VERSO UN NUOVO PROGETTO EDUCATIVO - SALESIANI ARESE · 1 verso un nuovo progetto educativo nll...

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1 VERSO UN NUOVO PROGETTO EDUCATIVO NELLE COMUNITA’ DEL CENTRO SALESIANO DI ARESE Giugno 2014 Rev. 1.1

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VERSO UN NUOVO PROGETTO EDUCATIVO

NELLE COMUNITA’

DEL CENTRO SALESIANO DI ARESE

Giugno 2014

Rev. 1.1

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INDICE

PRIMA PARTE

La Filosofia del Centro Salesiano di Arese

1. La storia. Le radici educative del Centro Salesiano di Arese

2. Il futuro. La visione contemporanea del ragazzo accolto

3. Un metodo in 4 fasi

4. La comunità educativa

5. Alcuni ingredienti

6. Il ruolo del Centro di Formazione Professionale e della Scuola Media

SECONDA PARTE

Scelte operative, processi organizzativi e di gestione

7. Procedure di accoglienza

8. Funzionamento del gruppo di lavoro. Le equipe

9. Glossario

10. Bibliografia

TERZA PARTE

11. Le Fonti

12. Allegati:

a) Empowerment

b) Il progetto Michele Magone sull’inclusività scolastica

c) Il Sistema preventivo di don Bosco

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Autori e diritti

Il Coordinamento del gruppo che ha elaborato il documento è stato affidato a

Gerolamo Spreafico - Pedagogista

Il gruppo di lavoro è composto da

Don Mino Gritti, Cristiano Dolcetti, Luca Freschi, Don Edoardo Gnocchini, William Pinto,

Gabriella Preda, Arianna Vezzoli

© Copyright Centro Salesiano San Domenico Savio, Arese - 2014

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1. Le radici educative del Centro Salesiano di Arese

Il Centro Salesiano San Domenico Savio è nato nel 1955, quando il Cardinal Montini,

arcivescovo di Milano, ha affidato ai Salesiani la gestione dell’Istituto di rieducazione di

Arese. Da allora il sistema preventivo di don Bosco è diventato la linea guida del progetto

educativo fondato su ragione, religione e amorevolezza per oltre mille ragazzi che sono stati

accolti nella struttura e hanno frequentato i corsi di avviamento professionale e la scuola

media. Essi provenivano da famiglie povere, da contesti sociali a rischio di emarginazione e

di devianza. Per tanti di loro la famiglia salesiana è stata l’unico luogo di affetto, di

attenzione, di cura. Per altri è stato il cammino che li ha preparati al futuro, al mondo del

lavoro, alla maturità. Nel corso degli anni molti laici educatori hanno affiancato i Salesiani

nell’offrire la gioia dello stare insieme, la bellezza del gioco in cortile, la speranza di una

mano che aiuta e lo sguardo che scorge il “buono” nell’altro. Che fossero in comunità o ad

imparare un mestiere i ragazzi vivevano intense esperienze educative, in Valle Formazza, in

alta montagna o ad Arese su di un palcoscenico, alle “giornate dell’amicizia” a riflettere della

loro vita o sul campo di calcio a vincere la partita.

Negli anni ottanta poche altre istituzioni potevano offrire, sul territorio, educazione e

formazione in un’unica struttura. Sul finire degli anni novanta, in linea con le tendenze socio

pedagogiche dell’epoca, le normative nazionali esortavano gli istituti educativi a

trasformarsi in comunità alloggio, prevedendo strutture d’accoglienza meno collegiali e più

familiari, meno numerose e più rispondenti ai bisogni del tessuto sociale più fragile. Il

Centro Salesiano si è dotato di sette comunità alloggio che potevano ospitare fino a 68

ragazzi. Negli anni precedenti il numero di utenti era più del doppio e le attività di gruppo

prevalevano su quelle personali e specifiche.

Con le comunità educative si è stati indotti a ripensare il progetto educativo e il patto tra

educatore ed educando. Il ruolo delle famiglie di provenienza, ora più presenti, hanno

indicato la necessità di un supporto educativo anche ad esse ed un attenzione maggiore

all’ambiente da cui provenivano gli utenti.

I Salesiani hanno modificato le strutture a servizio dei ragazzi per rendere le camerate

comunità educative, pur consapevoli che rimanevano inserite in un contesto istituzionale

più vasto, più variegato e, oltretutto, più complesso che alle origini.

Progetti educativi di lungo periodo che coinvolgevano pezzi di vita significativi dei ragazzi

dalla preadolescenza all’età adulta, hanno lasciato il posto a sguardi educativi più

frammentati e flessibili, a volte perché legati al raggiungimento di un traguardo scolastico o

ad un allontanamento temporaneo da una situazione di disagio, a volte per l’opposizione o

l’ambivalenza della famiglia rispetto al cammino. In taluni casi il percorso si è interrotto per

la carenza di risorse delle istituzioni, in altri l’équipe educativa non ha saputo rispondere ai

bisogni dell’utenza accolta.

In questo periodo storico in cui il tessuto sociale giovanile vive le contraddizioni del mondo

moderno adulto e ne amplifica le povertà, in cui la società multietnica deve fare i conti con

l’egoismo della globalizzazione e le istituzione faticano a dare risposte efficaci alle nuove

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richieste di aiuto, diventa fondamentale essere propositivi e non farsi da parte nella sfida

educativa verso i giovani ed il disagio che esprimono.

Questo documento vuole esprimere un rinnovato impegno di accoglienza verso i giovani più

bisognosi, con l’intento di aiutarli a recuperare fiducia in sé stessi, valorizzandone le

potenzialità e accompagnandoli nel percorso di crescita verso la gestione responsabile di sé

e verso l’autonomia.

Il modello di riferimento nella definizione del servizio va nella direzione del “welfare

generativo”, un welfare orientato alla rigenerazione della persona, e non alla assistenza, al

“prendersi cura “e non solo “curare”. In questo troviamo una base solida in termini di ricerca

e fondamento nei recenti lavori della Fondazione Zancan1 di Padova.

1“Rigenerare capacità e risorse. La lotta alla povertà. Rapporto 2013”. Fondazione Zancan, 2013. Ed. Il Mulino

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2. La visione contemporanea del ragazzo accolto

Nell’azione educativa, ci rivolgiamo al ragazzo di Don Bosco nel mondo contemporaneo. Ciò

nasce dall’evidenza del cambiamento dei ragazzi di oggi e dei loro nuclei familiari di

provenienza, anche nel rapporto con chi è incaricato istituzionalmente ad intervenire per

tutelarli.

Abbiamo verificato differenti modalità di accesso alle nostre offerte: tramite una domanda

privata da parte della famiglia o di un conoscente; con l’iniziale richiesta di informazioni dei

Servizi che già collaborano con noi per progetti “non standard” al fine di garantire continuità

educativa e in segno di fiducia; attraverso i contatti con i Servizi che ci vengono indirizzati da

agenzie educative o enti terzi; con la necessità di chiarire l’aspetto economico… e sempre

emerge la necessità di condividere con altri le difficoltà educative e le preoccupazioni in merito

alla vita dei minori segnalati.

Se la risorsa “scuola” rappresenta spesso una motivazione forte all’inserimento di un ragazzo

presso il Centro, è vero che i progetti che riguardano il Settore Accoglienza non si limitano a un

sostegno didattico.

Inoltre, i Servizi ci chiedono d’intervenire anche nel campo dell’emergenza, come accoglienza

di pronto intervento, e per minori vittime di violenza, abuso e maltrattamento (cfr. DGR

856/13). La domanda ci impone anche di rivalutare l’organizzazione settimanale, rientri in

famiglia compresi, che, per qualche progetto o in alcune fasi, risultano critiche.

Mantenendo saldi il carisma di Don Bosco e la cornice di riferimento all’interno della quale il

Centro offre le proprie risorse, riteniamo opportuno specificare l’utenza alla quale ci vogliamo

rivolgere:

- minori di sesso maschile di età compresa dagli 11 ai 18 anni, inviati dai Servizi Sociali territoriali, con o senza decreto di affidamento, che necessitano di un supporto educativo che li accompagni o sostenga in un cammino in divenire verso l’autonomia;

- minori stranieri non accompagnati, per l’integrazione nel contesto sociale e culturale italiano;

- minori vittime di violenza, abuso e maltrattamento (DGR 856/13).

Per queste tipologie di minori, le comunità educative garantiscono un ambiente e delle azioni

personalizzate, che non prescindono da una prima fase di osservazione e che colgano le

potenzialità del singolo, nel rispetto delle storie e dei bisogni individuali. La forza educativa è

costituita dall’assenza di ricette standard e magiche medicine in grado di “far guarire”. Con la

presenza dell’educatore e il rapporto col gruppo, attraverso l’uso della parola, l’ascolto attivo e

strumenti consegnati nelle mani del ragazzo che può fare e sa fare, ognuno viene accompagnato

nella crescita per diventare un “adulto capace”.

L’azione educativa deve modularsi anche per interventi brevi, a tempo determinato, in fascia

diurna o per una sola fase precisa dell’evoluzione del ragazzo e del nostro progetto educativo.

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3. Un metodo in 4 fasi.

3.1 La filosofia del metodo

Una visione del soggetto e delle sue risorse al centro della proposta educativa, ha la

necessità di delineare un progetto (Design) che si fondi su alcuni elementi forti e ben definiti

e soprattutto che tale percorso sia ben scandito nei tempi e pieno di dinamicità. In altre

parole il salto qualitativo che si vuole mettere in atto ad Arese è tanto nel privilegiare le

potenzialità e depotenziare l’attenzione ai bisogni (già marcati e talvolta “certificati”), ma

anche nell’offrire un vero e proprio percorso (o cammino), pensato, personalizzato, non

standard, non “piatto”, condiviso, partecipato. Si tratta di fare una scoperta nel ragazzo del

“buono”, del possibile, dell’inaspettato.

La figura che segue traccia l’architettura di questo progetto o sistema educativo. In esso

appaiono 4 fasi (in blu), è indicato e situato lo sguardo principale che è di natura pedagogica

della costruzione educativa che si intende modellare e lo sguardo psicologico di supporto

all’intero impianto.

Ribadiamo che la natura delle Comunità di Arese è di taglio pedagogico - formativo e non

terapeutico.

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3.2 Le Fasi del percorso educativo

Il piano educativo individualizzato, rivolto ai ragazzi del Centro Salesiano di Arese all’interno

del percorso residenziale è strutturato in quattro fasi: l’accoglienza, la personalizzazione, la

responsabilizzazione e l’autonomia.

3.2.1 L’accoglienza

La fase dell’accoglienza è sicuramente la più delicata delle quattro, in quanto gli educatori

dovranno assumere degli atteggiamenti tipicamente paterni/materni nei confronti dell’utente

il quale, pur mostrando apparente cordialità e disponibilità, rimane sempre interiormente

schiacciato dal peso dell’obbligo di abbandonare casa, affetti, quartiere e abitudini personali.

Questa fase è certamente la più complessa e per certi versi traumatica se privata di quelle

attenzioni educative squisitamente tipiche di una sana genitorialità. La Comunità diventa una

sorta di “protesi famigliare “o di “altra famiglia”. Alcuni dei tratti che caratterizzano il bagaglio

che il ragazzo porta in dote nella Comunità in questa prima fase:

Bisogno di una percezione interiore: accoglienza, cura e accettazione.

Bisogno di essere informato sull’ambiente che lo circonda, sui soggetti che formano una

comunità e sulle dinamiche di routine delle giornata, ponendo al ragazzo un’attenzione

specifica su quelle attività di gruppo che riteniamo, come equipe, basilari per favorire

dei sani processi di conoscenza e di condivisione.

Bisogno di sicurezza data da un sano affiancamento dell’equipe educativa

Bisogno di orientamento (educatore di riferimento)

Lo sviluppo delle potenzialità non sono un accessorio di ordine inferiore rispetto agli strumenti

della “tradizione ri-educativa “ma sono il vero orizzonte educativo cui riferirsi. L’ethos che si

dovrà respirare nell’approccio con queste comunità rinnovate deve essere palpabile tanto per

gli esterni al centro quanto e soprattutto per i ragazzi che (spesso loro malgrado)

intraprendono un percorso.

Per quanto i bisogni psico-sociali sono situati nel ragazzo e in parte sono evidenti, vi sono

alcune potenzialità che sono pure radicate ma probabilmente mai stimolate. E’ questo il nucleo

dell’intervento educativo (nel senso di “tirar fuori” - Nello scenario ad esempio delle intelligenze

multiple di Gardner secondo uno sguardo psicopedagogico e nella convinzione di un disegno della

Provvidenza tanto per l’educando che per l’educatore che ha un talento da esercitare). Nella

accoglienza del ragazzo occorre riservare uno spazio alla emersione di queste potenzialità ed

anche tenere sempre aperto lo sguardo dell’adulto attento a questa dimensione.

Le attività della accoglienza

La fase dell’accoglienza è caratterizzata da alcune specifiche attività:

Presentazione delle figure educative all’interno del Centro;

Presentazione degli ambienti e delle strutture;

Conoscenza dei momenti e delle attività, compreso l’avvio verso i turni di servizio;

La scelta dell’educatore di riferimento dopo una prima fase di conoscenza;

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La costruzione attraverso il “top secret” della “storia di vita” del ragazzo.

3.2.2 La prima fase (Fase della Personalizzazione e costruzione del Progetto)

La prima fase è caratterizzata dalla stesura di un vero e proprio PEI (Progetto educativo

individuale) che viene condiviso e scritto dal ragazzo e il suo educatore di riferimento. Durante

questa fase, l’educatore e il ragazzo saranno chiamati a stringere un vero e proprio patto

educativo. Il vero senso della scrittura di un PEI non è di natura formale o burocratica, ma deve

diventare un modo di “pensare” alla storia che il ragazzo e i suoi educatori stanno costruendo.

Un PEI di natura descrittiva (altro non può essere in una reale e illuminata pedagogia) è un

supporto al prendersi cura del ragazzo e il metodo autoriflessivo può aiutare lo stesso a

riflettere su di se’. L’educatore inoltre, avrà il compito di vigilare ed aiutare il ragazzo nel

raggiungimento di alcuni obiettivi:

Cura e igiene personale;

Ordine e cura delle sue cose;

Cura delle strutture e dell’ambiente che lo ospita;

Puntualità;

Impegno e studio;

Adesione al gruppo.

Inoltre, l’attenzione dell’educatore, si sposterà dai bisogni alle potenzialità del ragazzo, le quali

guideranno le scelte di personalizzazione del progetto. Sarà cura dell’educatore proporre e fare

partecipare il ragazzo a determinate attività sportive ed a particolari esperienze formative.

Le attività della prima fase

La fase della personalizzazione è caratterizzata:

Costruzione e condivisione del PEI;

Il momento del patto educativo;

Sperimentazione e avvio di attività sportive;

Conoscenza del territorio di provenienza del ragazzo;

Partecipare a esperienze formative importanti;

Partecipare ad un percorso costruito ad hoc nelle Giornate dell’Amicizia;

Lavorare anche attraverso il “top secret” alla propria storia e progetto;

Possibilità di conoscere il mondo del volontariato e di sperimentare alcune esperienze.

3.2.3 La seconda fase (Fase di Responsabilità)

Nella seconda fase, il ragazzo sarà chiamato ad avere sempre più responsabilità rispetto ai

propri compiti, e sempre più autonomia rispetto ai propri desideri e passioni. L’educatore

abbandonerà gradualmente lo sguardo vigile di controllo della prima fase, lasciando sempre

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più autonomia e libertà al ragazzo. Allo stesso tempo però, educatore e ragazzo si

impegneranno a coltivare degli spazi relazionali e di confronto sul progetto e la sua evoluzione.

Le attività della seconda fase

La fase della “responsabilità” è caratterizzata:

Proseguo delle attività iniziate nelle fasi precedenti;

Coinvolgimento attivo del ragazzo nelle attività domestiche, come fare e stendere il

bucato e stirare la biancheria, dedicarsi ai primi rudimenti di cucina;

Piccole esperienze di autonomia;

Esperienze e impegni concreti nel mondo del volontariato;

Partecipare ad un percorso costruito ad hoc nelle Giornate dell’Amicizia;

Passaggio dall’essere accompagnato al muoversi da solo;

Piccoli impegni di responsabilità all’interno di alcuni ambiti della vita domestica.

3.2.4 L’autonomia

La fase dell’autonomia è caratterizzata da alcuni “riti” che segneranno un passaggio ad uno

stato di maggiore responsabilità del ragazzo, il quale sarà chiamato a prendere tra le mani le

redini del suo progetto, in modo specifico verso ciò che riguarda gli aspetti della vita quotidiana.

Momenti come la sveglia, la cura degli ambienti, la preparazione della colazione e della cena,

saranno completamente gestiti dai ragazzi. L’educatore in questa fase si occuperà della gestione

degli aspetti logistici, di tutoraggio, di verifica del percorso e l’organizzazione di vere e proprie

esperienze di “vita reale” (fare la spesa, gestione del denaro, prenotazione visite mediche,

conoscere il funzionamento di strutture come farmacie, uffici comunali, etc.). Ragazzo ed

educatore periodicamente si incontreranno al fine di verificare e valutare l’evoluzione del

progetto.

Le attività della autonomia

Esperienze di “vita reale”, come fare la spesa al supermercato, prenotare visite mediche,

cucinare;

Sveglia mattutina in autonomia;

Conoscere il funzionamento degli uffici comunali;

Conoscere il funzionamento degli uffici ASL;

Conoscere il funzionamento degli uffici territoriali del lavoro;

Conoscere il funzionamento delle agenzie interinali;

Gestione concreta del denaro;

Partecipare a esperienze formative e riflessione ad hoc;

Provvedere in prima persona al funzionamento della casa;

Gestione pulizie e manutenzione casa;

Preparazione dei pasti;

Riscrivere la propria “storia di vita” e rielaborare un progetto per il futuro.

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Nota di chiusura sul metodo

La comunità non è uno sistema (spazio-tempo) terapeutico o di correzione ma un ambiente

educativo nel quale la connotazione pedagogica prevale su ogni altra dimensione. Molto spesso

un ragazzo con una durata di vita di 10/11 anni si è caricato il peso di concreti fallimenti degli

adulti che lo hanno generato, altre volte è l’intera famiglia di appartenenza che è vittima di una

povertà culturale del territorio ove è approdata che scarica su di essa una colpa che non gli è

propria e crea uno stigma da cui è difficile liberarsi (dis-empowerment). L’attitudine mentale

dell’educatore e l’ethos che la comunità produce deve partire da questa visione. E’ intorno a

questo vertice che si definisce l’intero percorso educativo e si raccolgono i contributi di tutti gli

operatori che interagiscono con il ragazzo. Nessuna definitiva valutazione deve togliere spazio

a nuovi tentativi educativi, nuove possibilità. L’educatore sa che è vicino al genitore “quasi

perfetto”2 e tutte le volte che non si veste di umiltà, che esercita autorità e possessione affettiva,

che non ammette il suo errore, che non collabora con altri educatori “imperfetti “si pone in una

dimensione ostile al progetto complessivo. E’ in questo scenario che si vuole concentrare tutta

l’innovazione possibile. Questo primo tratto anticipa la scelta che verrà fatta nella impostazione

del lavoro di equipe, necessario alla conduzione di percorsi tanto ambiziosi e complessi.

Alfine di evidenziare questa progressione si vogliono progettare momenti “rituali” che

verranno celebrati nelle Comunità nel momento del passaggio da una fase all’altra.

Indipendentemente dal momento di inserimento del ragazzo nel percorso di comunità che

determina una scansione personalizzata sono proposte alcune attività trasversali che si

innestano nella proposta formativa comunitaria propria del Centro Salesiano: giornate

dell’amicizia durante il periodo di Quaresima, giornate sulla neve nel periodo di Avvento, il

campo formativo estivo in alta montagna.

2 Un genitore quasi perfetto. Marcello Bernardi.Feltrinelli, Milano-2013

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4. La Comunità Educativa

Secondo le linee del XXIV Capitolo Generale dei Salesiani (1996)3, “la Comunità Educativa è

sostanzialmente formata da Salesiani e Laici (nucleo animatore) che condividono la stessa

Mission attraverso processi e strategie tra loro interdipendenti: coinvolgimento,

corresponsabilità, comunicazione, formazione.”

Nel Centro di Arese si integrano dunque due componenti:

I SALESIANI

La comunità salesiana è portatrice del carisma di Don Bosco e della tradizione educativa

salesiana. Offre la testimonianza di chi fa la scelta evangelica vivendola in forma radicale

attraverso la consacrazione religiosa, dedicando intelligenza, energie e creatività al servizio

dei giovani nello stile del Sistema Preventivo di Don Bosco. La comunità salesiana è

responsabile dell'identità, dell'animazione, della direzione e della gestione del Centro.

I LAICI

Vi sono diverse figure con differente profilo professionale che esercitano i differenti ruoli

che consentono il funzionamento delle comunità. Vi sono educatori professionali, assistenti

sociali, pedagogisti, psicologi, tutor educativi, amministratori, personale ausiliario per i

servizi generali, volontari. Alcuni ruoli potranno essere esercitati liberamente da personale

religioso (della Comunità Salesiana).

L’insieme delle due realtà integrate giungono a formare la comunità educativa reale che “va

incontro” al ragazzo accolto e accompagnato.

Di seguito si descrivono alcune delle figure presenti nel Centro.

4.1.2. IL DIRETTORE

Il direttore è principio di unità, garante del carisma salesiano; assicura che l’attività proceda

secondo il progetto educativo del Centro. Propone nel corso dell’anno momenti di formazione

per gli educatori sul sistema preventivo e sulle metodologie specifiche di natura

psicopedagogica che si vogliono introdurre nel Centro. Partecipa in modo determinante

all’indirizzo e alla conduzione delle comunità. Sono di sua competenza l’accettazione e le

dimissioni dei ragazzi. E’ il tutore pro tempore dei ragazzi accolti. E’ il datore di lavoro che ha la

responsabilità diretta sul personale.

3 Documento Capitolate CG 24. Editrice SDB, n. 106.1996

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4.1.3. IL COORDINATORE DI SETTORE

Il coordinatore è lo stretto collaboratore del direttore ed ha il compito di organizzare la vita di

comunità. In particolare coordina:

a) La realizzazione di un ambiente educativo ispirato al senso di casa e allo spirito di

famiglia;

b) L’elaborazione, l’attuazione a la verifica del progetto educativo per ogni ragazzo;

c) L’orientamento e il coordinamento dell’azione educativa di tutta l’equipe educativa di

comunità in vista della promozione integrale dei ragazzi;

d) La promozione di una prassi partecipativa all’interno del settore di accoglienza;

e) La capacità di presenza attenta nel sociale e sul territorio, volta a cogliere le tendenze, i

problemi, le possibilità di sviluppo.

f) Coordina con frequenza settimanale l’equipe educativa

4.1.4. IL COORDINATORE DELLA GESTIONE AMMINISTRATIVA

E’ il referente per tutti gli aspetti economici del settore e del Centro, per i contratti di lavoro e

di assolvimento burocratico circa assunzioni e dimissioni dei dipendenti, per le rette dei

ragazzi. Gestisce e coordina i turni di lavoro degli educatori in collaborazione con il

Coordinatore di Settore. Segue la manutenzione ordinaria e straordinaria.

4.1.5. IL TUTOR EDUCATIVO

Il Tutor Educativo è il Salesiano che dedica il suo servizio alle comunità. E’ il primo

collaboratore del direttore. Coordina gli aspetti della formazione umana e della testimonianza

dei valori che trovano il loro fondamento nel Vangelo. Prende coscienza dei singoli percorsi

educativi dei ragazzi facendo da appoggio o sostegno ai singoli educatori di riferimento.

Collabora con gli educatori nell’animazione favorendo sempre uno spirito di squadra. E’

presente quotidianamente in cortile, visita i ragazzi e gli educatori negli appartamenti e anima,

insieme agli educatori, i momenti vitali delle rispettive comunità. Pianifica, in accordo con

l’Equipe di gestione, il piano formativo annuale delle comunità.

4.1.6. L’ASSISTENTE SOCIALE

E’ in relazione con i Servizi Sociali di zona, da dove provengono i ragazzi ospiti nelle comunità.

Predispone l’inserimento del ragazzo, ne relaziona il percorso agli educatori e ne guida le fasi

di dimissione. Fa parte del suo lavoro il coinvolgimento delle famiglie nel progetto del ragazzo.

E’ disponibile ad illustrare agli educatori la situazione del ragazzo e a discuterne i Progetti

Educativi con il Servizio Sociale di zona. Per questo l’Assistente Sociale presenzia a tutte le

riunioni di equipe delle Comunità educative. Può diventare un possibile referente per gestire

eventuali momenti d’incontro delle famiglie dei ragazzi ospitati, in gruppo, e/o per i volontari

del Centro. Data la funzione trasversale nel Centro (esterno-interno) è una risorsa preziosa per

curare le relazioni con Enti Committenti o Realtà Educative analoghe presenti sul territorio.

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4.1.7. GLI EDUCATORI

Gli educatori sono scelti sulla base di una compatibilità ed adesione alla filosofia del progetto

educativo definito nel presente documento. Alcuni tratti distintivi sono lo stile aperto e

accogliente alle diversità specifiche di ogni soggetto e alla capacità di favorire una inclusione

sociale di elevato livello. Per questo l’educatore indirizza la sua ricerca personale e la sua

formazione per migliorare le competenze professionali finalizzate alla conduzione di percorsi

educativi. E’ capace di esercitare un ascolto attivo, di suscitare desideri evolutivi nel soggetto,

di comprendere e rimuovere eventuali difficoltà comportamentali, di accompagnare in modo

autorevole il soggetto o il gruppo di ragazzi che gli sono affidati verso una reale autonomia.

L’educatore è anzitutto un professionista che riflette sull’agire ed è disponibile a condividere

con altri colleghi il suo impegno. Non evita le sfide educative né eccede nell’accanimento

educativo. E’ consapevole di essere una risorsa tra le altre che agisce in un sistema ad elevata

complessità umana. Per questo ed altre ragioni la sua formazione deve essere continua e

assistita (non necessariamente passare sotto la categoria della supervisione propria delle

professioni psicoterapeutiche).

Vista la novità del metodo che si vuole introdurre è bene prevedere alcune sessioni formative

di tipo trasversale (empowerment, ascolto attivo, socializzazione nel web), ma è bene

prevedere la specializzazione in una od altra delle 4 fasi previste. In linea generale va anche

detto che una apertura ad una utenza così ampia (verso emergenze, stranieri, minori vittime di

abusi) comporta una ulteriore sperimentazione e specializzazione dei vari educatori. In altre

parole non è funzionale che “tutti fanno tutto “. Del resto, utilizzando una metafora musicale,

una orchestra ha bisogno dei giusti elementi ma di linguaggio e modulazioni differenti.

Per questo il lavoro di gruppo o di equipe è una piattaforma che alimenta l’intera comunità.

Gli educatori dunque operano in equipe con il direttore, il coordinatore e il tutor educativo. Ad

ognuno di essi si richiede la condivisione del progetto educativo. Gli educatori all’interno delle

comunità svolgono diverse mansioni e hanno diverse competenze specifiche.

Ogni educatore è di riferimento di uno o più ragazzi: L’educatore di riferimento è tenuto, in

collaborazione con il coordinatore e il tutor educativo, a relazionare sul territorio (attività

sportive, musicali, artistiche altro) con la famiglia del ragazzo e con la scuola. E’ chiamato a

redigere e curare con il singolo ragazzo il Piano Educativo Individualizzato -PEI.

La Gestione delle rispettive Comunità residenziali è affidata ad un’equipe educativa

composta da quattro educatori di cui uno garantisce la presenza quotidiana nei momenti di

routine più intensi (pomeriggio e sera). Questo modello organizzativo favorisce una maggior

comunicazione delle dinamiche quotidiane che vanno messe in rete con la parte restante

dell’equipe educativa che presta il suo servizio nella logica della turnazione.

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4.1.8. VOLONTARIATO E TIROCINANTI UNIVERSITARI

a) Volontariato locale: E’ prevista la presenza di un gruppo di volontari/e che condividono il

progetto educativo salesiano. Per loro sono programmati periodici momenti di formazione e di

condivisione. Viene richiesta regolarità e discrezione ma evitando una eccessiva presenza.

In continuità con l’esperienza di don Bosco dove i ragazzi sono i primi animatori e apostoli tra

i coetanei, la comunità di accoglienza può diventare anche un punto di riferimento per tanti

giovani che riconoscendosi nella spiritualità giovanile salesiana intendono vivere

un’esperienza di servizio e di comunità.

b) Volontariato civile nazionale: E’ la possibilità per i giovani italiani interessati (18-28 anni

esenti da contratti di lavoro) di dedicare (parte di) 12 mesi della propria vita a se stessi e agli

altri; formandosi, acquisendo conoscenze ed esperienze e maturando una propria coscienza

civica. Il tutto attraverso l'agire concreto all'interno di progetti specifici. Anche il nostro Centro

attraverso l’Ispettoria di Milano offre tale possibilità a due giovani (con vitto e alloggio) che

volessero prestare questo servizio dentro il settore educativo dell’accoglienza.

c) Tirocinanti universitari: Lo stage, o tirocinio formativo e di orientamento, è un periodo di

formazione rivolto a studenti e specializzandi durante il percorso di studi e ai neolaureati entro

12 mesi dal conseguimento del titolo. Anche il nostro Centro è accreditato con l’Università Sacro

Cuore e l’Università Bicocca di Milano per accogliere stagisti frequentanti la facoltà di scienze

psicologiche e scienze della formazione nell’indirizzo socio-educativo-assistenziale.

Uno stage coinvolge tre soggetti: il tirocinante, il soggetto promotore (l'Università) e

quello ospitante, ovvero il nostro Centro. Nel percorso formativo entrano anche il tutore

universitario, ovvero un docente dell'Università, e il tutore aziendale che guidano e seguono il

tirocinante nello svolgimento del compito previsto.

4.1.9. PSICOLOGO A SERVIZIO DELLE COMUNITA’

Riteniamo utile soffermarci sulla figura dello Psicologo nella Comunità educativa. Da una parte

lo sguardo psicologico è un asset fondamentale di queste comunità, ma il ruolo e lo stile deve

essere giocato in modo funzionale al sistema pedagogico formativo che è stato pensato quale

spazio culturale nel quale si accoglie e si conduce l’evoluzione del ragazzo che lo abita.

Il ruolo dello Psicologo nella Comunità educativa

Lo psicologo svolge il suo servizio al Centro secondo uno spirito di supporto e aiuto alla

progettazione e attuazione educativa in sinergia e lavoro comune agli altri soggetti della

comunità educativa. In particolare svolge un lavoro differenziato:

a) Supporto psicologico ai ragazzi: Sostegno nello sviluppo dell’identità, autostima,

alfabetizzazione emotiva, nell’ottica di fornire una relazione di affiancamento e di supporto

nelle situazioni quotidiane (self-empowerment)

b) Ruolo attivo all’interno dell’equipe educativa: Undervisione/multivisione di equipe, per

favorire la comunicazione all’interno di essa e per far emergere e integrare i diversi punti di

vista, filtro in fase di accoglienza (enfasi sui punti forti)

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c) Inserimento dei nuovi ragazzi: Lo psicologo partecipa nel consiglio di ammissione dei

nuovi ragazzi secondo la metodologia e i criteri indicati.

Lo stile di esercizio della professione dello psicologo nella comunità educativa

CON I RAGAZZI

Si pensa a una visione dello psicologo come a una figura trasversale a stretto contatto con il

resto della equipe e con i ragazzi stessi. Egli condivide la vita di comunità con ragazzi ed

educatori, e conosce a fondo le dinamiche e le relazioni all’interno di esse. Affianca gli educatori

nel favorire lo sviluppo e la tensione all’autonomia dei ragazzi, focalizzando sugli aspetti più

propriamente psicologici. Offre un sostegno nello sviluppo dell’identità, dell’autostima e

favorisce l’espressione dei sentimenti e dei vissuti (alfabetizzazione emotiva), nell’ottica di

fornire una relazione di affiancamento e di supporto nelle situazioni quotidiane. (self -

empowerment)

CON L’EQUIPE

Anche nei confronti dell’equipe lo psicologo non si pone come un esperto che offre il suo

sapere per interventi mirati e “dall’alto”, ma la logica è quella dell’undervisione/multivisione di

equipe, che mira a favorire la comunicazione all’interno di essa e a far emergere e integrare i

diversi punti di vista.

Lo psicologo rappresenta inoltre un tassello importante nella fase di valutazione delle richieste

di inserimento da parte dei servizi. Conoscendo a fondo la situazione delle comunità e

condividendo lo spirito del progetto educativo con il resto dell’equipe conduce questa fase

arricchendo del suo contributo professionale l’equipe di gestione.

5. Alcuni “ingredienti”

Con il termine “ingrediente “non intendiamo qualcosa di secondario, che dà colore o sapore

rispetto a qualcosa altro che è prioritario. Intendiamo esattamente la “pasta madre” sulla quale

fondiamo il percorso educativo. Tra i molti modelli di interventi educativo e i molteplici stili di

conduzione della relazione educativa, la nostra scelta va intorno a 4 strumenti: Il self

empowerment come itinerario educativo articolato intorno alle potenzialità ( espansione ) e

non alla compensazione dei bisogni ( assistenziale, ri-educativo o contenitivo); l’ascolto attivo

come metodo quotidiano di ascolto delle istanze dell’altro ( educando ) ma anche come metodo

di autovalutazione del proprio agire educativo; il volontariato come esperienza di

decentramento da sé, di esercizio delle proprie potenzialità umane verso altri soggetti;

integrare gli spazi tradizionali ( offline ) con spazi digitali ( online e web ).

17

Di seguito una sintesi dei 3 “ingredienti” scelti.

5.1 Il metodo del self empowerment come traccia per un percorso educativo.

Il metodo del self empowerment non è né scontato ne’ semplice da applicare e condurre. Si

tratta di mobilitare nella persona tutte le energie per liberare le potenzialità presenti ma sedate.

Questo richiede la capacità di guardare in una direzione non comune per l’educatore che ha già

una esperienza di accompagnamento del soggetto e che è stato formato a rintracciare e curare

il bisogno del medesimo. Vi sono state nella storia recenti diverse esperienze che si sono

fondate su questo approccio, alcune vicine alla psicologia di comunità e ai suoi modelli di

azione, altri che prendono origine nell’approccio di alcuni educatori e pedagogisti. Si possono

citare tra gli altri le esperienze americane di Zimmerman e Rappaort, le esperienze italiane di

don Milani, ancora le sudamericane di Paolo Freire, ma anche il modello educativo che ha

originato il progetto Exodus, la pedagogia clinica di Riccardo Massa, le esperienze di Danilo

Dolci. Qui non si tratta di “copiare” le metodologie che hanno dato risultati positivi, ma di creare

una metodo nuovo, appropriato al Centro di Arese, che peraltro contiene alcune tracce proprio

riconducibili a questa scuola. Il sistema preventivo di don Bosco stesso, in una rivisitazione

contemporanea è in sintonia con questo modello.

I passaggi fondamentali di questo approccio possono essere riassunto in questo modo:

Empowerment significa processo di “impoteramento”, di aumento del potere. Il

power, di cui si occupa l’empowerment non è quello di qualcuno su qualcun altro. E’ il

potere come patrimonio personale di chi lo possiede, lo ha in sé. Potere di cui può

usare il soggetto nel rapporto con le cose e le persone importanti nella sua vita. Potere

come possibilità. Da un punto di vista psicologico la tensione alla valorizzazione dei

fattori interni di causa (internal locus of control): tendenza a investire

psicologicamente sui fattori interni che influenzano ciò che accade o accadrà alla

persona

L’Empowerment si colloca tra Organizzazioni (Società impersonale) e Psicologia di

comunità (Comunità di persone), tra forza e debolezza, tra benessere e disagio, tra

capacità e difficoltà, tra disponibilità e lacuna. Ovvero: nel “mondo della forza” ci si

occupa dei forti con la cultura della forza (l’immagine delle Forze armate), nel

“mondo della debolezza” ci si occupa dei deboli con la cultura della debolezza

(tradizione storica dell’assistenza). L’approccio empowerment propone di occuparsi

della debolezza (lacune, problemi, difficoltà, disagi) con la cultura della forza (risorse,

capacità di nozione, capacità, opportunità)

Una solida applicazione del metodo dell’empowerment consiste nell’individuare e

condurre alcune fasi. Almeno 3 fasi:

o Fase 1 > Fase di mobilitazione del desiderio > cosa voglio fare della mia vita?

Quali sono le tensioni cui miro?

o Fase 2 > Fase di costruzione di nuova pensabilità positiva > organizzazione

di un programma per raggiungere gli obiettivi individuati. Quali risorse interne

vi sono nell’individuo? Quali sono i suoi “killer interni “che impediscono una

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emancipazione? quali risorse esterne (mirate) devo portare al soggetto nel suo

sviluppo?

o Fase 3 > Fase di apertura di nuova possibilità > (da pensabilità a possibilità)

sperimentazione di moduli formativi che concretizzano, fissano le tappe per

raggiungere i propri desideri.

La metodologia del self empowerment può tessere la filigrana del progetto educativo

individualizzato (PEI) poiché contiene in se’ elementi quali: il progetto, gli obiettivi, le

verifiche, le risorse, l’autonomia. Inoltre lo stile di accompagnamento in una relazione

educativa “empowerment” è connotato da una decisa speranzosità, dalla costruzione

insistente di una relazione di fiducia (sia interna al soggetto che all’educatore che deve

sapere “guardare oltre”).

La cultura e il clima che si crea in un ambiente empowerment è evidente. La stessa

formazione degli educatori, il lavoro di equipe e gli strumenti di buon funzionamento

della stessa (supervisione o altra visione) sono impliciti nella regolazione di questo

insieme di progetti di sviluppo delle persone.

5.2 L’ascolto attivo come stile nella relazione educativa

Nelle Comunità educative di Arese è già presente uno stile di “ascolto attivo” negli educatori

che operano con i ragazzi. Questo stile affonda le sue radici nello stesso sistema preventivo

salesiano. Di seguito riportiamo una sintesi di come questo “ascolto attivo” vuole essere

esercitato.

Per meglio fondare il metodo dell’ascolto attivo si propone un ulteriore modello elaborato

in Italia dalla antropologa Marianella Sclavi (2000) che fonda le sue radici negli studi di G.

Bateson (1977).

Una sintesi dell’Ascolto Attivo secondo M. Sclavi.

Ascolto attivo >Anzitutto di se’ stessi > L’operatore che non osa cambiare, che è all’interno

di una cornice> l’utente che parte da un assetto esistenziale distante dal servizio, che a sua

volta non conosce le sue potenzialità, che ha delle aspettative > la relazione di aiuto condotta

secondo un ascolto attivo.

• Delle “Sette regole dell’arte di ascoltare” (Sclavi, 2000a) quella che più immediatamente

rende l’idea di cosa si intende per Ascolto Attivo è la seguente: “Se vuoi comprendere

quello che un altro sta dicendo, devi assumere che ha ragione e chiedergli di

aiutarti a vedere le cose e gli eventi dalla sua prospettiva.”

• L’Ascolto Attivo implica il passaggio da un atteggiamento del tipo “giusto-sbagliato”, “io

ho ragione-tu hai torto”, “amico-nemico” ad un altro in cui si assume che l’interlocutore

è intelligente e che dunque bisogna mettersi nelle condizioni di capire com’è che

comportamenti e azioni che ci sembrano irragionevoli, per lui sono totalmente

ragionevoli e razionali. Le basi teoriche per questo approccio sono state delineate da

19

studiosi che hanno sostenuto la priorità dell’ascolto in un paradigma dialogico (Martin

Heidegger, Michail Bachtin, Martin Buber) e dai teorici dei sistemi complessi (Bateson,

von Foerster, Kurt Lewin, Emery e Trist, Ashby).

• Il modello più efficace per comprendere la differenza fra Ascolto Passivo e Ascolto Attivo

è offerto dalla buona comunicazione interculturale in situazioni concrete e contingenti

(Sclavi, 2000a e 2000b) in quanto rende più facilmente evidenziabile che “uno stesso

comportamento” può avere significati antitetici e al tempo stesso assolutamente

legittimi. Per esempio il “non guardare negli occhi una persona anziana e autorevole” in

un contesto culturale può essere segno di rispetto, in un altro segno di mancanza di

rispetto.

• I malintesi, l’irritazione, l’imbarazzo, la diffidenza in questi casi non sono risolvibili in

termini di comportamenti “giusti o sbagliati”, ma cercando di capire l’esperienza

dell’altro, il che implica accogliere come importanti aspetti che siamo abituati a

considerare trascurabili o addirittura che prima non abbiamo mai preso in

considerazione (1).

L'atteggiamento giusto da assumere quando si pratica l'Ascolto Attivo è diametralmente

opposto a ciò che caratterizza quello che tradizionalmente viene considerato un buon

osservatore: impassibile, "neutrale", sicuro di sé, incurante delle proprie emozioni e teso

a nascondere e ignorare le proprie reazioni a quanto ascolta. Al contrario, se vogliamo

entrare nella giusta ottica, dobbiamo imparare qualcosa di nuovo e sorprendente, che ci

“spiazza” dalle nostre certezze e dunque che ci consente di dialogare.

• Le 7 regole dell’arte di ascoltare

1. Non avere fretta di arrivare a delle conclusioni. Le conclusioni sono la parte più effimera

della ricerca.

2. Quel che vedi dipende dal tuo punto di vista. Per riuscire a vedere il tuo punto di vista,

devi cambiare punto di vista.

3. Se vuoi comprendere quel che un altro sta dicendo, devi assumere che ha ragione e

chiedergli di aiutarti a vedere le cose e gli eventi dalla sua prospettiva.

4. Le emozioni sono degli strumenti conoscitivi fondamentali se sai comprendere il loro

linguaggio. Non ti informano su cosa vedi, ma su come guardi. Il loro codice è relazionale e

analogico.

5. Un buon ascoltatore è un esploratore di mondi possibili. I segnali più importanti per lui

sono quelli che si presentano alla coscienza come al tempo stesso trascurabili e fastidiosi,

marginali e irritanti, perché incongruenti con le proprie certezze.

6. Un buon ascoltatore accoglie volentieri i paradossi del pensiero e della comunicazione

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interpersonale. Affronta i dissensi come occasioni per esercitarsi in un campo che lo

appassiona: la gestione creativa dei conflitti.

7. Per divenire esperto nell'arte di ascoltare devi adottare una metodologia umoristica. Ma

quando hai imparato ad ascoltare, l'umorismo viene da sé

5.3 Gli spazi digitali abitati dai ragazzi e riprodotti nel centro

Un importante elemento che sollecita oggi tutti i sistemi educativi per adolescenti è la

comparsa e il radicamento degli spazi digitali e di come questi sono frequentati. Una

Comunità per ragazzi preadolescenti ed adolescenti in difficoltà non può rimanere

indifferente di fronte a queste sollecitazione, ma deve integrare in se’ competenze specifiche

e metodi mirati a rafforzare le componenti comunicative ed espressive dei soggetti

medesimi.

Scrive G. Spreafico a proposito di questa apertura verso “gli spazi digitali “.

“Coloro che operano nei servizi educativi e in misura più ampia le famiglie con ragazzi in età

preadolescente e adolescente, sono in attenta osservazione rispetto alle modalità di

comunicazione e di socializzazione adottate dai ragazzi stessi in particolare rispetto alle

sollecitazioni che giungono dalle piazze digitali e dai social network.

Se possiamo porre la nostra attenzione verso questi nuovi spazi di socializzazioni e tentare

di ricondurre le esperienze dentro uno scenario positivo sia a livello intra-relazionale, inter-

relazionale e di partecipazione ad una cittadinanza attiva investendo e acquisendo una

buona conoscenza e competenza, dobbiamo porre una attenzione particolare laddove si

avvertono segnali di disagio evolutivo.

In altre parole ci interessa riflettere, ricercare ed agire nei cosiddetti luoghi dove si diffonde

un disadattamento psicologico, educativo e sociale. Quando una ragazza o un ragazzo

manifesta un disagio comportamentale, di disadattamento o addirittura di sofferenza, se vi

sono le condizioni sufficienti (non scontate) è possibile oggi avviare un percorso di

accompagnamento educativo o di supporto psicologico o ancora di tipo psicoterapico che

tenta di trasformare questo disagio in un elemento di crescita. Un altro tema è verificare se

questo “diritto” esiste realmente e se è al centro dei sistemi di welfare, ma non intendiamo

qui avviare questa indagine.

La nostra proposta intende accostarsi agli ottimi servizi pubblici e privati che operano in

questo settore offrendo un approfondimento specifico proprio nel settore dei social

network quali estensione dei sistemi sociali in presenza.

Ma ancor più e in modo mirato la nostra proposta intende raggiungere taluni soggetti che

non hanno ancora raggiunto la soglia del disagio o della devianza (non sono ancora stati

presi in carico a servizi) o quei soggetti che, per quanto siano stati “curati” da percorsi

21

specifici di tipo psicopedagogico o psicoterapeutico non siano riusciti a rielaborare il

proprio disagio4.

5.4 Il volontariato come esperienza di crescita educativa

Desideriamo proporre, ai ragazzi ospiti delle comunità del Centro, attività anche

socialmente utili che possano arricchire in maniera bidirezionale loro stessi e i soggetti

beneficiari delle attività di volontariato.

L’attività è scelta dal ragazzo assieme all’educatore di riferimento e viene svolta in

collaborazione con un tutor individuato all’interno dell’ente. Sarà compito dell’educatore di

riferimento mantenere un contatto e una comunicazione costante nel tempo con il tutor per

monitorare e coordinare l’attività del ragazzo.

Il volontariato rappresenta un’opportunità di apertura e scambio con le realtà territoriali, e

offre al ragazzo la possibilità di conoscere altre realtà esterne al Centro e di mettersi in gioco

anche al di fuori di esso.

L’attività si svolgerà in momenti della settimana valutati in base agli impegni del ragazzo

senza precludere la partecipazione alle attività ludiche e formative di gruppo, che rivestono

un ruolo nella pedagogia salesiana.

È dimostrato infatti che attività di volontariato aiutano ad aumentare il senso di

autoefficacia percepita e l’autostima: i ragazzi si sentono così utili agli altri e non una

“zavorra” per la società. Passano dall’essere utenti passivi di un servizio all’essere soggetti

attivi che mettono in gioco le proprie risorse per gli altri. Sentirsi generativi avrà effetti

positivi nel percorso di crescita del ragazzo.

6. La Scuola Media e il Centro di Formazione Professionale

All’interno dei percorsi educativi delle nostre Comunità contribuiscono a potenziare la

domanda due realtà scolastiche poste all’interno della struttura del Centro Salesiano:

La Scuola Secondaria di Primo Grado. Con un progetto specifico di inclusività

scolastica (vedi Progetto Michele Magone in allegato)

L’Istruzione e Formazione Professionale della Regione Lombardia (CNOSFAP Sede

di Arese) che si esprime nella proposta formativa di 6 settori: mobili, auto motive,

elettrico, ristorazione, macchine utensili, grafica e un percorso personalizzato per

ragazzi DSA e BES.

4 G.Spreafico. Make Education 3.0 (2013)

22

7. Procedure di Accoglienza

Le tappe del sistema di inserimento dei minori

La Richiesta

Le domande e le relazioni inviate dai servizi sociali e protocollate dall’amministrazione saranno

portate a conoscenza della direzione, dell’assistente sociale e dello psicologo per una prima

valutazione.

La Lettura

L’assistente sociale anticipa per mail, ai membri dell’Equipe di gestione, una scheda di sintesi

precisa e puntuale che metta in luce tutti gli aspetti legati ai bisogni fondamentali del ragazzo.

La scheda viene poi presentata dall’assistente sociale in sede di Equipe di gestione.

L ‘Analisi

Questa tappa si suddivide in due momenti. Un momento formale caratterizzato dall’ascolto

diretto dell’utente, dei suoi familiari e del servizio inviante da parte dell’assistente sociale e

dello psicologo. Un secondo momento più informale con gli operatori della comunità

(coordinatore e tutor educativo) e nella comunità. Questo momento “unico” durerà un’intera

giornata e sarà gestito in forma libera, serena, familiare attraverso la visita dell’ambiente “casa”,

gli spazi e le aree gioco, la palestra, la piscina, i laboratori della formazione professionale, la

scuola media, gli orti e la pineta coinvolgendo gli utenti più maturi delle comunità che si avviano

all’ autonomia.

La Multivisione

Il giorno seguente l’assistente sociale raccoglie informalmente le considerazioni degli operatori

e prepara una breve relazione nella forma della multivisione che presenterà al direttore nella

prospettiva dell’ammissibilità o meno dell’utente.

L’ Ingresso

All’arrivo l’utente sarà accolto dall’equipe e da tutti i ragazzi escludendo ogni formale ritualità.

L’accoglienza del nuovo utente sarà preparata favorendo il clima di attesa da parte di tutti i

ragazzi della comunità che dovranno essere informati dell’arrivo del nuovo amico,

preparandogli il posto letto e organizzando una serata di festa, gioco ed allegria.

23

8. Funzionamento del gruppo di lavoro. Le Equipe

Al termine di questo documento si traccia una visione del lavoro delle equipe (Equipe Educativa

ed Equipe di Gestione), che risulta essere la regia dell’intero sistema educativo.

8.1. L’Equipe educativa

E’ bene recuperare alcuni tratti che sono stati abbozzati nei precedenti capitoli:

La Comunità educativa è un gruppo di lavoro multidisciplinare che accetta di adottare

alcuni sguardi: uno sguardo pedagogico centrale e uno sguardo psicologico di supporto.

Tuttavia va ricordato che la Psicologia dei gruppi ci ricorda che un “Gruppo di Lavoro

“non nasce in modo istintivo ma deve accettare di partire da uno stato grezzo e crescere

come un organismo biologico, con le sue dinamiche, attese, pazienze. (W. Bion). Un

gruppo di educatori è in grado crescere in modo autonomo oppure può essere guidato.

La prima accezione è certamente una sfida, ma non può essere che di questo tipo in un

sistema che decide di rivolgersi a soggetti sfidanti come codesti ragazzi. In educazione

non ci si occupa di altri senza una autentica riflessione su di sé. Non si può ottenere

autonomia negli educandi se non a partire da un elevata autonomia professionale

esercitata e testimoniata.

Il vertice del sistema educativo è di tipo pedagogico-formativo. Gli educatori /operatori

sono tutti elementi attivi a pari grado di potenzialità e contributo professionale. Per

questo le riunione di equipe non sono “guidate “dall’alto o etero-dirette ma sono auto-

dirette. Si dovrà impostare un percorso di crescita del nuovo gruppo degli educatori

intorno al metodo innovato, che dovrà raggiungere un buon livello di funzionamento e

di autonomia. In questo può offrire un buon contributo il “metodo dei casi “di G. Moretti

(ciascun educatore a turno prepara la presentazione di un “caso” e anima la riunione di

equipe)

Il ritmo di riunione di equipe è settimanale, ma può avere una flessibilità in caso di

necessità. (“Non è l’uomo per il sabato ma il sabato per l’uomo”)

E’ prevista una risorsa esperta che verifica l’applicazione del metodo con scadenza

media (Psicopedagogista) e mette in atto una formazione situata e mirata.

Le suddette figure devono garantire un dialogo professionale tra di loro e alimentare il

gruppo di lavoro che resta il cuore della Comunità.

E’ prevedibile che si debba ricorrere a supporti specifici di natura pedagogica o

psicologica per comprendere (e modificare) alcuni fenomeni comportamentali dei

ragazzi accolti o vere e propri disturbi o sofferenze. Gli esperti possono essere indicati

dai Servizi Invianti oppure potranno essere scelti a “mercato”, o ancora potranno

consistere in brevi soggiorni verso altri Centri Educativi dove è nota la presenza di

elementi formativi specifici.

24

Pedagogico perché intendiamo privilegiare un assunto che si può racchiudere con

questa affermazione “Noi lavoriamo sul versante che appartiene all’apprendimento e non

su quello che attiene all’indagine psicoanalitica. Ci interessa dunque comprendere quali

sono le modalità di funzionamento di questo soggetto e aiutare (in modo collaborativo) lo

stessa a crescere meglio.”

8.2. Equipe di Gestione

Ha il compito di valutare gli ingressi di nuovi soggetti accolti.

Elabora le linee educative generali, accompagna il percorso formativo annuale, monitora

la progressione dei progetti educativi individualizzati, verifica gli outcome generati

alfine di migliorare la qualità del servizio.

Assicura il corretto e trasparente controllo di gestione economica.

Individua e favorisce la partecipazione a Bandi Pubblici e/o di Fondazioni private per

l’integrazione delle risorse economiche necessarie al buon funzionamento del Centro.

In taluni casi può delegare questa attività ad esperti di progettazione e fundraising.

9. Glossario: definizione dei termini fondamentali - in via di compilazione -

Supervisione o Under visione

Multivisione

Fase

Minore

Educatore

Volontario

Modulo formativo

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10. Bibliografia

M. Sclavi, Arte di ascoltare e mondi possibili. Come si esce dalle cornici di cui

siamo parte - Bruno Mondadori – 2003

C. Piccardo, Empowerment. Strategie di sviluppo organizzativo centrate sulla

persona – Raffaello Cortina – 1996

D. Converso e C. Piccardo, Il profitto dell’empowerment. Formazione e sviluppo

organizzativo nelle imprese non profit – Raffaello Cortina – 2003

E. Scabini e G. Rossi, Famiglia e nuovi media – Vita e Pensiero – 2013

Martha C. Nussbaum, Creare capacità. Liberarsi dalla dittatura del Pil – Il Mulino

– 2012

V. Mancuso, La vita autentica – Raffaello Cortina – 2009

CG27, Atti Capitolo Generale, 2014

Ispettoria Salesiana San Marco ITALIA NORDEST, PEPS – Mestre – 2012

Alunni con cittadinanza non italiana. L’eterogeneità dei percorsi scolastici.

Rapporto nazionale 2012-2013. MIUR- ISMU- Quaderni Ismu n.1 -2014

Il Sistema preventivo di don Bosco

Lettera da Roma 1884

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11. Le Fonti

Il tessuto sociale del territorio5

La struttura familiare più diffusa in cui vivono i minori lombardi è la tradizionale “coppia con figli”: nel 2009 si registrano circa 400 mila coppie con un figlio, 480 mila con due e 90 mila con tre o più. Anche la presenza delle famiglie mono genitoriali, che ammonta a circa 100 mila unità, non risulta affatto irrilevante: esse interessano circa una famiglia con minorenni ogni dieci. Il reddito equivalente di una famiglia con figli è pari a 19.000 euro in Lombardia. Le famiglie lombarde con minori spendono mediamente per i propri consumi circa 3.500 euro al mese (dati al 2009). Il bilancio fra risorse disponibili e spese effettuate ha dirette conseguenze sulla capacità di risparmio della famiglia. Secondo gli ultimi dati al 2008, le famiglie in cui sono presenti soggetti minorenni hanno generalmente una più ridotta probabilità di riuscire a risparmiare. Innanzitutto il sovraffollamento dell’abitazione, seppur assolutamente marginale in termini di diffusione, sembra un fenomeno che riguarda prettamente le famiglie in cui sono presenti minorenni. In Lombardia vive in tali condizioni una famiglia (con minori) ogni cento (in Italia 2 famiglie), mentre è quasi nulla la presenza di siffatte condizioni nelle famiglie senza minori (una ogni mille). A livello qualitativo si osserva inoltre che generalmente in Lombardia le case in cui vivono le famiglie dei minorenni presentano più problemi legati alle condizioni dell’abitazione rispetto a quelle in cui abitano le altre famiglie lombarde. L’impegno nei confronti dello studio sembra innanzitutto ridursi con l’avanzare dell’età. Sia in Lombardia che in Italia, nel passaggio fra elementari, medie e superiori si riduce significativamente la quota di minori che “si impegnano molto, con ottimi risultati” (si tratta solo di un minore ogni cinque fra i 14-17enni), mentre aumenta il peso relativo dei minori con livelli inferiori di impegno. Circa la metà dei minorenni lombardi, e in generale quelli italiani, hanno frequentato, nei 12 mesi precedenti l’indagine Istat che fa da supporto alle analisi, corsi non scolastici (musica, sport, pittura, lingue, informatica, ecc.). Se la frequenza di corsi extrascolastici si riduce nelle età più avanzate, il fenomeno opposto avviene invece per quanto concerne il livello di socializzazione con i coetanei: mentre solo il 57% dei bambini lombardi di 0-5anni frequenta i coetanei nel tempo libero, man mano che l’età cresce aumenta la tendenza alla socializzazione fino al raggiungimento del 93% per i giovani 14-17enni. La quota di minori con apparecchio televisivo personale aumenta inoltre al crescere dell’età fino al raggiungimento del dato di circa un 14-17enne con televisore ad uso privato ogni due. I risultati in termini di dotazione di computer e telefono cellulare personali confermano alcune tendenze osservate relativamente al possesso di apparecchi televisivi per uso personale; infatti, sia la quota di minori con un computer personale a disposizione, sia quella di minori con il cellulare aumenta al crescere della classe d’età. In Lombardia la prima passa dal 2% per i bambini con meno di 6 anni, al 28% per i 14-17enni; mentre la seconda, relativamente al possesso di cellulare, mostra differenze ancora più evidenti passando da due 6-10enni ogni dieci, a quasi il 100% per i 14-17enni. Pur vivendo all’interno della famiglia, e quindi guidati dall’autorità dei genitori, ai minorenni vengono spesso concessi alcuni spazi di autonomia. Si consideri, ad esempio, il possesso di

5 Fonte: Osservatorio Minori Regione Lombardia: Report sul contesto familiare dei minori in Lombardia (Doc. 3/a) – dicembre 2010

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chiavi personali, evidente segno di fiducia che permette al minore di entrare ed uscire da casa con maggiore libertà in assenza dei genitori. Infine, un altro segnale di autonomia è la possibilità per il minore di gestire con indipendenza somme di denaro. In questo ambito i genitori lombardi appaiono lievemente più restrittivi rispetto a quanto è emerso sulla disponibilità a fornire le chiavi di casa: tanto nella fascia d’età intermedia (11-13enni) quanto fra i più grandi si osservano quote inferiori di chi riceve denaro con regolarità (o anche solo qualche volta) rispetto ai coetanei che vivono nel resto del Paese.

I minori nelle strutture di accoglienza6

In Lombardia il numero di minori accolti in comunità nel 2009 ammontava a 1914 unità, circa 11 ragazzi ogni 10000 presenti in regione. Di essi un quarto è accolto nel capoluogo lombardo e nella sua provincia (524 casi). Rispetto all’età il valore medio si attesta tra gli 11 e i 12 anni, pur riscontrando una maggiore presenza di adolescenti, che rappresentano il 40% del totale. Il 15% dei minori ospiti ha tra gli 11 e i 13 anni, il 9,3% tra i 18 e i 20. Oltre la metà sono maschi.

Nel 2009 la percentuale di minori stranieri istituzionalizzati ammontava al 32,8% (la maggior parte di età compresa tra i 15 e i 17 anni e di nazionalità marocchina) in diminuzione rispetto al passato, ma, significativamente, il rapporto con la popolazione giovane della regione era pari a 18 unità ogni 10.000 stranieri e di 7 unità ogni 10.000 italiani.

Rispetto alle strutture di accoglienza, quasi la metà dei minori stranieri era accolto in “comunità alloggio”.

Rispetto alla precedente sistemazione abitativa il 41% dei minori proveniva dalla famiglia di origine, il 36,5% da altre comunità e il 6,3% da famiglie adottive o affidatarie. Nel 90% dei casi l’istituzionalizzazione non ha coinciso con la perdita della potestà genitoriale.

I motivi più ricorrenti che hanno determinato l’ingresso in comunità riguardano le difficoltà educative della famiglia di origine (25%), gravi problemi di uno o entrambi i genitori (21,4%), la conflittualità tra genitori (11,3%), le denunce presentate all’autorità giudiziaria (5%), problemi di carattere alloggiativo (4,5%) e gli episodi di violenza perpetrata ai danni dei soggetti più giovani (4,3%).

Nel corso del 2009 il 31,8% dei casi è rientrato nel nucleo familiare, circa il 25% è stato trasferito in altra struttura e solo il 14,6% è stato dimesso perché si è concluso il progetto educativo di accoglienza previsto.

La durata media dell’istituzionalizzazione è di circa 18 mesi, ma circa il 70% dei minori è stato accolto per un periodo non inferiore ai sei mesi.

A fine 2011 il 63,7% dei minori in comunità è stato accolto in comunità educative, il 5,6% in comunità familiari, il 10% in alloggi per l’autonomia, il 10,9% in servizi di accoglienza mamma-bambino e il 7,3% il strutture di pronta accoglienza.

6 Osservatorio Minori Regione Lombardia – Report sui minori accolti nelle comunità residenziali (Doc. 3/1.1) – Dicembre 2010 Ministero delle Politiche Sociali – Istituto degli Innocenti: Affidamenti familiari e collocamenti in comunità – dicembre 2011

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I nuovi bisogni7

Il 2013 si è concluso con la sensazione di una dilagante incertezza sul futuro del lavoro in Italia. Il sentiment di sfiducia colpisce soprattutto i giovani che hanno visto sfumare 476.000 posti di lavoro nel solo primo semestre. Le difficoltà che attraversa il mercato del lavoro sta ridando centralità al valore delle competenze e dell’aggiornamento professionale. Cresce la domanda di competenze informatiche, linguistiche e soprattutto tecniche e tecnologiche. Il nostro paese vanta una tradizione di eccellenza nella produzione artigiana, ma tra i giovani tende a prevalere un’immagine del tutto stereotipata e tradizionale del lavoro artigiano.

I percorsi triennali d’istruzione e formazione professionale (IeFp) costituiscono ormai una scelta concreta e sempre più perseguita al termine della scuola secondaria di primo grado, ai fini dell’espletamento dell’obbligo d’istruzione/diritto-dovere. I dati del Miur rivelano che i percorsi scolastici degli appartenenti alle cosiddette seconde generazioni, o G2, sono meno lineari rispetto a quelli dei propri compagni di classe italiani, con tassi più alti di bocciature e maggiori rischi di abbandono, soprattutto per chi è nato all’estero. La percentuale di ripetenti al primo anno della scuola media inferiore è del 10,2% tra gli stranieri e del 4,1% tra gli italiani; mentre in prima superiore ad essere bocciato è il 12,2% degli stranieri e l’8,6% degli italiani.

La socializzazione ai tempi di internet8

I consumi mediatici dei giovani sono aumentati enormemente posizionati sulla linea di frontiera dei new media. Tra i giovani la quota di utenti della rete arriva al 90,4%, il 75,6% di essi è iscritto a Facebook; il 66,1% usa telefoni smartphone, i giovani che guardano la web tv sono il 49,4% e quelli che ascoltano la radio attraverso il cellulare sono il 32,5; il 20,6% dei giovani ha già un tablet. “Rispetto al 2010 cresce la quota di famiglie che nell'anno in corso possiede un personal computer (dal 57,6% al 58,8%), l'accesso a Internet (dal 52,4% al 54,5%) e una connessione a banda larga (dal 43,4% al 45,8%). Le famiglie con almeno un minorenne sono le più tecnologiche: l'84,4% possiede un personal computer, il 78,9% ha accesso a Internet e il 68% utilizza per questo una connessione a banda larga. All'estremo opposto si collocano le famiglie di soli anziani di 65 anni e più, che presentano livelli modesti di dotazioni tecnologiche”. Anche per ciò che concerne le applicazioni di comunicazione e le piattaforme sociali, si notano cambiamenti indotti dalla rapidità dell’evoluzione: uno per tutti, il calo di Messenger come piattaforma di Instant Messaging, superata dalle chat disponibili sui Social e da WhatsApp. Le relazioni interpersonali mantengono un profilo stabile nel corso dei due anni monitorati e confermano che la famiglia rimane il porto sicuro e la primaria fonte di serenità. Si intensificano invece le attività nella rete, legate alla tendenza ad essere perennemente connessi grazie a smartphone e tablet e sembra crescere anche la disinvoltura con cui vengono scambiate informazioni e immagini a sfondo sessuale o relative all’esposizione del corpo. Il cellulare e la Rete funzionano da connettori sociali, servono per sentire gli amici, rimanere sempre in contatto e scambiare emozioni (foto e filmati girati con il cellulare diventano importanti per i ragazzi in funzione del ricordo e della condivisione, consentendo di fissare nella memoria occasioni divertenti o insolite). Allo stesso tempo, a conferma di una linea emersa nel corso delle ultime ricerche, l’uso di social network è legato al contatto con gli amici abituali.

7 CENSIS - 47° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese 8 CREMIT – Ragazzi connessi: I preadolescenti italiani e i nuovi media - Dicembre 2008

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La dimensione dell’identità è decisiva, proprio in virtù del ruolo sociale dei nuovi media, poiché social network, blog e chat sono occasioni per rappresentare se stessi e comunicare la propria esperienza personale, per riconoscersi. Esserci ed essere passano anche dalla Rete, come spazio di comunicazione ed espressione della propria identità. Ecco perché i ragazzi tendono a utilizzare immagini rappresentative di se stessi, foto personali e foto scattate con amici. Essendo la Rete uno spazio di incontro e socializzazione, viene da sé che mettere una propria immagine reale non significa esporsi a rischi, ma comunicare se stessi ed essere se stessi. I media fanno parte della normalità dei nostri ragazzi. Si tratta di un dato né rassicurante, né apocalittico: è più semplicemente un’indicazione di metodo per chi educa. Smettiamo di considerare i media degli strumenti: essi nel bene e nel male sono parte integrante del loro quotidiano (come in fondo lo sono del nostro); • il problema non sono i media, ma le pratiche. Gli adolescenti non sono più trasgressivi perché hanno il cellulare; piuttosto il cellulare crea le condizioni perché le loro pratiche, trasgressive o meno, si esprimano. Smettiamo di mettere sotto processo i media e spostiamo la nostra attenzione sull’intero sistema che li lega alle pratiche dei soggetti: solo le pratiche consentono di collocare i media dentro i loro quadri d’uso; • le responsabilità vere sono degli adulti. Si tratta di responsabilità di due tipi, come la ricerca mette in evidenza. Responsabilità culturali: le rappresentazioni degli adulti incidono sulla formazione delle rappresentazioni dei più giovani; le culture giovanili sono in qualche modo il riflesso di quanto le culture adulte elaborano e fanno circolare. Responsabilità educative: il permanere di forti preoccupazioni, il prevalere di rappresentazioni negative, suggeriscono il funzionamento di un dispositivo che associa la mancanza di conoscenze certe (ho paura di quel che non conosco) all’incapacità o all’impossibilità della presenza educativa (ho paura perché so di non controllare). Da queste tre indicazioni crediamo si possa ripartire per uscire dal rumore, indicando allo stesso tempo lo spazio per tornare ad educare e la via d’uscita dal loop che mette in circolo gli interessi del mercato con i processi discorsivi degli apparati dell’informazione.

Le ragioni e i luoghi del bullismo e del cyberbullismo9

In un’età delicata come quella tra la pubertà e le prime incursioni nel mondo degli adulti, i ragazzi e le ragazze sono particolarmente sensibili alle spinte dall’esterno, tra cui la centralità dell’immagine fisica proposta dai media e la propensione dei genitori a spingerli precocemente verso l’identità di genere (che viene raccolta e rilanciata con grande entusiasmo dalle aziende della moda e dell’intrattenimento) Si spiega quindi il ruolo che le caratteristiche fisiche (67%) e il supposto orientamento sessuale (56%), ma anche la mancata adesione ai canoni imperanti di bellezza femminile (59%) hanno nello scatenare atti di aggressione e bullismo. Anche la “diversità”, nelle sue varie declinazioni gioca un ruolo non secondario: tuttavia, è interessante notare come – ancora una volta – si tratti più intensamente di diversità nell’apparire (lo straniero 43%, la scelta dell’abbigliamento 48%, la bellezza femminile che identifica e fa “spiccare” dal gruppo 42%, persino la disabilità che – forse contrariamente alle attese – non viene risparmiata 31%) che non nel credere o pensare (solo 22% e 20%, rispettivamente, per convincimenti politici o religiosi). La scuola è residenza elettiva del bullismo, luogo “di residenza” per l’età in esame, e luogo primo di socializzazione e di creazione e disfacimento dei legami significativi non famigliari. Il bullismo ha radice nella relazione “reale” (scuola 80%, piazzetta 67%) e rinforzo nel virtuale (internet/cellulari 53%), mentre lo sport (insieme ai luoghi ad esso deputati) conferma la sua carica deterrente delle tensioni e dei conflitti (solo 37%).

9 IPSOS – Safer Internet Day Study: Il cyberbullismo – Gennaio 2013

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L’analisi dei fenomeni che riguardano gli appartenenti alla Generazione Y (o Net Generation) rende superfluo ogni commento sul ruolo del web e delle tecnologia ad inquadramento dei fenomeni studiati. Il loro essere nativi digitali, figli di nativi analogici, li mette un passo avanti ai loro genitori nella comprensione di ciò che accade nella rete e di ciò che può essere agito attraverso la tecnologia. •Tuttavia, come si evince da questo studio, questo vantaggio generazionale, non mette al riparo la Y Generation da minacce molto concrete e per niente virtuali, anche se dimostra di conoscerne bene i profili e le caratteristiche e di condannarle esplicitamente. •Il bullismo, nelle sue declinazioni digitali e analogiche, non fa eccezione •Infatti, questi ragazzi riconoscono lucidamente alla tecnologia il ruolo di arma e di amplificatore di comportamenti minacciosi o aggressivi e, pur dimostrando di sapere come essa dispiega la propria forza, in quali direzioni e con quali effetti, sono altrettanto espliciti nel richiedere al mondo adulto di accettare il proprio ruolo naturale, di supporto, di difesa, e di prevenzione. •Chiedono aiuto per capire meglio, ma chiedono anche che le agenzie educative (tradizionali come famiglia e scuola e nuove, come i social network) si mettano in gioco, accettino di essere educate a loro volta.

Fenomeni di devianza minorile10

E’ possibile distinguere due tipologie di minori che compiono reati in gruppo: quelli appartenenti al ceto medio alto, che compiono principalmente reati contro la persona o furti finalizzati all’ottenimento di status symbol e quelli appartenenti ad una fascia socio-culturale disagiata che commettono principalmente reati contro il patrimonio. La partecipazione dei ragazzi “bene” ad azioni devianti di gruppo sembra essere aumentata progressivamente negli ultimi anni. Il loro coinvolgimento in azioni devianti è motivato dal bisogno dei minori di sperimentarne il rischio e goderne il divertimento. Questo perché il contesto familiare di appartenenza presenta complessi livelli di conflittualità relazionale, nonostante non manifesti alcuna problematicità ad un semplice osservatore esterno. I ragazzi commettono reati per essere accettati dal gruppo di apri acquisendo sicurezza e aumentando in questo modo la propria autostima. Assieme alla violenza e all’aggressività si rivela in essi un profondo malessere ed una estrema fragilità. La presenza di una cultura della devianza induce il minore a percepire come perseguibili valori legati al facile e immediato guadagno e come replicabili comportamenti devianti degli adulti. La famiglia e la scuola, importanti agenzie di socializzazione, rivelano noncuranza nei confronti delle difficoltà dei giovani che rimangono spesso inascoltate o minimizzate. Gli stessi mass media influenzano negativamente il comportamento dei minori attraverso la proiezione di modelli di vita scarsamente applicabili alla realtà ed enfatizzando la violenza come aspetto affascinante della vita. Gli studi fanno emergere l’immagine di un minore non ascoltato nelle sue esigenze di sviluppo e non accolto all’interno di una cornice di contenimento emotivo e di approfondimento delle proprie azioni.

10 Dipartimento Giustizia Minorile e C.I.R.M.P.A dell’Università La Sapienza: I gruppi di adolescenti devianti

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Gli adolescenti e le mafie11

Quella che vivono i ragazzi di mafia è un’adolescenza dimezzata. Prima di tutto il ragazzo incontra la proposta di aderire ad una cultura forte, a pochi legami significativi ed esclusivi, che soddisfano la sua domanda di appartenenza. La ricerca di senso trova nutrimento in un complesso di riti, miti e simboli che accompagnano l’iniziazione e contrassegnano il succedersi di tappe evolutive scandite dall’escalation della carriera deviante. Infine il bisogno di autonomia viene soddisfatto incoraggiando atteggiamenti di ribellione nei confronti dello Stato cui si contrappone un’adesione acritica all’organizzazione criminale. Il complesso rapporto madre-figlio nei ragazzi di mafia registra il permanere dell’attaccamento originario, non sostituito, come avviene invece nel normale sviluppo della pubertà, dalla costruzione di nuove relazioni di appartenenza al gruppo dei pari. L’adolescente “mafioso” è un soggetto assai meno ribelle e trasgressivo: il permanere nella condizione di attaccamento originario, infatti, impedisce nel soggetto lo sviluppo di un pensiero autonomo. Le carenze e le deprivazioni più gravi subite da questi soggetti riguardano la sfera delle esperienze affettive, il riconoscimento delle emozioni, la libertà di espressione e di scelta, l’apertura a nuovi incontri, nuove realtà, nuove idee.

Le povertà che arrivano dal mare12

Il nostro Paese, quale ultima frontiera nel Mediterraneo, svolge un ruolo sempre più di primo piano, nell’accogliere migranti provenienti da situazioni di conflitto e guerra civile. Nei primi undici mesi del 2013 oltre 40.000 persone sono sbarcate sulle nostre coste. Di esse 7.928 sono minori, di cui 4.954 non accompagnati, di età compresa trai 13 e i 17 anni, provenienti dall’Egitto, dalla Somalia, dall’Eritrea e soprattutto dalla Siria. Questi flussi migratori hanno messo in evidenza la grave assenza di un sistema nazionale integrato specifico per i minori soli non accompagnati, che sono i più vulnerabili ed esposti al rischio di sfruttamento.

11 Dipartimento Giustizia Minorile e Istituto don Calabria: Mafia Minors 12 SAVE THE CHILDREN: Dossier Minori Migranti in arrivo dal mare - 2013

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12. Allegati

a) Empowerment

Si può affermare, quindi, che la parola “empowerment” si traduce con Impoteramento”, “potenziamento”, “potenzializzazione”, “possibilizzazione”, oppure “responsabilizzazione”. Tuttavia, bisognerebbe specificare che essa significa “accrescere il potere”, “favorire l’acquisizione di potere”, “sviluppare le potenzialità”, “aumentare le possibilità di scelta”, o “rendere l’individuo, oppure il gruppo, in grado d’agire”. Secondo Rappaport, uno dei primi autori che ha tentato di definire questo concetto, riferito al modello personale, per “empowerment” s’intende “l’accrescere della possibilità dei singoli e dei gruppi di controllare in modo attivo la propria vita”. Questa, che può essere considerata la prima globale definizione di “empowerment”, negli anni è stata perfezionata ed arricchita con maggiori dettagli dall’autore stesso e da altri teorici. Un riferimento certo è don Milani e la sua opera educativa.sacerdote ed educatore, fondatore ed animatore del primo ed unico tentativo di scuola a tempo pieno, espressamente rivolto alle classi popolari, ed esempio italiano di messa in pratica dei principi dell’empowerment nel contesto educativo. La sua difesa della libertà di coscienza ed i suoi progetti di riforma scolastica si legano con la scelta radicale d’essere dalla parte degli ultimi. Infatti, egli, denunciando la natura elitaria dell’istituzione scolastica italiana, giunge a rivoluzionare completamente il ruolo dell’educatore, proponendo nuovi obiettivi e strumenti che potessero abbracciare nel concretobisogni dei ceti meno abbienti. Don Milani, comunque, non limitava il suo lavoro all’ambito scolastico, poiché promuoveva azioni all’interno della comunità allargata, nella quale viveva, per progetti rivolti all’utilità comune, come la formazione, i laboratori, la strada e l’acquedotto. Secondo lui l’educatore che lavorava con i giovani, o con gli adulti, con loro doveva instaurare un vero e proprio patto di fiducia ed alleanza, proponendo la pedagogia dell’aderenza, ovvero dell’istruzione che parte dal contesto di vita, nel quale l’allievo organizzava e costruiva la propria conoscenza. Quindi, secondo lui, l’educatore doveva trasformarsi da trasmettitore di conoscenze a costruttore di schemi logici e contesti flessibili, ovvero di intrecci di idee e fatti idonei a produrre apprendimento. Freire, invece, col suo noto lavoro “Pedagogia dell’oppresso”, è l’esempio più importante dell’utilizzo del concetto del “empowerment” in pedagogia. Il suo intento era quello di far superare la sensazione d’impotenza ai più poveri, attraverso l’educazione, per renderli liberi. La suddetta liberazione, secondo Freire, avveniva in seguito a due fasi: 1) la presa di coscienza critica, la quale risulta essere stata il cuore dell’azione dell’autore in esame e che si basa, prevalentemente, sulla consapevolezza dell’essere considerati degli oggetti da chi ha il potere e, quindi, d’essere degli oppressi; 2) la pratica, ovvero l’attività di creazione e cambiamento, la quale include l’autodeterminazione, che è opposta alla coercizione, l’intenzionalità, opposta alla reazione, e la creatività, opposta all’omologazione. Insieme agli insegnamenti di base, come la lettura e la scrittura, egli, attraverso i suoi metodi didattici, faceva passare il messaggio che tutti hanno il diritto di dire la loro sulle decisioni che li riguardano. Quindi, l’aumento delle conoscenze e delle abilità individuali è per Freire presupposto necessario per promuovere il cambiamento e lo sviluppo e per facilitare una maggiore qualità della vita. Il percorso che lui proponeva passava per tre vie fondamentali: 1) l’ascolto, per comprendere temi irrisolti e problemi; 2) il dialogo partecipato, con un approccio di scoperta del problema; 3) la messa in atto delle azioni identificate dalla comunità, per risolvere i problemi individuati, durante il dialogo di gruppo.

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b) Il progetto Michele Magone

Il TEMA DELLA DISPERSIONE e LA SCOMMESSA DELL’INCLUSIVITA’

Il fenomeno della dispersione scolastica è un problema vasto e composito che affonda le sue radici nel tema del disagio in epoca di grandi cambiamenti.

La scuola, come luogo privilegiato dell’incontro tra società e minori vive direttamente l’esperienza dei grandi cambiamenti culturali che si riflettono sui comportamenti giovanili e si trova quindi a fare i conti, oggi più che mai, con la distanza che si è creata tra la cultura dei giovani e quella della scuola.

Prima ancora che essere un conflitto tra sistemi di valori diversi che si può tranquillamente inserire nel tradizionale e ben più ampio, difficile ma fisiologico rapporto tra generazioni, è un conflitto tra modelli di intelligenza; la scuola si basa sull'intelligenza sequenziale che oggi sembra entrare in crisi per il ritorno dell'intelligenza simultanea, più adatta all'immagine che all'alfabeto.

Questa difficoltà di incontro tra la cultura dei giovani e la cultura della scuola ha evidentemente conseguenze particolarmente pesanti sui giovani provenienti dagli ambienti familiari culturalmente più poveri e finisce per tradursi spesso in non comunicazione e disadattamento. Non bisogna mai dimenticare però che il disadattamento è un concetto relativo, si è sempre disadattati rispetto ad un certo contesto, una certa situazione, ma non rispetto ad un’altra. E’ necessario quindi che la scuola sappia “costruire” le situazioni adatte ad accogliere tutti e che permettano a tutti di entrare in relazione con essa.

Questa la scommessa della scuola “media” statale all’interno del Centro Salesiano. Inizialmente nata come scuola per convittori e semi-convittori, si propone oggi di aprire le porte all’esterno, forte di un’esperienza pluriennale di recupero della dispersione in ambito di situazioni di disagio pesante, si rinnova dal prossimo anno scolastico con l’obiettivo ambizioso di accogliere tutta quella area di disagio che, seppure non appartenente alla sola esperienza del convitto e del semi-convitto, non trova collocazione nella scuola secondaria di primo grado come tradizionalmente intesa.

PROGETTO “MICHELE MAGONE” - PERCHE’ MICHELE MAGONE?

Michele è solo uno dei tanti ragazzi che hanno accompagnato don Bosco nel suo straordinario cammino, in questa avventura che arriva fino ai nostri giorni, che continua accompagnando i nostri ragazzi. Don Bosco, meglio di chiunque altro, ha saputo concretizzare la parola “personalizzazione”, spinto da valori e obiettivi apparentemente semplici come quello di far divenire ogni ragazzo un “onesto cittadino e buon cristiano” sapeva scoprire in ognuno capacità e potenzialità fino a quel momento inespresse. Così è stato anche per Michele Magone, allora capo di una banda, i banditi della Mano Nera. Mentre don Bosco era alla stazione in attesa del suo treno intravede una sfida fra bande e quando si avvicina l’unico a non correre via è proprio il loro capo, Michele. Don Bosco, che interroga per la prima volta quel giovane interrotto durante questa disputa tra bande, si rivolge a lui per ben due volte usando l’aggettivo “bravo”; prima con “bravo Michele” e poi “il mio bravo generale”. Michele, il cattivo, diviene proprio grazie a questa rabbia, che lo fa emergere sugli altri, bravo agli occhi di don Bosco. Il leader dei

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banditi grazie alla forza e alla rabbia diverrà in seguito il leader dell’oratorio, non abbandonando le proprie caratteristiche ma investendole diversamente. E’ per questo che abbiamo scelto di dare il nome di Michele a questo progetto; è a questo che miriamo, cerchiamo di non sopprimere le caratteristiche proprie dei ragazzi ma di aiutarli a trovare nuovi modi di investirle, modi creativi, pratici ma soprattutto positivi.

A chi si rivolge il progetto Michele Magone

A quelli che … a undici anni non sanno né leggere né scrivere;

a quelli che … a scuola disturbano;

a quelli che … tante bravate;

a quelli che … picchiano i compagni;

a quelli che … ripetono tre volte la prima media;

a quelli che … i genitori non se ne (pre)occupano;

a quelli che … i servizi sociali hanno provato di tutto;

a quelli che … a scuola proprio non ci vogliono andare;

a quelli che … perché devo studiare …

Il Progetto è indirizzato a ragazzi provenienti dal territorio, di età compresa tra gli 11 e 15 anni e caratterizzati da:

- Insuccesso scolastico: dovuto a scarsa motivazione allo studio che è causa o conseguenza di difficoltà di apprendimento e di comportamento con il rischio di dispersione scolastica.

- Disagio sociale: ragazzi che faticano a rapportarsi con le norme del vivere aggregato, che frequentano compagnie negative, con rischio di alimentare la microcriminalità sul territorio.

- Disturbi comportamentali / Povertà personale: carenze affettive, contesti familiari disgregati, forte pressione del gruppo con ripercussioni negative sull’autostima e manifestazioni di solitudine.

Quando e dove si realizza il progetto M. Magone

A partire dall’anno scolastico 2014-15 presso la sezione S della scuola secondaria di 1° grado S. Pellico. S sta ad indicare la sezione aggregata presso il Centro Salesiano Don Bosco di Arese in via Don Della Torre.

Il progetto si realizza in una modalità nuova centrata sulla classe e sulla responsabilizzazione dei docenti di classe in stretta sinergia di interventi e collaborazione con gli educatori messi a disposizione dal Centro Salesiano. Nell’immediato l’intervento potrà riguardare al massimo un corso completo di tre classi.

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Il progetto è interamente da costruire con tutti gli interlocutori (docenti, educatori, associazioni e volontariato) che vorranno partecipare alla selezione attraverso bando pubblico e che verranno individuati quali partner per la realizzazione del progetto.

Il presente documento pertanto costituisce l’insieme delle linee guida del progetto che si intende realizzare.

Partecipano alla stesura del presente documento:

l’Istituto Comprensivo Don Gnocchi di Arese - via dei Gelsi 1;

il Centro Salesiano San Domenico Savio di Arese - via Don della Torre 2;

il Comune di Arese – Area servizi alla persona - via Col di Lana;

l’Associazione Maestri di Strada Onlus di Napoli – Presidente Cesare Moreno.

LE FINALITA’

Il progetto è finalizzato a:

- Contenere la dispersione scolastica del territorio

- Formare il cittadino (sapere, saper fare e saper essere)

- Fare acquisire strumenti di base e motivazione nell’apprendere

- Rendere l’alunno operativo in situazioni normali di vita familiare e sociale

- Sviluppare la capacità di rapporti positivi con i pari, gli adulti e le istituzioni

- Fare recuperare fiducia in se stessi, valorizzando le abilità individuali

- Educare all’intercultura

- Orientare alla scelta della Formazione Professionale

OBIETTIVI EDUCATIVI

Il percorso educativo che il ragazzo realizzerà nella scuola secondaria mira a:

- Promuovere il valore della persona come portatrice di risorse e competenze;

- Sostenere il rispetto dei tempi e degli stili individuali di apprendimento di ciascuno alunno;

- Valorizzare la relazione educativa e promuovere la collaborazione.

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OBIETTIVI DIDATTICI per il raggiungimento delle competenze così come declinate nelle Indicazioni Nazionali per il curricolo del Primo Ciclo di Istruzione,

Verranno delineati, come in ogni scuola secondaria di primo grado, in fase di programmazione delle unità di apprendimento da parte dell’equipe pedagogica di riferimento di ogni classe

METODOLOGIA E STRATEGIA DIDATTICA

La didattica frontale tradizionale è ridotta a poche ore, in quanto si tratta di ragazzi con alle spalle un fallimento scolastico e con tempi di attenzione ridotti. Pertanto, l’attività didattica si incentra su:

- Attività pratico-operativo e manuali (Compiti di realtà);

- Lavori per sottogruppi, sulla base delle singole abilità e percorsi condivisi con le Associazioni che si candideranno ad essere partner (Polizia Locale, Biblioteca Comunale …);

- Percorsi Educativi Individualizzati e Piani di Studio Personalizzati;

- Laboratori didattici (da definire tra: espressività corporea, cittadinanza, informatica, scrittura creativa, cineforum, clownerie, musica, orto, spray art, nuoto, cucina, pesca, arrampicata e tornei sportivi …).

Attraverso le specifiche Competenze Disciplinari (Asse dei linguaggi, Asse matematico, Asse scientifico – tecnologico, Asse storico – sociale, Asse Artistico – Musicale, Asse dell’Educazione motoria e comunicazione corporea), il docente, in stretta sinergia con l’organico educativo, valorizza il ragazzo attraverso i suoi risultati in itinere, ponendo attenzione alla persona ed offrendogli la conoscenza e la padronanza di contenuti di base, indispensabili per essere un cittadino competente, che sappia progettare se stesso con ricchezza etica, padronanza tecnica e gusto estetico.

Obiettivi minimi essenziali sono:

- abilitare all’uso della lingua orale e scritta, mediante situazioni reali (parlare, leggere, raccontare, scrivere, riferire, recitare, ecc.)

- Abilitare all’uso del processo logico-matematico

- Sviluppare la capacità di stabilire buone relazioni

STRUMENTI DIDATTICI

Nella “nostra” scuola non si adoperano libri di testo né si affidano compiti a casa, ma ogni ragazzo durante l’anno scolastico crea il suo libro individuale, raccogliendo i materiali cartacei

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e non, messi a disposizione dai docenti e dagli educatori, imparando ad archiviare i materiali, a progettare, a collaborare ed a rispettare i tempi di lavoro.

Ogni aula è dotata di una LIM con collegamento internet, i laboratori (arte, musica, tecnica, cucina, informatica) e le strutture che il Centro offre: orto, palestra, campi da calcio, campo di basket, piscina, teatro e una sala studio.

Il favorevole rapporto numerico tra insegnanti ed alunni, l’organizzazione oraria e le compresenze, consentono di seguire con particolare attenzione i percorsi di apprendimento di ogni alunno anche attraverso l’attività di tutoraggio.

LA GIORNATA TIPO

8.00 – 8.30 Buongiorno, tenuto dal Coordinatore educativo in aula studio, assieme a tutti i ragazzi della scuola

8.30 – 9.10

9.10 – 9.50 Lezione

9.50 – 10.30

10.30 – 11.00 Intervallo (all’aperto o in sala giochi, in base alle condizioni climatiche) organizzato da figure educative presenti durante lo svolgimento delle attività

11.00 -11.50

11.50 – 12.30 Lezione

12.30 – 13.00 Pranzo presso la mensa del centro salesiano, assieme agli educatori del Centro Salesiano

In alcuni giorni della settimana l’orario scolastico durerà sino alle 16.00 con la seguente modalità:

13.00 – 14.00 Intervallo (attività di gioco libero organizzata assieme agli educatori)

14.00 – 16.00 Lezione

All’interno delle lezioni lo studente avrà a che fare sia con le classiche materie scolastiche (italiano, storia, matematica, inglese...) sia con diversi laboratori che gli permetteranno di esprimere tutta la propria creatività e inventiva.

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Risorse

Il progetto prevede l’utilizzo delle seguenti risorse:

1. figura degli esperti

2. figura degli educatori

3. figura dello psicologo o psicopedagogista

4. 10 visite di istruzione

5. materiali per i laboratori

6. mensa

Chi sono e cosa fanno gli esperti

Esperti per lo sviluppo delle discipline

Gli esperti sono insegnanti (con abilitazione all’insegnamento nelle classi di concorso individuate a bando) che hanno sperimentato una didattica attiva con giovani poco motivati e con scarse competenze di base. Per didattica attiva si intende una didattica partecipata, cooperativa, dialogica, lenta. Essi possono realizzare le modalità attive in quanto:

hanno a disposizione il tempo per preparare ed organizzare i materiali sono coadiuvati dagli educatori lavorano per piccoli gruppi sviluppano la disciplina in modo contestualizzato tenendo conto di angoli visuali

particolari che vanno incontro alla richiesta di significato da parte degli allievi (per esempio non scrittura solo ma “scrittura di un giornale”, non storia ma ‘storia attraverso la musica’ etc.) per questo motivo il loro lavoro non può essere sostitutivo di quello col docente di classe, ma deve essere integrativo di questo in quanto ha la possibilità di andare incontro alle esigenze dei giovani.

Le unità didattiche da realizzare saranno quindi progettate con il docente per renderle coerenti con lo sviluppo della sua programmazione.

Adottano i tempi lenti dell’apprendimento: poiché il loro compito principale è quello di riattivare i processi di apprendimento in giovani demotivati, i tempi sono necessariamente scanditi dal percorso degli allievi.

Esperti di laboratori artistici, artigianali, professionali

Questi esperti portano le competenze proprie di un’arte o di un mestiere. I laboratori di questo tipo possono avere un grande valore sia per orientare i giovani sia per esplorare altre forme di intelligenza di cui essi sono portatori. Sulla validità di questi interventi è inutile dilungarsi. Qui rileviamo che essi possono essere attivati solo se gli insegnanti delle diverse discipline hanno individuato un percorso per riportare queste esperienze anche all’interno del percorso disciplinare.

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Prove e verifiche.

Nella programmazione dei moduli didattici saranno previste prove intermedie e/o finali organizzate con il docente di classe e con una votazione che viene riportata nel registro di classe.

In accordo con i docenti di classe si potrà attivare un sistema di visibilità dei crediti formativi creando dei bonus che saranno applicati dal docente di classe in un’apposita griglia di raccolta. In tal modo per l’alunno sarà ancora più chiara la connessione tra le attività svolte nell’ambito del progetto e le attività didattiche ordinarie.

Chi sono e cosa fanno gli educatori

Gli educatori sono professionisti con laurea in scienze dell’educazione o psicologia oppure educatori sociali con lunga esperienza e percorsi di formazione centrati sul tirocinio con gli altri educatori in situazione.

Cosa fanno gli educatori?

- Presidiano e governano le dinamiche Gruppo-Individuo;

- Presidiano e mediano i passaggi tra tempi diversi, diversi spazi sociali e diversi spazi organizzativi

- Per mediazione si intende una operazione culturale e pedagogica consistente nel trovare spazi intermedi tra attività e posizioni diverse. Spazi intermedi sono quelli dell’accoglienza mattutina, quello della mensa o della ricreazione, quello del circle time o anche quello del colloquio individuale quando serve. In alcuni casi, in presenza di conflitti la mediazione può anche consistere nel creare spazi/tempo di raffreddamento.

- Accompagnano questi passaggi fisicamente ma anche e soprattutto fornendo supporto emozionale a giovani che in ogni passaggio trovano difficoltà e si lasciano andare ad agiti rinunciatari o aggressivi;

- Grazie alle possibilità di ascolto personale e di sistematico dialogo anche fuori del contesto scolastico mettono in campo la funzione fondamentale del contenimento;

- Rinforzano la fiducia, l’autostima e le relazioni; attraverso segnali meta-comunicativi Fanno sentire ad ogni ragazzo che “esiste” ed è unico;

- Lavorano in modo tale da organizzare la collaborazione attraverso il lavoro in piccoli gruppi. La sua caratteristica fondamentale è il lavoro collaborativo: tutti i partecipanti devono avere la consapevolezza di essere inseriti in un contesto significativo, in una impresa dotata di senso e non solo in una fatica ripetitiva. Metaforicamente diciamo che questa è la differenza che passa tra chi sente solo muratore e chi si sente ‘costruttore di cattedrali’.

- Infine gli educatori curano la relazione con il contesto sociale anche con attività esterne ed indipendenti dalla scuola.

Chi sono e cosa fanno gli osservatori

Gli osservatori sono psicologi, tirocinanti o volontari. Gli osservatori sono impiegati nelle attività di gruppo (con docenti e/o alunni) in cui è utile la produzione di un protocollo osservativo.

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Affidare la funzione osservativa ai giovani in formazione è fondamentale per due motivi:

- Favorisce il loro inserimento graduale, in modo da dargli la possibilità di imparare “osservando in situazione” i colleghi con maggiore esperienza;

- Il loro sguardo “ingenuo” e non “professionale” risulta meno invasivo, in quanto appare chiaramente la loro volontà di “assorbire conoscenza”.

Cosa fanno gli osservatori?

- Forniscono una memoria storica del gruppo (con le varie fasi che esso affronterà)

- Restituiscono di volta in volta una narrazione dell’incontro precedente, elaborata dalla propria soggettività.

- Garantiscono la funzione del gruppo, sviluppando i pensieri del gruppo stesso.

- Le osservazioni rappresentano il punto di partenza per ogni nuovo incontro.

Come si attiva il progetto

Queste linee guida, corredate di ogni altro necessario chiarimento, sono adottate dal collegio dei docenti.

I docenti delle classi interessate ad una possibile adesione (selezionati attraverso bando ad evidenza pubblica) partecipano alla progettazione esecutiva insieme agli operatori di Maestri di strada. Al termine della formazione/progettazione formalizzano – se confermata – la propria adesione firmando il progetto ed il patto di collaborazione relativo.

Nelle classi che hanno adottato il progetto si realizzano insieme ai docenti e secondo procedure stabilite in sede di progettazione un minimo di 4/6 ore settimanali riservate a:

- la programmazione ed ai suoi adeguamenti,

- la supervisione del lavoro di progettazione/programmazione,

- l’incontro con gli allievi atto a rilevare le loro necessità educative e le risorse personali che sono disposti ad attivare.

Infine sono previsti incontri di “conversazione con i genitori/educatori per gli studenti convittori e semi-convittori” degli alunni delle classi inserite nel progetto. Lo scopo di questi incontri è prima di tutto presentare nel dettaglio il progetto, le figure degli educatori e degli esperti, ma anche quello di creare uno spazio accogliente di sostegno alla genitorialità/al processo educativo, in cui i genitori/educatori di comunità possano far sentire la propria voce portando le proprie domande e perplessità, al fine di creare le condizioni per un’alleanza educativa.

Tali attività (con docenti, alunni e genitori) saranno particolarmente intensive durante la fase di attivazione del progetto, e continueranno poi per tutto l’anno scolastico con cadenza stabilita successivamente.

Passata la fase della progettazione partecipata estesa anche agli allievi e alle famiglie, cominciano le attività vere e proprie.

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TUTTO QUESTO CON IL MACRO-OBIETTIVO DI CONTRIBUIRE ALLA FORMAZIONE DI UNA COSCIENZA CIVICA E DI UNA EDUCAZIONE ALLA TOLLERANZA

Sviluppare la volontà di partecipazione e capacità di collaborazione; Imparare a interagire adeguatamente e rispettosamente con i coetanei e con le figure

adulte; Prendere coscienza delle regole della vita comunitaria e della loro importanza; Mantenere un comportamento corretto e non violento in ogni contesto; Sapere valutare atteggiamenti e scelte comprendendone le motivazioni; Sviluppare una adeguata autonomia di pensiero, per affrontare con consapevolezza le

varie situazioni; Sviluppare la capacità di accettare idee diverse dalle proprie; Accettare e comprendere le conseguenze delle proprie scelte; Assumersi le proprie responsabilità; Utilizzare gli errori per apprendere e migliorare; Sviluppare la capacità di autocontrollo; Superare l’incertezza di fronte a ciò che cambia in sé e nella vita; Approfondire la conoscenza e l’accettazione di sé, rafforzando l’autostima; Maturare il senso della collaborazione con gli altri condividendo spazi, materiali per

adoperarsi a realizzare un obiettivo comune; Essere disposti a rivedere le proprie opinioni; Relazionarsi correttamente con gli altri prestando ascolto durante le comunicazioni,

rispettando un ordine di intervento e maturando un atteggiamento di apertura al dialogo costruttivo e allo scambio critico.

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c) Il sistema Preventivo

Il testo, scritto da Don Bosco e pubblicato per la prima volta nell’agosto 1877, per esporre al pubblico gli orientamenti generali del proprio sistema educativo, venne subito inserito fra i regolamenti salesiani, diventando così un testo fondamentale per gli educatori. Se molti dei suoi contenuti, per un moderno lettore, possono apparire scontati, non lo erano affatto all’epoca in cui Don Bosco propose il suo itinerario educativo.

BRAIDO P., Don Bosco educatore scritti e testimonianze, 3a ed. (Fonti, Serie prima, 9), LAS, Roma 1997, 363-271.

Più volte mi fu chiesto di esprimere verbalmente o per iscritto alcuni pensieri intorno al cosiddetto sistema preventivo, che siamo soliti usare nelle nostre case. Per mancanza di tempo non ho potuto abbiamo quasi sempre usato, credo opportuno darne qui un cenno che sarà come l’indice di un’opera che sto preparando, se Dio mi darà tanto di vita da poterla terminare, e ciò unicamente per favorire la difficile arte dell’educazione giovanile. Dirò dunque in cosa consista il Sistema Preventivo, perché lo si debba preferire, la sua pratica applicazione e i suoi vantaggi.

1. In cosa consista il Sistema Preventivo e perché sia da preferire.

Due sono i sistemi in ogni tempo usati nell’educazione della gioventù: preventivo e repressivo. Il sistema repressivo consiste nel far conoscere la legge ai dipendenti, e poi sorvegliarli per individuarne i trasgressori ed infliggere, ove sia necessario, la giusta punizione. Con questo sistema le parole e l’aspetto del superiore devono essere sempre severe, e piuttosto minacciose, ed egli deve evitare ogni familiarità con i dipendenti.

Il direttore per accrescere la sua autorità deve trovarsi di rado tra i suoi soggetti e per lo piú solo quando si tratta di punire o minacciare. Questo sistema è facile, meno faticoso e serve specialmente nel mondo militare e in genere tra le persone adulte e mature, che sono in grado di conoscere e ricordare ciò che è conforme alle leggi e alle altre prescrizioni. Diverso e direi opposto è il sistema preventivo. Esso consiste nel far conoscere le prescrizioni e i regolamenti di un istituto e poi sorvegliare in modo che gli allievi abbiano sempre su di loro l’occhio vigile del direttore o degli assistenti, che come padri amorosi parlino, servano di guida ad ogni evento, diano consigli e correggano amorevolmente, che equivale a porre gli allievi nell’impossibilità di commettere mancanze.

Questo sistema poggia tutto sopra la ragione, la religione, e l’amorevolezza; perciò esclude ogni punizione violenta e cerca di tenere lontano anche le punizioni lievi. Sembra che questo sia preferibile per le seguenti ragioni:

1. L’allievo preventivamente avvisato non viene avvilito per le mancanze commesse, come succede quando esse vengono deferite al superiore, né si adira per la correzione ricevuta o per la minaccia o l’imposizione della punizione, perché in esso vi è sempre un preavviso amichevole che lo motiva, e per lo più riesce a guadagnarne il cuore, cosicché egli comprende la necessità della correzione e quasi la desidera.

2. La ragione più essenziale è la volubilità giovanile, che dimentica facilmente le regole disciplinari e le punizioni che esse prevedono. Perciò spesso un giovane si rende colpevole e meritevole di una punizione, cui non ha mai badato, che non ricordava affatto durante l’infrazione e che avrebbe certamente evitato se una voce amica l’avesse ammonito.

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3. Il sistema repressivo può impedire un disordine, ma difficilmente rende migliori i colpevoli; si è osservato inoltre che i giovani non dimenticano le punizioni subite, e per lo più conservano l’amarezza cercando di liberarsi dalle imposizioni e anche di vendicarsene. A volte sembra che non ci badino, ma chi conosce le loro vicissitudini sa che i ricordi di gioventù sono terribili; e che se si dimenticano facilmente le punizioni dei genitori, molto difficilmente si scordano quelle degli educatori. Vi sono alcuni che in vecchiaia si vendicarono in modo brutto di certe punizioni legittimamente inflitte dai loro educatori. Al contrario il sistema preventivo rende amico l’allievo, che nell’assistente vede un benefattore che lo consiglia, vuol farlo buono, liberarlo dai dispiaceri, dalle punizioni e dal disonore.

4. Il sistema preventivo forma l’allievo in modo tale che l’educatore possa sempre parlare col linguaggio del cuore sia nell’educare, sia in ogni altro momento. L’educatore, guadagnato il cuore del suo allievo, potrà esercitare su di lui una grande influenza, istruirlo, consigliarlo e anche correggerlo perfino quando diventato adulto è avrà un lavoro. Per queste e per molte altre ragioni pare che il sistema preventivo debba prevalere su quello repressivo.

2. Applicazione del sistema preventivo.

La pratica di questo sistema è basata sulle parole di san Paolo che dice: Charitas benigna est, patiens est; omnia suffert, omnia sperat, omnia sustinet. La carità è benigna e paziente; soffre tutto, spera tutto e tutto sostiene. Perciò soltanto il cristiano può applicare con successo il sistema preventivo. Ragione e religione sono gli strumenti di cui deve costantemente far uso l’educatore, egli stesso deve insegnarli e praticarli se vuol essere assecondato e raggiungere il suo scopo.

1. Il direttore perciò deve essere votato ai suoi allievi, né mai assumere impegni che lo allontanino dal suo compito, anzi deve stare sempre con i suoi allievi tutte le volte che non sono necessariamente occupati in qualche lavoro, eccetto che non siano debitamente assistiti da altri.

2. I maestri, gli istruttori e gli assistenti devono avere una moralità provata. Devono evitare tassativamente ogni sorta di parzialità o predilezioni tra gli allievi, ricordando che la corruzione di uno solo può compromettere un intero luogo di formazione. Bisogna fare in modo che gli allievi non siano mai soli. Per quanto è possibile gli assistenti devono precederli nel luogo di riunione, devono stare con loro fino a che non siano seguiti da altri e non devono mai lasciarli privi di occupazione.

3. Occorre dar loro ampia libertà di saltare, correre, far festa a piacimento. Lo sport, la musica, la lettura, la recita, le passeggiate sono mezzi efficacissimi per ottenere la disciplina, favorire la moralità e la salute fisica e spirituale. L’importante è che il divertimento, le persone che vi partecipano e i discorsi non siano cattivi. Fate tutto quello che volete, diceva il grande amico dei giovani san Filippo Neri, a me basta che non facciate peccati.

4. La confessione frequente, la comunione frequente, la messa quotidiana sono le colonne che devono reggere un edificio educativo da cui si vuole tener lontana ogni minaccia e punizione. Non bisogna mai obbligare i giovani a frequentare i sacramenti, ma solo incoraggiarli e dar loro la possibilità di approfittarne agevolmente. In caso di esercizi spirituali, novene, prediche e catechesi si faccia rilevare la bellezza, la grandezza, la santità di quella religione che propone dei mezzi così pratici, così utili al bene comune, alla serenità del cuore, alla salvezza dell’anima, come sono appunto i sacramenti. È così che i giovani saranno spontaneamente invogliati a ricercarli e vi si accosteranno volentieri con piacere e con frutto.

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5. Si deve vigilare con la massima diligenza affinché nell’istituto non siano introdotti compagni, libri o altre persone che siano motivo di cattivo esempio. La scelta di un buon portinaio è importante per un luogo di formazione.

6. Ogni sera dopo la preghiera, e prima che gli allievi vadano a riposo, il direttore, o chi per lui, rivolga a tutti alcune parole affettuose dando qualche avviso, o consiglio sulle cose da fare o da evitare, cercando di ricavare insegnamenti concreti dai fatti del giorno accaduti nell’istituto o fuori; il discorso tuttavia non oltrepassi mai i due o tre minuti. Questa è la chiave della moralità, del buon andamento e del successo di ogni impegno educativo.

7. Si eviti come la peste l’opinione di alcuni che vorrebbero differire la prima comunione dei più giovani ad una maggiore età, quando i vizi e le debolezze hanno conquistato il cuore di un giovane con un danno incalcolabile per la sua innocenza. Nella Chiesa antica si era soliti dare ai bambini le ostie consacrate che avanzavano dopo la comunione pasquale. Questo serve a farci conoscere quanto essa ami che i giovani siano ammessi per tempo alla Comunione. Quando un bambino sa distinguere tra pane e pane e dimostra sufficiente istruzione non si badi più all’età e venga il Sovrano Celeste a regnare in quell’anima benedetta.

8. I catechismi raccomandano la comunione frequente, san Filippo Neri la consigliava ogni otto giorni e anche più spesso. Il Concilio di Trento insegna chiaramente che desidera enormemente che ogni cristiano quando partecipa alla Messa faccia anche la comunione. Essa tuttavia non deve essere solo spirituale, ma sacramentale, affinché si ricavi maggior frutto da questo nobile e divino sacrificio. (CONCILIO TRID. sess. XXII, cap. VI).

3. Utilità del sistema preventivo.

Alcuni dicono che questo sistema è difficile da mettere in pratica. Osservo che per gli allievi è decisamente piú facile, piú soddisfacente e piú vantaggioso. Da parte degli educatori comporta alcune difficoltà, che però si attenuano, se essi lavorano con zelo. L’educatore è un individuo votato al bene dei suoi allievi, perciò deve essere pronto ad affrontare ogni ostacolo, ogni fatica per conseguire il suo scopo, che è la formazione civile, morale e scientifica dei suoi allievi.

Oltre ai vantaggi sopra esposti aggiungo ancora che:

1. L’allievo avrà sempre rispetto verso l’educatore e ricorderà sempre con piacere la formazione ricevuta, considerando tuttora quali padri e fratelli i suoi maestri e gli altri superiori. Là dove vanno questi allievi sono per lo piú la consolazione della famiglia, validi cittadini e buoni cristiani.

2. Qualunque sia il carattere, l’indole e lo stato morale di un allievo all’epoca della sua accettazione, i parenti possono stare sicuri che il loro figlio non potrà peggiorare e si può dare per certo che otterrà sempre qualche miglioramento. Anzi, dei giovani che per molto tempo sono stati il tormento dei loro parenti, essendo rifiutati perfino dalle case di correzione, una volta formati secondo questi principi hanno cambiato indole e carattere, conducendo una vita dignitosa, e attualmente occupano posti di riguardo nella società, offrono sostegno alla propria famiglia e sono l’orgoglio del paese in cui vivono.

3. Gli allievi che per caso entrassero in un istituto con tristi abitudini non possono danneggiare i loro compagni. Né i giovani seri potranno ricevere da loro alcun danno, poiché non c’è né il tempo, né il luogo, né l’opportunità, considerato che l’assistente, che si suppone presente, vi porrebbe subito rimedio.

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Una parola sulle punizioni.

Quale regola seguire nell’infliggere le punizioni? Dove è possibile, non si faccia mai ricorso alle punizioni; dove poi la necessità lo richiede, si osservi quanto segue:

1. L’educatore tra gli allievi deve cercare di farsi amare, se vuole farsi temere. In questo caso togliere la benevolenza sarà una punizione, ma una punizione che eccita l’emulazione, infonde coraggio e non avvilisce mai.

2. Fra i giovani costituisce una punizione quella che viene considerata come tale. Uno sguardo poco amorevole su alcuni produce maggior effetto di uno schiaffo. La lode, quando una cosa è ben fatta, o il rimprovero, in caso di trascuratezza, sono già un premio o una punizione.

3. Eccetto casi rarissimi, le correzioni e le punizioni non devono mai essere inflitte in pubblico, ma privatamente, in assenza dei compagni, usando la massima prudenza e pazienza per far sí che l’allievo comprenda il suo sbaglio con la ragione e con la religione.

4. Qualsiasi ricorso alla violenza va assolutamente evitato, perché è proibito dalla legge, irrita grandemente i giovani e avvilisce l’educatore.

5. Il direttore deve far conoscere bene le regole, i premi e le punizioni stabilite dalle norme di disciplina, in modo che l’allievo non si possa scusare dicendo: non sapevo che ciò fosse comandato o proibito.

Se nei nostri luoghi di formazione si metterà in pratica questo sistema, credo che si potranno ottenere grandi vantaggi senza ricorrere né alla violenza, né ad altre punizioni. Da circa quarant’anni lavoro con i giovani, e non ricordo d’aver mai usato punizioni di alcun genere, e con l’aiuto di Dio ho sempre ottenuto non solo quanto era giusto, ma anche quello che semplicemente desideravo, e ciò anche da quei giovani, nei quali sembrava persa ogni speranza di buona riuscita.

Sac. Giovanni Bosco