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VERSO LA PASQUA da credenti nella storia degli uomini ACLI Bergamo

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VERSO LAPASQUA

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QUARESIMA2016

BERGAMO

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NEL CUORE DEL MONDORACCOGLIERSI PER LA LODE.

NELLA NOTTECIRCONDANDOSI DI SILENZIO.

ESSERE NELLA CITTÀ

SENTINELLE CHE APRONO IL LIBROPER ESSERE DISCEPOLI IN AGGUATO

DI UNA PAROLA, DI UN SEGNO.

SEGUIRE CRISTOE ABITARE TRA GLI UOMINI.

TUTTO LASCIAREPER ACCOGLIERE IL POVERO. TENERE LA PORTA APERTA

A COLUI CHE TI CERCA.POTER INTENDERE TUTTI I PECCATI

E VIVERE DA FRATELLI.

NELLO STRANIEROSENTIRE I TUOI PASSICHE SI AVVICINANO.

CONDIVIDERE IL SAPERE E IL PANE.NELLA DIFFERENZA

TENDERE LA TUA MANO VERSO L’ALTRO.INSEGNARE AI BAMBINI CHE IN CIELO

DIO SOLAMENTE È GIUDICE.

VIVERE SENZA PAURANELLA CITTÀ ATTRAVERSATA DA VIOLENZA.

ABITARE UNA CASA DI PACE.

TRADURRE IN PAZIENZAIL DESIDERIO DEL REGNO.

COSÌ NELLA DOLCEZZA

DELLO SPIRITO IL TUO GIORNO SI LEVA.

In copertina: Carlo Previtali, Cristo Patiens, ceramica raku, dim. cm 242 x 45 x 42, 2011

ACLI BergamoVia San Bernardino, 59 - Bergamo

Tel. 035 [email protected]

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RINFRANCATE I VOSTRI CUORI!

Carissimi,anche quest’anno introduco con piacere il libretto, prepa-rato con cura dalle ACLI, che accompagnerà la quotidiana preghiera dei lavoratori e delle famiglie durante il tempo di Quaresima. Un tempo liturgico importante che ci pre-para a vivere il cuore della vicenda cristiana: la passione, morte e resurrezione di Gesù di Nazareth. E come sempre la storia dei cristiani è intrecciata con la storia degli uo-mini del tempo. Per questo non posso non notare come celebriamo questo inizio di Quaresima ancora in un cli-ma di diffusa insicurezza: sociale, economica e lavorativa. Dobbiamo riconoscere che l’insicurezza diffusa ha avuto tra le sue radici quella dell’indifferenza. Un’indifferenza pigra, ottusa. Un’indifferenza che abbiamo eretto a difesa dei nostri piccoli o grandi egoismi. Un’indifferenza che pa-radossalmente è stata stravolta assumendo il volto della insicurezza e rischiando di diventare il grembo di senti-menti violenti che non pensavamo potessero albergare nei nostri cuori.Più volte papa Francesco ci ha invitato a vincere l’insicu-rezza scardinando l’indifferenza e “rinfrancando i nostri cuori”. È a partire dal cuore che può avviarsi un movimen-to che vince l’insicurezza, scardinando l’indifferenza e aprendoci nonostante tutto alla speranza. Che cosa significa rinfrancare i nostri cuori? Significa es-senzialmente dar forma al cuore attraverso tre atteggia-

menti: la compassione, la comprensione, la condivisione.La compassione che nasce innanzitutto dall’accogliere il dono di Dio. Dice l’Apostolo: “Lasciatevi riconciliare con Dio”. Lasciate che questo dono di Dio raggiunga il vostro cuore, il centro del vostro cuore, la profondità del vostro cuore. Accogliete il dono di Dio. Rinnovate la nostra fede nel dono misericordioso di Dio. Lasciatevi trasformare da quell’Eucaristia alla quale partecipate. Il dono di Dio che ci viene comunicato nell’Eucaristia - particolarmente nell’Eucaristia comunitaria della domenica - nel momento in cui viene accolto, ci trasforma, rinfrancando il nostro cuore e dandogli la forma della compassione. Compassio-ne che - non dimentichiamo - è una sofferenza condivisa con gli altri. È una sofferenza assunta per la sofferenza de-gli altri: sofferenze che stanno nella nostra famiglia, sof-ferenze dei più deboli, dei malati piccoli o grandi, degli anziani, sofferenza di chi in questo momento è smarrito, sofferenza di chi si sente per tante ragioni escluso. Questa compassione, questo soffrire con chi soffre, è una grande forza. Rinfrancate i vostri cuori dando al vostro cuore, che accoglie il dono di Dio, la forma di questo dono, la forma della compassione di Dio. Rinfrancate i vostri cuori assumendo la forma della com-prensione. Comprendere ha molto a che fare con l’ab-bracciare, col prendere tutto di chi sta accanto a noi. È veramente la rappresentazione della misericordia. La com-prensione non è giustificazione, non è un lasciar andare le cose, ma è veramente l’esercizio della misericordia. Il Papa

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ce lo ha ripetuto: “Le nostre comunità diventino isole di misericordia nell’oceano dell’indifferenza”. Se mi posso permettere di aggiungere una parola a quella del Papa: le nostre comunità diventino narrazioni della misericor-dia, che riconosciamo anche fuori delle nostre comunità. Dobbiamo essere capaci di riconoscere questi frammenti di misericordia, di restituirli, di raccontarli. I nostri cuori si rinfrancano attraverso l’esercizio della misericordia che prende i tratti della comprensione. E finalmente, rinfrancate i vostri cuori attraverso il rico-noscimento del limite di cui ciascuno di noi è portatore, cominciando dal limite radicale del peccato, disponen-doci alla condivisione. Gesù spezzò il pane e il Profeta ci dice: “spezza il tuo pane con l’affamato”. A volte il nostro è solo un boccone di pane, non ci è rimasto molto, per mil-le ragioni. La strada per vincere l’insicurezza scardinando l’indifferenza è quella della condivisione, a partire dalla coscienza del limite di ciascuno e dal piccolo boccone di pane che ciascuno possiede. Possiamo dire con convinzione che nell’accogliere questa proposta quaresimale sentiamo dentro di noi la possibilità di una vittoria morale e di una vittoria spirituale su quella pervasiva insicurezza che sembra svuotare ogni slancio. Che sia veramente così per tutti noi. Buona Quaresima!

† Francesco Beschi, Vescovo

Questo testo nasce dalla volontà di accompagnare i cristiani du-rante il periodo di Quaresima. Non vuole sostituire percorsi per-sonali o comunitari di ascolto e di confronto con la Parola: vuole solo essere l’occasione e l’invito - in modo particolare rivolto ai lavoratori e alle famiglie - a ritagliare, nel cammino verso la Pasqua, un tempo di riflessione e di preghiera. L’articolazione del volume è semplice. All’inizio di tutte le settimane è proposto il testo di un “maestro” nella fede che accompagna la riflessione lungo la settimana. Ogni giorno sono presentati due brevi passi biblici presi dalla liturgia eucaristica. Di venerdì, la traccia, simile a quella degli altri giorni, è solo un po’ più abbondante. Dove è condivisa da più persone, questo potrebbe essere lo schema dell’incontro: segno di Croce, recita dell’Inno, lettura dei testi e della meditazione di Enzo Bianchi, priore del monastero di Bose, sugli atteggiamenti da custodire, spiritualmente, durante il tempo della Quaresima, una preghiera della tradizione religiosa universale, Padre Nostro e preghiera finale. Il mercoledì delle ceneri e i venerdì di quaresima, per quanti lavorano a Bergamo, vi è la possibilità di partecipare alla preghiera comune che si ter-rà, presso la Chiesa delle Grazie, dalle 13.30 alle 14.00. Di Domenica, sono offerte alcuni brevi meditazioni, per un iti-nerario spirituale, scritte da don Lino Casati, Delegato Vesco-vile della Diocesi, mentre il testo di inizio Quaresima è di Frère Aloise, priore di Taizè. Il contributo finale è di Lorenzo Ravasini, un diacono della Famiglia della Visitazione che, da anni, vive a Gerusalemme. A loro, preziosi compagni di strada, va il nostro più sentito ringraziamento.

Grazie a Maria Spiezia, Antonia Semperboni, Enza Di Natale e Marina Gibelli. Ha coordinato Daniele Rocchetti

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Volgerci verso Diodi frere Aloise di Taizè

Inizialmente la Quaresima orienta il nostro pen-siero verso l’immagine del deserto, quello nel qua-le Gesù ha trascorso quaranta giorni di solitudine, o quello che ha attraversato il popolo di Dio cam-minandovi per quarant’anni. Frère Roger amava ricordare, quando ritornavano queste settimane precedenti la Pasqua, che la Quaresima non è un tempo di austerità o di tristezza, né un periodo per coltivare la colpa, ma un momento per cantare la gioia del perdono. Egli vedeva la Quaresima come quaranta giorni per prepararsi a riscoprire delle piccole primavere nelle nostre vite.All’inizio del Vangelo di Matteo, quando Giovan-ni Battista proclama «pentitevi!», egli vuole dire «volgetevi verso Dio!». Si, durante la Quaresima noi vorremmo volgerci verso Dio per accogliere il suo perdono. Cristo ha vinto il male, e il suo co-stante perdono ci permette di rinnovare la vita in-teriore. È alla conversione che siamo invitati: non intesa come un volgerci verso noi stessi in un’in-trospezione o un perfezionismo individuale, ma come ricerca della comunione con Dio e con gli altri. Volgerci verso Dio! È pur vero che, nel mon-

do occidentale, è diventato più arduo per certuni credere in Dio. Essi vedono la sua esistenza come un limite alla loro libertà. Pensano di dover lottare da soli per costruire la loro vita. Che Dio li accom-pagni sembra loro inconcepibile.Un giorno, ho visitato i nostri fratelli che abitava-no in Corea da più di trent’anni. Durante il viaggio, con un altro fratello, abbiamo avuto degli incon-tri con i giovani di molti Paesi asiatici. Ciò che mi ha colpito, in Asia, è che la preghiera sembra na-turale. All’interno delle diverse religioni, la gente ha nella preghiera un atteggiamento di rispetto, o meglio di adorazione. In quelle società non c’è meno tensione o violenza che in Occidente. Ma un senso d’interiorità è forse più accessibile, un rispetto davanti al miracolo della vita, della crea-zione, un’attenzione al mistero, a un aldilà.Come rinnovare la vita interiore scoprendo e ri-scoprendo una relazione personale con Dio? C’è in noi tutti una sete d’infinito. Dio ci ha creati con questo desiderio di assoluto. Lasciamo vivere in noi quest’aspirazione!Tra i canti di Taizè, ce n’è uno che esprime quest’attesa. Le parole sono di un poeta spagnolo, Luis Rosales, ispirate a san Giovanni della Croce: «Di notte andremo per incontrare la fonte, solo

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la sete ci illumina». Per molti, il tempo di Quaresi-ma è quello della rinuncia. Non che l’ascesi abbia valore in se stessa. Ma la rinuncia può aiutarci ad andare incontro alla nostra attesa più profonda, alla nostra sete di essenziale, e questa sete illumi-nerà il nostro cammino. Se talvolta camminiamo di notte, oppure come attraverso un deserto, non è per seguire un ideale: noi credenti seguiamo una persona, Cristo. Non siamo soli, Egli ci precede. Se-guirlo implica una lotta interiore, con decisioni da prendere, fedeltà da mantenere tutta una vita. In questa lotta non ci affidiamo alle nostre sole for-ze, ma ci abbandoniamo alla sua presenza. Il sen-tiero non è tracciato in precedenza, esso implica anche accogliere delle sorprese, create a partire dall’imprevisto. E Dio non si stanca di riprendere il cammino con noi. Possiamo credere che una co-munione con Lui sia possibile e non stancarci mai, nemmeno di noi, nel dover riprendere il combat-timento. Non perseveriamo in quest’impegno per presentarci a Dio nel nostro giorno migliore; no, noi accettiamo di camminare come poveri del Vangelo che si affidano alla misericordia di Dio.La Quaresima è un tempo che ci invita alla con-divisione. Ci porta a sentire che non c’è pienezza senza l’accettazione di rinunce, e questo per amo-

re. Mentre si trovava nel deserto, Gesù, mosso a compassione per coloro che lo avevano seguito, moltiplica cinque pani e due pesci per nutrire tutti. Quali segni di condivisione possiamo compiere an-che noi? Il Vangelo esalta la semplicità di vita. Ci spinge al dominio dei nostri desideri per arrivare a limitarci, non per costrizione ma per scelta. È im-portante operare una cernita fra i nostri desideri. Non sono tutti cattivi, ma neanche tutti sono buo-ni. Si tratta di capire, pazientemente, quali seguire prioritariamente e quali lasciare da parte. Questo invito diventa molto attuale oggi, non solo sul pia-no personale, ma anche nella vita delle società. La semplicità liberamente scelta permette di resiste-re alla rincorsa del superfluo nei più avvantaggiati e contribuisce alla lotta contro la povertà imposta ai più diseredati. Sì, il Vangelo ci chiama alla sem-plicità. Scegliere la semplicità apre il nostro cuore alla condivisione e alla gioia che viene da Dio. Durante questo tempo di Quaresima, osiamo ri-vedere il nostro stile di vita, non per far provare sensi di colpa a coloro che faranno meno, ma in vista di una solidarietà con i più poveri. Il Vangelo c’incoraggia a condividere liberamente, collocan-do tutto nella semplice bellezza della creazione.

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Una settimana con…. GIORGIO LA PIRA

Io posso, per mio conto, ringraziare Iddio di con-cedermi il dono della fame, della persecuzione, dell’oppressione, della ingiustizia, dell’ingiuria, ecc.; ma se i miei fratelli si trovano in tale stato, io sono tenuto a intervenire per soccorrerli; se non lo avrò fatto, il Signore me lo dirà con paro-le terrificanti nel giorno del giudizio: “Ebbi fame e non mi sfamasti, fui carcerato e non mi visita-sti”! Si allude forse a opere puramente individua-li? Anche a queste, ma non soltanto a queste; in questo dovere dell’amore operoso è inclusa - nei limiti delle proprie capacità e possibilità - la tra-sformazione sociale. Non si dica quella solita fra-se poco seria: la politica è una cosa ‘brutta’! No: l’impegno politico - cioè l’impegno diretto alla costruzione cristianamente ispirata della società in tutti i suoi ordinamenti a cominciare dall’eco-nomico - è un impegno di umanità e di santità: è un impegno che deve potere convogliare verso di sé gli sforzi di una vita tutta tessuta di preghiera, di meditazione, di prudenza, di fortezza, di giusti-zia e di carità.

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MERCOLEDÌ 10 FEBBRAIO 2016Mercoledì delle Ceneri

Gl 2,12-18; Sal 50; 2Cor 5,20-6,2; Mt 6,1-6.16-18

Suonate il corno in Sion, proclamate un solenne digiuno, convocate una riunione sacra. Radunate il popolo, indite un’assemblea solenne, chiamate i vecchi, riunite i fanciulli, i bambini lattanti; esca lo sposo dalla sua camera e la sposa dal suo talamo.

Gioele 2,15-16

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «State attenti a non praticare la vostra giustizia davanti agli uomini per essere ammirati da loro, altrimenti non c’è ricompensa per voi presso il Padre vostro che è nei cieli. Dunque, quando fai l’elemosina, non suonare la tromba davanti a te, come fanno gli ipocriti nelle sinagoghe e nelle strade, per essere lodati dalla gente. In verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. Invece, mentre tu fai l’elemosina, non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra, perché la tua elemosina resti nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel se-greto, ti ricompenserà. E quando pregate, non siate simili agli ipocriti che, nelle sinagoghe e negli angoli delle piaz-ze, amano pregare stando ritti, per essere visti dalla gente.

In verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. Invece, quando tu preghi, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà. E quando digiunate, non diventate malinconici come gli ipocriti, che assumo-no un’aria disfatta per far vedere agli altri che digiunano. In verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. In-vece, quando tu digiuni, profumati la testa e lavati il volto, perché la gente non veda che tu digiuni, ma solo il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà».

Matteo 6,1-6.16-18

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DIGIUNARE PER DARE VALORE ALLE COSE

Benoît Standaert

Mangiare e digiunare toccano il nostro essere umano in un aspetto estremamente vitale: il bambino vi lotta nella fase

orale, tanto essenziale per l’assetto futuro di tutta una vita. Ci troviamo dunque in presenza di qualcosa di molto elementare e altrettanto essenziale. Il primo peccato nel libro della Genesi ri-guarda proprio la bocca e la prima tentazione di Gesù nel deserto ha a che fare con le stesse cose (“Di’ che queste pietre diventino pani!”). Del resto, tutta l’esistenza nel deserto conosce soprattut-to questa tentazione, come appare chiaro dalla meditazione di Deuteronomio 8, a cui si riferisce anche Gesù: “Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”. Marie Balmary rimanda, nella sua lettura psicoanalitica dei testi bibli-ci, all’importanza strutturante del primissimo comando-divieto: “Non divorerai o mangerai tutto senza motivo – non divorare”. Ciò che è dal maligno, è il divorare tutto senza limiti e confini. Questo non è possibile. “Puoi mangiare tutto eccetto il frutto di quell’unico albero”. Che saggezza in queste parole! E si ritrova in

quasi tutte le culture. Si tratta di una struttura che si pone contro la voracità sfrenata. In Africa si consoce persino la regola di to-gliersi il cibo dalla bocca a causa di un ospite di passaggio. Sorge la domanda: cosa facciamo noi oggi, dal punto di vista culturale? Non stiamo saccheggiando interamente la biosfera, divorando-la, distruggendola, malgrado tutti gli accordi di Kyoto? I grandi di questo mondo si ritirano, per primi. E lo fanno impunemente. Per quanto tempo ancora? Una cultura della pienezza ha paura del vuoto, del silenzio, della lentezza, del digiuno, dell’apertu-ra, dell’altro da sé. Chi non digiuna mai tende a negare l’altro. Ci rendiamo conto della gravità di tutto ciò? Il digiuno dà espres-sione al mio timore del Signore. In questo modo nasce un giusto rapporto verso tutto, con tutto ciò che è altro. Nel digiuno creo un vuoto per l’altro da me. Chi non digiuna mai, vive una pienez-za che prima o poi lo porta a scacciare fuori chiunque altro, a schiacciarlo, a ridurlo a se stesso, finché non rimane che un solo mondo, il nostro, lo stesso, finché non c’è più nient’altro, o sem-plicemente non c’è più niente. Digiunare bene è dunque un atto di saggezza, di equilibrio, di rispetto immenso. Digiunare è persino un atto politico e cosmico, un atto che riguar-da la salvezza di tutta la creazione.

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GIOVEDÌ 11 FEBBRAIO 2016Dt 30,15-20; Sal 1; Lc 9,22-25

Beato l’uomo che non entra nel consiglio dei malvagi, non resta nella via dei peccatori e non siede in compagnia degli arroganti, ma nella legge del Signore trova la sua gioia, la sua legge medita giorno e notte. È come albero piantato lungo corsi d’acqua, che dà frutto a suo tempo: le sue foglie non appassiscono e tutto quello che fa, riesce bene. Dal Salmo 1

A tutti, diceva: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua. Chi vuole salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la salverà».

Luca 9,23-24

Credevamo che chiusi nella fortezza interiore della pre-ghiera noi potessimo sottrarci ai problemi sconvolgitori del mondo; e invece nossignore; eccoci impegnati con una realtà che ha durezze talvolta invincibili; una realtà che ci fa capire che non è una pia espressione l’invito di Gesù: nel mondo avrete tribolazioni; prendi la tua croce e seguimi. Bisogna lasciare - pur restandovi attaccato col fondo del cuore - l’orto chiuso dell’orazione.

Giorgio La Pira

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VENERDÌ 12 FEBBRAIO 2016Is 58,1-9a; Sal 50; Mt 9,14-15

INNO

Rinati dalla luce figli del giornoSignore a te veniamo nel mattinola tua parola dissipa le ombree libera dal male il nostro spirito.

O Padre della gloria Dio viventela tua luce splenda ai nostri occhida’ a noi l’eredità da te promessain Cristo figlio tuo primogenito.

Nel giorno in cui creasti Adamo dal fangol’hai ricreato in Cristo sulla crocenoi contempliamo l’albero di vitaormai non più vietato dal tuo angelo.

Onore e gloria a te o Padre del cieloper mezzo di Gesù il salvatorenel dono di ogni luce il santo Spiritoche vive eternamente per i secoli. Amen

In ascolto della Parola

Liberami dal sangue, o Dio, Dio mia salvezza: la mia lingua esalterà la tua giustizia. Signore, apri le mie labbra e la mia bocca proclami la tua lode. Tu non gradisci il sacrificio; se offro olocausti, tu non li accetti. Uno spirito contrito è sacrificio a Dio; un cuore contrito e affranto tu, o Dio, non disprezzi.

Dal Salmo 50 Gli si avvicinarono i discepoli di Giovanni e gli dissero: «Perché noi e i farisei digiuniamo molte volte, mentre i tuoi discepoli non digiunano?». E Gesù disse loro: «Posso-no forse gli invitati a nozze essere in lutto finché lo sposo è con loro? Ma verranno giorni quando lo sposo sarà loro tolto, e allora digiuneranno».

Matteo 9,14-15

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con Giacobbe: «Il Signore è qui e io non lo sapevo!» (Genesi 28,16), oppure con il Salmista: «Alle spalle e di fronte mi circondi [...]. Dove fuggire dalla tua pre-senza? Se salgo in cielo, tu sei là, se scendo agli infe-ri, eccoti» (Salmo 139,5 e sgg.). Altre volte la nostra esperienza spirituale è segnata dal vuoto, dal silenzio di Dio, da un’ aridità che ci porta a ridire le parole di Giobbe: «Se vado in avanti, egli non c’è, se vado indie-tro, non lo sento; a sinistra lo cerco e non lo scorgo, mi volgo a destra e non lo vedo» (Giobbe 23,8-9). Ep-pure anche attraverso il silenzio del quotidiano Dio ci può parlare. Dio infatti agisce su di noi attraverso la vita, attraverso l’esperienza che la vita ci fa fare, dunque anche attraverso le «crisi», i momenti di buio e di oscurità in cui la vita può portarci. L’esperienza spirituale è anzitutto esperienza di essere preceduti: è Dio che ci precede, ci cerca, ci chiama, ci previene. Noi non inventiamo il Dio con cui vogliamo entrare in relazione: Egli è già là! E l’esperienza di Dio è ne-cessariamente mediata dal Cristo: «nessuno viene al Padre se non per mezzo di me» dice Gesù (Giovanni 14,6). Cioè l’esperienza spirituale è anche esperienza filiale. Lo Spirito santo è la luce con cui Dio ci pre-viene e orienta il nostro cammino verso la santifica-zione, cammino che è sequela del Figlio: l’esperienza spirituale diviene così null’ altro che la risposta di

VITA SPIRITUALE

Non si dà vita cristiana senza vita spirituale! Lo stesso mandato fondamentale che la chiesa

deve adempiere nei confronti dei suoi fedeli è quel-lo di introdurli a un’esperienza di Dio, a una vita in relazione con Dio. È essenziale ribadire oggi queste verità elementari, perché viviamo in un tempo in cui la vita ecclesiale, dominata dall’ ansia pastorale, ha assunto l’idea che l’esperienza di fede corrisponda all’impegno nel mondo piuttosto che all’ accesso a una relazione personale con Dio vissuta in un conte-sto comunitario, radicata nell’ ascolto della Parola di Dio contenuta nelle Scritture, plasmata dall’ eucari-stia e articolata in una vita di fede, di speranza e di carità. Questa riduzione dell’ esperienza cristiana a morale è la via più diretta per la vanificazione della fede. La fede, invece, ci porta a fare un’ esperienza reale di Dio, ci immette cioè nella vita spirituale, che è la vita guidata dallo Spirito santo. Chi crede in Dio deve anche fare un’ esperienza di Dio: non gli può bastare avere idee giuste su Dio. E l’esperienza, che sempre avviene nella fede e non nella visione (cfr. 2 Corinti 5,7: «noi camminiamo per mezzo della fede e non ancora per mezzo della visione»), è qualcosa che ci sorprende e si impone portandoci a ripetere

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fede, speranza e carità al Dio Padre che nel batte-simo rivolge all’uomo la parola costitutiva: «Tu sei mio figlio!». Sì, figli nel Figlio Gesù Cristo: questa la promessa e questo il cammino dischiusi dal battesi-mo! Come diceva Ireneo di Lione, lo Spirito e il Figlio sono come le due mani con cui Dio plasma le nostre esistenze in vite di libertà nell’obbedienza, in eventi di relazione e di comunione con Lui stesso e con gli altri. Alcuni elementi sono essenziali per l’autenticità del cammino spirituale. Anzitutto la crisi dell’imma-gine che abbiamo di noi stessi: questo è il doloroso, ma necessario inizio della conversione, il momento in cui si frantuma l’«io» non reale ma ideale che ci siamo forgiati e che volevamo perseguire come do-verosa realizzazione di noi stessi. Senza questa «cri-si» non si accede alla vera vita secondo lo Spirito. Se non c’è questa morte a se stessi non ci sarà neppure la rinascita a vita nuova implicata nel battesimo (cfr. Romani 6,4). Occorrono poi l’onestà verso la realtà e la fedeltà alla realtà, cioè l’adesione alla realtà, per-ché è nella storia e nel quotidiano, con gli altri e non senza di essi, che avviene la nostra conoscenza di Dio e cresce la nostra relazione con Dio. È a quel punto che la nostra vita spirituale può armonizzare obbe-dienza a Dio e fedeltà alla terra in una vita di fede, di speranza e di carità. È a quel punto che noi possiamo

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dire il nostro «sì» al Dio che ci chiama con quei doni e con quei limiti che caratterizzano la nostra creatura-lità. Si tratterà dunque di immettersi in un cammino di fede che è sequela del Cristo per giungere all’espe-rienza dell’inabitazione del Cristo in noi. Scrive Paolo ai cristiani di Corinto: «Esaminate voi stessi se siete nella fede: riconoscete che Gesù Cristo abita in voi?» (2 Corinti 13,5). La vita spirituale si svolge nel «cuore», nell’intimo dell’uomo, nella sede del volere e del decidere, nell’interiorità. È lì che va riconosciuta l’autenticità del nostro essere cristiani. La vita cristiana infatti non è un «andare oltre», sempre alla ricerca di novità, ma un «andare in profondità», uno scendere nel cuore per scoprire che è il Santo dei Santi di quel tempio di Dio che è il nostro corpo! Si tratta infatti di «adorare il Signore nel cuore» (cfr. I Pietro 3, I 5). Quello è il luogo dove avviene la nostra santificazione, cioè l’ac-coglienza in noi della vita divina trinitaria: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (Giovanni 14,23). Fine della vita spirituale è la nostra partecipazione alla vita divina, è quella che i Padri della chiesa chiamavano «divinizzazione». «Dio, in-fatti, si è fatto uomo affinché l’uomo diventi Dio», scrive Gregorio di Nazianzo, e Massimo il Confessore

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sintetizza in modo sublime: «La divinizzazione si rea-lizza per innesto in noi della carità divina, fino al per-dono dei nemici come Cristo in croce. Quand’è che tu diventi Dio? Quando sarai capace, come Cristo in croce, di dire: “Padre, perdona loro”, anzi: “Padre, per loro io do la vita”». A questo ci trascina la vita spiri-tuale, cioè la vita radicata nella fede del Dio Padre creatore, mossa e orientata dallo Spirito santificato-re, innestata nel Figlio redentore che ci insegna ad amare come lui stesso ha amato noi. Ed è lì che noi misuriamo la nostra crescita alla statura di Cristo.

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SABATO 13 FEBBRAIO 2016Is 58,1-9a; Sal 50; Mt 9,14-15

Allora invocherai e il Signore ti risponderà, implore-rai aiuto ed egli dirà: «Eccomi!». Se toglierai di mez-zo a te l’oppressione, il puntare il dito e il parlare empio, se aprirai il tuo cuore all’affamato, se sazierai l’afflitto di cuore, allora brillerà fra le tenebre la tua luce, la tua tenebra sarà come il meriggio. Ti guiderà sempre il Signore, ti sazierà in terreni aridi, rinvi-gorirà le tue ossa; sarai come un giardino irrigato e come una sorgente le cui acque non inaridiscono.

Isaia 58,9-11

Dopo questo egli uscì e vide un pubblicano di nome Levi, seduto al banco delle imposte, e gli disse: «Seguimi!». Ed egli, lasciando tutto, si alzò e lo seguì. Luca 5,27-28

La deviazione individualista che considera l’uomo come essere antisociale non è certamente frutto del cattolicesi-mo! Ma la socialità dell’uomo non significa esaurimento di esso nella società e nelle sue strutture economiche e po-litiche: di là dall’economia, dalla politica, dalla cultura e così via c’è il mondo interiore della libertà, della contem-plazione e dell’amore; c’è il mondo di Dio, al quale l’uomo, per effetto della grazia, si eleva!

Giorgio La Pira

Dalla tradizione religiosa universaleO Cristo, luce che viene dall’alto, illumina coloro che sono nelle tenebre: mostra loro il cammino del tuo amore. Sii il sostegno di quanti sono scoraggiati, con il tuo Spirito aiutaci a compiere la volontà del tuo amore, dacci pertanto un cuore nuovo.

(Preghiera di Taizè)

OrazioneAll’inizio di questa Quaresima, ti offriamo il desiderio di una vita autentica. Liberaci, Signore, da ogni ipocrisia, che rende sterile e falsa la vita. Sostienici nel desiderio di au-tenticità: che non facciamo nulla solo per conquistarci la stima degli altri. Purificaci da ogni grettezza e mediocrità, e aiutaci a cercare Te: conoscerti è conoscerci! Che noi possiamo essere come tu vuoi!

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1ª DOMENICA DI QUARESIMA 14 febbraio 2016Dt 26,4-10; Sal 90; Rm 10,8-13; Lc 4,1-13

Gli Egiziani ci maltrattarono, ci umiliarono e ci impo-sero una dura schiavitù. Allora gridammo al Signore, al Dio dei nostri padri, e il Signore ascoltò la nostra voce, vide la nostra umiliazione, la nostra miseria e la nostra oppressione; il Signore ci fece uscire dall’E-gitto con mano potente e con braccio teso, spargen-do terrore e operando segni e prodigi. Ci condusse in questo luogo e ci diede questa terra, dove scorrono latte e miele. Deuteronomio 26,6-9

Gesù, pieno di Spirito Santo, si allontanò dal Giordano ed era guidato dallo Spirito nel deserto, per quaranta giorni, tentato dal diavolo. Lo condusse a Gerusalemme, lo pose sul punto più alto del tempio e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù di qui; sta scritto infatti: Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo affinché essi ti custodiscano; e anche: Essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo pie-de non inciampi in una pietra». Gesù gli rispose: «È stato detto: Non metterai alla prova il Signore Dio tuo». Dopo aver esaurito ogni tentazione, il diavolo si allontanò da lui fino al momento fissato. Luca 4,1-2.9-13

Non tradirò mai i poveri, gli indifesi, gli oppressi: non ag-giungerò al disprezzo con cui sono trattati dai potenti l’o-blio od il disinteresse dei cristiani. Giorgio La Pira

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Come stare nella prova

La vita è una prova, si dice a volte quando si sta passando faticosi momenti personali o comu-

nitari. Soprattutto quando questa sofferenza del vivere sembra essere una realtà ordinaria e il deserto dell’esistenza sembra essere infinito. Ma cosa vuol dire prova? Semplicemente che la promessa di bene e di vita, che ci è regalata quando ci affacciamo nel mondo, viene messa alla prova perché sembra dover subire una co-cente smentita. Anche Gesù, dopo la promessa bella del Battesimo (Lc 3,21-22) nel quale fa l’e-sperienza del dono dello Spirito e dell’essere Figlio, è condotto nel deserto, cioè in un luogo privo di tutto, luogo del vuoto per eccellenza, il luogo dell’assenza che richiama il nulla. Gesù passa dunque attraverso la prova del vuoto dove quella promessa battesimale sembra smentita. Un vuoto nel quale egli abita per quaranta gior-ni, cioè un tempo infinito che non ha termine, una prova che sembra non finire mai, e quando essa finisce per poter respirare qualche attimo, è solo per ripresentarsi con più forza. Più che es-sere tentato a fare il male, ci dicono gli esegeti, Gesù nel deserto è “provato” circa il suo modo

di credere a quella promessa. In effetti il diavo-lo (cioè il divisore, colui che crea separazione e contraddizione) cerca di indurlo non tanto a fare il male, cioè ad abbandonarsi a un plateale egoismo, alla prepotenza o al narcisistico pia-cere. Piuttosto egli vorrebbe spingerlo a com-piere il bene, missione per cui è egli venuto al mondo, secondo una modalità che lui gli inse-gna. La prova dunque è sul modo di svolgere una missione buona. Volontà di possesso, desiderio di dominio e ricerca del miracolistico non sono espressione di una evidente cattiva volontà, ma sono una forma non evangelica di percorrere la strada della missione. Potremmo dire con papa Francesco che la missione della Chiesa non può perseguire i suoi scopi pastorali assumendo for-me che nell’immediato possono farle guada-gnare consensi ma che non sono però conformi allo stile evangelico. Sul piano dell’agire morale non ci si deve solo preoccupare che i fini siano buoni, direbbe qualcuno, ma occorre anche che lo siano pure i mezzi. Anzi il mezzo è già fine in questo caso. Conosciamo tutti la “tentazione” di affrontare il tempo della prova, cioè del deser-to che in qualche modo è sempre presente nella storia dell’uomo, usando strumenti e modalità

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che diano visibilità forte, riconoscimento e pre-stigio, spazio e possibilità perché la Chiesa svol-ga la sua missione. Non per nulla il diavolo nella terza “tentazione”, quella di percorrere la strada del prodigio che attira e “converte” le folle, cita la Scrittura e si pone dal punto di vista di Dio. Forse la credibilità del cristianesimo oggi si gio-ca proprio su questo versante: siamo chiamati a porci con uno stile (direbbe qualcuno) nel quale si dice la buona notizia del Regno, che è Gesù, coltivando e praticando un rapporto non preda-torio con le cose, rinunciando al desiderio di po-tere che mortifica la vita dell’altro, non volendo piegare l’agire di Dio ai nostri bisogni e alle no-stre mancanze. Lo stile di Gesù, che nella prova del deserto sa resistere, è quello di continuare a credere in ciò che ha sperimentato nel Battesi-mo ritenendo che quello non sia perduto bensì presente nell’unico modo possibile: un dono che chiede solo di essere accolto. Il dono dello Spiri-to che lo proclama Figlio. Gesù allora percorre la strada della sua missione da Figlio, accogliendo e fidandosi del Padre, non utilizzando la potenza di Dio per “risolvere” i problemi e i contrasti che incontrerà: la prova non durerà solo quaranta giorni e il diavolo tornerà, dice Luca, al tempo

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opportuno, cioè ai piedi del Crocifisso (“se sei figlio di Dio scendi dalla croce e noi ti credere-mo”). Abbiamo qui una bussola precisa di come stare nella prova e di come impostare la nostra pastorale: semplicemente essere Figli del Padre come Gesù e praticare uno stile evangelico nel rapporto con la storia, cioè essere umani.

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Una settimana con…. don ANDREA GALLO

Nutrire l’affamato, accogliere lo straniero, visita-re l’ammalato sono gesti di restituzione e, dun-que, atti di giustizia, ma per Gesù sono anche veri e propri gesti di devozione. Chi li compie è come se onorasse e rendesse culto a Dio stesso. Gesù avrebbe potuto dire: benedetti voi che an-date tutte le settimane al tempio e pagate l’obo-lo, e invece no. Se avesse parlato ai nostri gior-ni, avrebbe potuto dire: benedetti voi che fate la comunione tutte le domeniche, che andate ai santuari mariani, che andate dal papa alle gior-nate mondiali della gioventù, che versate l’otto per mille alla Chiesa cattolica... e invece non dice niente di tutto questo.

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LUNEDÌ 15 FEBBRAIO 2016Lv 19,1-2.11-18; Sal 18; Mt 25,31-46

Il Signore parlò a Mosè e disse: parla a tutta la comu-nità degli Israeliti dicendo loro: “Siate santi, perché io, il Signore, vostro Dio, sono santo. Non ti vendi-cherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso. Io sono il Signore”. Levitico 19,1-2.18

Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra. Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: “Ve-nite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi”. Matteo 25,31-36

Io vedo che, quando allargo le braccia, i muri cadono. Ac-coglienza vuol dire costruire dei ponti e non dei muri.

Don Andrea Gallo

MARTEDÌ 16 FEBBRAIO 2016Is 55,10-11; Sal 33; Mt 6,7-15

Benedirò il Signore in ogni tempo, sulla mia bocca sempre la sua lode. Io mi glorio nel Signore: i poveri ascoltino e si rallegrino. Magnificate con me il Signore, esaltiamo insieme il suo nome. Ho cercato il Signore: mi ha risposto e da ogni mia paura mi ha liberato. Dal Salmo 33

Pregando, non sprecate parole come i pagani: essi credo-no di venire ascoltati a forza di parole. Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno prima ancora che gliele chiediate. Voi dunque pregate così: Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra. Matteo 6,7-10

La strada mi arricchisce, continuamente. Lì avvengono gli incontri più significativi, l’incontro della vera sofferenza, l’incontro di chi però ha ancora tanta speranza e allora guarda, attende. Per la strada nascono le alternative, na-sce il voler conquistare dei diritti.

Don Andrea Gallo

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MERCOLEDÌ 17 FEBBRAIO 2016Gn 3,1-10; Sal 50; Lc 11,29-32

Pietà di me, o Dio, nel tuo amore; nella tua grande misericordia cancella la mia iniquità. Lavami tutto dalla mia colpa, dal mio peccato rendimi puro. Sì, le mie iniquità io le riconosco, il mio peccato mi sta sempre dinanzi. Contro di te, contro te solo ho peccato, quello che è male ai tuoi occhi, io l’ho fatto: così sei giusto nella tua sentenza, sei retto nel tuo giudizio. Dal Salmo 50

Nel giorno del giudizio, la regina del Sud si alzerà contro gli uomini di questa generazione e li condannerà, perché ella venne dagli estremi confini della terra per ascoltare la sapienza di Salomone. Ed ecco, qui vi è uno più grande di Salomone. Nel giorno del giudizio, gli abitanti di Ninive si alzeranno contro questa generazione e la condanneranno, perché essi alla predicazione di Giona si convertirono. Ed ecco, qui vi è uno più grande di Giona. Luca 11,31-32

L’uomo si salva se nel profondo della sua coscienza vibra la Parola di Gesù di Nazareth insieme alla volontà di met-terla in pratica.

Don Andrea Gallo

GIOVEDÌ 18 FEBBRAIO 2016Ester 4,17; Sal 137; Mt 7,7-12

Nel giorno in cui ti ho invocato, mi hai risposto,hai accresciuto in me la forza. Ti renderanno grazie, Signore, tutti i re della terra, quando ascolteranno le parole della tua bocca. Canteranno le vie del Signore: grande è la gloria del Signore! Perché eccelso è il Signore, ma guarda verso l’umile; il superbo invece lo riconosce da lontano.

Dal Salmo 137

Chi di voi, al figlio che gli chiede un pane, darà una pie-tra? E se gli chiede un pesce, gli darà una serpe? Se voi, dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro che è nei cieli darà cose buone a quelli che gliele chiedono!

Matteo 7,9-11

I cristiani, se non sono accoglienti, non dicano che sono cristiani. Chiunque incontri è tuo fratello, figlio, figlia; non ci sono fratelli e sorelle di serie B, C e D. Su tutte le diffi-coltà riguardanti l’immigrazione, dico: diamo prima l’ac-coglienza e poi le difficoltà le affronteremo.

Don Andrea Gallo

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VENERDÌ 19 FEBBRAIO 2016Ez 18,21-28; Sal 129; Mt 5,20-26

INNO

O Creatore e fonte di grazia,la nostra voce che geme ascolta: una quaresima intera di pianto vogliamo offrirti in santa astinenza.

O Dio, che esplori nel fondo del cuore, quanto sia debole l’uomo tu sai; e quanto a te convertiti torniamoora ricolma di grazia e d’amore.

O Trinità benedetta, ascolta, Unità semplice, questo concedi: che porti frutto ai tuoi fedeliil grande dono di essere sobri.

In ascolto della Parola

Se il malvagio si allontana da tutti i peccati che ha com-messo e osserva tutte le mie leggi e agisce con giustizia e rettitudine, egli vivrà, non morirà. Nessuna delle colpe commesse sarà più ricordata, ma vivrà per la giustizia che ha praticato. Forse che io ho piacere della morte del mal-vagio – oracolo del Signore – o non piuttosto che desista dalla sua condotta e viva?

Ezechiele 18,21-23 Gesù disse ai suoi discepoli: «Se la vostra giustizia non su-pererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli. Avete inteso che fu detto agli antichi: “Non ucciderai”; chi avrà ucciso dovrà essere sottoposto al giu-dizio. Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fra-tello dovrà essere sottoposto al giudizio. Chi poi dice al fratello: “Stupido”, dovrà essere sottoposto al sinèdrio; e chi gli dice: “Pazzo”, sarà destinato al fuoco della Geènna. Se dunque tu presenti la tua offerta all’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare, va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna a offrire il tuo dono. Mettiti pre-sto d’accordo con il tuo avversario mentre sei in cammino con lui, perché l’avversario non ti consegni al giudice e il giudice alla guardia, e tu venga gettato in prigione. In veri-tà io ti dico: non uscirai di là finché non avrai pagato fino all’ultimo spicciolo!».

Matteo 5,20-26

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differente, cosciente di doversi prendere cura di tut-to. E, in particolare, capace di vigilare su altri uomini e di custodirli. «Essere episcopus, vescovo,» scrive Lu-tero «significa guardare, essere vigilante, vigilare dili-gentemente.» È dunque, la vigilanza, una qualità che richiede grande forza interiore e produce equilibrio: si tratta di attivare la vigilanza non solo sulla storia e sugli altri, ma anche su di sé, sul proprio ministero, sul proprio lavoro, sulla propria condotta, insomma su tutta la sfera delle relazioni che si vivono. Affinché su tutto regni la signoria di Cristo. La difficoltà della vigilanza consiste proprio nel fatto che anzitutto è su di sé che occorre vigilare: il nemico del cristiano è in lui stesso, non fuori di lui. «Vegliate su voi stes-si e pregate in ogni tempo: che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita», dice Gesù nel Vangelo di Luca. La vigilanza è al prezzo di una lotta contro se stessi: il vigilante è il resistente, colui che combatte per difendere la propria vita interiore, per non lasciarsi trascinare dal-le seduzioni mondane, per non farsi travolgere dalle angosce dell’esistenza, insomma, per unificare fede e vita e per mantenersi nell’ equilibrio e nell’ armonia; vigilante è colui che aderisce alla realtà e non si ri-fugia nell’immaginazione, nell’idolatria, che lavora e non ozia, che si relaziona, che ama e non è indiffe-rente, che assume con responsabilità il suo impegno storico e lo vive nell’ attesa del Regno che verrà. La vigilanza è dunque alla radice della qualità della vita e delle relazioni, è al servizio della pienezza della vita e combatte le seduzioni che la morte esercita sull’uo-

VIGILANZA

«Non abbiamo bisogno di nient’altro che di uno spirito vigilante.» Questo apoftegma di Abba

Poemen, un padre del deserto, esprime bene l’es-senzialità che la vigilanza riveste nella vita spirituale cristiana. In che consiste? Il Nuovo Testamento, op-ponendola allo stato di ubriachezza e a,quello della sonnolenza, la definisce come la sobrietà e il «tenere gli occhi ben aperti» di colui che ha un fine preciso da conseguire e da cui potrebbe essere distolto se non fosse, appunto, vigilante. E poiché lo scopo da conseguire per un cristiano è la relazione con Dio attraverso Gesù Cristo, la vigilanza cristiana è total-mente relativa alla persona di Cristo che è venuto e che verrà. Basilio di Cesarea termina le sue Regole morali affermando che lo «specifico» del cristiano consiste proprio nella vigilanza in ordine alla persona di Cristo: «Che cosa è proprio del cristiano? Vigilare ogni giorno e ogni ora ed essere pronto nel compiere perfettamente ciò che è gradito a Dio, sapendo che nell’ora che non pensiamo il Signore viene». La sot-tolineatura della dimensione temporale presente in questo testo non è casuale. Tipo del vigilante è il pro-feta, colui che cerca di tradurre lo sguardo e la Parola di Dio nell’ oggi del tempo e della storia. La vigilanza è dunque lucidità interiore, intelligenza, capacità cri-tica, presenza alla storia, non distrazione e non dis-sipazione. Unificato dall’ascolto della Parola di Dio, interiormente attento alle sue esigenze, l’uomo vigi-lante diviene responsabile, cioè radicalmente non in-

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mo. Così Paolo ammonisce i cristiani di Tessalonica: «Non dormiamo come gli altri, ma restiamo svegli e siamo sobri». Per la simbolica biblica, ma anche per altre culture (si pensi alla mitologia greca che fa di Hypnos, Sonno, il gemello di Thanatos, Morte), cade-re nel sonno significa entrare nello spazio della mor-te. Vigilare, invece, non è solo un atteggiamento pro-prio dell’uomo attento e responsabile, ma acquisisce un significato particolare per il cristiano che pone la sua fede nel Cristo morto e risorto. La vigilanza è as-sunzione intima e profonda della fede nella vittoria della vita sulla morte. Così il vigilante diviene non solo uomo sveglio, che si oppone all’uomo addor-mentato, intontito, che ottunde i suoi sensi interiori, che rimane alla superficie delle cose e delle relazioni, ma diviene anche uomo di luce e capace di irradiare luce. «Illuminati» tramite l’immersione battesimale, i cristiani sono «figli della luce» chiamati a illuminare: «Risplenda la vostra luce davanti agli uomini affinché, vedendo il vostro operare la bellezza, rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli» (Matteo 5, I 6). Non si tratta di esibizionismo spirituale, anzi, dell’ effetto traboccante della luce che, abitando un cuore vigi-lante, non può rimanere nascosta, ma di per sé emer-ge e si diffonde. In certo senso, la vigilanza è l’unica cosa assolutamente essenziale al cristiano: essa è la matrice di ogni virtù, è il sale di tutto l’agire, la luce del suo pensare e parlare. Senza di essa tutto l’agire del cristiano rischia di essere in pura perdita. Disse Abba Arsenio: «Bisogna che ognuno vigili sulle pro-prie azioni per non faticare invano».

Dalla tradizione religiosa universaleQui c’è il tuo sgabello, e qui riposano i tuoi piedi, dove vivono i più poveri, i più umili, i perduti. Quan-do cerco d’inchinarmi a te il mio omaggio non riesce a giungere dove i tuoi piedi riposano tra i più poveri, i più umili, i perduti. L’orgoglio teme d’accostarsi a te. Mentre cammini, indossando le misere vesti dei più poveri, dei più umili, dei perduti. Il mio cuore non riesce a trovare la strada per scendere laggiù dove tu tieni compagnia a uomini soli: i più poveri, i più umili, i perduti. (Preghiera induista)

OrazioneO Dio onnipotente e Santo, volgi su di noi il tuo volto di luce. Preservaci dalla falsa pietà, dalla religione senza cuore, dal cancro dell’ipocrisia. Non ci capiti mai di la-sciarci tentare e di fare le cose per essere ammirati degli uomini. La nostra pietà sia fondata su una fede forte e vera, su una profonda esperienza del tuo mistero buono, sull’amore appassionato per te e per il prossimo. Rendici generosi verso i più poveri, liberaci di fronte al denaro e ai beni di questo mondo, felici di condividere quanto possediamo. Facci dono della preghiera sincera e profon-da, che ci introduce nella tua santa realtà e ci fa percepi-re i tuoi stessi desideri. Amen

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SABATO 20 FEBBRAIO 2016Dt 26,16-19; Sal 118; Mt 5,43-48

Il Signore ti ha fatto dichiarare oggi che tu sarai il suo popolo particolare, come egli ti ha detto, ma solo se osserverai tutti i suoi comandi. Egli ti metterà, per gloria, rinomanza e splendore, sopra tutte le nazioni che ha fatto e tu sarai un popolo consacrato al Si-gnore, tuo Dio, come egli ha promesso».

Deuteronomio 26,18-19

Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli; egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti. Infatti, se ama-te quelli che vi amano, quale ricompensa ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fan-no così anche i pagani? Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste.

Matteo 5,44-48

Il peccato più grave è l’indifferenza. Don Andrea Gallo

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2ª DOMENICA DI QUARESIMA 21 febbraio 2016Gen 15,5-12.17-18; Sal 26; Fil 3,17-41; Lc 9,28b-36

Lo condusse fuori e gli disse: «Guarda in cielo e con-ta le stelle, se riesci a contarle»; e soggiunse: «Tale sarà la tua discendenza». Egli credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia.

Genesi 15,5-6

Gesù prese con sé Pietro, Giovanni e Giacomo e salì sul monte a pregare. Mentre pregava, il suo volto cambiò d’a-spetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante. Ed ecco, due uomini conversavano con lui: erano Mosè ed Elia, apparsi nella gloria, e parlavano del suo esodo, che stava per compiersi a Gerusalemme. Pietro e i suoi com-pagni erano oppressi dal sonno; ma, quando si svegliaro-no, videro la sua gloria e i due uomini che stavano con lui.

Luca 9,28-32

È difficile tener sempre la porta aperta, non è facile. C’è anche la paura, ma noi non rimuoviamo la paura, la af-frontiamo. Quante volte in questo ufficio mi han puntato una rivoltella... Ma solo attraverso l’accoglienza, attra-verso l’ascolto, attraverso la disponibilità, la generosità, si supera la paura.

Don Andrea Gallo

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NELL’ASCOLTO PER DARE VERITÀ A CIÒ CHE SI VEDE

Uno dei peccati che solitamente si confessa-no, in questa situazione nella quale non si

sa bene dare un nome e una determinazione al peccato, è la “distrazione nella preghiera”, cioè, per dirla in altre parole, la stanchezza e la pesan-tezza del pregare. Sia che la preghiera si riduca a formule ripetute (magari senza un minimo di coinvolgimento) sia che proprio in quei momenti di preghiera i pensieri più vari, o più pressanti, ci assalgano. Anche Pietro, Giacomo e Giovanni sono presi da stanchezza e dormono, proprio come accadrà loro di nuovo nell’orto del Getze-mani. Ma forse non è la preghiera ad essere pe-sante e a indurci al sonno, piuttosto è la fatica del vivere che ci assale con la sua pesantezza, è quella paura e quel terrore (di cui si parla anche nella prima lettura tratta da Genesi) che ci pren-de in certe circostanze drammatiche o tragiche della vita, è lo scoraggiamento rispetto alla pos-sibilità di poter cambiare in meglio certe situa-zioni nostre o degli altri. A volte questo sonno è cercato e atteso come rimedio a ciò che appare irrimediabile e allora diventa fuga dalla libertà, diventa rifiuto di affrontare la responsabilità di

un cammino, diventa ricerca di distrazione attra-verso mille forme di sperimentazione di espe-rienze e di incontri, diventa una ossessione nel consumare cose. Proprio come gli apostoli che, mentre Gesù parla con Elia e Mosè del suo “eso-do” verso Gerusalemme, dormono, rimuovono la fatica di questo cammino, non comprendono come possa essere un cammino di libertà dal momento che è segnato dalla croce. Ciò che av-verrà nel Getzemani per gli stessi tre discepoli è prefigurato qui, in questo evento di Grazia e di Luce, come se essa fosse troppo grande per i no-stri occhi e insopportabile per la nostra povera e fragile umanità. Eppure a questo noi aspiriamo: ad avere momenti nei quali la vita appare trasfi-gurata, momenti nei quali sorprendentemente emerge tutto quello che di buono vi è nel vivere nostro e altrui, momenti nei quali le fratture e i contrasti della vita e degli altri ci appaiono su-perati. In quei momenti ci sembra di vedere ciò che abitualmente non vediamo, sono esperienze nelle quali la visione non incute paura e ango-scia, ma al contrario è pacificante e ci spinge a volerla prolungare, trattenendola e ancora una volta cedendo alla tentazione del possesso. Nel-la trasfigurazione di Gesù lo sguardo abbagliato

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degli apostoli viene ricondotto alla parola, alla necessità cioè di ascoltare ciò che Gesù dice e dirà. La visione della luce e della pienezza di vita, a volte magari sperimentata nell’esistenza, per essere vera e non rappresentare una fuga dalla responsabilità, ha bisogno cioè di un ascolto di quella Parola che nell’ordinario della vita quoti-diana lo stesso Gesù ci regala. Quell’ “ascoltate-lo” pronunciato dalla voce che esce dalla nube dice come solo nell’ascolto si può dare verità a ciò che si vede. La parola infatti interpella e invi-ta ad accogliere ciò che lo sguardo coglie; nella parola pronunciata e fatta carne nel proprio vis-suto la pienezza di vita e di luce che appare sul monte entra veramente nella storia. Certo oggi vi è la tendenza a privilegiare l’immagine e il ve-dere che ha a che fare con il virtuale. Ad essere sollecitata è soprattutto la dimensione emotiva della persona, tutto ciò non è certo male. Anzi, la componente emotiva è il primo luogo in cui la realtà si dàe nel quale accade l’incontro con gli altri; in essa si lascia prefigurare quella comunio-ne piena cui siamo destinati e che il Signore ci fa balenare. Nondimeno solo se la parola entra a interpretare, a decifrare, rischiando anche la fa-tica del pensare e del decidere e dunque dello

scegliere, tutto questo diventa veramente par-te della propria storia. E’ anche per questo che la trasfigurazione di Gesù sul monte, per essere colta nel suo vero senso, ha bisogno della ripre-sa del cammino nella pianura, dello “sporcarsi le vesti” nella compagnia degli uomini e nei proble-mi ordinari e straordinari del vivere.

Con il crocifisso di Gesù, unico mediatore tra Dio e gli uo-mini, unico sacerdote, i cristiani con i loro pastori devono smascherare le disumanità, con la capacità di destare il salutare “scandalo” dell’Evangelo; devono avere il corag-gio della denuncia profetica contro tutte le ingiustizie, con vigilanza e istanza critica, contro i rischi dell’assurgere del potere politico ed economico a idolo.

Don Andrea Gallo

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Una settimana con…. I MONACI DI TIBHIRINE

Se mi capitasse un giorno (e potrebbe essere anche oggi) di essere vittima del terrorismo che sembra voler coinvolgere ora tutti gli stranieri che vivono in Algeria, vorrei che la mia comunità, la mia Chiesa, la mia famiglia si ricordassero che la mia vita era donata a Dio e a questo paese… Che sapessero associare questa morte a tante al-tre ugualmente violente, lasciate nell’indifferen-za dell’anonimato. La mia vita non ha valore più di un’altra. Non ne ha neanche di meno. In ogni caso non ha l’inno-cenza dell’infanzia. Ho vissuto abbastanza per sapermi complice del male che sembra, ahimè, prevalere nel mondo, e anche di quello che po-trebbe colpirmi alla cieca. Venuto il momento, vorrei poter avere quell’attimo di lucidità che mi permettesse di sollecitare il perdono di Dio e quello dei miei fratelli in umanità, e nello stes-so tempo di perdonare con tutto il cuore chi mi avesse colpito.

Dal testamento di frère Christian

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LUNEDÌ 22 FEBBRAIO 2016Cattedra di S.Pietro

1Pt 5,1-4; Sal 22; Mt 16,13-19

Esorto gli anziani che sono tra voi, quale anziano come loro, testimone delle sofferenze di Cristo e partecipe della gloria che deve manifestarsi: pasce-te il gregge di Dio che vi è affidato, sorvegliandolo non perché costretti ma volentieri, come piace a Dio, non per vergognoso interesse, ma con animo gene-roso, non come padroni delle persone a voi affidate, ma facendovi modelli del gregge. E quando apparirà il Pastore supremo, riceverete la corona della gloria che non appassisce. 1Pietro 5,1-4

Gesù, giunto nella regione di Cesarèa di Filippo, doman-dò ai suoi discepoli: «La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?». Risposero: «Alcuni dicono Giovanni il Batti-sta, altri Elia, altri Geremia o qualcuno dei profeti». Disse loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Rispose Simon Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». E Gesù gli disse: «Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli.

Matteo 16,13-17

Ci sono fratelli a cui è chiesto di testimoniare con il dono della loro vita e altri ai quali viene domandato di testimo-niare attraverso le loro vite.

I monaci di Tibhirine

MARTEDÌ 23 FEBBRAIO 2016Is 55,10-11; Sal 33; Mt 6,7-15

Viene il nostro Dio e non sta in silenzio; davanti a lui un fuoco divorante, intorno a lui si scatena la tempe-sta. Convoca il cielo dall’alto e la terra per giudicare il suo popolo: «Davanti a me riunite i miei fedeli, che hanno stabilito con me l’alleanza offrendo un sacrifi-cio». I cieli annunciano la sua giustizia: è Dio che giu-dica. «Ascolta, popolo mio, voglio parlare, testimo-nierò contro di te, Israele! Io sono Dio, il tuo Dio!».

Dal Salmo 49

Gesù si rivolse alla folla e ai suoi discepoli dicendo: «Ma voi non fatevi chiamare “rabbì”, perché uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli.E non chiamate “padre” nessuno di voi sulla terra, perché uno solo è il Padre vo-stro, quello celeste. E non fatevi chiamare “guide”, perché uno solo è la vostra Guida, il Cristo. Chi tra voi è più gran-de, sarà vostro servo; chi invece si esalterà, sarà umiliato e chi si umilierà sarà esaltato». Matteo 23,8-12

Ciò che sperimentiamo diventa una spiritualità delle mani vuote, in cui si comprende che tutto, persino le nostre stes-se debolezze, può diventare dono e grazia di Dio, manife-stazione della potenza del suo amore che solo può con-vertire la debolezza umana in forza spirituale. I monaci di Tibhirine. I monaci di Tibhirine

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MERCOLEDÌ 24 FEBBRAIO 2016Ger 18,18-20; Sal 30; Mt 20,17-28

Alle tue mani affido il mio spirito; tu mi hai riscattato, Signore, Dio fedele. Tu hai in odio chi serve idoli falsi, io invece confido nel Signore. Esulterò e gioirò per la tua grazia, perché hai guardato alla mia miseria, hai conosciuto le angosce della mia vita; non mi hai consegnato nelle mani del nemico, hai posto i miei piedi in un luogo spazioso.

Dal Salmo 30

Mentre saliva a Gerusalemme, Gesù prese in disparte i do-dici discepoli e lungo il cammino disse loro: «Ecco, noi saliamo a Gerusalemme e il Figlio dell’uomo sarà conse-gnato ai capi dei sacerdoti e agli scribi; lo condanneranno a morte e lo consegneranno ai pagani perché venga deriso e flagellato e crocifisso, e il terzo giorno risorgerà».

Matteo 20,17-19

Di questa vita perduta, totalmente mia, e totalmente loro, io rendo grazie a Dio che sembra averla voluta tutta inte-ra per quella gioia, attraverso e nonostante tutto.

I monaci di Tibhirine

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GIOVEDÌ 25 FEBBRAIO 2016Ger 17,5-10; Sal 1; Lc 16,19-31

Benedetto l’uomo che confida nel Signore e il Signore è la sua fiducia. È come un albero piantato lungo un corso d’acqua, verso la corrente stende le radici; non teme quando viene il caldo, le sue foglie rimangono verdi, nell’anno della siccità non si dà pena, non smette di produrre frutti. Salmo 1

Ma Abramo rispose: “Figlio, ricòrdati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti. Per di più, tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: co-loro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi”. E quello replicò: “Allora, pa-dre, ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre, per-ché ho cinque fratelli. Li ammonisca severamente, perché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento”. Ma Abramo rispose: “Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro”. E lui replicò: “No, padre Abramo, ma se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno”. Abramo rispose: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti”».

Luca 16,25-31

La mia morte, evidentemente, sembrerà dare ragione a quelli che mi hanno rapidamente trattato da ingenuo, o da idealista: “Dica, adesso, quello che ne pensa!”.Ma queste persone debbono sapere che sarà finalmente liberata la mia curiosità più lancinante. Ecco, potrò, se a Dio piace, immergere il mio sguardo in quello del Padre, per contemplare con lui i Suoi figli dell’Islam così come li vede Lui, tutti illuminati dalla gloria del Cristo, frutto della Sua Passione, investiti del dono dello Spirito, la cui gioia segreta sarà sempre di stabilire la comunione,giocando con le differenze.

frère Christian di Tibhirine

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VENERDÌ 26 FEBBRAIO 2016Gen 37,3-4.12-13a 17b-28; Sal 104; Mt 21,33-43.45-46

INNO

Sole tu sei di giustizia, o Cristo, che il nuovo giorno accendi sul mondo, tu dalle tenebre libera i cuori,accendi ora le forze del bene.

In questo tempo propizio, Signore,a penitenza conduci gli spiriti: tutti converti al tuo vero amore quanti conforta la lunga pietà.

Venuto è il tempo, è questo il tuo giornoin cui riprendon le cose a sperare, e rifiorendo insieme pur noi già pregustiamo la gioia di pasqua.

Unico Dio, tre volte Signore, sii adorato da tutte le cose,e noi, rinati dal tuo perdono,già ora il cantico nuovo cantiamo.

In ascolto della Parola

Quando uscirono, gioì l’Egitto, che era stato colpito dal loro terrore. Distese una nube per proteggerli e un fuoco per illuminarli di notte. Alla loro richiesta fece venire le quaglie e li saziò con il pane del cielo. Spaccò una rupe e ne sgorgarono acque: scorrevano come fiumi nel deserto. Così si è ricordato della sua parola santa, data ad Abramo suo servo. Dal Salmo 104

In quel tempo, Gesù disse ai capi dei sacerdoti e agli anzia-ni del popolo: «Ascoltate un’altra parabola: c’era un uomo che possedeva un terreno e vi piantò una vigna. La circon-dò con una siepe, vi scavò una buca per il torchio e costruì una torre. La diede in affitto a dei contadini e se ne andò lontano. Quando arrivò il tempo di raccogliere i frutti, mandò i suoi servi dai contadini a ritirare il raccolto. Ma i contadini presero i servi e uno lo bastonarono, un altro lo uccisero, un altro lo lapidarono. Mandò di nuovo altri servi, più numerosi dei primi, ma li trattarono allo stes-so modo. Da ultimo mandò loro il proprio figlio dicendo: “Avranno rispetto per mio figlio!”. Ma i contadini, visto il figlio, dissero tra loro: “Costui è l’erede. Su, uccidiamolo e avremo noi la sua eredità!”. Lo presero, lo cacciarono fuori dalla vigna e lo uccisero. Quando verrà dunque il padrone della vigna, che cosa farà a quei contadini?». Gli risposero: «Quei malvagi, li farà morire miseramente e darà in affitto la vigna ad altri contadini, che gli consegneranno i frutti a

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suo tempo». E Gesù disse loro: «Non avete mai letto nelle Scritture: “La pietra che i costruttori hanno scartato è di-ventata la pietra d’angolo; questo è stato fatto dal Signore ed è una meraviglia ai nostri occhi?”. Perciò io vi dico: a voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti». Udite queste parabole, i capi dei sacer-doti e i farisei capirono che parlava di loro. Cercavano di catturarlo, ma ebbero paura della folla, perché lo conside-rava un profeta. Matteo 21,33-43.45

chi si ascolta, a ciò che si ascolta, a come si ascolta. Il che implica un continuo discernimento fra la Paro-la e le parole, una faticosa opera di riconoscimento della Parola di Dio nelle parole umane, della sua vo-lontà negli eventi storici, e la disposizione globale di tutta la persona umana. Nella vita spirituale si cresce a misura che si scende nelle profondità dell’ascol-to. Ascoltare infatti significa non solo confessare la presenza dell’ altro, ma accettare di far spazio in se stessi a tale presenza fino a essere dimora dell’ altro. L’esperienza dell’inabitazione della presenza divina in se stessi (le visite del Verbo di cui san Bernardo più volte si confessa beneficiario a seguito della sua lectio biblica) non è dissociabile dal divenire capa-ci di «dare ospitalità» agli altri grazie all’ ascolto. Si comprende così che colui che ascolta, che definisce la sua identità in base al paradigma dell’ ascolto, sia anche colui che ama: in radice è vero che l’amore na-sce dall’ ascolto, amor ex auditu. L’ascolto «di Dio», con tutte le dimensioni - di silenzio, di attenzione, di interiorizzazione, di sforzo spirituale per tratte-nere ciò che si è ascoltato, di decentramento da sé e ricentramento sull’Altro - che esso esige, diviene ac-coglienza, o meglio, svelamento in sé di una presen-za intima a noi più ancora di quanto lo sia il nostro stesso «io». L’ascolto porta il credente a rifare l’espe-rienza di Giacobbe, quando il patriarca esclamò: «Il Signore è qui e io non lo sapevo» (Genesi 28,16). Ma

ASCOLTO

«Incapaci di ascoltare e di parlare»: così sono gli uomini secondo un frammento di Eraclito. Il-

cristiano ha piena coscienza che la sua capacità di parlare al suo Dio, che egli non può vedere, dipen-de dall’ ascoltarlo. La fede nasce dall’ascolto: fides ex auditu (Romani 10,17), e la preghiera è anzitutto ascolto, un ascolto di Dio attraverso quel sacramen-to della sua Parola che sono le Scritture, e un ascolto di Dio nella storia, nel quotidiano; un ascolto possi-bile quando la lunga frequentazione con l’Evangelo ha educato il discernimento del credente. Il cristia-no trova infatti la fonte del suo vedere nell’ascol-tare. Non stupisce pertanto che il cristianesimo sia anzitutto un’ ascesi dell’ ascolto, un’arte dell’ascolto. Il Nuovo Testamento chiede di prestare attenzione a

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il luogo di Dio non è altro che la persona umana. Per la Bibbia, infatti, Dio non è «Colui che è», ma «Colui che parla», e parlando cerca relazione con l’uomo e suscita la sua libertà: infatti, se la Parola è un dono, essa può sempre essere accolta o rifiutata. Per que-sto la vita spirituale cristiana fa anche della lettura un’ ascesi, un movimento di incontro con Colui che parla attraverso la pagina biblica. La tradizione ebrai-ca chiama Miqra’ la Bibbia, con un termine che indi-ca una «chiamata» a uscire «da» per andare «verso»: ogni atto di lettura della Bibbia, per un credente, è l’inizio di un esodo, di un cammino di uscita da sé per incontrare un Altro. Un esodo che avviene es-senzialmente nell’ascolto! Non a caso le narrazioni bibliche dicono che il grande ostacolo al cammino di liberazione esodico del popolo d’Israele dall’Egitto fu la «durezza di cuore», la «dura cervice», cioè l’o-stinazione a non ascoltare Dio per ascoltare solo se stessi. Ma è anche vero che l’esperienza biblica, e poi l’esperienza del credente, scopre che Dio è anche «Colui che ascolta la preghiera». L’ascolto dell’uomo porta a conoscere l’ascolto di Dio come dimensione in cui egli stesso è immerso, che lo precede e fonda. Dice Paolo: «In Lui viviamo, ci muoviamo ed esistia-mo» (Atti 17,28). L’ascolto è l’atteggiamento contem-plativo, antidolatrico per eccellenza. Grazie ad esso il cristiano cerca di vivere nella coscienza della pre-senza di Dio, dell’ Altro che fonda il mistero irriduci-bile di ogni alterità. Il cristiano vive di ascolto.

Dalla tradizione religiosa universalePossano i ciechi riconoscere le forme, possano i sor-di udire i suoni, e possa ogni donna incinta parto-rire senza dolore. Possa il nudo trovare il vestito, e l’affamato il cibo; possa il disperato trovare nuova speranza, costante felicità e prosperità. Possano tut-ti coloro che sono sofferenti e malati rapidamente essere liberati dalla loro sofferenza, e possa mai più verificarsi alcuna malattia nel mondo. Possa il timo-roso cessare di avere paura e coloro che sono prigio-nieri essere liberati e possa la gente avere pensieri di amicizia. Possano tutti i viandanti trovare felicità, ovunque si rechino, e senza alcuno sforzo siano in grado di compiere quanto si sono proposti di fare. Possano i bambini, gli anziani, gli abbandonati, i ma-lati di mente essere protetti da benefattori celesti. Possa nessuna creatura vivente mai soffrire, fare del male o ammalarsi; possa nessuno avere paura o esse-re sminuito, o il suo animo essere depresso.

(Preghiera buddista)

OrazioneO Dio, che con il dono del tuo amore ci riempi di ogni be-nedizione, trasformaci in creature nuove, per essere pre-parati alla Pasqua gloriosa del tuo Regno. Guarda, Dio on-nipotente, l’umanità sfinita per la sua debolezza mortale, e fa’ che riprenda vita per la passione del tuo unico Figlio.

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SABATO 27 FEBBRAIO 2016Mi 7,14-15.18-20; Sal 102; Lc 15,1-3.11-32

Quale dio è come te, che toglie l’iniquità e perdona il peccato al resto della sua eredità? Egli non serba per sempre la sua ira, ma si compiace di manifestare il suo amore. Egli tornerà ad avere pietà di noi,calpe-sterà le nostre colpe.

Michea 7,18-19

Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiun-se in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. Si alzò e tornò da suo padre. Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe com-passione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò.

Luca 15,11-14.17-20

Credo che di fronte alla tentazione onnipresente dell’inte-gralismo che l’Islam ufficiale veicola, noi possiamo, aven-do relazioni antiche e improntate alla fiducia con i vicini, invitarli continuamente a restare aperti. Sono profonda-mente convinto che «apertura» sia la parola maestra della testimonianza cristiana oggi in questo Paese.

frère Christian di Tibhirine

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3ª DOMENICA DI QUARESIMA 28 febbraio 2016Es 3,1-8a.13-15; Sal 102; 1Cor 10,1-6.10-12; Lc 13,1-9

L’angelo del Signore gli apparve in una fiamma di fuoco dal mezzo di un roveto. Egli guardò ed ecco: il roveto ar-deva per il fuoco, ma quel roveto non si consumava.Mosè pensò: «Voglio avvicinarmi a osservare questo gran-de spettacolo: perché il roveto non brucia?». Il Signore vide che si era avvicinato per guardare; Dio gridò a lui dal roveto: «Mosè, Mosè!». Rispose: «Eccomi!». Riprese: «Non avvicinarti oltre! Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è suolo santo!».

Esodo 3,2-5

Diceva anche questa parabola: «Un tale aveva piantato un albero di fichi nella sua vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò. Allora disse al vignaiolo: “Ecco, sono tre anni che vengo a cercare frutti su quest’albero, ma non ne tro-vo. Taglialo dunque! Perché deve sfruttare il terreno?”. Ma quello gli rispose: “Padrone, lascialo ancora quest’anno, finché gli avrò zappato attorno e avrò messo il concime. Vedremo se porterà frutti per l’avvenire; se no, lo taglie-rai”».

Luca 13,6-9

«Poiché ti basta un niente, solo un sì per fare l’impossibile qui, per favore prendimi presto».

frère Christian di Tibhirine

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UNA FRAGILITÀ FECONDA

Può sembrare sorprendente l’atteggiamento di Gesù di fronte ai tragici fatti di cui si dice nel

Vangelo di questa domenica: non partecipa allo sgomento e alle discussioni che esso suscita. So-prattutto non asseconda la ricerca delle cause o dei colpevoli che sempre accompagna questi fat-ti. Per noi infatti sembra che la cosa più impor-tante e più urgente sia quella di rispondere alla domanda “di chi è la colpa” o di sapere la causa precisa e sicura che ha prodotto il fatto. Magari per pensare che noi non rientriamo in questa ca-sistica e dunque siamo al riparo da queste tragi-che eventualità. Più radicalmente di fronte a que-sti fatti dove alcune persone muoiono, sorgono le classiche domande: perché Dio lo permette? Perché non interviene per fermare la mano degli omicidi? Forse, come ha detto qualcuno, prima di chiederci perché si muore e perché Dio non prende posizione per togliere questo scandalo che è la morte occorrerebbe chiederci perché si vive. La vita infatti non è così scontata come può apparire. E allora scopriremmo che il perché della vita sta in quel senso buono che le è stato regalato fin dall’inizio e che si nasconde dentro

la sua fragilità e finitezza, con queste profonda-mente intrecciato. La morte forse è la manifesta-zione ultima di quella finitezza che custodisce il senso buono. Gesù allora è preoccupato proprio di questo: che gli avvenimenti, anche tragici, ci istruiscano sul senso della vita e della morte. Ci istruiscano prima di tutto sulla precarietà della vita che proprio perché è un miracolo non si può possedere come cosa propria che duri sempre, ci istruiscono sulla fragilità e caducità delle nostre sicurezze. Essere consapevoli non solo sul piano generale che la vita è sempre in qualche modo esposta ad essere persa ed è attraversata da ciò che la minaccia, non per vivere in perenne ansia e agitazione o paura, ma per valorizzare il sen-so buono che c’è in ogni suo frammento perché proprio in questa fragile carne è venuto ad abi-tare il Figlio dell’uomo. Soprattutto Gesù invita a saper riconoscere che nella vita c’è un male più radicale e decisivo rispetto al male fisico che è la morte, ed è il male morale, il peccato. Questo fa morire le radici della la vita e da qui scaturisce il “ma se non vi convertite perirete tutti allo stesso modo”. La reale morte fisica, causata da eventi imponderabili o da responsabilità umane, diven-ta allora figura e richiamo alla morte “seconda”

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come la chiamerebbe la tradizione cristiana. Quello quaresimale è allora un cammino di con-versione nell’attesa della Pasqua del Signore, del suo passare nella fragilità e morte della nostra umanità per compiere la promessa di bene e di vita che in essa è stata seminata fin dalla crea-zione del mondo. A fronte delle domande: ma come è possibile la conversione? Non sarà per caso una fatica di Sisifo per cui ogni sforzo ri-sulta vano dal momento che in ogni momento si riaffaccia la possibilità del male e del peccato?A che pro se si spinge il masso del proprio peccato in cima al monte ma subito dopo esso rotola giù e ci si ritrova al punto di partenza nella necessità di riprendere lo sforzo? Due consolazioni ci offre Gesù nella sua Parola. Dio è paziente, sa aspetta-re ancora un anno, cioè il tempo che ci è dato da vivere, che non è infinito e tuttavia porta dentro una pazienza infinita e appassionata (pazienza deriva da passione, una passione che non si con-suma nell’attimo ma sa distendersi nel tempo). Proprio come la paziente pedagogia del Padre nei confronti del suo popolo. E allora al fico vie-ne rinnovata la cura e l’attesa. A questa pazienza del Padre concorre l’azione del Figlio, il vignaiolo che conoscendo direttamente la fragilità dell’u-

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mano, in un certo senso potremmo dire la rende presente al Padre e gli permette di esplicitare tutta la sua (del Padre) passione e il suo amore per gli uomini, che sono resi figli proprio attra-verso il Figlio. La possibilità della conversione al-lora non è remota, ma vicina, a portata di mano, e la vita, nella sua fragilità diventa sorprenden-temente feconda, capace di portare frutto pur rimanendo fragile.

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Una settimana con…. DIETRICH BONHOEFFER

Dio non si vergogna della bassezza dell’uomo, vi entra dentro. Dio è vicino alla bassezza, ama ciò che è perduto, ciò che non è considerato, l’insigni-ficante, ciò che è emarginato, debole e affranto; dove gli uomini dicono “perduto”, lì egli dice “sal-vato”; dove gli uomini dicono “no”, lì egli dice “sì”. Dove gli uomini distolgono con indifferenza o al-tezzosamente il loro sguardo, lì egli posa il suo sguardo pieno di amore ardente e incomparabile. Dove gli uomini dicono “spregevole”, lì Dio escla-ma “beato”. Dove nella nostra vita siamo finiti in una situazione in cui possiamo solo vergognarci davanti a noi stessi e davanti a Dio, dove pensia-mo che anche Dio dovrebbe adesso vergognarsi di noi, dove ci sentiamo lontani da Dio come mai nella vita, proprio lì Dio ci è vicino come mai lo era stato prima. Lì egli vuole irrompere nella no-stra vita, lì ci fa sentire il suo approssimarsi, af-finché comprendiamo il miracolo del suo amore, della sua vicinanza e della sua grazia.

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LUNEDÌ 29 FEBBRAIO 20162Re 5,1-15a; Sal 41 e 42; Lc 4,24-30

L’anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente: quan-do verrò e vedrò il volto di Dio? Le lacrime sono il mio pane giorno e notte, mentre mi dicono sempre: «Dov’è il tuo Dio?». Questo io ricordo e l’anima mia si strugge: avanzavo tra la folla, la precedevo fino alla casa di Dio, fra canti di gioia e di lode di una moltitudine in festa.

Dal Salmo 41

«In verità io vi dico: nessun profeta è bene accetto nella sua patria. Anzi, in verità io vi dico: c’erano molte vedove in Israele al tempo di Elia, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una grande carestia in tutto il paese; ma a nessuna di esse fu mandato Elia, se non a una vedo-va a Sarepta di Sidone. C’erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo; ma nessuno di loro fu purificato, se non Naamàn, il Siro».

Luca 4,24-28

Il primo servizio che si deve al prossimo è quello di ascol-tarlo. Come l’amore di Dio incomincia con l’ascoltare la sua Parola, così l’inizio dell’amore per il fratello sta nell’imparare ad ascoltarlo. Chi non sa ascoltare il fratel-lo, ben presto non saprà neppure più ascoltare Dio. Anche di fronte a Dio sarà sempre lui a parlare.

Dietrich Bonhoeffer

MARTEDÌ 1 MARZO 2016Dn 3,25.34-43; Sal 24; Mt 18,21-35

Guidami nella tua fedeltà e istruiscimi, perché sei tu il Dio della mia salvezza; io spero in te tutto il giorno. Ricòrdati, Signore, della tua misericordia e del tuo amo-re, che è da sempre. I peccati della mia giovinezza e le mie ribellioni, non li ricordare: ricòrdati di me nella tua misericordia, per la tua bontà, Signore. Dal Salmo 24

Per questo, il regno dei cieli è simile a un re che volle regolare i conti con i suoi servi. Aveva cominciato a regolare i conti, quando gli fu presentato un tale che gli doveva diecimila ta-lenti. Poiché costui non era in grado di restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, i figli e quanto possedeva, e così saldasse il debito. Allora il servo, prostrato a terra, lo supplicava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti re-stituirò ogni cosa”. Il padrone ebbe compassione di quel ser-vo, lo lasciò andare e gli condonò il debito. Matteo 18,23-27

Ci sono uomini che ritengono poco serio, e cristiani che ritengono poco pio, sperare in un futuro terreno migliore e prepararsi ad esso. Essi credono che il senso dei presenti accadimenti sia il caos, il disordine, la catastrofe, e si sot-traggono nella rassegnazione o in una pia fuga dal mon-do alla responsabilità per la continuazione della vita, per la ricostruzione, per le generazioni future. Può darsi che domani spunti l’alba dell’ultimo giorno: allora, non prima, noi interromperemo volentieri il lavoro per un futuro mi-gliore. Dietrich Bonhoeffer

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MERCOLEDÌ 2 MARZO 2016Dt 4,1.5-9; Sal 147; Mt 5,17-19

È bello cantare inni al nostro Dio, è dolce innalzare la lode. Il Signore ricostruisce Gerusalemme, raduna i dispersi d’Israele; risana i cuori affranti e fascia le loro ferite. Egli conta il numero delle stelle e chia-ma ciascuna per nome. Grande è il Signore nostro, grande nella sua potenza; la sua sapienza non si può calcolare.

Dal Salmo 147

In verità io vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà un solo iota o un solo trattino della Leg-ge, senza che tutto sia avvenuto. Chi dunque trasgredirà uno solo di questi minimi precetti e insegnerà agli altri a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli. Chi invece li osserverà e li insegnerà, sarà considerato grande nel regno dei cieli.

Matteo 5,18-19

Il cristiano non ha sempre un’ultima via di fuga dai compiti e dalle difficoltà terrene nell’eterno, come chi crede nei miti della redenzione, ma deve assaporare fino in fondo la vita terrena come ha fatto Cristo («mio Dio, perché mi hai abbandonato?») e solo così facendo il crocifisso e risorto è con lui ed egli è crocifisso e risorto con Cristo. L’aldiquà non deve essere soppresso prematuramente.

Dietrich Bonhoeffer

GIOVEDÌ 3 MARZO 2016Ger 7,23-28; Sal 94; Lc 11,14-23

“Ascoltate la mia voce, e io sarò il vostro Dio e voi sarete il mio popolo; camminate sempre sulla strada che vi prescriverò, perché siate felici”.

Geremia 7,23

Gesù stava scacciando un demonio che era muto. Uscito il demonio, il muto cominciò a parlare e le folle furono prese da stupore. Ma alcuni dissero: «È per mezzo di Be-elzebùl, capo dei demòni, che egli scaccia i demòni».Egli, conoscendo le loro intenzioni, disse: «Ogni regno diviso in se stesso va in rovina e una casa cade sull’altra. Ora, se an-che Satana è diviso in se stesso, come potrà stare in piedi il suo regno? Voi dite che io scaccio i demòni per mezzo di Beelzebùl. Ma se io scaccio i demòni per mezzo di Beel-zebùl, i vostri figli per mezzo di chi li scacciano? Per questo saranno loro i vostri giudici. Se invece io scaccio i demòni con il dito di Dio, allora è giunto a voi il regno di Dio».

Matteo 18,23-27

Dio si lascia cacciare fuori del mondo sulla croce, Dio è im-potente e debole nel mondo e appunto solo così egli ci sta al fianco e ci aiuta. […] Qui sta la differenza decisiva rispet-to a qualsiasi religione. La religiosità umana rinvia l’uomo nella sua tribolazione alla potenza di Dio nel mondo, Dio è il deus ex machina. La Bibbia rinvia l’uomo all’impotenza e alla sofferenza di Dio, solo il Dio sofferente può aiutare.

Dietrich Bonhoeffer

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VENERDÌ 4 MARZO 2016Os 14,2-10; Sal 80; Mc 12,28b-34

INNO

Favorevole tempo è questo,- lo proclama di Dio la parola -per sanare un mondo malato, in preghiera e in santo digiuno.

Nella luce gloriosa di Cristodi salvezza il giorno risplende, mentre i cuori feriti da colpe l’astinenza rinnova e conforta.

Dio, guida ogni uomo a pentirsi, corpi e anime libera e salva: fortunato cammino ci portialla festa di pasqua perenne.

Ogni cosa ti adori, o Dio,per tre volte Signore infinito;fatti nuovi dal tuo perdonocanteremo il cantico nuovo.

In ascolto della Parola

Io li guarirò dalla loro infedeltà, li amerò profondamente, poiché la mia ira si è allontanata da loro. Sarò come rugia-da per Israele; fiorirà come un giglio e metterà radici come un albero del Libano, si spanderanno i suoi germogli e avrà la bellezza dell’olivo e la fragranza del Libano.

Osea 14,5-7

Si avvicinò a Gesù uno degli scribi e gli domandò: «Qual è il primo di tutti i comandamenti?». Gesù rispose: «Il pri-mo è: “Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Si-gnore; amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza”. Il secondo è questo: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Non c’è altro comandamento più grande di questi». Lo scriba gli disse: «Hai detto bene, Maestro, e secondo verità, che Egli è unico e non vi è altri all’infuori di lui; amarlo con tutto il cuore, con tutta l’intelligenza e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici».Vedendo che egli aveva risposto saggiamente, Gesù gli dis-se: «Non sei lontano dal regno di Dio». E nessuno aveva più il coraggio di interrogarlo.

Marco 12,28-34

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sviluppato: digiuno totale, astinenza dalle carni, as-sunzione di cibi vegetali o soltanto di pane e acqua - sia sostituibile con qualsiasi altra mortificazione o privazione. Il mangiare infatti rinvia al primo modo di relazione del bambino con il mondo esterno: il bambino non si nutre solo del latte materno, ma ini-zialmente conosce l’in distinzione fra madre e cibo; quindi si nutre delle presenze che lo attorniano: egli «mangia», introietta voci, odori, forme, visi, e così, pian piano, si edifica la sua personalità relazionale e affettiva. Questo significa che la valenza simbolica del digiuno è attinente alla globalità di questi aspetti e pertanto la sua peculiarità non può trovare degli «equivalenti»in altre forme di ascesi che, rivestendo altre valenze simboliche, non possono svolgere la sua funzione. Gli esercizi ascetici non sono interscambia-bili! Con il digiuno noi impariamo a conoscere e a moderare i nostri tanti appetiti attraverso la mode-razione dell’appetito fondamentale e vitale: la fame, e impariamo a disciplinare le nostre relazioni con gli altri, con la realtà esterna e con Dio, relazioni sem-pre tentate di voracità. Il digiuno è ascesi del biso-gno ed educazione del desiderio. Solo un cristiane-simo insipido e stolto che si comprende sempre più come morale sociale può liquidare il digiuno come sostanzialmente irrilevante e pensare che qualsia-si privazione di cose superflue (dunque non vitali come il mangiare) possa essergli sostituita. Questa è una tendenza docetica che rende «apparente» la creaturalità umana e che dimentica sia lo spessore

DIGIUNO

Assistiamo oggi in Occidente a un’ eliminazione de facto della pratica ecclesiale del digiuno: così

una prassi vissuta già da Israele, riproposta da Cristo, accolta dalla grande tradizione ecclesiale, è sempre meno presente, non più richiesta... Eppure, per ritro-vare la propria verità, quella verità umana che con la grazia diventa la verità cristiana, occorre pensare, pregare, condividere i beni, conoscere il male che ci abita, ma anche digiunare, inteso come disciplina dell’ oralità. Il mangiare appartiene al registro del de-siderio, deborda la semplice funzione nutritiva per ri-vestire rilevanti connotazioni affettive e simboliche. L’uomo, in quanto uomo, non si nutre di solo cibo, ma di parole e gesti scambiati, di relazioni, di amo-re, cioè di tutto ciò che dà senso alla vita nutrita e sostentata dal cibo. Il mangiare del resto avviene in-sieme, in una dimensione di convivialità, di scambio. L’oralità è connessa alle dimensioni del «mangiare», del «parlare», del «baciare», dunque alle dimensio-ni biologica, comunicativa e affettiva dell’ esistenza umana, e per questo ci rinvia alla totalità della perso-na che «vive» di queste dimensioni. Il digiuno svolge così la fondamentale funzione di farci sapere qual è la nostra fame, di che cosa viviamo, di che cosa ci nutriamo, e di ordinare i nostri appetiti intorno a ciò che è veramente centrale. E tuttavia sarebbe profon-damente ingannevole pensare che il digiuno - nella varietà di forme e gradi che la tradizione cristiana ha

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mologia di «adorare» contiene il rimando alla bocca, os-oris, alla dimensione dell’oralità). In un tempo in cui il consumismo ottunde la capacità di discernere tra veri e falsi bisogni, in cui lo stesso digiuno e le te-rapie dietetiche divengono oggetto di business, in cui pratiche orientali di ascesi ripropongono il digiuno, e la quaresima è sbrigativamente letta come 1’equiva-lente del ramadan musulmano, il cristiano ricordi il fondamento antropologico e la specificità cristiana del digiuno: esso è in relazione alla fede perché fon-da la domanda: «Cristiano, di che cosa vivi?».

del corpo sia il suo essere tempio dello Spirito san-to. In verità il digiuno è la forma con cui il credente confessa la fede nel Signore con il suo stesso corpo, è antidoto alla riduzione intellettualistica della vita spirituale o alla sua confusione con lo psicologico. Certamente, poiché il rischio di fare del digiuno un’ opera meritoria, una performance ascetica è presen-te, la tradizione cristiana ricorda che esso deve avve-nire nel segreto, nell’umiltà, con uno scopo preciso: la giustizia, la condivisione, l’amore per Dio e per il prossimo (Isaia 58,4-7; Matteo 6,I-I8). Ecco perché la tradizione cristiana è molto equilibrata e sapiente su questo tema: «Il digiuno è inutile e anche dannoso per chi non ne conosce i caratteri e le condizioni» (Giovanni Crisostomo); «È meglio mangiare carne e bere vino piuttosto che divorare con la maldicenza i propri fratelli» (abba Iperechio); «Se praticate l’ascesi di un regolare digiuno, non inorgoglitevi. Se per que-sto vi insuperbite, piuttosto mangiate carne, perché è meglio mangiare carne che gonfiarsi e vantarsi» (Isidoro Presbitero). Sì, noi siamo ciò che mangiamo, e il credente non vive di solo pane, ma soprattutto della Parola e del Pane eucaristici, della vita divina: una prassi personale ed ecclesiale di digiuno fa parte della sequela di Gesù che ha digiunato (Matteo 4,2), è obbedienza al Signore che ha chiesto ai suoi discepo-li la preghiera e il digiuno (Matteo 6,16-18; 9,15; Marco 9,29; cfr. Atti 13,2-3; 14,23), è confessione di fede fatta con il corpo, è pedagogia che porta la totalità del-la persona all’ adorazione di Dio (e si noti che 1’eti-

Dalla tradizione religiosa universaleAscolta la nostra voce, Signore nostro Dio, sii pieto-so nei nostri confronti; non farci allontanare dal tuo volto, nostro re; perché tu ascolti le preghiere di ogni persona. Tu sia lodato, Signore, che odi le preghiere.

(Preghiera ebraica)

Orazione Padre Santo e buono, tuo Figlio Gesù ha vissuto in mezzo a noi come un medico per quelli che si riconoscevano malati: rendici consapevoli del nostro peccato affinché cerchiamo in lui la nostra guarigione e possiamo cantare la nostra comunione con te e i fratelli. Sii benedetto ora e nei secoli dei secoli. Amen.

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SABATO 5 MARZO 2016Os 6,1-6; Sal 50; Lc 18,9-14

Venite, ritorniamo al Signore: egli ci ha straziato ed egli ci guarirà. Egli ci ha percosso ed egli ci fascerà. Dopo due giorni ci ridarà la vita e il terzo ci farà rial-zare, e noi vivremo alla sua presenza. Osea 6,1-2

Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli al-tri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le de-cime di tutto quello che possiedo”. Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”. Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato.

Luca 18,10-14

Io vorrei parlare di Dio non ai limiti, ma al centro, non nelle debolezze, ma nella forza, non dunque in relazione alla morte e alla colpa, ma nella vita e nel bene dell’uomo. Raggiunti i limiti, mi pare meglio tacere e lasciare irrisolto l’irrisolvibile.

Dietrich Bonhoeffer

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4ª DOMENICA DI QUARESIMA 6 MARZO 2016Gs 5,9a.10-12; Sal 33; 2Cor 5,17-21;Lc 15,1-3.11-32

Guardate a lui e sarete raggianti, i vostri volti non dovran-no arrossire. Questo povero grida e il Signore lo ascolta, lo salva da tutte le sue angosce. Gustate e vedete com’è buono il Signore; beato l’uomo che in lui si rifugia.

Dal Salmo 33

Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a sup-plicarlo. Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai am-mazzato il vitello grasso”. Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”».

Luca 15,25-32

Essere cristiano non significa essere religioso in un deter-minato modo, fare qualcosa di se stessi (un peccatore, un penitente o un santo) in base ad una certa metodica, ma significa essere uomini; Cristo crea in noi non un tipo d’uo-mo, ma un uomo. Dietrich Bonhoeffer

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UN PADRE CHE CHIEDE SOLO DI LASCIARSI AMARE

Non è casuale che nel cuore della Quaresima il Vangelo domenicale sia quello delle parabo-

le della misericordia. Per la verità quella riportata dalla odierna liturgia è solo la parabola del Padre misericordioso, omettendo le due parabole del-la pecorella smarrita e della dracma perduta. La misericordia infatti è il cuore stesso del Vangelo e dunque ascoltare le parabole che la racconta-no significa toccarne il cuore. In effetti è proprio il racconto di una storia, più che una elaborata e rigorosa riflessione teorica, a permetterci di capire cosa c’è nel cuore di Dio e cosa significa misericordia da parte del Padre. Papa Francesco ci ha familiarizzato con questo tema e ci aiuta a riconoscerlo proprio come il centro della Rivela-zione cristiana: un Dio instancabilmente in attesa e alla ricerca dell’uomo. Interessante poi, soprat-tutto nella parabola del Padre misericordioso, che i suoi sentimenti di amore per i figli siano svelati paradossalmente (ma avviene così nella vita) proprio quando i figli si allontanano o di fatto sono lontani pur vivendo vicino. In effetti è proprio quando il figlio minore torna a casa che

questi scopre l’amore del padre. Prima lo pensa-va e lo considerava come un padrone dal quale pretendere ciò che gli spettava. Non immaginava che lui, figlio, fosse così prezioso per il padre. Per lui il padre era solo uno che aveva un patrimonio che avrebbe dovuto cedere al figlio. Uno dal qua-le ricavare vantaggi economici. E invece si accor-ge che il padre nel silenzio dell’attesa custodiva sentimenti di amore incontenibile, da sempre. La colpa in effetti se riconosciuta e confessata, se è il punto da cui partire per un cammino di con-versione ci permette di fare l’esperienza di un Amore sorprendente che sempre c’era ma di cui non ci eravamo accorti. Il padre manifesta que-sti sentimenti anche al figlio maggiore; pure lui, seppur in forma diversa, si presenta incapace di capire e di vedere i sentimenti del Padre. Anche per lui la colpa è quella di vedere il rapporto con il Padre non come un legame di amore che porta a una condivisione, ma come un laccio che im-pedisce la propria autonomia. Sia il figlio minore che quello maggiore vivono il rapporto con il pa-dre come un ostacolo alla propria libertà, intesa appunto come pura autonomia. In realtà quando la libertà non si concepisce all’interno di un le-game, cioè a una direzione e a un senso che le

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dà valore, quando la libertà non trova una buona causa che la sostiene e la orienta, alla fine finisce per pregiudicare il rapporto con se stessi e con gli altri. Un rapporto poco umano con se stessi (il figlio maggiore) perché il lavoro e ogni attività svolta vengono visti solo come una prestazione dove vige il diritto a ciò che spetta e dove la qua-lità fraterna o filiale del rapporto viene perso. Un rapporto poco umano con gli altri (figlio minore) perché con questo tipo di libertà si finisce per offendere la propria e l’altrui dignità. Il figlio mi-nore infatti si riduce a “mangiare contendendo il cibo ai porci” e finisce per considerare le perso-ne come puro oggetto del proprio piacere. Ma la grandezza della misericordia del Padre sta nel non rassegnarsi alla mentalità dei suoi figli. Lui non si ferma e non vuol sapere quale è il motivo per cui il figlio minore è tornato, gli basta che sia tornato, così cerca di far entrare alla festa il figlio maggiore facendo appello al legame di amore e di condivisione che lega il padre al figlio. Un Dio così può certo suscitare mormorazioni e malu-mori, soprattutto per chi è abituato a ridurre la fede a una religione della prestazione facendo il computo di meriti e demeriti. Invece lo stile è proprio quello di un Padre che chiede solo di

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lasciarsi amare, di sentirsi figli, perché solo così ci si può sentire fratelli e sentire la responsabilità nei confronti del prossimo. E sentirsi figli signifi-ca riconoscere il proprio debito e la propria fra-gilità che Dio però non ci fa pesare e non ci rin-faccia. Piuttosto egli la considera una occasione ulteriore per mettere in atto la sua misericordia, avendo Lui un cuore attento alla debolezza dei figli dell’uomo.

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Una settimana con…. padre DAVID MARIA TUROLDO

La realizzazione della propria umanità: questo è il solo scopo della vita che siamo chiamati ad es-sere, questa umanità di Dio, che è, appunto, il so-gno di Dio. Ecco. Magari fosse possibile dire: sono arrivato! Ma non sono arrivato mai. E il progres-so, il benessere, l’ ”essere bene” non sta nei pos-sedimenti o nei libri o nelle cariche; sta in questa umanità realizzata giorno per giorno. E anzi se un giorno va male non scoraggiarsi perché la faremo andare bene oggi. Questa è la ragione della vita, tanto più la ragione del credere e del pregare.

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LUNEDÌ 7 MARZO 2016Is 65,17-21; Sal 29; Gv 4,43-54

Ecco, infatti, io creo nuovi cieli e nuova terra; non si ricorderà più il passato, non verrà più in mente, poi-ché si godrà e si gioirà sempre di quello che sto per creare, poiché creo Gerusalemme per la gioia, e il suo popolo per il gaudio. Io esulterò di Gerusalemme, go-drò del mio popolo. Non si udranno più in essa voci di pianto, grida di angoscia.

Isaia 65,17-19

Andò dunque di nuovo a Cana di Galilea, dove aveva cam-biato l’acqua in vino. Vi era un funzionario del re, che aveva un figlio malato a Cafàrnao. Costui, udito che Gesù era venuto dalla Giudea in Galilea, si recò da lui e gli chiedeva di scendere a guarire suo figlio, perché stava per morire. Gesù gli disse: «Se non vedete segni e prodigi, voi non cre-dete». Il funzionario del re gli disse: «Signore, scendi pri-ma che il mio bambino muoia». Gesù gli rispose: «Va’, tuo figlio vive». Quell’uomo credette alla parola che Gesù gli aveva detto e si mise in cammino.

Giovanni 4,46-50

Il profeta è quello che denuncia il presente! Il futuro del mondo è la Parola di Dio. Bisogna risvegliare le coscien-ze. La profezia è sempre un esame di coscienza, e questo provoca fastidio. Senza profezia non c’è Chiesa, non c’è cammino.

Padre David Maria Turoldo

MARTEDÌ 8 MARZO 2016Ez 47,1-9.12; Sal 45; Gv 5,1-16

Mi disse: «Queste acque scorrono verso la regione orien-tale, scendono nell’Araba ed entrano nel mare: sfociate nel mare, ne risanano le acque. Ogni essere vivente che si muove dovunque arriva il torrente, vivrà: il pesce vi sarà abbondantissimo, perché dove giungono quelle acque, ri-sanano, e là dove giungerà il torrente tutto rivivrà».

Ezechiele 47,8-9

A Gerusalemme, presso la porta delle Pecore, vi è una piscina, chiamata in ebraico Betzatà, con cinque portici, sotto i quali giaceva un grande numero di infermi, ciechi, zoppi e paralitici. Si trovava lì un uomo che da trentotto anni era malato. Gesù, vedendolo giacere e sapendo che da molto tempo era così, gli disse: «Vuoi guarire?». Gli rispose il malato: «Signore, non ho nes-suno che mi immerga nella piscina quando l’acqua si agita. Men-tre infatti sto per andarvi, un altro scende prima di me». Gesù gli disse: «Àlzati, prendi la tua barella e cammina». E all’istante quell’uomo guarì: prese la sua barella e cominciò a camminare.

Giovanni 5,2-3.5-9

Per pregare bene bisogna conoscere il tempo, il proprio tempo; e il proprio impegno e dovere; e la volontà e il disegno di Dio che opera sempre nella storia. Il cielo del nostro Dio è la storia. Per-ché è nella preghiera che Iddio tesse i fili della nostra fraternità. Perché i confini dell’uomo di preghiera sono gli stessi confini di Dio, cioè nessun confine. Padre David Maria Turoldo

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MERCOLEDÌ 9 MARZO 2016Is 49,8-15; Sal 144; Gv 5,17-30

Il Signore sostiene quelli che vacillano e rialza chiun-que è caduto. Gli occhi di tutti a te sono rivolti in attesa e tu dai loro il cibo a tempo opportuno. Tu apri la tua mano e sazi il desiderio di ogni vivente. Giusto è il Signore in tutte le sue vie e buono in tutte le sue opere. Il Signore è vicino a chiunque lo invoca, a quanti lo invocano con sincerità.

Dal Salmo 144

Gesù riprese a parlare e disse loro: «In verità, in verità io vi dico: il Figlio da se stesso non può fare nulla, se non ciò che vede fare dal Padre; quello che egli fa, anche il Figlio lo fa allo stesso modo. Il Padre infatti ama il Figlio, gli manife-sta tutto quello che fa e gli manifesterà opere ancora più grandi di queste, perché voi ne siate meravigliati».

Giovanni 5,19-21

Questo è un mondo senza misura e senza gloria, perché si è perso il dono e l’uso della contemplazione... civiltà del frastuono. Tempo senza preghiera. Senza silenzio e quindi senza ascolto... E il diluvio delle nostre parole soffoca l’ap-passionato suono della sua Parola.

Padre David Maria Turoldo

GIOVEDÌ 10 MARZO 2016Es 32,7-14; Sal 105; Gv 5,31-47

Rendete grazie al Signore, perché è buono, perché il suo amore è per sempre. Chi può narrare le prodezze del Signore, far risuonare tutta la sua lode? Beati co-loro che osservano il diritto e agiscono con giustizia in ogni tempo. Ricòrdati di me, Signore, per amore del tuo popolo, visitami con la tua salvezza, perché io veda il bene dei tuoi eletti, gioisca della gioia del tuo popolo, mi vanti della tua eredità. Dal Salmo 105

Io però ho una testimonianza superiore a quella di Gio-vanni: le opere che il Padre mi ha dato da compiere, quelle stesse opere che io sto facendo, testimoniano di me che il Padre mi ha mandato. E anche il Padre, che mi ha man-dato, ha dato testimonianza di me. Ma voi non avete mai ascoltato la sua voce né avete mai visto il suo volto, e la sua parola non rimane in voi; infatti non credete a colui che egli ha mandato. Giovanni 5,36-38

L’elemosina non è quella che facciamo noi, quella che in-tendiamo noi, no! “Elemosyné”, cioè l’elemosina, è amore che trabocca. In realtà vuol dire questo. E’ come un vaso pieno il cui contenuto si riversa. L’elemosina è la parteci-pazione misericordiosa alla condizione dell’altro. Solo al-lora tu, in questa maniera, entri nella sfera di Dio, perché Dio è l’esser per l’altro.

Padre David Maria Turoldo

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VENERDÌ 11 MARZO 2016Sap 2,1a.12-22; Sal 33; Gv 7,1-2.10.25-30

INNO

Signore della vitache sempre ci accompagniTu guidi i nostri passidall’ombra al tuo splendore.

Stranieri nel desertochiamati a un’altra terragli sguardi noi fissiamoal Giorno che tu sai.

A te noi ci affidiamoin questo nostro errareun giorno noi vedremoil volto che cerchiamo.

Davanti a noi appario nube luminosai nostri passi guidaal tuo Regno eterno.

Lo Spirito in noi preghio Padre creatorein Cristo il Signorenei secoli infiniti.

In ascolto della Parola

Dicono fra loro sragionando: «La nostra vita è breve e triste; non c’è rimedio quando l’uomo muore, e non si conosce nessuno che liberi dal regno dei morti. Non conoscono i misteriosi segreti di Dio, non sperano ricompensa per la rettitudine né credono a un premio per una vita irreprensibile».

Sapienza,1.22

Dal Vangelo secondo Giovanni (7,1-2.10.25-30)In quel tempo, Gesù se ne andava per la Galilea; infatti non voleva più percorrere la Giudea, perché i Giudei cercava-no di ucciderlo. Si avvicinava intanto la festa dei Giudei, quella delle Capanne. Quando i suoi fratelli salirono per la festa, vi salì anche lui: non apertamente, ma quasi di nascosto. Alcuni abitanti di Gerusalemme dicevano: «Non è costui quello che cercano di uccidere? Ecco, egli par-la liberamente, eppure non gli dicono nulla. I capi hanno forse riconosciuto davvero che egli è il Cristo? Ma costui sappiamo di dov’è; il Cristo invece, quando verrà, nessuno saprà di dove sia». Gesù allora, mentre insegnava nel tempio, esclamò: «Cer-to, voi mi conoscete e sapete di dove sono. Eppure non sono venuto da me stesso, ma chi mi ha mandato è veritie-ro, e voi non lo conoscete. Io lo conosco, perché vengo da lui ed egli mi ha mandato». Cercavano allora di arrestarlo, ma nessuno riuscì a mettere le mani su di lui, perché non

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era ancora giunta la sua ora. Gesù allora, mentre insegnava nel tempio, esclamò: «Certo, voi mi conoscete e sapete di dove sono. Eppure non sono venuto da me stesso, ma chi mi ha mandato è veritiero, e voi non lo conoscete. Io lo conosco, perché vengo da lui ed egli mi ha mandato». Cercavano allora di arrestarlo, ma nessuno riuscì a mettere le mani su di lui, perché non era ancora giunta la sua ora.

Dalla tradizione religiosa universaleSignore, Dio onnipotente, padre del nostro Signore e salvatore Gesù Cristo: noi ti ringraziamo in tutto quello che siamo, per tutto quello che abbiamo ed in tutto quello che soffriamo. Perché tu ci hai protetti e mantenuti, portati e accolti. Tu hai sofferto con noi, e ci hai condotti fino a quest’ora. Noi ti preghiamo, facci terminare questo giorno nel rispetto di te.

(Dalla liturgia copta)

OrazioneO Dio, venendo a noi in Gesù e servendoti di persone fallibili, hai mostrato di voler essere un Dio vulnerabile; ti ringraziamo per la fiducia che ancora ci accordi, di servire e lavorare per l’avvento del tuo regno. Mantienici sempre docili alla tua volontà e al tuo disegno, e apri i nostri oc-chi affinché possiamo vedere le reali necessità delle per-sone attorno a noi. Rendici capaci di imparare in umiltà l’uno dall’altro, cosicché possiamo essere uniti nella co-mune responsabilità e devoti nel servire il tuo regno, per Cristo nostro Signore. Amen.

IDOLATRIA

Cosa evoca in noi il termine «idolatria»? Or-mai abbandonata - o, meglio, confinata alle

estreme terre delle sempre più esigue popola-zioni rimaste «pagane» - l’accezione «feticistica», trasposta in ambito di popolarità sportiva o mu-sicale la dimensione di «adorazione» incantata di un personaggio, messa in crisi una certa idealiz-zazione politica con il relativo culto della per-sonalità, non si può però certo dire che gli idoli siano scomparsi dalla nostra esistenza, con tutto il loro carico di asservimento e di appiattimen-to dell’uomo e della sua libertà. Gli idoli, infatti, continuano a essere opera dell’uomo, e la loro creazione, sopravvivenza, trasformazione e fun-zionamento rispondono a precise istanze e biso-gni antropologici. Non dimentichiamo che l’ido-lo - inteso come «simulacro», «feticcio» - non è la personificazione del dio, e in questo non inganna l’adoratore che è perfettamente consapevole di trovarsi di fronte non al dio in persona bensì a un’ opera delle proprie mani, un «manufatto» che egli stesso offre al dio come «immagine visibile» affinché questi acconsenta ad assumerne il volto. Così, chi adora una statua sa benissimo che il dio

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non coincide con quell’idolo: in essa trova il volto accettato dal divino che sta prima di ogni imma-gine. In questo senso si può dire che l’esperienza umana del divino precede il volto che quel divino assume in essa, l’elaborazione umana del divino anticipa il volto idolatrico e così l’idolo restitui-sce all’uomo, sotto la forma del volto di un dio, la sua stessa esperienza del divino. Così quello che emerge a livello di «simulacro», di oggetto, si rivela autentico anche al livello più profondo (o più alto) dell’immagine: l’idolo, che sia esso sta-tua o realtà immateriale o ideologia, non inganna ma fornisce certezze riguardo al divino. Anche quando appare nel suo aspetto terribile, l’idolo è rassicurante perché identifica,il divino nel volto di un Dio. Forse da questo aspetto nasce la sua sorprendente efficacia «politica»: anticamente esso rendeva vicino, a portata di mano il dio che, identificandosi con la polis, le assicurava un’iden-tità. Ecco perché, anche dopo il tramonto del pa-ganesimo, la politica non ha cessato di suscitare degli idoli: che siano «il grande condottiero» o «l’uomo della Provvidenza» o «il più amato dal-la gente», questi uomini, divinizzati, scongiurano il divino o, se si preferisce, il destino umano. È l’idolatria a conferire dignità al culto della per-

sonalità, a trasformarla in una figura «vicina», fa-miliare, addomesticata del divino. Qui si coglie la dimensione politica dell’idolatria, il suo essere un attentato alla libertà umana, e si comprende anche come la lotta anti-idolatrica richieda ade-sione alla realtà e l’attivazione dell’interiorità, di uno spazio interiore, della capacità critica, affin-ché la libertà non sia solo libertà di reagire, ma di agire, di proporre, di progettare. Non solo, ma questo annullamento della distanza, questa «fa-miliarità» che rende schiavi (non dimentichiamo che il termine familia indicava all’ origine l’insie-me dei servitori di una casa), la si ritrova anche negli idoli «immateriali» così potenti ai giorni no-stri: non è un caso che il mito oggi più affascinan-te - il successo in termini di potere, di denaro e di sesso - venga incontro e dia sfogo a tre libidines insite in ogni essere umano: la libido dominandi, la libido possidendi e la libido amandi. Così, ope-ra non delle mani ma delle pulsioni dell’uomo, queste tre forze si ergono di fronte a lui, gli chie-dono adorazione e servizio, gli rubano la libertà promettendogli partecipazione al «divino», ac-cesso al sovraumano, protezione contro le forze mortifere. Ora, quando il cedimento ai richiami delle tre libidines passa dalla sfera personale a

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quella sociale, assume connotati idolatrici che nella nostra società occidentale si possono iden-tificare sul piano economico con l’adorazione di tutto ciò che si può calcolare, dalla quotazione di un’ azione in borsa al saldo di un conto corrente, al numero di esecutori della propria volontà. In particolare, potremmo affermare, echeggiando il Benjamin di Capitalismo e religione, che, in una società in cui il paradigma dell’ homo oeconomi-cus ha preso il posto dell’homo religiosus, sempre di più il denaro e le istituzioni del mercato ten-tano di appagare quelle preoccupazioni e quelle ansie a cui un tempo davano risposta le religioni. Forse la miglior raffigurazione dell’idolo si trova nella moneta, nella banconota: lo «spirito»del denaro si incarna nella moneta e le immagini del-le banconote sono le icone che rivelano ed ema-nano tale spirito. Nel denaro si «crede» e, certo, la maggior parte degli uomini pone la fiducia nel denaro: il denaro dà sicurezza, fiducia. Eppure esso non è una cosa fisica e non è neppure lega-to alla materia se non come simbolo. Sul piano etico e sociologico l’attitudine idolatrica si iden-tifica invece con l’adeguarsi al comportamento della «massa»: giusto è quello che fanno tutti, in una sorta di dedizione demagogica dell’ adagio

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vox populi, vox Dei. Ma questa «massa», la tanto decantata «gente», non è un’ entità autonoma, li-bera, non è un corpo le cui membra interagiscono per il bene comune, bensì un agglomerato inde-finito, un accostamento di individualità pesante-mente manipolato: così i sondaggi non registrano 1’orientamento degli intervistati ma lo determi-nano, così le opere della finzione - letteraria, ci-nematografica, teatrale - non testimoniano i sen-timenti e i comportamenti di un’ epoca e di una cultura ma li condizionano, così le immagini non garantiscono l’autenticità di un fatto ma lo crea-no. La realtà virtuale non solo supera, ma scaccia la realtà effettiva: allora vero, oggettivo è ciò che appare; lecito è ciò che tecnicamente è possibi-le; encomiabile è ciò che suscita invidia. In fondo la strada verso l’idolatria resta sempre la stessa: un’affascinante strada di schiavitù, le cui catene e la cui gabbia appaiono sempre più dorate ma si rivelano sempre più rigide. È la strada dell’opera-re umano svincolato da un’istanza superiore - la dimensione del «divino» - che sola è capace di far emergere tutta la grandezza dell’uomo e di con-ferirgli unità e pienezza. È significativo che per la Bibbia non esistano gli atei, i senza-Dio: esistono invece gli idolatri ed esiste soprattutto la tenta-

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zione dell’idolatria che colpisce tutti, il creden-te come chi credente non può definirsi. L’uomo abbandonato a sé, l’uomo che ignora o disprezza l’immagine di Dio che abita in se stesso e nel pro-prio simile, l’uomo che pretende di costruire la propria vita da se stesso non è ateo, è idolatra, schiavo di quelle «emanazioni», di quelle forze oscure che penetrano nel cuore umano e ne met-tono in moto gli elementi deteriori.

SABATO 12 MARZO 2016Ger 11,18-20; Sal 7; Gv 7,40-53

Il Signore me lo ha manifestato e io l’ho saputo; mi ha fatto vedere i loro intrighi. E io, come un agnello mansueto che viene portato al macello, non sapevo che tramavano contro di me, e dicevano: «Abbattia-mo l’albero nel suo pieno vigore, strappiamolo dalla terra dei viventi; nessuno ricordi più il suo nome».

Geremia 11,18-19

Le guardie tornarono quindi dai capi dei sacerdoti e dai fari-sei e questi dissero loro: «Perché non lo avete condotto qui?». Risposero le guardie: «Mai un uomo ha parlato così!». Ma i farisei replicarono loro: «Vi siete lasciati ingannare anche voi? Ha forse creduto in lui qualcuno dei capi o dei farisei? Ma questa gente, che non conosce la Legge, è maledetta!». Allora Nicodèmo, che era andato precedentemente da Gesù, ed era uno di loro, disse: «La nostra Legge giudica forse un uomo pri-ma di averlo ascoltato e di sapere ciò che fa?». Gli risposero: «Sei forse anche tu della Galilea? Studia, e vedrai che dalla Galilea non sorge profeta!». Giovanni 7,45-52

No, credere a Pasqua non è giusta fede: troppo bello sei a Pasqua! Fede vera è al venerdì santo quando Tu non c’eri lassù! Quando non una eco risponde al suo alto gridoe a stento il Nulla dà forma alla tua assenza.

Padre David Maria Turoldo

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Dalla tradizione religiosa universaleSignore, nel libro che hai fatto discendere hai detto: invocatemi e io vi esaudirò. Noi ti invochiamo, Si-gnore, come tu hai ordinato. Tu sei colui che sempre mantiene la promessa. (Preghiera mussulmana)

Orazione O Cristo, tu sei con noi, carne della nostra carne. Inse-gnaci a credere, ad amare, a soffrire come tu, uomo, hai creduto, hai amato, sofferto. Cristo, anche tu fosti uomo: ama, perciò, i nostri limiti. Amaci tutti. Non solo i puri e gli attivi, ma anche i rassegnati, gli incostanti, i deboli. A tutti dona la tua capacità di portare amicizia. Cristo, tu sei con noi e ci vieni costantemente incontro nel nostro prossimo. Aprici gli occhi, perché sappiamo riconoscerti presenti soprattutto nei poveri e nei perseguitati. Amen.

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5ª DOMENICA DI QUARESIMA

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13 MARZO 2016Is 43,16-21; Sal 125; Fil 3,8-14; Gv 8,1-11

Così dice il Signore, che aprì una strada nel mare e un sentiero in mezzo ad acque possenti, che fece uscire carri e cavalli, esercito ed eroi a un tem-po; essi giacciono morti, mai più si rialzeranno, si spensero come un lucignolo, sono estinti: «Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche! Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? Aprirò anche nel deserto una strada, immetterò fiumi nella steppa».

Isaia 43,16-19

Gli scribi e i farisei gli condussero una donna sorpresa in adulterio, la posero in mezzo e gli dissero: «Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?». Dicevano questo per met-terlo alla prova e per avere motivo di accusarlo. Ma Gesù si chinò e si mise a scrivere col dito per terra. Tuttavia, poiché insistevano nell’interrogarlo, si alzò e disse loro: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra con-tro di lei». E, chinatosi di nuovo, scriveva per terra. Quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani. Lo lasciarono solo, e la donna era là in mezzo.

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Allora Gesù si alzò e le disse: «Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?». Ed ella rispose: «Nessuno, Signore». E Gesù disse: «Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più».

Giovanni 8,2-11

Non so quando spunterà l’albanon so quando potròcamminare per le vie del tuo Paradisonon so quando i sensi finirannodi gemeree il cuore sopporterà la luce.E la mente (oh, la mente!)già ubriaca, saràfinalmente calmae lucida:e potrò vederti in voltosenza arrossire.

Padre David Maria Turoldo

L’AMORE APRE AL FUTURO

Di solito si suole dire che alle domande vi sono risposte giuste o sbagliate. In realtà vi sono non

solo risposte sbagliate ma anche domande sbaglia-te. Spesso nel Vangelo Gesù non risponde alle do-mande poste dai suoi interlocutori, oppure rispon-de con un’altra domanda che pone il discorso su un altro piano. Questo accade quando l’interrogati-vo non nasce dal desiderio di conoscere la verità, e dunque dalla disponibilità a rivedere la propria posizione e convinzione, ma viene posto per ave-re pretesti per condannare Gesù. Quando cioè la domanda non è sincera e non cerca il bene, ma na-sconde secondi fini. Così nell’episodio della adulte-ra la domanda degli scribi e dei farisei ha un dupli-ce obiettivo: sfruttare la risposta di Gesù per farlo accusare di coerenza se avesse fatto condannare la donna o di disobbedienza alla legge in caso con-trario. Nello stesso tempo essi vogliono mostrare la loro fedeltà alla legge di Mosè a prezzo della vita della donna (e guarda caso non dell’uomo che pure avrebbe meritato la morte secondo la stessa legge). In realtà Gesù con il suo silenzio prima, e poi con la sua parola “Chi è senza peccato scagli la prima pietra” e, a fronte del fatto che nessuno ha condannato la donna, “neanch’io, va e non peccare più”, rivela che cosa sia in gioco in questa vicenda:

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miseria e misericordia insieme. Miseria della donna certamente per il suo adulterio ma miseria anche dei sui accusatori che nella parola di accusa e nel gesto dell’andarsene rivelano tutta la loro povertà umana e morale. Misericordia perché Dio in Gesù manifesta proprio in questa circostanza un cuore attento alla povertà della persona che vive la de-bolezza e una fragilità anche morale. Gesù rivela, mentre dice una parola di salvezza per la donna, ai suoi accusatori il loro peccato e mostra così di non essere preoccupato solo della vita delle vittime, ma anche di quella dei carnefici che a loro volta sono vittime della loro cecità e del loro peccato. Tema questo della misericordia che è particolarmente caro a Luca, al punto che alcuni esegeti ritengono che questo testo di Giovanni abbia affinitàcon la tradizione lucana o addirittura provenga da essa. Ma in che cosa consiste la misericordia? Non è solo consolazione della persona umiliata o salvezza dal rischio immediato di essere uccisa, ma più radical-mente è apertura ad un futuro è prospettare una nuova possibilità di vivere. “Va’ e non peccare più” è un appello a non cadere nel peccato precedente (che viene perciò riconosciuto come tale) perché si è dischiuso un sentiero di vita ad opera dell’Amo-re che non giudica o condanna ma perdona. Gesto questo che è promessa e segno di una prossimità che non verrà mai meno e che autorizza a ricomin-

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ciare sempre ogni volta che si cade. La donna che va finalmente libera dai suoi accusatori e dal suo peccato richiama il popolo che nel brano di Isaia si sente rivolto l’invito a sperare perché si prospet-ta davanti la strada del ritorno e della liberazione dall’esilio. E’ come quando dopo una fatica o un pe-ricolo si squarcia davanti un orizzonte che allarga il respiro e riempie l’animo di fiducia. Questa istru-zione sulla misericordia inoltre, in piena continuità con quello che abbiamo meditato domenica scorsa, ci induce anche ad assumere un punto di vista più vero rispetto a ciò che accade. Infatti di fronte ad un avvenimento o un fatto si possono avere, per lo meno, due atteggiamenti rispetto alla morale. Va-lutare semplicemente la sua conformità alla legge, cioè giudicarlo giusto o sbagliato (buono o cattivo) in base a ciò che prescrive la legge, oppure cercare il buono o il cattivo non solo in relazione a ciò che permette o proibisce la legge ma per riferimento al mistero e al dramma dell’uomo che vive e patisce quella condizione. Assumere questo secondo pun-to di vista, come fa Gesù, non significa rinunciare a valutare con l’esito di considerare tutto indifferen-temente uguale. Piuttosto non si vuole separare gli atti della persona dalla sua storia, dalla sua condi-zione di vita e soprattutto dal futuro che l’Amore di Dio sempre apre davanti all’uomo.

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Una settimana con…. ANNALENA TONELLI

“Tu hai fatto del male? Io pagherò al posto tuo” Così diceva Gandhi. Così ci ripete Gesù Cristo da duemila anni. Chissà perché noi uomini siamo così sordi … Certo la sua voce è spesso piccola e silenziosa ma poi Lui è nella celletta della no-stra anima e non dovrebbe essere così difficile scendere laggiù ed abitare con Lui. Parole? No. Verità. Realtà. Certo, per la maggioranza di noi uomini sarà ed è necessario fare silenzio, quiete, chiudere il telefonino, buttare il televisore dalla finestra, decidere una volta per tutte di liberar-si dalla schiavitù di ciò che appare e che è im-portante agli occhi del mondo ma che non conta assolutamente agli occhi di Dio, perché si tratta di non valori. Ai piedi di Dio noi ritroviamo ogni verità perduta, tutto ciò che era precipitato nel buio diventa luce, tutto ciò che era tempesta si acquieta, tutto ciò che sembrava un valore, ma che valore non è, appare nella sua veste vera e noi ci risvegliamo alla bellezza di una vita onesta, sincera, buona, fatta di cose e non di apparen-ze, intessuta di bene, aperta agli altri, in tensione onnipresente fortissima affinché gli uomini siano una cosa sola.

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LUNEDÌ 14 MARZO 2016Dn 13,1-9.15-17.19-30.33-62; Sal 22; Gv 8,12-20

Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla. Su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce. Rinfranca l’anima mia, mi guida per il giusto cammino a motivo del suo nome. Anche se vado per una valle oscura, non temo alcun male, perché tu sei con me. Il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza.

Dal Salmo 22

Di nuovo Gesù parlò loro e disse: «Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita».

Giovanni 8,12

La vita mi ha insegnato che la mia fede senza l’amore è inutile, che la mia religione cristiana non ha tanti e poi tanti comandamenti ma ne ha uno solo, che non serve costruire cattedrali o moschee, né cerimonie né pellegri-naggi, che è inutile senza il sacramento della misericordia, perché è nella misericordia che il cielo incontra la terra. Se non amo, Dio muore sulla terra.

Annalena Tonelli

MARTEDÌ 15 MARZO 2016Nm 21,4-9; Sal 101; Gv 8,21-30

Signore, ascolta la mia preghiera, a te giunga il mio grido di aiuto. Non nascondermi il tuo volto nel gior-no in cui sono nell’angoscia. Tendi verso di me l’orec-chio, quando t’invoco, presto, rispondimi!

Dal Salmo 101

Disse Gesù: «Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo, allora conoscerete che Io Sono e che non faccio nulla da me stesso, ma parlo come il Padre mi ha insegnato. Colui che mi ha mandato è con me: non mi ha lasciato solo, per-ché faccio sempre le cose che gli sono gradite». A queste sue parole, molti credettero in lui.

Giovanni 8,27-30

Il nostro compito sulla terra è di far vivere. E la vita non è sicuramente la condanna, lo ius belli, l’accusa, la ven-detta, il mettere il dito nella piaga, il rivelare gli sbagli, le colpe degli altri, il tenere nascosta invece la nostra colpa, l’impazienza, l’ira, la gelosia, l’invidia, la mancanza di spe-ranza, la mancanza di fiducia nell’uomo. La vita è sperare sempre, sperare contro ogni speranza, buttarsi alle spalle le nostre miserie, non guardare alle miserie degli altri, cre-dere che Dio c’è e che Lui è un Dio d’amore.

Annalena Tonelli

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MERCOLEDÌ 16 MARZO 2016Dn 3,14-20.46-50.91-92.95; Cant Dn 3,52-56; Gv 8,31-42

«Benedetto sei tu, Signore, Dio dei padri nostri, degno di lode e di gloria nei secoli. Benedetto il tuo nome glorioso e santo, degno di lode e di gloria nei secoli. Benedetto sei tu nel tuo tempio santo, glorioso, degno di lode e di gloria nei secoli. Benedetto sei tu sul trono del tuo regno, degno di lode e di gloria nei secoli. Benedetto sei tu che penetri con lo sguardo gli abissi e siedi sui cherubini, degno di lode e di gloria nei secoli».

Cantico Daniele 3,52-55

Gesù disse a quei Giudei che gli avevano creduto: «Se ri-manete nella mia parola, siete davvero miei discepoli; co-noscerete la verità e la verità vi farà liberi». Gli risposero: «Noi siamo discendenti di Abramo e non siamo mai stati schiavi di nessuno. Come puoi dire: “Diventerete liberi”?». Gesù rispose loro: «In verità, in verità io vi dico: chiunque commette il peccato è schiavo del peccato».

Giovanni 8,31-34

La mia vita ha conosciuto tanti e poi tanti pericoli, ho ri-schiato la morte tante e poi tante volte. Sono stata per anni nel mezzo della guerra. Ho sperimentato nella carnedei miei, di quelli che amavo, e dunque nella mia carne, la cattiveria dell’uomo… e ne sono uscita con la convinzione incrollabile che ciò che conta è solo amare. Ed è allora che la nostra vita diventa degna di essere vissuta...

Annalena Tonelli

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GIOVEDÌ 17 MARZO 2016Gen 17,3-9; Sal 104; Gv 8,51-59

Cercate il Signore e la sua potenza, ricercate sempre il suo volto. Ricordate le meraviglie che ha compiuto, i suoi prodigi e i giudizi della sua bocca, voi, stirpe di Abramo, suo servo, figli di Giacobbe, suo eletto. È lui il Signore, nostro Dio: su tutta la terra i suoi giudizi. Si è sempre ricordato della sua alleanza, parola data per mille generazioni, dell’alleanza stabilita con Abramo e del suo giuramento a Isacco.

Dal Salmo 104

Io vi dico: «Se uno osserva la mia parola, non vedrà la mor-te in eterno». Gli dissero allora i Giudei: «Ora sappiamo che sei indemoniato. Abramo è morto, come anche i pro-feti, e tu dici: “Se uno osserva la mia parola, non sperimen-terà la morte in eterno”. Sei tu più grande del nostro padre Abramo, che è morto? Anche i profeti sono morti. Chi cre-di di essere?». Rispose Gesù: «Se io glorificassi me stesso, la mia gloria sarebbe nulla. Chi mi glorifica è il Padre mio, del quale voi dite: “È nostro Dio!”».

Giovanni 8,51-54

Il dono più straordinario, il dono per cui ringrazierò Dio e loro per sempre, è il dono dei miei nomadi del deserto. Musulmani, loro mi hanno insegnato la fede, l’abbandono incondizionato, la resa a Dio, una resa che non ha nulla di fatalistico, una resa rocciosa e arroccata in Dio, una resa che è fiducia e amore. I miei nomadi del deserto mi hanno insegnato a tutto fare, tutto incominciare, tutto operare nel nome di Dio.

Annalena Tonelli

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VENERDÌ 18 MARZO 2016Ger 20,10-13; Sal 17; Gv 10,31-42

INNO

Non c’è peccato che non chiami il perdononon c’è lontano in Dioleviamo gli occhi e ritorniamo al Padreci accoglierà con gioia. Non c’è ferita che non possa guarirerinasce tutto in Diorestiamo attenti ai segni della graziarinasca in noi la vita. Non c’è angoscia che non speri la pacerivive tutto in Dioverrà l’aurora in cui l’amore sorgesciogliendo un canto nuovo. Non c’è parola che non lodi il tuo NomeSignore nostro Diotre volte santo nella gloria eternaTu eri, sei e vieni.

In ascolto della ParolaSignore degli eserciti, che provi il giusto, che vedi il cuore e la mente, possa io vedere la tua vendetta su di loro, poi-ché a te ho affidato la mia causa! Cantate inni al Signore, lodate il Signore, perché ha liberato la vita del povero dal-le mani dei malfattori.

Geremia 20-12-13

Dal Vangelo secondo Giovanni (7,1-2.10.25-30)I Giudei raccolsero delle pietre per lapidare Gesù. Gesù disse loro: «Vi ho fatto vedere molte opere buone da parte del Padre: per quale di esse volete lapidarmi?». Gli rispose-ro i Giudei: «Non ti lapidiamo per un’opera buona, ma per una bestemmia: perché tu, che sei uomo, ti fai Dio». Disse loro Gesù: «Non è forse scritto nella vostra Legge: “Io ho detto: voi siete dèi”? Ora, se essa ha chiamato dèi coloro ai quali fu rivolta la parola di Dio - e la Scrittura non può essere annullata –, a colui che il Padre ha consacrato e mandato nel mondo voi dite: “Tu bestemmi”, perché ho detto: “Sono Figlio di Dio”? Se non compio le opere del Padre mio, non credetemi; ma se le compio, anche se non credete a me, credete alle opere, perché sappiate e cono-sciate che il Padre è in me, e io nel Padre». Allora cerca-rono nuovamente di catturarlo, ma egli sfuggì dalle loro mani.Ritornò quindi nuovamente al di là del Giordano, nel luogo dove prima Giovanni battezzava, e qui rimase. Molti andarono da lui e dicevano: «Giovanni non ha compiuto nessun segno, ma tutto quello che Giovanni ha detto di costui era vero». E in quel luogo molti credettero in lui.

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OBBEDIENZA

«Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini» (Atti 5,29). Questo grande principio biblico sull’ob-bedienza ha un carattere profondamente liberante. Nella visione biblica, infatti, l’obbedienza è inscindi-bile dalla libertà: solo nella libertà si può obbedire, e solo obbedendo all’Evangelo si entra nella pienezza della libertà. In modo lapidario si è espresso Bonho-effer: «L’obbedienza senza libertà è schiavitù, la li-bertà senza obbedienza è arbitrio». Ma prima di co-gliere il proprium cristiano dell’ obbedienza occorre ricordare l’aspetto antropologico della stessa. Vi è un’ obbedienza fondamentale che ogni uomo è chia-mato a fare alla propria storia, alle proprie origini, al proprio corpo, alla propria famiglia, insomma a una serie di situazioni e persone, tempi e luoghi, eventi e condizioni che l’hanno preceduto, fondato, e su cui egli non ha avuto alcuna presa o possibilità di scelta e di decisione. Si tratta dei bagagli che la nascita fa trovare già pronti a chiunque viene al mondo e che lo accompagneranno nel cammino dell’ esistenza. Un credente legge questa obbedienza come «crea-turale» e vi riconosce quell’accettazione dei limiti che è costitutiva della creatura di fronte al Creato-re e che consente all’uomo di diventare uomo fug-gendo la tentazione della totalità, cioè di ergersi a Dio. Il senso del racconto genesiaco della proibizio-ne di mangiare i frutti dell’albero della conoscenza del bene e del male è esattamente questo: l’uomo è uomo nella misura in cui non ambisce il tutto. Il limi-

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te, il finito è l’ambito della sua relazione con Dio. Se-condo la Bibbia l’obbedienza va compresa all’interno di questa relazione, cioè all’interno della categoria dell’alleanza. È tale relazione con Dio che rende li-berante e perfino gioiosa l’obbedienza alla Legge ri-velata a Mosè sul Sinai. Se la Legge è manifestazione della volontà di Dio, del partner contraente l’allean-za, l’obbedienza a tutti i suoi comandi è il desiderio stesso del credente che ama il suo Dio e trova la sua gioia nel fare la sua volontà. La formulazione usata in Esodo 24,7 per indicare l’accettazione della volon-tà di Dio espressa nella Legge da parte del popolo d’Israele è significativa: «Quanto il Signore ha detto noi lo faremo e lo ascolteremo». La prassi, la messa in pratica della parola, precede l’ascolto della parola stessa, quasi a suggerire che è più importante l’as-senso fondamentale dato a Dio che la specificazione del contenuto dei singoli comandi. Inoltre il testo significa che solo mettendo in pratica la Parola, cioè obbedendola realmente, la si comprende veramen-te. Questo radicamento dell’ obbedienza all’interno dell’ alleanza, dunque della relazione di ascolto del credente nei confronti del suo Dio, dà il tono an-che all’obbedienza cristiana. Per il Nuovo Testamen-to l’ascoltare, inteso nel senso di percezione della volontà di Dio, si realizza veramente solo quando l’uomo, con la fede e l’azione, obbedisce a quella vo-lontà. Come coronamento dell’ascoltare (akouein/ audire) nasce dunque l’obbedire (hypakouein/ obau-dire), quell’ obbedire che consiste nel credere. Paolo parla più volte dell’ «obbedienza della fede», inten-

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dendo che la fede si configura come obbedienza e che l’obbedienza manifesta la fede. Ma il proprium dell’obbedienza cristiana si trova nell’ obbedienza del Cristo stesso. Ora, i tre più significativi testi che ci parlano dell’ obbedienza di Cristo (Romani 5,19: «per l’obbedienza di uno solo, tutti saranno costituiti giusti»; Filippesi 2,8: «Cristo umiliò se stesso facen-dosi obbediente fino alla morte»; Ebrei 5,8: «Cristo imparò l’obbedienza dalle cose che patì») compiono di fatto una sintesi della vita, del ministero e dell’ opera salvifica di Gesù ponendoli sotto la catego-ria dell’obbedienza. Al centro di essa vi è pertanto la relazione filiale vissuta da Gesù con il Padre, e al suo cuore vi è l’amore per il Padre e per i fratelli, gli uomini. Il quarto Vangelo sottolinea questa dimen-sione obbedienziale di Gesù, presentandolo come il pienamente spossessato di sé che in ciò che dice, fa ed è sempre rinvia al Padre che l’ha mandato. Questa obbedienza amorosa dà senso al vivere e al morire, anche alla morte di croce, e ne fa un atto di libertà!Qui dunque si innesta l’obbedienza cristiana, qui tro-va la sua «misura» e la sua forma: una forma plasma-ta dallo Spirito santo, che obbliga dunque il creden-te a viverla creativamente, responsabilmente, non in modo legalistico. Sì, il criterio dell’ obbedienza cristiana è lo Spirito santo che interiorizza in cia-scuno le esigenze dell’Evangelo e lo porta a viverle come espressioni della volontà del Signore assunte fino a farle proprie. Alla luce di questa obbedienza fondamentale, si possono comprendere, accettare e vivere le altre obbedienze alle istanze mediatrici

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della volontà di Dio. Sempre però tenendo presen-te che su tutto deve essere fatto regnare l’Evangelo e tutto deve essere sottoposto al criterio decisivo dell’Evangelo. Quando le mediazioni della volontà di Dio (autorità ecclesiastiche, dottrine teologiche, regole monastiche, riti cultuali ecc.) si sostituiscono a Dio e pretendono obbedienza per se stesse, allora devono essere criticate e ricondotte all’ obbedienza evangelica. Infatti «bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini».

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Dalla tradizione religiosa universale

Che tutti gli esseri che sono nell’Est, che tutti gli esse-ri che sono nell’Ovest, che tutti gli esseri che sono nel Nord, che tutti gli esseri che sono nel Sud, abbiano gioia e benessere, possano vivere senza inimicizia.

(Preghiera buddista)

OrazioneSignore nostro Dio, con la morte e resurrezione del tuo Figlio, un’alba nuova si leva all’orizzonte degli uomini e può giungere il giorno atteso. Allora la morte sarà vinta e la speranza sgorgherà dal cuore; allora la vita, più forte di ogni sofferenza, potrà sbocciare e i nostri volti saranno trasfigurati dalla gioia della tua presenza. Noi ti rendiamo grazie, Signore nostro Dio, per la vita che sarà. Amen.

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Beato il popolo che ti sa acclamare: camminerà, Si-gnore, alla luce del tuo volto; esulta tutto il giorno nel tuo nome, si esalta nella tua giustizia. Perché tu sei lo splendore della sua forza e con il tuo favore innalzi la nostra fronte. Dal Salmo 88

Dopo tre giorni lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai maestri, mentre li ascoltava e li interrogava. E tutti quelli che l’udivano erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte. Al vederlo restarono stupiti, e sua ma-dre gli disse: «Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo». Ed egli rispose loro: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occupar-mi delle cose del Padre mio?». Ma essi non compresero ciò che aveva detto loro. Luca 2,46-50

Luigi Pintor, un cosiddetto ateo, scrisse un giorno che non c’è in un’intera vita cosa più importante da fare che chi-narsi perché un altro, cingendoti il collo, possa rialzarsi.Così è per me. È nell’inginocchiarmi perché stringendomi il collo loro possano rialzarsi e riprendere il cammino o ad-dirittura camminare dove mai avevano camminato che io trovo pace, carica fortissima, certezza che tutto è grazia.

Annalena Tonelli

SABATO 19 MARZO 2016San Giuseppe, Sposo B.V. Maria

2Sam 7,4-5a.12-14a.16: Sal 88; Rm 4,13.16-18.22; Lc 2,41-51a opp. Mt 1,16.18-21.24a

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DOMENICA DELLE PALME

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20 MARZO 2016Is 50,4-7; Sal 21; Fil 2,6-11; Lc 23,1-49

Il Signore Dio mi ha dato una lingua da discepolo, perché io sappia indirizzare una parola allo sfiduciato. Ogni mattina fa attento il mio orecchio perché io ascolti come i discepoli. Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto svergognato, per questo rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare confuso.

Isaia 50,4.7

Pilato parlò loro di nuovo, volendo rilasciare Gesù. Ma essi urlavano: «Crocifiggilo, crocifiggilo!». Ed egli, per la terza volta, disse loro: «Ma che male ha fatto costui? Non ho trovato nulla in lui che meriti la morte. Lo castigherò se-veramente e poi lo rilascerò». Essi però insistevano a gran voce, chiedendo che venisse crocifisso; e le loro grida crescevano. Pilato allora decise che la loro richiesta fosse eseguita. Rilasciò colui che era stato messo in carcere per sommossa e omicidio e che essi richiedevano, e abban-donò Gesù alla loro volontà.

Luca 23,20-25

Gesù Cristo non ha mai parlato di risultati. Lui ha parlato solo di amarci, di lavarci i piedi gli uni gli altri, di perdo-narci sempre.

Annalena Tonelli

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IL PERDONO REGALATO

Potrebbe apparire strano il fatto che nei Vangeli i racconti delle passione occupino così tanto spa-

zio rispetto al complesso del Vangelo stesso. In re-altà non è poi così strano se pensiamo che i Vangeli sono sorti proprio intorno a questi racconti della passione e morte di Gesù. Quello che viene chiama-to il “Kerigma” originario, e che è l’annuncio della morte e della resurrezione del Signore presente in diversi passaggi dei primi capitoli degli Atti degli Apostoli, è il cuore e il centro del Vangelo stesso. A partire da qui gli evangelisti hanno ricordato e raccontato le parole e i gesti del Signore. Perciò oc-correva dedicare una dovizia di particolari nel rac-conto e una particolare attenzione a come Gesù ha vissuto questi momenti supremi della sua dedizione alla missione del Padre per amore degli uomini. L’at-tenzione narrativa in Luca poi assume alcuni tratti significativi della sua teologia e della sua testimo-nianza evangelica. Il tema del servizio, per esempio, richiamato proprio nel contesto dell’ultima cena lega strettamente il gesto di Gesù, che trova compi-mento nella Pasqua, con uno stile di vita e di azione dei discepoli: esercitare l’autorità non per il proprio potere ma per la vita e il bene degli altri. Qui l’iro-nia di Gesù si rivela nel denunciare la tentazione di

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ogni autorità di strumentalizzare la morale (coloro che governano “si fanno chiamare benefattori”) per giustificare il proprio potere. Sempre l’uomo, anche quello religioso, è esposto alla tentazione di giustifi-care il proprio potere (o interesse, o piacere) appel-landosi alla morale. Nel momento della morte Gesù consegna ai suoi lo stile evangelico fatto di questi insegnamenti ma soprattutto segnato dalla efficacia del suo gesto: egli è colui che serve, dando la vita. In riferimento ai capi delle nazioni egli dice che il discepolo è chiamato a vivere rapporti civili ma con uno stile evangelico dove l’autorità è servizio, non a parole ma con la dedizione reale della vita per gli altri. E’ la relazione allora il luogo che per eccellenza rivela il senso e il valore della vita. Relazione con il Padre per Gesù. Nella preghiera che egli rivolge al Padre domanda certo di essere liberato dal calice della sofferenza, eppure più decisivo è non la can-cellazione delle difficoltà, ma il non sentirsi solo. Rieccheggia qui il “non abbandonarci nella tenta-zione” del Padre nostro. Occorre pregare perché ci sia risparmiata la prova o si deve pregare affinché non ci sentiamo soli nella prova ma avvertiamo la presenza, silenziosa certo ma reale e amorosa del Padre? In fondo è proprio nella relazione con l’al-tro che noi scopriamo il valore e l’affidabilità della vita, è la presenza buona dell’altro che ci richiama

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il senso buono del vivere che solo può sostenere e orientare la nostra libertà. Proprio questa dimensio-ne relazionale si ritrova nel gesto di perdono di Gesù sulla croce. “Ricordati di me quando sarai nel tuo re-gno”, parole estreme di un morente che affida il suo inestirpabile desiderio di vita a un altro morente; ultima preghiera, quasi inutile eppure esaudita, pro-prio perché affidata a Lui che si è affidato al Padre mentre moriva. Forse proprio per questo si può dire che la preghiera è l’atto supremo dell’affidamento e dunque della vita. Quando ci si affida, o meglio ci si sente affidati, direbbe qualcuno, allora si può anche guardare senza rancore e senza odio coloro che ti stanno uccidendo. “Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno”. Quanti testimoni (a partire da Stefano negli Atti degli Apostoli fino a Frère Chri-stian dei monaci di Tibhirine) sono stati segni visibili di questo gesto di perdono da parte di Gesù. Il per-dono regalato è il segno più autentico che il gesto di dare la vita è sincero, è veramente il compimento di una vita dedicata all’uomo. Una vita patita e offerta: questo è il racconto della passione e il fatto di pro-clamarla la Domenica delle palme, giorno in cui “si ricorda” Gesù che entra in Gerusalemme attorniato dalla gioia dei piccoli e dei poveri, dice come solo da qui sorgerà la pienezza della vita.

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Una settimana con…. Madre TERESA DI CALCUTTA

In Francia, come a New York e dovunque, quanti esseri hanno fame di esser amati: è una povertà terribile, questa, senza paragone con la povertà degli Africani e degli Indiani... Non è tanto quan-to si dà, ma è l’amore che mettiamo nel dare che conta... Pregate perché ciò cominci nella vostra propria famiglia. I bambini non hanno spesso nes-suno che li accolga, quando tornano da scuola. Quando si ritrovano con i genitori, è per sedersi davanti alla televisione, e non scambiano parola. È una povertà molto profonda... Dovete lavorare per guadagnare la vita della vostra famiglia, ma avete anche il coraggio di dividere con qualcuno che non ha? Forse semplicemente un sorriso, un bicchier d’acqua, di proporgli di sedersi per par-lare qualche istante; scrivete magari soltanto una lettera ad un malato degente in ospedale...

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LUNEDÌ 21 MARZO 2016Lunedì Santo

Is 42,1-7; Sal 26; Gv 12,1-11

Nella sua dimora mi offre riparo nel giorno della sventura. Mi nasconde nel segreto della sua tenda, sopra una roccia mi innalza. E ora rialzo la testa sui nemici che mi circondano. Immolerò nella sua tenda sacrifici di vittoria, inni di gioia canterò al Signore.

Dal Salmo 26

Maria prese trecento grammi di profumo di puro nardo, assai prezioso, ne cosparse i piedi di Gesù, poi li asciugò con i suoi capelli, e tutta la casa si riempì dell’aroma di quel profumo. Allora Giuda Iscariota, uno dei suoi disce-poli, che stava per tradirlo, disse: «Perché non si è venduto questo profumo per trecento denari e non si sono dati ai poveri?». Disse questo non perché gli importasse dei poveri, ma perché era un ladro e, siccome teneva la cas-sa, prendeva quello che vi mettevano dentro. Gesù allora disse: «Lasciala fare, perché essa lo conservi per il giorno della mia sepoltura. I poveri infatti li avete sempre con voi, ma non sempre avete me». Giovanni 12,3-7

Abbiamo il potere di essere in Paradiso già da ora, di esse-re felici con Lui in questo momento, se amiamo come lui ci ama, se aiutiamo come Lui ci aiuta, se doniamo come Egli dona, se serviamo come Egli serve.

Madre Teresa di Calcutta

MARTEDÌ 22 MARZO 2016Martedì santo

Is 49,1-6; Sal 70; Gv 13,21-33.36-38

Ora ha parlato il Signore, che mi ha plasmato suo servo dal seno materno per ricondurre a lui Giacob-be e a lui riunire Israele - poiché ero stato onorato dal Signore e Dio era stato la mia forza - e ha detto: «È troppo poco che tu sia mio servo per restaurare le tribù di Giacobbe e ricondurre i superstiti d’Israele. Io ti renderò luce delle nazioni, perché porti la mia salvezza fino all’estremità della terra». Isaia 49,5-6

Simon Pietro gli disse: «Signore, dove vai?». Gli rispose Gesù: «Dove io vado, tu per ora non puoi seguirmi; mi se-guirai più tardi». Pietro disse: «Signore, perché non posso seguirti ora? Darò la mia vita per te!». Rispose Gesù: «Darai la tua vita per me? In verità, in verità io ti dico: non canterà il gallo, prima che tu non m’abbia rinnegato tre volte».

Giovanni 13,36-38

Non so come sarà il cielo, ma so che quando arriverà il momento in cui Dio ci giudicherà, lui non chiederà, “Quan-te cose buone hai fatto nella tua vita?”, ma chiederà, “Quanto amore hai messo in quello che hai fatto?

Madre Teresa di Calcutta

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MERCOLEDÌ 23 MARZO 2016Mercoledì Santo

Is 50,4-9; Sal 68; Mt 26,14-25

Ma io rivolgo a te la mia preghiera, Signore, nel tempo della benevolenza. O Dio, nella tua grande bontà, rispondimi, nella fedeltà della tua salvezza. Liberami dal fango, perché io non affondi, che io sia liberato dai miei nemici e dalle acque profonde. Non mi travolga la corrente, l’abisso non mi sommerga, la fossa non chiuda su di me la sua bocca.

Dal Salmo 68

Il primo giorno degli Azzimi, i discepoli si avvicinarono a Gesù e gli dissero: «Dove vuoi che prepariamo per te, per-ché tu possa mangiare la Pasqua». Ed egli rispose: «Andate in città da un tale e ditegli: “Il Maestro dice: Il mio tempo è vicino; farò la Pasqua da te con i miei discepoli”». I disce-poli fecero come aveva loro ordinato Gesù, e prepararo-no la Pasqua. Venuta la sera, si mise a tavola con i Dodici. Mentre mangiavano, disse: «In verità io vi dico: uno di voi mi tradirà».

Matteo 26,17-21

Quello che facciamo è soltanto una goccia nell’oceano, ma se non ci fosse quella goccia all’oceano mancherebbe.

Madre Teresa di Calcutta

GIOVEDÌ 24 MARZO 2016Cena del Signore

Es 12,1-8.11-14; Sal 115; 1Cor 11,23-26; Gv 13,1-15

Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: «Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me». Allo stes-so modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, di-cendo: «Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in me-moria di me». Ogni volta infatti che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga.

1Corinzi 11,23-26

Durante la cena, quando il diavolo aveva già messo in cuo-re a Giuda, figlio di Simone Iscariota, di tradirlo, Gesù, sa-pendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava, si alzò da tavola, de-pose le vesti, prese un asciugamano e se lo cinse attorno alla vita. Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lava-re i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugamano di cui si era cinto.

Giovanni 13,2-5

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VENERDÌ 25 MARZO 2016Passione del Signore

Is 52,13-53,12; Sal 30; Eb 4,14-16; 5,7-9; Gv 18,1-19,42

Ma io confido in te, Signore; dico: «Tu sei il mio Dio, i miei giorni sono nelle tue mani». Liberami dalla mano dei miei nemici e dai miei persecutori: sul tuo servo fa’ splendere il tuo volto, salvami per la tua misericordia.

Dal Salmo 30

Dopo aver detto queste cose, Gesù uscì con i suoi disce-poli al di là del torrente Cedron, dove c’era un giardino, nel quale entrò con i suoi discepoli. Anche Giuda, il traditore, conosceva quel luogo, perché Gesù spesso si era trova-to là con i suoi discepoli. Giuda dunque vi andò, dopo aver preso un gruppo di soldati e alcune guardie fornite dai capi dei sacerdoti e dai farisei, con lanterne, fiacco-le e armi. Gesù allora, sapendo tutto quello che doveva accadergli, si fece innanzi e disse loro: «Chi cercate?». Gli risposero: «Gesù, il Nazareno». Disse loro Gesù: «Sono io!». Vi era con loro anche Giuda, il traditore. Appena disse loro «Sono io», indietreggiarono e caddero a terra. Domandò loro di nuovo: «Chi cercate?». Risposero: «Gesù, il Nazare-no». Gesù replicò: «Vi ho detto: sono io. Se dunque cerca-te me, lasciate che questi se ne vadano».

Giovanni 18,1-8

SABATO 26 MARZO 2016Sabato Santo – Veglia Pasquale

Es 14,15-31.15,1a. / Es 15,1b-2.3-4.5-6.17-18. / Rm 6,3-11. / Lc 24,1-12

Non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cri-sto Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte? Per mezzo del battesimo dunque siamo stati sepol-ti insieme a lui nella morte affinché, come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Pa-dre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova. Se infatti siamo stati intimamente uniti a lui a somiglianza della sua morte, lo saremo anche a so-miglianza della sua risurrezione. Lo sappiamo: l’uo-mo vecchio che è in noi è stato crocifisso con lui, af-finché fosse reso inefficace questo corpo di peccato, e noi non fossimo più schiavi del peccato. Infatti chi è morto, è liberato dal peccato. Ma se siamo morti con Cristo, crediamo che anche vivremo con lui, sapendo che Cristo, risorto dai morti, non muore più; la morte non ha più potere su di lui. Infatti egli morì, e morì per il peccato una volta per tutte; ora invece vive, e vive per Dio. Così anche voi consideratevi morti al peccato, ma viventi per Dio, in Cristo Gesù.

Romani 6,3-11

Entrate nel sepolcro, videro un giovane, seduto sulla de-stra, vestito d’una veste bianca, ed ebbero paura. Ma egli disse loro: «Non abbiate paura! Voi cercate Gesù Naza-reno, il crocifisso. È risorto, non è qui. Ecco il luogo dove l’avevano posto. Ma andate, dite ai suoi discepoli e a Pie-tro: “Egli vi precede in Galilea. Là lo vedrete, come vi ha detto”». Marco 16,5-7

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DOMENICA DI RISURREZIONE

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27 MARZO 2016At 10,34a.37-43; Sal 117; Col 3,1-4 opp 1Cor 5,6-8; Gv 20,1-9

Così cerca di prolungarsi il pianto nella notte, ma già il mattino sorge…

Un forte vento toglierà la pietra anche al nostro sepolcro.

Il futuro è già presente e viene incontro,luce adorna come fiori le piaghe resurrezione ha nome il nostro giorno.

Padre David Maria Turoldo

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GIOIA

Credente nell’Evangelo, nella buona notizia, il cristia-no risponde con la gioia all’evento della salvezza

portata da Gesù Cristo. La gioia è dunque coestensiva alla fede cristiana; non è una possibilità, ma una respon-sabilità del credente. Responsabilità che discende dall’ evento pasquale con cui Dio ha resuscitato Gesù Cristo e dischiuso agli uomini la speranza della resurrezione. Tutto il Vangelo è racchiuso fra l’annuncio della grande gioia della nascita del Salvatore a Betlemme (cfr. Luca 2,10-11) e la gioia esplosa all’alba del primo giorno dopo il sabato, il giorno della resurrezione (cfr. Matteo 28,8). Ma per comprendere cosa significhi che la vita cristiana è segnata dalla gioia occorre interrogarsi sull’ esperien-za umana della gioia. Se anche non riusciamo a definirla in modo esauriente, pure della gioia noi tutti abbiamo un’esperienza. È come un vertice dell’ esistenza, una sensazione di pienezza in cui la vita appare nella sua positività, come piena di senso e meritevole di essere vissuta. Con Hans Georg Gadamer potremmo cogliere la gioia come rivelazione: «La gioia non è semplicemen-te una condizione o un sentimento, ma una specie di manifestazione del mondo. La gioia è determinata dal-la scoperta di essere soddisfatti». Nell’esperienza della gioia la nostra quotidianità conosce una sorta di trasfi-gurazione: il mondo si dona a noi e noi entriamo nella gioiosa gratitudine: «Il solo rapporto della coscienza alla felicità è la gratitudine» (Th. W. Adorno). Si è grati di essere nella gioia. La gioia è esperienza di pienezza di senso che apre il futuro dell’uomo consentendo la speranza. Essa connota un determinato rapporto con il tempo: vi può infatti essere una gioia dell’ attesa (l’atte-sa dell’arrivo di una persona cara, l’attesa di una nascita

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Se dunque siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove è Cristo, seduto alla destra di Dio; rivolgete il pen-siero alle cose di lassù, non a quelle della terra. Voi infatti siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio! Quando Cristo, vostra vita, sarà manifestato, allora anche voi apparirete con lui nella gloria.

Colossesi 3,1-4

Il primo giorno della settimana, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro. Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal se-polcro e non sappiamo dove l’hanno posto!». Pietro allora uscì insieme all’altro discepolo e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo cor-se più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Si chinò, vide i teli posati là, ma non entrò. Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, e il sudario - che era stato sul suo capo - non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte. Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. Infatti non ave-vano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti.

Giovanni 20,1-9

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ecc.), una gioia per una presenza, e una gioia del ricordo (o, se si vuole, il ricordo della gioia: la gioia vissuta nel passato viene ri-esperita nel ricordo e grazie ad esso). Questo è particolarmente evidente nella festa, che è la gioia di essere insieme: quando inizia e quando finisce la festa? Non è facile rispondere perché la festa esiste già nella gioia di chi l’attende e la prepara, ed esiste ancora nella gioia di chi la ricorda. Ma poi la gioia è connessa all’ esperienza positiva dell’ altro e dell’incontro con l’altro. È significativa la formula di saluto di molte cultu-re: il greco chaire (lett. «rallégrati») è augurio di gioia nel momento dell’incontro con l’altro; ma anche lo shalom ebraico (e termini affini in altre lingue semitiche) augura all’ altro una situazione in cui possa sperimentare la gio-ia. Insomma, possiamo dire che la gioia è esperienza che coinvolge la totalità dell’ esistenza umana e che emerge con forza nei momenti dell’ amore (le gioie dell’amici-zia e dell’amore) e della convivialità (dove il mangiare insieme è celebrazione per eccellenza della gioia di vi-vere e di vivere insieme). Credo non sfugga a nessuno come queste dimensioni siano assunte e innestate in Cristo nell’eucaristia: è «con gioia» che il cristiano ren-de grazie («Ringraziate con gioia il Padre», Colossesi 1,12) e l’eucaristia è gioia nella memoria dell’evento pasquale rivissuto nell’oggi e atteso nel suo compimento escato-logico quando verrà il Signore nella gloria. Ed è gioia, espressa particolarmente dal «bacio santo», per la co-munione che la presenza del Cristo crea fra i credenti: «Vedersi insieme gli uni gli altri all’eucaristia è sorgente di una gioia traboccante» (Gerolamo). Questa gioia «in Cristo» è dunque una gioia umanissima, non dimentica delle dimensioni corporee e relazionali della stessa, e così essa culmina nel pasto eucaristico, dove il simbolo conviviale si carica, in Cristo, della dimensione di profe-

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zia del banchetto escatologico. Vi è infatti una dimen-sione escatologica della gioia cristiana, che si evidenzia soprattutto come «gioia anche nelle tribolazioni» (2 Corinti 7,4; Colossesi 1,24), cioè come gioia che non vie-ne meno pur nelle situazioni di sofferenza e di contrad-dizione. Questo non significa certo dire che il cristiano non conosca più tristezze o dolori che escludono asso-lutamente la compresenza della gioia. Ma significa che la gioia cristiana abita nel profondo del credente e con-siste nella sua vita nascosta con Dio. È la gioia indicibile e gloriosa (1 Pietro 1,8-9) di chi ama Cristo e già vive con lui nel segreto della fede. È la gioia che nessuno può estirpare perché nessuno può impedire al cristiano di amare il Signore e i fratelli anche in situazioni estreme: i martiri sono lì a ricordarcelo. È la gioia a caro prezzo di chi assume la condizione di temporalità e mortalità e fa del suo ineluttabile scendere verso la morte una salita al Padre, un cammino pieno di speranza verso il Signore, verso l’incontro con Colui il cui volto tanto ha cercato nei giorni della sua esistenza. Per questo la gioia nel Nuovo Testamento è un comando apostolico: «Ral-legratevi senza posa nel Signore, lo ripeto, rallegratevi» (Filippesi 4,4): essa infatti è una dimensione di cui già si può fare esperienza, ma è anche gioia veniente alla quale acconsentire, gioia piena nell’incontro definitivo, faccia a faccia con il Signore. Essendo una sua respon-sabilità, il cristiano deve esercitarsi alla gioia, da un lato per sconfiggere lo spiritus tristitiae che sempre lo mi-naccia, dall’altro perché non può privare il mondo della testimonianza della gioia sgorgata dalla fede. È la gioia dei credenti, infatti, che narra al mondo la gloria di Dio! Questo, infatti, chiedono gli uomini: «Mostri il Signore la sua gloria: e voi credenti fateci vedere la vostra gio-ia!» (cfr. Isaia 66,5).

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LE CELEBRAZIONI DELL’UNICA PASQUA

A GERUSALEMMEdi Lorenzo Ravasini

Se per molti aspetti è difficile parlare della Pasqua in se - troppo grande il mistero, troppo ricco, troppi gli aspetti inevitabilmente trascurati nelle poche righe di una pagina - quanto più della Pasqua a Gerusalemme.

I mille, bellissimi, volti della città santa si riflettono con tutta la forza delle loro varietà anche nelle tante e di-verse celebrazioni del “passaggio di Gesù al Padre”. Di questo infatti si tratta: di Gesù che ama l’umanità sino alla fine e per essa, accettata liberamente l’obbedienza della Croce, trionfa - primo dell’umanità nuova - sulla morte. Egli, il Cristo, è risorto e calpestata la morte con la sua morte, ai morti nei sepolcri - a noi! - ha ridato la vita. A lui la lode.

È unica la Pasqua (come del resto è unica la messa) le sue ricorrenze annuali non fanno che ricondurci, me-diante l’immenso regalo del rito di memoriale di cui lo stesso Signore ci fatto dono con la sua “ultima” cena, ricondurci, dicevo, alla presenza dell’Evento - vivo, vero,

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reale, operante - per esserne gratuitamente beneficati e divenirne gioiosi testimoni. Dunque la Pasqua a Gerusa-lemme. Questo il tema assegnatomi.Mi sembra più chiaro se si dice: “Le celebrazioni” dell’u-nica Pasqua a Gerusalemme.

Se si vuole andare coi numeri, non si può prescindere dall’evidenza che la grande maggioranza dei cittadini di Gerusalemme celebra la “Pasqua Ebraica”. La data di Pesah - questo il suo nome in ebraico - in genere prece-de, talvolta coincide, quella della Chiese occidentali. La nostra, tra queste.

Si tratta di una grande festa soprattutto nelle case, nelle famiglie. Pesah, come noto, prevede al suo vertice una cena per la celebrazione domestica delle meraviglie che il Signore - sia benedetto il suo nome - compì “per libe-rare noi e i nostri padri” dalla schiavitù d’Egitto. Grande, ardente e accuratissima è la cura per la preparazione delle case e delle persone a questo momento. Ai miei occhi davvero edificante, da assumere come modello per la preparazione delle nostre liturgie parrocchiali e domestiche spesso così pressappochiste e svogliate!

La Pasqua cristiana a Gerusalemme dunque beneficia di

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questo ricco contesto, una specie di humus spiritual-mente favorevole. Poco importa se spesso ne siamo scarsamente consapevoli: il bene resta.

A fare da ponte tra il mondo ebraico e quello cristiano ci sono le perle preziose delle Keillot: le comunità cat-toliche di lingua ebraica. Esse inserite nei contesti isra-eliani, e quindi di cultura ebraica, celebrano la liturgia in quella lingua, proclamano la Parola di Dio leggendo direttamente dal testo originale, e hanno per diversi aspetti arricchito la liturgia latina con elementi vicini al sentire ebraico… Davvero un tesoro per tutti: ebrei e cri-stiani. Esse ci sono di esempio per come hanno saputo, con passione di verità, “incarnare” nel loro contesto così speciale il Vangelo di Gesù.

Le date e le chiese. Il 2016 vedrà ben cinque settima-ne di distanza tra la data della Pasqua “occidentale” e quella delle Chiese d’oriente. Per i primi sarà Pasqua il 27 marzo, per i secondi il 5 maggio. Non è poca la diffe-renza, vero? Ma lo stesso dobbiamo tenere fermo che la Pasqua è la stessa. Una sola, celebrata in giorni e modi diversi. E che da tutto questo possiamo, tutti, riceve-re benedizione. Per l’esattezza va aggiunto che con una

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bella decisione ecumenica, da molti anni, in tanti vil-laggi della Palestina e in tutta la Giordania le comunità ortodosse anticipano la festa del Natale al nostro 25 dicembre e le comunità cattoliche celebrano la Pasqua con la data ortodossa. Questo anche per favorire le tan-te famiglie i cui componenti fossero di differente rito.

Gli orientali a Gerusalemme - Greci, Armeni, Siri, Copti, Etiopi; e poi Russi, Rumeni ecc. - hanno maturato nei se-coli, secondo la loro indole, ciascuno il suo stile. E così: i riti sono originali. I testi liturgici adatti alle diverse mentalità. Sono diverse le fogge dei paramenti; diver-si i profumi degli incensi e l’agitarsi dei turiboli; diverse le tonalità dei canti e dei ritmi; diverso il modo dei fe-deli: compostissimi i russi, popolari e ieratici al tempo stesso; solenni e sonori gli Armeni; liete e mai sguaiate le danze etiopi, gioiosamente indisciplinati gli egiziani copti; i Siri fieri della loro antica lingua aramaica… tut-ti, generosamente, senza economia tempo. Davvero un bell’esempio per le nostre frette scialbe di andare chissà dove, a fare chissà che.

Tanti modi così diversi non fanno che confermare che unica è la Pasqua del Cristo e che solo grazie a questa

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varietà cangiante può essere celebrata degnamente. Tutti, davvero, non abbiamo che da gioire per questa bellezza dai tanti colori che ci vaccina dal pericolo, in-combente in tante nostre liturgie misurate e malinconi-che, di scadere nel grigio monocolore.

Quanto ai cattolici latini di Gerusalemme, la Pasqua è ben preceduta da una Quaresima arricchita dalle “Pel-legrinazioni” che i francescani (grande è il debito che la Chiesa di Terrasanta ha verso la loro famiglia religiosa) organizzano nei diversi santuari attorno e nella Città. Pellegrinazioni che arrivano fino alle soglie della Setti-mana Santa.

La domenica delle Palme è, forse, il momento più pub-blico dei riti della Settimana santa. Nel pomeriggio, con partenza dal santuario di Betfage e arrivo a sant’Anna appena dentro le mura, ha luogo la grande processione che accompagna l’ingresso di Gesù in Città. Certi anni, quando la situazione è tranquilla, la partecipazione è davvero trionfale: migliaia e migliaia di persone. Pur trattandosi di una celebrazione latina molti cristiani di altre confessioni vi si associano rendendola vivace e va-riopinta. Se si pensa poi che i partecipanti si organizza-no liberamente è facile immaginare come un segmento

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del corteo sia solennemente accompagnato da canti gregoriani, quello seguente dai canti arabi di una par-rocchia dei Territori, quello dopo ancora dalla vivacità di pentecostali americani o da chitarre sudamericane, ecc…

Quanto alla celebrazione del Triduo santo, nella Basilica del Santo Sepolcro, le caratteristiche del luogo, i vincoli accumulati nella storia, la rendono al tempo stesso uni-ca e “difficile”.

Unica per il privilegio di essere davanti alla santa Tomba e sul Calvario glorioso. Difficile per la ristrettezza dei luoghi e per l’impossibilità di usare sistemi di amplifica-zione della voce.

Unica anche perché, per le condizioni poste dalla con-vivenza in quel luogo, le celebrazioni più solenni devo-no necessariamente essere compiute nella prima parte della mattina del giovedì, venerdì e sabato santi. Il che, ad esempio, ha condotto alla fusione in una unica azio-ne liturgica della Messa Crismale e di quella “In Coena Domini”, all’anticipo di alcune ore della celebrazione della Passione del Signore e addirittura alla necessità di celebrare la Veglia pasquale nelle prime ore del mattino

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del Sabato santo, (come del resto era tradizionale per tutti fino ai primi anni cinquanta del secolo scorso) il che fa sì che la Chiesa di Gerusalemme arrivi per prima al Sepolcro vuoto, canti l’alleluia, constati e proclami la resurrezione del Signore e goda in questo modo, con quasi un giorno di anticipo su tutte le altre chiese, della festa di Pasqua.

Proprio questo “scarto” di orari e di rito ci conferma, proprio tutti, ovunque noi si sia, che è la Liturgia cele-brata e il Vangelo che in essa si fa carne viva, a renderci presenti al Mistero prima ancora e ben al di là dei luoghi e delle ore in cui ci si trova. La Liturgia della Chiesa e il Vangelo rendono Gerusalemme… Gerusalemme, molto di più che le sue pietre per quanto sante e venerate esse siano. Proprio la Liturgia e il Vangelo celebrati rendono ogni nostro contesto … la vera Pasqua nella vera Geru-salemme.

Buona Pasqua dunque a tutti. Tutti presenti, comunque, a Gerusalemme.

Lorenzo fratello

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