Venezia, 27 ottobre 1965. Canale della ... - Marco Steiner · una di quelle cose che capitano alla...

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NOTIZIARIO M ARINA della 17 C erte giornate iniziano come tante altre, poi ti rendi conto che sono diverse, segnano pas- saggi, c’era un “prima” e poi arriva un “dopo” quel preciso momento. Le cose della vita cambiano senza avvisare, arrivi in un luogo e ti accorgi che quel luogo ti stava aspettando. Si accendono lam- pioni invisibili e la strada lungo la quale hai camminato al buio improvvisamente diventa chiara. I passi fatti, le scelte, gli sbagli, erano momenti di un viaggio che si snodava nel tempo, e l’unica cosa ne- cessaria era il trascorrere di quel tempo. A me è successo oggi, a Venezia, davanti al mare, o meglio alla laguna, mentre me ne stavo seduto al tavolino di un caffè affacciato sulla Giudecca. Il mio sguardo era perso nel nulla e l’ac- qua scorreva. Sembrava avesse un posto preciso dove andare. Io desideravo solo fermarmi a pensare. Davanti a San Giorgio c’era un veliero, vele serrate, legni logorati dal tempo, ma era carica di fascino, di avventure vissute. Dondolava mollemente, incu- rante di tutto. Mi sembrava di ondeg- giare con lei, una sensazione che mi portavo addosso. Ero sceso a terra da pochi giorni, dopo un lungo imbarco con la mia nave, l’Amerigo Vespucci. Eravamo partiti da Livorno l’8 luglio ed eravamo ritornati dopo 7085 miglia e 69 giorni e mezzo di navigazione. Avevamo toccato Ca- dice, Portsmouth, Amburgo, Helsinki, Stoccolma, Oslo e la Bretagna di Brest, il Portogallo di Lisbona e le giornate piatte di bonaccia s’erano alternate con le sfuriate di vento e le nuvole nere di gelida settimana di piogge. Il mio corso era il Kon Tiki, “Come soli nella nebbia, come dei nella tempesta”, diceva così il nostro motto, e in quel viaggio avevo capito che non erano solo parole, ma sensazioni vissute in quei tre mesi indi- menticabili. Sono un marinaio, ho diciannove anni e non importa che dica il mio nome. Non voglio parlare di me, ma di un incontro, una di quelle cose che capitano alla gente di mare. Noi sappiamo che nel si- lenzio di certi sguardi ci si riconosce, senza parole ci scambiamo malinconie, gioie e inquietudini perché conosciamo la sensazione di essere soli e lontani da tutto. E sappiamo che alla fine bisogna riderci sopra. Mi sono sempre piaciute le navi che Un viaggio oltre il tempo Un viaggio oltre il tempo di Marco Steiner foto di © Marco D’Anna Venezia, 27 ottobre 1965. Canale della Giudecca. fanno sognare, le cime mollate e i porti che si allontanano nel vento e soprat- tutto quello che resta, l’inquieta solitu- dine di noi marinai. Sono nato in Friuli, in un piccolo paese infilato fra le montagne, ma la mia pas- sione è sempre stata quella di muo- vermi, cercare luoghi nuovi, diversi, perfino difficili da immaginare. Sognavo viaggi che non avrei mai potuto fare e non mi restava che andarmene in giro, in cima alle montagne, in mezzo ai bo- schi, ma la cosa che preferivo era la mia bicicletta, ogni giorno scendevo a valle, veloce, senza una meta precisa, come fanno i fiumi che cercano il mare, poi la sera rientravo, e almeno ero stanco, riu- scivo a dormire. Poi un giorno i miei vecchi se ne andarono per sempre, ri- masi solo e decisi che non sarei più tor- nato nella mia casa di pietra troppo carica di ricordi e tristezza. Per la prima volta mollai le cime. Quando arrivai a Venezia, la città era av- volta dalla nebbia, sembrava galleggiasse in un sogno, poi arrivò il vento e l’ul- timo sole colorò d’arancio le cime delle mie montagne. Mi sembrò di vedere il passato mentre si allontanava nel vento e nel mare leg- gevo un futuro possibile, ero quasi fe- lice. Il resto accadde in fretta, entrai al “Morosini” e poi all’accademia di Li- vorno, oggi dopo il viaggio di addestra- mento sul Vespucci sono qui, davanti all’acqua da cui tutto è iniziato. E men- tre il mare scivola via lo fanno anche i ricordi, i sogni, i porti che ho visto. Le immagini s’infilano in un imbuto che crea un vortice di visioni, una giostra che gira e mi porta lontano, fuori dal tempo. Non mi ero nemmeno reso conto della sua presenza, eppure era seduto al ta- volo accanto al mio, beveva uno di que- gli aperitivi francesi che sanno di anice, c’era la bottiglia di Ricard mezza vuota accanto alla brocca d’acqua fresca, la va- schetta di ghiaccio e il bicchiere che quell’uomo continuava a riempire men- tre fumava sigarette senza filtro. - Da come continui a guardare quella barca, credo tu sia un marinaio. Aveva la faccia segnata dal tempo, i ca- pelli candidi e uno sguardo azzurro come certi cieli sbiaditi appena spunta il mattino. - Sono appena sbarcato. - Veliero?

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Certe giornate iniziano cometante altre, poi ti rendi contoche sono diverse, segnano pas-

saggi, c’era un “prima” e poi arriva un“dopo” quel preciso momento. Le cosedella vita cambiano senza avvisare, arriviin un luogo e ti accorgi che quel luogoti stava aspettando. Si accendono lam-pioni invisibili e la strada lungo la qualehai camminato al buio improvvisamentediventa chiara. I passi fatti, le scelte, glisbagli, erano momenti di un viaggio chesi snodava nel tempo, e l’unica cosa ne-cessaria era il trascorrere di queltempo. A me è successo oggi, a Venezia,davanti al mare, o meglio alla laguna,mentre me ne stavo seduto al tavolinodi un caffè affacciato sulla Giudecca. Il mio sguardo era perso nel nulla e l’ac-qua scorreva. Sembrava avesse un postopreciso dove andare. Io desideravo solofermarmi a pensare.Davanti a San Giorgio c’era un veliero,vele serrate, legni logorati dal tempo,ma era carica di fascino, di avventurevissute. Dondolava mollemente, incu-rante di tutto. Mi sembrava di ondeg-giare con lei, una sensazione che miportavo addosso. Ero sceso a terra da pochi giorni, dopoun lungo imbarco con la mia nave,l’Amerigo Vespucci. Eravamo partiti daLivorno l’8 luglio ed eravamo ritornatidopo 7085 miglia e 69 giorni e mezzodi navigazione. Avevamo toccato Ca-dice, Portsmouth, Amburgo, Helsinki,Stoccolma, Oslo e la Bretagna di Brest,il Portogallo di Lisbona e le giornatepiatte di bonaccia s’erano alternate conle sfuriate di vento e le nuvole nere digelida settimana di piogge. Il mio corsoera il Kon Tiki, “Come soli nella nebbia,come dei nella tempesta”, diceva così ilnostro motto, e in quel viaggio avevocapito che non erano solo parole, masensazioni vissute in quei tre mesi indi-menticabili.Sono un marinaio, ho diciannove anni enon importa che dica il mio nome. Nonvoglio parlare di me, ma di un incontro,una di quelle cose che capitano allagente di mare. Noi sappiamo che nel si-lenzio di certi sguardi ci si riconosce,senza parole ci scambiamo malinconie,gioie e inquietudini perché conosciamola sensazione di essere soli e lontani datutto. E sappiamo che alla fine bisognariderci sopra. Mi sono sempre piaciute le navi che

Un viaggio oltre il tempo

Un viaggio oltre il tempo di Marco Steinerfoto di © Marco D’Anna

Venezia, 27 ottobre 1965. Canale della Giudecca.

fanno sognare, le cime mollate e i portiche si allontanano nel vento e soprat-tutto quello che resta, l’inquieta solitu-dine di noi marinai. Sono nato in Friuli, in un piccolo paeseinfilato fra le montagne, ma la mia pas-sione è sempre stata quella di muo-vermi, cercare luoghi nuovi, diversi,perfino difficili da immaginare. Sognavoviaggi che non avrei mai potuto fare enon mi restava che andarmene in giro,in cima alle montagne, in mezzo ai bo-schi, ma la cosa che preferivo era la miabicicletta, ogni giorno scendevo a valle,veloce, senza una meta precisa, comefanno i fiumi che cercano il mare, poi lasera rientravo, e almeno ero stanco, riu-scivo a dormire. Poi un giorno i mieivecchi se ne andarono per sempre, ri-masi solo e decisi che non sarei più tor-nato nella mia casa di pietra troppocarica di ricordi e tristezza. Per la prima volta mollai le cime. Quando arrivai a Venezia, la città era av-volta dalla nebbia, sembrava galleggiassein un sogno, poi arrivò il vento e l’ul-timo sole colorò d’arancio le cime dellemie montagne. Mi sembrò di vedere il passato mentresi allontanava nel vento e nel mare leg-gevo un futuro possibile, ero quasi fe-lice. Il resto accadde in fretta, entrai al“Morosini” e poi all’accademia di Li-vorno, oggi dopo il viaggio di addestra-mento sul Vespucci sono qui, davantiall’acqua da cui tutto è iniziato. E men-tre il mare scivola via lo fanno anche iricordi, i sogni, i porti che ho visto. Leimmagini s’infilano in un imbuto checrea un vortice di visioni, una giostrache gira e mi porta lontano, fuori daltempo. Non mi ero nemmeno reso conto dellasua presenza, eppure era seduto al ta-volo accanto al mio, beveva uno di que-gli aperitivi francesi che sanno di anice,c’era la bottiglia di Ricard mezza vuotaaccanto alla brocca d’acqua fresca, la va-schetta di ghiaccio e il bicchiere chequell’uomo continuava a riempire men-tre fumava sigarette senza filtro. - Da come continui a guardare quellabarca, credo tu sia un marinaio.Aveva la faccia segnata dal tempo, i ca-pelli candidi e uno sguardo azzurrocome certi cieli sbiaditi appena spuntail mattino.- Sono appena sbarcato.-Veliero?

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Ero sceso a terra da pochi giorni, dopo un lungoimbarco con la mia nave, l’Amerigo Vespucci. Eravamo

partiti da Livorno l’8 luglio ed eravamoritornati dopo 7085 miglia e 69 giorni e mezzo di navigazione

- Chiamarlo veliero è poco, signore, è lanave più bella del mondo.- Come si chiama?- Amerigo Vespucci, 100 metri fuori tuttoper 4000 tonnellate di legni, 30 chilometridi cime, acciaio rivettato e poi nuvole divele con le quali il nostro comandante l’hafatta volare a 14 nodi e mezzo.- Anche la goletta ormeggiata là davantinon è male, più piccola e sicuramente piùvecchia e logora ma ha una bella linea fi-lante.- È la Giorgio Cini, credo sia arrivata allafine della sua storia.- Come me, forse.- Anche lei è stato marinaio, signore?Aveva una parlata strana, un accentoche sembrava francese. Era vecchio, maaveva un fisico asciutto e giovanile.- Certo, ragazzo e se quella è la nave chepenso, ci sono stato a bordo a lungo, anchese aveva un altro nome a quel tempo, sichiamava Belem e io avevo più o meno latua stessa età.Mi guardò dritto negli occhi e mi sem-brò di conoscerlo da sempre.- Quanti anni hai?- Diciannove, signore.- Nel 1902 io ne avevo diciassette, ma fuun anno molto lungo per me, andò oltre iltempo.Rimase in silenzio e quella frase mi colpìperché era quello che stavo provando,quei tre mesi m’erano sembrati lunghis-simi, scanditi da giornate dilatate e ilpassato sembrava un miraggio lontano. Un gabbiano si posò sulla banchina einiziò a fissarci con un occhio giallo sbi-lenco, cercava qualcosa da mettere nelbecco, camminava sgraziato, con ince-dere autoritario, poi all’improvvisospiccò il volo e tornò elegante, leggero.- La Belem da nave da carico nel 1914passò al Duca di Westminster che la tra-sformò in yacht personale e poi la vendettead Arthur Guinness, il re della birra, che lamodificò ancora e la ribattezzò FantomeII. Adesso evidentemente è passata al tuopaese come Giorgio Cini, ma sono certoche è sempre lei, lo sento, perché quandohai vissuto la giovinezza su una nave,quella diventa la tua casa, la tua donna, tis’infila nell’anima, fa parte di te. - È vero, sono qui, ma non riesco a nonpensare al Vespucci e al mare, signore.- Non chiamarmi, signore, la mia non èuna bella storia, per questo voglio raccon-tartela.Mi versò da bere, iniziò a raccontare eme ne andai lontano, nel mondo cheavevo sempre sognato. Cominciò delgiorno in cui erano arrivati in Martinica,

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a Saint Pierre, dopo la lunga traversataatlantica dalla Francia. - Tutti sognavamo quel porto, la chiama-vano la “Piccola Parigi”, era il posto giustoper marinai che dopo tanti giorni di maredesideravano scendere a terra, riposareall’ombra delle palme, passeggiare nel fre-sco di giardini pieni di fiori colorati, fumarebuoni sigari, bere rum delle Antille e cono-scere le splendide ragazze dalle lunghegambe color cannella. Era il 7 maggio del1902. La vita però ama cambiare le cartein tavola, specialmente quando tutto filatroppo liscio. Il porto profumava di speziee dell’odore dolciastro dei Caraibi, ma erapieno di navi e il nostro comandante JulienChauvelon andò su tutte le furie perché laTamaya, un’altra nave francese, aveva oc-cupato il nostro posto. Non ci fu niente dafare, la capitaneria fu irremovibile, eranoarrivati prima di noi. Così uscimmo dalporto per ancorare in una rada lontana,dall’altra parte dell’isola. Niente passeg-giate fra i fiori, niente rum, niente sigari,niente palme e, soprattutto, niente ra-gazze. Dopo la grande delusione, il giocodel destino. Alle 8 del mattino seguente,dopo un lungo boato, il sole si oscurò, sem-brava fosse calata di colpo la notte e ilMount Peleé decise di risvegliare la suaanima rossa e nera di vulcano. Esplose ein pochi minuti, la città e le 30.000 per-sone che l’abitavano vennero coperte dilava e tutte le navi in porto si sciolserosotto una pioggia di cenere incandescente.La polvere grigia continuò a galleggiare nel-l’aria per tutto il giorno, coprì la Belem ele vele stavano per prendere fuoco perl’immensa vampata di calore, ma per for-tuna eravamo abbastanza lontani e le ba-gnammo coi secchi. Quando manovrammoverso il porto la scena diventò agghiac-ciante, il mare era invaso da pezzi di legnobruciati, corpi carbonizzati che galleggia-vano come tronchi secchi, mentre l’aria erainvasa da un insopportabile odore di zolfo,di distruzione e morte che aleggiava comeuna densa nube sopra ogni cosa. La nostranave era un fantasma grigio.Si fermò e mi fissò a lungo, c’era fer-mezza nel suo sguardo, ma anche qual-cos’altro. Un velo di profonda tristezza.- Sei stato felice sulla tua nave?- Navigare era il mio sogno, adesso so chesarà la mia vita, non c’è niente di più belloper sentirsi vivi e liberi.- Già, la libertà, grande cosa. Quando ti la-sciano essere libero. Aggiunse.E poi raccontò brevemente il restodella sua vita. Dopo l’imbarco sullaBelem fu trasferito in Indocina e andòa lavorare nei servizi segreti a Phnom

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Un viaggio oltre il tempo

Penh.- All’inizio ero felice, m’immaginavo laCambogia come un paese dolcissimo, co-perto di foreste e risaie verdi dove giovanidonne sorridenti versavano il tè facendo in-chini in case che profumavano di gelso-mino, ma lentamente mi resi conto che larealtà era molto diversa. Noi francesi noneravamo più colonizzatori di quella terra,ci eravamo trasformati in conquistatori esfruttatori.Si versò tre dita di liquore, riempì la de-stra di cubetti di ghiaccio, li schiaffò nelbicchiere, aggiunse poca acqua e il li-quido diventò lattescente. Mi venne inmente la giornata in Martinica che avevaappena descritto, il sole e il cielo offu-scati di grigio e la pioggia calda di ce-nere che continuava a vibrare nell’aria.- Com’è il tuo comandante, marinaio?- Il comandante Straulino è un uomo ec-cezionale, un grande velista, è stato ancheun eroe di guerra.- Ma con voi è stato giusto?- Sempre, e ci ha trasmesso la sua pas-sione e il rispetto per il mare.- Questo è importante, ragazzo, i miei capilaggiù erano corrotti e arroganti, conside-ravano la Cambogia una terra da sfruttare,per questo mi sono ribellato.- Ribellato?- Sì, mi ritrovai coinvolto con un paio diamici dei servizi che avevano aiutato ungruppo di avventurieri inglesi arrivati finlaggiù per liberare una ragazza rapita.- Sembra una storia di Stevenson.- Hai letto Stevenson, marinaio?- Certo, l’Isola del Tesoro è il libro che miha messo in testa l’idea di scappare dallemontagne per raggiungere il mare.- Hai fatto bene, bisogna sempre seguirele passioni, sono il vero tesoro. Ascoltare ilcuore e poi avere testa e forza per insisterefino a realizzare i sogni.Poi mi raccontò la storia della figlia delcapo dei ribelli cambogiani. Era stata im-prigionata in un carcere di massima si-curezza infilato in un’isola inaccessibilenel Mar Cinese Meridionale. La tortu-ravano per farle rivelare il nascondigliodi suo padre, la ragazza era dura, conti-nuava a resistere, ma non avrebbe po-tuto farlo a lungo. L’isola era un postotetro, un fazzoletto di terra circondatada scogli, in un mare infestato da squali.Non si scappava da laggiù e la vita nelpenitenziario era un inferno, serviva unabarca e qualcuno che avesse il fegato ditentare un’impresa quasi impossibile.- Il comandante Robart Kee era un lupo dimare e insieme a un pugno di uomini fi-dati, suo figlio e un altro ragazzo che si

chiamava Corto Maltese riuscirono ad ar-rivare sull’isola in una notte buia come lapece e dopo aver liberato la giovane la ri-portarono a suo padre risalendo il Mekongcon una giunca dopo aver attraversato fo-reste impenetrabili. E alla fine, dopo averrischiato più volte la vita, per una questionedi principio rinunciarono al compenso chegli sarebbe spettato. Grazie alla loro im-presa ho capito cose che mi hanno cam-biato.- Posso chiederle cos’è successo dopo?- Quello che è successo laggiù non lo socon precisione perché me ne andai dopopoco tempo. Una delle due spie che ave-vano aiutato gli inglesi all’interno del car-cere venne uccisa sull’isola, l’altro riuscì afuggire. Io preferii lasciare il mio ufficioprima di essere accusato e iniziai a navi-gare per conto mio, ma un giorno in Cor-novaglia incontrai il padre di quel ragazzo,Corto Maltese. Non si erano più visti, maquell’uomo era felice perché aveva avutonotizie di suo figlio attraverso un diario dibordo. Ma questa è un’altra storia.Il gabbiano tornò a passeggiare lungo labanchina, non ero certo che fosse lostesso, ma dal modo in cui mi guardavacon quell’occhio sbilenco, sembravaproprio lui. Forse era curioso, poi feceesattamente come prima, volò via senzaun motivo e mi ritrovai a seguire quelvolo leggero nel cielo che cominciava atingersi di rosa. E mi ritrovai ancora piùlontano da tutto.- Tu che rapporto hai con tuo padre, ra-gazzo?- Non ho più una famiglia, signore.- Non è vero, marinaio, adesso hai il tuocomandante, la tua nave, i tuoi compagnie poi c’è il mare. Un marinaio non è maisolo, anche se ogni tanto ama esserlo.- Scusate se vi interrompo…Parlando eravamo volati entrambi in unaltro mondo e non ci eravamo accortidell’uomo dagli occhi azzurri seduto ac-canto a noi, aveva una cartella di disegnisotto il braccio.- Scusate se m’intrometto, ho sentito chestavate parlando di Corto Maltese.Il nuovo arrivato ordinò un’altra botti-glia di Ricard e un gran tagliere di pane,formaggio e salame.- Lei è molto gentile, signore.- Mi chiamo Hugo Pratt e da un po’ ditempo mi sto interessando alla vita di quelmarinaio. Raccolgo notizie in giro per ilmondo perché ho intenzione di disegnareun’avventura che lo riguarda.- Ho incontrato il padre di Corto Maltesea Tintagel, in Cornovaglia e ho letto qual-cosa su quel diario, signor Pratt, ne po-

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Come si chiama?Amerigo Vespucci, 100 metri fuori tutto per4000 tonnellate di legni, 30 chilometri di

cime, acciaio rivettato e poi nuvole di vele conle quali il nostro comandante l’ha fatta volare

a 14 nodi e mezzo

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Un viaggio oltre il tempo

tremo parlare se vuole.- Magnifico, sarà interessante per le mienote.- Non sapevo fosse diventato famoso, mafin dall’inizio ho avuto l’impressione chefosse un tipo speciale.- Non credo sia famoso al di fuori della ri-stretta cerchia di quelli che navigano lon-tano dalle rotte principali, proprio perquesto mi sta interessando.

Marco Steiner a bordo di nave Amerigo Vespucci.

Mar Tirreno meridionale, 4 giugno 2016

sicuro: ho una gran voglia di riprendere ilmare.Mi alzai e me ne andai come fanno i ma-rinai, senza voltarmi indietro, ma primadi svoltare verso San Trovaso buttai unosguardo, erano ancora seduti là, guarda-vano il mare, anzi, oltre il mare.

- Sono contento che anche lei ami i perso-naggi fuori dal comune, signor Pratt, espero che anche questo giovane marinaiosappia scegliere rotte alternative.Ci guardammo, scambiandoci un leg-gero sorriso mentre alzavamo i calici.- Signori, non so come ringraziarvi e nonvorrei aggiungere parole inutili, immaginoche voi abbiate tante storie da raccontarvi.Per quanto mi riguarda una cosa la so di