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«Ma chiunque metta al mondo figli inutili/che cos’altro puoi di- re che ha generato/se non pene per sé e molto riso per i nemici?" (Antigone 645-47): nel dissuade- re il figlio Emone da un amore impossibile, il Creonte di Sofocle parla con disprezzo dei figli «inutili», quelli che con la loro disobbedienza testarda si rivela- no inadeguati a difendere i geni- tori e la famiglia. In una civiltà come quella greca antica, in cui l’idea dell’educazione, la paide- ia, era così centrale da «appari- re come rappresentativa del si- gnificato di ogni sforzo umano» (W. Jaeger), la continuità tra le generazioni è un tema quasi on- nipresente, ed è declinato sia in materia di reputazione familia- re sia nell’àmbito più stretta- mente etico. Molti ricorderanno la silenziosa, commovente rea- zione dell’anima di Achille (pur così scontenta e insofferente del tristo confino nell’Ade), che si al- lontana a grandi passi da Ulisse tutta lieta dopo aver appreso del- la valentìa del figlio Neottolemo (Omero, Odissea 11, 540). D’al- tra parte, nelle Opere e i giorni il poeta arcaico Esiodo si rivolge al fratello Perse esaltando la ne- cessità del lavoro, condannando la pigrizia e l’inazione, e raccon- tando il declino dell’umanità a partire dalla stirpe degli uomini d’argento, tra i quali «per cen- t’anni il fanciullo presso la ma- dre saggia / veniva allevato, gio- coso e stolto, dentro la casa» (vv. 130-31), salvo poi - appena scol- linato lo status di «bamboccio- ne» - scaricare un’insana violen- za contro i propri simili. CONTINUA |PAGINA II La rilettura I genitori dell’antica Grecia S ul parapetto, vicino al corrimano della scala che por- tava al metrò, qualcuno aveva lasciato un biglietto. Era timbrato, ma lo guardai e vidi che valeva ancora una mezzoretta. Ero fortunato. Non solo perché il tragitto fino a casa era di venti minuti scarsi, ma anche perché un simile evento era raro ormai. Quando avevano aumenta- to i prezzi del biglietto per la prima volta, la reazione alla nuova misura si era manifestata in un modo singolare. I nuovi biglietti rimanevano validi per un’ora e mezza dalla timbratura: ma un’ora e mezza era troppo anche per an- dare da un capo all’altro della città. Così, quando uno usci- va dalla metropolitana o dall’autobus, aveva quasi sem- pre in mano un biglietto che consentiva un’altra mezzora di viaggio. Quando la gente se ne accorse, invece di gettar- lo via iniziò a lasciarlo in posti nei quali potesse reperirlo il prossimo viaggiatore; molte volte ti trovavano davanti al- le macchinette e prima che tu ne comprassi uno nuovo ti mettevano in mano il loro. Disobbedienza legale. E così nessuno pagava il prezzo, né del biglietto né della disobbe- dienza. Ma col tempo anche questo finì. Non so perché. Non conosco nessuno, cioè, che sia finito nei guai per aver dato a un altro il suo biglietto convalidato. Forse la gente ha pensato che donare il proprio tempo a un terzo è in qualche modo un atto di tracotanza. Un turbamento dell’ordine. Non solo di quello legale, ma anche di quello fondamentale dell’esistenza stessa, l’ordine cosmico. Gli uomini non sono capaci di essere generosi con il tempo. Cacciai il biglietto nella tasca posteriore e discesi la sca- la mobile. Non mi soffermai sulle cause della mia buona sorte. Ultimamente era in difetto, e non volevo stuzzicarla con pensieri sul perché e il per come. Del resto non è che non avessi cose più serie a cui pensare. CONTINUA |PAGINA II Padri e FIGLI Narrare la lotta di classe Dimosthenis Papamarkos Il lavoro non si vede, di lavoro non si parla. È un argomento tabù, la cui narrazione è affidata alle retoriche aziendaliste, mentre la realtà parla di disoccupazione, precarietà e sfruttamento. E la crisi fa deflagrare il conflitto generazionale, con i padri che svolgono il ruolo dei figli Sbilanciamo l’Europa Christian Raimo M atteo Renzi qualche giorno fa ironizzava sulle minacce di prossimi conflitti sociali e rispondeva con il tweet: «I sindacati vogliono un autunno caldo? Faccia- no pure, tanto l’estate non è stata un granché». È un sarcasmo che il pre- mier sa di potersi permettere. Non soltanto perché, come sottolineava Dario De Vico qualche giorno dopo sul Corriere, i sindacati non sono af- fatto popolari, o perché, come com- mentava un lettore in calce allo stes- so articolo on line, «per la mia gene- razione sindacato è una parola simi- le a comunista o hippie, ovvero fa ri- ferimento a un periodo e a dei conte- sti ormai slegati dalla realtà». Il credi- to che i sindacati hanno visto assotti- gliarsi – sottoposti a una guerra reto- rica da destra a da sinistra che li de- scrive ormai come delle reliquie cul- turali («retrogradi, relitti di un’epoca passata, istituzioni non più funziona- li all’industria e ai servizi moderni», Luciano Gallino, La lotta di classe do- po la lotta di classe) – non è più ali- mentato dalla linfa che ha nutrito il movimento operaio e in generale la storia delle battaglie del lavoro: que- sta linfa è semplicemente la narrazio- ne del lavoro. Con lo smaterializzazione del lavo- ro, con il declino dell’industria e il debordare del terziario avanzato, l’esperienza del lavoro è diventata dal tardo Novecento in poi per molti versi un’esperienza quasi pornografi- ca. Il lavoro non si vede, del lavoro non si parla. Un ragazzo del liceo può non essere mai entrato in una fabbrica, può non aver mai visto co- me è fatto un ufficio o un laborato- rio artigianale. Non soltanto: può non aver mai letto un libro o visto un film in cui il lavoro fosse la que- stione centrale o un carattere impor- tante dei personaggi. E, paradossalmente, la prima volta che si troverà a parlare di lavoro sarà magari a un colloquio o durante uno stage, e lo farà secondo delle retori- che aziendaliste ormai invalse anche in chi cerca speedy-boys o ragazzi che distribuiscono volantini. Ecco qui il paradosso: se dai call-center agli uffici dei Ceo delle multinaziona- li, è tutto uno storytelling; fuori nel mondo di chi prende un caffè al bar, o si butta sul divano stanco la sera, il lavoro è un argomento dimenticato se non tabù: «Non mi vorrai mica par- lare del lavoro? Sto chattando». Per queste ragioni, quando que- st’estate con il gruppo di Sbilancia- moci abbiamo deciso di dedicare cin- que speciali estivi alle narrazioni del lavoro al tempo infinito della crisi, è come se ci fossimo dati un compito da inserto estivo con un tema strano, addirittura esotico. Chi racconta il la- voro oggi non è uno scrittore che si ri- scopre un realista sociale, ma è piut- tosto per indole e ambizione un re- porter di viaggi, un narratore salgaria- no, un autore di fantasy che prova a inventare lingue sconosciute. Le sue storie daranno corpo a vicende para- dossali, grottesche, di anti-eroi im- probabili; i suoi personaggi capiterà che vivranno avventure solitarie e non rappresenteranno altro che se stessi, o magari una patologia sociale più che una condizione di classe. I cinque racconti che avete letto in queste pagine – quello di oggi è l’ulti- ma puntata – insieme agli articoli che abbiamo voluto confezionare per pro- vare a tracciare delle linee anche stori- che, avevano questa piccola ambizio- ne, quasi un desiderio clandestino, prima che arrivino le nuove jacquerie. VENERDÌ 29 AGOSTO 2014 WWW.SBILANCIAMOCI.INFO - N˚31 SUPPLEMENTO AL NUMERO ODIERNO Filippomaria Pontani

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«Ma chiunque metta al mondofigli inutili/che cos’altro puoi di-re che ha generato/se non peneper sé e molto riso per i nemici?"(Antigone 645-47): nel dissuade-re il figlio Emone da un amoreimpossibile, il Creonte di Sofocleparla con disprezzo dei figli«inutili», quelli che con la lorodisobbedienza testarda si rivela-no inadeguati a difendere i geni-tori e la famiglia. In una civiltàcome quella greca antica, in cui

l’idea dell’educazione, la paide-ia, era così centrale da «appari-re come rappresentativa del si-gnificato di ogni sforzo umano»(W. Jaeger), la continuità tra legenerazioni è un tema quasi on-nipresente, ed è declinato sia in

materia di reputazione familia-re sia nell’àmbito più stretta-mente etico. Molti ricorderannola silenziosa, commovente rea-zione dell’anima di Achille (purcosì scontenta e insofferente deltristo confino nell’Ade), che si al-

lontana a grandi passi da Ulissetutta lieta dopo aver appreso del-la valentìa del figlio Neottolemo(Omero, Odissea 11, 540). D’al-tra parte, nelle Opere e i giorni ilpoeta arcaico Esiodo si rivolgeal fratello Perse esaltando la ne-

cessità del lavoro, condannandola pigrizia e l’inazione, e raccon-tando il declino dell’umanità apartire dalla stirpe degli uominid’argento, tra i quali «per cen-t’anni il fanciullo presso la ma-dre saggia / veniva allevato, gio-coso e stolto, dentro la casa» (vv.130-31), salvo poi - appena scol-linato lo status di «bamboccio-ne» - scaricare un’insana violen-za contro i propri simili.

CONTINUA |PAGINA II

Larilettura

I genitori dell’antica Grecia

Sul parapetto, vicino al corrimano della scala che por-tava al metrò, qualcuno aveva lasciato un biglietto.Era timbrato, ma lo guardai e vidi che valeva ancora

una mezzoretta. Ero fortunato. Non solo perché il tragittofino a casa era di venti minuti scarsi, ma anche perché unsimile evento era raro ormai. Quando avevano aumenta-to i prezzi del biglietto per la prima volta, la reazione allanuova misura si era manifestata in un modo singolare. Inuovi biglietti rimanevano validi per un’ora e mezza dallatimbratura: ma un’ora e mezza era troppo anche per an-dare da un capo all’altro della città. Così, quando uno usci-va dalla metropolitana o dall’autobus, aveva quasi sem-

pre in mano un biglietto che consentiva un’altra mezzoradi viaggio. Quando la gente se ne accorse, invece di gettar-lo via iniziò a lasciarlo in posti nei quali potesse reperirloil prossimo viaggiatore; molte volte ti trovavano davanti al-le macchinette e prima che tu ne comprassi uno nuovo timettevano in mano il loro. Disobbedienza legale. E cosìnessuno pagava il prezzo, né del biglietto né della disobbe-dienza. Ma col tempo anche questo finì. Non so perché.Non conosco nessuno, cioè, che sia finito nei guai per

aver dato a un altro il suo biglietto convalidato. Forse lagente ha pensato che donare il proprio tempo a un terzoè in qualche modo un atto di tracotanza. Un turbamentodell’ordine. Non solo di quello legale, ma anche di quellofondamentale dell’esistenza stessa, l’ordine cosmico. Gliuomini non sono capaci di essere generosi con il tempo.

Cacciai il biglietto nella tasca posteriore e discesi la sca-la mobile. Non mi soffermai sulle cause della mia buonasorte. Ultimamente era in difetto, e non volevo stuzzicarlacon pensieri sul perché e il per come. Del resto non è chenon avessi cose più serie a cui pensare. CONTINUA |PAGINA II

Padrie FIGLI

Narrarela lotta di classe

Dimosthenis Papamarkos

Il lavoro non si vede, di lavoro non si parla. È un argomento tabù, la cui narrazione è affidataalle retoriche aziendaliste, mentre la realtà parla di disoccupazione, precarietà e sfruttamento.E la crisi fa deflagrare il conflitto generazionale, con i padri che svolgono il ruolo dei figli

Sbilanciamo l’Europa

Christian Raimo

Matteo Renzi qualche giornofa ironizzava sulle minaccedi prossimi conflitti sociali e

rispondeva con il tweet: «I sindacativogliono un autunno caldo? Faccia-no pure, tanto l’estate non è stata ungranché». È un sarcasmo che il pre-mier sa di potersi permettere. Nonsoltanto perché, come sottolineavaDario De Vico qualche giorno doposul Corriere, i sindacati non sono af-fatto popolari, o perché, come com-mentava un lettore in calce allo stes-so articolo on line, «per la mia gene-razione sindacato è una parola simi-le a comunista o hippie, ovvero fa ri-ferimento a un periodo e a dei conte-sti ormai slegati dalla realtà». Il credi-to che i sindacati hanno visto assotti-gliarsi – sottoposti a una guerra reto-rica da destra a da sinistra che li de-scrive ormai come delle reliquie cul-turali («retrogradi, relitti di un’epocapassata, istituzioni non più funziona-li all’industria e ai servizi moderni»,Luciano Gallino, La lotta di classe do-po la lotta di classe) – non è più ali-mentato dalla linfa che ha nutrito ilmovimento operaio e in generale lastoria delle battaglie del lavoro: que-sta linfa è semplicemente la narrazio-ne del lavoro.

Con lo smaterializzazione del lavo-ro, con il declino dell’industria e ildebordare del terziario avanzato,l’esperienza del lavoro è diventatadal tardo Novecento in poi per moltiversi un’esperienza quasi pornografi-ca. Il lavoro non si vede, del lavoronon si parla. Un ragazzo del liceopuò non essere mai entrato in unafabbrica, può non aver mai visto co-me è fatto un ufficio o un laborato-rio artigianale. Non soltanto: puònon aver mai letto un libro o vistoun film in cui il lavoro fosse la que-stione centrale o un carattere impor-tante dei personaggi.

E, paradossalmente, la prima voltache si troverà a parlare di lavoro saràmagari a un colloquio o durante unostage, e lo farà secondo delle retori-che aziendaliste ormai invalse anchein chi cerca speedy-boys o ragazziche distribuiscono volantini. Eccoqui il paradosso: se dai call-centeragli uffici dei Ceo delle multinaziona-li, è tutto uno storytelling; fuori nelmondo di chi prende un caffè al bar,o si butta sul divano stanco la sera, illavoro è un argomento dimenticatose non tabù: «Non mi vorrai mica par-lare del lavoro? Sto chattando».

Per queste ragioni, quando que-st’estate con il gruppo di Sbilancia-moci abbiamo deciso di dedicare cin-que speciali estivi alle narrazioni dellavoro al tempo infinito della crisi, ècome se ci fossimo dati un compitoda inserto estivo con un tema strano,addirittura esotico. Chi racconta il la-voro oggi non è uno scrittore che si ri-scopre un realista sociale, ma è piut-tosto per indole e ambizione un re-porter di viaggi, un narratore salgaria-no, un autore di fantasy che prova ainventare lingue sconosciute. Le suestorie daranno corpo a vicende para-dossali, grottesche, di anti-eroi im-probabili; i suoi personaggi capiteràche vivranno avventure solitarie enon rappresenteranno altro che sestessi, o magari una patologia socialepiù che una condizione di classe.

I cinque racconti che avete letto inqueste pagine – quello di oggi è l’ulti-ma puntata – insieme agli articoli cheabbiamo voluto confezionare per pro-vare a tracciare delle linee anche stori-che, avevano questa piccola ambizio-ne, quasi un desiderio clandestino,prima che arrivino le nuove jacquerie.

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Filippomaria Pontani

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DALLA PRIMAFilippomaria Pontani

Il conflitto tra padri e figlinell’antica Grecia

DALLA PRIMADimosthenis Papamarkos

Profumo d’aranciaQuando arrivai a casa non tro-vai nessuno. Per fortuna, per-ché non avevo voglia di parla-

re. Ero stanco e l’unica cosa che volevoera coricarmi. A mia memoria non hopraticamente mai dormito il pomerig-gio. Ma da qualche mese non riesco asfangare la giornata se non mi coricoanche solo una mezzora. Anche senon faccio nulla, anche se esco sempli-cemente e vado in centro, quando tor-no sono sfinito. Come se fossi conti-nuamente a pezzi, per dire. Al princi-pio non ci avevo dato importanza, macol tempo mi ero inquietato ed ero an-dato dal medico. Nessuna patologia,mi aveva detto. Mi prescrisse degli esa-mi del sangue, per togliermi il sospetto- disse - ma non me ne curai. Mi avevadetto che non avevo nulla, non vedevoperché perderci tempo. Non avevomai avuto simili ipocondrie, né soldida spenderci appresso. Andai drittoverso il frigorifero, ingurgitai mezzabottiglia d’acqua, poi entrai in cameramia e senza nemmeno spogliarmi néchiudere le persiane mi coricai sul let-to e mi addormentai.

Mi svegliò un messaggio sul cellula-re. Era Eleni. Non volevo rispondere inquel momento e dunque non lo apriiper vedere cosa diceva, perché l’iconasarebbe scomparsa dallo schermo e

magari me ne sarei dimenticato. Mi al-zai, mi tolsi la maglietta madida di su-dore, e andai in cucina a farmi un caf-fè. Erano le quattro. Qualcuno stava gi-rando la chiave nella toppa.

L’estate è la stagione peggiore. Sinda bambino non l’ho mai amata. Eraun vero tormento. Ci lasciavano liberitre mesi per vedere com’era la vita, perpoi riportarci nel recinto a settembre.Come darti mezzo boccone di un dol-ce. Anche da grande non la sopporta-vo. Caldo, un caldo impossibile, maugualmente a lavorare. E appena pren-devi le ferie, hop hop subito tirar su fa-miglia e carabattole e via una ventinadi giorni a correre ora dai suoceri oradai genitori. Tutto l’anno di corsa, dicorsa anche l’estate con la canicola e ilsolleone. Anche una volta in pensione,l’estate ho continuato a dete-starla. Certo, hai tutti i gior-ni per te: ma non sai chefarci. Se uno avessetrenta, quarant’anni,per dire. Io andavoper i settantacinquesuonati. Non èun’età per vi-vere. «Gli an-ziani presti-no attenzio-ne alle gior-nate afose:è meglionon usciree restare inluoghi fre-schi»: non lodicono anchealla tivù? L’altrogiorno in metrò

ho visto un manifesto su un tale cheera scomparso. Un anziano, dicevano.Di anni cinquantotto. Un bambino, inconfronto a me. Che dire. Alla mia età,anche se volessi, l’estate non dovrebbepiacermi. È pericolosa.

Penso a tutto ciò mentre sudo e miaffanno cercando di salire la strada dicasa. Un tempo il bus mi lasciava a die-ci metri dall’entrata, ma qualche mesefa hanno ridotto l’itinerario e dalla fer-mata ho dieci minuti a piedi. Sono qua-si le quattro e il sole cade a picco sulsolco in cui cammino in mezzo ai con-dominî. Mi pento di essere uscito, manon potevo farne a meno. Non volevotrovarlo nel momento in cui tornava acasa. Le cose già così sono difficili, e ap-pena posso fare qualcosa, dargli unpo’ di respiro, anche così, devo farlo.

Altrimenti non se ne esce.Capii che era lui perché

lasciò le chiavi sul tavoli-no accanto alla porta.Era il solo che faceva co-sì.

«Buonasera» esclamòancora sulla porta.«Buonasera, sei uscito?»

«Sì, ero andato al bar e hoincontrato Andonis. Te lo ri-

cordi? Un compagno di lavo-ro, erano anni che non lo vede-

vo. Lavora ancora lì, ma mi diceche il negozio non va per niente be-

ne».«Ce n’è forse uno che va bene?» but-

tai lì, perché non volevo proseguirequella conversazione.

«Tu come butta?»Con la coda dell’occhio notai che

non mi stava guardando. Faceva finta

di rovistare nel frigorifero. Fingevache non gli interessasse. Che stessechiedendo per pura curiosità. Eranon meno imbarazzato di me che gi-ravo il caffè quasi sperando di essererisucchiato dal vortice che si era for-mato nella tazza.

«Come sempre».«Hai mangiato?»«Sì, sì. Ho messo qualcosa sotto i

denti quando sono tornato. Vabbè. Va-do un po’ in camera, ho delle cose dafare al computer».

«Ok. Se accendo la tv ti dà noia?»«No. Allora a dopo».Mi rinchiusi nuovamente in camera

mia. Non reggevo queste conversazio-ni scontrose. Parlavamo senza guardar-ci neanche più in faccia. Tutto era sta-to corrotto dalla ripetizione. Che cosadovevo dirgli? Che anche stavolta nonavevo passato nemmeno un collo-quio? Che mi avevano detto «Grazie, la-sci il curriculum e le faremo sapere»?Che aspettavo? Che cosa poi? Se luinon la prendesse seriamente quanto laprendo io, forse le cose sarebbero piùsemplici. Se si arrabbiasse, se urlasseche qualcosa in me non va, che nonregge più questa situazione, forse le co-se sarebbero migliori. Forse potreiguardarlo in faccia, urlare anch’io, dir-gli lasciami in pace, faccio quello cheposso. Cerco ovunque. Bar, caffè,ovunque. I miei diplomi firmati ce liho. Cerco un lavoro. Uno qualsiasi. Unlavoro. Non lo vedi? Pensi che stia quia spassarmela? Pensi che per me vadatutto bene? Un tempo avevo pensatodi dirgli che non mi aiutava stando co-sì tanto dalla mia parte. Ma sarebbestato un torto ancora peggiore. Unonon può diventare ingrato per proteg-gere il proprio egoismo.

Non avevo nulla di serio da fare alcomputer. Gettai un’occhiata alle noti-zie e poi mi ricordai il messaggio di Ele-ni. Mi proponeva di andare al cinema.Le scrissi che ero al verde. Cinque mi-nuti dopo mi rispose dicendo che ilfilm che voleva vedere lo davano a unfestival e che l’ingresso era gratuito. Ledissi di sì e stabilimmo di trovarci diret-tamente al parco dove veniva proietta-to il film. Avevo tempo prima dell’ap-puntamento, così bevvi il caffè cazzeg-giando ancora un po’ prima di iniziarea prepararmi.

Lo trovo in cucina e dal modo in cuista chino sul caffè capisco che ancheoggi è andata uno schifo. Lo sapevo, losapevo ma, come si dice, la speranza èl’ultima a morire. Nel frattempo peròti dà il tormento. Faccio finta di non ca-pire e provo a parlare d’altro, ma luinon ha voglia di discorsi. Allora gli fac-cio la domanda, per liberare tutti e duedel peso, caso mai si sbottonasse e po-tessimo avere una conversazione nor-male. Altro errore. Lì per lì se ne va in

VENERDÌ 29 AGOSTO 2014SBILANCIAMO L’EUROPAN˚31 - PAGINA II

L’AUTORE · Papamarkos, tra letteratura popolare e fantasticaDimosthenis Papamarkos è nato nel 1983 a Malessina (nella Locride, Grecia cen-trale), ed è dottorando in storia greca presso l’università di Oxford. Ha pubblicatodue romanzi: «La fratellanza del silicio» (ed. Armòs, 1998; premio IcaromenippoGiovani) e «Il quarto cavaliere» (ed. Kedros, 2001). Nel 2012 è uscita la raccoltadi racconti «MetaPoesia» (ed. Kedros), nominata per il Premio Nazionale di Lettera-

tura. Il prossimo libro, che ripercorre un episodio cruciale della storia greca attra-verso diverse narrazioni, uscirà nell’inverno 2014 presso l’editore Antìpodes. Lasua scrittura ama combinare spunti della tradizione letteraria e popolare grecacon elementi più propriamente fantastici; sul piano stilistico e drammatico, domi-nano l’analisi interiore dei protagonisti, il realismo e la tensione dei dialoghi.

Educazione e lavoro sono dunque temi indissolubil-mente legati nella cultura greca antica, e in quellamoderna che almeno in parte se ne proclama erede -

non si dimentichi che Papamarkos è un classicista, e si ricor-dino ad esempio i versi del Brano dal mio testamento dedica-to dal poeta Kriton Athanasulis al figlio nel 1957 («È questoche ti lascio/Io conquistai il coraggio/d’essere fiero. Sfòrzati divivere/Salta il fosso da solo e fatti libero/Attendo nuove. È que-sto che ti lascio»). La tirata paterna in cui culmina il raccontoqui presentato può apparire come una sorta di rilettura ag-

giornata del monologo con cui si apre la commedia Adelphoedel poeta latino Terenzio (direttamente debitrice al prototipogreco di Menandro, IV sec. a.C.): in esso Micione enuncia la lo-de forse più esplicita e imperitura dell’educazione liberale,della pedagogia fondata su una trasmissione dei valori abbi-nata alla tolleranza e a una sostanziale sincerità dei rapporti(«questo è il dovere di un padre: abituare il figlio a comportar-si bene da sé, e non per timore degli altri», vv. 74-75). Tutta-via, quando il padre di Ghiannis proclama che lui e il figliosono «fissi sulla stessa trincea», contraddice implicitamentela non meno celebre parenesi del poeta spartano Tirteo ai gio-vani (fr. 10 W.), affinché siano loro a lottare in prima fila, ri-sparmiando agli anziani l’indecoroso fato della morte in bat-taglia.

Se però si dovesse indicare un singolo testo antico in cui ilconflitto fra le generazioni viene tematizzato, in termini qua-si uguali e contrari rispetto alla situazione descritta nel no-stro testo, sarebbero senz’altro le Nuvole del più grande com-mediografo antico, Aristofane (V sec. a.C.): lì il padre Strepsia-de si dà da fare per riparare i danni inferti al patrimonio fa-miliare da quell’ozioso scialacquatore del figlio Fidippide, ri-

tratto in apertura mentre «scorreggia tutto infagottato sottoun monte di coperte» (vv. 9-10). In un’Atene ormai evolutaverso l’individualismo e sempre meno timorata grazie all’in-segnamento dei sofisti, l’anziano e tirchio Strepsiade provasenza successo a servirsi dei nuovi strumenti di pensiero perrimediare ai debiti contratti dal figlio, fino a rimanere eglistesso stritolato da un sovvertimento dei costumi di cui nonsa venire a capo. Altro che le «leggi delle colombe» (ne parlalo stesso Aristofane negli Uccelli), secondo le quali i giovaniuccelli devono sfamare i loro anziani genitori così come que-sti li hanno sfamati nella loro infanzia (un’immagine di grati-tudine tra le generazioni che diversi umanisti italiani, da Po-liziano a Manuzio, prenderanno come metafora del debitocontratto dalla cultura occidentale nei confronti di quella gre-ca antica): nella finzione comica delle Nuvole, si va molto ol-tre la violazione della legge che obbligava i figli a non mal-trattare né trascurare i padri («tu scialacqui la roba mia co-me se io fossi già morto», vv. 837-38), e l’evoluzione della so-cietà sembra ridurre gli scambi fra padre e figlio a veri e pro-pri dialoghi fra sordi. Oggi, più che la violenta incomprensio-ne, regna un’impotente, biunivoca amarezza.

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camera. Si vergogna ancora di guardar-mi in faccia.

Sbuccio un’arancia e mi siedo da-vanti alla tv. Resto così per cinque, die-ci minuti. Con la tv spenta. Com’è pos-sibile che non riusciamo a fare nemme-no un discorso, a sederci come uominisenza che uno cerchi di sfuggire all’al-tro? So bene perché e per come. Quel-lo che non so è come far sì che lui sisegga a parlare. Come liberarci entram-bi di questo peso. Ho sempre paura dipeggiorare le cose. Non sono bravocon le parole.

Accendo la tv e la metto un poco al-ta. Anzitutto per lui, affinché non cre-da che mi sono dispiaciuto per le suenotizie e che sto lì a rimuginarci sopra.Ma la mia mente è sempre lì. Al corag-gio che mi manca di prenderlo e parlar-gli, di alleggerirci tutti e due. Ma nonso se tutto ciò abbia senso ormai. Cisiamo arresi da un pezzo.

Lo trovai in salotto dinanzi alla tv.Camicia aperta, braccia stese lungo ibraccioli della poltrona. L’aveva coltoil sonno. Pareva che quell’esaurimentoche mi tormentava da mesi fosse di-ventata una malattia contagiosa. Certonon era giovane, ma nemmeno tantovecchio. Non troppo tempo fa, primache iniziasse la nostra convivenza, melo ricordo tutto pieno di vita. Ormaiera diventato come un gatto. Appena ilsuo corpo si trovava a suo agio chiude-va gli occhi. In pochi mesi era invec-chiato. L’avevo invecchiato; e alla pri-ma occasione il sonno diventava la suavia di scampo.

Camminai in punta di piedi verso laporta, ma le suole delle scarpe sul nu-do marmo mi tradirono. Sì guardò at-torno come sperduto e quando mi vi-de mi disse:

«Esci?»«Mi vedo con Eleni» gli dissi girando-

gli le spalle, come cercando le chiavi.«Soldi ne hai?»La mano mi andò inavvertitamente

alla tasca e lì si gelò. Non sapevo che ri-spondere. Non ne avevo, ma nemme-no ne volevo. Aveva sempre cura dichiedermi prima che chiedessi io, perpreservarmi dalla vergogna. Ma cosìmi logorava ancor di più. Non era unaquestione di orgoglio. Era che capivodi essere diventato una preoccupazio-ne, oltre che un peso economico. E aquell’età lui non meritava di sopporta-re né l’una cosa né l’altra. A quell’età,erano le mie spalle che dovevano soste-nere ogni suo peso. Non per dovere.Ma perché volevo trovare un modopiù tangibile di mostrargli quanto lopenso, quanto gli voglio bene. Per libe-rarlo finalmente da tutto ciò che nongli appartiene. Che potesse pensareesclusivamente a come passare la gior-nata. Come meritava una persona acui non avevano mai regalato niente.

«Ne ho». mentii, «grazie», e feci perandar via.

«Sei sicuro di non volerne? Vieni quiche ti do qualcosa».

«Sicuro, sicuro. Scappo che sono inritardo. Un bacio».

Non mi voltai a guardarlo. Un tem-po riuscivo a comprendere la generosi-tà del suo affetto, ormai non riuscivo

nemmeno ad affrontarla.Esce di casa sempre come un ladro.

Quando siamo in bagno o dormiamo.Butta lì in fretta «io esco, ho da fare, mivedo con il tale» e lascia dietro di sé so-lo lo sbam della porta.

Così anche stavolta, sgattaiola viamentre dormo. Mi viene in mente difingere di dormire e di lasciarlo anda-re, ma gli parlo. Mi fa male sapere cheva in giro come un bambino con cin-que euro in tasca, e gli chiedo se vuolesoldi. Mi fa male, perché è un uomo ditrentacinque anni e non può fare nem-meno la metà della vita che facevo io al-la sua età. Mi fa male, perché so chenon è colpa sua. Mi fa male, perché iol’ho cresciuto e so che si sente meno-mato a non poter uscire nemmeno conla sua ragazza se non lo rifornisco io. Eanche se non gli ho mai chiesto il rendi-conto dei soldi, si sente sempre in dove-re di farmelo. Di chiedermi a modo suoil permesso, di giustificarsi per qualun-que cosa faccia, quasi andasse ancora ascuola. Capisco che lui lo sente comeun dovere. Che mi sfrutta. Che mi pesa.E io voglio dirgli che non è così. Che lefamiglie ci sono per questo, per i mo-menti difficili. Che lo so che non lo favolontariamente. Che verrà il momen-to in cui le cose cambieranno. Che tuttiabbiamo cedimenti e non è un maleche qualcuno ci dia una mano quandosiamo a terra. Ma non gli dico niente.Ho paura. Ho paura quasi fossimo a unfunerale e io parlassi del morto e poiqualcuno scoppiasse in lacrime e poi...Come guardarci in faccia? Ci vergognia-mo l’uno di aprire il cuore all’altro, per-ché da anni abbiamo imparato che gliuomini tirano dritto senza fiatare. Chequesto vuol dire essere forti.

Chiude la porta dietro di sé e riaproil volume della tv.

Eleni non se ne curava affatto. Nonne avevamo mai parlato, ma la vedo. Sivede da come si muove per casa. Nonle dà fastidio. Assolutamente sciolta. Ioinvece mi angoscio. Un giorno le avevodetto di mettersi qualcosa di più lungo,di non girare per casa solo con la miamaglietta, e mi disse «ma perché fai co-sì? sto andando solo in bagno! Sei total-mente conservatore, Ghiannis. Total-mente piccoloborghese». Stavo per dir-le che non era questione di conservato-rismo, ma era già entrata in bagno, ave-va chiuso la porta e aperto il rubinettoperché scorresse l’acqua. Le urlai tu la-sci scorrere l’acqua affinché io non tisenta pisciare, e poi il piccoloborghesesono io. La casa è piccola - ribatté - sisente tutto. Appunto dico - risposi - Lacasa è piccola, dunque... Non conti-nuai. Non aveva senso. Avrebbe segui-tato a fare come aveva imparato. E ave-va imparato diversamente.

La casa è piccola e diventa ancorapiù piccola perché non abito da solo.Eleni viene a trovarmi spesso e volen-tieri e qualche volta rimane anche la se-ra. Sono i giorni in cui siamo in quat-tro "coinquilini". Sono i giorni più diffi-cili. Non è tanto il problema di chi de-ve andare in bagno o di chi o quandoha lasciato piatti sporchi nel lavandinoe chi li laverà - tutto questo è risolto. Ilmio problema è un problema di spa-

zio. Non lo spazio che si misura in me-tri e metriquadri, ma lo spazio persona-le, quello che ha a che fare con comedisponi del tuo tempo quando ti cimuovi dentro. Il non sentire che la vitaè sempre esposta agli sguardi degli al-tri, per quanto tuoi cari. Dovere darconto del tuo abbigliamento, giustifi-carti in qualche modo perché alla taleora ti è venuto di fare questo o quello.Non che nessuno mi dica nulla. Io nontollero che gli altri mi tollerino. Perquindici anni sani questa non è statacasa mia. Era loro e solo loro. E adessoarrivo io e la mia agenda, la mia vitamangia spazio alla loro, e invece di la-

mentarsi si fanno da parte e mi offronoaltro spazio ancora. Come quando micrescevano ed ero la loro prima e unicapreoccupazione. Soprattutto questonon tollero. Vedere un’altra volta la lo-ro vita passare in secondo piano affin-ché io viva la mia nel modo più como-do possibile. Di questo mi angoscio.Della loro angoscia.

Il film era una bufala. Colpa forse an-che della mia disposizione d’animo.Eleni invece era entusiasta e mi rim-proverò che mi lamentavo per ogni co-sa. Dalle banalità della sceneggiaturaalla fotografia mediocre. Certe volte seiintollerabile, mi disse. Nemmeno unacommediola riesci a goderti. Sempre acavillare e a criticare. Giunsi a un pelodal mandarla al diavolo, ma capii chenon tutte le persone prendono le cosecosì sul serio. In questo io e lei erava-mo diversi, e forse era per questo chestavamo ancora insieme. A Eleni nondisturbava abitare ancora con i suoi.Anche lei, come me, aveva perso il lavo-ro ed era stata costretta a disdire l’affit-to e a tornare su due piedi nella suastanza di bambina, ma la cosa la diver-tiva. «Dormo di nuovo con i miei orsac-chiotti» mi diceva così quasi graziosa-mente. Nel frattempo era riuscita a tro-vare un lavoretto con qualche lezioneprivata e almeno copriva le spese. «Fauna grande differenza» le dissi una vol-ta. Disse di no. «Non è il lavoro che mirende ottimista. È che so di sapere an-cora nuotare. Nuotare e non annega-re». Io non sapevo più cosa sapevo an-cora e cosa avevo dimenticato.

Tornai a casa da solo. Alla fine noneravamo riusciti a non litigare. Mi pro-pose di continuare con una birra da

qualche parte e le dissi che non avevosoldi. Mi disse che avrebbe offerto lei ea quel punto persi la testa e feci tuttauna predica sul parassitismo, la dipen-denza, e che era una vergogna permet-tersi certi lussi in una simile situazio-ne. «Mi serve un lavoro - le dissi - nonbirra e relax. Rilassato lo sono già». Mirispose che sono uno stupido e un mi-serabile, mi piantò lì e presi da solol’autobus verso casa. In tutto il tragit-to mi rifiutai perfino di mettere le cuf-fie e di ascoltare musica, perché lagiornata era andata di merda e dun-que non era opportuno provare a ri-sollevarsi l’animo anche di poco. Masolo subire la città e l’odore dell’im-mondizia, come un’arancia tagliata difresco, che si mescolava con l’umiditàe si confondeva con il mio sudore.

Non riesco a dormire. Mi sono cori-cato e ho provato, ma il sonno non tie-ne. Forse è che la routine si è spezzataquesti giorni in cui Katerina è andataal paesello a trovare sua madre. Forsepenso che dovremmo finalmente af-frontarlo, quel discorso. Mi verso un di-to di vino e lo aspetto in cucina.

La porta di casa non era chiusa achiave, dal che si capiva che non dor-miva ancora. Se non avessi già inseritola chiave e non mi avesse dunque perforza sentito, avrei fatto dietrofront esarei andato via, a girare per le stradefinché passasse un altro po’ di tempo elui andasse a dormire. Non riuscivo astargli davanti. Non riuscivo a starglidavanti quando tornavo a casa dopoun’uscita. Lui sulla sua poltrona e io diritorno con i suoi soldi. Ladro del suotempo e della sua felicità.

Lo sento che apre ed entra. Non lovedo ancora.

«Buonasera. Vado a letto. Sonostanco».

«Prendi un bicchiere e vieni a seder-ti un po’ qui con me».

«Un’altra volta, adesso...»«Ho detto vieni e siediti. Basta con

queste fesserie».«Quali fesserie? Che cosa dici? Hai

voglia di litigare?»«Ghiannis, ho detto siediti. Dobbia-

mo parlare».«È successo qualcosa? Ti ha chiama-

to la mamma? La nonna sta male?»«Tutti stanno bene. Voglio parlarti di

me. Ecco. Il vino è lì. Stavo pensando,sai. Quanto tempo è? Tre anni che so-no andato in pensione? Cioè ora ho,potremmo dire, 70-71 anni. Dico dun-que: quanti anni buoni ho ancora?Pochi; molti certo non saranno. Alpunto in cui sono, sai, dovrei augurar-mi che i giorni passino lentamente.Come dire, figlio mio, che siano pieniminuto dopo minuto. Che un giornosia come dieci e che nonostante ciòio mi trovi a dire che è passato in fret-ta. Ma al contrario mi rode la penache non passino rapidamente. Ecco,dovessero passare come i secondi sa-rei entusiasta. E sai perché? Perché igiorni li trascorro aspettando e quan-do non fai che aspettare non è più vi-ta, è un turno di guardia. Mi dirai, co-sa aspetti papà? Aspetto che arrivi lafine del mese, Ghiannis, per avere imiei soldi, e poter comandare anco-ra. Pensavo questo, sai, e dentro dime ho detto, sbagli. Sbagli di grosso.E per tutto questo tempo né io né tel’abbiamo capito. Perché io ti vedocosì curvo e per abitudine mi incurvoanch’io, e poco a poco dimentichia-mo che questa cosa non è vita. E vabene per te che non capisci, ma io hovissuto qualcosina in più di te e nonho giustificazione. No. Non dirminiente. Ora parlo io e voglio che tumi stia a sentire. Capisco tutto, tutto.Io ti ho cresciuto e so chi è mio figlio.Vedo che ti angosci e fai come se cifosse un modo di congelare la giorna-ta, di farla diventare un mese e un an-no per sfoderarla con i venti euro cheti ho dato affinché tu non abbia biso-gno di richiedermene altri. Sei un con-dannato dell’orologio, figlio mio. Tucome un vecchio e io come un giova-ne. Tu con la paura e io con la spaval-deria. Hai capito? Tutto sottosopra. Lavita non funziona così. In questa casaio non ti ho né come genero né comefiglio. Non è uno scambio. Siamo fissisulla stessa trincea tutti e due, e unodeve aiutare l’altro. Oggi posso io, do-mani potrai tu. Così va la faccenda.Non vergognarti di chiedere e io nonmi vergognerò di darti. Affronti unalotta difficile e non ti arrendi. Non soné come né quando finirà, ma quandouno affronta una lotta noi altri dob-biamo sostenerlo. Ho davanti a meun uomo che non si è arreso. Così tivedo. E per questo so che posso ave-re fiducia in te come compagno, nonsolo come figlio. Per questo ti dico,questo deve finire. Sia io che te sba-gliamo. Possiamo andare avanti assie-me? Questa è l’incognita. Perché co-munque sia, nulla dura per sempre.Né le cose buone né quelle cattive».

SEI UN CONDANNATODELL’OROLOGIO, FIGLIO MIOTU COME UN VECCHIOE IO COME UN GIOVANE.TU CON LA PAURA E IO CONLA SPAVALDERIA. HAI CAPITO?TUTTO SOTTOSOPRANON VERGOGNARTIDI CHIEDERE E IO NON MIVERGOGNERÒ DI DARTI

VENERDÌ 29 AGOSTO 2014SBILANCIAMO L’EUROPA

N˚31 - PAGINA III

L'UOMO NOTTEL'autore delle immagini di questo numero è DominiqueBertail. Nel suo libro L'uomo notte ci racconta il percorso diuna vita, dall'infanzia all'adolescenza, alla maturità fino allavecchiaia, attraverso la storia di un'amicizia indissolubile:quella fra il giovane eroe del libro e il suo personale UomoNotte, colui che incarna tutte le sue angosce e i suoidesideri più segreti. Con allegra delicatezza, immagini etesto ci parlano delle paure dei bambini e dei turbamentidegli adolescenti, componendo un racconto sulla difficilearte di imparare a volersi bene."L'uomo notte", Orecchio acerbo 206, 60 pagine a colori,14,00 eurowww.orecchioacerbo.com

Page 4: VENERDÌ 29 AGOSTO 2014 - N˚31 ...€¦ · DALLA PRIMA Filippomaria Pontani Ilconflittotrapadriefigli nell’anticaGrecia DALLA PRIMA Dimosthenis Papamarkos Profumod’arancia Quando

Filippomaria Pontani

La generazioneperduta di AteneMentre i giornali mainstream parlano di crescita,romanzi e poesie raccontano tutta un’altra vitanella Grecia stravolta dalla scelta europea

AVVOCATESSE CHE FANNO LE CAMERIERE,NEONAZISTI GIUSTIZIERI E VENTENNI INCENDIARI,LA NUOVA LETTERATURA DELL’EGEO RESTITUISCEUN PAESE IN CERCA DI UN CENTRO DI GRAVITÀ

Nella Seul del 2014, il 68% dei gio-vani non pensa nemmeno ad an-dar via di casa perché ostacolato

da un sistema di affitti obsoleto e un po’assurdo, lo jeonsae (che obbliga, in so-stanza, a pagare le rate di anni in un’uni-ca soluzione anticipata). Nella Greciadella crisi questa situazione è ormai en-demica da anni, e ha stravolto la geogra-fia dei rapporti tra le generazioni in mo-do talora tragico: un racconto dell’attri-ce Lena Kitsopulu, così politicamenteschierata da essere oggetto di volgari at-

tacchi e minacce neonaziste sul web,mette in scena la disperazione di un gio-vane disoccupato che si arrovella sul tele-fonino senza sapere cosa scrivere alladonna che ama, vergognandosi di nonavere una casa degna per ospitarla, unamacchina per scarrozzarla in giro, i soldiper invitarla al cinema, una bocca sanaper baciarla, e dopo aver mangiato con-serve e cibi da niente finisce aggreditodal cancro senza nemmeno una manofemminile ad accarezzarlo ("Addio, po-vero Kostas", in: L’impronta della crisi,Metechmio 2013).

Questa realtà, così ovvia che uniscenel dolore - ipse audivi - gli ingegneri di

Salonicco e le albergatrici di Santorini,inizia a diventare un topos letterario: tragli altri, si segnala il recente romanzo informa diaristica di Alexandra DeligiorgiAnestios (letteralmente «senza estia»,«privo di focolare», ma anche senza pun-ti di riferimento, senza centro di gravità),in cui un elettricista senzatetto narra ipropri vagabondaggi per le strade diun’Atene caotica e indifferente, in predaa una solitudine che solo la scrittura rie-sce provvisoriamente a lenire. A un livel-lo più "corale", è notevole il tentativo deltrentenne cipriota Kiriakos Margaritis,Quando usciranno i leoni baciami (Psi-choghiòs 2013), in cui s’intrecciano lestorie di una generazione perduta, tra av-vocatesse disoccupate che fanno le ca-meriere, volontari attivisti per i diritti deimigranti, musicisti anarchici che cerca-no l’ispirazione, e neonazisti che si auto-proclamano giustizieri della notte: unquadro generazionale frammentato, pre-cario, senza alcuna speranza di coeren-za né illusione di senso (all’infuori del-l’amore), in un mondo che non è piùun’agorà ma un’impietosa fossa dei leo-ni.

Eppure, a leggere i giornali greci inquesta estate 2014, a sentire gli scampolidi dibattito pubblico sopravvissuti allachiusura della televisione nazionale e alclima pacificante di «sforzo collettivo»,sembra di vivere nel mondo dei dissòi lo-goi, quegli esercizi retorici degli antichisofisti volti a sostenere prima una tesi esubito dopo quella diametralmente op-posta. Da un lato (per esempio in moltepagine del Vima, per non dire di Kathi-merinì e di altri media governativi) si ri-badisce l’immagine della success story, diuna Grecia riammessa al mercato dei ti-toli, rivalutata da Moody’s (da Caa3 aCaa1!) e finalmente pronta a tornaregrande, battendo i pugni sul tavolo e libe-randosi dai vincoli della trojka; si insistesulla grande fioritura delle recenti inizia-tive culturali, dal nuovo Museo dell’Acro-poli all’imminente riapertura della Pina-coteca Nazionale, dalle affollate plateedi Epidauro ai modernissimi musei diIraklio; e si annuncia una lotta senzaquartiere alla disoccupazione, sperandonelle startup, nei posti promessi dallamultinazionale Unilever, nei 600 milionidell’Unione Europea destinati a impiega-re 140 mila giovani per 2 anni.

D’altra parte, per esempio su Elefthe-rotypía e su Avghì (rispettivamente il

giornale socialista e quello di Syriza), siracconta una realtà diversa, in cui spicca-no la nuova pesantissima patrimonialesugli immobili, le difficoltà e gli insucces-si dell’agenzia preposta a privatizzare en-ti, aeroporti e perfino isole (Taiped), gliintoppi nella lotta all’evasione fiscale, laprogressiva riduzione dei mezzi di tra-sporto pubblici, il permanere di una cor-ruzione pervasiva e il galoppo inarresta-bile della disoccupazione. È, questa,un’ottica in cui i successi delle struttureculturali vengono interpretati nonostan-te l’assenza di una politica ad hoc (per in-ciso, si attendono tagli fino al 18% ai fi-nanziamenti per le università nel nuovoanno accademico), e la creazione di po-sti di lavoro (anche quelli dei fondi euro-pei) risulta sempre precaria, a termine,non rinnovabile; è, questa, un’ottica ditotale sfiducia nella politica "europea"degli ultimi governi di coalizione, defacto commissariati da Bruxelles, daFrancoforte e dal Fmi.

Così, il destino della gioventù più irre-quieta rimane sospeso alle scelte estre-me, che siano la vita d’espedienti, l’emi-grazione di manovali e studenti (sarà ca-suale, proprio quest’estate, la pièce chenarra il "salvataggio" francese di un grup-po di giovanissimi intellettuali greci, sot-tratti alla catastrofe post-bellica nel di-cembre del ’45 e portati a studiare a Pari-gi sulla nave Mataroa?), o perfino la clan-destinità del terrorismo (molti sono iventenni tra gli arrestati nelle indaginisui nuovi gruppi di fuoco che percorro-no il Paese).

La Grecia, la nuova Grecia che secon-do alcuni paga ancora gli strascichi diuna guerra civile mai suturata, maturainsomma un problema di identità chesperava di aver risolto. Con l’entrata nel-l’euro nel 2001 (propiziata da conti truc-cati e dalla grave negligenza dei proble-mi di corruzione e bassa competitività)il destino del Paese sembrava ancoratouna volta per tutte all’Occidente, dun-que lontano dalle mollezze orientali co-me dagli avventurismi e dalle dittatureterzomondiste. Ora che gli indicatorisincronici e retrospettivi denuncianotutti i limiti di quella scelta (checché nedica il suo principale artefice, l’allorapremier Kostas Simitis, per il quale le re-sponsabilità vanno addossate alle politi-che successive: si veda il suo libro L’usci-ta di strada, Polis 2012), la carta dell’Eu-ropa si deforma come quelle, ominose einquietanti, disegnate dall’ottuagenarioartista Konstandinos Xenakis (L’îleNowhere), per il quale i trattati di Maa-stricht equivalgono, come potenzialitàdistruttiva, a quelli di Versailles del1919.

Ecco allora che il recentissimo dibatti-to sull’insolvenza argentina, scoppiatopiù veemente che in ogni altro Paese eu-ropeo, assume una duplice valenza: daun lato quella della politique politicien-ne, con i partiti di governo pronti ad ad-ditare la presunta insipienza di Tsipras,il quale ebbe a pronunciare anni fa in

Parlamento, con riferimento al defaultdel 2001, la celebre frase «Magari la Gre-cia avesse fatto come l’Argentina» (maqueste schermaglie polemiche vanno let-te nel quadro dell’attesa di prossime ele-zioni anticipate, con le quali Syriza, chedopo le Europee è diventato ufficialmen-te il primo partito, si appresta a conqui-stare il governo del Paese, anche tramitenuove alleanze con altre forze di sinistramoderata); d’altra parte, un valore di au-tocoscienza più profonda, un modo ditracciare il perimetro del proprio futuroe di misurare la propria distanza econo-mica e culturale rispetto al meridiano diGreenwich, di Roma, di Parigi.

«This is the end / Hold your breathand count to ten» ha scritto a carattericubitali - citando Skyfall di Adele - il gio-vane calligrafo urbano Simon Silaidis suun ampio tetto piatto di Atene. A sentirsiimmersi nel countdown, ad onta dell’ot-timismo dei giornaloni, sono molti giova-ni, quasi tutti i lavoratori precari (peresempio le donne delle pulizie che recla-mano i loro salari non pagati, da Atene aTrikkala), una parte non trascurabile del-l’ambiente (i boschi della Macedonia mi-nacciati da fantomatiche miniere d’oro;le zone industriali dismesse, in attesa dibonifiche troppo costose; i siti naturali-stici e archeologici dichiarati d’embléeedificabili per rivitalizzare l’edilizia; i ru-deri dei faraonici impianti per le Olimpi-adi del 2004 a Marussi e al Fàliro), e so-prattutto gli immigrati stranieri. Ha su-scitato scalpore la recente assoluzionein tribunale dei latifondisti e dei com-mercianti greci che nell’aprile 2013, nel-le campagne di Manolada in Elide, apri-rono il fuoco sui raccoglitori di fragolebengalesi che reclamavano vivacementei loro stipendi non pagati. La coscienzacivile del Paese è così tornata a interro-garsi, dopo gli orrori dei campi di Patras-so e dei naufragi di Lesbo, su quell’ani-mo xenofobo che si diffonde specialmen-te fra i giovani, e che occupa anche l’ulti-mo giallo di Petros Màrkaris, Titoli di co-da, la cui protagonista - la figlia del leg-gendario commissario Charitos - agiscecome avvocatessa proprio per tutelare idiritti dei migranti, e finisce vittima delleviolenze di Alba Dorata.

«Ovunque io viaggi, la Grecia m’acco-ra», scriveva il premio Nobel Giorgio Se-feris. E oggi la popolarissima decana deipoeti greci, Kikì Dimulà, lo prende allalettera: «Il viaggio viene rimandato. //Viaggiare ora / con questa crisi? // chipuò pagare i barcaioli // ma che fare sesei chiamato a forza / con mezzi propri -senza dubbio // il sonno è gratis, non di-scuto // ma comunque chi darebbe lasua ultima moneta // per non tornarepiù? // Certo, il fallimento garantisce age-volazioni / nel pagamento // ma comepagare a rate / l’Acheronte // non scher-ziamo, dove si è mai sentito / un Ache-ronte a rate // ci irridono / in sostanza ciderubano perché // quel pedaggio / l’ab-biamo pagato quattro volte tanto / per leprecedenti morti in vita // e ora che tivengano a parlare / dell’Acheronte a ra-te // son tutte favole / così appena salisulla barca / ti spogliano ti portano viatutto // ti portan via perfino la coscienza// che allo sbarco / non ti aspetta nessu-no // nemmeno un niente» (Crisi, in:«Neo Planodion» 1, inverno 2013-2014).

VENERDÌ 29 AGOSTO 2014SBILANCIAMO L’EUROPAN˚31 - PAGINA IV

LA PROSSIMA SETTIMANA

Dopo i racconti estivi, la serie degli specia-li curati da Sbilanciamoci! Insieme al ma-nifesto ricomincia dai banchi di scuolacon un numero, venerdì prossimo, dedica-to alla Summer School organizzata dalDipartimento di Economia, società e politi-ca dell'Università di Urbino insieme a Sbi-lanciamoci, dall'1 al 5 settembre: "L'eco-nomia com'è e come può cambiare". Nonun semplice corso per neofiti di econo-mia, piuttosto un "progetto culturale" cheha l'obiettivo di ricondurre al centro deldibattito la riflessione ampia sui temi eco-nomici e sociali e, dunque, anche su quel-li della politica