunicativa, che costituiscono la struttura, oltre che la forma, dell’ interazione sociale, è affrontata con la prospettiva di una via di emancipazione dall’autorità e dall’ideologia, nel recupero di una progettualità discorsiva e di una razionalità comunicativa che possano aprire il ripensamento di una etica per la comunicazione. Come abbiamo detto, per arrivare a comprendere il percorso che conduce alla delineazione di questa istanza rifondativa ed emancipativa della prassi, bisogna tener conto degli esiti del linguistic turn analitico ed ermeneutico. Ciò consente di cogliere, all’interno di un confronto dialettico, gli elementi delle due diverse proposte teoriche che, in linea di convergenza, conducono

50 G. RIPANTI, Introduzione in AA.VV., Ermeneutica e critica dell’ideologia, Queriniana, Brecia, 1979, p. 18. 51 “Esistono punti di contatto precisi tra la razionalità analitica e quella continentale (nella versione ermeneutica): il comune rifiuto dell’impianto soggettivistico o “coscienzialistico” della filosofia moderna (il “solipsismo metodico” della soggettività cartesiana); il comune privilegiamento del linguaggio come nuovo paradigma entro il quale formulare le questioni classiche della filosofia. Esistono anche precise divergenze: nella tradizione ermeneutica-esistenziale prevale un taglio trascendentale, ossia la concezione del linguaggio come apriori dell’esperienza; nella filosofia analitica domina l’istanza pragmatica(…), ovvero l’idea di una connessione non universalizzabile tra linguaggio e forme di vita” (F. D’AGOSTINI, Analitici e continentali, cit., p. 383). 52 Cfr. K. O. APEL, L’influsso della filosofia analitica sul mio itinerario intellettuale, in S. CREMASCHI (a cura di), Filosofia analitica e filosofia continentale, cit., pp. 209-247.

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a conferire all’azione discorsiva una validità normativa fondante l’intersoggettività, e dunque a farne un trascendentale regolativo della comunicazione umana, da assumere non come risoluzione finale, ma come terreno di prova per una riformulazione dei rapporti tra etica, politica e linguaggio53. Ma questo percorso speculativo che si verifica all'interno della filosofia del Novecento e che prende il nome di svolta linguistica54, si presenta come un intreccio di posizioni ed elaborazioni concettuali che difficilmente si lasciano ridurre a schematizzazioni. Il concetto stesso di “svolta linguistica” andrebbe declinato al plurale, nel riferimento a quelle evoluzioni nel modo di intendere il linguaggio che si verificano in seno ad un vasto fronte di orientamenti nel pensiero filosofico contemporaneo55.

A noi qui interessa ciò che accade tra gli anni Trenta e Sessanta in due grandi aree di indagine filosofica, che si differenziano non solo per la diversa impostazione dei problemi filosofici, ma anche per la diversa concentrazione geografica dei loro esponenti. Per definire questa duplice articolazione di studi filosofici, si fa ricorso alla distinzione tra “analitici” e “continentali”56, con riferimento sia a quel vasto movimento di pensiero

53 Si veda in proposito il saggio di M. SBISA’, Linguaggio, ragione, interazione, Il Mulino, Bologna, 1989. 54 Cfr. J. HABERMAS, Il pensiero post-metafisico, cit., pp. 47-55. Habermas intende la svolta linguistica come quel fenomeno “dovuto al distacco, già delineato da Humboldt, da quella tradizionale concezione che rappresenta il linguaggio in base al modello dell’attribuzione di nomi agli oggetti e lo comprende come uno strumento di comunicazione (Mitteilung) che rimane però esterno al contenuto di pensiero. La nuova concezione linguistica elaborata trascendentalmente, acquista invece una rilevanza paradigmatica, soprattutto attraverso la superiorità metodica nei confronti di una filosofia del soggetto che si deve richiamare all’ accesso introspettivo ai fatti della coscienza” ( ivi, p. 49). 55 Cfr. F. D’ AGOSTINI, Analitici e continentali, cit., pp. 57-77, e 61; cfr. S. CREMASCHI (a cura di), Filosofia analitica e filosofia continentale, cit., pp. 6-7. Secondo Cremaschi si può parlare di due svolte linguistiche parallele tra gli anni Trenta e Cinquanta. Il secondo Wittgenstein nelle Ricerche filosofiche rovesciava la sua posizione del Tractatus, abbandonando la teoria del significato come raffigurazione e la nozione di un linguaggio ideale, per sostituirvi la nozione di gioco linguistico, ed Austin dava origine alla filosofia del linguaggio ordinario con l’idea del fare le cose con le parole. In Germania la fenomenologia del primo Husserl veniva capovolta nella Crisi delle scienze europee e Heidegger passava da un’analitica dell’esistenza ad una ontologia dell’interpretazione. La sua ontologia ermeneutica fu poi ripresa da uno dei suoi primi allievi, H. G. Gadamer, il quale, puntando sull’interpretazione dei testi e sulla linguisticità del comprendere, faceva del linguaggio l’ “orizzonte ultimo del pensiero”, e vedeva l’esperienza ermeneutica come il mezzo attraverso cui la ragione si sottrae alla prigionia del linguaggio, esperienza che si costituisce a sua volta come linguaggio. (Cfr. H. G. GADAMER, Verità e metodo, cit., p. 462). 56 Il ricorso a questi due termini risale per la prima volta al discorso di apertura tenuto da J. Wahl nel 1958 in occasione del Convegno di Cérisy-la-Salle sulla filosofia analitica, e ad uno scritto di J. Habermas del 1961 in cui questi pone a confronto la natura epistemologica della filosofia analitica nella sua radice neopositivistica, con una epistemologia ermeneutico-dialettica secondo cui il soggetto è implicato e partecipe nella costituzione dei

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che chiamiamo filosofia analitica, diffuso in Gran Bretagna, Stati Uniti, Olanda e Scandinavia; sia all’altro variegato fronte di studi filosofici che comprende esponenti dello storicismo, pensatori ermeneutici, fenomenologi ed esistenzialisti, detti “continentali” poiché la loro matrice geografica è prevalentemente europea57.

Tenendo conto delle sostanziali differenze epistemiche e metodologiche tra “analitici” e “continentali”, si è tuttavia andato accentuando una sorta di avvicinamento, e in particolare si è evidenziata una confluenza relativa all’implicazione, avvertita da entrambi gli orientamenti, tra linguaggio, azione e prassi sociale.

Sia Apel che Habermas hanno individuato lucidamente le linee di una dialettica tra la prospettiva analitica ed ermeneutica: il progetto di far affiorare alcune fondamentali convergenze si fonda sulla constatazione che quella parte della filosofia analitica ispirata al secondo Wittgenstein, avendo ricusato ogni concezione rigidamente formalistica del linguaggio, è andata mettendo in luce il valore pragmatico del linguaggio, che diventa anche normativo della prassi sociale, attraverso il famoso concetto di giochi linguistici come attività di linguaggio che costituiscono le forme di vita intersoggettive dell’esperienza sociale del mondo58. Si tratta però di

propri oggetti d’esperienza e che rispetto ad un approccio analitico predilige quello dialettico. Si veda in proposito, L. BECK (a cura di), La philosophie analytique, Seuil, Paris, 1962 . 57 Per un confronto tra le due scuole filosofiche, si veda, tra gli altri, per l’ermeneutica: J. BLEICHER, L’ermeneutica contemporanea, cit.; M. FERRARIS, Storia dell’ermeneutica, Bompiani, Milano, 1988; G. MURA, Ermeneutica e verità. Storia e problemi della filosofia dell’interpretazione, Città Nuova, Roma, 1990; F. BIANCO, Pensare l’interpretazione. Temi e figure dell’ermeneutica contemporanea, Editori Riuniti, Roma, 1991; M. RAVERA, Il pensiero ermeneutico, Marietti, Genova, 1986; G. NICOLACCI, La controversia ermeneutica, Jaca Book, Milano, 1989; S. MAFFETTONE, Ermeneutica e scelta collettiva, Guida, Napoli, 1992; per la filosofia analitica si veda, tra gli altri, D. ANTISERI, Dal neopositivismo alla filosofia analitica, Abete, Roma, 1966; ID., Dopo Wittgenstein. Dove va la filosofia analitica, Armando, Roma, 1977; P. PARRINI, Linguaggio e teoria, La Nuova Italia, Firenze, 1986; I. HACKING, Linguaggio e filosofia, tr. it., Raffaello Cortina Editore, Milano, 1994; G. GAVA , A. PIOVESAN (a cura di), La filosofia analitica, Liviana, Padova, 1972; G. PENCO, Significato e teorie del linguaggio, Franco Angeli, Milano, 1990, P. EMANUELE, Il mito dell’analisi da Aristotele a Rorty, Laterza, Roma-Bari, 1993. 58 “Nelle Ricerche filosofiche che ho studiato dal punto di vista di un sistematico confronto con l’architettura quasi-trascendentale del Tractatus, ho trovato non soltanto una concezione nuova - compiutamente pragmatica - del linguaggio e del suo significato ma anche, insieme alla continuazione del programma di Sprachkritik, una trasformazione dell’architettonica quasi-trascendentale del Tractatus… Si potrebbe giungere alla conclusione che il problema quasi-kantiano delle condizioni di possibilità della descrizione (o interpretazione) del mondo ha subito una diversificazione secondo le diverse - forse anche incommensurabili - strutture profonde ( ivi inclusi “modelli”, “criteri” o “paradigmi” extralinguistici) dell’uso del linguaggio in giochi linguistici diversi appartenenti a “forme di vita” diverse. Ora, questa diversificazione dell’a priori dell’interpretazione linguistica del mondo era atta ad aprire una nuova prospettiva anche sul problema della comprensione

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comprendere effettivamente in che senso si può parlare di un percorso di avvicinamento tra le due prospettive filosofiche, per loro matrice così differenti, e quali siano i possibili o reali punti di intersezione che non vengano ad intaccare né a ibridizzare le rispettive specificità59.

Diciamo subito che filosofia analitica ed ermeneutica condividono l’interesse per il linguaggio come snodo concettuale primario; ma si può individuare su questo punto anche un primo piano di differenziazione ricordando che l'unità linguistica di base per la filosofia analitica è l'enunciato, e per l'ermeneutica risulta essere il discorso. E sebbene questa possa sembrare una semplificazione riduttivistica dei due diversi approcci al linguaggio, tuttavia le implicazioni di tali assunti rinviano proprio al diverso percorso teoretico ed epistemologico tracciato da entrambi gli orientamenti e ne evocano la diversa matrice: epistemologica e quindi neopositivistica per la filosofia analitica, storicistica ed ontologica per l'ermeneutica.

Secondo queste diverse configurazioni del linguaggio, non è in gioco soltanto il diverso tipo di funzione linguistica da ammettere al vaglio della significanza, ma, più in profondità, si tratta di cogliere il diverso tipo di problema filosofico ritenuto fondamentale. In altri termini, è il tipo di domanda filosofica da cui muovono i rispettivi orientamenti che è differente. Nella prospettiva ermeneutica piuttosto che interrogarsi su “come conosco”, ci si interroga su quale sia la caratteristica ontologica, dunque l'essenza, del soggetto che conosce, in quanto posto su un piano ontologico differente rispetto agli enti. Il movimento analitico, tenendo conto della sua matrice neopositivistica, passa da una indagine linguistica spiccatamente semantica alla risoluzione del linguaggio come attività intenzionale intersoggettiva, che più sinteticamente viene definita pragmatica, secondo cui il compito del filosofo diventa un compito terapeutico, cioè un’opera di chiarificazione logica del pensiero attraverso il linguaggio nel suo uso quotidiano. L'ermeneutica nel riferirsi a quell'unità di senso che è il discorso, si pone l’obiettivo di stabilire il nesso essenziale tra linguaggio e comprensione, intendendo il linguaggio come luogo della relazione umana, come orizzonte che costituisce e dà senso al coesistere. La risoluzione del linguaggio nella pratica discorsiva della “comunità di discorso” mette in evidenza che ogni processo di comprensione è da ricondursi ad un contesto comunicativo, a cui i soggetti prendono parte come coimplicati nell’opera di comprensione. In questo senso la comprensione ermeneutica rinvia ad un “impegno totale” da parte del soggetto, poiché “ha luogo nella vita di ognuno e consiste nel cogliere il senso del discorso”60. Il ruolo della comunità dei parlanti,

ermeneutica” (K. O. APEL, L’influsso della filosofia analitica sul mio itinerario intellettuale, cit, p. 217). 59 Si veda, per una lettura critica, R. BUBNER, La convergenza tra filosofia analitica e filosofia ermeneutica, in S. CREMASCHI (a cura di), op. cit., pp. 197-207. 60 J. BLEICHER, L’ermeneutica contemporanea, cit., p. 49.

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rivelando un carattere “sovra-individuale” e trascendentale, rischia però di venire a far luce sulla possibilità della comunicazione facendo appello a se stessa, cioè in quanto categoria che già presuppone la comunicazione come sua struttura relazionale.

Dal canto suo, l’operazione decisiva del movimento analitico sulla via del ripensamento delle tesi neopositivistiche è stato il superamento di una piena corrispondenza tra l'unità linguistica di significato, cioè la proposizione, e i fatti del mondo in senso estensivo, introducendo la legittima significanza di una molteplicità di funzioni linguistiche e di usi del linguaggio. Si fa strada, cioè, la consapevolezza che la crisi del modello ideale, per cui ad ogni enunciato corrisponde una proposizione, porti ad un ampliamento del campo di legittimità semantica del linguaggio e all'acquisto di una valenza pragmatica: i giochi wittgensteiniani sono comportamenti linguistici governati da regole linguistiche, che sono in definitiva regole coesistenziali di azione ed interazione sociale. E proprio il concetto di regola linguistica viene a porsi come crocevia tra linguaggio e inter-azione, collegando l’idea di un ordine logico con la prassi concreta.

Anche secondo la prospettiva ermeneutica gadameriana ogni comprensione di un testo dischiude sempre un orizzonte pragmatico dell’applicazione; dunque la comprensione della regola è condizione per l’esercizio della sua funzione. Come osserva Bubner però, a differenza delle leggi, le regole producono conformità nel senso che “la regola osservata struttura la molteplicità pratica col prescrivere una prosecuzione dell’agire nello stesso senso o nella stessa direzione”61. Ma affinché ciò si verifichi come continuità dell’agire e come possibilità di tale continuità dell’azione, è necessario che l’agire indicato dalla regola non si esaurisca nel caso singolo o nel caso contingente e mutevole: la regola, per essere tale, deve “creare ordine prescrivendo un comportamento uguale”62.

La metafora del gioco allude alle sue caratteristiche di luogo, durata e dunque di limitazione spazio-temporale: ha uno svolgimento proprio e un senso in sé; anzi potremmo dire che acquista sempre più senso proprio nello svolgersi, cioè nel suo divenire, nell’alternarsi dei ruoli e delle possibilità63. Ma il riferimento al gioco evoca anche il suo fissarsi come cultura, poiché può essere ripetuto, fissato nella memoria e tramandato. E se ogni gioco, per la sua struttura interna che prescrive forme di vita condivisa, ha sempre le sue regole, esse determinano, nella loro assoluta obbligatorietà, ciò che avrà valore in quel mondo temporaneamente delimitato dal gioco stesso64, un mondo in cui domina l’ordine, perché il concetto stesso di gioco ha un’essenza normativa.

Le regole d’azione costituite dai giochi linguistici sottolineano la

61 R. BUBNER, Azione, linguaggio e ragione, cit., p.164. 62 Ivi, p. 165. 63 Cfr. J. HUIZINGA, Homo ludens, tr. it ., Einaudi, Torino, 1982, pp. 13-14. 64 Ivi, p.16.

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necessità di stabilire criteri di razionalità pragmatica che governino ogni comportamento comunicativo, senza fare riferimento a fatti extra-linguistici ma ad elementi normativi relativi ai giochi sociali. Ciò che conta non è il contenuto fattuale, ma l’insieme degli elementi, ognuno dei quali non può determinarsi senza il riferimento e l’interdipendenza con gli altri elementi. Il linguaggio dei fatti e il linguaggio delle azioni non sono assimilabili ma nemmeno conflittuali. Si tratta di riconoscere due livelli di comportamento linguistico, uno in cui ricorre il criterio di verità falsità, e l’altro in cui sottolineiamo piuttosto l’intenzione e la direzione a uno scopo di un comportamento. E non è forse l’intenzionalità dell’azione umana nel mondo della vita a fare di essa un atto razionale e non solo un fatto naturale?

c) Azione e comunicazione in Habermas. La nota “teoria dell’agire comunicativo” di Habermas è innanzitutto il tentativo di istituire un criterio razionale come guida dell’azione che si fondi sulla reciprocità interlocutoria del dialogo, e il tentativo di superare la inconciliabilità tra questo, inteso come metodo critico, e la prassi sociale. La comunicazione pertanto fa ricorso alla ratio dialogica come applicazione pratica, di un agire che va a finire nella “negoziazione di un consenso”65. Il concetto di comunicazione in questo senso allude anche alla situazionalità dell’agire come inter-azione linguistica, in cui si intersecano piani d’azione che sono piani di vita. L’interazione linguistica istituisce, infatti, una distribuzione di regole e di competenze tra soggetti che mirano ad un consenso e ad un reciproco riconoscimento. Spesso il pensiero di Habermas viene meglio focalizzato in posizione dialettica con quello di Luhmann. Se infatti la costruzione di Luhmann di una contingenza sistemica66 sembra aver liquidato ogni impronta

65 R. BUBNER, Azione, linguaggio e ragione, cit., p. 287. 66 Come fa rilevare Barcellona, il concetto di contingenza sistemica di Luhmann è una contingenza artificiale, non “un dato naturale, empirico, ma la stessa complessità del sistema che si struttura sempre come alternative possibili”. In tal modo si viene a creare una polarizzazione tra artificialità e ricerca del vero, anzi la verità viene “desostanzializzata” da Luhmann in una trasposizione sistemica che ne rescinde anche il nesso con il diritto e la morale (cfr. P. BARCELLONA, Il declino dello stato, cit., p. 222).

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antropologica ed ogni soggettivismo razionale, edificando sulla morte del soggetto un individuo come equivalente funzionale nel sistema67, Habermas cerca di ripristinare una soggettività capace di ricercare la verità in un lavoro consensuale di impegno dialogico. Il progetto filosofico, condiviso con Apel, di un’etica del discorso diventa anche l’ipotesi che in tale rifondazione etica si ricostituisca il nesso soggetto-oggetto della prassi attraverso la ridefinizione di categorie trascendentali dell’intendersi quali l’agire comunicativo ed il discorso. Questa, che possiamo definire una rifondazione etica attraverso la ratio discorsiva, rivela anche l’istanza che una pragmatica della comunicazione non si risolva in uno sforzo riduzionistico di formalizzazione, ma che ricorra ad una ragione comunicativa, “analizzabile inscindibilmente dai nessi vitali della prassi sociale”, e ridisegni una soggettività che è tale perché inserita in un contesto intersoggettivo strutturato linguisticamente68. Dietro il concetto di agire comunicativo vi è infatti un progetto complesso, che offre infiniti versanti di accostamento69. Pur tuttavia, si può individuare nel progetto di una razionalità comunicativa il tratteggio portante di questa nuova proposta teoretica70. Il paradigma di una comunicazione, che si ponga come agire razionale e consensuale, si lega strettamente all’esame della razionalità comunicativa o discorsiva. Ma induce anche a chiedersi quale debba essere il telos dell’agire intercomunicativo e del linguaggio come medium del reperimento di verità nel discorso. Il primo passo è dunque quello di riprecisare i termini della polarizzazione tra una razionalità strumentale o procedurale e una “razionalità comunicativa”71. Quest’ultima fa riferimento al recupero di un concetto di logos che inerisca alla prassi comunicativa come struttura logico-dialettica intersoggettiva. Il discorso razionale, in tal senso, viene ad essere quello in cui i parlanti partecipano ad un mondo vitale, il cui “telos” non appare come

67Cfr. J. HABERMAS, N. LUHMANN , Teorie della società o tecnologia sociale, tr. it., Etas Kompass, Milano, 1973. In quest’opera Habermas si confronta con Luhmann contrapponendo alla sua teoria sistemica una teoria della competenza comunicativa. 68 Cfr. W. PRIVITERA, Comunicazione ed emancipazione. La svolta linguistica della teoria di J. Habermas, in AA.VV., Ragione emancipativa. Studi sul pensiero di J. Habermas, ILA Palma, Palermo, 1983, pp. 178 sgg. 69 Per un’analisi più globale del concetto di agire comunicativo, si veda AA.VV., La svolta comunicativa. Studi sul pensiero dell’ultimo Habermas, Franco Angeli, Milano,1984; AA.VV., Jurgen Habermas. Comunicazione, prassi, società, Franco Angeli, Milano, 1985. 70 Infatti il riferimento serrato dell’opera habermasiana ad autori quali Durkheim, Weber, Mead e Parsone, ne fa uno strumento di lavoro impareggiabile per la discussione filosofica, sia di ispirazione politico-giuridica che linguistico-comunicativa, oltre che etico-morale. E forse proprio in questa prismaticità teoretica consiste il valore dell’opera, ed anche la difficoltà di rendere ragione della sua complessità attraverso uno sguardo sintetico. 71Cfr. J. HABERMAS, Teoria dell’agire comunicativo. Razionalità nell’azione e razionalizzazione sociale, cit., pp. 64-65.

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“disposizione strumentale”, ma come “intesa comunicativa”72. Infatti, proprio con il concetto di agire comunicativo, Habermas sviluppa l’intuizione che il telos dell’intesa è intrinseco al linguaggio. E con “intesa” egli vuole riferirsi ad un “concetto di contenuto normativo”, che non va confuso con l’intesa di espressioni grammaticali, ma che costituisce le condizioni linguistiche della comprensione linguistica del significato e dunque della validità dell’atto linguistico stesso: “nel linguaggio – infatti - le dimensioni del significato e della validità sono internamente connesse”73. Ma l’obiettivo primario in Habermas si conferma quello di riportare tali teorizzazioni ad una rifondazione dell’agire sociale come prassi comunicativa che, come lui stesso scrive, è anche una teoria dell’ordine sociale74. Pertanto, si tratta di rielaborare innanzitutto una teoria dell’azione alla luce del rapporto con la valenza pragmatica del linguaggio. Il concetto di prassi comunicativa viene raffrontato con quello dell’agire teleologico, dell’agire drammaturgico e dell’agire normativo. L’analisi di quest’ultimo assume notevole rilevanza poiché il concetto di agire governato da regole, che presuppone due mondi, quello sociale a carattere prescrittivo e quello degli “stati di fatto esistenti”, dovrebbe consentire all’attore di distinguere “le componenti fattuali da quelle normative della sua situazione di azione, vale a dire le condizioni e i mezzi dai valori”75. Anche il modello comunicativo dell’azione è un’interazione governata da regole che sono linguistiche. Ma qual è dunque la differenza? Nell’agire normativo “il concetto centrale - scrive Habermas - è la decisione fra alternative d’azione, orientata alla realizzazione di uno scopo, guidata da massime e basata su una interpretazione della situazione”76. Ma il concetto di un agire “regolato da norme”77 avverte appunto l’istanza normativa allorché il soggetto è parte di un gruppo sociale, ossia nella sua dimensione intersoggettiva, cioè in un interagire in cui almeno due soggetti, capaci di linguaggio e di azione, stabiliscono una relazione interpersonale78. Il concetto di agire governato da regole richiama certamente la penetrazione di elementi wittgensteiniani, secondo cui il rapporto tra linguaggio e realtà risulta fondato sulla pratica delle forme di vita e sulla pluralità di giochi

72 Ivi, p. 66. 73 Ivi, p. 73. 74 Ivi, pp. 79-84. 75J. HABERMAS, Toria dell’agire comunicativo. Razionalità nell’azione e razionalizzazione sociale, cit , pp. 162-163. 76 Ivi, p. 156. 77Secondo quanto scrive Habermas, questa tipologia di azione regolata da norme presuppone due mondi: un mondo sociale e quello oggettivo. Si tratta però di vedere come questi due mondi entrino o non entrino in rapporto fra loro, e cosa comporti la loro separazione o compenetrazione. 78 Cfr. ivi, pp. 156-157 e pp. 160-163. Vedi anche in proposito: E. DICIOTTI, I conflitti normativi e l’etica del discorso, in “Rivista internazionale di filosofia del diritto”, LXXII, 1, 1995.

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linguistici come regole linguistiche d’azione intersoggettiva. La razionalità comunicativa a cui fa riferimento Habermas diventa dunque quel principio comune dinamico come relazione discorsiva tra soggetti che partecipano ai diversi giochi linguistici della realtà sociale79. L’analisi linguistica, tuttavia, non può eliminare la dimensione storica dell’agire comunicativo, ossia non può risolversi esclusivamente nella considerazione della valenza intersoggettiva dei giochi linguistici, tralasciando il più complesso rapporto tra linguaggio e prassi, che si lega alla considerazione della connessione tra strutture istituzionalizzate come strutture di potere, condizioni materiali e mondo della vita. Il nesso tra comunicazione e potere del linguaggio, inteso come controllo e possibilità di distorsione della razionalità comunicativa, richiede che quest’ultima si presenti sempre come alternativa ad ogni razionalità strumentale. Ora bisogna chiedersi: il convenire ad un agire normativo quali presupposti chiede al costituirsi dei soggetti come agenti sociali, e su cosa si basa questo carattere consensuale? Inoltre l’agire teleologico, l’agire comunicativo e l’agire drammaturgico, sottendono uno stesso concetto ed una stessa funzione del linguaggio 80? Per Habermas la natura e il pre-requisito di un rapportarsi consensuale poggiano sulla dimensione linguistica del comunicare come agire sociale. Dimensione che varia da modello a modello dell’agire. Il modello dell’azione normativa del discorso si fonda su un linguaggio che media “valori culturali e veicola un consenso”, e solo nell’agire comunicativo il linguaggio non subisce riduzionismi ed esplica tutta la sua carica pragmatica e semantica del senso intersoggettivo della prassi linguistica. “Come emerge dagli approcci etnometodologici e da quelli della ermeneutica filosofica, sussiste certo il pericolo - avverte Habermas - che l’agire sociale sia ridotto all’opera di interpretazione dei partecipanti alla comunicazione, che l’agire sia assimilato al parlare, l’interazione alla conversazione. Di fatto però l’intesa linguistica è soltanto il meccanismo del coordinamento dell’agire che tiene insieme i piani di azione e le attività volte ad uno scopo dei partecipanti”81. La teoria dell’agire comunicativo, quindi, non solo si rivela una teoria consensuale della verità nel discorso senza ricorrere alla coazione, ma anche l’alternativa razionale alla teoria sistemica e alla logica funzionalistica82. A fronte della comunicazione massmediale, che vanta il primato della

79 Cfr. J. HABERMAS, Agire comunicativo e logica delle scienze sociali, tr. it., Il Mulino, Bologna, 1980, p. 220. 80Cfr. J. HABERMAS, Teoria dell’agire comunicativo, cit., p. 163. 81 Ivi, p. 171. 82 Il ricorso ad una verità discorsiva si appoggia a sua volta alla determinazione di una comunicazione fondata da un logos come “a priori dell’intendersi” (Cfr. P. BARCELLONA, Il declino dello stato, cit., pp. 223-224.)

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strumentalità del linguaggio e l’efficacia tecnologica dell’interazione, la dimensione umana del comunicare per Habermas è esercizio e pratica comune della discorsività, che è tale solo nella misura in cui consente di liberare i parlanti dall’egemonia di un linguaggio mistificante, attraverso la ricostruzione di strutture universali del comprendere e dell’intendersi. E’ questa una “pragmatica universale” come “scienza ricostruttiva”, nel senso che lo scopo di un’analisi ricostruttiva del linguaggio “è la descrizione esplicita delle regole che un parlante competente deve padroneggiare”83. Per questo Habermas ricorre alla distinzione tra “agire comunicativo” e “agire strategico”, che sottende un diverso costituirsi dei piani d’azione dei parlanti e un diverso valore della mediazione linguistica nella ricerca razionale dell’accordo. Quest’ultimo non può essere raggiunto né con estorsioni consensuali né, per così dire, “dall’esterno” attraverso condizionamenti e pressioni di una parte sull’altra, e soprattutto non può essere mosso dal calcolo di un vantaggio individuale84. L’“ agire strategico”, invece, lavora appunto in questa direzione, orientando il meccanismo dell’intesa alla costruzione di un’interazione, in cui vengono svuotate “le pretese di verità proposizionale, di giustezza normativa e di veridicità soggettiva”, poiché la comunicazione esegue atti linguistici in cui “si ritirano le forze illocutorie dell’integrazione” ed il linguaggio “si restringe a mezzo di informazione”85. Perdere la forza illocutoria degli atti linguistici vuol dire anche che l’orientamento e il coordinamento dei piani d’azione cedono ad influenze esterne al linguaggio, e soggiacciono solo all’istanza di informazione come mera comunicazione di messaggi. In altre parole, l’agire linguistico dell’agire strategico è quello in cui gli atti linguistici giocano una funzione solo strumentale, ed in tal modo “non mirano a far sì che il destinatario prenda una posizione motivata razionalmente”86. La teorizzazione di Habermas, inquadrata nella più ampia ma intrinseca dialettica tra linguaggio dell’epistemologia e linguaggio ermeneutico, consente di raffrontare due modi di intendere l’atto linguistico e l’agente linguistico. L’uso non-comunicativo o cognitivo del linguaggio rimanda ad una “relazione fra proposizioni e qualcosa del mondo”; il linguaggio “comunicativo” invece esprime la sua intenzionalità, è volto costitutivamente verso l’altro, è un linguaggio “all’opera” molto vicino a quello dei giochi wittgesteiniani, “così come viene adoperato allo scopo di giungere alla comprensione comune di una cosa, o a una veduta comune”87.

83 Citato in E. AGAZZI, Introduzione, in J. HABERMAS, Etica del discorso, tr. it., Laterza, Roma-Bari, 2000, p. XXI. 84Cfr. J. HABERMAS, Il pensiero post-metafisico, cit., p. 66. 85 Ivi, p. 69. 86 Ivi, p. 71. 87Ivi, p. 29. Cfr sull’argomento V. PEDRONI, Fondazione e critica della comunicazione. Studi su Jurgen Habermas, Franco Angeli, Milano, 1992.

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Dunque Habermas è convinto che vi possa essere in ogni rapporto comunicativo un presupposto di razionalità. I punti di contatto con la teoria di K.O. Apel paiono innegabili, soprattutto quando questi ritiene che l’a-priori kantiano, come base della conoscenza e dell’universalità della scienza, sia da intendere linguisticamente; o per meglio dire, che il concetto di comunità illimitata della comunicazione è l’a-priori linguistico di ogni comunicazione, e tale condizione di possibilità del comunicare ne fa il luogo in cui l’apertura di tutti partecipanti allo scambio linguistico può aspirare a quelle pretese di verità discorsiva e consensuale di cui parla Habermas88. E’ infatti la razionalità comunicativa, come criterio universale dell’intendersi, che, trascendendo ogni posizione individuale del comprendere, diventa la situazione linguistica ideale per una garanzia di fondazione etica del comunicare. d) Apel e il trascendentale linguistico intersoggettivo. Il progetto di una trasformazione della filosofia in K. O. Apel è resa possibile facendo convergere il pragmatismo di Peirce, la filosofia linguistica di Wittgenstein e l’ontologia esistenziale. In Comunità e comunicazione Apel svolge un confronto serrato tra le tesi heideggeriane e quelle che caratterizzano il passaggio dal primo al secondo Wittgenstein, per una sorta di transizione dall'ontologia ermeneutica alla ricerca di un gioco linguistico trascendentale pervenendo così all’idea della “comunità illimitata della comunicazione”. In essa si ripropone la domanda di senso e di legittimità per una fondazione razionale dell'etica e del presupposto trascendentale delle scienze sociali89. Vattimo coglie certamente nel segno quando afferma che Apel è stato uno dei primi a vedere le profonde analogie che legano gli esiti “linguistici” dell'ultimo Heidegger e gli sviluppi ultimi della filosofia analitica, soprattutto nel Wittgenstein delle Ricerche filosofiche 90.

La sintesi tra la posizione ermeneutica e quella filosofico-analitica

88 Secondo Habermas tali pretese di validità sono verità, correttezza e sincerità, a cui corrispondono alcune modalità specifiche di linguaggio, funzione constativa, funzione regolativa e funzione espressiva. 89 Ivi, p. 205 e 168. 90 Apel parla di una contiguità tra il pensiero di Wittgenstein e quello di Heidegger, pur nell’appartenenza a scuole di pensiero che “non hanno mai preso seriamente nota gli uni degli altri” (K. O. APEL, Comunità e comunicazione, cit., p. 3).

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condurrà a quella “trasformazione semiotica del Kantismo” e ciò significa “che se resta vero, con Kant, che il mondo degli oggetti è con-costituito nelle sue strutture reggenti dall'attività del soggetto (la sintesi trascendentale dell'appercezione, senza di cui non si può dare, kantianamente, alcuna oggettività), la semiotica mette in luce definitivamente che questa costituzione dell'oggetto come oggetto, cioè di un “qualcosa in quanto qualcosa”, non avviene se non attraverso l'uso di segni, e cioè con la mediazione del linguaggio”91.

Il valore connettivale del linguaggio, nell'evoluzione che lega le tesi di Wittgenstein e quelle heideggeriane fino alle soluzioni ermeneutiche dialettiche di Gadamer e Habermas, è nel restituire al soggetto la sua storicità e la sua finitezza reale; ma, al tempo stesso, la possibilità di recuperarle nella trama linguistica della comunicazione umana, quest’ultima non intesa meramente come “gioco linguistico”, (cioè in senso comportamentistico), ma in quel dispiegarsi e rinsaldarsi costante del binomio linguaggio-esperienza intersoggettiva del comprendere.

“In risposta alla critica ‘totale' della ragione e all'autocomprensione metodologica della filosofia suggerite dal post-modernismo, e protendendosi verso una trasformazione in chiave linguistica della filosofia kantiana, Apel elabora una teoria dei tipi di razionalità che, attraverso una differenziazione tra i paradigmi scientifico-ermeneutici, intende dar conto riflessivamente del tipo di razionalità cui appartiene la razionalità filosofica”92, che può rifondarsi nel prender coscienza autoriflessivamente del suo statuto trascendentale nell'innesto con quel gioco linguistico che è il discorso argomentativo.

La rilettura del pensiero heideggeriano nell'analisi dell' Esserci offre l'invito a considerare la mancanza di un'istanza normativa, per mettere in questione il problema della fondazione e della validità del comprendere comunicativo. In altri termini, Apel sembra chiedersi se ogni soggetto, nel suo essere temporalmente e storicamente gettato nel mondo, possa tralasciare, o sottendere, il problema della validità intersoggettiva del conoscere.

Apel in tal senso offre lo spunto per tratteggiare una linea d'indagine che coglie alcuni aspetti paradigmatici della svolta linguistica del XX secolo, la quale sposta progressivamente il suo centro focale da un approccio sintattico (nel senso di sintassi logica dei costrutti scientifici) ad una prospettiva per così dire semantica, per pervenire alla pragmatica come relazione tra la natura dei segni e l'uso sociale, di cui si trovano indizi nel pensiero di Peirce. A questi Apel riconosce anche il merito di averlo condotto, attraverso il principio del fallibilismo, alla convinzione che debbano esistere delle condizioni a priori, ossia idee regolative riguardanti il

91 G. VATTIMO , Introduzione, in K.O. APEL, Comunità e comunicazione, cit., p. XXI. 92A. PUNZI, Patto, Diritto Discorso, cit., p. 83.

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progresso conoscitivo. Peirce sostiene, infatti, la centralità della deduzione trascendentale della validità sul lungo periodo dei processi inferenziali sintetici93.

A fronte di una relazione binaria, un processo gnoseologico non può dirsi davvero tale se non tiene conto della categoria della terzietà e secondo Peirce essa è la mediazione segnica, ma intesa non come medio formale o empiricamente strumentale, e neppure come “nuda mediazione tramite concetti nel senso della sintesi trascendentale dell'appercezione di Kant”94. Piuttosto la funzione segnica del linguaggio, per cui si parla di trasformazione semiotica della gnoseologia, si risolve, secondo la rilettura che ne dà Apel, in almeno tre sviluppi tematici: 1) “Non c’è conoscenza alcuna di qualcosa come qualcosa senza una mediazione reale dei segni sulla base di veicoli segnici materiali.”; 2) “Non c’è funzione rappresentativa alcuna del segno per una coscienza senza un mondo reale, che si deve per principio pensare come rappresentabile sotto aspetti determinati e cioè come conoscibili”; 3) “Non c’è rappresentazione alcuna di qualcosa come qualcosa attraverso un segno senza interpretazione da parte di un interprete reale”95.

La conoscenza è dunque mediata semioticamente, e tale mediazione segnica è rappresentazione di un “mondo reale” da parte di un “interprete reale”: questo sembra essere l'assunto di base riassumibile dai tre enunciati apeliani. Dunque il problema del senso rimanda fondativamente ad una premessa trascendentale che consenta di offrire le condizioni di pensabilità e possibilità del discorso intersoggettivo, ma non è del tutto chiaro quali possano essere le condizioni necessarie a giustificare la portata relazionale della comunicazione come prassi semiotica. In altri termini, vi può essere un postulato da assumere come validità intersoggetiva a priori, per fornire senso e valore ai giochi linguistici empirici di cui è intessuta l'esperienza umana del comunicare?

La domanda allude all'inglobamento dell'istanza fondativa semiotica nel concetto di gioco linguistico, e sottende anche un concetto di comunicazione che fa perno più che sull'attività del soggetto, sulla nozione di “comunità illimitata della comunicazione” come polo trascendentale, cioè come condizione di intelligibilità dell'atto discorsivo stesso.

E l’evoluzione in senso semiologico offerta da Peirce pone nei segni il medio attraverso cui realizzare questa comunità della comunicazione. Infatti per Peirce la relazione segnica, caratterizzata da quella terzietà, dal trittico segno-oggetto-interprete, funge non solo da condizione della comunicazione, ma anche come regolamentazione normativa della comunità dei parlanti: i segni linguistici, del resto, sono mediazioni regolative, 93 K. O. APEL, Discorso, verità, responsabilità, cit., p. 69. 94 Ivi, pp. 141-142 95 Ibidem.

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condizioni nomologiche di una relazionalità vivibile e condivisibile. Procedendo sulla via aperta dalla pragmatica peirceiana, la

comunicazione intersoggettiva è la condizione ermeneutica-trascendentale della possibilità e della validità di ogni conoscenza indirizzata in senso oggettivo. Ossia, l’emergere del linguaggio “come istanza di mediazione della conoscenza”, mostra che “soltanto una filosofia trascendentale trasformata in senso semiotico è in grado di concepire adeguatamente l’origine dell’impostazione problematica ermeneutica a partire dall’interesse di comunicazione, complementare all’interesse di conoscenza scientifico”96. Pertanto, la “comunità del discorso” non può costituirsi se non recuperando un paradigma di razionalità come recupero di un logos riflessivo del discorso stesso, cioè garantendo nell'azione sociale un esercizio della razionalità discorsiva simmetrico e critico, e potremmo anche dire libero. Tale esercizio però esige una regolamentazione critico-discorsiva: un logos fondativo che va reperito nella dialettica tra senso e verità della dimensione linguistica.

L'implicazione logico-normativa dei giochi linguistici, che è poi regolamentazione dell'agire interumano, è riletta con l'istanza di un superamento della mera giocabilità e frammentarietà delle applicazioni linguistiche contingenti al dialogo comunicativo, al fine di sancire la portata normativa del medio linguistico come medio strutturante la relazione tra soggetti.

E nella concezione del linguaggio come gioco linguistico, cioè come uso condiviso di segni materiali in una situazione di vita sociale, Apel ha scorto la mediazione tra un modello di linguaggio come sistema, in cui la valenza intersoggettiva è garantita dall’apriori della forma logica delle proposizioni, ed un altro modello visto nell’ottica coscienziale del soggetto inteso individualmente97.

Lo sviluppo centrale del percorso apeliano, teso al superamento di ogni solipsismo metodico, pare risolversi proprio nella domanda sul valore possibile ed effettuale del linguaggio nell'orizzonte del convivere tra soggetti, ponendo implicitamente una richiesta di indagine pre-fondativa dell'apriori linguistico e inducendo a chiedersi se sia ancora ascrivibile al valore trascendentale il conferimento di senso all'attività linguistica fuori della situazione intercomunicativa.

Se, in altri termini, l'apriori kantiano era del soggetto e nel soggetto, ora l'apriori linguistico è ancora pensabile in questi termini, o non rafforza la sua apriorità, cioè la sua universalizzabilità e incondizionatezza, nell’essere per il soggetto condizione di possibilità del relazionarsi a se stessi e ad altri?

Ci sembra di capire che la stessa condizione di possibilità della comprensione, in quanto fondata sulla pre-comprensione del soggetto, 96 K. O. APEL, Comunità e comunicazione, cit., p. 153. 97 Cfr. V. MARZOCCHI, Introduzione, in K. O. APEL, Discorso, verità, responsabilità, cit., pp. 26-27.

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venga a dischiudersi nel circolo ermeneutico, proprio in virtù di una circolarità che è transitività dell'agire e del comprendere linguistico.

L’approdo alla comunità della comunicazione, come luogo relazionale simbolico in cui si giocano i reali e concreti possibili rapporti di verità e potere, di libertà e assoggettamento, ribadisce la interpretazione del linguaggio come insieme di regole pragmatico-semantiche, e porta l’evidenza “sempre mia” della coscienza ad una validità della conoscenza vincolante a priori in una teoria consensuale della verità98. La delineazione di un’affinità tra principio del discorso e principio della democrazia, che in Habermas significa anche co-originarietà di diritto e morale, è riproposta in termini di problematizazione degli assunti habermasiani, delineandone internamente anche qualche aporia concettuale. Apel condivide con Habermas l’esistenza di una relazione interna tra il principio del discorso e il nucleo centrale del principio della democrazia. Né pare sfuggire ad Apel l’importanza della convinzione di Habermas che una fondazione della giustizia politica, nella prospettiva di una teoria etica del discorso, venga a caratterizzarsi per il rilievo che conferisce alla procedura democratica99. Tuttavia Apel è dell’opinione che “oggi - dinnanzi alla necessità di una globalizzazione del confronto discorsivo a riguardo del rapporto tra morale e giustizia, etica della vita buona entro una data cultura e ordinamento politico-giuridico, della società - il compito sia quello di cogliere fino in fondo a riguardo di questi temi, l’opportunità per una discussione sui fondamenti, filosoficamente distanziata e radicalmente riflessiva”100. Non si può, in altri termini, contare sull’ovvietà della democrazia, ma bisogna interrogarsi riflessivamente sulla sua fondatezza. Si tratta della “collaborazione per l’instaurazione delle condizioni istituzionali, indispensabili all’esercizio, allargato all’intero pianeta, di quella morale discorsiva rappresentata dalle norme puramente deontologiche e procedurali dell’etica del discorso; e quindi si tratta, tra l’altro, di assicurare i presupposti, dati nello Stato di diritto, per l’apertura di quello spazio indispensabile alla pratica della morale razionale in quanto morale discorsiva” 101. L’etica del discorso applicata al diritto appare così il tentativo di ricomporre quello strappo tra diritto e morale attraverso l’esercizio di una

98 In altri termini, non ci si può porre in una posizione esterna alle regole del gioco linguistico trascendentale della comunità della comunicazione senza cadere in quel solipsismo metodico della gnoseologia moderna, dove l’Io già presuppone la comunità della comunicazione e si pone in essa con una pretesa autofondativa. Tuttavia è anche vero che il soggetto non può vedersi negata la scelta consapevole e razionale della comunità della comunicazione, poiché diversamente si troverebbe non più giocatore del gioco linguistico trascendentale ma giocato da esso. 99 Cfr. K. O. APEL, Discorso, verità, responsabilità, cit., pp. 346-348. 100 Ivi, p. 349. 101 Ivi, pp. 288-289.

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ragione discorsiva pubblica, che riconosca il diritto in quanto istituzionalizzazione di una relazione di riconoscimento mediata da un giudizio imparziale e universalizzabile. Ciò conduce a pensare che si abbia soluzione razionale dei conflitti argomentativamente e processualmente, grazie alla riconduzione delle controversie a un discorso pubblico, sensibile alla concretezza degli interessi in gioco, ma al tempo stesso ancorato a principi etici inviolabili. Ecco allora che il giudizio che risolve la controversia appare giustificato fin quando dichiara la legittimità solo di quelle pretese che, in linea di principio, potrebbero venire accolte dopo un confronto dialogico argomentativo, orientato a contemplare e tutelare i diritti di ogni possibile essere umano.

e) Gli effetti del Linguistic Turn nello studio del diritto.

La speculare corrispondenza tra linguaggio e mondo ad opera del neopositivismo aveva dissolto la comunicazione intersoggettiva nel risolvere la logica del linguaggio a sistema di calcolo. In tal modo il rapporto soggetto-linguaggio-mondo si riduce ad una dualità soggetto-oggetto a cui risulta estranea l’esigenza di un’intesa comunicativa finalizzata alla costituzione di senso. L’accentuazione del carattere fortemente intersoggettivo del linguaggio per effetto della svolta linguistica in filosofia rinvia anche ad una diversa considerazione del rapporto tra soggetto conoscente e oggetto conosciuto, e dunque tra soggetto e norma: la relazione soggetto-oggetto acquista di per sé una rilevanza non solo gnoseologica e metaepistemologica, ma anche sociale e politica oltre che giuridica. Se consideriamo che i presupposti per l’universalizzazione dei processi conoscitivi, e dunque della verità, si danno nel medio linguistico come “mezzo universale in cui si attua la comprensione stessa”102, in questo senso Gadamer ci lascia capire che i problemi del linguaggio sono già problemi della comprensione, e viene anche a ribadire quel “carattere enigmatico”, ma inestricabile, del nesso tra pensiero e linguaggio a cui è

102 H. G. GADAMER, Verità e metodo, cit., p. 447.

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rivolto il metodo “terapeutico” dell’analisi linguistica nella filosofia analitica. Nonostante la diversa considerazione di fondo del linguaggio, il confronto, e come vedremo per alcuni versi anche l’incontro, tra la filosofia analitica e l’ermeneutica sulla valenza pragmatico-intersoggettiva della struttura linguistica apporta, nello studio del diritto, importanti revisioni nel modo di intendere non solo il giuridico, ma l’intero asse rapportuale soggetto, norma e mondo dell’azione. Innanzitutto si può osservare che dalla crisi della soggettività post-moderna, che non può più trovare in se stessa il senso ultimo del mondo e del pensiero, si viene a porre nel linguaggio quel carattere di trascendentalità che prima competeva al soggetto. Nel linguaggio, dunque, il mondo perviene alla coscienza del soggetto e alla sua dimensione intersoggettiva. Entro questo nuovo orizzonte linguistico ha sede e senso la comprensione e la partecipazione al mondo come contesto vitale. E dunque le questioni inerenti il problema del senso e della verità delle proposizioni vanno affrontate, sia in sede di riflessione analitica che ermeneutica, senza poter aggirare il medium linguistico, nel contesto di un’interazione linguistica che si struttura come tessitura di un reticolo comunicativo o discorsivo di regole pragmatiche. In questa riformulazione linguistica del modo sociale di entrare in relazione, l’identità individuale non è già precostituita e autosufficiente, ma si costituisce e riceve attestazione continua e dinamica dall’incontro con l’alterità, che è un incontarsi linguistico; così come il linguaggio stesso non è un mezzo oggettivante e predefinito, ma un costrutto relazionale che si alimenta e si modifica nei modi dell’agire comunicativo dei soggetti, luogo dell’intendersi come anche del fraintendersi. La lezione di Wittgenstein, che insiste sulla compenetrazione tra linguaggi e forme di vita, sposta l’attenzione più che sul concetto di regole come oggetti mentalistici che guidino l’azione, secondo una concezione rappresentata efficacemente dalle teorie normativiste, sull’opportunità di studiare quei comportamenti linguistico-interpretativi che costituiscono il “seguire una regola”: “Anche quando creiamo regole lo facciamo secondo regole”103 e questo significa che un’azione non si riduce ad essere orientata ad uno scopo avulso da un piano di inter-azione, ma è contestualizzata in un insieme di regole di comportamento, interagenti fra loro, entro cui si situa già l’intenzionalità. Ogni esperienza umana, infatti, in quanto costitutivamente esperienza di linguaggio, si costituisce a livello di intersoggettività pratica, ma non intesa come attività di un “insieme irrelato di soggetti - il che significherebbe riproporre il vizio del paradigma soggettivistico - quanto come il prodotto

103 F. VIOLA , Il diritto come pratica sociale, Jaca Book, Milano, 1990, p. 157.

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del processo dialogico e comunicativo che costituisce i soggetti e fornisce loro identità e individualita”104. L’apertura prospettata dai giochi linguistici trova, in un certo senso, corrispondenze indirette nella tendenza della filosofia ermeneutica a partire dalle concrete istanze di discorso come sede appropriata della pienezza di senso, abbandonando, anche in questo caso, ogni concezione mentalistica della norma e osservando il linguaggio giuridico come una delle pratiche interpretative che si identificano “nel seguire regole”. Così, la configurazione delle regole giuridiche rimanda al coordinamento di piani d’azione che, pur attraverso azioni individuali specifiche, non possono raggiungere lo scopo se non visti e compresi nell’intreccio relazionale di inter-azioni comuni: il diritto “non è solo regola, non è solo azione, ma è un impresa cooperativa strutturata da finalità immanenti” e in questo sta il suo carattere istituzionale105. Quindi, tenendo ferme le rispettive differenze, la comune convinzione che vi è piena compenetrazione tra linguaggio e mondo, conduce alla fondamentale convergenza, tra filosofia analitica ed ermeneutica, sul fatto che l’orizzonte linguistico è un mondo linguisticamente strutturato, entro cui i soggetti non solo comunicano, ma, comunicando, vivono e si riconoscono intersoggettivamente fondati. Il linguaggio è il luogo dell’articolazione del mondo della vita sociale ed è incorporato nelle azioni, per questo il superamento della referenzialità del linguaggio, cioè della sua corrispondenza con il mondo delle cose, implica che il linguaggio stesso diventi espressione del mondo della convivenza, del conflitto e dell’interazione106. Sul piano del diritto, la crisi della proposizione in seno a quelle che possiamo anche chiamare teorie semantiche107 aveva condotto ad una revisione profonda dell’approccio alla norma giuridica e del modo di ricercare i criteri di validità del diritto. Se prima nel modello empirico neopositivistico l’asse portante era proposizione-referenza-verità, ora esso diventa discorso-relazione dialogica-verità argomentativa108. 104 G. ZACCARIA, Tra ermeneutica e analitica, in M. JORI (a cura di), op. cit., p. 114. 105 Cfr. F. VIOLA , G. ZACCARIA, Diritto e interpretazione, Laterza, Roma-Bari, 1999, p. 9. 106 F. VIOLA, Critica dell’ermeneutica alla filosofia analitica italiana del diritto, in M. JORI, op. cit., p. 77. 107 “Le teorie semantiche del diritto - scrive Viola - sono rivolte ad identificare i criteri di validità del diritto, cioè la definizione del diritto e le condizioni di verità delle proposizioni giuridiche. Le teorie positivistiche tradizionali da Austin a Kelsen sono di questa specie e differiscono tra loro nell’individuazione dei fatti storici decisivi per la validità”. Se dunque nella teoria semantica il diritto è un “oggetto”, l’approccio interpretativo “considera il diritto non già come ‘cosa’ da osservare dall’esterno, ma come attività che nel suo conoscersi si va svolgendo e attuando” (F. VIOLA , Il diritto come pratica sociale, cit., p. 158). 108 Va anche però precisato che la rinuncia alla referenzialità epistemologica non significa affatto il rifiuto di ogni referenza del linguaggio giuridico. Né significa una rinuncia alla conoscenza scientifica, come già si è detto, ma al contrario si pone a difesa di quella

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Appare pertanto ora più appropriato assumere il discorso come unità linguistica dell’analisi giuridica, poiché esso è quella situazionalità storico- dialogica del linguaggio in cui si attua la comprensione e l’intendersi. All’interno di questa situazione discorsiva, che è prima di tutto un evento, deve cercarsi il controllo razionale dell’interpretazione giuridica. Così nell’evento del discorso la stessa attività conoscitiva diventa parte integrale del mondo dell’esperienza e non si separa da esso. Se infatti le teorie semantiche hanno come obiettivo l’individuazione preliminare di ciò su cui deve esercitarsi l’interpretazione giuridica, per farne ciò che c’è di certo e di stabile nel diritto, le teorie interpretative, invece, non partono da oggetti prestabiliti, ma considerano il diritto come una prassi interpretativa, all’interno della quale prendono corpo le consolidazioni giuridiche. Le teorie semantiche, perciò, si preoccupano di definire e delimitare il campo della giuridicità, al cui interno devono esercitarsi l’interpretazione giuridica, e la giuridicità si ritiene che risieda in ben individuati settori dell’esperienza, siano essi fatti, norme, comportamenti o valori morali109. Infatti la concezione oggettualistica dell’interpretazione semantica del diritto ci presenta quest’ ultimo come una realtà già costituita, e in certo qual modo compiuta, prima ancora dell’intervento dell’interprete. Dal canto suo la filosofia ermeneutica, che offre alle teorie dell’interpretazione giuridica strumenti di risoluzione per le questioni lasciate irrisolte dalla tradizione analitica, ma che anche dialoga con esse, insiste sulla considerazione del processo creativo che si instaura tra soggetto interpretante e oggetto da interpretare: non vi è statica polarità o cesura tra i due momenti della circolarità ermeneutica, ma appartenenza allo stesso orizzonte di senso. Secondo l’approccio ermeneutico, dunque, l’atto interpretativo di singole espressioni linguistiche presuppone già costituito il linguaggio dell’interazione, e si muove dentro un mondo già segnato dalla reciprocità e dalla cooperazione, oltre che da un senso intersoggettivo contestuale, che in qualche modo guida l’interprete e costituisce un vincolo nell’opera di iscrizione dei significati. In quest’ottica la “forza illocutiva degli atti

conoscenza scientifica che è propria della vita pratica. Tuttavia, è altresì rischioso pensare che l’alternativa alle teorie semantiche per il diritto stia nella scelta di un approccio squisitamente pragmatico. Come osserva Rosenfeld, gli stessi studi di un neopragmatista come Rorty passano dal rifiuto del primato della scienza empirica e del ricorso all’analisi preposizionale, secondo l’ispirazione tipicamente antifondazionalista, ad una sorta di fondazionalismo rovesciato. Proprio l’atteggiamento pragmatico-antifondazionalista diventa “paralizzante” e irrisolvente ai fini dei problemi aperti in seno all’interpretazione giuridica e ai rapporti tra politica e diritto: “la frattura tra giustizia secondo il diritto e giustizia oltre il diritto non può essere superata tramite un semplice rifiuto dei fondamenti, o tramite un’ esclusiva attenzione ai mezzi a scapito dei fini” (M. ROSENFELD, Interpretazioni, tr. it., Il Mulino, Bologna, 2000, p. 318). 109 F. VIOLA , Il dirtto come pratica sociale, cit., pp. 12-13.

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linguistici diviene il tema principale della comunicazione al posto del contenuto proposizionale”110 e la verità non è più ciò che sta dinanzi al soggetto conoscente e chiede il suo consenso. Le teorie degli atti linguistici, infatti, marcando il carattere d’azione degli atti di linguaggio, ci ricordano che gli enunciati linguistici delle norme giuridiche non costituiscono una realtà completa e indipendente, ma sono indissociabili dai contesti di azione implicati111. Proprio per questo in campo giuridico il principio ermeneutico per cui il testo e l’interprete si producono reciprocamente porta a ricercare il significato normativo all’interno di un contesto. Ciò significa anche che il significato della proposizione può essere colto non a livello atomistico, bensì sul piano olistico del suo collegamento con l’insieme degli enunciati linguistici. E le condizione di conoscenza dell’agente non sono soltanto dipendenti dalla sua soggettività, ma anche dal suo essere impegnato nel mondo. Insomma le nostre configurazioni del mondo sono derivate da forme di vita che abbiamo in comune con gli altri: all’atomismo epistemologico ed etico si sostituisce la comunità come luogo primario dell’identità storica degli individui. Infatti, la necessaria e insopprimibile distanza tra l’universalità della norma e la particolarità di ogni caso concreto, rende indispensabile un’opera inesauribile di integrazione produttiva del diritto. Perciò l’interpretazione giuridica ermeneutica parte dal riconoscimento che la norma astratta rivela una sua struttura necessariamente incompleta, completabile solo col procedimento ermeneutico di concretizzazione della norma giuridica all’interno della decisione di un caso concreto. Il processo di comprensione del diritto non può fermarsi, quindi, al solo piano del linguaggio legislativo, come sequenza radicalmente empirica di segni, senza continuamente integrare l’atto linguistico-legislativo con l’uso che di tale linguaggio è effettuato nel processo di comprensione del diritto da parte dell’interprete. Il rinnovato interesse per il linguaggio assume pertanto un ruolo decisivo, sia perché l’interpretazione giuridica richiede l’adeguata comprensione di un nesso linguistico che parte dal giuridico, sia perché la decisione deve essere adeguatamente motivata tramite il medium linguistico nei riguardi dell’ambiente circostante. L’esigenza del controllo sociale e della regolamentazione dei conflitti deve poter offrire parametri di verità incontrovertibili per l’opera interpretativa del giurista, al fine di sottrarre il campo del diritto all’arbitrio e all’incertezza. Risulta, pertanto, determinante l’attenzione posta dall’interpretazione giuridica sull’aspetto collaborativo del rapporto che si stringe tra tutti quelli impegnati nel contesto applicativo delle norme, e la

110 F. VIOLA, Critica dell’ermeneutica alla filosofia analitica italiana del diritto, in M. JORI, Ermeneutica e filosofia analitica. Due concezioni del diritto a confronto, cit., p. 89. 111 Cfr. G. ZACCARIA, Tra ermeneutica ed analitica, cit., p. 141.

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considerazione del testo giuridico legislativo utilizzando l’apporto della filosofia ermeneutica, mai autonomo e pre-contestuale. Se per un verso, infatti, nessun processo interpretativo esclude momenti di decisione, per l’altro nessuna decisione è nell’interpretazione giuridica mero decisionismo, ma una scelta che si viene compiendo dentro un processo circolare di comprensione e interpretazione. Sembra così respinto il modo di concepire tecnicisticamente il diritto come “dato finito”, e di intendere l’applicazione come il riprodurre, in tutti i casi sussumibili sotto una determinata norma, un significato già compiutamente dato una volta per tutte. “Il modello di tipo imperativistico e coattivo di un diritto, la cui funzione è sempre e solo quella di guidare unidirezionalmente la condotta, di costringere a fare - cui simmetricamente corrisponde un atteggiamento di passiva obbedienza da parte di organi giurisdizionali e privati cittadini - oltre ad essere ingenuo, non rende conto della configurazione attuale del fenomeno giuridico che, nei contesti occidentali di Welfare State, si caratterizza sempre più per funzioni di tipo promozionale e per un’inarrestabile – anche se non sempre positiva – tendenza ad una crescente consensualizzazione. Appare perciò ben più aderente alla realtà attuale il qualificarlo come discorso, come gioco comunicativo e linguistico complesso che comporta l’interazione di una serie differenziata di soggetti” 112. Tuttavia sorge il dubbio se la categoria della discorsività consenta di fondare il diritto sulle istanze ermeneutiche di un ordine relazionale non solo del conoscere, ma del riconoscersi dei soggetti impegnati nel vincolo intersoggettivo. E’ plausibile ripensare il diritto strutturato come discorso113? Ed in questo caso, è possibile rintracciare un avvicinamento con la proposta di Viola del diritto inteso come pratica sociale, dal momento che l’attività discorsiva è intesa dall’ermeneutica come azione linguistica intersoggettiva che apre il mondo come orizzonte di senso dell’intesa e dell’accordo? Se pensiamo al diritto come pratica sociale, sembra di capire che la proposta di Viola allude ad un controllo veritativo della pratica giuridica, che scaturisce dalla considerazione di significati intersoggettivi contestuali nel momento in cui entriamo a far parte della pratica sociale come mondo comune d’azione. L’idea che ne scaturisce del diritto come “linguaggio dell’interazione”114, fa pensare proprio ad una considerazione del diritto di

112 G. ZACCARIA, Tra Ermeneutica ed analitica, in M. JORI, (a cura di), cit, p. 142. Sul problema della premialità del diritto, si veda S. ARMELLINI , Le due mani della giustizia, Giappichelli, Torino, 1996. 113 Cfr. B. ROMANO, Il diritto strutturato come il discorso, cit. 114 Espressione adottata da Viola che la riprende da L. L. FULLER, Human Interaction and Law, in The Principles of Social Order, ed. by K. I. Winston, Duke U. P., Durham, N. C., 1981, p. 212.

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ampio respiro, che intende porsi come modo relazionale per la partecipazione ad un lavoro comune di intesa e cooperazione. Tuttavia si pone il problema di come considerare il concetto di validità e di verità all’interno del diritto inteso come pratica sociale, e se si possa ancora parlare di validità, giacché è caratteristica di una pratica sociale cercare al suo interno la propria referenza. Ma affermare che la pratica giuridica è il referente del discorso giuridico non rischia di far cadere in una anti-referenzialità che perde di vista la realtà come dato storico, come certezza? Abbiamo detto, infatti, che all’interno della pratica giuridica la scienza rappresenta il momento della consapevolezza, cioè della presa di coscienza delle condizioni di intenzionalità che consistono nelle precomprensioni, nelle presupposizioni, e nelle finalità della pratica stessa. Di conseguenza, appartiene anche alla scienza giuridica il compito di controllare i processi argomentativi interni che costituiscono la vita stessa della pratica. Tutto ciò che nell’ambito ermeneutico si riassume sotto la cifra centrale del concetto di pre-comprensione, acquista rilievo epistemologico in quel tessuto di apprendimento pre-scientifico, in quel legame di ritorno tra la scienza e la vita che precede e condiziona lo spiegare proprio della conoscenza scientifica. Se dunque tener conto del diritto come pratica deve indurre a non considerare più il rapporto tra soggetto e oggetto nei termini di un “faccia a faccia”, e che “il problema della verità di una pratica richiede l’assunzione di un punto di vista interno”115, crediamo però che si debba parlare di pratica sociale sempre nell’interazione con il livello legislativo giurisprudenziale. Altrimenti pare legittimo il pericolo di quello scollamento che vede, da un lato un diritto avvertito come prassi discorsiva ed intersoggettiva, in cui la storicità dell’interpretazione è mutevole nel tempo e nel fondersi degli orizzonti; e dall’altro un rapporto tra soggetto e norma incagliato nel relativismo, nella perdita della positività come oggettività, come prassi vincolata da regole già precostituite ma universali. La stessa ricerca del senso dell’agire umano, e quindi del suo interagire, si fonda sul riferimento a regole di orientamento dell’azione. Se l’implicazione intersoggettiva comunicativa della svolta linguistica analitica aveva scongiurato la chiusura al soggettivismo ( la prassi non è individuale ma è linguaggio come prodotto dell’agire comunicativo), in questa prospettiva il profilo di soggetto-interprete e dell’oggetto-interpretandum come rapporto intersoggettivo io-altri corre qualche rischio. Se l’ermeneutica giuridica crede nella possibilità della comunicazione discorsiva di liberare dalla prassi assoggettante, ossia dal controllo della comunicazione, così come l’ermeneutica in politica vuole porsi come emancipazione da ogni forma di domino, il diritto, inteso come prassi

115 F. VIOLA , Il diritto come pratica sociale, cit., p. 168.

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sociale e forma comunicativa, ha però anche bisogno della sua rappresentazione formale, la cui applicazione dipende dal soggetto interpretante che, ermeneuticamente, è sempre situato in una determinazione storica, dove il pericolo dell’arbitrio del decisionismo interpretativo è sempre presente. L’antidoto forse torna ad essere la collocazione di ogni processo interpretativo nella circolarità del comprendere, una circolarità dialogica entro cui può attuarsi il controllo sulla libera, ma a volte anche troppo creativa, attività del soggetto interpretante. In ogni caso, la verità a cui tendere è una verità discorsiva, ma mai rescissa da un obbligo contestuale. Se infatti è giusto chiedersi come si inserisca la regola nel movimento di costituzione della soggettività e dell’eterosoggettività nel diritto come discorso, è altresì vero che agire comunicativo e mondo si con-costituiscono attorno e attraverso la regolamentazione del vivere coesistenziale. La regola comune, quindi, come forma ed esito di un cammino coesistenziale, non cade mai fuori del movimento relazionale, ma plasma il mondo rapportuale offrendo agli stessi soggetti che l’hanno posta un vincolo transitivo, che diventa unica garanzia di sottrarsi ad una libertà asimmetrica e al prevalere della forza. L’ermeneutica ha offerto spunti preziosi in tal senso, nel costituirsi del linguaggio come medio strutturale della relazione. Qui l’analisi della mediazione della parola, come medio del riconoscimento tra soggetti, converge e si integra con l’analisi della regola come cardine del rapporto intersoggettivo. In altri termini, nel concreto mondo comune, nell’orizzonte del coesistere, i parlanti si riconoscono in quanto soggetti le cui pretese chiedono la garanzia transitiva offerta dalla regola comune e terza, la cui istituzione positiva li costituisce in rapporto giuridico. Strettissimo dunque si rivela il rapporto tra struttura del discorso, relazionalità e diritto, in cui quel logos riflessivo del discorso cui allude Apel, come garanzia di universalità e reciprocità disassoggettante, è un logos-linguaggio che è libertà della ragione nel sottrarsi ad ogni forma di razionalismo o di irrazionalismo, per tendere piuttosto a quella ragionevolezza dell’interpretazione e del comprendere: forse così possono tornare a saldarsi le ragioni del diritto con le ragioni della politica?

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f) Per una rifondazione etica della comunicazione. Sbocchi e aporie. Questa nostra epoca che vede attuarsi le svolte linguistiche in filosofia e aprirsi nuove sfide all’indagine filosofica attraverso e sulle nuove forme di linguaggio, è anche l’orizzonte entro cui si verifica quella che possiamo definire una svolta etica116 pur nel contesto di un’era post-deontica117. Nella frammentazione dei paradigmi tradizionali, dei linguaggi e delle porzioni mondo che ne discendono, si fa strada lo sforzo di una nuova riflessione sulle condizioni di rifondazione etica della prassi, che si presenta anche con i tratti di un’etica del discorso e dell’argomentazione118. Questo movimento di “riabilitazione della filosofia pratica”, sottende il rifiuto di una considerazione della razionalità solo in termini scientifico-strumentali e si propone di superare anche gli effetti del divisionismo etico-politico del Novecento, il quale sancisce quella separazione tra fatto e valore espressa nella famosa legge di Hume ad opera di G. E. Moore, che trova in Weber uno dei teorizzatori più significativi del carattere di avalutatività delle scienze sociali e nel positivismo giuridico di Kelsen una delle voci più incisive riguardo ad una concezione del diritto reale ed empirico, come sistema gerarchico di norme che non va sottoposto a processi di giustificazione valutativa119. 116Per un panorama sulle diverse posizioni, cfr. AA.VV., Etiche in dialogo, Marietti, Genova, 1990. Sul concetto di etica della responsabilità si veda H. JONAS, Il principio di responsabilità. Un’etica per la società tecnologica, tr. it., Einaudi, Torino, 1990. In quest’opera si afferma l’urgenza per l’umanità di una rifondazione dell’etica in chiave ontologica, che ponga la coscienza politica dinnanzi alla prospettiva distruttiva degli effetti dell’arbitrio tecnologico sulla natura. L’appello ad un’ “etica della responsabilità” allude dunque all’impegno inalienabile di una co-rresponsabilità collettiva, e dunque politica, per una ricomposizione dell’azione dell’uomo con il senso ultimo ed il valore della vita in ogni sua forma ed espressione. 117 Nell’alveo di una razionalità autoconfutativa, che si identifica con il paradigma delle scienze naturali nell’affermarsi della conoscenza di tipo empirico-analitico, il problema del valore assiologico e teleologico dell’agire umano viene ad espungere la possibilità di una sua indagabilità razionale. Ma se il post-moderno si caratterizza come epoca della fine dell’etica, cioè l’epoca del post-deontico, questo non significa, secondo Bauman, che le possibilità di rendere morale la vita sociale siano venute meno; si tratta piuttosto di sganciarsi dal modo tipicamente moderno di considerare la fondazione etica del mondo della prassi. (Cfr. Z. BAUMAN , Le sfide dell’etica, cit., pp. 8-10). 118 Cfr. S. PETRUCCIANI, Etica dell’argomentazione, Marietti, Genova, 1988; cfr. anche F. VOLPI, Il problema della fondazione razionale dell’etica nell’età della scienza, in “Verifiche”, 112, 1983. 119 In questa direzione un apporto fondamentale, come rileva giustamente Pieretti, è stato quello proveniente dagli studi della cosiddetta metaetica analitica “che identificava il proprio compito con la descrizione avalutativa delle regole logiche del cosiddetto ‘discorso morale’ ”. Essa, tuttavia, “oltre a non cogliere l’autentica natura del problema morale e lo specifico significato che esso ha per l’esistenza umana, si lascia anche sfuggire la complessa articolazione secondo cui di fatto si struttura. Si preclude dunque anche la possibilità di individuare gli atti intenzionali, le decisioni che ne sono alla base e che lo

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L’opera di trasformazione semiotica del kantismo di Apel ed Habermas, o il ritorno alla distinzione aristotelica tra praxis e poiesis, che troviamo nel pensiero della Arendt come premessa per affrontare il controverso rapporto tra azione e discorso120, sono tutti tentativi di una rifondazione dei principi dell’agire comunicativo. E confluiscono nel ripensamento della politica come lo spazio in cui si possono, e dunque si devono, fissare consensualmente, nella normatività dell’agire intersoggettivo e nella dimensione politico-relazionale della discorsività, le finalità non meramente contingenti dell’interagire sociale, e poter quindi costruire le condizioni di liberazione da ogni forma di violenza sul pensiero e sull’azione attraverso le strutture di linguaggio121. Del resto “per comprendere la vera natura della morale, bisogna porsi sul terreno delle forme concrete in cui si manifesta. Solo prendendo in considerazione l’esperienza effettiva dell’uomo nella sua visione e complessa articolazione infatti è possibile individuarne l’identità. Per questo indirizzo, negli sviluppi più recenti della riflessione sullo statuto morale, si è diffusa la tendenza a prendere in esame l’aspetto intenzionale dell’attività pratica dell’uomo e i suoi riflessi nel contesto dei rapporti intersoggettivi”122. Riflettere sul rapporto tra società tecnologica ed etica mette però, come scrive Apel, dinnanzi ad una “situazione paradossale”. Da una parte avvertiamo infatti il bisogno di tornare ad un’etica universale che abbia

motivano, in quanto costituiscono la condizione trascendentale del suo concreto manifestarsi” (A. PIERETTI, Etica della persuasione e etica della testimonianza, in AA.VV. La filosofia del dialogo, cit., p. 58). 120 Il rapporto tra azione e discorso nella Arendt consente di cogliere, a nostro avviso, l’opportunità di ritrovare un senso rivelativo della relazione umana che possa sottrarsi al dominio della reificazione e dell’isolamento. Queste sono forme che deprivano il soggetto della facoltà di agire nella linguisticità del suo essere, cioè di agire politicamente. Sia l’ azione che il discorso, - ma potremmo anche dire l’azione come discorso e il discorso come azione,- stabiliscono relazioni. E tutto ciò che depriva l’azione della sua transitività è una “degradazione della politica a mezzo per qualcos’altro” (H. ARENDT, Vita activa, cit., p. 244). 121 Il contributo apeliano alla svolta etica ci offre la riflessione sulla possibilità di fissare principi etici dell’agire comunicativo come apriori etico-teorici della comunicazione stessa. Per Habermas l’individuazione di una “situazione discorsiva ideale” dovrebbe consentire di garantire quelle pretese di validità universale del comunicare, che egli, come abbiamo già detto, riassume in comprensibilità, verità, veridicità, e correttezza. In H. Arendt è proprio l’analisi della correlazione tra azione e discorso che riporta in primo piano il significato di vita activa , come un’esistenza che ha la consapevolezza di non poter rinunciare al discorso e all’azione, poiché con esse “ci inseriamo nel mondo umano, e questa inserzione è come una seconda nascita in cui confermiamo e ci sobbarchiamo la nuda realtà della nostra apparenza fisica originale” (ivi, p. 187). Ed è quindi l’unica realtà che consente all’uomo di esprimere la libertà del suo creare il mondo della vita, più che dominarlo tecnologicamente. 122 A. PIERETTI, Etica della persuasione e etica della testimonianza, cit., p. 59.

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carattere vincolante per la società umana, dall’altro mai come in questo momento epocale tale compito sembra più arduo e persino inattuale123. Tuttavia l’impegno apeliano di cercare le pre-condizioni di legittimità della comunità della comunicazione tratteggia un’etica come “meta-istituzione trascendentale” nel suo essere costituita dalla “primigenia comunità discorsiva dell’umanità”: è questa in fondo un’etica della “ragione responsabile”, che vuole condurre ad una formazione di coscienza “procedural-democratica” a livello giuridico-politico nello spirito dell’etica del discorso124. Ci si muove dunque verso una definizione di “responsabilità nella reciprocità” che presuppone che gli uomini si riconoscano però come “inter-soggetti”125. Si tratta però di capire, nella ricerca di giustificazione di tale progetto etico-discorsivo, dove e quali siano le garanzie dell’intesa comunicativa, e se possano essere individuate a priori senza ricadere in un gioco metacomunicativo che rinvii all’infinito a se stesso; inoltre se in tale progetto non si insinui aporeticamente una incapacità di riconoscere le ragioni fondanti del senso relazionale dell’esistere nella “comunità della comunicazione”. In altri termini, viene da chiedersi come sia possibile fondare una “primigenia e trascendentale co-rresponsabilità di tutti gli uomini per l’ambito storico dell’interazione sociale”126 affidandosi interamente ad un logos argomentativo, che viene a porsi come unico elemento fondante la comunicazione stessa. Il principio del discorso argomentativo si presenta come quell’apriori normativo della “primigenia solidarietà di tutti i possibili partner del discorso”, la quale riassume il contenuto ed il senso eticamente normativo del principio del discorso stesso: bisogna vedere se la cooperazione, mirante all’intesa e al riconoscimento di una pari dignità dei parlanti e delle rispettive pretese in campo, sia giustificata solo in virtù della trascendentalità della comunità illimitata della comunicazione. Ed in tal caso non si può non notare che pare sfuggire ad Apel una adeguata tematizzazione della stessa trascendentalità relazionale del comunicare e del senso relazionale dell’identità comunitaria dei soggetti. Quale profilo antropologico sottende questa assunzione della razionalità discorsiva come accesso alla verità e al senso del comunicare?

123Cfr. K. O. APEL, Comunità e comunicazione, cit., pp. 205-206. Questo ci ricorda, come scrive Bauman, che nonostante la caduta di eticità del nostro tempo, dobbiamo considerare quanto “la responsabilità morale - essere per l’Altro prima di poter essere con l’Altro - sia la prima realtà dell’io, un punto di partenza piuttosto che un prodotto della società” (Z. BAUMAN , Le sfide dell’etica, cit., p. 20). 124 Cfr. K. O. APEL, Discorso, verità, responsabilità, cit., pp. 335-336. 125 Ivi, p. 340. 126 Ivi, p. 341.

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Il valore etico della comunicazione, connesso al riconoscimento di un ideale normativo della pratica intersoggettiva, non è soprattutto possibilità di realizzare, per ogni soggetto implicato nel comunicare, una apertura all’alterità che si muove già sempre nell’ascolto di se stessi per essere ascolto dell’altro? Questa dimensione relazionale della parola sembra non prendere corpo nell’ambito della prospettiva etica del discorso apeliana, e nemmeno in quella di Habermas. Se l’intersoggettività “non può limitarsi a coordinare le libertà individuali, ma si estende anche ai progetti di vita”, e per questo “senza intersoggettività non sarà possibile né la formazione consapevole delle proprie scelte, né quella cooperazione sociale che è necessaria”127, bisogna però interrogarsi su come si arriva di fatto al valore intersoggettivo del vivere. L’impronta pragmatica impressa dalla svolta analitica incide certo fecondamente sul tentativo di ripensare la coesistenza umana attraverso la validità di un paradigma linguistico-intersoggettivo, le cui regole linguistiche impegnano nel mutuo riconoscimento di una normatività universale. Tuttavia, il senso linguistico coesistenziale sembra rimanere opacizzato, e con esso il senso dia-logico delle garanzie giuridiche del venire alla parola attraverso l’esser parola128. Nell’intento, certo pregevole, di dettare le pre-condizioni per una modalità di vita sociale e politica che si sottragga al dominio dell’individualismo e dell’arbitrio reificante della parola-merce, e nel ricondurre l’identità linguistico-intersoggettiva dei soggetti nell’esercizio di un gioco argomentativo comunitario, le cui regole di vita sono riconosciute come garanzie di una pari dignità e titolarità di diritti della persona, l’etica del discorso presenta, tuttavia, tratti aporetici. L’intento di realizzare una liberazione dei parlanti dalle tirannie del linguaggio non può non interrogarci sul costituirsi di quale libertà per il soggetto. Crediamo che lo scopo sia quello di sostituire, come osserva Romano, alla causalità di una comunicazione infra-sistemica, la libertà di parlanti che si pongono nella reciprocità del “chiamare-sollecitare e del rispondere-formare”129. Ma in questo caso non si può omettere di qualificare appunto l’alterità , - e, attraverso di essa, la soggettività dei

127 F. VIOLA , Il diritto come pratica sociale, cit., p. 187. 128 Come osserva giustamente Punzi, “Il dialogo non è mai solo tramite per confermare la validità delle norme pragmaticamente implicate nella comunicazione, ma dimensione che coinvolge ciascun soggetto nella sua totalità,dialogica di apertura ala parola dell’altro ed esercizio di risposta ove ciascun parlante mette in gioco se stesso e la propria autocomprensione, avanzando non solo una pretesa di validità relativa agli argomenti, ma una più radicale domanda di riconoscimento, di accoglienza integrale del sé nell’ unità/differenza rispetto agli altri” (A. PUNZI, op. cit., p. 315). 129 B. ROMANO, La legge del testo. Coalescenza di nomos e logos, Giappichelli, Torino, 1999, p. 137.

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parlanti -: come Esso o come Tu? Come altro che mi costituisce e mi apre al mondo in quanto condiviso e presentato nella relazione, o come causalità del rapportarsi ad un altro polo relazionale, verso cui si dà solo la ripetizione circolare di interazioni procedurali130? Le regole del gioco argomentativo apeliano, che in fondo vengono a porsi nel senso della terzietà che caratterizza ogni struttura relazionale, non incidono sulla qualificazione della relazione stessa, e profilano quasi la trascendentalità di un riconoscimento solo formale della regolamentazione discorsiva, senza “precisare perché e a quali condizioni la fondazione discorsiva delle norme possa essere considerata morale”. Conseguentemente, sembra legittima la domanda se la filosofia giuridica apeliana non sia forse pregiudicata all’origine da un’interpretazione riduzionistica del discorso umano131. E i rischi del riduzionismo comunicativo possono essere intesi oggi in un senso ampio come dominio linguistico: nell’impedimento del dischiudere lo spazio della presenza dell’altro (presenza intesa come accoglienza del suo esser-ci nel mio mondo), nel non riconoscere il suo eccedere ogni captazione strumentale ed il suo sottrarsi ad ogni presa fattuale dell’atto di linguaggio, nell’annullare la dialettica inter-umana di domanda-risposta. L’incontro dei linguaggi corre quindi il rischio di soggiacere al medio strumentale, delegando al puro “mezzo” il dischiudere del significato. In questo modo la parola non è più medio della relazione, ma come dice Buber, ostacolo relazionale132. E, inevitabilmente, “produrre l’assoggettamento dell’altro è prodursi lo svuotamento della propria soggettività; negare all’altro il diritto primo è negarlo a se stesso”133. Pertanto, i problemi sollevati dall’emergere di un’istanza di ricostituzione etica del discorso nel nostro tempo, impongono di spingere questa ricerca di senso alla radice di ciò che chiamiamo, sotto varie accezioni, comunicazione. E’ stato questo il perno concettuale attorno al quale abbiamo cercato di far ruotare l’intero percorso di questo lavoro, provando a forzare la logica tecno-economica dei processi di linguaggio, per indicare la forza coercitiva e ideologica della parola che si svincola dal parlante, cioè

130 Ciò non significa che una dimensione debba annullare l’altra, poiché non è pensabile eliminare la qualificazione dell’alterità come Esso dalla concretezza dell’agire fattuale, cioè quei contesti d’azione quotidiani in cui sono inevitabili quelle procedure che “richiedono una condotta da assumere e da svolgere secondo modelli e schemi già dati e solo da ripetere, com’è il caso di molti adempimenti amministrativi” (ivi, p. 134). 131 Nell’ambito del giuridico si viene a delineare una polarità di modelli: “un diritto fondato sull’intersoggettività” e un “diritto ridotto a procedura discorsiva” (A. PUNZI, op. cit., p. 303). 132 Cfr. M. BUBER, Il principio dialogico e altri saggi, tr. it., Ed. di Comunità, Milano,1958, p. 60 133 B. ROMANO, La legge del testo, cit., p. 88. Si veda dello stesso autore, Assoggettamento, diritto e condizione logotecnica, Bulzoni, Roma, 1992.

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che si aliena dall’esercizio di autocomprensione del soggetto e di com-prensione dell’altro. Riconoscere la dialettica dei linguaggi del potere e sottrarsi ad una comunicazione che produce messaggi ma crea spesso isolamento o mancanza di trasparenza, e’ un impegno emancipativo; ma emancipazione da cosa? E soprattutto, verso cosa? Un nuovo progetto di polis tecnologica o una dimensione del politico che sappia coniugare le ragioni della tecnica con quella di un’antropologia sottratta alla tecnocrazia? E che sappia cogliere nella molteplicità la ricchezza del pluralismo, ma anche il rischio di lacerazioni insanabili tra identità individuale e identità sociale? Il valore trascendentale dell’argomentazione intersoggettiva vuole offrire il luogo di un discorso pubblico che preservi ad ognuno, democraticamente, lo spazio di parola, e che consenta il rispetto e la responsabilità per l’altro in quanto co-implicato in un progetto comune di vita sociale. Ma come può il ricorso al principio dell’argomentazione sottrarre la pratica sociale al dominio e alla reificazione rapportuale? Nel principio del discorso come luogo trascendentale dell’intesa democratica, vi è quasi una presupposizione di fondo, quella di una simmetria partecipativa al linguaggio, che invece non può essere assunta come norma primaria, ma scaturisce dalla coscienza di una originaria costituzione asimmetrica della relazionalità134. Vi è dunque uno sfondo retrostante, a cui attingere per una ritematizzazione della dimensione originaria dell’essere in comune, che se pure si fa linguaggio, sopravanza il dire e, in un certo senso, lo problematizza? Vi è un logos che si ponga anche come nomos della relazione, nel senso che ne scongiuri la caduta, non solo formalmente, nel disordine del simbolico e nella perdita di differenza tra ordine del reale e ordine del simbolico? Teniamo presente che se la dimensione del comunicare è costituiva dell’essere uomini, non è però né risolutiva né completamente rivelativa della sua verità, cioè della sua essenza: quanto si es-prime e quanto si vela del sé nel comunicare? Vorremmo aggiungere, quasi paradossalmente, che tanto la parola ri-costituisce continuamente l’identità relazionale del soggetto, tanto la proliferazione linguistica può omologare questa ricerca di identità, trasformandola in bisogno di presenzialità comunicativa di chi non si pone con l’altro, ma in un accanto frontale, che è già un prevalere su di esso135.

134 Abbiamo detto più volte che il concetto di asimmetria o differenza allude ad un piano di indisponibilità dell’altro alla reificazione da parte dell’io. 135 Qui non è in gioco il mero comunicare, ma una opportunità di interlocuzione che non inizia e non finisce nel rumore della parola. E’ un legame “originario” e “irreversibile”, come scrive Savarese, poiché di fatto “non dipende dal comportamento o dall’atteggiamento dell’uno o dell’altro, ma si mostra precedente, oltre che eccedente,

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Il senso irriducibile del chi?, che Ricoeur tematizza come domanda fondante la ricerca identitaria del sé nel passo autoriflessivo del pensiero, può trovare una risposta identitaria se si apre ad una responsabilità dell’agire politico come co-rresponsabilità dell’esigenza di costruire e riconoscere una struttura relazionale, che non sia solo pragmatica comunicativa, ma una comunicazione vitale: vitale nel senso forte di un ex-sistere che si sporge da ogni processo di significazione dato, e che travalica, pur transitando in esso, il circuito dei codici, poiché chiede di essere attraverso, ma anche al di là del suo dire. La liberazione dall’egemonia del codice, che non consente ai soggetti di riconoscersi come risposte, ma solo come elaboratori di dati, può trovare nel principio della comunicazione ideale un momento di propulsione feconda per la domanda filosofica; ma ci pare che additi contestualmente al superamento di se stessa, verso una responsabilità della parola che sia responsabilità per l’incontro dell’altro attraverso la parola, ed anche per il suo diritto a sottrarsi alla coercitività dell’ipercomunicazione planetaria. E’ emblematico infatti che il ritrarsi dal circuito del discorso pubblico mediatico viene oggi ad equivalere, quasi automaticamente, all’esclusione del soggetto, non tanto dalla partecipazione pubblica, quanto dalla sua stessa identità sociale. Ciò denota quasi una sorta di intolleranza verso forme di sospensione della parola. Così possiamo intendere la rimozione del silenzio quasi come pericolo per il pensare collettivo, poiché il suo velare la parola svela la potenzialità di un linguaggio, e dunque di un pensiero, divergente. Anche perché nell’odierno universo ipermediatizzato, l’incanalarsi nel flusso della parola è la forma plateale di inclusione sociale, nel momento in cui esprimere un assenso alla logica della produttività linguistica. Ma un linguaggio che parla e non ascolta il suo tacere consente davvero all’uomo di venire alla luce nella parola? E se riconosciamo nei rapporti comunicativi odierni l’affermarsi di un linguaggio-sistema, dobbiamo ammettere anche l’ideologia del codice che in esso si afferma: cioè il suo non differenziarsi tra dicibile e indicibile, il suo non ritrarsi dinnanzi all’incedere della parola d’alterità per ricercare il senso dialogico del mondo136, il ricorso all’astrazione della soggettività parlante e il piegarsi alle leggi di mercato dei linguaggi globali 137. Forse per un approccio alla linguisticità che sia rivelativo del senso della concretezza dialogica, bisogna forzare il paradigma comunicativo di stampo

l’occorrenza rapportuale in cui ricorre” (P. SAVARESE, Il diritto nella relazione, cit., p. 208). 136 Cfr. P. PRINI, Il senso dialogico dell’esistenza, in AA.VV., La filosofia del dialogo, cit., pp. 39-52. 137Alla fattualità del linguaggio come sistema B. Romano propone di opporre la controfattualità del diritto, giacché i “principi della giuridicità sono la ripresa inesauribile del riconoscimento, come superamento dell’esclusione, che è la attualità disconoscente” (B. ROMANO, La legge del testo, cit., p. 257).

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prassistico-produttivo, e sostituire ad esso un paradigma antropologico intersoggettivo come ricerca di senso per la totalità dell’esperienza umana del linguaggio. Viene a riqualificarsi così anche il rapporto tra parola e silenzio, che non può uscire da un fronteggiarsi dialettico e asimmetrico tra apertura e chiusura all’alterità, tra mancarsi della parola o assenza della parola. In tale sforzo la modalità dell’ascolto si interpone come medio coesistenziale tra parola e silenzio, e diventa durata e memoria di un ricostituirsi del sé nel disassoggettamento del linguaggio al codice, della parola al dato, del Tu all’Esso. Il linguaggio, del resto, oltre i modi dell’affermare, forse trova nell’interrogare il suo qualificarsi co-esistenziale, poiché il suo domandare non si risolve nella domanda di parola, ma nell’essere l’uomo una domanda della parola che transita in essa per portarsi al di là di essa. Ritrovare i sensi del linguaggio è un impegno totale che, al di là del poter dire, incontra i linguaggi del senso, attraverso cui non si consumano parole-merci ma si collabora all’opera infinita della comunanza degli uomini.