Vangelo di Matteo 6  · Web viewDisse loro: Voi sapete decifrare i segni del tempo meteorologico...

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Dio vuole che gli uomini mettano la loro parte nel risolvere i problemi del mondo.Possiamo domandarci: dove mi vuole Dio suo collaboratore? in quali ambienti? riguardo a quali per- sone? in quali situazioni concrete? Qual è il pane che io posso offrire agli altri? C'è un pane materiale e c'è il pane della consolazione, della verità, della stima, della carità, del perdono, del consiglio, della presenza, della speranza, della correzione... 5. La gente affamata, in luogo deserto, con già la sera che avanza, accetta l'invito di sedersi sull'erba ad aspettare... Aspettare che cosa? Dicono che darà da mangiare... Ma è ormai sera, e non conviene forse andare nei villaggi vicini, o a casa propria, ove c'è di sicuro del pane? Occorre molta fede, e talvolta eroismo, per attendere i tempi e le soluzioni di Dio! I nostri tempi e le nostre soluzioni sono spesso tanto diverse... (Gen 16,1-6; Is 8,5-8). Ma Dio non ci deluderà, egli ci porterà certamente salvezza. 6. Gesù prese i sette pani e i pochi pesci e li moltiplicò. Sette pani e pochi pesci non bastano per quattromila e più persone; ma nelle mani di Gesù bastano. Anche la nostra vita è piccola cosa, ma se offerta a Gesù e messa nelle sue mani può diventare preziosa e utile per molte persone. Egli può "moltiplicare" ogni semplice nostra preghiera e ogni piccola azione compiuta nel nascondimento, e può farla servire alla costruzione del suo Regno. 7. Il pane moltiplicato è simbolo del pane dell'Eucaristia (confronta Mt 15,36 con Mt 26,26). Come vivo questo dono così abbondantemente preparato per me ogni volta che vado a Messa (preparatomi e distribuitomi dai sacerdoti, i discepoli di Gesù incaricati a ciò) ? Esco dalla Messa con una comunione più profonda e più decisa con Dio e col prossimo? (1Cor 10,15-17). 123

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Dio vuole che gli uomini mettano la loro parte nel risolvere i problemi del mondo.Possiamo domandarci: dove mi vuole Dio suo collaboratore? in quali ambienti? riguardo a quali persone? in quali situazioni concrete? Qual è il pane che io posso offrire agli altri? C'è un pane materiale e c'è il pane della consolazione, della verità, della stima, della carità, del perdono, del consiglio, della presenza, della speranza, della correzione...

5. La gente affamata, in luogo deserto, con già la sera che avanza, accetta l'invito di sedersi sull'erba ad aspettare... Aspettare che cosa? Dicono che darà da mangiare... Ma è ormai sera, e non conviene forse andare nei villaggi vicini, o a casa propria, ove c'è di sicuro del pane?Occorre molta fede, e talvolta eroismo, per attendere i tempi e le soluzioni di Dio! I nostri tempi e le nostre soluzioni sono spesso tanto diverse... (Gen 16,1-6; Is 8,5-8). Ma Dio non ci deluderà, egli ci porterà certamente salvezza.

6. Gesù prese i sette pani e i pochi pesci e li moltiplicò. Sette pani e pochi pesci non bastano per quattromila e più persone; ma nelle mani di Gesù bastano.Anche la nostra vita è piccola cosa, ma se offerta a Gesù e messa nelle sue mani può diventare preziosa e utile per molte persone. Egli può "moltiplicare" ogni semplice nostra preghiera e ogni piccola azione compiuta nel nascondimento, e può farla servire alla costruzione del suo Regno.

7. Il pane moltiplicato è simbolo del pane dell'Eucaristia (confronta Mt 15,36 con Mt 26,26). Come vivo questo dono così abbondantemente preparato per me ogni volta che vado a Messa (preparatomi e distribuitomi dai sacerdoti, i discepoli di Gesù incaricati a ciò) ? Esco dalla Messa con una comunione più profonda e più decisa con Dio e col prossimo? (1Cor 10,15-17).

Si domanda a Gesu’ un segno dal cielo( Mt 16, 1 - 4 )

Gesù era una persona “nuova” sotto tanti aspetti e andava portando nel mondo una grande novità. Tale novità non era gradita ai farisei e ai sadducei, i quali percepivano Gesù come un sovvertitore della fede di Israele e un propositore di idee e di uno stile di vita agli antipodi del loro. Non erano capaci di aprirsi alla persona di Gesù, e si avvicinavano a lui con sospetto, con diffidenza e con ostilità. Tentavano in tutti i modi di coglierlo in fallo, di metterlo in difficoltà, di farlo cadere in contraddizione, per poterlo accusare.

Un giorno gli chiesero che desse loro “un segno dal cielo”, così da accreditare la propria autorità e verità. Chissà come sarebbe dovuto essere quel “segno dal cielo”, per poterli convincere! Gesù aveva già compiuto tanti “segni”, tanti miracoli, tante guarigioni e tanti esorcismi, ma tali “segni” erano stati considerati dai farisei e dai sadducei come arti sataniche, opere compiute con la forza del demonio (Mt 12,22-24). Farisei e sadducei non volevano “vedere”, allora qualsiasi “segno” sarebbe stato insufficiente per loro. E’ la disposizione buona del cuore che permette di “vedere”.

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Ad essi Gesù rispose con un rimprovero e un diniego. Disse loro: Voi sapete decifrare i segni del tempo meteorologico (se il cielo è rosso di sera dite: domani farà bel tempo; se è rosso di mattina dite: oggi pioverà), e non sapete decifrare i segni di “questo tempo”, cioè non sapete riconoscere dai miracoli che io faccio che io sono il Messia e che è venuto a voi il tempo della salvezza. A voi dunque non darò nessun altro “segno”! L’unico “segno” che Gesù dice che avrebbe dato è quello di Giona, cioè la propria morte e risurrezione (Mt 12,38-40).

Per la riflessione

E’ questione di cuore. La salvezza è questione di cuore. Dio dà continuamente tanti segni e segnali all’uomo, tante indicazioni e orientamenti: con un buon libro, con una buona persona, con un figlio, con una difficoltà, con una malattia, con una buona ispirazione, con le indicazioni del Magistero ecclesiastico, con i fatti che succedono e che leggiamo sui giornali o sentiamo alla televisione; Dio ci parla in tanti modi e in tante maniere; ci dà tanti “segni”. Ma noi ascoltiamo? ci lasciamo interrogare, o lasciamo che tutto scorra senza che ci tocchi e ci spinga a cambiare?

Il lievito dei farisei e dei sadducei( Mt 16, 5 - 12 )

Gesù vive un momento di incomprensione tra sé e i suoi apostoli. Anche qui, come tante altre volte, gli apostoli non capiscono ciò che Gesù sta dicendo e ciò di cui sta parlando. Gesù allude al lievito dei farisei e dei sadducei, e gli apostoli pensano al pane che si sono dimenticati di portare con sé nella barca.

Gesù li riporta al vero senso delle sue parole; il brano infatti termina dicendo: “Allora compresero che egli non aveva detto che si guardassero dal lievito del pane, ma dalla dottrina dei farisei e dei sadducei”. Il “lievito” da cui Gesù invitava gli apostoli a guardarsi era “la dottrina” dei farisei e dei sadducei, cioè il loro modo di pensare. Il loro modo di pensare era contrario al modo di pensare di Gesù, la loro mentalità era contraria alla mentalità di Gesù; da quella mentalità dovevano dunque guardarsi.

Inoltre Gesù, in questo brano, rivolge agli apostoli anche un rimprovero. Egli li chiama “uomini di poca fede”, perché sono preoccupati di non aver preso il pane con sé per la traversata sul lago (il pane che Gesù aveva appena moltiplicato per la folla), e si dimenticano di aver con sé colui che aveva moltiplicato il pane (!), e quindi avrebbe potuto moltiplicarlo ancora in caso di necessità.

Per la riflessione

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1. Il discepolo di Gesù deve stare attento e difendersi dalla mentalità del mondo, che è contraria a Cristo e al vangelo. La mentalità del mondo cerca in tutti i modi di entrare e insinuarsi nella mente e nel cuore dei credenti. Pensiamo al modo di concepire l’origine e il concludersi della vita, la famiglia, la sessualità, l’uso dei beni e la responsabilità verso i poveri, l’uso delle armi e della guerra… (Gv 17,15-17; Rom 12,2; 1Gv 2,15-17).

Il discepolo di Gesù potrà mantenere la mentalità di Gesù meditando assiduamente la Sacra Scrittura, e seguendo fedelmente le indicazioni del Magistero della Chiesa in materia di fede e di morale.

2. Gesù rimprovera gli apostoli perché hanno poca fede in lui. Anche noi abbiamo una fede che ha sempre bisogno di crescere. “Signore, aumenta la mia fede”.

Professione di fede e primato di Pietro

( Mt 16, 13 - 20 )

Gesù si trova fuori dei confini di Israele, a nord, nel territorio del regno di Filippo figlio di Erode il grande, in terra pagana. Si è rifugiato lì perché in Galilea i farisei e gli erodiani, e lo stesso Erode Antipa, lo cercano a morte (Mc 3,6; Lc 13,31). Vive da fuggiasco e da ramingo. Di tanto in tanto i suoi apostoli lo raggiungono, gli portano del cibo, stanno con lui qualche giorno, e Gesù coglie l'occasione per istruirli, per parlare loro di se stesso e della sua missione, per delineare davanti ai loro occhi gli atteggiamenti fondamentali che dovranno assumere, e per preannunciare il proprio destino di passione, di morte e di risurrezione.

In uno di questi incontri, un po' più prolungati, Gesù conduce gli apostoli fino a 50 chilometri circa a nord del lago di Genezaret, dalle parti di Cesarea di Filippo (la capitale del Regno di Filippo); e lì pone loro una grande domanda: "Chi dice la gente che io sia? e voi chi dite che io sia?". Gesù pone questa domanda ai suoi apostoli non senza una certa trepidazione nel cuore. Quei dodici uomini lo hanno seguito, si sono sbilanciati per lui, continuano ancora a cercarlo e a raggiungerlo in situazione disagiata e precaria, addirittura pericolosa (Gesù era un ricercato a morte); ma Gesù pensa: Che cosa avranno capito questi miei dodici amici di me e di chi io sono veramente? Avranno capito che sono il Messia, l'inviato dal Padre per la redenzione del mondo? O mi considereranno solo un taumaturgo, un guaritore, un profeta sulla scia degli altri precedenti profeti?

Gesù si sente rispondere da Pietro, a nome anche degli altri undici, che egli è il Messia, il Figlio di Dio. Chissà quale gioia nel cuore di Gesù, quel giorno, a quella risposta! Allora il suo anno e mezzo in Galilea non era stato inutile! Allora il piano del Padre stava andando avanti e c'era nel mondo chi aveva compreso il mistero della sua persona! Gesù avrà ringraziato profondamente il Padre quella sera, quando si sarà messo a pregare; e avrà guardato con immenso affetto Pietro e gli altri apostoli.

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Dunque, mentre la gente in generale aveva riconosciuto in Gesù una particolare autorevolezza e dignità (fino a metterlo alla pari dei personaggi più illustri e più importanti della storia di Israele, quali Giovanni il Battista, il grande profeta Elia e Geremia) ma lo aveva considerato solo un “uomo”, Pietro era riuscito a riconoscere in Gesù qualcosa di più, molto di più; era riuscito a riconoscerlo come il Messia e il Figlio di Dio.

Gesù, per tutta risposta, proclama Pietro “beato” (=felice, fortunato) e gli dice subito che non avrebbe potuto conoscere profondamente il mistero della sua persona se il Padre non glielo avesse rivelato. Le forze dell’uomo, da sole, non sono in grado di scoprire il mistero nascosto in Gesù; solo un’illuminazione e un’ispirazione che viene dal Cielo può svelarlo (Gv 6,44). Questo è il senso delle parole “né la carne né il sangue te l’hanno rivelato (espressione tipicamente semitica), ma il Padre mio che sta nei cieli”.

Gesù, a sua volta, svela a Pietro il mistero che egli avrebbe posto in lui, nella sua persona. Gesù lo avrebbe reso pietra di fondamento della sua comunità, della sua Chiesa (qui ricorre il termine classico per dire “Chiesa”, “ekklesìa”, che significa alla lettera “comunità dei chiamati”). E dice: “Tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia Chiesa”. E’ la promessa del “primato” di Pietro, primato che Gesù gli conferirà dopo la Risurrezione, nel commovente dialogo con lui sulle rive del lago di Genezaret (Gv 21,15-17). Pietro dunque avrà un compito e un ruolo particolare nella comunità di Gesù.

Dai Vangeli appare che Gesù ha conferito agli apostoli, collegialmente, vari compiti e vari poteri (Lc 22,19-20; Gv 20,21-23; Mt 28,16-20), ma a Pietro ha conferito un posto e un compito particolare tra i Dodici. I testi di Mt 16,18-19 e Gv 21,15-17 appena citati sono rivolti direttamente ed esclusivamente a Pietro. Così pure il testo, significativo, di Lc 22,31-32. I Vangeli mettono bene in evidenza questa posizione preminente di Pietro all’interno del gruppo dei Dodici, nominandolo sempre per primo nelle liste degli apostoli (Mt 10,2; Mc 3,16; Lc 6,14); notando che Gesù scelse la barca di Pietro per parlare alle folle (Lc 5,1-3); sottolineando che Giovanni diede la precedenza a Pietro nell’entrare nella tomba di Gesù risorto (Gv 20,3-8). Anche gli Atti degli Apostoli mostrano Pietro come portavoce di tutti gli altri apostoli il giorno di Pentecoste (At 2,14). Pietro è il capo degli apostoli, “il primo papa”.

Gesù gli cambia il nome, lo chiama Pietro che traduce l’aramaico “kefà” = roccia (cfr 1Cor 15,5; Gal 1,18; Gal 2,9). Il cambiare il nome significava dare alla persona un nuovo compito, una nuova missione (cfr Num 13,16). Pietro avrà il compito e la missione di essere la pietra di fondamento della Chiesa.

A Pietro Gesù dice inoltre: “A te darò le chiavi del regno dei cieli e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli….”. Queste parole indicano Pietro come colui che ha autorità sulla Chiesa; egli è, per così dire, il maggiordomo (cfr Is 22,15-23) che eserciterà il potere disciplinare di amministrare la comunità con tutte le decisioni opportune, e tali decisioni saranno ratificate da Dio in cielo.

Il brano è caratterizzato da un linguaggio fortemente semitico: “carne e sangue”, come già s’è detto, stanno a significare la natura umana, le forze dell’uomo, le capacità puramente umane; “le porte degli inferi” stanno a significare lo Sheòl, l’Ade, il regno dei morti e della Morte, le forze e le potenze del Male che combattono contro Dio e contro i fedeli di Dio; il “dare le chiavi del regno dei cieli”, il “legare e sciogliere” stanno ad indicare l’esercizio del potere, dell’autorità. “Legare e sciogliere” sono due termini tecnici

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nel linguaggio rabbinico che si applicano innanzitutto al campo disciplinare della scomunica con cui si “condanna” (si lega) o si “assolve” (si scioglie) qualcuno, e ulteriormente alle decisioni dottrinali o giuridiche con il senso di “proibire” (legare) o “permettere” (sciogliere).

Gesù afferma che la sua Chiesa non sarà mai sopraffatta “dalle porte degli inferi”, cioè dalle forze della Morte e del Male. La chiesa di Cristo sarà invincibile.

Per la riflessione

1. Gesù domanda direttamente e personalmente agli apostoli che pensano chi egli sia, cioè chi egli sia per loro.Gesù pone anche a noi questa domanda; cosa gli rispondiamo?

2. Gesù cambia il nome a Simone e lo chiama Pietro (“kefa”, pietra), lo fa cioè una realtà nuova. Anche a noi Gesù vuole cambiare il nome, vuole farci realtà nuova, realtà più bella e più santa, più conforme a lui. In che modo lo può fare? Con quali mezzi? Noi però potremmo anche opporci… “Lasciati fare da Chi ti conosce -dice un canto-, lasciati fare da Chi ama te”. Il lasciarsi fare da Dio è segreto di riuscita.

3. Gesù fonda la sua Chiesa sull’apostolo Pietro. Oggi il successore di Pietro è il vescovo di Roma, il papa.La Chiesa di Gesù è fondata su di lui. Non c’è vera Chiesa di Cristo lontano dal papa, lontano dai suoi insegnamenti e dalle sue direttive. “Ubi Petrus, ibi Ecclesia”, diceva Sant’ Agostino, “Dove c’è Pietro, là c’è la Chiesa”. La comunione col papa è decisiva. “Chi abbandona la cattedra di Pietro, su cui è fondata la Chiesa, si illude di restare nella Chiesa”, diceva il vescovo e martire San Cipriano (III sec. d.C.).Domandiamoci: sono davvero del tutto “dentro” la Chiesa? sono fino in fondo e pienamente obbediente al papa? Conosco i suoi documenti? li leggo? li metto in pratica? “Non stacchiamoci dalla Roccia”, diceva il cardinale Luciani.

4. Gesù assicura che la Chiesa non sarà distrutta dalle forze del male. La Chiesa durerà per sempre, fino alla fine dei tempi. Questo promessa del Signore ci dà speranza.

Primo annuncio della passione( Mt 16, 21 - 23 )

Gesù nella seconda parte della sua attività apostolica cominciò a parlare apertamente agli apostoli della sua passione e della fine tragica che lo avrebbe atteso. Egli sentiva il bisogno di prepararli a quel momento così duro e difficile, e delicato per la loro fede. La passione e la morte però sarebbero state preludio alla risurrezione: il “terzo giorno” egli sarebbe risuscitato.

Ma gli apostoli non volevano sentir parlare di passione e di morte. Per loro il Messia non sarebbe dovuto morire, avrebbe dovuto solo trionfare e vincere, e instaurare

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per sempre e in modo definitivo il potere di Dio sulla terra. Così pensavano tutti in Israele. Per cui essi, gli apostoli, sarebbero stati con Gesù i vittoriosi e i trionfatori, i capi del mondo. Ecco che Pietro allora reagisce alle parole di Gesù che prospettano passione e morte, e gli dice: “Dio te ne scampi, Signore, questo non ti accadrà mai”. E’ la fatica di Pietro ad accettare la sofferenza e a cambiare idea e modo di pensare circa il Messia.

Gesù gli risponde seccamente: “Lungi da me, satana, tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini”. Gesù chiama Pietro “satana”, cioè “avversario”, “nemico”. Pietro, in quel momento, si è trasformato in nemico di Gesù, perché col suo intervento tenta di distrarre Gesù dalla via che il Padre gli ha tracciato. Pietro sta mettendo un ostacolo, un inciampo sulla via di Gesù (“skàndalon” in greco, da cui l’italiano “scandalo”, significa appunto “ostacolo”, “inciampo”; e indicava l’insidia che uno metteva sulla strada del nemico per farlo cadere. Pietro dunque è motivo di scandalo per Gesù, e lo è perché pensa e ragiona come gli uomini, e non secondo i pensieri di Dio.

Secondo un’altra interpretazione le parole di Gesù sarebbero queste: “Vienimi dietro, o satana, tu mi sei di scandalo…”. In questo caso Gesù inviterebbe Pietro a seguirlo e ad accettare quanto egli sta dicendo, anche se Pietro in quel momento gli è “nemico” e motivo di scandalo. Gesù chiama tutti, sempre!

Per la riflessione

1. Il vero Messia è un Messia sofferente (cfr Is 53), e non puro trionfatore senza patire. La via scelta da Dio per salvare il mondo è la via della vittoria dopo la croce (1Cor 1,22-25). Chi vorrebbe un Dio forte, un Dio potente, un Dio che mettesse a posto tutte le cose sbagliate e ingiuste del mondo con un tocco della sua mano invincibile e onnipotente, avrebbe un’idea errata di Dio. Dio “patisce” tutte le ingiustizie, le menzogne, le cattiverie, le violenze, le lussurie del mondo; le patisce e le prende su di sé; si mostra come “debole”, incapace di fermarle e di impedirle (egli rispetta fino in fondo la libertà dell’uomo), ma alla fine, con il suo amore e la sua verità, egli saprà riportare tutto a ordine e giustizia. Papa Benedetto XVI nell’omelia della Messa di inizio pontificato disse: “Quante volte noi desidereremmo che Dio si mostrasse più forte. Che egli colpisse duramente, sconfiggesse il male e creasse un mondo migliore. Tutte le ideologie del potere si giustificano così, giustificano la distruzione di ciò che si opporrebbe al progresso e alla liberazione dell’umanità. Noi soffriamo per la pazienza di Dio. E nondimeno abbiamo tutti bisogno della sua pazienza. Il Dio, che è diventato agnello, ci dice che il mondo viene salvato dal Crocifisso e non dai crocifissori. Il mondo è redento dalla pazienza di Dio e distrutto dall’impazienza degli uomini”.

Come Dio devono fare anche i suoi seguaci: devono opporsi al male facendo il bene, devono sopportare l’ingiuria e la violenza senza reagire con ingiuria e violenza. I martiri sono i testimoni-limite di questo stile di Dio. Alla fine però, il bene vincerà.

2. Pietro è ancora imbevuto della mentalità degli uomini.E’ difficile anche oggi pensare come la pensa Dio, e non cedere ai modi di ragionare antievangelici del mondo! “Noi -dice San Paolo- abbiamo il pensiero di Cristo” (1Cor 2,16). Il cristiano condivide il modo di pensare di Cristo nelle varie questioni e problemi che oggi si agitano.

3. Pietro, proprio perché pensa come gli uomini e non come Dio, è motivo di scandalo per Gesù.

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Anche noi ogni volta che non abbiamo il pensiero di Cristo siamo di inciampo e di ostacolo ai fratelli nel loro cammino verso la verità e verso Dio. Siamo tutti educatori o diseducatori gli uni degli altri. Abbiamo una grande responsabilità. Pensiamo al compito educativo e alla responsabilità dei genitori, degli insegnanti nella scuola, dei mezzi di comunicazione sociale (stampa, televisione, internet). Trasmettiamo valori e costruiamo, o distruggiamo? (Mt 18,6-7).

Condizioni per seguire Gesu’( Mt 16, 24 - 28 )

In questo brano Matteo riunisce alcuni detti che Gesù dovette pronunciare in momenti e in tempi diversi; essi infatti non presentano tra di loro un nesso pienamente e perfettamente logico. Anche qui Matteo ricorre alla tecnica che spesso usa nel suo Vangelo, quella di accostare insieme detti e fatti che Gesù pronunciò e compì in tempi e luoghi diversi (cfr il discorso della Montagna: Mt 5-6-7; il discorso delle parabole: Mt 13; la serie dei dieci miracoli: Mt 8-9).

Nel primo di questi detti Gesù afferma: Se qualcuno vuol venire dietro a me “rinneghi se stesso, prenda la sua croce” e mi segua (Mt 16,24). Gesù mette le carte in chiaro; egli non vuole illudere le persone e non vuole prenderle con l’inganno e la menzogna. Dice apertamente che per seguire lui e la sua strada occorre rinnegare se stessi e prendere su di sé la croce. Gesù sarà crocifisso, e anche il discepolo di Gesù sarà, di conseguenza, un “crocifisso”. Sarà un “crocifisso”-perché dovrà crocifiggere in se stesso le proprie cattive passioni (Gal 5,24; Gal 6,14; Mt

5,29-30) e lottare contro il peccato (Rom 6,12-14; Col 3,5-10);-perché dovrà cambiare il proprio modo di pensare puramente umano e terreno

conformandolo a quello di Dio (Is 55,8-9);-perché dovrà adeguarsi alla volontà e ai disegni di Dio che possono domandargli anche

rinunce e sofferenze (Lc 9,57-62; Mc 10,17-27; Mc 14,36);-perché dovrà sopportare l’opposizione e la persecuzione di coloro che rifiutano Dio e il

Vangelo (Gv 15,18-21).Seguire Cristo non può non costare.

Gesù dice: Se qualcuno “vuol” venire dietro a me (Mt 16,24); Gesù lascia libero l’uomo di seguirlo; non vuole schiavi al suo seguito, gente costretta; vuole volontari e persone che scelgono liberamente lui e la sua sequela. A questa scelta Gesù ci chiama lasciandoci però completamente liberi. Tocca a noi dirgli il nostro “sì” o il nostro “no” (Apoc 3,20).

Gesù aggiunge: “e mi segua”. Gesù chiede di essere seguito, cioè che il discepolo si metta dietro a lui. Non dice al discepolo: Vai, cammina; ma lui stesso, Gesù, cammina avanti al suo discepolo, così che il suo discepolo con la propria croce sulle spalle può guardare a Gesù che lo precede e gli cammina avanti. Dall’esempio e dalla presenza di Gesù il discepolo prende forza.

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In un secondo detto Gesù indica la strada vera per la realizzazione di se stessi e per la propria salvezza: quella di impostare la propria vita non in modo egoistico e alla ricerca del proprio individuale tornaconto e interesse, ma nella dimensione del dono e dell’offerta di sé. Gesù dice: “Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà” (Mt 16,25). Alla lettera il testo greco dice: “Chi vorrà salvare la propria vita, la manderà in rovina; ma chi manderà in rovina la propria vita la salverà”. Quel “mandare in rovina” significa “dare via” la propria vita, “spenderla per gli altri”, non volerla tenere egoisticamente per sé e non cercare se stessi, ma fare della propria vita un dono, in modo che serva e sia utile per altri. Solo chi vive in tale modo, e con tale impostazione, troverà veramente se stesso e avrà il cuore contento, perché l’uomo è fatto per amare, e solo se avrà amato sarà veramente felice, in quanto avrà ritrovato se stesso, il senso del proprio esistere, dando così risposta compiuta al proprio cuore.

Gesù precisa: chi perderà la propria vita “per causa mia”, la troverà. Con quel “per causa mia” Gesù indica se stesso come motivo e movente del dare la propria vita. Uno potrebbe sacrificarsi per gli altri e spendere la propria vita spinto da un nobile moto interiore, da uno slancio di generosità, da un impulso del cuore che lo muove ad interessarsi del prossimo (e sarebbe già cosa buona), ma il dare la propria vita “per Gesù” contiene un “dono” in più, una “grazia” in più: contiene l’esperienza del rapporto con lui, il vivere la sua compagnia, la sua presenza, la sua amicizia. Chi fa il bene per un impulso interiore resta, alla fin fine, ancora solo con se stesso; chi invece fa il bene “per Gesù” entra in rapporto con lui ed è pienamente appagato in tutte le proprie dimensioni, anche le più profonde, perché nel profondo di noi siamo fatti “per Gesù”, “per Dio” e per entrare in rapporto con lui. Solo in rapporto con Dio noi siamo pienamente felici, perché è vero quanto disse Sant’Agostino: “Ci hai fatti per te, Signore, ed inquieto è il nostro cuore finchè non riposa in te”.

Il terzo detto di Gesù riportato in questo brano dice: “Qual vantaggio avrà l’uomo se guadagnerà il mondo intero, e poi perderà la propria anima?” (Mt 16,26). L’istinto dell’uomo è quello di appropriarsi di tutto, di diventare padrone di cose e persone. L’uomo è tentato di pensare che quanto più disporrà di cose e persone tanto più sarà felice. In lui alberga una forte sete di possesso, di godimento e di potere, ma per quanto l’uomo si possa concedere tutto non riesce a farsi felice. Lo dimostra l’esperienza di tutti i tempi: quante persone ricche, potenti e baciate dalla fortuna e dal successo, sono state in realtà profondamente infelici, fino ad arrivare, talora, a togliersi la vita. Persone invece che hanno rinunciato a tutto per Dio e per il prossimo sono state veramente felici: pensiamo ai santi, a S.Francesco d’Assisi, a Madre Teresa di Calcutta, al dottor Candia che ha venduto tutto il suo patrimonio per costruire un ospedale in terra di missione e si è messo a servire i poveri; pensiamo a tanti monaci e monache di clausura che non escono mai di monastero, vivono in povertà, castità e obbedienza e sono felici e sereni.

Ce lo dice anche la nostra esperienza personale: noi siamo stati veramente felici quando abbiamo dato qualcosa agli altri (tempo, ascolto, aiuto, interessamento, solidarietà, perdono…); abbiamo provato, in quelle occasioni, una gioia di qualità del tutto particolare e una felicità di genere diverso e più grande di quella che ci dà il possesso delle cose. Il cercare di possedere cose e persone ci dà piacere, mentre il donare e l’amare ci rende felici. C’è differenza tra piacere e felicità, tra piacere e gioia vera, e noi siamo fatti per la gioia vera, per la felicità! Potremmo “perdere la nostra anima” (= non realizzare noi stessi, rimanere infelici), pur “guadagnando il mondo intero”!

In un quarto detto Gesù parla del giudizio finale e dice: “Il Figlio dell’uomo verrà nella gloria del Padre suo, con i suoi angeli, e renderà a ciascuno secondo le sue azioni” (v 27). Gesù ci ricorda che sulla nostra vita verrà pronunciato un giudizio, che la nostra vita

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non è sganciata da Dio e che Dio darà una valutazione della nostra vita e del nostro operato (Mt 25,31-46; Lc 16,19-31; Rom 14,10-11; 2 Pt 3,8-14).

Questo pensiero ci deve rendere pensosi e responsabili di come viviamo e di come ci comportiamo. Non è lo stesso comportarci in un modo o in un altro, vivere con egoismo o all’insegna dell’amore. Dio ci userà misericordia, però guardando alla nostra vita non potrà dire male al bene e bene al male: egli ci metterà davanti alla verità di noi stessi e di come saremo vissuti, e ciò comporterà un movimento profondo dentro di noi, comporterà che ci dovremo conformare pienamente (e con fatica proporzionale al nostro peccato) alla sua infinita santità.

E infine il quinto detto: “In verità vi dico: vi sono alcuni tra i presenti che non morranno finchè non vedranno il Figlio dell’uomo venire nel suo regno” (v 28). Questo detto si riferisce ad un evento preciso della storia, la distruzione di Gerusalemme nel 70 d.C. ad opera dei Romani. Quell’evento terribile e doloroso segnò un cambiamento epocale per il Giudaismo, che in quell’occasione subì un colpo fortissimo: fu distrutto il tempio, cessò il culto prescritto dalla legge di Mosè, molti Ebrei furono dispersi. Tale avvenimento fu avvertito dai cristiani come un segno dell’instaurarsi del regno di Cristo, che veniva a prendere il posto e a sostituire l’antico Giudaismo. All’epoca della distruzione di Gerusalemme alcuni di coloro che avevano conosciuto Gesù erano ancora in vita.

La trasfigurazione di Gesu’ ( Mt 17, 1 - 9 )

Nel corso della sua vita pubblica Gesù diede un saggio ai suoi apostoli del mistero che egli nascondeva in sé. Gli apostoli avevano particolarmente bisogno di questa prova e di questa testimonianza, perché il loro Maestro aveva cominciato a delineare con chiarezza scenari di sofferenza, di persecuzione e di morte per se stesso e, conseguentemente, anche per i suoi discepoli. Gli apostoli erano preoccupati e molto intimoriti da come le cose sarebbero potute finire. Ecco allora che Gesù sul monte Tabor (o secondo altri sul monte Hermon) si trasfigura davanti a loro; per la verità non davanti a tutti e dodici gli apostoli, ma davanti a tre di essi: Pietro, Giacomo e Giovanni (gli stessi che furono testimoni della risurrezione della figlia di Giairo: Mc 5,37, e che saranno più vicini a Gesù nell’orto degli Ulivi: Mc 14,33).

L’episodio riferisce qualcosa di realmente avvenuto: Pietro e gli altri due apostoli hanno fatto davvero esperienza di un Gesù “glorioso” (2Pt 1,16-18), però il modo con cui esso è raccontato è da attribuirsi piuttosto al genere letterario apocalittico che storico in senso stretto. Ci sono infatti vari elementi che si richiamano all’Antico Testamento e che sembrano essere mutuati dal linguaggio apocalittico (=rivelatorio) veterotestamentario e della letteratura giudaica.

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-Lo splendore e il colore bianco delle vesti di Gesù richiama il biancore dell’Antico dei giorni, Dio, in Dan 7,9 (nella Bibbia il colore bianco è il colore della divinità; Gesù dunque è dentro la sfera di Dio, è in rapporto del tutto particolare con Dio).

-La nube nell’Antico Testamento è segno della presenza di Dio (Es 13,21; Es 33,9; 1Re 8,10): gli apostoli che ne sono avvolti fanno esperienza, dunque, di Dio.

-La voce che scende dall’alto è un elemento che spesso nell’Antico Testamento sta a indicare la manifestazione di Dio, la sua rivelazione: gli apostoli quindi quel giorno sul monte capirono qualcosa di nuovo da parte di Dio su Gesù.

-Mosè ed Elia sono i grandi personaggi dell’Antico Testamento, i rappresentanti della Legge e dei Profeti. Gesù è il nuovo Mosè ed il nuovo Elia, il nuovo e più grande condottiero-legislatore, il nuovo e definitivo profeta. Essi rimandano a lui, gli fanno corona.

Il messaggio che la voce dà è che Gesù è il Figlio di Dio, cioè ha una relazione particolare con lui, una relazione ben più grande e profonda di quella che avevano Mosè ed Elia con Dio. E insieme afferma che egli è il Servo di JHWH”, perchè le parole : “Questi è il figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto” sono le parole di Is 42,1, inizio del primo Carme del Servo di JHWH (le stesse parole che in Mt 3,17 la “Voce” pronunciò su Gesù nel giorno del Battesimo; vedi il commento a pag. 22).

Questa nuova rivelazione del mistero della persona di Gesù viene subito posta da Mt 17,9 in contesto di passione. Gesù è il Figlio di Dio che deve morire e risorgere. Gesù è il Servo di JHWH sofferente, che dovrà patire e morire, per poi risorgere.

Per la riflessione

1. Gesù dà spesso, e in varie circostanze, coraggio ai suoi apostoli (Lc 12,32; Gv 16,33; Gv 11,25-26). Nell’Antico Testamento molti Salmi, che presentano la situazione di grande sofferenza del salmista, si concludono con espressioni di lode e di gioia perché Dio ribalterà quella situazione di dolore e la farà diventare salvezza (Sal 6; 13; 54; 102; 126,5-6). La Trasfigurazione di Gesù deve alimentare la virtù della speranza, e la virtù della speranza deve diventare la forza nella prova.

Molte volte Dio ha "trasfigurato" le situazioni di sofferenza dell'uomo. A Sara sterile ha dato un figlio (Gen 18,9-14); ad Abramo che stava per sacrificare Isacco glielo ha risparmiato (Gen 22,10-18); a Giuseppe che era in prigione ha ridato la libertà e lo ha fatto diventare viceré d'Egitto (Gen 41, 14.41-46); il popolo di Israele che era esule a Babilonia Dio lo ha fatto tornare in patria (Is 52,1-12; Ez 37,11-14); i dieci lebbrosi che erano malati Gesù li ha guariti (Lc 17,11-14); Lazzaro che era morto Gesù lo ha risuscitato (Gv 11,43-44); il buon ladrone che era agli estremi ed era colpevole di tante cose si è sentito dire: "Oggi sarai con me in paradiso" (Lc 23,39-43)..... Neanche la morte deve gettare l'uomo nella disperazione: Dio vincerà anche la morte e darà a noi e ai nostri cari (e a tutti gli uomini) la risurrezione per sempre (1Cor 15,54-55; 2Cor 5,1; 1Tess 4,13-18).

Ho speranza e fiducia nella vittoria finale? Ho fede in Cristo trasfigurato e risorto che trasfigurerà la mia storia personale, quella dei miei familiari, quella di tutta l'umanità? Sono pessimista o ottimista sul mondo e sugli avvenimenti? Prego (mentre spero) per la piena trasfigurazione delle cose? E vi coopero con il mio impegno? Ci saranno cose nuove, dice Apoc 21,1-6. Mi aiuta, questa speranza, a portare la fatica di ogni giorno (e quella che temo per il domani)? Il cristiano deve essere l'uomo della speranza, che tutto tiene in grandi orizzonti, colui che è "sempre pronto a rispondere a chiunque gli domandi ragione della speranza che è in lui" (1Pt 3,15).

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2. Gesù si trasfigura. Anche noi siamo chiamati a "trasfigurarci". La nostra trasfigurazione consiste in uno sforzo continuo di conversione, di conformazione a Cristo, di imitazione di lui e della sua vita. Egli è l'uomo nuovo, ciò che dobbiamo anche noi diventare. S.Paolo ci indica la strada della nostra trasfigurazione (Rom 13,14; Fil 2,5; Ef 4,17 - 5,21; Col 3,5-17).

Concepisco la mia vita come una imitazione di Cristo? Contemplo spesso lui che è il mio modello, o mi ricordo poche volte di lui nella giornata? “Si diventa ciò che si contempla”, scrisse un padre certosino.

3. Pietro dice: “Signore, è bello per noi restare qui; se vuoi, farò qui tre tende, una per te, una per Mosè e una per Elia”; non capisce i disegni di Gesù. I disegni di Gesù portano lontano dal Tabor, portano al monte Calvario, il monte della passione, della morte e della risurrezione.

L’uomo resterebbe volentieri nel momento della gioia e della serenità; ma la strada che è chiamato a percorrere può prevedere e contenere anche momenti di prova e di sofferenza. L’uomo dev’essere pronto a percorrere la propria strada così come il Signore l’ha pensata per lui, credendo che il Signore non può pensare per lui altro che una strada “buona”, una strada che porta alla salvezza e alla santificazione. Alla fine ci sarà la “risurrezione”, la felicità, la vittoria e la soluzione piena (Gb 1,1 – 2,10 e Gb 42,10-16).Nella prova e nella sofferenza l’uomo deve rivolgersi a Dio per ottenere forza e fiducia (Sal 27; Sal 31; Giac 5,13).

4. La Voce dal cielo dice: “Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto. Ascoltatelo”.

L’invito è ad “ascoltare”. La religione ebraica è stata definita la religione dell’ascolto. Il pio ebreo recita due volte al giorno lo “shemà‘ ”, la sua professione di fede, che comincia così: “Ascolta, Israele…” (Deut 6,4-5). I profeti molte volte invitano il popolo all’ascolto di Dio e lo rimproverano perché non ascolta la voce di Dio (Ger 7,21-28); anche i Salmi invitano all’ascolto della voce di Dio (Sal 81,9-17; Sal 95,8). Ciò che Dio gradisce maggiormente è l’ascolto della sua voce (1Sam 15,10-23). Il giovane Samuele si mette nell’atteggiamento di chi ascolta (1Sam 3,10).

Ma anche la religione cristiana può essere definita la religione dell’ascolto (e a maggior ragione); infatti essa ha come verità essenziale e centrale l’Incarnazione del Verbo, e il Verbo è la “Parola” sostanziale del Padre. Ora la Parola non può che parlare, e di fronte al Verbo incarnato che parla (Gesù), l’uomo non può che ascoltare. L’atteggiamento più giusto, più vero, più logico e più utile che l’uomo possa assumere davanti al Verbo è quello dell’ascolto; è l’atteggiamento primo (Lc 10,38-42). Di qui nasce l’importanza e la necessità del silenzio e della meditazione, per poter udire e ascoltare la voce e la parola di Dio. La beata Elisabetta della Trinità ebbe a scrivere a una sua amica: “Stiamo in silenzio, per ascoltare Colui che ha tanto da dirci”. E nel suo Diario annotò: “O Verbo eterno, Parola del mio Dio, io voglio passare la mia vita ad ascoltarti”.

La domanda su Elia

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( Mt 17, 10 - 13 )

Al tempo di Gesù si pensava che prima dell’arrivo del Messia sarebbe dovuto tornare, in mezzo ad Israele, il profeta Elia a prepararne la venuta. Elia, secondo quanto narra 2Re 2,1-13, sarebbe stato rapito da Dio su di un carro di fuoco e quindi non sarebbe morto. Era, questa, una pia leggenda popolare, sorta in mezzo al popolo di Israele per celebrare il grande profeta e per sottolinearne la straordinaria statura. Ma Elia era morto come tutti gli uomini. Da questa leggenda si era formata la convinzione presso gli Ebrei, in particolare i farisei, che Elia sarebbe riapparso sulla terra per preparare l’arrivo del Messia (Mal 3,23-24).

Per cui gli apostoli domandano: “Perché gli scribi dicono che prima del Messia deve venire Elia?” Tale domanda, nella loro mente, era del tutto giustificata, in quanto cominciavano a considerare Gesù come vero Messia (cfr la professione di fede di Pietro in Mt 16,16 e la nuova esperienza appena fatta sul monte della trasfigurazione), ma Elia non l’avevano ancora visto. Gesù risponde anzitutto riportando la credenza comune: “Sì, verrà Elia e ristabilirà ogni cosa”, e poi correggendo tale credenza: “Elia è già venuto”. Elia è già venuto nella persona di Giovanni il Battista, dice Gesù: non nel senso che Giovanni il Battista fosse la reincarnazione di Elia (il concetto di reincarnazione è del tutto estraneo alla Bibbia; la Bibbia parla di risurrezione e non di reincarnazione); ma nel senso che il personaggio che nel piano di Dio sarebbe dovuto venire a preparare l’arrivo del Messia (e che gli Ebrei pensavano fosse Elia redivivo in base a 2Re 2,1-13 e Mal 3,23-24) era in realtà Giovanni il Battista.

E Giovanni il Battista “non l’hanno riconosciuto -dice Gesù- e l’hanno trattato come hanno voluto”. Infatti Erode Antipa l’aveva imprigionato e poi decapitato (Mt 14,3.12). Alla pari del Battista, dice Gesù, anche lui, Gesù, avrebbe dovuto soffrire e morire. Il Battista era stato suo precursore in tutto e nella misura più piena, compreso il martirio e la morte violenta.

Per la riflessione

Gli Ebrei avevano in mente dei loro schemi circa il Messia e circa la storia della salvezza. Si erano formati delle proprie convinzioni personali, purtroppo errate, e in base a quelle convinzioni giudicavano i fatti, gli eventi e le persone. A comandare il loro approccio alla realtà erano i loro schemi mentali, e non un’apertura piena di cuore che li rendesse capaci di leggere la realtà per quello che essa veramente era, autentica portatrice e annunciatrice di Cristo. Così non seppero accogliere Giovanni il Battista (i farisei non si erano convertiti a lui), e anzi lo uccisero; e poi stavano ancora aspettando il precursore del Messia, un fantomatico Elia….

Questo atteggiamento sbagliato può prendere anche noi: cercare Dio e volerlo incontrare chissà dove e chissà come, mentre egli si fa trovare nel quotidiano, ci viene incontro nella nostra storia concreta, nella storia della nostra famiglia, nelle persone che ci stanno accanto, nel lavoro che svolgiamo, negli avvenimenti lieti e tristi che ci succedono. Se scansiamo il tessuto concreto delle nostre giornate, noi perdiamo l’incontro con il Signore, perché il Signore è “dentro” le nostre giornate, e non “fuori” o “accanto” le nostre giornate. Tutto ciò che ci succede e tutte le persone con cui veniamo in contatto sono i “precursori” della venuta e della presenza di Dio per noi. Che non ci succeda di “ucciderli”, di “eliminarli”, di rifiutarli perché scomodi o perché diversi da come li vorremmo, così come hanno fatto gli Ebrei di Giovanni il Battista, per aspettare poi…

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chissà cosa e chissà chi per essere felici e per trovare il senso di noi stessi e della nostra esistenza. Aspetteremmo un Messia che non viene mai, o, peggio, un Messia che è già venuto e di cui noi non ci siamo accorti!

L’ epilettico indemoniato( Mt 17, 14 - 21 )

L’episodio qui narrato da Matteo (narrato anche da Mc 9,14-29) è insieme un miracolo di guarigione e un esorcismo: Gesù guarisce un ragazzo dalla malattia dell’epilessia e, in pari tempo, dall’influsso che esercitava su di lui il demonio. Il demonio aveva procurato a quel ragazzo l’epilessia o aggravava, con la propria opera, lo stato di sofferenza che il ragazzo aveva contratto per via naturale.

Il messaggio di fondo di questo brano è un forte invito alla fede. Infatti Gesù insiste per ben tre volte sulla fede, e in modo molto deciso e radicale: ai vv 17 e 20. La fede è la condizione necessaria perché Dio possa operare in noi e nella nostra storia.

Per la riflessione

1. La non-fede “lega” le mani a Dio. Questo sempre, nelle guarigioni spirituali. Se non abbiamo fede e non crediamo con assoluta certezza che Dio è capace di liberarci dal male, di guarirci da certi difetti, di farci acquistare determinate virtù, di renderci capaci anche di eroismo nel sopportare gravi difficoltà e grandi dolori…, ciò non succederà mai. Non succederà perché noi non avremo creato in noi lo spazio perché ciò avvenga e perché Dio possa far arrivare a noi i suoi doni. Ma Dio è onnipotente! Dio può tutto! (Gen 18,14; Ger 32, 17. 27; Lc 1,37; Mt 19,26; Giac 1,5-8).

2. Il padre del ragazzo malato e indemoniato chiede aiuto, porta il suo figlio agli apostoli e poi a Gesù. Chiedere aiuto è un gesto decisivo, è la mossa che può avviare a soluzione la nostra difficoltà. Da soli siamo deboli e incapaci di darci salvezza; la nostra salvezza viene normalmente da “fuori” di noi, viene da “altri”.

Ma per chiedere aiuto occorre umiltà. L’umiltà però salva! E’ l’orgoglio e il voler fare da sé, invece, che portano alla rovina. Se domandiamo aiuto, avremo poi una dolce sorpresa: troveremo tante mani buone e pronte a soccorrerci e ad aiutarci.

3. Il padre del ragazzo è un uomo che non si arrende. Prima ricorre all’aiuto degli apostoli, e poi all’aiuto di Gesù; non si ferma, non si scoraggia, ma insiste.

La perseveranza è una dote molto importante nella vita spirituale, mentre lo scoraggiamento è l’insidia più brutta e più deleteria che ci sia, perché toglie ogni forza e ogni speranza di riuscita, paralizza ogni energia spirituale. Non importa se cadiamo, ciò che vale e importa è che ci rialziamo subito e ci riprendiamo dopo ogni caduta, senza

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gettare mai la spugna. Chi non si scoraggia e insiste con perseveranza nello sforzo, alla fine, con la grazia di Dio, riuscirà.

4. Gesù è il vincitore della malattia e di Satana. Il padre del ragazzo epilettico e indemoniato porta il figlio dal medico giusto.

Portiamo anche noi noi stessi, e le persone bisognose di guarigione (fisica e spirituale) da Gesù. Egli è il medico capace di guarire da ogni male ( Mc 1,32-34; Lc 4,40). Portiamogli noi stessi e le persone a noi care; portiamogli le persone di cui sentiamo parlare alla televisione e sui giornali, e affidiamo tutti a Cristo con molta preghiera.

5. La preghiera e il digiuno sono le armi che vincono Satana. La preghiera ci ottiene la forza di Dio (forza che noi da soli non abbiamo), e il digiuno ci rende “signori” di noi stessi, ci rende forti nella volontà (il digiuno può essere non solo dal cibo, ma anche da tante altre cose).

Secondo annuncio della passione( Mt 17, 22 - 23 )

Gesù aveva già parlato ai suoi apostoli del destino di sofferenza che l’avrebbe atteso (Mt 16,21), e ora torna a parlarne loro una seconda volta; ne parlerà poi ancora una terza volta (Mt 20,17-19). Gesù sente il bisogno di tornare con insistenza su questo argomento perché avverte quanto siano lontani i suoi apostoli da ciò che dovrà accadere a lui e a loro. Essi s’aspettano un Messia glorioso e un futuro di trionfo per Gesù e per se stessi, e invece dovranno passare attraverso il dolore e la sofferenza.

Per la riflessione

1. Ognuno di noi fa fatica a confrontarsi col dolore, lo vorremmo del tutto schivare. La sofferenza ci fa paura. Ma la sofferenza, la prova e la difficoltà sono la strada comune e normale per ogni uomo. Il riuscire a riconciliarsi col proprio dolore e le proprie difficoltà è il segreto per viverle sereni e in modo coraggioso. A questo ci può aiutare il fatto che anche Cristo ha sofferto e ha patito, e il suo dolore non fu inutile e quasi una maledizione, ma fu redentore e salvifico per tutta l’umanità. Anche il nostro dolore, unito al suo, porta salvezza al mondo. Il dolore di Cristo poi, e così anche il nostro, è destinato non alla rovina e alla morte, ma alla risurrezione e alla gloria.

2. La Chiesa, comunità di Gesù, non può immaginare per sé un destino diverso da quello del suo fondatore e Signore. Dunque non deve meravigliarsi nè ribellarsi quando viene offesa, derisa, combattuta e perseguitata. E’ la sua strada giusta, la sua strada “normale” (Gv 15,18-20; Lc 6,26; Mt 5,11-12).

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La tassa per il tempiopagata da Gesu’ e da Pietro

( Mt 17, 24 - 27 )

Questo episodio riguarda solo Gesù e l’apostolo Pietro; infatti in esso non si fa menzione se non di loro due soli; gli altri apostoli non compaiono ancora, e da ciò deduciamo che il gruppo degli apostoli non doveva essere stato ancora formato. L’episodio dunque dev’essersi verificato agli inizi dell’apostolato di Gesù in Galilea, quando, appena dopo il battesimo e le tentazioni nel deserto, Gesù si stabilì a Cafarnao (Mt 4,12-13), nella casa di Pietro (Mc 1,29-37).

C’era l’usanza in Israele che tutti gli uomini maschi di età superiore ai vent’anni versassero ogni anno una tassa (che veniva raccolta poco prima della festa di pasqua) per le spese del culto al tempio di Gerusalemme. Tale tassa era stata introdotta al tempo di Neemia (verso il 450 a.C.), dopo il ritorno degli Ebrei dall’esilio a Babilonia, quando si era trattato di ricostruire la nazione dal punto di vista politico e anche religioso (Es 30,11-16; Ne 10,33). Tale tassa ammontava alla somma di due dramme, il corrispondente del guadagno di due giornate di lavoro di un operaio o di un bracciante.

Gli esattori di tale tassa chiedono a Pietro: “Il vostro maestro non paga la tassa (alla lettera il testo greco dice “le due dramme”) per il tempio?”. Pietro risponde di sì, e anche Gesù è d’accordo. Ma Gesù precisa a Pietro che lui non vi sarebbe tenuto. Egli è il Figlio di Dio, e la tassa è a favore del tempio di Gerusalemme ove si esercita il culto a Dio, ove si onora Dio suo Padre. Infatti non sono i figli -dice Gesù- a dover pagare tasse ai loro padri; ma sono semmai gli estranei, i sudditi a dover pagare tasse ai loro padroni. E tuttavia Gesù dice a Pietro: Paghiamo ugualmente la tassa, perché non voglio che si scandalizzino. Gesù tiene presente anche in questo momento gli altri, il bene degli altri, e sa rinunciare a un suo legittimo e pieno diritto per il bene altrui. Comanda a Pietro di andare al lago, di pescare un pesce e di prelevare dalla sua bocca la moneta necessaria per pagare la tassa per sé e per lui. In effetti Pietro trova nella bocca del pesce una moneta d’argento (alla lettera il testo dice: “uno statère”, che era l’equivalente di quattro dramme, la somma sufficiente per pagare la tassa per due persone), e così assolve al dovere di pagare il tributo.

Per la riflessione

1. Il rapporto tra Gesù e il Padre è un rapporto filiale, un rapporto quindi esente dall’idea di dover pagare una tassa. Un figlio non paga tasse a suo padre; il figlio ama, e si dona a suo padre!

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Quando sentissimo gli impegni della vita cristiana (partecipare alla Messa domenicale, osservare i comandamenti, perdonare ai fratelli…) come una tassa e un pedaggio da pagare a Dio, come un qualcosa da fare per non essere da lui puniti, e non invece come un atto d’amore nei suoi confronti, noi saremmo venuti meno al rapporto “filiale” verso di lui, e saremmo caduti in un rapporto di “servi” e di “schiavi”. Ma Dio non vuole ciò; egli vuole avere dei figli e non dei servi.

2. Gesù, pur non essendo tenuto a versare la tassa per il tempio, la versa ugualmente “per non scandalizzare” la gente. Gesù non tiene conto egoisticamente di sè, ma ha a cuore il bene degli altri. Farà così anche lungo la via della croce con le donne di Gerusalemme (Lc 23,27-31). Gesù ama e dà tutto se stesso senza badare a ciò che è suo diritto.

Anche S. Paolo seppe rinunciare a suoi precisi diritti perché il Vangelo di Gesù arrivasse più efficacemente alla gente (1Cor 9,4-18); e nella prima lettera ai Corinzi invita i cristiani di Corinto a rinunciare a mangiare le carni immolate agli idoli qualora questo loro gesto, in sé legittimo, inducesse altri cristiani a compierlo, e a peccare, perché convinti che fosse una cosa cattiva (1Cor 8). La carità “non cerca il suo interesse” (alla lettera “non cerca ciò che è suo”), dice S. Paolo in 1Cor 13,5.E’ tipico della carità tenere conto dell’influsso del proprio modo d’agire sugli altri.

3. Gesù versa il tributo per sé e per Pietro. Gesù associa Pietro a sé e gli si fa pienamente solidale. La solidarietà di Gesù con l’umanità fu, ed è, totale, assoluta ed eterna. Egli “si è fatto uomo”! E’ un esempio meraviglioso per la nostra solidarietà da avere con i fratelli.

4. Sappiamo che Gesù non solo ha offerto la tassa per il tempio a favore di Pietro, ma ha offerto addirittura se stesso sulla croce, la sua stessa vita per noi, per la nostra salvezza! Quanto dobbiamo ringraziare! E quanto dobbiamo “restituirgli” in amore!

Il discorso ecclesiastico( Mt 18 )

Il capitolo 18 ci presenta il quarto dei cinque grandi discorsi di Gesù nel Vangelo di Matteo. Esso è comunemente chiamato il “discorso ecclesiastico”, perché al v 17 ricorre per due volte la parola greca “ekklesìa”, che significa assemblea, comunità, chiesa; e perché questo discorso contiene degli insegnamenti e delle indicazioni di vita che Gesù rivolge ai membri della sua comunità, della sua “chiesa”, a quelli che si sono decisi per lui e lo hanno seguito. Infatti all’inizio del capitolo si lascia intendere espressamente che Gesù si rivolge ai suoi “discepoli” (Mt 18,1ss).

Chi è il piu’ grande ( Mt 18, 1-4 )

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Il primo insegnamento che Gesù dà ai membri della sua comunità riguarda l’umiltà. Probabilmente egli ne avvertiva l’importanza e la necessità. Spesso a rovinare la concordia e la pace di una comunità è l’insorgere di protagonismi, della volontà di prevalere, di elevarsi e di affermarsi al di sopra degli altri.

I discepoli stessi danno l’occasione a Gesù di toccare questo tema; gli pongono una domanda ben precisa: “Chi è il più grande nel regno dei cieli?”. Per “regno dei cieli” non si deve intendere direttamente il paradiso; “regno dei cieli” è anche la realtà umana e terrena in cui “il cielo regna”, cioè in cui Dio può esercitare la sua regalità. La Chiesa (la comunità di Gesù) in cui i fedeli si impegnano a fare la volontà di Dio e a permettere quindi che egli “regni”, è già “regno dei cieli”, anche se in misura ancora imperfetta e parziale. “Regno dei cieli” in pienezza sarà, alla fine, il paradiso, quando “Dio sarà tutto in tutti” (1Cor 15,28) e regnerà perfettamente in ogni cuore.

Alla domanda dei discepoli, che nasconde un istinto di grandezza e di superiorità sugli altri, Gesù risponde con un gesto singolare: chiama a sé un bambino e lo pone in mezzo al gruppo, e dice: “Se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli”. Il bambino nella società ebraica era un soggetto senza alcuna “importanza”. Non aveva importanza nel senso che non aveva alcun ruolo, era considerato unicamente come “materia” da educare, era pura appartenenza dei suoi genitori, appendice della donna considerata possesso del marito; il bambino non aveva diritti nel senso di poter dire la sua, far valere il suo pensiero, i suoi punti di vista, i suoi gusti. Il bambino in un certo senso era un “niente”, bisognoso di tutto e senza “peso” nella società; era davvero un “piccolo”. Gesù dice ai componenti della sua comunità: voi dovete diventare così, dovete diventare come i bambini, piccoli, umili, non all’inseguimento di sogni di grandezza e superiorità sugli altri. Sì, dice Gesù: c’è una strada per diventare grandi, grandi nel regno dei cieli, grandi della vera grandezza: farsi piccoli e farsi “bambini”.

E’ un grande invito all’umiltà, umiltà che Gesù stesso ha vissuto nascendo a Betlemme in una stalla, vivendo quasi tutta la sua vita in un paese sperduto della Palestina facendo il falegname, sopportando di essere, lui, il Figlio di Dio, umiliato, deriso, calunniato, sputato in faccia, condannato come un malfattore, appeso nudo a una croce. Per questo il Padre lo ha glorificato (Fil 2,5-11; Gv 13,1-15). Tante volte la Bibbia invita all’umiltà (Sir 3,17-21; Lc 14,7-11; Lc 18,9-14; Fil 2,3).

L’umiltà rende possibile la convivenza e rapporti pacifici; l’orgoglio non porta all’incontro ma allo scontro. L’umile non vuole dominare le persone, non pretende di cambiarle, ma sa rispettarle nella loro libertà; cerca con sincerità la verità, sa ascoltare e convertirsi, non giudica, cerca consiglio e aiuto, sa perdonare i difetti altrui in quanto sa di essere anche lui difettoso e bisognoso di compatimento, chiede scusa facilmente di ogni suo sbaglio.

Lo scandalo ( Mt 18, 5 - 11 )

Dopo aver invitato i suoi discepoli all’umiltà, Gesù li invita a non essere motivo di scandalo nei confronti dei più deboli nella fede. Nei versetti precedenti si è parlato dei “bambini”, del diventare come “bambini”, cioè del non voler darsi importanza all’interno della comunità; ora si passa a parlare dei “piccoli”. I “piccoli” qui non sono il sinonimo dei bambini (infatti il termine usato dall’evangelista per dire “bambini” ai vv 2-4 è “paidìa”, mentre il termine usato qui per dire “piccoli” è “mikròi”; si tratta quindi di due gruppi di persone diverse). I “piccoli” di cui ora parla Gesù sono i “piccoli nella fede”, i membri

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deboli nella fede all’interno della comunità cristiana. Infatti Gesù dice: chi scandalizza anche uno solo di questi piccoli “che credono in me”. Nella comunità cristiana ci sono membri deboli nella fede; questi non vanno scandalizzati.

Lo scandalo era un ostacolo, un inciampo, un’insidia che uno poneva sulla via del suo nemico, per farlo cadere. Gesù mette in guardia dall’essere motivo di inciampo per i fratelli nella via del bene, nella via della sequela di lui, nella fede, e in particolar modo nei confronti di coloro che sono deboli nella fede. Meglio sarebbe, per chi scandalizza, finire affogato nel profondo del mare, con una macina girata da asino appesa al colo (“la macina girata da asino” era una grossa pietra con un foro in mezzo posta su un perno anch’esso di pietra, che da tanto pesante che era, aveva bisogno di essere girata d un asino, per macinare i cereali. Lo scandalizzare i fratelli quindi è una cosa gravissima.Gesù dice che è inevitabile che ci siano scandali nel mondo, ma che si deve stare attenti a non darli. Chi dà scandalo pone un gesto molto cattivo, che merita condanna. Vale la pena tagliarsi una mano o un piede, o cavarsi gli occhi, piuttosto che procurare scandalo sia se stessi che agli altri. Evidentemente questo è un parlare iperbolico, che vuole mettere in risalto la serietà del messaggio.

A conclusone dell’insegnamento sullo scandalo Gesù dà anche una motivazione per astenersi dar dare scandalo: il fatto che “gli angeli dei piccoli vedono sempre la faccia di Dio”. Cioè ogni credente (ogni uomo) ha un suo angelo custode che “vede la faccia di Dio”, cioè vive alla presenza di Dio, in contatto con lui, e quindi può deferire al supremo tribunale divino ogni danno spirituale, ogni scandalo subito dal suo protetto.

Per la riflessione

1. Il mondo è pieno di scandali. Certa cultura, certi modi di pensare,certe proposte di vita che spingono all’avere, al piacere, al potere, al successo, all’accontentamento di sé in tutto e per tutto… sono gravi e insidiosi ostacoli sulla via del ben. Occorre difendersi, occorre evitarli (Deut 13; Mt 7,15; Rom 12,2; 1Gv 2,15-17).

2. Occorre evitare di essere noi stessi motivo di scandalo. Ogni nostra azione, ogni nostra parola o aiuta gli altri verso il bene o li spinge verso il male. Non possiamo ignorare e dimenticare la dimensione sociale del nostro essere e del nostro agire. Abbiamo una grande responsabilità verso gli altri, specialmente verso i piccoli, i bambini, i giovani, che guardano a noi adulti. Dobbiamo aiutarli a crescere nel bene.

3. Ciascun uomo ha un angelo custode. Dio ha assegnato a ciascuna persona un angelo che ha il compito e la missione di aiutarci a camminare verso il bene e verso la salvezza. Anche in questo modo il Signore si prende cura di noi. L’angelo custode ci accompagna, ci difende, ci preserva dal male, ci suggerisce le scelte giuste, ci mette in guardia dai pericoli. Dobbiamo ricordarci di questa presenza, di questo amico celeste che Dio ci ha donato, e pregarlo con fiducia. Ogni giorno dovremmo dire la preghiera a lui dedicata, l’ Angelo di Dio.

La pecora smarrita ( Mt 18, 12 - 14 )

Gesù conferma quanto ha detto sui “piccoli” con una parabola, la parabola della pecorella smarrita. Questa parabola è raccontata anche dall’evangelista Luca (Lc 15,4-7), e Luca insiste particolarmente sulla gioia del pastore (Dio) quando ritrova una pecorella che

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si era perduta (un peccatore), e la può riportare all’ovile (alla salvezza). L’evangelista Matteo invece insiste più sul fatto che ogni membro della comunità di Gesù deve avere a cuore la sorte e il cammino di ciascun altro membro della comunità, tanto che se un membro si perde e abbandona la comunità, gli altri si devono mettere sulle sue tracce per ritrovarlo e riportarlo in seno alla comunità stessa.

La parabola infatti parla di Dio, del suo stile, del suo modo di fare, e presenta il modo di fare di Dio come esempio che i membri della comunità di Gesù devono imitare. Dio è un pastore che se ha cento pecore e ne perde una non sta fermo nell’ovile, ma si mette in movimento per cercarla. E se gli riesce di trovarla se ne rallegra e la riporta all’ovile con immensa gioia (questo è il senso dell’espressione “si rallegrerà per quella più che per le novantanove che non si erano smarrite”. Questa espressione non va presa alla lettera, ma è un’espressione di carattere ebraico che per affermare un aspetto arriva fino a quasi negare l’altro; cfr ad es. 1Cor 1,17). La parabola termina con una frase che ne dà il senso e l’insegnamento: “Così il Padre vostro celeste non vuole che si perda neanche uno di questi piccoli”. L’insegnamento è che i membri della comunità di Gesù devono preoccuparsi di coloro che si fossero allontanati dalla comunità e perduti; devono imitare il modo di fare di Dio.

Per la riflessione

Ciascun membro della comunità di Gesù deve sentirsi solidale con ogni altro membro, e fare quanto può per riportare alla comunità chi se ne fosse allontanato. Nessuno può disinteressarsi del fratello di fede. I modi possono essere molti: la preghiera, la parola, l’invito, il richiamo, l’esempio….

La correzione fraterna ( Mt 18, 15 - 18 )

Un altro elemento che deve caratterizzare la comunità di Gesù è la capacità dei suoi membri di correggersi vicendevolmente tra di loro, al fine di aiutarsi a vivere bene, secondo il Vangelo. E’ un ulteriore invito a non disinteressarsi gli uni degli altri, ma, al contrario, di sentirsi responsabili del destino eterno dei fratelli.

Gesù dice: “Se il tuo fratello commette una colpa…”: non si intende qui una colpa personale contro colui che la deve correggere (la colpa individuale e personale viene presa in considerazione poco più avanti, in Mt 18,21-22); qui si tratta di una colpa pubblica e grave. Qualora un fratello cadesse in una colpa pubblica e grave, cioè contraddicesse, col suo comportamento, a qualcosa di importante dell’insegnamento di Gesù e quindi allo stile della comunità, i membri della comunità devono sentirsi in dovere di correggerlo, di richiamarlo, perché si possa ravvedere e convertire. Un esempio di colpa pubblica e grave ci viene offerto da San Paolo nella prima lettera ai Corinzi, al cap. 5, vv 1-8, ove l’apostolo parla del caso di un cristiano che conviveva con la propria matrigna. Lì l’apostolo dice alla comunità di Corinto che deve intervenire, e non può tollerare un caso simile all’interno di sè.

Gesù indica un metodo di intervento in tre momenti: dapprima il singolo cristiano deve richiamare a tu per tu il fratello, nell’intento di farlo recedere dal suo comportamento sbagliato; poi deve farsi aiutare da una o due persone; e infine, se anche questo secondo tentativo dovesse fallire, deve coinvolgere tutta la comunità. Tutti i mezzi devono essere messi in atto per richiamare il fratello sulla retta via. Qualora egli non ascoltasse neppure la

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comunità, deve essere considerato non più in piena comunione con la comunità stessa (questo è il senso dell’espressione “sia per te come un pagano e un pubblicano”).

E’ il caso della “scomunica”. Il Signore dà alla sua comunità il potere di considerare un proprio membro non più in comunione con se stessa, e dice che la decisione della comunità viene ratificata in cielo da Dio. La decisione della comunità non ha mai valore punitivo e vendicativo, ma sempre e solo terapeutico, cioè è volta al bene del fratello perchè si ravveda. E tende inoltre ad assicurare e a difendere il bene e lo stato di salute della comunità. Ciò appare chiaro in 1Cor 5,5-7. Inoltre è da osservare che la scomunica non è propriamente, nella sua essenza, un atto con cui la comunità “estromette” un proprio membro dalla comunione con sé, ma è precisamente e solo la dichiarazione che quel suo membro si è messo da se stesso fuori della comunione con la comunità.

La pratica della “scomunica” era già presente nell’Antico Testamento (Lev 18,29) e nel Giudaismo (Gv 9,34). E S. Paolo la ripropone anche in 2Tess 3,6-14.

Per la riflessione

1. Ogni membro della comunità di Gesù deve avere a cuore la salvezza dei suoi fratelli di fede (Ez 3,16-21). Non può dire come Caino: “Sono forse il guardiano di mio fratello?”, e giustificarsi così davanti a Dio. E ciascuno deve fare il possibile per ricuperare il fratello che si fosse allontanato dal bene (Ez 33.7-9).

2. La correzione va fatta con umiltà e carità. Non va fatta con spirito di giudizio (Gesù ha detto: “Non giudicare” il fratello). Chi si sentisse corretto da uno che lo giudica e lo condanna istintivamente si ritrarrebbe e si difenderebbe dalla correzione, per cui l’effetto della correzione stessa verrebbe totalmente vanificato. E, insieme, la correzione va fatta con amore, con l’intento che il fratello ne tragga giovamento, si corregga e migliori il proprio comportamento, e non per scaricare sul fratello la propria impazienza, la propria rabbia e delusione. Solo da chi si sente amato, uno si lascia dire le cose…S. Leone Magno dice: “Nella correzione l’indulgenza prevalga sulla severità, l’esortazione sulla collera, la carità sull’autorità”.

3. Anche oggi la comunità di Gesù, la Chiesa, si trova talvolta nella dolorosa situazione di dichiarare un proprio membro, o un gruppo di propri membri, non più in piena comunione con sé.

La preghiera in comune ( Mt 18, 19 )

Gesù invita i suoi discepoli a pregare insieme, e assicura alla preghiera fatta insieme una efficacia particolare. Dice: “Se due di voi sopra la terra si accorderanno per domandare qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli ve la concederà”.

Evidentemente anche la preghiera fatta in comune deve chiedere cose che sono secondo la volontà di Dio e secondo il suo disegno; perché se due o più persone si mettono a pregare e chiedono a Dio cose che non sono secondo il suo piano d’amore e di salvezza, Dio non le esaudisce. Questo detto sulla preghiera va completato e unito ad altri detti sulla preghiera, per es. Gv 15,7, ove Gesù assicura l’esaudimento della preghiera se fatta “rimanendo” in lui, cioè in comunione e in accordo con lui, con la sua volontà. Dunque la

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preghiera di due persone fatta insieme otterrà sempre il suo esaudimento “qualunque cosa” chieda, ma se in accordo con i disegni di Dio.

Precisato questo, ricaviamo dalle parole di Gesù in Mt 18,19 l’assicurazione che la preghiera fratta in comune ha un’efficacia particolare, e Gesù, in questo modo, invita implicitamente i membri della sua comunità a trovarsi insieme a pregare.

Per la riflessione

1. E’ molto importante la preghiera fatta insieme ad esempio da due sposi, dai genitori con i figli. Giova molto all’unione della coppia, alla serenità della famiglia.

2. Il cristiano prega da solo e prega anche insieme a tutto il popolo di Dio, partecipando alle celebrazioni e al culto della Chiesa. La preghiera di tutti sostiene la preghiera dei singoli.

3. E’ un grande aiuto per la vita spirituale trovarsi insieme a pregare. Possiamo partecipare a qualche gruppo di preghiera, o possiamo noi stessi creare qualche occasione di preghiera con qualche persona amica.

La presenza di Gesu’ nella comunita’ ( Mt 18, 20 )

Gesù afferma una cosa molto grande: “Dove due o tre sono riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro”. L’unione di più membri della comunità che si ritrovano “nel nome” di Gesù, cioè uniti tra di loro attorno a Gesù, desiderosi di essere uniti a lui e alla sua persona, lo rendono presente. Gesù si rende presente con una presenza particolare là dove anche solo due o tre membri della sua comunità si ritrovano uniti per pregare, per parlare di lui, per considerare qualche problema e qualche situazione sotto il suo sguardo. Gesù si rende presente con la sua luce, con il suo conforto, con la sua forza.

Per la riflessione

1. Dobbiamo rinforzare la nostra fede nella presenza del Signore dentro la comunità. Il Signore non è presente solo nell’Eucaristia, nella Parola della Bibbia, nel povero e nel bisognoso, ma è presente anche, e in modo particolare, nella comunità cristiana riunita “nel suo nome”. Quando ci riuniamo a pregare o a meditare insieme la Bibbia e siamo in cinque, ci ricordiamo che non siamo in cinque ma in sei, perchè c’è anche Lui presente?

2. Un modo preziosissimo di trovarsi in due nel nome del Signore è il Sacramento della Riconciliazione, e la pratica della direzione spirituale. In questi incontri il Signore si fa misericordia che perdona e luce che aiuta a comprendere la via da percorrere.

Il perdono delle offese ( Mt 18, 21 - 35 )

Gesù sapeva che nella sua comunità ci sarebbe stato bisogno del perdono, del perdono reciproco. Ogni membro della sua comunità è debole e difettoso e manca in tante

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cose, per cui diventa facilmente offesa al fratello. C’è quindi bisogno che i membri della comunità sappiano vivere il perdono e sappiano donarlo agli altri.

L’apostolo Pietro pone una domanda precisa a Gesù: “Signore, quante volte dovrò perdonare al mio fratello, se pecca contro di me? Fino a sette volte?” Gesù gli risponde: “Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette”. Nelle parole di Gesù è chiaro il riferimento al testo di Gen 4,23-24, ove Lamech proclama ed esalta il suo stile di vendetta sfrenata e senza limiti. Alla vendetta e alla vendetta senza limiti, Gesù oppone la pratica del perdono, e di un perdono senza limiti; egli dice: occorre perdonare “settanta volte sette”, cioè sempre. Il discepolo di Gesù dev’essere disposto a perdonare qualsiasi offesa avesse ricevuto, e qualsiasi offesa continuasse a ricevere; senza stancarsi e senza dire mai “basta!” (Lc 17,4).

Gesù motiva il dovere di accordare il perdono al fratello che ci avesse offeso con la necessità che abbiamo noi stessi di essere perdonati da Dio. E a tal proposito racconta la parabola del servo che, perdonato dal suo re, avrebbe dovuto a sua volta perdonare il suo con-servo debitore.

Nella parabola Gesù si compiace di sottolineare la straordinaria sproporzione tra il debito che il servo doveva al suo re e il credito che egli vantava da parte del suo con-servo. Il servo doveva al re una somma estremamente grande: diecimila talenti. Diecimila talenti corrispondevano a quasi 343 tonnellate di metallo prezioso, erano pari alla paga di 60 milioni di giornate lavorative (200 mila anni di lavoro)! Il servo non sarebbe mai riuscito a pagare un tale debito! E il credito che egli vantava da parte del suo con-servo era di cento denari, il corrispondente di tre mesi di lavoro; certo, una somma non trascurabile, ma infinitamente lontana da quanto egli doveva pagare al suo re!

Gesù inoltre si compiace nel mettere a confronto, e in opposizione, l’atteggiamento del re che generosamente e serenamente condona il debito al suo servo (risparmiando a lui e alla sua famiglia la prigione), e l’atteggiamento iroso e cattivo del servo che afferra per la gola, e quasi soffoca, il suo con-servo esigendo da lui l’immediato pagamento del debito, e facendolo gettare in prigione.

Il servo impietoso, a questo punto, non può che aspettarsi di essere punito dal re, il quale infatti lo fa arrestare e gettare in prigione, prigione dalla quale il servo non sarebbe mai più potuto uscire, perché -dice il testo- vi sarebbe dovuto rimanere “finchè non avesse restituito tutto il debito”. Ma il debito era immenso e ammontava a 200 mila anni di lavoro! Il servo quindi sarebbe dovuto rimanere in prigione fino alla morte! sarebbe dovuto morire in prigione.

La conclusione della parabola è chiara e lapidaria: “Così anche il mio Padre celeste farà a ciascuno di voi, se non perdonerete di cuore al vostro fratello”.

Per la riflessione

1. Noi abbiamo contratto dei debiti formidabili con Dio (…diecimila talenti ): abbiamo rifiutato il suo amore, la sua signoria su di noi; abbiamo preteso autonomia e indipendenza; non lo abbiamo lodato pienamente per i suoi benefici, anzi abbiamo spesso usato i suoi doni (la mente, il cuore, il corpo, le persone, il tempo…) per offenderlo; gli abbiamo voltato le spalle e ci siamo dati ad adorare altri idoli; abbiamo maltrattato le persone, che sono i suoi figli; abbiamo messo in croce suo Figlio! Dobbiamo ricordare poi che, mentre la grandezza di un dono si misura dalla dignità del donatore, la gravità di un’offesa si misura dalla dignità dell’offeso. Ora noi abbiamo offeso Dio! Il debito che abbiamo contratto con lui è assolutamente insolvibile.

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Ma egli ci perdona con larghezza e infinita misericordia se noi gli chiediamo perdono (Sal 103; Sal 130; Mi 7,18-19; Lc 15). Il testo, al v 27, dice che il re si impietosì davanti alla preghiera del servo che chiedeva pietà; quell’ “impietosirsi” traduce il verbo “splagchnìzo” usato da Matteo, che significa propriamente “si sentì muovere dentro le viscere, si sentì sconvolgere l’utero” (è il verbo che esprime lo sconvolgimento, anche fisico, che prova dentro di sé una madre quando vedesse il suo figlio in difficoltà o in pericolo). Il re della parabola, che è simbolo di Dio, è “madre”!

2. Se siamo stati perdonati da Dio, dobbiamo anche noi a nostra volta perdonare (Sir 28,1-7; Mt 5,23-26; Mt 6,12. 14-15; Lc 6,27-38; Rom 12,14. 17-21).

3. Il perdono è un gesto necessario perché gli uomini possano vivere insieme. Tutti infatti siamo soggetti a sbagliare e ad offendere gli altri, alle volte anche involontariamente. Senza perdono ogni comunità si sfascia. La comunione può essere conservata solo a prezzo di perdono.

4. Il perdono è un gesto grande e nobile, denota generosità e larghezza di cuore. Chi perdona supera se stesso e vive un momento di altissima perfezione umana.

5. Il perdono è una medicina per colui che è perdonato, perchè si sente riaccolto e liberato dai sensi di colpa; ed è una medicina anche per colui che perdona, perché in tal modo si libera dal rancore e dal desiderio di vendetta, sentimenti che lo roderebbero e gli farebbero perdere la pace.

6. Il perdono è un gesto difficile, talvolta eroico e superiore alle nostre forze; occorre domandare al Signore la forza per compierlo.

7. Occorre anche saper chiedere perdono ogni volta che avessimo fatto torto a qualcuno. E’ un atto di giustizia, un atto dovuto; ed è un atto che aiuta molto il ristabilimento della comunione e della pace.

La questione del divorzio( Mt 19, 1 - 9 )

Gesù si trova a dover sostenere un attacco dei farisei. I farisei non potevano sopportare che un uomo qualsiasi, che non aveva studiato le Sacre Scritture e non aveva frequentato nessuna scuola di rabbini, andasse proponendo una dottrina diversa da quella tradizionale. Per cui cercavano in tutti i modi e in ogni momento di coglierlo in fallo e poterlo accusare.

In questo caso gli pongono un quesito circa un punto preciso e importante della Legge di Mosè, e gli domandano: “E’ lecito ad un uomo ripudiare la propria moglie per

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qualsiasi motivo?”. Per comprendere bene questa domanda occorre tenere presenti alcune cose. Il libro del Deuteronomio permetteva al marito di ripudiare la propria moglie “qualora avesse trovato in lei qualche cosa di vergognoso” (Deut 24,1), ma non precisava in che cosa consistesse questo “qualche cosa di vergognoso”. Per spiegarlo si erano sviluppate, all’interno della morale ebraica, due correnti interpretative, l’una facente capo al grande rabbino Shammài e l’altra rifacentesi all’altrettanto celebre rabbino Hillèl. Shammài, più rigido, diceva: Il “qualche cosa di vergognoso” di cui parla il libro del Deuteronomio e che permette al marito di ripudiare la propria moglie è l’adulterio, e solamente l’adulterio. Solo se una donna manca di fedeltà coniugale al proprio marito, questi può ripudiarla. Invece Hillèl, più liberale e lassista, ammetteva come cause di ripudio, oltre all’adulterio, anche molte altre cose, ad esempio se la donna non avesse dato al marito dei figli entro un certo numero di anni, se avesse allattato il proprio bambino lasciandosi vedere da estranei, se si fosse fermata a parlare con un uomo in pubblica strada, se avesse lasciato bruciare le pietanze per alcune volte consecutive…, insomma, praticamente, “per qualsiasi motivo”.

Ecco allora che i farisei chiedono a Gesù: “E’ lecito ad un uomo ripudiare la propria moglie per qualsiasi motivo?”, e con questa domanda gli chiedono, praticamente: “Tu stai con Shammài o con Hillèl?”. Era un modo per cercare di metterlo in difficoltà e di poterlo accusare, qualsiasi risposta egli avrebbe dato. Se avesse risposto: “è lecito solo in caso di adulterio”, lo avrebbero accusato di rigore e di fondamentalismo; se avesse risposto: “per qualsiasi motivo”, lo avrebbero accusato di lassismo e di tenere in poco conto il patto coniugale.

Ma Gesù risponde scavalcando sia l’una che l’altra posizione e dice: “Non avete letto che il Creatore da principio li creò maschio e femmina e disse: Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una carne sola?”. Gesù cita la Sacra Scrittura, il libro della Genesi (Gen 1,27 e Gen 2,24), e la interpreta come un divieto assoluto di divorziare, tanto che conclude: “Così che non sono più due, ma una carne sola. Quello dunque che Dio ha congiunto, l’uomo non lo separi”. Di fronte a tale rigore e “massimalismo” i farisei obiettano subito: “Perché allora Mosè ha ordinato di darle l’atto di ripudio e di mandarla via?” (Deut 24,1). Essi oppongono alla citazione della Bibbia fatta da Gesù un’altra citazione della Bibbia, tolta dal libro del Deuteronomio, che si credeva scritto da Mosè. Gesù risponde: “Per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli, ma da principio non fu così”. Gesù richiama e riporta, in tal modo, l’ideale del matrimonio al pensiero iniziale di Dio. Dio nella Genesi aveva prospettato e proposto un matrimonio che avesse il carattere dell’indissolubilità; solo dopo, Mosè, per la durezza del cuore umano, aveva ceduto ad abbassare l’ideale concedendo il divorzio. E Gesù ribadisce il suo pensiero dicendo: “Chiunque ripudia la propria moglie, se non in caso di concubinato, e ne sposa un’altra, commette adulterio”.

L’affermazione di Gesù è perentoria: il matrimonio è indissolubile. Solo una eccezione è ammessa (che poi eccezione non è) in cui si può sciogliere il matrimonio, o meglio in cui la convivenza deve essere fatta cessare, ed è il caso in cui due persone si fossero unite e avessero dato inizio a una unione matrimoniale non consentita dalla legge in quanto “incestuosa”, cioè segnata da gradi di parentela troppo stretti (questo è il senso dell’espressione “eccetto il caso di ‘pornèia’ ” che qui ricorre. Qui ‘pornèia’ significa “unione resa incestuosa da un grado di parentela proibito dalla legge”, come in At 15,28-29). Fuori di tale caso (che non è matrimonio valido), il matrimonio è indissolubile.

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Per la riflessione

1. L’indissolubilità del matrimonio per i discepoli di Gesù è affermata anche in altri passi del Nuovo Testamento: Mt 5,31-32; Mc 10,11-12; Lc 16,18; 1Cor 7,10-11.

Il matrimonio cristiano è indissolubile perché gli sposi cristiani sono chiamati ad amarsi tra di loro come Dio ama l’umanità. Dio nella Sacra Scrittura si è rivelato come lo “sposo” dell’umanità, sposo che ama l’umanità sua sposa e l’ama senza più venirle meno, neanche nel caso che l’umanità gli fosse (come di fatto lo è) infedele. Per i cristiani il matrimonio è “sacramento”, cioè è una unione chiamata da Dio ad essere espressione e segno concreto e visibile del suo amore unico e fedele per l’umanità. L’amore fedele di Cristo per la Chiesa, amore spinto fino al sacrificio di sé sulla croce, è il modello dell’amore degli sposi cristiani (Os 2,4-22; Ef 5,22-33).

2. L’indissolubilità del matrimonio non è una legge che Gesù impone e comanda “dal di fuori” della realtà del matrimonio, ma è il matrimonio stesso (se è autentico) a domandarla e a richiederla. Infatti il matrimonio è una unione d’amore, e l’amore chiede, per sua natura, di essere “per sempre”

Ogni persona è strutturata, nel suo essere, come un essere fatto per amare e per essere amato; questo è il suo bisogno più profondo e la sua capacità più alta. Ma come è fatto l’amore? L’amore ha tanti aspetti e comprende tanti elementi, si esprime in molteplici forme e coinvolge le persone a vari livelli. Una tra le caratteristiche essenziali e costitutive dell’amore è la definitività, il “per sempre”, cioè la decisione di non tirarsi più indietro. Infatti l’amore vero e maturo non può dire: “Ti amo per un mese, ti amo per un anno, ti amo finchè mi piaci, ti amo finchè deciderò diversamente”. L’amore (=il voler bene) “vuole il bene dell’altro”, e il bene dell’altro (quello di cui l’altro sente profondamente il bisogno) è quello di sapersi e di sentirsi amato “per sempre”.

Il sentirsi amato per sempre dà alla persona un senso di sicurezza, di benessere e di felicità (perché corrisponde esattamente al suo bisogno, a come ella è fatta dentro, alla sua struttura interiore); mentre il pensiero di poter essere abbandonati genera insicurezza, inquietudine, preoccupazione e disagio. Un figlio sente il bisogno di essere amato per sempre dai genitori; un genitore sente il bisogno di essere amato per sempre dai figli; ma anche un semplice amico sente il bisogno di essere amato per sempre dagli amici. Questa è la “struttura” dell’amore. Prova ne è che il sentirsi abbandonati genera sofferenza, e che l’abbandonare viene avvertito come una debolezza dell’amore.

Ciò ci porta a concludere che la relazione sponsale (quella in cui le due persone si danno completamente l’una all’altra, per amore, a tutti i livelli (a livello affettivo, sentimentale, spirituale, fisico) chiede e ha bisogno di una situazione di definitività; infatti se io mi do del tutto a una persona per amore, sento il bisogno che quella persona non mi rifiuti più, non mi lasci più, non mi mandi più via, mi dia per sempre il suo amore. Mi sono dato tutto a lei, e ciò ha per me un significato di totalità, di definitività, di eternità! E lo stesso vale per l’altra persone nei miei riguardi. La relazione sponsale “indissolubile”, dunque, è la relazione sponsale più corrispondente alla struttura essenziale delle persone, ed è la più rispondente al loro bisogno di essere amate e alla loro capacità di amare.

L’indissolubilità del matrimonio assicura, poi, un nido stabile e sicuro per i figli, i quali hanno bisogno (e diritto) di avere i genitori uniti tra di loro, essendo nati da loro, e traendo da loro le proprie più profonde radici.

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3. Certo, perché un matrimonio sia indissolubile ed impegni tutta la vita occorre che sia stato contratto con la necessaria consapevolezza, con la sufficiente maturità umana e cristiana, e col necessario senso di responsabilità. Se queste condizioni non ci fossero state al momento del matrimonio, il matrimonio sarebbe nullo, anche se celebrato col rito religioso. In questo caso è possibile chiedere alla Chiesa la dichiarazione di nullità.

4. Può darsi il caso che il vivere insieme di due sposi, sposatisi validamente, diventi così difficile da rendersi impossibile. In questo caso è consentita la separazione, però senza procedere ad un altro matrimonio (1Cor 7,10-11). Il vincolo matrimoniale, validamente contratto, resta valido sempre, perché chiede di amare così come Dio ama.

5. La perseveranza nel matrimonio è realtà difficile, anzi superiore alle forze umane; chiede una generosità e una misura di sacrificio di cui l’uomo e la donna, da se stessi, non sono capaci. Occorre chiedere al Signore l’aiuto e la forza. E il Signore tale aiuto e tale forza li dà volentieri, perché sono proprio ciò che egli vuole donare. Si rende necessaria allora la preghiera, la frequenza ai Sacramenti, il ricorso all’aiuto della Chiesa (mediante la direzione spirituale, la partecipazione a un gruppo familiare…). Gesù e Maria sono capaci di donare “vino nuovo” là dove il vino degli inizi si fosse esaurito, come è accaduto alle nozze di Cana (Gv 2,1-11).

6. Per la fondazione di un matrimonio sereno e felice è di straordinaria importanza l’educazione delle persone all’amore, al dono di sé, all’attenzione all’altro, al sacrificio. Ed è di straordinaria importanza il tempo del fidanzamento, da vivere in modo serio e impegnato, basato sul dialogo, sulla reciproca conoscenza, sul confronto delle idee e degli ideali, dando più spazio all’aspetto spirituale che fisico.

La continenza volontaria

( Mt 19, 10 - 12 )

Gesù ha presentato l’ideale del matrimonio secondo il progetto di Dio, un matrimonio del tutto indissolubile, andando oltre addirittura la posizione più rigida tenuta dal rabbino Shammai.

Di fronte a tale impegnativa proposta gli apostoli dicono senza riuscire a frenarsi: “Se questa è la condizione dell’uomo rispetto alla donna, non conviene sposarsi”. E’ come se dicessero: “E’ troppo duro, Gesù, ciò che tu chiedi!”. Ma Gesù non retrocede di un passo da quanto ha detto e non addolcisce per nulla il suo discorso; prende invece occasione per parlare di una scelta di vita diversa dal matrimonio, la scelta della verginità. E dice: non tutti hanno la vocazione al matrimonio. C’è chi non è fatto per il matrimonio perché è nato sessualmente incapace (“eunuco nato così dal ventre della madre”); c’è chi non può sposarsi perché condizionamenti profondi o circostanze avverse glielo impediscono (“reso eunuco dagli uomini”; nell’antichità si dava il caso dei custodi degli

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harem delle corti orientali che venivano evirati, per poter custodire le ragazze loro affidate senza metterne in pericolo la verginità); e c’è chi non si sposa per aderire più completamente a Dio (“si è fatto eunuco per il regno dei cieli”).

Gesù parla della verginità che era una scelta di vita completamente fuori dell’orizzonte degli Ebrei. Il libro della Genesi diceva: “Dio creò l’uomo a sua immagine, maschio e femmina li creò. Dio li benedisse e disse loro: ‘Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra’ ” (Gen 1,27-28). E poco più avanti il libro della Genesi diceva: “L’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una carne sola” (Gen 2,24). In base a questi testi in Israele si sentiva come unica via per ogni uomo e per ogni donna la via del matrimonio. La figlia di Iefte, ad esempio, chiese al padre due mesi di tempo prima di essere immolata a Dio, per poter “piangere la sua verginità”, cioè piangere di dover morire prima di essersi potuta sposare ed avere figli (Giud 11,29-40).

Gesù prospetta la verginità “per il regno dei cieli” come un valore, e dice che essa è un dono dato da Dio. Non tutti possono capire questo dono, ma solo possono capirlo coloro ai quali “è concesso”, ai quali “è dato” di capirlo.

Per la riflessione

1. La scelta di verginità consiste nella decisione di appartenere totalmente a Dio senza appartenenza ad altra creatura umana, e senza la volontà che un’altra creatura umana appartenga a sé. Tale scelta non può essere iniziativa della persona, ma può essere solo risposta all’iniziativa di Dio. Può inoltrarsi nella via della verginità chi è chiamato da Dio a questa condizione di vita, colui cioè al quale “è stato concesso”.

2. Lo stato di verginità è un grande valore perché anticipa fin d’ora quella che sarà la condizione definitiva di tutti gli uomini (Mt 22,23-33); permette di vivere immersi nella realtà di questo mondo che passa in misura non troppo profonda (1Cor 7,25-31); permette di cercare con cuore indiviso di piacere al Signore stando uniti a lui senza distrazioni (1Cor 7,32-35).

3. Matrimonio e verginità non sono realtà contrapposte, ma complementari. Il vergine ricorda allo sposato che Dio è il bene da amare prima e più di ogni altra realtà, e lo sposato ricorda al vergine che l’amore dev’essere concreto e spinto fino al dono di sé. Il vergine ricorda allo sposato che le realtà di questo mondo sono transitorie e passeggere, e lo sposato ricorda al vergine la necessità di stare dentro la storia e non ai margini di essa.

4. La verginità è un dono, per cui chi è chiamato alla verginità non può sentirsi superiore a chi è chiamato al matrimonio, in quanto non è merito suo la chiamata. San Paolo chiama “dono” (“chàrisma”) sia la verginità che il matrimonio (1Cor 7,7). La Scrittura, poi, è chiara: il valore e la santità di una persona sta nella sua capacità d’amare. Uno sposato può essere più santo di un vergine, se ama più di lui ; e un vergine può essere più santo di uno sposato, se ama più dello sposato.

5. La verginità oggi non sembra molto apprezzata nella nostra società. Il benessere e il clima edonistico che pervade il modo di vivere d’oggi non permette di capirne il valore, e non la favorisce. Per “capire” la verginità occorre grande fede.

6. Si sente dire spesso che la Chiesa impone ai sacerdoti il celibato, lo stato di verginità. Ma ciò non corrisponde al vero. Nessuno può imporre ed esigere da una persona

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di vivere in verginità, neppure la Chiesa. La Chiesa, invece, con una scelta plurisecolare (iniziata nel quinto secolo), scelta che essa sente molto consona al ministero sacerdotale e che intende mantenere (che potrebbe però un giorno, per necessità, anche cambiare), decide di dare il Sacerdozio a quelle persone (uomini) in cui ravvisa il dono e la chiamata di Dio alla verginità.

Gesu’ e i bambini( Mt 19, 13 - 15 )

Vengono portati a Gesù dei bambini. Alcune mamme presentano a Gesù i loro figli perché li benedica. La benedizione era data con il gesto dell’imposizione delle mani sul capo della persona. Presso gli Ebrei era usanza che i genitori, nel giorno di sabato, benedicessero i loro figli; che i sacerdoti benedicessero il popolo nelle celebrazioni al tempio; che i rabbini benedicessero i propri discepoli; e in certe ricorrenze particolari dell’anno i genitori presentavano i propri bambini ai rabbini o ai sacerdoti perché li benedicessero imponendo loro le mani. Le mamme di cui parla qui il Vangelo riconoscono in Gesù un uomo di Dio, un rabbino vero, un maestro autentico che può impartire una benedizione nel nome del Signore.

Gli apostoli tentano di allontanare i bambini da Gesù, in quanto non li considerano degni di accostarsi a lui. I bambini erano ritenuti nella società ebraica persone insignificanti, perchè non conoscevano ancora la Legge e non erano in grado di praticarla; per cui non erano considerati membra vive del popolo dell’alleanza. Ecco allora che gli apostoli sembrano dire: Che hanno a che fare questi bambini col nostro maestro? E cercano di mandarli via.

Ma Gesù difende i bambini e dice: “Lasciate che i bambini vengano a me, perché di questi è il regno dei cieli”. Il testo greco dice alla lettera: Lasciate che i bambini vengano a me, perché “di quelli che sono come loro” è il regno dei cieli. Il regno dei cieli è di quelli che si fanno come i bambini.

Gesù riprende quanto aveva insegnato in Mt 18,3 quando, posto in mezzo al gruppo dei suoi discepoli un bambino, aveva detto: “Se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli”. Occorre dunque “farsi bambini”.

Il passo parallelo di Mc 10,13-16 presenta un Gesù particolarmente affettuoso e dolce con i bambini: li prende tra le braccia e li stringe a sé.

Per la riflessione

1. Farsi bambini significa vivere l’atteggiamento di dipendenza da Dio; riconoscere di non avere meriti e diritti davanti a lui, e tuttavia sperare da lui tutto ciò che ci occorre in questa vita e nell’altra. Così infatti fanno i bambini; essi vivono in totale dipendenza dai

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loro genitori; non accampano meriti e tuttavia sono sicuri dell’affetto del papà e della mamma e che il papà e la mamma provvederanno loro in tutto.

2. I bambini sono naturalmente aperti a Dio e alle cose di Dio. Parlare loro di Dio fin da piccoli corrisponde al loro cuore e alla loro mente; essi hanno sete di Dio! Parlare ai bambini di Dio e delle cose di Dio è un gesto di grande carità nei loro confronti; è come portarli da Gesù. E’ un gesto che li forma e che fa loro bene; e che li aiuterà anche in futuro nel resto della vita.

3. E’ bello il gesto dei genitori che tracciano un segno di croce in fronte ai loro figli prima che vadano a letto la sera, o prima che vadano a scuola al mattino, o prima di un viaggio, o in occasione di un impegno particolarmente importante. E’ un modo di benedirli e di metterli sotto la protezione del Signore. E’ un modo di vivere la paternità e la maternità in misura più alta e più significativa; è un modo di trasmettere loro affetto e fede insieme.

Il giovane ricco( Mt 19, 16 - 22 )

Un giovane si avvicina a Gesù e gli chiede: “Maestro, cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna?” Questo giovane è un giovane buono, un giovane che si pone le domande fondamentali della vita e che si preoccupa del proprio destino eterno. E’ tutt’altro che superficiale e uno che vive alla giornata. Egli riconosce a Gesù un’autorevolezza del tutto particolare, tanto che lo chiama “maestro”, e lo ritiene in grado di dargli una indicazione circa una questione di capitale importanza: la propria salvezza eterna. Inoltre è un giovane che ha sempre osservato i comandamenti, e che quindi conduce una vita moralmente buona e corretta.

Ma questo giovane non ha il cuore libero e staccato da tutto; è attaccato alle sue ricchezze. Infatti di fronte alla proposta di Gesù di lasciare tutto e di seguirlo, non riesce a dire di sì. Gesù gli propone: “Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quello che possiedi e dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi”. Ma quel giovane, nota l’evangelista, se ne andò triste, poiché aveva molte ricchezze”. L’attaccamento alle ricchezze è un ostacolo a seguire Gesù.

Per la riflessione

1. Gesù è coraggioso nel fare la sua proposta; egli chiede tutto. Nulla deve trattenerci dal seguire lui, perché egli è il bene sommo (Mt 13,44-46; Fil 3,7-14).Non tutti sono chiamati ad abbandonare “effettivamente” ogni cosa (a questo sono chiamati, ad esempio, i monaci che hanno la vocazione a non possedere nulla), ma tutti

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siamo chiamati ad abbandonare tutto “affettivamente”, cioè a non avere il cuore attaccato a nulla prima e al di sopra di Dio (1Cor 7,29-31).

C’è qualcosa nella nostra vita a cui siamo ancora attaccati e a cui non vogliamo rinunciare? (Lc 14,15-24). Abramo seppe dare perfino il proprio unico figlio (Gen 22,1-19).

2. Gesù chiedendo tutto non ci porta via la vera felicità, ma a fronte di quanto ci chiede di lasciare ci promette beni più grandi. Al giovane ricco egli dice: “avrai un tesoro nel cielo”. Papa Benedetto XVI nell’omelia della Messa d’inizio del suo pontificato disse: “Cristo non toglie nulla, e dona tutto. Chi si dona a lui, riceve il centuplo. Aprite le porte a Cristo e troverete la vera vita”. (Mt 6,19-21).

3. Gesù propone la perfezione della vita; dice: “Se vuoi essere perfetto…”. In Mt 5,48 aveva detto: “Siate voi dunque perfetti come perfetto è il Padre vostro celeste”. Gesù non impone la perfezione, ma la propone. Egli rispetta fino in fondo e lascia spazio alla libertà dell’uomo. Ma la libertà dell’uomo si esprime e si realizza in misura tanto più positiva quanto più riesce ad aderire al bene e a tendere alla perfezione; quanto più l’uomo riesce a dire di sì a Dio, e costruire così il compimento di sé.

4. Il giovane ricco non seppe dire di sì a Gesù e “se ne andò triste”. Ogni volta che noi diciamo di no al Signore il nostro cuore resta triste. Leon Bloy dice: “Non c’è che una tristezza. E’ quella di non essere santi”. Nell’obbedienza a Dio invece noi troviamo la nostra gioia, quella vera, quella autentica e definitiva, quella per cui è fatto il nostro cuore (Sal 119, 14. 16. 24. 47. 111. 174).

Il pericolo delle ricchezze( Mt 19, 23 - 26 )

L’incontro di Gesù col giovane ricco e la risposta negativa di questi alla sua proposta di seguirlo lasciando tutto, danno al Signore l’occasione di impartire un insegnamento circa le ricchezze e i beni di questo mondo. Gesù dice: “Difficilmente un ricco entrerà nel regno dei cieli. E’ più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno dei cieli”. Gesù usa qui un linguaggio paradossale per dire quanto sia difficile entrare in piena comunione con Dio se si ha il cuore attaccato a qualche cosa che non sia lui. Occorre avere il cuore totalmente libero, cosa che l’uomo da solo, con le proprie forze, non riesce a fare; ma che Dio, nella sua onnipotenza, può fare.Per la riflessione

1. Le ricchezze e i beni di questo mondo non sono cattivi in se stessi; anzi, tutto ciò che Dio ha creato è cosa buona. Ma può diventare cattiva, se amata più di Dio e all’infuori di Dio, perché ci distoglie da lui. San Benedetto raccomandava ai suoi monaci: “Non anteponete nulla a Cristo”. San Francesco faceva di tutte le creature altrettanti gradini per

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salire fino al Creatore: “Laudato si’, mi’ Signore, cum tucte le tue creature, spetialmente messer lo frate sole…; laudato si’, mi’ Signore, per sora luna e le stelle… per frate vento…”.

2. Ricchezze non sono solo i beni economici e il denaro, ma possono essere anche il tempo che io voglio usare egoisticamente per me, il mio prestigio personale, il mio modo di vedere e di pensare, il mio puntiglio, ciò che mi piace, ciò che alla fin fine è “il mio io". Tutto questo mi rende “ricco", pieno di me stesso e quindi indisponibile al Regno di Dio. “Beati i puri di cuore -dice Gesù- perché vedranno Dio" (Mt 5,8); beati quelli che hanno il cuore puro, libero e vergine da tutto.

3. Aderire pienamente a Dio è necessario per essere salvi; infatti i discepoli si domandano: “Chi si potrà dunque salvare?”. E’ aderendo a Dio che potremo essere salvi, perché le ricchezze e i beni di questo mondo, che sono fragili e inconsistenti, non possono salvarci; un giorno ci verranno tutti a mancare….

4. L’uomo non è capace da solo di staccarsi da tutto e aderire pienamente a Dio; le cose di questo mondo lo attirano e facilmente lo incantano (Sap 13,1-9). Ma Dio è capace di far sì che l’uomo aderisca pienamente a sè : “Questo è impossibile agli uomini, ma a Dio tutto è possibile”. L’uomo deve collaborare con Dio chiedendo questa grazia con la preghiera e impegnandosi in un forte sforzo di ascesi.

Ricompensa promessa alla rinuncia( Mt 19, 27 - 30 )

Pietro e gli altri apostoli stavano seguendo Gesù in modo pieno e radicale, staccandosi da tutti i loro beni. Era una scelta grande, ma rischiosa. Ecco che allora Pietro, a nome anche degli altri apostoli, chiede a Gesù: “Noi che abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito, che cosa ne otterremo?”. Pietro non è distaccato dalla propria ricompensa al sacrificio che sente di compiere. E Gesù lo rassicura, gli promette una ricompensa grandissima: gli promette di renderlo partecipe, lui e gli altri apostoli, del suo destino di regalità e di gloria nell’al di là (“nella nuova creazione, quando il Figlio dell’uomo sarà seduto sul trono della sua gloria, siederete anche voi su dodici troni a giudicare le dodici tribù di Israele”). Promette loro una vita su questa terra ricca di felicità, di una felicità che sarà cento volte più grande e maggiore della sofferenza e della fatica che essi stanno facendo nel rinunciare a tutto; e poi la vita eterna dopo questa vita.

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