V POLLIONE De architectura - Pescara · VITRUVIO POLLIONE, De architectura, VII, pref. 11-12; 14-15...

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VITRUVIO POLLIONE, De architectura, VII, pref. 11-12; 14-15 11. Infatti per la prima volta Agatarco in Atene lavorò alla scena per una tragedia che Eschilo rappresentava, e lasciò anche un trattato in proposito. Seguendo il suo esempio, Democrito e Anassagora scrissero pure di scenografia, o prospettiva; in qual modo cioè sia necessario che – dato in un luogo determinato un centro focale e allo sguardo degli occhi e al prolungamento dei raggi luminosi – vi sia corrispondenza e somiglianza tra la struttura naturale e le linee; sicché semplici linee – in sé insignificanti e incorporee – riproducano illusionisticamente sulla scena l’aspetto vero degli edifici, colle loro parti ora rientranti ora prominenti, pur essendo tutte dipinte su un piano. 12. In seguito Seilenos pubblicò un volume intorno alle proporzioni dell’ordine dorico; Theodoros un altro sul tempio di Hera Samia, quello (ionico); Chersiphron e Metagenes su quello ionico di Artemis a Efeso; Pytheos su quello ionico di Atena e Priene; Iktinos e Karpion su quello dorico di Atena dell’acropoli di Atene; Theodoros di Focea sulla tholos di Delfi; Philon scrisse sulle proporzioni dei templi e sull’arsenale del Pireo; Hermogenes sul tempio di Artemis a Magnesia, ionico pseudoperiptero; e a Teo, di Dionysos, monoptero; parimente Arkesios sulle proporzioni corinzie e sul tempio ionico di Asklepio a Tralles, che si dice edificato da lui; Satyros e Pytheos sul Mausoleo. 14. Oltre a costoro altri meno noti scrissero libri di proporzioni, come Nexaris, Theokides, Demophilos, Pollis, Leonidas, Silanion, Melampos, Sarnakos, Euphranor. E altri ancora intorno alle macchine, come Diades, Archytas, Archimedes, Ktesibios, Nymphodoros, Phylon di Bisanzio, Diphilos, Demokles, Charias, Polyidos, Pyrrhos, Agesistratos. Dalle opere di costoro, radunai qui in un sol colpo tutto ciò che capivo essere utile all’argomento, tanto più che mi ero accorto che i Greci abbondavano di opere sull’architettura, mentre pochissime affatto sono le nostre. Fuficius è infatti senza dubbio il primo a pubblicare un volume su queste cose, e poi Terenzio Varrone nel “De novem disciplinis” ha un libro di architettura, e Publius Septimius due.

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VITRUVIO POLLIONE, De architectura, VII, pref. 11-12; 14-15

11. Infatti per la prima volta Agatarco in Atene lavorò alla scena per una tragedia che

Eschilo rappresentava, e lasciò anche un trattato in proposito. Seguendo il suo esempio,

Democrito e Anassagora scrissero pure di scenografia, o prospettiva; in qual modo cioè sia

necessario che – dato in un luogo determinato un centro focale e allo sguardo degli occhi e

al prolungamento dei raggi luminosi – vi sia corrispondenza e somiglianza tra la struttura

naturale e le linee; sicché semplici linee – in sé insignificanti e incorporee – riproducano

illusionisticamente sulla scena l’aspetto vero degli edifici, colle loro parti ora rientranti ora

prominenti, pur essendo tutte dipinte su un piano.

12. In seguito Seilenos pubblicò un volume intorno alle proporzioni dell’ordine dorico;

Theodoros un altro sul tempio di Hera Samia, quello (ionico); Chersiphron e Metagenes su

quello ionico di Artemis a Efeso; Pytheos su quello ionico di Atena e Priene; Iktinos e

Karpion su quello dorico di Atena dell’acropoli di Atene; Theodoros di Focea sulla tholos

di Delfi; Philon scrisse sulle proporzioni dei templi e sull’arsenale del Pireo; Hermogenes

sul tempio di Artemis a Magnesia, ionico pseudoperiptero; e a Teo, di Dionysos,

monoptero; parimente Arkesios sulle proporzioni corinzie e sul tempio ionico di Asklepio a

Tralles, che si dice edificato da lui; Satyros e Pytheos sul Mausoleo.

14. Oltre a costoro altri meno noti scrissero libri di proporzioni, come Nexaris, Theokides,

Demophilos, Pollis, Leonidas, Silanion, Melampos, Sarnakos, Euphranor. E altri ancora

intorno alle macchine, come Diades, Archytas, Archimedes, Ktesibios, Nymphodoros,

Phylon di Bisanzio, Diphilos, Demokles, Charias, Polyidos, Pyrrhos, Agesistratos. Dalle

opere di costoro, radunai qui in un sol colpo tutto ciò che capivo essere utile all’argomento,

tanto più che mi ero accorto che i Greci abbondavano di opere sull’architettura, mentre

pochissime affatto sono le nostre. Fuficius è infatti senza dubbio il primo a pubblicare un

volume su queste cose, e poi Terenzio Varrone nel “De novem disciplinis” ha un libro di

architettura, e Publius Septimius due.

(traduzione di Silvio Ferri)

GALENO, Sulle massime di Ippocrate e Platone, 5, 3

Crisippo… dice che la salute del corpo nasce dall’esatta proporzione di quelli che sono i

suoi elementi, caldo, freddo, secco, umido e la bellezza dall’esatta proporzione non degli

elementi, ma delle parti, di un dito rispetto a un altro dito, di tutte le dita rispetto al carpo e al

metacarpo, di questi rispetto all’avambraccio, di questo rispetto al braccio, e insomma di

tutte le parti tra di loro, com’è scritto nel Canone di Policleto. Policleto, infatti dopo aver

detto in questo scritto quali sono le esatte proporzioni del corpo, volle provare con un’opera

la verità del suo discorso, e compose una statua secondo i precetti che aveva scritti, e la

chiamò con lo stesso nome del discorso, Canone. Del resto, che la belelzza del corpo stia

nell’esatta proporzione delle parti è opinione comune a tutti i medici e a tutti i filosofi.

(traduzione M.L. Gualandi)

FILONE DI BISANZIO, Meccanica, 4, 1

Molti, dopo aver costruito strumenti d’ugual grandezza, fatti con legni uguali e con ferro

uguale, e dello stesso peso, e averli disposti nello stesso modo, a volte fecero lanci lunghi e

precisi, a volte lanci più corti. Né sapevano, quando si chiedeva come mai fosse avvenuto,

dirne la causa. Bisogna dunque ricordare a chi s’accinge a tali opere le parole dello scultore

Policleto: «La perfezione si ottiene con molti numeri e badando ai minimi particolari».

Ugualmente avviene in quest’arte, che, molti numeri servendo alla perfezione dell’opera,

piccoli errori nei particolari, sommati, danno origine a un errore grande.

(traduzione A. Maddalena)

PLINIO IL VECCHIO, Naturalis Historia

XXXV, 84 – Apelles del resto osservò la continua consuetudine di non lasciar mai passare

un sol giorno, anche pieno di occupazioni, senza mantenersi in esercizio tirando linee; onde

il noto proverbio. Soleva esporre in una loggia ai passanti le opere via via finite, e nascosto

dietro il quadro ascoltava i difetti che venivano notati, preferendo a se stesso il volgo come

giudice più diligente.

XXXV, 85 – Dicono che, ripreso una volta da un calzolaio perchè su certi calzari aveva

fatto un occhiello in meno, essendo avvenuto che il giorno dopo lo stesso calzolaio

inorgoglito dal successo del precedente suggerimento si mise a far delle critiche sulla

gamba, Apelles allora indignato lo affrontò ammonendolo che il calzolaio non doveva

giudicare al disopra del calzare. Anche questo motto passò in proverbio. Ebbe molta

affabilità e per essa fu assai accetto ad Alessandro Magno che spesso veniva nella sua

bottega (egli aveva infatti vietato per editto, come abbiam detto (7, 125), a ogni altro artista

di dipingerlo), ma quando Alessandro nella bottega si metteva a parlar d’arte a sproposito,

gli consigliava amichevolmente di tacere, avvertendolo che perfino i ragazzi addetti alla

triturazione dei colori ridevan di lui.

XXXV, 67 – Parrhasios, nato ad Efeso, fu anch’egli autore di molte scoperte. Per il primo

dette alla pittura le norme della simmetria, eseguì per il primo i minuti particolari del viso,

l’eleganza dei capelli, la bellezza della bocca, e, per riconoscimento degli altri artisti,

raggiunse la perfezione nelle linee di contorno dei corpi; le quali costituiscono il maggior

pregio per una pittura. E’ certamente, infatti, prova di grande perizia dipingere i corpi e le

zone centrali degli oggetti, ma è perizia di cui partecipano molti; invece rendere l’estremità

dei corpi e saper racchiudere e limitare il giro dei piani di scorcio, là dove termina l’oggetto

rappresentato: questo raramente riesce bene.

XXXV, 68 – La linea di contorno deve infatti come girar su se stessa, e finire in modo da

lasciar immaginare altri piani e altre linee al di là, quasichè, in certo qual modo, volesse

mostrare anche quelle parti che necessariamente occulta. Questa gloria gli concessero

Antigonos e Xenokrates che scrissero intorno alla pittura, non solo constatando il fatto, ma

predicandolo come norma.

XXXIV, 51 – Nella 113 [Olimpiade] ebbe la sua acme Lysippos, contemporaneo di

Alessandro Magno; e parimenti Lysistratos fratello di lui, Sthennis, Euphron, Eukles,

Sostratos, Ion, Silanion – mirabile costui perché riuscì a diventar famoso senza alcun

maestro; ebbe a discepolo Zeuxiades -; nella 121 (296-293) Eutychides Euthykrates,

Laippos, Kephisodotos, Timarchos, Pyromachos.

XXXIV, 52 – Dopo questa data l’arte del bronzo ebbe un periodo di sosta, ma riprese

nuovamente nell’ol. 156 (156-143), quando vissero, molto inferiori ai predetti, pur tuttavia

assai apprezzati Antaios, Kallistratos, Polykles, Athenaios, Kallixenos, Pythokles, [Pythias,

Timokles].

XXXIV, 53 – […] Fecero anche una gara i più lodati, sebbene non precisamente coetanei,

scolpendo un’Amazzone ciascuno, da dedicarsi nel tempio di Artemis Efesia. Era stato

deciso di accogliere quella che da ciascuno degli artisti stessi, lì presenti, avesse ricevuto il

maggior numero di voti. Risultò esser quella che ciascuno di essi aveva giudicato per

seconda, nel merito, dopo la propria: e cioè quella di Polykleitos. La seconda fu quella di

Pheidias, la terza di Kresilas di Cidone in Creta, la quarta di Phradmon.

XXXV, 95 – C’è, o, meglio, ci fu di lui [di Apelle] un cavallo dipinto per una gara, colla

qual pittura egli chiamò a giudizio, non già gli uomini, ma i cavalli stessi. Essendosi infatti

accorto che i rivali avrebbero vinto la gara per corruzione dei giudici, fatti venire dei cavalli,

mostrò loro le pitture di tutti i concorrenti a uno a uno; essi nitrirono soltanto davanti al

cavallo di Apelles, e ciò avvenne sempre anche dopo, in modo che quel quadro apparve

come una controprova della potenza dell’arte sua.

XXXV, 65 – Dicono che Parrhasios venne a gara con Zeuxis, e mentre questi presentò

dell’uva dipinta così al vero che gli uccelli volaron sul quadro, Parrhasios espose una tenda

dipinta con tanta naturalezza, che Zeuxis, già sicuro della vittoria dopo la prova degli uccelli,

chiese alla fine che togliesse via la tela e mostrasse il quadro; e solo allora, capito l’errore, si

confessò vinto, con aperta franchezza, riconoscendo che egli aveva, sì, ingannato gli uccelli,

ma che Parrhasios aveva giuocato il pittore.

XXXV, 66 – Si dice che in seguito Zeuxis dipingesse un fanciullo che portava dell’uva,

sulla quale, al solito, gli uccelli volarono; e che allora, adiratosi, si fece innanzi colla stessa

ingenua franchezza e disse: “dipinsi l’una meglio del ragazzo, perché, se avessi fatto bene

anche lui, gli uccelli avrebbero dovuto averne paura”.

XXXV, 64 – È criticato tuttavia come troppo grande nelle teste e nelle articolazioni; ma fu,

del resto, così esagerato nella diligenza che, dovendo fare per gli Agrigentini un quadro da

dedicarsi a pubbliche spese nel Tempio di Hera Lacinia, volle prima esaminare le loro

fanciulle nude e ne scelse cinque come modelle affinché la pittura presentasse ciò che di più

perfetto c’era in ciascuna di esse.

XXXV, 76 – [Panfilo di Anfipoli, maestro di Apelle] fu il primo pittore a esser dotto in

tutte le scienze, specialmente in aritmetica e geometria, senza le quali diceva che l’artista non

poteva essere perfetto.

XXXV, 77 – Sull’autorità sua [di Panfilo di Anfipoli] accadde che, in Sicione prima e poi

in tutta la Grecia, i ragazzi di famiglia, prima di ongi altra cosa, imparassero la graphikè,

cioè la pittura su legno, e che questa disciplina fosse annoverata al primo passo delle arti

liberali). E sempre essa ebbe l’onore di essere esercitata da cittdini liberi e in seguito anche

da persone di rango, mentre fu perpetuamente interddetto che la si insegnasse ais ervi.

Pertanto, né in pittura né nella scultura in bronzo sono celebrate opere di schiavi.

XXXV, 56 – Si giudica che Polykleitos abbia portato al massimo splendore (o condensato?

recapitolato?) questa scienza delle proporzioni corporee [Varrone tuttavia dice che egli la

inventò “quadrata”, (cioè: armonicamente costituita sulla corrispondenza di ogni quattro

elementi)] ed abbia perfezionato la scultura in bronzo così come Pheidias la istituì. E’ sua

caratteristica che le statue poggino su di una gamba sola fin quasi all’ultimo esemplare.

(traduzione di Silvio Ferri)

Senofonte, Memorabilia, III 10, 1-8

1. Ma anche quando capitava a Socrate di intavolare una conversazione con qualcuno di

coloro che praticavano professionalmente un'attività manuale, anche a costoro egli era di

giovamento. Una volta per esempio fece visita al pittore Parrasio, e conversando con lui gli

chiese: "Dunque la pittura, Parrasio, è rappresentazione di quel che si vede? Voi infatti

imitate, con l'ausilio dei colori, la profondità e la superficie, l'oscurità e la luminosità, la

durezza e la morbidezza, il ruvido e il liscio, e i corpi giovani e quelli vecchi".

2. "Dici il vero", rispose quello.

"E se volete ritrarre delle forme belle, poiché non è facile imbattersi in un uomo in cui sia

tutto a posto, mettete insieme da molti uomini quel che trovate di più bello in ciascuno, e

così fate in modo che quei corpi appaiano belli in tutte le loro parti".

3. "Così infatti facciamo", fu la risposta.

"Come fate allora - proseguì Socrate - a rappresentare quella che è la parte più attraente,

gradevole, amichevole, desiderabile e amabile, vale a dire la natura dell'anima? Oppure

questo non è rappresentabile affatto?".

Rispose Parrasio: "Come sarebbe mai possibile, Socrate, rappresentare qualcosa che non ha

simmetria né colore, né alcun'altra delle caratteristiche che hai or ora menzionato, anzi è del

tutto invisibile?".

4. "Ma si dà il caso tuttavia - chiese Socrate - che un uomo guardi amichevolmente o

ostilmente altri uomini?".

"A me pare", disse.

"E ciò almeno si potrà rappresentare negli occhi?". "Certo", rispose Parrasio.

"E pensi, poi, che quelli che si preoccupano della ventura o sventura dei propri amici

mostrino lo stesso viso di coloro che rimangono indifferenti?". "Certo, che no, per Zeus! -

esclamò Parrasio - perché alla felicità degli amici quelli si mostrano raggianti di contentezza,

scuri di tristezza dinanzi alla sventura". "Anche questo allora - ribatté Socrate - sarà

possibile rappresentare?". "Certamente", disse Parrasio.

5. "Ma pure la nobiltà, e libertà d'animo, e per contro la bassezza e servilità, e la saggezza e

il giudizio, e la smodatezza e la volgarità si rivelano attraverso l'espressione del viso e

l'attitudine del corpo, sia di individui in riposo che in movimento".

"Hai ragione", disse Parrasio.

"Non sarà allora possibile imitare anche questo?". "Naturalmente", fu la risposta.

Socrate proseguì: "Cos'è allora, a tuo parere, più gradevole alla vista? Uomini di cui traspaia

un bel carattere; buono e amabile, o altri che appaiano turpi, malvagi e odiosi?".

"Per Zeus - ammise Parrasio - c'è una bella differenza”.

6. Andando una volta dallo scultore Clitone, Socrate così io interpellò: Che belli siano

coloro che ritrai, corridori lottatori pugili e pancraziasti, lo vedo sicuro. Ma come fai,

piuttosto, a trasmettere alle tue statue quel che più di ogni altra cosa coinvolge attraverso la

vista le anime degli uomini, ovvero l'impressione che siano vive?".

7. Poiché a queste parole Clitone cadde in un certo imbarazzo, incapace di rispondere

subito, Socrate soggiunse: "Non è forse che riesci a far sembrare vive le tue statue in

quanto modelli il tuo lavoro su figure di viventi?".

"Esattamente", rispose.

"Non è forse rappresentando la tensione e la distensione nei corpi, la compressione e

rallentamento, la concentrazione e il rilassamento, che li fai più somiglianti a quelli veri, e

più persuasivi?".

"Verissimo”, replicò Clitone.

8. "Ma non induce un qualche piacere anche in chi li contempla vedere rappresentate anche

le passioni di corpi in azione?".

"E probabile", fu la risposta.

"Non sarà dunque opportuno rappresentare minacciosi gli occhi di chi sta lottando e lieti

quelli dei vincitori?".

"Lo sarà, assolutamente".

"E in conclusione - concluse Socrate - lo scultore ha da modellare le sue statue sul carattere

dell'anima".

Pausania, Periegesi della Grecia, V, 10, 2

Il dio, in oro e avorio, siede in trono; ha in testa una corona in forma di ramoscelli d’olivo.

Con la destra regge una Vittoria, anche questa d’avorio e d’oro, che ha una benda e sul

capo una corona; nella mano sinistra è uno scettro, intarsiato d’ogni sorta di metalli:

l’uccello che posa sullo scettro è l’aquila. D’oro sono anche i calzari del dio e altrettanto il

mantello; sul mantello sono rappresentati animali e fiori di giglio.

Il trono è variamente ornato d’oro e di pietre, d’ebano e d’avorio; su di esso sono sia figure

dipinte che statue scolpite. Quattro Vittorie in atteggiamento di danzatrici sono rappresentate

su ciascun piede del trono, e altre due si trovano sul collo di ogni piede. Sopra entrambi i

piedi anteriori sono dei fanciulli tebani rapiti da sfingi e sotto le sfingi Apollo e Artemide

colpiscono con dardi i figli di Niobe. Fra i piedi del trono sono quattro regoli, ciascuno dei

quali va da piede a piede. Sul regolo che sta di fronte all’entrata stanno sette statue,

un’ottava è scomparsa, non si sa come; sembra trattarsi di rappresentazioni di gare antiche,

e non di quelle per i ragazzi che esistevano al tempo di Fidia: dicono invero che il

personaggio che si cinge il capo con una benda assomigli nei tratti a Pantarce e che questi

fosse un giovane eleo, amasio di Fidia; e Pantarce conseguì anche una vittoria nella lotta tra

ragazzi nell’86 olimpiade.

Sui restanti regoli sono rappresentati Eracle e i suoi in atto di combattere con le Amazzoni;

il numero dei combattenti delle due parti ammonta a 29 e fra gli alleati di Eracle è schierato

anche Teseo. Non sono solo i piedi a reggere il trono, ma anche delle colonne di altezza

uguale ai piedi poste fra di essi. Non è possibile accedere sotto il trono al modo in cui ad

Amicle entriamo nella parte interna del trono: a Olimpia barriere erette a guisa di pareti

impediscono di raggiungerla.

ERMOGENE DI TARSO, Progymnasmata

L’ekphrasis consiste in un resoconto dettagliato; ha - per così dire – una componente visiva,

e porta davanti agli occhi ciò che deve essere mostrato. Ci sono ekphraseis di persone,

azioni, tempi, luoghi, stagioni, e di molte altre cose […] le virtù più tipiche dell’ekphrasis

sono la chiarezza, la capacità di rappresentazione visiva; lo stile deve riuscire a far vedere

attraverso le parole. E’ ugualmente importante tuttavia che l’espressione sia adatta al

soggetto: se il soggetto è elaborato, lo stile sia altrettanto elaborato, se il soggetto è scarno,

che lo stile sia appropriato”.

ELIO ARISTIDE, Discorsi sacri, (L 29-34 Kreil)

Le stesse cose si ripeterono anche dopo, quando fummo a Smirne. Anzi, ancor prima di entrare in

città, vi furono persone che ci vennero incontro perché si era sparsa la voce del mio arrivo, e i

giovani più in vista mi s i offrivano come allievi, ed era stato già stabilito un certo tipo di

conferenza e fissata in tutti i dettagli la convocazione. In quel periodo un omuncolo egiziano

aveva fatto irruzione nella città, e un po' esercitando la corruzione su alcuni consiglieri, un po'

dando a intendere a certa gente del popolo che si sarebbe dedicato alla vita politica ed avrebbe fatto

con le ricchezze chissà quali straordinarie e generose largizioni, era balzato, comunque sia, alla

ribalta dell'Assemblea, e la città era preda di una s imile vergogna. Di tutto ciò io non ero a

conoscenza (lo venni comunque a sapere più tardi), anche perché mi limitavo a tenere delle

riunioni con i miei amici; ma proprio quando costui si apprestava a presentarsi all'Odeon vicino al

porto, e a tenervi una conferenza - o per pubblico decreto, o non so come -, io feci questo sogno.

Mi pareva di veder sorgere il sole dalla piazza, e di pronunziare questa frase: «Aristide declamerà

nella sala del Consiglio alle ore dieci». Mi svegliai con la sensazione di pronunziare e sentire al

tempo stesso queste parole, al punto che cercavo di capire se era sogno oppure veglia. Convocai i

miei amici più importanti e comunicai loro l'ordine ricevuto. L'annunzio scritto fu esposto proprio

allora, perché già si avvicinava l'ora fissata dal sogno, e di lì a poco ci presentammo sul posto per

parlare. E malgrado quella mia sortita avesse luogo così all'improvviso, e all'insaputa dei più, pure

la sala era così piena che non si scorgeva altro che teste umane, e non c'era posto dove infilare una

mano. E tali furono da parte di tutti le manifestazioni di plauso e di simpatia, anzi, se proprio

dobbiamo dire la verità, di vero e proprio entusiasmo, che non si vide una sola persona seduta né

durante il preludio né quando mi levai a declamare. Fin dalle prime battute si erano alzati in

piedi, e soffrivano gioivano sbigottivano assentivano alle mie parole, e lanciavano grida

mai sentite prima, ciascuno facendo a gara nel tributarmi le lodi più alte. Più tardi, dopo

esserci allontanati dalla sala del Consiglio, mentre eravamo occupati a fare il bagno,

qualcuno mi portò la notizia che quel tale, pur avendo indetto la riunione per quella data

con tre giorni di anticipo, era riuscito a racimolare nell'Odeon diciassette persone in tutto.

E non c'è dubbio che da quel giorno egli incominciò a mettere giudizio.

LUCIANO DI SAMOSATA, La sala, 4, 21

4. […]Alla vista di una sala che non teme confronti per le sua vaste dimensioni, per la sua

splendida bellezza, per l’illuminazione ricca di luce, per il fulgore brillante delle dorature e la

smagliante ricchezza delle pitture, come potrebbe un uomo non cedere al desiderio di

pronunciare un discorso tra quelle mura, se questa fosse la sua attività, come potrebbe non

desiderare di essere onorato e glorificato in quella sala, di riempirla della sua voce e di

divenire, per quanto gli è possibile, parte di quella bellezza? O piuttosto, dopo averla

osservata con attenzione e ammirata soltanto, potrebbe andarsene via e lasciarla vuota e

silenziosa senza rivolgere un saluto o intrattenersi a parlare, come se fosse muto o risoluto a

tacere per invidia? [2] Per Eracle! Questo non è un comportamento che si addica a un

conoscitore o a un esteta, è invece prova di notevole rozzezza, di mancanza di gusto e di

cultura, disprezzare dolcezze supreme come queste, rifiutare i vertici più alti della bellezza e

non accorgersi che i processi della visione non implicano le stesse regole per l’uomo

comune e per la persona colta. […] un uomo colto che osservi qualcosa di bello, secondo

me, non potrà accontentarsi di cogliere quel piacere soltanto con gli occhi, non potrà

tollerare di essere un muto spettatore della bellezza e cercherà invece di prolungare quel

piacere il più a lungo possibile e di rispondere a ciò che vede con le parole […]

21. La perfezione artistica che le pitture rivelano e gli insegnamenti che si ricavano dalle

storie rappresentate, insieme alla loro antichità costituiscono una reale attrattiva, e un piacere

esclusivamente rivolto a un pubblico colto. E perché non guardiate unicamente verso di loro

trascurandoci, ecco che cercherò di descrivervele, per quanto potrò, con le parole. Infatti

penso che sarà un piacere per voi ascoltare ciò che già ammirate con gli occhi. E forse

proprio per questo mi loderete e mi anteporrete al mio avversario, pensando che le ho

descritte a parole e ho raddoppiato il vostro piacere. Ma considerate la difficoltà di questa

impresa temeraria, comporre immagini così belle senza colori, né disegno né tela. Tenue

pittura è infatti quella delle parole.

La sala, 5-6Senza dubbio il nostro riparo non ha confronti con la mera ombra di un albero o con la bellezza di un platano, neppure se, ponendo da parte quello dell’Ilisso, ci si riferisse al platano d’oro del re di Persia, quell’albero infatti era una meraviglia unicamente per il suo valore venale, lavorata e combinata con l’oro non c’era alcuna maestria tecnica, bellezza, grazia, proporzione, eleganza. Era uno spettacolo da barbari, semplice sfoggio di ricchezza, fonte di invidia per chi lo osservava e di autocompiacimento per chi lo possedeva; non c’era nulla da lodare in esso. E infatti agli Arsacidi non interessava affatto la bellezza e non sfoggiavano le loro opere per dar piacere a chi le osservava, non avevano a cuore le lodi degli spettatori ma piuttosto la loro attonita meraviglia. I barbari non sono amanti del bello, ma della ricchezza. Invece la bellezza di questa sala non si addice a occhi barbari, né allo sfarzo Persiano, o all’ostentazione dei re, e non è pensata solo per uno spettatore povero, ma per un osservatore colto che non giudichi con i soli occhi ma che accompagni lo sguardo con la riflessione.

Zeusi o Antioco

Adagiata sopra un tappeto di erba rigogliosa è dipinta la centaura; questa è rappresentata

con tutto il corpo equino disteso a terra; le zampe posteriori sono allungate indietro, la parte

del corpo che è simile al busto di una donna è invece leggermente sollevata e si appoggia

sul gomito. Le zampe anteriori non sono ancora distese come ci si potrebbe aspettare nella

posizione adagiata su un fianco, ma una zampa è piegata con lo zoccolo abbassato, e sembra

in procinto di inginocchiarsi, mentre l’altra, al contrario, si sta drizzando ed è ben fissata al

suolo, come fanno i cavalli quando stanno per saltare. La madre tiene sollevato tra le braccia

uno dei due figli e lo nutre porgendogli il seno, come fanno le donne, l’altro invece riceve

dalle mammelle di cavalla, come un puledro. Nella parte superiore del dipinto, come su un

punto di vedetta, si trova un ippocentauro, evidentemente il marito della femmina che sta

allattando i suoi piccoli in due modi diversi. Egli si piega e ride, senza essere visibile in tutta

la sua figura, ma solo fino a metà del suo corpo equino; nella destra tiene sollevato sopra di

sé un cucciolo di leone, per spaventare per gioco i suoi piccoli.

Le altre qualità del quadro, che non sono completamente afferrabili per profani come me,

ma che tuttavia mostrano la potenza della sua abilità tecnica - mi riferisco per esempio alla

precisione delle linee, alla calcolata commistione dei colori e all’abilità della pennellata,

all’uso corretto delle ombreggiature, al calcolo delle misure, all’esatta proporzione delle

parti che si fondono in un’armonica unità – devono essere ammirate dagli allievi dei pittori,

fa parte infatti del loro lavoro conoscerle.

Per parte mia, io ho apprezzato di Zeusi soprattutto questo elemento. Che in uno stesso

soggetto egli sia riuscito a mostrare in modo così vario la sua eccezionale maestria tecnica.

Ha infatti rappresentato il maschio in modo che suscitasse paura in tutto il suo aspetto, e

apparisse completamente selvaggio. Egli ha infatti una superba criniera ed è quasi

interamente coperto di peli non solo nella parte equina, ma anche in quella umana,

soprattutto sul petto e sulle spalle. Il suo sguardo, sebbene sorridente, è quanto mai

selvatico, come quello delle fiere dei monti.

E questi sono i tratti che più di lui mi hanno colpito. Quanto alla femmina, invece, essa ha

uno splendido corpo equino, come quello delle cavalle tessale non ancora domate e non

montate; bellissima è anche la parte superiore di donna, a parte le orecchie, il solo elemento

della figura a ricordare i satiri. L’attacco e l’impercettibile fusione dei due corpi, nel punto in

cui la parte equina si lega a quella di donna e si fonde a essa, è realizzato con un mutamento

impercettibile, senza bruschi passaggi, e l’occhio gradatamente è condotto da uno all’altro

senza percepire variazioni.

Quanto ai piccoli, la loro tenerezza infantile non nasconde tuttavia la loro natura selvaggia e

dietro la delicatezza dei loro volti si intuisce già un elemento che incute paura – e questo,

secondo me, è un risultato veramente meraviglioso. Come pure degno di ammirazione è il

modo in cui essi guardano il cucciolo del leone, proprio come dei bambini, tenendosi tutti e

due attaccati alle mammelle della madre e stringendosi al suo corpo.

(traduzione S. Maffei)

FLAVIO FILOSTRATO, Immagini

Proemio

Chi non ama la pittura fa torto alla verità ed è ingiusto anche verso la sapienza che

appartiene ai poeti – essendo entrambe le arti vocate ad esprimere le imprese e i ritratti degli

eroi – e non apprezza neppure il senso delle proporzioni, grazie al quale l’arte appartiene

alla dimensione della ragione. Anzi, a voler cavillare, si potrebbe dire che la pittura è

un’invenzione degli dei, sia per gli aspetti che assume la terra quando le Stagioni dipingono

in vario modo i prati, sia per i fenomeni celesti; se poi qualcuno volesse approfondire le

ricerche sull’origine dell’arte, scoprirebbe che l’imitazione è l’invenzione più antica e più

vicina alla natura: fu scoperta di uomini saggi che la chiamarono pittura o arte plastica. Vi

sono molti generi di plastica (e infatti è plastica l’imitazione realizzata in bronzo, scolpire il

marmo ligdio o quello pario, ed anche l’avorio o intagliare gemme, per Zeus, è un tipo di

plastica). La pittura invece si serve dei colori, ma non fa solo questo, perché realizza

abilmente più con questo solo strumento che non le altre arti con molti. Svela infatti l’ombra

e conosce lo sguardo di chi è infuriato, di chi è afflitto o di chi è gioioso. Lo splendore degli

occhi, poi, quale che sia, l’artista plastico non riesce a realizzarlo in nessun modo, mentre la

pittura conosce bene l’occhio vivace, quello ceruleo e quello nero, distingue la chioma

bionda dalla fulva, da quella chiara come il sole, conosce il colore del sole delle vesti delle

armi, raffigura stanze, case, boschi, monti, sorgenti e l’etere che racchiude ogni cosa.

1. Lo Scamandro

Ragazzo mio, lo sapevi che questa pittura si fonda su Omero o non lo sapevi affatto, dato

che consideri straordinario il fatto che il fuoco possa vivere nell’acqua? Cerchiamo allora di

capire che cosa significa; tu, però, stacca gli occhi dal quadro, in modo da prendere in

considerazione solo gli eventi da cui il dipinto dipende. Tu conosci il passo dell’Iliade in cui

Omero fa insorgere Achille per via di Patroclo e gli dei si muovono a combattere tra loro.

Ma di queste cose relative agli dei , il dipinto null’altro mostra di conoscere se non

l’episodio di Efesto che imperversa per largo tratto e con forza contro lo Scamandro. Ora

guarda di nuovo il quadro: tutto deriva da quel passo. Questa è la città alta e questa la rocca

di Ilio, questa è la vasta pianura capace di contenere l’Asia schierata contro l’Europa, questo

è il fuoco che, sterminato, invade la pianura e in gran parte serpeggia attorno alle rive del

fiume, al punto che non vi sono più alberi. E ormai il fuoco che Efesto porta con sé, scivola

sull’acqua e il fiume ne soffre e supplica il dio. Il fiume, però, non è dipinto con le chiome,

perché sono state bruciate, né Efesto è dipinto zoppicante, perché sta correndo e la fiamma

del fuoco non è rosseggiante e non ha l’aspetto consueto, ma è dorata e solare. Questi

elementi però non derivano da Omero.

4, Meneceo

Questo è l’assedio di Tebe: ecco infatti le mura con le sette porte e l’esercito di Polinice, il

figlio di Edipo: perciò l’armata si divide in sette compagnie. Si accosta Amfiarao con volto

mesto, perché conosce ciò che accadrà; ma anche gli altri capi hanno timore (per questo

levano le mani verso Zeus), mentre Capaneo guarda sprezzante le mura, ritenendo i bastioni

facili da scalare. Lui non è stato ancora respinto dai bastioni, perché i Tebani indugiano a

iniziare il combattimento. Piacevole è l’artificio del pittore che, collocando sulle mura degli

uomini armati, alcuni li fa vedere interi, altri coperti fino alle gambe, di altri si vede solo il

petto, di altri solo la testa, poi gli elmi, infine le aste. Ragazzo mio, questa sì che è

prospettiva: bisogna infatti ingannare con opportuni piani pittorici gli occhi che percorrono

il quadro.

(traduzione di G. Schilardi)

Flavio Filostrato, Vita di Apollonio di Tiana, II, 22

Mentre stava nel tempio – e vi trascorse molto tempo, finché venne annunciato al re che

erano arrivati degli stranieri – Apollonio chiese: “O Damis, pensi che la pittura sia

qualcosa?”.

“Certo, senza alcun dubbio”.

“E qual è l’atto proprio di quest’arte?”.

“Mescola insieme” rispose “tutti i colori che esistono, l’azzurro al verde, il bianco al nero e

il rosso al giallo”.

“E per quale motivo li mescola?” riprese Apollonio, “non certo per ottenere soltanto un

effetto cromatico, come si fa con i belletti”.

“Lo fa allo scopo di imitare” rispose Damis “per raffigurare un cane e un cavallo, un uomo,

una nave e tutte quante le cose che il sole contempla; anzi, raffigura pur e il sole stesso, ora

portato da quattro cavalli secondo la tradizione di questi paesi, altre volte mentre percorre il

cielo con una face, quando si rappresentano l’etere e la dimora degli dei”.

“Dunque la pittura è un’imitazione, Damis?”

“E che altro?” rispose, “se non fosse questo il suo oggetto, non sarebbe che un gioco

insensato con i colori”.

“E le figure che si vedono nel cielo quando le nubi si disperdono qua e là, i centauri e i

capricervi, per Zeus, e i lupi e i cavalli, cosa dirai che sono? Non sono forse opere

d’imitazione?”

“Direi di sì”

“Dunque il dio è un pittore, Damis, e disceso dal carro alato su cui viaggia ordinando le

cose divine e le umane, in questi momenti si siede a divertirsi e a disegnare queste figure

come fanno i bambini nella sabbia?”.

Damis allora arrossì, poiché sembrava che il suo discorso si prestava a tali assurdità. Ma

Apollonio, che nelle sue confutazioni evitava ogni asprezza, non volle trattarlo con

superiorità: “Ma tu certo non vuoi dire questo, Damis” riprese, “bensì che tali immagini

passano per il cielo senza alcun significato e affatto a caso per quanto riguarda il dio, e che

noi vi ricostruiamo e suscitiamo immagini perché siamo per natura inclini all’imitazione?”.

“Questa” rispose, “mi pare l’opinione più plausibile, o Apollonio, e di gran lunga migliore,

e perciò teniamoci ad essa”.

“Duplice è dunque l’imitazione, o Damis; quella che imita con la mano e con la mente è la

pittura, mentre l’altra rappresenta solo con la mente”.

“Non direi duplice” ribatté Damis, “poiché l’una, ossia la pittura, conviene ritenerla più

perfetta, in quanto imita con la mente e con la mano; mentre l’altra è una parte di questa,

dato che uno considera e imita la realtà soltanto con la mente, non potendo servirsi anche

della mano per raffigurarla, poiché non sa dipingere”.

“Forse, o Damis, perché ha perduto l’uso della mano in seguito a una ferita o a una

malattia?”

”No, per Zeus” rispose Damis, “ma perché non ha mai tenuto in mano un pennello, né un

altro strumento da disegno o un colore, ed è affatto inesperto dell’arte”.

“Dunque, o Damis” riprese Apollonio, “siamo entrambi d’accordo che la facoltà mimetica

proviene all’uomo dalla natura, la capacità pittorica dall’arte: e lo stesso si potrebbe dire

anche della scultura. Ma, a quanto pare, non limiti la pittura a quella che ricorre ai colori, e

in effetti i pittori più antichi si appagarono di un solo colore e soltanto con il passare del

tempo ne vennero in uso quattro, e poi molti: sì che conviene chiamare pittura pure il

disegno eseguito senza colori, che si basa sull’effetto di ombre e luci. Anche in queste

opere infatti osserviamo la somiglianza, l’aspetto e la mente, il ritegno e l’ardimento,

sebbene in esse manchino affatto i colori. Non vi sono rappresentati il sangue, né il fiore

della chioma o della barba, ma queste immagini composte in un solo colore concedono di

ravvisare la somiglianza ora con uomo biondo, ora con uno canuto; e se rappresentiamo

uno di questi indiani con un disegno senza colore, si vedrà ugualmente che si tratta di un

moro, perché il naso camuso, i capelli crespi, la mascella prominente e una certa espressione

attonita nello sguardo stendono quasi un colorito scuro sull’immagine e raffigurano un

indiano, almeno per chi sappia guardare con intelligenza. Per questa ragione direi che anche

quanti contemplano le opere dell’arte figurata abbiano bisogno di facoltà mimetica: non è

infatti possibile lodare un cavallo o un toro dipinto, senza avere in mente l’animale che

l’autore ha inteso rappresentare. Né alcuno potrebbe ammirare l’Aiace di Timomaco,

raffigurato in preda alla follia, senza richiamare alla mente una certa immagine di Aiace e

figurarsi come egli, sterminate le greggi intorno a Troia, sedesse sfinito, volgendo

nell’animo il proposito di uccidere anche se stesso. Ma queste raffinate opere di Poro, o

Damis, non le considereremo soltanto appartenenti all’arte del bronzo, poiché sono

paragonabili a dipinti, né appartenenti solo alla pittura dato che sono lavorate in bronzo.

Penseremo piuttosto che le abbia create un artista valente nell’arte del bronzo e nella pittura,

a un dipresso come è descritta in Omero l’arte di Efesto a proposito dello scudo di Achille.

Anche questo infatti è pieno di uomini che uccidono e sono uccisi, e diresti che la terra,

sebbene sia di bronzo, sia coperta di sangue.

Flavio Filostrato, Vita di Apollonio di Tiana, VI, 19

E Apollonio riprese: “Degli dei tratterà il mio primo quesito: per quale motivo avete dato

agli uomini di questo paese stravaganti e ridicole immagini degli dei, ad eccezione di pochi?

Ma che dico pochi? Invero sono pochissimi ad essere raffigurati secondo sapienza e in

modo conveniente alla divinità; tutte le altre vostre effigi sacre paiono un onore reso ad

animali privi di ragione e di dignità, anziché a dei”.

Si risentì Tespesione e replicò: “E le vostre immagini, secondo te, come sono fatte?”.

“Secondo la maniera più bella e devota di raffigurare gli dei”.

“Certo ti riferisci allo Zeus di Olimpia e alla statua di Atena e a quella della dea Cnidia e

dell’Argiva, e a tutte le altre che sono altrettanto belle e piene di grazia”.

“Non solo a queste” rispose Apollonio “ma io sostengo che in generale l’arte figurata

presso gli altri popoli si attiene alle norme del decoro, mentre voi vi prendete gioco della

divinità, anziché renderle il culto dovuto”.

“Forse che i Fidia e i Prassitele” obiettò Tespesione “salirono al cielo e presero l’impronta

degli dei, per poi riprodurli nella loro arte, oppure qualche altro impulso guidò la loro

creazione?”.

“Fu un’altra cosa, piena di sapienza”.

“E quale? Non mi dirai che sia stato qualcos’altro che l’imitazione”.

“Fu l’immaginazione a creare queste effigi, che è artista più sapiente dell’imitazione.

L’imitazione può creare soltanto ciò che ha visto, ma l’immaginazione crea anche quel che

non ha visto, poiché può formarsene l’idea in riferimento alla realtà. Inoltre l’imitazione è

sovente sconvolta dal terrore; ma nulla può turbare l’immaginazione, poiché essa procede

impavida verso l’idea che da se stessa si è fatta. Invero, per raffigurare l’aspetto di Zeus

occorre vederlo insieme con il cielo, con le stagioni dell’anno, con gli astri, come a quei

tempi osò fare Fidia; e chi vorrà effigiare Atena conviene che rivolga la mente agli eserciti e

all’intelligenza e alle arti, considerando come balzò fuori da Zeus stesso. Ma se tu

rappresentassi un falcone, una civetta, un lupo o un cane, e li portassi nei templi in luogo di

Hermes, Atena e Apollo, gli animali e gli uccelli appariranno più degni di venerazione a

causa di quelle immagini, mentre gli dei finiranno per decadere dall’onore che spetta loro”.

Tespesione replicò: “A me pare che tu critichi i nostri usi senza averne approfondito il

senso. Se qualche sapienza si ritrova fra gli Egiziani, è proprio il fatto di non raffigurare

temerariamente le immagini degli dei, bensì di rappresentarli in forma simbolica ed allusiva,

poiché così appaiono ancor più degni di venerazione”.

Allora Apollonio disse con una risata: “O uomini, avete tratto gran giovamento dagli

Egiziani e dagli Etiopi, se un cane, un ibis e un caprone parranno più di voi venerandi e

simili agli dei: poiché questo sento dire dal sapiente Tespesione. Ma cosa c’è di venerando

o di terribile in queste immagini? Gli spergiuri, i sacrileghi e la turba dei parassiti è logico

che le spregino, anziché averne timore; e se esse ottengono venerazione per il loro senso

riposto, gli dei dell’Egitto sarebbero molto più venerati qualora si rinunciasse affatto ad

effigiarli e voi fondaste la vostra teologia su un’altra ragione, più sapiente e recondita. Era

certo possibile erigere templi in loro onore e istituire altari, stabilire sacrifici leciti e quelli

vietati, definire quando si dovessero fare e in quale misura, con quali formule e con quali

riti: e non esporre effigi, bensì lasciare che i devoti si immaginassero da sé l’aspetto degli

dei. La mente sa delineare e plasmare figure meglio dell’arte, ma voi avete sottratto agli dei

il privilegio sia di essere visti, sia di essere immaginati secondo bellezza”

(traduzione D. Del Corno)

Notula de olea Sanctorum martyrum qui Romae in corpore requiescunt idest:

sancti Petri apostholisancti Pauli apostholi

[sanct]I Pancratisancti Arthemisanctae Sofiae cum tres filias suassanctae Paulinaesanctae Lucianesancti Processisancti Martiniani

III

[sancti G]risantis[sancti I]ason…[sancti Satu]r [n]ini…

IVsancti L[aurenti]sancti [Y]pp[oliti]

Vsancti Y[…]gion sanctus Iohannis

et Paulus[san]c[ti] Grisanti[sanct]ae D[a]riaesancti Maurisancti Iason[at a]li[i] sancti multa miliasancti Sat[u]rninisancti [Aupi]nionis

sancti Systi[sanct]i L[au]renti[san]cti [Ypp]oliti

Sanctorum Iohannis et Pauli

VI… [san]cta Sapientia sancta Spes sancta Fides sancta Caritas sancta Caecilia sanctus

Tarsicius … et multa milia sanctorum

VIIsanctus Systus sanctus Liberalis sanctussanctae Agnetis et aliarum multarum martyrumsancti Y[…]ion

sanctae Sotherissanctae Sapientiaesanctae Speisanctae Fidessanctae Caritatissanctae Caeciliaesancti Tarsiciisancti Corniliiet multa milia sanctorum

sancti Iohannis sancti Liberalissanctus Blastro et multa milia sanctorumalii CXXII et alii sancti XL

VIIIsancta Felicitas cum septem filios suos sanctus Bonifatius sanctus Hermis sanctus Protus sanctus … sanctus Maximilianus sanctus Crispus sanctus Herculanus sancta Basillasancti Blastro et multorum sanctorumdes at alii sancti idest CCLXIIin unum locum et alii CXXIIet sancti XLV quos omnesIustinus presbiter colligasancti Laurenti martyrus sepelivit

sanctae Felicitatis cum septem filios suos sancti Bonifatisancti Hermitis sancti Protisancti Iacintisancti Maximilianisanctus Crispus

sanctus Herculanus sanctus Bausussancta Basilla

VIIIsedes ubi prius sedit sanctus Petrus et oleo sanctus Alexander sanctus Martialis sanctus Marcellussancti Silvestri sancti Felicis sancti Filippi et aliorum multorum sanctorum

Xsancti Sevastiani sanctus Eutycius sanctus Quirinus sanctus Valerianus sanctus Tiburtius sanctus Maximus sanctus Orbanus sanctus Ianuarius

oleo de sede ubi prius sedit sanctus Petrus sancti Vitalissancti Alexandrisanctus Martialis sanctus Marcellussancti Silvestri sancti Felicis sancti Filippi et aliorum multorum sanctorum

sancti Sevastiani sancti Eutycius sancti Quirinus sancti Valerianus sancti Tiburtius sancti Maximisancti Orbanisancti Ianuarii

XI sancta Petronilla sanctus Nereus sanctus Acilleussanctus Damasus sanctus Marcellianus sanctus Marcus

XIIsanctae Petronillaesancti Nereisancti Damasisancti Marcellianisancti Acilleisancti Marci

Quas olea sancta temporibusDomni Gregorii papae adduxit Iohannis indignus et peccator domnae Theodelindae reginae de Roma

ITINERARIO DI EINSIEDELN

1. DA PORTA SAN PIETRO FINO A SANTA LUCIA IN ORPHEA

Alla sinistra - Il Circo Flaminio. Alla destra - San Lorenzo in Damaso.La Rotonda. Il Teatro di Pompeo. Il Cipresso.Le Terme di Commodo. San Lorenzo. II Campidoglio.

Il Foro Traiano e la sua colonna. La chiesa di San Sergio, dov’è l'Ombelico di Roma.

ll Tevere L'ARCO DI SEVERO. La chiesa di Sant'Adriano. Il Cavallo di Costantino.La chiesa di San Ciriaco. IL FORO ROMANO.La chiesa di Sant'Agata;

dove sono le immagini di Paolo e di santa Maria. LA SUBURRA.

Le Terme di Costantino. Santa Pudenziana nel vicolo Patrizio. La chiesa di san Vitale in vicolo Lungo, San Lorenzo in Formonso, dove Lorenzo fu

dove ci sono i bellissimi cavalli. arso.Di nuovo attraverso la Suburra.

La chiesa di Sant'Eufemia nel vicolo Patrizio. Le Terme di Traiano. Verso San Pietro in Vincoli

2. DA PORTA SAN PIETRO FINO A PORTA SALARIA

Alla sinistra - La chiesa di Sant'Apollinare Alla destra - Il Circo Flaminio;lì la chiesa di

Sant'Agnese. Le terme Alessandriane e la

chiesa di Sant'Eustachio.

San Lorenzo in Lucina. La Rotonda e le terme Commodiane.

L'Obelisco. L'ACQUEDOTTO La Colonna Antonina.DELL'ACQUA VERGINE.

San Sílvestro; ivi un bagno. Santa Susanna e l'acqua dell'acquedotto Lateranense

San Felice al Pincio. Le terme Sallustiane e la piramide

3. DA PORTA NOMENTANA FINO AL FORO ROMANO

Sulla sinistra - Le Terme di Diocleziano. Sulla destra - Le terme Sallustiane.La chiesa di San Ciriaco. La chiesa Santa Susanna e i cavalli di marmo.

di San Vitale.La chiesa di Sant'Agata in diaconia. La chiesa di San Marcello.Il monastero di Sant'Agata. Verso gli Apostoli.Le terme di Costantino. Il foro di Traiano.

La chiesa di Sant'Adriano.Sulla via Nomentana fuori le mura: Sulla sinistra - La chiesa di Sant'Agnese. Sulla destra - La chiesa di San Nicomede.

4. DA PORTA FLAMINIA FINO A VIA LATERANENSE

Il Pariturio. La chiesa di San Lorenzo in

Lucina.La chiesa di San Silvestro. E cosìattraverso il portico fino alla colonna ANTONINA L'obelisco.L'acquedotto crollato La colonna Antonina.

dell'acqua Vergine.La chiesa di San Marcello. Ancora

attraverso il portico fino via Lateranense.Agli Apostoli. Le terme Alessandriane.

La chiesa di Sant'Eustadio e la Rotonda.

Le terme Commodiane.Il tempio di Minerva e verso

San Marco.Sulla via Flaminia fuori le mura:Sulla sinistra – Il Tevere Sulla destra – La chiesa di San

Valentino

5. DA PORTA TIBURTINA FINO ALLA SUBURRA

La chiesa di Sant'Isidoro. L'acquedotto Claudiano.La chiesa di Sant'Eusebío. La via Le terme di Diocleziano.

sotto il monte San Vito. La chiesa di Sant'Agata.La chiesa di Santa Maria in Presepio. La chiesa di San Vitale.Ancora la chiesa di San Vito. La chiesa di Santa Pudenziana.La chiesa di Sant'Eufemia. La chiesa di San Lorenzo in

Formonso, dove fu arso.

Il Monastero di sant'Agata.

6. UN'ALTRA VIA TIBURTINA FINO A SAN VITO

L'acquedotto Claudíano. ATTRAVERSO L'ARCOLa chiesa di Sant'Agata.La chiesa di Santa Bíbiana. IL NINFEO La chiesa di Sant'Eusebio.In via Tiburtina fuori le mura:Sulla sinistra - La chiesa di Sant'Ippolito. Sulla destra – La chiesa di San Lorenzo

7. DA PORTA AURELIA FINO A PORTA PRENESTINA

La fonte di San Pietro, dov'è il suo carcere. I mulini. La Mica Aurea La chiesa di Santa Maria.

La chiesa dei Santi Giovanni e Paolo. La chiesa di San Crisogono e quella di Santa Cecilia.

ATTRAVERSO IL PONTE: MAGGIORE.La chiesa di San Giorgio. La chiesa Il Palatino. Verso la chiesa di San Teodoro.di San Sergio.

ATTRAVERSO L'ARCO.Il Campidoglio. L'ombelico. Santa Maria Antiqua.

Il cavallo di Costantino.La chiesa di Sant'Adriano. La chiesa dei Santi Cosma e Damiano.

IL FORO ROMANOLa chiesa di San Ciriaco e Il palazzo di Traiano;

di lì verso le terme di Costantino. San Pietro in

Vincoli.Il Monastero di Sant'Agata.

LA SUBURRA. Santa Lucia in Orphea.La chiesa di San Lorenzo in Formonso. La chiesa di San Silvestro e di San Martino

La chiesa di San Vitale. SantaPudenziana e Sant’Eufemia Il palazzo presso Gerusalemme.Santa Maria Maggiore. Il palazzo di Pilato.

Gerusalemme 50. San Vito. Il Ninfeo. L'anfiteatro.Santa Bibiana. L'acquedotto lateranense. Il

monastero di Onorio.

L'acquedotto Claudiano. PORTA PRENESTINAIn via Prenestina fuori le mura: L’acquedotto Claudiano.Sant'Elena. San Marcellino e Pietro

8. DA PORTA SAN PIETRO FINO A PORTA ASINARIA

ATTRAVERSO L'ARCO.

Il circo Flaminio; ivi Sant'Agnese. La chiesa di San Lorenzo in Damaso.Le terme Alessandrine. Il teatro di Pompeo.

La chiesa di Sant'Eustachio. La Rotonda. Il cipresso.

Le Terme Commodiane. La chiesa di San Lorenzo.

Il tempio di Minerva; ivi Santa Maria in II Campidoglio.

Minerva.Verso San Marco. La chiesa di San Sergio; ivi è

l'Ombelico di Roma.Il Foro di `I'raiano e la sua colonna. La chiesa di San Giorgio.

Il Tevere DRITTI ATTRAVERSO L'ARCO DI SEVEROLa chiesa di Sant'Adriano. IL FORO ROMANO Santa Maria Antiqua. La chiesa dei Santi Cosma e Damiano. Verso San Teodoro.Il Palazzo di Nerone. La chiesa di San Pietro Il Palatino.

Il Testamento. L'arco di Costantino.Verso San Pietro in Vincoli. L'arco di Tito e Vespasiano.Il Palazzo di Traiano. L’Anfíteatro. Meta sudanteVerso San Clemente Il capo d’Africa.Il monastero di Onorio. L’acquedotto Claudiano. I Quattro Coronati.Il Patriarcato Lateranense. San Giovanni in Laterano.

9.DALLE SETTE VIE FINO A PORTA ME TRONIA

Sulla sinistra. La chiesa dei Santi Giovanni Sulla destra. II monastero di Sant'Andrea

e Paolo. Clivuscauri.L'acquedotto Lateranense. Verso Santo Stefano sul monte Celio.Verso Sant'Erasmo.

Santa Maria Dominica Di nuovo un'altra via da porta

MetroniaSulla destra - Verso San Sisto.

Lungo la via Latina dentro la città:Sulla sinistra – La chiesa di san Giovanni

Fuori della città:Sulla sinistra - L'Oratorio di Santa Maria. Sulla destra - La chiesa di San Gennaro.

L'Oratorio di San Sisto.La chiesa di San Gordiano. Sant'Eugenia. Verso San Teodoro.

10 . DA PORTA APPIA FINO ALLA SCOLA GRAECA. LUNGO LA VIA APPIA

L'ACQUEDOTTO GIOVIOLa nicchia in rovina.

L'ARCO DELLA RIMEMBRANZA.Le Terme Antoniniane. La chiesa di San Sisto.La chiesa di Nereo e Achilleo.

DI LÀ ATTRAVERSO IL PORTICO FINO ALL'ACQUEDOTTO. ATTRAVERSO LE SETTE VIE

Sulla sinistra - Il Circo Massimo. Sulla destra - Santa Lucia. II Monte Aventino. Il Settizonio. II Palatino.E così attraverso il portico fino a Sant'Anastasia.

Ancora nella stessa via fuori della città: verso San Gennaro. Santa Petronilla. La chiesa di

Nereo e Achilleo.La chiesa di Marco e

Marcelliano. Verso San Soter.

Dove Sisto fu martirizzato. Le chiese dei Santi Cornelio, Sisto, Fabiano, Sant'Eugenia. Antero e Milziade.Verso San Teodoro. Verso San Sebastiano.

11. LUNGO LA VIA POR'TUENSE FUORI DELLA CITTÀ: SULLA DESTRA ABDO E SENNES

Sulla via Aurelia fuori della città:[Sulla sinistra] La chiesa di San Pancrazio. Sulla destra - La chiesa di

Processo e Martiniano.

Sulla via Salaria fuori della città:[Sulla sinistra] La chiesa di San Saturnino. Sulla destra - La chiesa di

Santa Felicita coi 7 figli.

Sulla via Pinciana fuori della città: [Sulla sinistra] La chiesa di Santa Bassilissa. Sulla destra - La chiesa di San

Panfilo.La chiesa di Proto e Giacinto. La chiesa La testa di San Giovanni.

di Sant'Ermete.

MIRABILIA URBIS ROMAE

1. Le mura della città di Roma hanno 366 torri, 49 torri fortificate, 6900 merli, 12

porte escluse quelle trasteverine, 5 postierle. Il loro circuito misura 22 miglia, eccetto

il tratto al di là del Tevere e la città Leonina.

2. Queste sono le porte di Roma: porta Capena, che è chiamata di San Paolo presso il

sepolcro di Remo; porta Appia; porta Latina; porta Mitrovi; porta Asinarica

Lateranense; porta Labicana, che è chiamata Maggiore; porta Taurina, che è detta di

San Lorenzo o Tiburtina; porta Nomentana; porta Salaria; porta Pinciana; porta

Flaminía; porta Collina presso il castello di Adriano. Porte Trasteverine: porta

Settimiana [le sette Naiadi legate a Giano]; porta Aurelia o Aurea; porta Portese.

3. Questi sono gli archi trionfali: l'arco Aureo di Alessandro vicino a San Celso; l'arco

degli imperatori Teodosio, Valentiniano e Graziano presso Sant'Orso; l'arco trionfale

fuori di porta Appia presso il tempio di Marte; nel Circo l'arco di Tîto e Vespasiano;

l'arco di Costantino presso l'Anfiteatro; l'arco delle Sette Lucerne di Tito e Vespasiano

presso Santa Maria Nuova, tra il Pallanteo e il tempio di Romolo; l'arco di Cesare e dei

senatori tra il tempio della Concordia e il tempio Fatale; vicino a San Lorenzo in Lucina

c'è l'arco trionfale di Ottaviano; poi, vicino, l'arco che ora è detto di Antonino. C'è l'arco

presso San Marco chiamato Mano Carnea; nel Capitello l'arco del Pane Aureo.

4. Questi sono i monti all'interno della città: il Gianicolo; l'Aventino che è detto anche

Quirinale; il monte Celio; il Campidoglio; il Pallanteo; l'Esquilino; il Viminale.

5. Terme: Antoniane; Domiziane; Massimiane; di Licinio; Diocleziane; Tiberiane;

Novaziane; dell'Olimpiade; Agrippine; Alessandrine.

6. Palazzi: il palazzo maggiore nel Pallanteo; il palazzo di Severo; il palazzo di Claudio; il

palazzo di Costantino; il palazzo Sessoriano; il palazzo Volusiano; il palazzo Romoliano;

il palazzo Traiano. [Nel palazzo Romoliano ci sono due templi, della Pietà e della

Concordia, dove Romolo pose la propria statua in oro, dicendo: «Non cadrà, finché non

partorisca una vergine». Subito, appena la vergine partorì, la statua crollò]; il palazzo di

Traiano e di Adriano, dov'è la colonna; il palazzo di Costanzo; il palazzo di Sallustio; il

palazzo di Camillo; il palazzo di Antonino dov'è la colonna; il palazzo di Nerone, dov'è il

sepolcro di Giulio Cesare; il palazzo di Cromazio, il palazzo di Tito e Vespasiano fuori

Roma, alle Catacombe; il palazzo di Ottaviano.

7. Teatri: il teatro di Tito e Vespasiano alle Catacombe; il teatro di Tarquinio e degli

imperatori al Settizonio; il teatro di Pompeo a San Lorenzo in Damaso; il teatro di

Antonino presso ponte Antonino; il teatro di Alessandro presso Santa Maria Rotonda; il

teatro di Nerone presso il castello di Crescenzio; e il teatro Flaminio.

8. Questi sono i luoghi che si ritrovano nelle passioni dei santi: il tempio di Marte fuori

porta Appia, dove il beato Sisto fu decollato e dove il Signore apparve a Pietro ed egli

disse: «Signore, dove vai?»; dentro la porta l'arco della Stilla ; quindi la regione di

Fasciola presso San Nereo; il vico Canario presso San Giorgio, dove fu la casa di

Lucillo, lì c'è il Velo aureo; l'acqua Salvia presso Sant'Anastasio, dove fu decollato il

beato Paolo; l'orto di Lucina, dov'è la chiesa di San Paolo e dove egli riposa; inter lude,

cioè tra i due giochi, il clivio Scaurio, che è tra l'anfiteatro e lo stadio; davanti al Settizonio

c'è la cloaca dove fu gettato san Sebastiano, che rivelò la presenza del proprio corpo a

Lucina dicendo: «Troverai il mio corpo pendente da un gancio»; la via Cornelia [...] per

ponte Milvio ed esce per una strada lastricata; la via Aurelia presso il Girolo; la scala di

Eliogabalo all'ingresso del Palazzo; e l'isola Catenata dopo la chiesa della Santa Trinità;

l'arco Stillante davanti al Settizonio l'arco Romano tra l'Aventino e il piccolo Albiston,

dove il beato Silvestro e Costantino si baciarono e si salutarono; in Tellure, cioè in

Canapara, dove fu la casa della Terra; il carcere Mamertino davanti a Marte sotto il

Campidoglio; il vico Laterano presso Santa Prassede; il vico Patrizio presso Santa

Pudenziana; la basilica di Giove a San Quirico; le terme dell'Olimpiade, dove fu arrostito

il beato Lorenzo, in Panisperna; il palazzo Tiberiano dove Decio e Valeriano si ritirarono

alla morte del beato Lorenzo; il circo Flaminio al ponte dei Giudei; in Trastevere il tempio

dei Ravennati che effonde olio, dov'è santa Maria.

9. Questi sono i ponti: ponte Milvio; ponte Adriano; ponte Neroniano 4z; ponte

Antonino; ponte Fabrizio; ponte Graziano; ponte dei Senatori; il ponte marmoreo di

Teodosio e il ponte Valentiniano.

10. Cimiteri: il cimitero di Calepodio a San Pancrazio; il cimitero di Sant'Agata al Girolo;

il cimitero di Orso ad Portesan e il cimitero di San Felice; il cimitero di Callisto presso le

Catacombe; il cimitero di Pretestato presso porta Appia a Sant'Apollinare; il cimitero di

Gordiano fuori porta Latina; il cimitero tra i Due Lauri a Sant'Elena; il cimitero di Orso

Pileato a Santa Bibiana; il cimitero in zona Verano a San Lorenzo; il cimitero di

Sant'Agnese; il cimitero della fonte di San Pietro; il cimitero di Priscilla al ponte Salario, e

il cimitero del Cocomero; il cimitero di Trasone a San Saturnino, e il cimitero di Santa

Felicita; il cimitero di Callisto; il cimitero Ponziano; il cimitero dei Santi Ermete e

Domitilla; il cimitero di San Ciriaco sulla via Ostiense.

11. Al tempo di Ottaviano imperatore, i senatori, vedendolo in tanto splendore che

nessuno poteva guardarlo negli occhi, e vedendolo in tanta prosperità e pace, da aver reso

tutto il mondo suo tributario, gli dissero: «Ti vogliamo adorare, perché possiedi qualità

divine. Se così non fosse, non avresti fortuna in tutto». Resistendo a questa proposta,

chiese di prendere tempo. Chiamò a sé la sibilla Tiburtina, alla quale riferì quello che

avevano detto i senatori. La sibilla chiese tre giorni di tempo, durante i quali praticò un

rigido digiuno. Dopo tre giorni rispose all'imperatore: «Sarà sicuramente così, signor

imperatore: Il segno del giudizio, la terra sarà bagnata di sudore; dal cielo verrà il re che

regnerà per secoli, presente in carne ed ossa, per giudicare il mondo», e il resto che segue.

Subito si aprì il cielo e una luce abbagliante lo illuminò; e vide in cielo una vergine

bellissima che stava sull'altare e teneva un bimbo tra le braccia. Si meravigliò molto, e udì

una voce che diceva: «Questo è l'altare del figlio di Dio». Ed egli subito, gettandosi a

terra, l'adorò. Riferì questa visione ai senatori e anch'essi se ne meravigliarono molto.

Questa visione avvenne nella camera dell'imperatore Ottaviano, dove ora è la chiesa di

Santa Maria in Campidoglio. Per questo è chiamata Santa Maria Aracaeli.

12 Perché furono fatti dei cavalli di marmo nudi, e degli uomini nudi, e cosa essi

significhino, e perché davanti ai cavalli ci sia una donna seduta circondata da serpenti

che ha davanti a sé una conca. A1 tempo dell'imperatore Tiberio vennero a Roma due

giovani filosofi, Prassitele e Fidia. L'imperatore, conoscendone la grande sapienza, li

ebbe cari e li accolse nel suo palazzo. Essi gli dissero: «Signor imperatore, ti riferiremo

fino all'ultima parola tutto ciò che, in nostra assenza, deciderai nella tua camera, di

giorno o di notte». E l'imperatore disse loro: «Se farete quanto avete detto, vi darò ciò

che vorrete». Ed essi risposero: «Non vogliamo danaro, ma chiediamo qualcosa che ci

ricordi». Il giorno dopo riferirono ordinatamente all'imperatore quanto egli aveva

pensato nella notte passata. Perciò realizzò qualcosa che li ricordasse, secondo quanto

aveva promesso dietro loro richiesta, cioè dei cavalli nudi che scalpitano: ossia i principi

potenti di questa terra, che dominano gli uomini di questo mondo. Verrà un re

potentissimo che salirà sui cavalli, cioè sopra la potenza dei principi di questo mondo.

Gli uomini seminudi che sono accanto ai cavalli, con le braccia in alto e le dita piegate,

enumerano le cose che accadranno. E come essi sono nudi, così ogni scienza terrena è

nuda e aperta alle loro menti. La donna seduta circondata dai serpenti, che ha una conca

davanti a sé [significa la Chiesa e] quanti ne diffonderanno la dottrina, e chiunque vorrà andare ad essa, non potrà, se prima non sarà lavato in quella conca.

13. [Lista dei giudici]

14. La Colonna coclide di Antonino misura in altezza 175 piedi, ha 203 scalini, 45

finestre. La Colonna coclide di Traiano misura in altezza 138 piedi, ha 185 scalini, 45

finestre. L'anfiteatro Colosseo misura in altezza 108 piedi.

15. In Laterano c'è un cavallo d'oro che è detto di Costantino, ma non è così; perciò

chiunque voglia conoscere la verità legga attentamente quanto segue. A1 tempo dei

consoli e degli imperatori un re potentissimo venne in Italia dalle terre dell'Oriente,

assediò Roma dalla parte del Laterano, e tormentò il popolo Romano con guerre e

grandi stragi. Si levò allora un armigero di grande bellezza e valore, audace e prudente,

il quale disse ai consoli e ai senatori: «Se ci fosse qualcuno che riuscisse a liberarvi da

questo tormento, cosa otterrebbe dal senato?». Ed essi risposero: «Otterrebbe subito

qualunque cosa chieda». Ed egli disse: «Datemi trentamila sesterzi e, alla fine della

guerra, in memoria della vittoria, costruite per me un bellissimo cavallo». Promisero

che avrebbero fatto ciò che egli chiedeva. Ed egli disse: «A mezzanotte alzatevi e

armatevi tutti e state di vedetta entro le mura e fate tutto ciò che vi dirò». Ed essi fecero

subito quanto da lui indicato. Egli salì su un cavallo senza sella e portò con sé una

falce. Per più notti infatti aveva visto quel re venire ai piedi di un certo albero per i

propri bisogni, e al suo arrivo una civetta, che era appollaiata sull'albero, cantava

sempre. Egli uscì dalla città e tagliò dell'erba che, legata in una fascina, portava davanti

a sé a mo' di scudo. Appena udì la civetta cantare, si avvicinò e vide che il re era

venuto all'albero. Andò verso di lui, che già aveva finito i suoi bisogni. Gli uomini che

erano col re pensavano che fosse uno dei loro; cominciarono a urlare che si togliesse

dalla strada davanti al re. Egli non si allontanò per la loro presenza, ma fingendo di

scostarsi, si avvicinò al re e, grazie alla sua robustezza, senza curarsi di tutti i presenti,

si impadronì con la forza del re e lo portò via. Appena arrivato presso le mura della

città, cominciò a gridare: «Uscite fuori e massacrate l'intero esercito del re, perché -

vedete! -l'ho preso prigioniero».

Essi uscirono e uccisero una parte dei nemici, mettendone in fuga il resto; e i Romani

ne ebbero una quantità incalcolabile d'oro e d'argento. Così tornarono in città gloriosi e

pagarono quanto avevano promesso all'armigero, cioè trentamila sesterzi e, per

memoria, un cavallo di bronzo dorato e senza sella, con lui seduto sopra, tesa la mano

destra che aveva preso il re; in testa al cavallo fu raffigurata la civetta, al canto della

quale si era realizzata la vittoria, e lo stesso re, che era piccolo fisicamente, con le mani

legate dietro, fu collocato per memoria sotto le unghie del cavallo così come era stato

preso.

16. Al tempo dei consoli e dei senatori, il prefetto Agrippa con quattro legioni sottomise

al senato romano gli svevi e i sassoni e altri popoli occidentali. Al suo ritorno risuonò

nel tempio di Giove e Moneta il campanello della statua della Persia, che era in

Campidoglio, dove pure si trovava la statua di ogni regno del mondo con un campanello

al collo; non appena il campanello suonava, si sapeva che quel regno si era ribellato.

Udito quel campanello, il sacerdote che era di guardia quella settimana portò l'annunzio

ai senatori. I senatori incaricarono della missione il prefetto Agrippa. Egli rifiutò di

sottoporsi a tale fatica, ma alla fine, convinto, chiese tre giorni di riflessione; in questo

periodo una notte a forza di pensare s'addormentò. Gli apparve allora una donna che gli

disse: «Cosa fai, Agrippa? Sei molto angosciato». Egli rispose: «È vero, signora». La

donna disse: «Tranquillizzati e promettimi che, se vincerai, costruirai un tempio come ti

mostro e ti chiedo». Egli disse: «Lo farò, signora». Ed essa in quella visione gli mostrò

il tempio. Ed egli disse: «Chi sei, signora?». Rispose: «Sono Cibele, madre degli dei;

porta libagioni a Nettuno, che è un gran dio, perché ti aiuti. Fa' che questo tempio sia

consacrato in onore mio e di Nettuno, perché saremo con te e vincerai». Allora Agrippa,

svegliatosi, riferì lieto tutto ciò in Senato, e con un grande apparato di navi e cinque

legioni andò e vinse tutti i Persiani e li sottopose al senato romano con un tributo annuo.

Tornato a Roma costruì questo tempio, e provvide a che fosse dedicato a Cibele, madre

degli dei, e a Nettuno, dio del mare, e a tutte le divinità, e impose a questo tempio il

nome di Pantheon. In onore di Cibele fece una statua dorata, che collocò in cima al

tempio sopra l'opercolo e la ricoprì di una splendida copertura di bronzo dorato.

Venne papa Bonifacio al tempo dell'imperatore cristiano Foca. Vedendo quel

meraviglioso tempio dedicato a Cibele, madre degli dei, davanti al quale i cristiani erano

stati spesso uccisi in nome dei demoni, il papa chiese all'imperatore che gli donasse quel

tempio; sicché, come era stato dedicato il primo di novembre a Cibele, madre degli dei,

così il primo novembre lo avrebbe dedicato alla beata Maria sempre vergine, che è madre

di tutti i santi. L'imperatore glielo concesse e il papa, con tutto il popolo romano, lo

consacrò il primo di novembre; e stabilì che in tale giorno il romano pontefice vi celebri

messa e il popolo riceva il corpo e il sangue del Signore, come a Natale; e in quel giorno

tutti i santi con la loro madre Maria sempre vergine e gli spiriti celesti abbiano la loro

festa, e i defunti abbiano nelle chiese di tutto il mondo il sacrificio per la redenzione delle

loro anime.

17. Chiunque voglia predicare la passione dei santi Abdon e Sennen, di san Sisto, di san

Lorenzo e degli altri, si informi per qual causa l'imperatore Decio li abbia uccisi, da un

lato, come dice il racconto della loro passione, che così inizia: «Sorti dei disordini sotto

Decio, molti Cristiani furono uccisi mentre comandava a Roma Galba», dall'altro, come

dice la Romana historia,che così inizia e dichiara: «Ci fu un imperatore di nome

Gordiano, il cui vessillifero nelle legioni fu Filippo; Filippo, che era cristiano, uccise

l'imperatore Gordiano suo signore e gli tolse l'impero. Costui aveva un figlio di nome

Filippo». All'imperatore Filippo si unì un soldato di nome Decio, un pagano della

Pannonia, che godette di sempre maggiore considerazione presso l'imperatore per

l'impegno militare, e per il giudizio, la prudenza e la generosità presso i soldati e il senato.

A lui l'imperatore e il senato conferirono l'incarico di recarsi con quattro legioni contro il

popolo occidentale, che si era ribellato. Egli andò, li assediò e vinse molte guerre.

Tornando, i soldati lo lodavano in continuazione dicendo: «Oh se fossi tu il nostro

imperatore, avremmo ogni vantaggio!». Compiaciuto delle parole dei soldati, cospirò con

loro promettendo che, quando avesse ottenuto l'impero, avrebbe dato loro ducati, marche,

contee, onori a corte e il tesoro di Filippo. Mentre Decio stava dalle parti della Liguria,

l'imperatore Filippo era andato verso Verona. Sentito del suo ritorno, lo accolse con

onore. Trascorso quel giorno, tutti i soldati di Decio si armarono di nascosto, come si

erano accordati col futuro imperatore. Decio poi, a metà della giornata, con una spada

nascosta, andò alla corte dell'imperatore ed entrò nel padiglione, facendo uscire il

ciambellano. Sguainata la spada, colpì tra il labbro e il naso il suo signore, l'imperatore

Filippo, che dormiva nel letto e così lo uccise. Appena uscito lanciò un segnale; tutti i

suoi soldati accorsero al padiglione, come era stato preordinato. I soldati di Filippo,

sentito che il loro signore era stato ucciso da Decio, fuggirono. Ma, atterriti, richiamati da

Decio con l'esortazione a non aver paura e a diventare piuttosto suoi amici, tornarono

subito indietro, più per timore che per amore. Quando il giovane Filippo, che era a Roma;

seppe che suo padre Filippo era stato ucciso dal pagano Decio, ebbe timore e fuggì dal

beato Sisto, papa romano, e gli disse: «Padre, mio padre è morto, ucciso dall'empio

Decio; ti prego di nascondere presso di te il suo tesoro. Mi restituirai il tesoro se riuscirò

a sopravvivere, altrimenti lo terrai per la Chiesa». Decio venne a Roma, vi entrò e prese

l'impero più per il suo valore che per amore. Cominciò a cercare il giovane Filippo: egli si

era nascosto. Ma, grazie a grandi promesse e minacce, riuscì a trovarlo e lo uccise e

cominciò a cercare dove fosse il tesoro di Filippo. Alcuni dicevano che lo avesse Sisto,

papa dei cristiani; altri che fosse a Filippopoli in Grecia. Arrivò un'ambasceria dalla

Persia, dicendo che là si erano ribellati, e il campanello della statua suonò. Non avendo

chi inviarvi, vi andò lui stesso col suo esercito, dopo aver insediato in Roma come

proprio vicario Galba, e portò con sé il proprio figlio Decio; espugnò e sconfisse tutti i

persiani, e catturò Abdon e Sennen, come la lettura della passione rivela. Seppe che erano

di famiglia nobilissima e li portò legati con catene d'oro. Sulla via del ritorno assediò

Filippopoli. Nel frattempo gli arrivò notizia da Roma della morte di Galba. Lasciò là il

proprio figlio Decio con una parte dell'esercito, e l'altra la portò con sé a Roma con

Abdon e Sennen. Venuto a Roma chiese notizie dei tesori di Filippo, che non riuscì con

certezza ad individuare. Nell'Anfiteatro uccise i nobilissimi santi martiri Abdon e Sennen.

Gli dissero che Sisto, papa dei cristiani, aveva il tesoro di Filippo. Lo catturò e lo torturò

in molti modi; e poiché attraverso di lui non riuscì a sapere del tesoro, Valeriano ordinò

che fosse condannato a morte. Mentre veniva portato alla decapitazione, il beato Lorenzo

esclamò: «Non mi abbandonare, padre santo, perché i tesori che mi affidasti li ho già

spesi». Allora i soldati, sentendo parlare del tesoro, presero Lorenzo davanti al Settizonio

sulla via Nuova, e lo consegnarono al tribuno Partenio, con quel che segue.

18. Ucciso dal senato Giulio Cesare, assunse il comando suo nipote Ottaviano. Contro di

lui Antonio, suo cognato, che dopo la morte di Cesare era rimasto la sua guida, tentava

con grande sforzo di togliergli il potere; e ripudiata la sorella di Ottaviano, prese in moglie

Cleopatra, regina d'Egitto, potentissima per l'oro, l'argento e le pietre preziose che

possedeva, nonché per il popolo sul quale regnava. A Roma si seppe che Antonio e

Cleopatra avevano iniziato a muovere contro Roma con un grande apparato di navi e di

popolo. Andò Ottaviano con un grande esercito e li assalì presso l'Epiro, e lì fu ingaggiata

la battaglia. La nave della regina, che era tutta dorata, cominciò ad allontanarsi. Antonio,

vedendo che la nave della regina si allontanava, la seguì fino ad Alessandria. Lì giunto, si

gettò su una spada e morì. Allora Cleopatra, vedendo che era destinata al trionfo, ornata

d'oro e di pietre preziose, volle con la sua bellezza sedurre Ottaviano, ma non ci riuscì.

Vedendosi tanto disprezzata, entrò, abbigliata com'era nel mausoleo del marito e attaccò

alle proprie mammelle due aspidi, che sono una specie di serpente, ed essi succhiarono

con tanta dolcezza che ella si addormentò e morì. Ottaviano ottenne da quella vittoria una

quantità sterminata di denaro e trionfò in Alessandria, in Egitto e in tutta la regione

orientale, e così vittorioso tornò a Roma, e i senatori e tutto il popolo romano lo accolsero

con grande trionfo. E poiché questa vittoria si verificò alle calende del mese sestile, gli

imposero il nome di Augusto, perché aveva accresciuto lo stato, e stabilirono che ogni

anno alle calende d'agosto tutta la città in onore di Ottaviano Cesare Augusto festeggiasse

con gioia quella vittoria, e tutta la città splendesse e godesse di una festa tanto grande.

Questo rito arrivò fino al tempo di Arcadio, marito di Eudossia. Mortole il marito, rimase

con suo figlio Teodosio ancora bambino; e virilmente reggeva l'impero, come se suo

marito Arcadio fosse vivo. Ispirata dalla volontà divina e dalle necessità dello stato andò a

Gerusa lemme; visitò il sepolcro del Signore e altri luoghi santi. Mentre era impegnata nei

tanti affari di stato gli abitanti della provincia le portarono grandi doni; tra questi un

giudeo le portò le catene del beato Pietro, con cui Erode lo aveva fatto legare in carcere da

quattro manipoli di soldati; non appena la regina le vide, se ne rallegrò più di ogni altro

dono. Pensò che l'unico luogo adatto per riporre quelle catene era quello nel quale il corpo

del beato Pietro riposa tra la polvere. Venuta a Roma alle calende d'agosto, vide

quell'antichissimo rito pagano celebrato con tanto concorso di popolo alle calende di

sestile, che nessun pontefice aveva potuto eliminare. Si recò da papa Pelagio, dai senatori

e dal popolo romano perché le concedessero quanto chiedeva. Con grande scrupolo

promisero di concederlo. E la regina disse: «Vedo che siete tanto solleciti nelle festività

d'agosto in onore del defunto imperatore Ottaviano, per la vittoria sugli egiziani. Vi

chiedo che mi doniate l'onore del defunto imperatore Ottaviano in onore dell'imperatore

celeste e del suo apostolo Pietro, le cui catene ho portato da Gerusalemme. E come quello

vi liberò dalla schiavitù egizia, così questo imperatore celeste vi libererà dalla schiavitù dei

demoni. E voglio fare una chiesa in onore di Dio e del beato Pietro, e là deporre le catene;

la quale chiesa il vicario apostolico consacrerà alle calende d'agosto e sarà chiamata San

Pietro in Vincoli, dove il vicario apostolico annualmente celebrerà messe solenni, e come

il beato Pietro fu liberato dall'angelo, così il popolo romano, liberato grazie alla

benedizione, si allontanerà dai peccati». E il popolo, ascoltando ciò, accolse con grande

partecipazione l'annuncio; aderì infine alla richiesta del papa e della regina, che fece

costruire la chiesa consacrata dal papa alle calende d'agosto, come la cristianissima

imperatrice Eudossia aveva proposto. In essa furono poste le catene del beato Pietro e le

catene neroniane del beato Paolo, in modo che il popolo romano vi si rechi nel giorno

delle calende di sestile e veneri le catene degli apostoli Pietro e Paolo.

19. All'interno del palazzo di Nerone c'è il tempio di Apollo, detto Santa Petronilla,

davanti al quale c'è la basilica chiamata Vaticano, con uno splendido soffitto a mosaico di

oro e vetro. È detto Vaticano perché i vati, cioè i sacerdoti, là cantavano i loro uffici

davanti al tempio di Apollo, e perciò tutta quella parte della chiesa di San Pietro è

chiamata Vaticano. Ivi è un altro tempio che fu il vestibolo di Nerone, che ora è chiamato

Sant'Andrea. Accanto al quale c'è il monumento funebre di Cesare, cioè l'aguglia, in cui le

sue ceneri riposano splendidamente come nel proprio sarcofago: come durante la vita tutto

il mondo gli fu soggetto, così anche da morto gli sarà sottomesso fino alla fine dei secoli.

Il suo monumento è stato ornato nella parte inferiore di tavole bronzee e dorate, ed è

convenientemente fregiato di lettere latine. In alto, dove riposa, è decorato d'oro e pietre

preziose. Vi è scritto: Cesare, eri grande come al mondo ma ora sei rinchiuso in una

piccola cavità.

E questa tomba fu consacrata in tal modo, come ancora si vede e si legge.

Nel parco di San Pietro c'è un cantaro, che fece papa Simmaco, ornato di colonne

purpuree e di tavolette marmoree legate con grifi, ricoperte di una preziosa volta bronzea,

con fiori e delfini di bronzo e dorati che spargono acqua. In mezzo al cantaro c'è una

pigna di bronzo, che serviva da copertura con un graticciato di bronzo dorato sopra la

statua di Cibele, madre degli dei, nell'opercolo del Pantheon; un tubo sotterraneo di

piombo portava a questa pigna l'acqua dall'acquedotto Sabatino che, sempre ricco, forniva

acqua in ogni momento, attraverso delle aperture, a quanti ne avessero bisogno, e, tramite

un tubo sotterraneo, una parte giungeva al bagno dell'imperatore presso l'aguglia.

20. Alla Naumachia c'è il sepolcro di Romolo, che è chiamato Meta, che fu

pavimentato con quella splendida pietra con la quale è fatto il pavimento del «paradiso»

e dei gradini di San Pietro. Aveva intorno a sé una piazza di travertino di venti piedi con

la fogna e con un proprio canale di scolo. Intorno aveva il monumento di travertino di

Nerone, alto quanto il castello di Adriano, ricoperto con lastre di splendida pietra, con la

quale furono fatti i gradini e il «paradiso». Questo edificio rotondo fu costituito di due

gironi come un accampamento, e i suoi margini erano ricoperti di lastre di pietra per lo

stillicidio, e vicino ad esso fu crocifisso il beato Pietro apostolo .

21. C'è anche un castello che fu il tempio di Adriano, come leggiamo nel sermone della

festività di san Pietro, dove è detto: «La tomba dell'imperatore Adriano è un tempio di

grandi dimensioni», tutto ricoperto di pietra e ornato di storie diverse. Era racchiuso tutto

intorno da cancelli di bronzo con pavoni d'oro e un toro; due di quelli sono nel cantaro del

«paradiso». Nelle quattro parti del tempio c'erano quattro cavalli di bronzo dorati; in

ciascuno dei lati delle porte di bronzo; in mezzo il sepolcro purpureo di Adriano che ora è

in Laterano; la copertura è nel «paradiso» di san Pietro sopra il sepolcro del prefetto. A1

di sotto, c'erano porte di bronzo come ancora oggi si vedono. Questi monumenti dei quali

abbiamo parlato erano tutti consacrati come templi e ad essi confluivano le vergini romane

con le offerte votive, come dice Ovidio nei Fasti.

22. Presso Porta Flaminia Ottaviano fece un castello che è chiamato Augusto, per

seppellire gli imperatori, che è ricoperto con pietre differenti. All'interno, circolarmente, è

concavo con passaggi nascosti; nel livello inferiore ci sono le sepolture degli imperatori.

In ciascun sepolcro ci sono delle lettere che dicono: Queste sono le ossa e le ceneri

dell'imperatore Nerva, e la vittoria che ottenne. Davanti ad esso c'era la statua della sua

divinità, come in tutti gli altri sepolcri: In mezzo ai sepolcri c'era un arco dove spesso

sedeva Ottaviano, e lì i sacerdoti officiavano le loro cerimonie. Egli comandò che da ogni

regno del mondo venisse un guanto pieno di terra, che pose sopra il tempio, perché

rimanesse nel ricordo a tutte le genti che venivano a Roma. In cima alla facciata del

Pantheon c'erano due tori di bronzo dorato. Davanti al palazzo di Alessandro c'erano due

templi, di Flora e di Febo. Dopo il palazzo, dove ora c'è la conca, c'era il tempio di

Belona, dov'era scritto: Fui Roma antica, ma ora sono chiamata nuova Roma, scavata nei

ruderi, tocco il cielo.

Presso la fontana di Parione c'era il tempio, molto grande e bello, di Gneo Pompeo; il

monumento di quello che è chiamato Maiorento, ornato in maniera degna, era l'oracolo di

Apollo: altri monumenti erano altri oracoli. La chiesa di Sant'Orso fu lo studio privato di

Nerone 60. Nel palazzo di Antonino c'era il tempio del divo Antonino presso San

Salvatore. Davanti a Santa Maria in Aquiro il tempio di Elio Adriano e l'arco della Pietà.

A1 campo di Marte il tempio di Marte, dove erano eletti i consoli alle calende giulie e

rimanevano in carica fino alle calende di gennaio; se colui che veniva eletto console era

immune da crimini, il consolato gli veniva confermato. In questo tempio i romani, dopo

una vittoria, deponevano i rostri delle navi che divenivano oggetti esposti all'ammirazione

di tutte le genti. Presso il Pantheon il tempio di Minerva Calcidia. Dopo San Marco il

tempio di Apollo. Nel Camillano, dove è San Ciriaco, c'era il tempio di Vesta . In

Calcarario, il tempio di Venere. Nel monastero dominae Rosae il castello Aureo, che era

l'oracolo di Giunone.

23. Il Campidoglio, che era la capitale del mondo, dove consoli e senatori sedevano a

governare la terra, aveva la facciata coperta da mura alte e solide oltre la sommità del

monte, ricoperte da ogni parte di vetro e d'oro e soffittate con splendidi lavori. All'interno

della rocca il palazzo ornato di mirabili opere, d'oro e argento e pietre preziose, per

fungere da specchio a tutte le genti. I templi che furono all'interno della rocca, e che

possiamo ricordare sono questi. In cima al monte, sopra il portico dei Crini, c'era il

tempio di Giove e Moneta, come si ricava dal martirologio di Ovidio dei Fasti. Da una

parte del foro il tempio di Vesta e di Cesare. Lì vi era la cattedra dei pontefici pagani,

dove i senatori il 6 marzo posero Giulio Cesare in cattedra. Dall'altra parte del

Campidoglio, sopra Canapara, il tempio di Giunone. Presso il foro pubblico il tempio di

Ercole. In Tarpea il tempio Asilo, dove Giulio Cesare fu ucciso dal senato. Nel luogo nel

quale ora è Santa Maria, c'erano due templi collegati con il palazzo, di Febo e di

Carmenta, dove Ottaviano imperatore vide in cielo la visione. Presso Camellaria il tempio

di Giano, che era custode del Campidoglio. Era detto l'aureo Campidoglio, perché

prevaleva in sapienza e in dignità sopra tutti i regni del mondo.

24. Il palazzo di Traiano e di Adriano è quasi tutto costruito in pietra e ornato di opere

splendide, soffittato in diversi colori, e in esso c'è una colonna di straordinaria altezza e

bellezza con sculture delle storie di questi imperatori, come la colonna Antonina

nell'omonimo palazzo; da una parte c'era il tempio del divo Traiano, dall'altra quello del

divo Adriano. Nel clivo Argentario c'era il tempio della Concordia e di Saturno. Nel

quartiere Argentario il tempio di Bacco. Alla fine del quartiere Argentario il tempio di

Vespasiano. Nel clivo di Santa Maria in Campo il tempio di Tito. Dove c'è San Basilio, il

tempio di Carmenta. In questo ambito ci fu il palazzo con due fori: di Nerva col suo

tempio del divo Nerva, e insieme il più grande foro di Traiano, davanti alle porte del quale

c'era il tempio della dea Sospita. Dov'è San Quirico, il tempio di Giove. Nel muro di San

Basilio era affissa una grande tavola di bronzo, sulla quale, in un luogo bello e ben

visibile, fu consacrata per iscritto l'amicizia tra romani e giudei al tempo di Giuda

Maccabeo. Davanti alle latrine del carcere Mamertino, il tempio di Marte dove ora c'è la

sua statua. Vicino il tempio Fatale, cioè Santa Martina; presso il quale c'è il tempio del

Rifugio, cioè Sant'Adriano; vicino, un altro tempio Fatale. Vicino alle latrine pubbliche il

tempio dei Fabii. Dopo San Sergio, il tempio della Concordia, davanti al quale c'è l'arco

trionfale, da dove si saliva in Campidoglio. Presso l'erario pubblico, che era il tempio di

Saturno, dall'altra parte c'era un arco ricoperto di splendide pietre, nel quale c'era la storia

del modo in cui i soldati ricevevano le elargizioni dal Senato per mano del cassiere, che

aveva questa funzione: egli pesava tutto sulla bilancia, prima che fosse consegnato ai

soldati, e perciò si chiama San Salvatore in statera. In Canapara c'è il tempio di Cerere e

della Terra, il cui atrio è ornato con due case e portici a colonne tutto intorno, di modo che

chiunque sedesse lì per un giudizio, potesse esser visto da qualunque parte. Presso questa

costruzione c'era il palazzo di Catilina, dove fu la chiesa di Sant'Antonio; vicino c'è il

luogo detto Inferno, perché anticamente lì si produceva un'eruzione che causava a Roma

gran danno. Là un nobile soldato, per liberare la città, su indicazione dei suoi dei si gettò

nella cavità con tutte le armi e la terra si richiuse: così la città fu libera. In quel luogo c'è il

tempio di Vesta, dove si dice che, nelle profondità, giaccia un drago, come si legge nella

vita di san Silvestro. Lì c'è il tempio di Pallade e il foro di Cesare e il tempio di Giano, che

prevede l'anno al principio e alla fine, come dice Ovidio nei Fasti; ora si chiama la torre di

Cencio Frangipane. Ad essa è collegato attraverso un arco il tempio di Minerva; ora si

chiama San Lorenzo in Miranda. Vicino la chiesa di San Cosma, che fu il tempio

dell'Asilo. Dietro c'era il tempio della Pace e di Latona; sopra il tempio di Romolo. Dopo

Santa Maria Nuova due templi, della Concordia e della Pietà. Presso l'arco delle Sette

Lucerne il tempio di Esculapio, detto Cartulario, perché là fu la biblioteca pubblica; di

biblioteche ce ne furono ventotto nella città. Più su c'era il tempio di Pallade e il tempio di

Giunone.

25. A1 di sotto del Palazzo c'è il tempio di Giuliano. Di fronte il tempio del Sole. Nel

Palazzo stesso il tempio di Giove, detto Casa Maggiore. Dove c'è San Cesario, c'era

1'Auguratorio di Cesare. Davanti al Colosseo il tempio del Sole, dove si officiavano le

cerimonie alla statua che stava in cima al Colosseo. Il Settizonio era il tempio del Sole e

della Luna, davanti al quale c'era il tempio della Fortuna. Santa Balbina era il Mutatorio di

Cesare. Lì c'erano le terme Severiane e Commodiane. Dove c'è San Saba, c'era l'area di

Apollo e quella chiamata Splen.

26. Il Circo di Tarquinio Prisco era di grande bellezza, poiché era fatto a gradinate in

maniera tale che nessun romano toglieva ad un altro la visione del gioco. In alto, in

cerchio, c'erano archi ricoperti di vetro e di biondo oro. Più in alto c'erano tutte intorno le

abitazioni del Palazzo, dove sedevano le donne per vedere i giochi che si svolgevano il 19

aprile. In mezzo c'erano due obelischi: il più piccolo misurava 87 piedi e mezzo, il più

grande 122. In cima all'arco trionfale che è sulla sommità stava un cavallo di bronzo

dorato, che era in atto di slanciarsi, come se volesse correre. In un altro arco, che è alla

fine, c'era ugualmente un altro cavallo di bronzo dorato. Sul punto più alto del palazzo

erano i seggi dell'imperatore e della regina, da dove vedevano i giochi.

27. Sul monte Celio il tempio di Scipione. Davanti alle Terme Nlassimiane c'erano due

nicchie e due templi, di Iside e di Serapide. Nell'Orfanotrofio il tempio di Apollo. Nel

palazzo Laterano ci sono cose meravigliose ma da non scrivere. Nel palazzo Susurriano

c'era il tempio di Ercole.

28. Sul monte Esquilino c'era il tempio di Mario, ora chiamato Cimbro, perché Mario

vinse i Cimbri. Nel palazzo di Licinio il tempio dell'Onore e di Diana. Dove c'è Santa

Maria Maggiore c'era il tempio di Cibele. Dove c'è San Pietro in Vincoli c'era il tempio di

Venere. Presso Santa Maria in Fontana c'era il tempio di Fauno; la cui statua parlò a

Giuliano e lo ingannò. Nel palazzo di Diocleziano c'erano quattro templi, di Asclepio e

Saturno, di Marte e di Apollo, che ora sono chiamati moggi. In cima al Trivio c'era il

tempio di Venere, dove ancora oggi si parla di giardino di Venere. Nel palazzo di Tiberio

il tempio degli dei. Sul ciglio del monte c'era il tempio di Giove e Diana, che ora è

chiamato Mensa dell'imperatore, sopra il palazzo di Costantino. Lì, nel palazzo, c'era il

tempio di Saturno e Bacco, dove ora giacciono le loro statue. Lì accanto ci sono due

cavalli di marmo. Nelle terme di Olimpiade, dove fu arso il beato Lorenzo, c'era il tempio

di Apollo. Davanti al palazzo di Traiano, dove ora restano le porte del palazzo, c'era il

tempio...

29. Sull'Aventino il tempio di Mercurio che guarda nel circo, e il tempio di Pallade, e la

fonte di Mercurio, dove i mercanti ricevevano i responsi. Presso l'arco dello Stadio la

casa di Aurelia Orestilla; da una parte il tempio di Mecenate, da un'altra parte il tempio di

Giove. Presso la Scola Greca c'era il palazzo di Lentulo. Dall'altra parte, dove ora c'è la

torre di Cencio di Orrigo, c'era il tempio di Bacco.

30. Vicino alle Gradinate c'era il tempio del Sole. Santo Stefano rotondo era stato il

tempio di Fauno. All'Elefante c'era il tempio della Sibilla, e il tempio di Cicerone al

Tulliano, e il tempio di Giove, dove c'era la loggia d'oro, e il tempio Severiano dove c'è

Sant'Angelo. A1 Velabro il tempio di Minerva. A1 ponte dei Giudei 74 il tempio di

Fauno. Ai Caccavari il tempio di Craticola. A1 ponte Antonino il circo di Antonino, dove

ora c'è Santa Maria in Cataneo.A Santo Stefano in Piscina il palazzo del prefetto Romazio

e il tempio che era chiamato Olovitreo, tutto di cristallo e d'oro, costruito con arte

matematica, dove c'era l'astronomia con tutti i segni del cielo, distrutta da san Sebastiano

con Tiburzio figlio di Cromazio.

31. A1 di là del Tevere, dove c'è Santa Maria, c'era il tempio dei ravennati, dove la terra

trasudò olio al tempo di Ottaviano imperatore e lì c'era la domus Meritoria, dove erano

onorati í soldati che servivano gratis in senato. Sotto il Gianicolo c'era il tempio della

Gorgone. Presso la riva del fiume, ove si fermano le navi, il tempio di Ercole. In Piscina i

templi della Fortuna e di Diana. Nell'isola Licaonia i1 tempio di Giove e il tempio di

Esculapio. Fuori porta Appia, il tempio di Marte e l'Arco Trionfale.

32. Questi e molti altri templi e palazzi di imperatori, consoli, senatori, prefetti furono in

questa città di Roma al tempo dei pagani, come leggiamo negli antichi annali e come

abbiamo visto coi nostri occhi e ascoltato dagli antichi. Abbiamo anche cercato di

ricordare ai posteri per scritto, come meglio abbiamo potuto, di quanta bellezza d'oro e

d'argento, di bronzo e d'avorio e di pietre preziose fossero.

FRANCESCO PETRARCA, Africa, VIII, 862-955

La porta Appia dalla soglia marmorea per prima accolse gli uomini [di Cartagine]; subito

con ampio giro essi vedono la città di Pallanteo, il monte sul quale è costruita la reggia di

Evandro e il primo luogo illustre della nuova città; qui la guida li ragguaglia sulla scrittura

alfabetica, qui sul divino ingegno dell’arcade e sui grandissimi prodigi e i libri ritrovati,

opera della vaticinatrice Carmenta, e quanto quella donna degna di lode eterna abbia giovato

agli ingegni latini.

Lasciano il Celio a destra, a sinistra i declivi del colle Aventino, e vedono le solide rocche

sulle rupi e l’antro. Qui si intrattengono soffermandosi con pacato discorso sulla leggenda

di Caco e la fatica di Ercole e le giovenche lavate nel fiume etrusco. Qui il pilastro variegato

del ponte Sublicio richiama alla loro mente Coclite; nello stesso insigne luogo si trattengono

a fissare la statua equestre della fiera vergine.

Da qui ammirano la sede dell’aureo tempio del Sole e la dimora di Tellure, e timorosi

salgono l’alto Campidoglio e pensano di toccare addirittura il cielo. Appresero che in questo

luogo, scavando in profondità, fu trovato il capo di un uomo, e sono costretti a maledire i

prodigi della loro patria e il bufalo e i colli condannati a sottostare al turpe giogo e i presagi

certi del duro affanno. Qui videro il tempio di Giove, del quale non ci fu mai nulla di più

ricco, e il tesoro custodito sotto l’alta rupe, e le soglie già allora calcate da innumerevoli

trionfi e i cocchi lucenti e le armi strappate ai nemici, insieme con i diademi d’oro di grandi

re e scettri e armille e collane strappate dal collo, e briglie coperte di gemme e di seguito

selle di avorio. Qui riconobbero i loro scudi e le navi spezzate e le insegne e le fàlere; un

tacito senso di lutto li percorse mentre ripensavano ai ricordi della passata guerra. Allora

mentre si aggirano nei templi l’oca argentea cattura la loro attenzione con l’assalto dei Galli

e la voce canora.

Vanno avanti, e vedono uomini valorosi e venerabili matrone e vaste dimore e archi carichi

di spoglie di varie guerre e fitti trofei e battaglie e cerimonie funebri raffigurati nel duro

marmo. Vengono loro mostrati gli acquedotti che corrono sotto terra e all’aperto. Ormai

vedono la valle della Suburra e la casa dei Cesari, alla quale è predestinata la massima

potestà, la signoria assoluta. Lasciata la valle dell’Esquilino e il colle che prende il nome dal

vimine, stanchi valicano la sommità del Quirinale e vedono in piedi davanti a loro due

giganti dal corpo nudo - quante gare di eccellenza! - opera insigne di Fidia e del supremo

Prassitele. Qui tremarono di fronte agli alti palazzi dalle ampie mura e alle fiere rocche degli

Scipioni e alle insegne conosciute dai Libici in guerra e al nome della stirpe orgogliosa.

Da qui girarono a sinistra. Già a quel tempo si chiamava Flaminia la porta rivolta verso il

territorio etrusco. Il campo Marzio qui accoglieva i reduci dal fiume vicino. Qui si apre una

sconfinata pianura che li conduce attraverso una lunga catena di eventi: con quali alti fasci

fu concessa per la prima volta la carica [consolare], con quale ferita la matrona trafisse il

casto petto, a chi fu affidata la libertà degli uomini, con quale scure quell’uomo spietato

uccise i figli; [i Cartaginesi] apprendono la storia dei tiranni scacciati dalla città violata, e

notano ogni cosa. A sinistra viene loro mostrato il tempio di Minerva e quello di tutti gli

dei, dimora destinata a culto superiore. Una volta superate le correnti del profondo Tevere

hanno già raggiunto sull’argine della riva destra il lato etrusco: e la guida indica loro il

sepolcro di Romolo dalla immensa mole, e procede illustrando il luogo in cui Quirino,

condotto dal turbine, ascese al cielo, per quale tempesta si sia oscurato il Senato spaventato,

e come intimorito il sole sia impallidito; e ricorda la visione di Proculo e la palude della

Capra; ma tace il crimine dei senatori. Ormai discendono lungo il fiume, e vedono il colle

dove fu la prima reggia di Giano, e vicino la dimora di Saturno: qui vengono a conoscenza

delle più remote origini dei re dell’Ausonia e della gente latina e dei nomi illustri degli

uomini. Qui si racconta di Italo, primo re e instauratore del nome eterno dell’Italia e di Pico

suo compagno e di tutta la discendenza degli avi, e si mostra il luogo che accolse il nuovo

popolo.

Continuando a scendere i cartaginesi sono catturati dalla storia del lungo duello e dei re che

tornarono da Chiusi e degli accampamenti di Porsenna, e di come Scevola abbia inflitto una

punizione non dovuta alla mano destra che aveva sbagliato, ponendola sulle fiamme. Da lì

attraversano per mezzo di due ponti la piccola isola Licaonia. A stento si sarebbe potuto

prestare fede ai racconti di prodigi, al fatto che il bottino depredato al re, una volta gettato

nel fiume dalla popolazione, abbia potuto far sorgere una mole tanto grande. Già di nuovo

percorrevano il territorio campano della riva sinistra, e venivano a conoscere la dimora dei

Fabi e i lacrimevoli funerali di una stirpe tanto illustre e il dannoso Crèmera.

Tornando alla sommità del Campidoglio tenevano un passo stanco, quando ripensando alle

cose viste un grande stupore si impadronì di loro. Quindi, mettendosi a sedere, attoniti

tacquero a lungo.

GIOVANNI BOCCACCIO, Lettera a Francesco Nelli (1363)

Ecco, presso a Baia [... ], sono edifici grandissimi e maravigliosi di Gaio Mario, di Iulio

Cesare, di Pompeo Grande e di più altri molti, ed ancora in questa età durano: ma

distintamente, per cui opera o vero spesa sieno ritti, niuno indicio certo ci resta. Ciascuno

come gli piace, eziandio le vecchierelle, compostasi una favola, le fatiche nobili attribuisce

a chi gli pare. Questo è quasi il primomorso del fuggente tempo, tirare in dubbio le cose

certe, con ciò sia cosa che dalle cose dubbie in tutta oblivione agevolmente si venga. Se tu

vuoi per le cose giovani vedere meglio la ruina delle antiche, intorno a così fatte cose

ragguarda le stufe di Diocleziano, la casa d'Antonio in mezzo la città di Roma, per

avarizia come per negligenzia de' cittadini già divorate e péste, e quasi mutati i nomi e

distrutti quanto alla gloria de' componitori. E così, amico ottimo, poi che in tempo

periscono tutte le fatiche de' mortali, questa sa,nza fallo meno intra le nobili consiste: e

benché alquanto perseveri, nondimeno con poca loda persevera di colui che edifica; il che

non è nascoso. Se noi vogliamo ragguardare, molti furono già presi dal desiderio di

questa gloria, intra' quali grandissimi e che più ci spesono, Erode d'Antipatre, per addietro

re de' giudei, e Nerone Cesare essere stati, dimostrano gli esempli che ancora stanno in

piè; i nomi de' quali se altri gran fatti non avessono conservato, di nulla memoria

sarebbono appresso di noi: e se la fortuna avesse voluto conservarli per quello, non

lungamente sarebbono durati. Poi che per ogni cagione gli edifici disfatti sieno, tanto si

diminuisce della fama di colui che mura, quanto dell'edificio è tolto via.

S. Agostino Che altro dirvi e a che fine dilungarmi? Leggete i quattro versi che abbiamo scritto nella cella, leggeteli, imparateli a memoria, conservateli nel vostro cuore. Abbiamo voluto che fossero scritti perché li legga chi vuole e quando vuole. Sono pochi affinché tutti possano mandarli a memoria: sono scritti pubblicamente affinché tutti possano leggerli. Non è necessario che si ricerchi il manoscritto: quella camera sia il vostro manoscritto.

Gregorio Magno (590-604), lettera a Sereno vescovo di Marsiglia: Perciò infatti nelle chiese occorre disporre delle pitture, affinché gli analfabeti almeno guardando le pareti leggano ciò che nei codici non riescono a leggere.

Titulus del mosaico absidale della chiesa di S. Agnese in Roma.

Aurea pittura sorge dalle pietre minutamente tagliate e il giorno stesso è qui avvinto e racchiuso, cosicché crederesti che l’aurorada nivee fonti giunga fra le nubi squarciate irrorando di rugiada i campi o che fra i pianeti Iride spanda la sua lucesplendente del colore del purpureo pavone.Colui che poté fissare la fine della notte e della luceAllontanò il caos dalle tombe dei martiri: Quanto si scorge qui sopra con un’occhiata.Questi doni votivi il pontefice Onorio diede e il suo volto si riconosce dalle vesti e dall’opera Allieta i cuori col solo aspetto.(Traduzione A. P. Frutaz)

SUGER DI SANT-DENIS, Memoria sulla sua amministrazione

XXIV . Decorazione della chiesa

Avendo dunque in tal modo assegnato i profitti delle rendite, volgemmo la mano alla

memorabile costruzione degli edifici affinché per tale opera si possano rendere grazie

a Dio sia da noi sia dai nostri successori; e affinché, per il nostro buon esempio, il

loro ardore possa essere ridestato a continuare l'opera e, se necessario, a portarla a

termine. Infatti non si deve temere né la mancanza di mezzi né alcuno impedimento da

parte di qualunque potere, se per amore dei santi Martiri ci si prende cura di sé

attingendo alle proprie risorse. Anzitutto, dato che abbiamo iniziato la costruzione di

questa chiesa per ispirazione di Dio, poiché le mura erano molto vecchie ed in molti

punti minacciavano di crollare, ho chiamato i migliori pittori che ho potuto trovare da

diverse regioni e con riverenza ho ordinato loro di restaurare le mura e di dipingerle

bellamente con oro e colori preziosi. E, poiché fin da quando ero uno scolaretto ho

desiderato fare ciò, se mai lo potessi, portai a termine l'opera molto volentieri.

XXV . La prima aggiunta alla chiesa

In verità, mentre ormai veniva portato a termine questo lavoro con molte spese, per

ispirazione di Dio e a causa dell'inadeguatezza che vedevo e avvertivo spesso nei giorni festivi, e in particolare durante la festa di S. Dionigi nel giorno della Fiera e in moltissime

altre festività (per la ristrettezza del luogo le donne erano costrette a correre verso

l’altare sulle teste degli uomini come sopra un pavimento, con molta angoscia e

rumorosa confusione), mi decisi ad accrescere e ad ampliare la nobile chiesa

consacrata dalla mano divina, sostenuto in ciò dal consiglio di uomini saggi e dalle

preghiere di molti religiosi, affinché non dispiacesse a Dio e ai Santi Martiri. E cosí

iniziai l'opera. Nel nostro capitolo cosí come nella chiesa, io imploravo la Divina

Misericordia affinché Colui che é inizio e la fine, l'Alfa e l'Omega congiungesse

ad un buono inizio una buona fine con una sicura parte mediana; che Egli non

scacciasse dall'edificio del Tempio un uomo sanguinario, che desiderava ciò con

tutto il cuore piú di quanto noti desiderasse possedere tesori di Costantinopoli.

Cominciammo dunque dal primo ingresso con le porte; e, abbattendo una parte

aggiunta, che si diceva fosse stata fatta da Carlo Magno in una occasione veramente

onorevole (il padre suo, l'imperatore Pipino, si era fatto seppellire fuori, all'ingresso

delle porte, prono e supino per i peccati di suo padre Carlo Martello), mettemmo

mano da quella parte. E, come appare evidente, lavorammo incessantemente ad

ampliare il corpo della chiesa, a triplicare le entrate e le porte, ad erigere torri alte e

decorose.

XXVII. Fusione e doratura delle porte

Fatti venire i fonditori e scelti gli scultori, erigemmo le porte principali, nelle quali sono

raffigurate la Passione, la Resurrezione e l'Ascensione del Salvatore, con molte spese e

con molto dispendio per la doratura, come conveniva ad un nobile portico. Ed erigemmo

anche le altre, nuove a destra, antiche a sinistra, sotto il mosaico che, contrariamente alla

moderna usanza, abbiamo ordinato che fosse eseguito qui e affisso nel timpano della

porta. Ci mettemmo ad eseguire con cura anche la torre e i bastioni superiori della fronte,

sia per la bellezza della chiesa sia per una certa utilità, nel caso che lo richiedessero le

circostanze. Ordinammo anche che l'anno della consacrazione, per non essere dimenticato,

fosse scritto con lettere di rame dorate in tale maniera:Per il decoro della chiesa che lo ha nutrito ed esaltato, Sigeri ha lavorato per il decoro della chiesa.Dando a te una parte di ciò che è tuo, o martire Dionigi,ti prega che tu preghi affinché ottenga un posto in Paradiso. L'anno mille cento quarantaera del Verbo, quando (questa chiesa) fu consacrata.

E i versi delle porte sono questi;

Chiunque tu sia che cerchi di esaltare la gloria di queste porte, non meravigliarti per l'oro né per la spesa, ma per il lavoro richiesto dall'opera. Risplende la nobile opera, ma l'opera che nobile risplende illumini le menti, affinché si muovano nella vera lucefino alla luce vera, dove Cristo è la vera porta.La mente, ottusa, al vero si leva attraverso le cose materiali e, prima sommersa, risorge vedendo questa luce.

E sull'architrave:Accogli, o Giudice severo, le preghiere del tuo Sigeri;fa nella tua bontà che sia annoverato fra le tue pecore.

XXXII.

Noi ci sforzeremo con tutta la devozione dell'animo, se lo potessimo, di far sì che

l'adorabile vivificante croce, vessillo salutare della vittoria eterna del nostro Salvatore

(di cui dice l'apostolo: «Che io sia ben lungi dal gloriarmi d'altro che della croce del

Signor mio Gesù Cristo» [Gal 6,14]), fosse ornata nella maniera più gloriosa, così

come è gloriosa, non solo di fronte agli uomini, ma anche di fronte agli angeli stessi,

l'insegna del Figlio dell'uomo che apparve nel cielo in un momento di estremo pericolo,

salutandola pertanto con l'apostolo Andrea: «Salve croce che sei stata consacrata nel

corpo di Cristo e delle sue membra come di pietre preziose sei stata ornata» [Passio

Andreae, X]. Ma poiché non abbiamo potuto come avremmo voluto, abbiamo fatto come

meglio abbiamo potuto e, grazie a Dio, ci siamo adoperati a portarla a termine. A causa

di ciò, dandoci d'attorno da ogni parte direttamente e attraverso i nostri messi per

trovare una gran quantità di gemme e di pietre preziose, preparando un materiale quanto

più prezioso potemmo trovare in oro e gemme per sì imponente ornamento,

convocammo dalle diverse parti gli artefici più abili e li incaricammo di fabbricare con

diligenza e senza fretta una croce che, nella parte posteriore, si levasse venerabile per la

stessa ammirevole presenza delle pietre preziose e rispettivamente nella parte anteriore,

cioè davanti agli occhi del sacerdote celebrante, in ricordo della sua passione mettesse in

rilievo l'adorabile immagine del Signore e Salvatore quasi ancora sofferente in croce.

Proprio in quel luogo il beato Dionigi era rimasto a giacere per cinquecento anni ed

anche più, e cioè dal tempo di Dagoberto fino ai giorni nostri. Non abbiamo voluto

passare sotto silenzio un simpatico ma notevole fatto miracoloso che il Signore ci fece

vedere in questa circostanza. Trovandomi io in difficoltà per la mancanza di gemme ed

in più non essendo in grado di procurarmene (la rarità infatti ne fa salire il prezzo), ecco

dei monaci di tre abbazie di due ordini, e cioè di Cîteaux, di un'altra abbazia dello stesso

ordine e di Fontevrault, entrare nella nostra stanzetta addossata alla chiesa e portarci in

vendita una grande abbondanza di gemme, cioè giacinti, zaffiri, rubini, smeraldi, topazi,

di tale entità quale non speravamo affatto di trovare in dieci anni. Costoro 1e avevano

ottenute come elemosina dal conte Teobaldo, che le aveva ricevute per mano del fratello

Stefano re di Inghilterra dai tesori dello zio defunto, il re Enrico, che le aveva raccolte in

coppe stupende per tutta la sua vita. Liberati dalla necessità di andare a fare incetta di

gemme, ringraziando Dio, demmo per esse quattrocento libbre mentre quelle valevano

assai di più.

Né solo queste gemme utilizzammo per perfezionare un addobbo così santo, ma

anche gran copia di altre pietre e di grosse perle. [...]

XXXIII

Ci affrettammo ad ornare l'altare maggiore del beato Dionigi, dove c'era soltanto un

bellissimo e prezioso pannello frontale fatto fare da Carlo i1 Calvo, terzo imperatore,

poiché proprio in quell'altare c'eravamo votati alla vita monastica. Lo facemmo circondare

tutto applicando ad ogni fianco pannelli d'oro ed aggiungendone anche un quarto, sicché

tutto l'altare da ogni parte sembrasse d'oro. Su ogni fianco ponemmo là dei candelabri di

venti marche d'oro del re Ludovico Filippo, affinché non si prendessero in ogni

occasione; nei pannelli incastonammo giacinti, smeraldi e pietre preziose di ogni genere e

demmo ordine di cercarne diligentemente altre da aggiungere. Su tali pannelli ci sono i

seguenti versi.

Sul fianco destro:Queste tavole d'altare pose l'abate Sigeri,in aggiunta a quella che prima aveva offerto il re Carlo. Rendi degni col tuo perdono gli indegni, o Vergine Maria. I delitti del re e dell'abate cancelli la fonte della pietà.

Sul fianco sinistro:

Se mai un empio deprederà questo splendido altare, possa egli perire dannato insieme con Giuda.

Ma il pannello posteriore, lavorato con mirabile arte e con profusione di ricchezza, poiché

gli artisti barbari erano più prodighi dei nostrii, rendemmo più nobile con rilievi mirabili

sia per la forma per la materia, sicché si può ben dire: l'arte supera la materia.

Facendo incastonare lí molti tesori che avevamo acquistato ed ancor più di quegli

ornamenti della chiesa che temevano potessero andare perduti: ad esempio, un calice d'oro

privo di pietre ed alcune altre cose. E poiché la diversità della materia, come l'oro, le

gemme, le perle, non si intuisce facilmente con una tacita percezione della vista senza una

descrizione, facemmo affidare alle lettere l’opera che si rivela solo alle persone colte,

risplendendo del fulgore delle allegorie piene di letizia. Ed abbiamo inserito dei versi che

spiegassero tutto ciò, affinché le allegorie possano essere comprese piu chiaramente:A gran voce il popolo grida a Cristo: - Osanna!La vera vittima che viene offerta nella cena ha portato tutti. Si affretta a prendere la croce Colui che sulla croce salva tutti. La promessa che Abramo ottiene per la sua prole è suggellata dalla carne di Cristo. Melchisedec offre una libagione perché Abramo trionfa sul nemico. Quelli che cercano Cristo con la croce, portano il grappolo d'uva su di una

stanga.

Spesso contemplavamo, per 1'amore che portavamo alla madre Chiesa questi diversi

ornamenti, ad un tempo nuovi ed antichi, e quando vedemmo porre sull'altare d'oro quella

meravigliosa croce di S. Egidio, insieme con le altre minori e quell'incomparabile

ornamento che comunemente si chiama "crista," sospirando dal profondo del cuore,

dicemmo: Ogni sorta di pietre preziose ingemmava la veste che ti copriva: il

sardio, il topazio, lo jaspide, il crisolito, il berillo, lo zaffiro, il carbonchio, lo

smeraldo. Quelli che conoscono le proprietà delle gemme con somma meraviglia

possono constatare che, tranne il carbonchio, non manca nessuna delle enumerate, anzi

esse sono profuse in grande abbondanza. E quando per l'amore che nutro per lo splendore

della casa di Dio, la bellezza multicolore delle gemme talvolta mi richiama dalle

preoccupazioni esteriori e trasportandomi dalle cose materiali a quelle spirituali, la

meditazione retta mi invita a riflettere sulla diversità delle sante virtù, allora mi sembra di

vedere me stesso quasi in una parte del mondo che non conosco e che non è né del tutto

tuffata nella feccia della terra, né immersa nella purità del cielo e mi sembra di potermi

trasferire per dono di Dio, grazie aIl'anagogia, da questa dimora inferiore a quella

superiore. Avevo l'abitudine di conversare con gli operai di Gerusalemme ed apprendere

con gioia, da coloro che avevano visto i tesori di Costantinopoli e gli ornamenti di Santa

Sofia, se queste nostre cose a paragone di quelle potessero valere qualche cosa. Quando

essi confessarono che queste nostre ricchezze erano superiori, ci sembrò che per timore

dei Franchi fossero state cautamente riposte le meraviglie che prima avevamo sentito

descrivere affinché per la violenta rapacità di alcuni sciocchi, i buoni rapporti che si era

riusciti a instaurare fra i Greci e i Latini, non fossero tratti a sedizione e a scandali di

guerra; infatti l'astuzia è la caratteristica dei Greci. Perciò potrebbe darsi che siano

maggiori questi tesori che qui si vedono riposti in luogo sicuro rispetto a quelli che si

vedevano lí in condizioni insicure a causa dei disordini. Da molti uomini e perfino da Ugo

vescovo di Laon, noi avevamo sentito cose meravigliose e quasi incredibili sul valore

degli ornamenti per la celebrazione della Messa, che si trovavano in Santa Sofia e nelle

altre chiese. Se le cose stanno cosí, - anzi poiché credo che sia così per la testimonianza di

quelle persone - dei tesori cosí inestimabili ed incomparabili dovrebbero essere esposti al

giudizio. Ognuno dia la piena misura della sua intelligenza. A me, lo confesso, una

cosa è sembrata sempre piú importante: che tutte le cose piú preziose e piú costose

debbono servire soprattutto alla celebrazione della S. Eucarestia. Se vasi di oro puro, fiale

d'oro, mortai d'oro servivano, per la parola di Dio e il comando del profeta, a raccogliere

il sangue di capri e di tori e la cenere di una giovenca, quanto più i vasi d'oro, le

pietre preziose e tutte le cose più preziose al mondo debbono essere usate con continua

riverenza e piena devozione per accogliere il sangue di Gesù Cristo! Certamente, né noi

né le nostre cose siamo sufficienti per questo servizio. Se per una nuova creazione la

nostra sostanza fosse rinnovata con la sostanza dei santi Cherubini e Serafini, tuttavia ciò

offrirebbe ancora un servizio insufficiente ed indegno a sí grande e sí ineffabile vittima.

Sí grande è la vittima propiziatoria per i nostri peccati! I detrattori obiettano che dovrebbe

bastare a tale celebrazione una mente santa, un animo puro e un'intenzione fedele. Anche

noi dichiariamo esplicitamente che queste cose interessano principalmente e

specificamente. E professiamo di dover recare omaggio, anche con gli ornamenti esteriori

dei sacri vasi, a niente al mondo cosí come al servizio del Santo Sacrificio, in tutta

purezza interiore e con tutto il decoro esterno. In ogni cosa, infatti, ed in ogni modo è

giusto che noi serviamo col massimo decoro il nostro Redentore, il quale in ogni cosa ed

in ogni modo senza alcuna eccezione mai si rifiutò di provvedere a noi: egli che uní alla

sua natura la nostra in un'unica mirabile persona; egli che, ponendoci alla sua destra, ci

promise che avremmo davvero posseduto il suo regno; il Signor nostro che vive e

regna per tutti i secoli dei secoli.

XXXIV

Anche il coro dei frati, per il quale erano in grave angustia coloro che con assiduità si

dedicavano al servizio della chiesa, e che da un po' di tempo era malsano per la salute a

causa del freddo, dovuto al marmo e al rame, facemmo mutare nella forma che ha adesso,

avendo pietà delle fatiche dei monaci, e con l'aiuto di Dio, con lo ampliamento del

convento, ampliammo anche il coro.

Dopo aver ricuperato i pannelli che da tempo erano insudiciati per il fatto che vi si

ponevano sopra, continuando a spostarle, le cassette per il denaro, facemmo ancora

restaurare l'antico pulpito che - ammirevole per una ricercatissima e ai nostri tempi

insostituibile scultura nei pannelli eburnei - per la raffigurazione di antiche storie superava

ogni possibilità di umana valutazione; ed avendo restaurato a destra degli animali di rame,

perché non andasse in rovina un materiale cosí mirabile, lo facemmo elevare per

pronunciarsi dall'alto la lettura del Santo Evangelo. All'inizio del nostro governo

abbaziale, affinché la bellezza imponente della chiesa non fosse offuscata da tali

ingombri, avevamo fatto levare dal mezzo della chiesa un certo impedimento, per cui

questa era tagliata da un muro che toglieva luce.

Similmente facemmo restaurare il nobile trono del glorioso re Dagoberto che si

mostrava ormai antiquato e crollante, trono su cui, appena ottenuto il potere del regno, i

re dei Franchi, come suole dimostrarci il passato, hanno il costume di sedere per la

prima volta, per ricevere l'omaggio dei loro principi. Intraprendemmo tale lavoro così

per l'eccellenza di tanto importante carica come anche per il valore dell'opera stessa.

Provvedemmo a fare dorare di nuovo l'aquila posta nel mezzo del coro, ormai priva

della doratura per l'insistente abitudine di toccarla che avevano i visitatori.

Facemmo anche dipingere, sia di sopra sia di sotto, una splendida varietà di nuove

vetrate, da quella che comincia dalla stirpe di Jesse, in capo alla chiesa, fino a quella

che sovrasta il portale principale all'ingresso della chiesa, servendoci dell'arte raffinata

di molti maestri di diverse regioni. Una di queste vetrate, incitando a passare dalle

cose materiali alle immateriali, rappresenta l'apostolo Paolo che fa girare una macina

da mulino e dei Profeti che portano sacchi alla macina. Per tale soggetto questi sono i

versi:Spingendo la mola, Paolo, trai dalla crusca farina.

Fa noti gli aspetti interiori della legge mosaica. Genuino, privo di crusca si formi da tanti chicchi il pane, cibo perpetuo per noi e per gli angeli.

Parimenti sulla stessa vetrata, dove viene tolto il velo dal volto di Mosè

Ciò che vela rivela la dottrina di Cristo. Mettono a nudo la legge quelli che spogliano Mosè.

Nella medesima vetrata, sopra l'arca della legge:

Sull'Arca del Patto s'innalza, per la croce di Cristo, un altare: per un patto piú grande la vita là vuole morire.

Ancora sulla medesima vetrata, dove il Leone e l'Agnello aprono il Libro:

Iddio che è grande, schiude il Libro, Leone ed Agnello: Agnello oppure Leone diviene la carne unita a Dio.

In un'altra vetrata, dove la figlia del Faraone trova Mosè in una cesta di vimini:

Nel cestello di giunchi é Mosè, proprio il fanciullo,che, giovinetta regale, la Chiesa, con pio sentimento ristora.

Nella medesima vetrata, dove il Signore appare a Mosè nel fuoco del roveto:

Come il roveto, si vede qui ardere, e pure non arde, così arde senz'ardere, pieno di questo fuoco divino.

Sempre nella stessa vetrata, dove il Faraone con la sua cavalleria - sommerso nel mare:

Ciò che fa per i buoni il battesimo, lo stesso fa per i soldati di Faraone uguale apparenza, causa dis s imile.

Ancora nella medesima vetrata, dove Mosè innalza il serpente di bronzo:

Come elimina tutti serpenti il Serpente di bronzo, così Cristo, levato in croce, distrugge i nemici.

Nella medesima vetrata, dove Mosè riceve la legge sul monte:

Data a Mosè la Legge, la grazia di Cristo l'alimenta. La grazia é vivificante, la lettera uccide.

Pertanto, in vista del grande valore che deriva dalla qualità artistica delle opere, dalle

spese fatte, dallo stesso materiale del vetro dipinto e dei zaffiri, a protezione e a riparo

di tutte queste cose e abbiamo creato un incaricato ufficiale, come anche un esperto

orefice per gli ornamenti in oro ed argento. Costoro prelevino le loro spettanze e ciò

che a loro sembra opportuno, e particolarmente i denari dall'altare ed il vitto dalla

comune mensa dei fratelli, e non si assentino mai dal loro compito di sorveglianza.

BERNARDO DI CHIARAVALLE (1091-1153), Apologia ad Guillelmum, 1125 c.

XII, 28. Ma queste son cose di poca importanza; passerò a discorrere di

quelle più importanti che sembrano però meno, perché son più nell'uso.

Tralascio le altezze immense degli oratori, le lunghezze smisurate, le

sproporzionate ampiezze, le superbe lisciature, le pitture curiose che mentre

sviano sopra di sé l'occhio degli oranti ne impediscono la devozione e mi

fanno in certo modo l'effetto dell'antico rito dei giudei. Sia pure che queste

cose si facciano ad onore di Dio. Ma da monaco a monaci faccio la domanda

che da pagano tra pagani faceva il poeta accusando: «Dite, o pontefici, che

c'entra l'oro nella religione?» [Persio, Satire, II, 69]. Ma io dico: «Dite, o poveri

(non bado alla metrica ma al senso), dite o poveri, se pure siete poveri, che

c'entra l'oro nella religione?». E in verità altra è la condizione dei vescovi e

altra quella dei monaci. Sappiamo infatti che i vescovi, essendo debitori a

sapienti e a insipienti, suscitano la devozione di un popolo carnale con gli

ornamenti corporali, giacché non possono farlo con quelli spirituali; ma noi

monaci, che siamo ormai usciti dal popolo, noi che abbiamo per il Cristo

abbandonato tutte le cose preziose e speciose del mondo, noi che per

guadagnare il Cristo abbiam stimato sterco tutte le cose che splendono di

bellezza, che carezzano l'orecchio con la dolcezza dei suoni, che odorano

soave, che gustano dolce, che piacciono al tatto, e tutto ciò insomma che

carezza il corpo, quali sono, vi prego; le persone di cui intendiamo con

queste cose suscitare la devozione? Che frutto, dico, ricerchiamo in esse?

L'ammirazione degli stolti o l'offerta dei semplici? 0 forse perché siamo

frammisti ai gentili abbiamo imparato le loro opere e siamo ancora schiavi

dei loro simulacri? 0 forse, per parlare apertamente, tutto questo è effetto

dell'avarizia che è schiavitù degli idoli, e invece di ricercare il frutto

spirituale del prossimo, ne ricerchiamo l'offerta? Se mi si domanda: in che

modo ricerchiamo l'offerta? Rispondo: in un modo singolare, con un'arte per

cui si profonde il denaro allo scopo di moltiplicarlo. Lo si spende per

aumentarlo e lo scialo produce ricchezza. Infatti proprio alla vista di vanità

sontuose, ma suscitatrici di meraviglia, gli uomini si infervorano più a fare

offerte che a far preghiere. Così dalla ricchezza si attinge ricchezza, così il

denaro tira il denaro, poiché, non so come, dove la gente vede nei templi

maggior ricchezza, lì offre più volentieri. Gli occhi son colpiti dalle reliquie

coperte d'oro e intanto dalle borse escono i baiocchi. Si mostra qualche

immagine bellissima di santo o di santa, e i santi son creduti tanto più santi,

quanto più vivamente son colorati. La gente corre a baciare, viene invitata a

fare doni e ammira il bello più che non veneri il sacro. Quindi si pongono

nella chiesa non corone, ma addirittura ruote di gemme, circondate di

lampade, rese ancor più fulgenti per l'intarsio di pietre preziose. Vediamo

anche che per candelabri si alzano certi alberi fabbricati in bronzo

massiccio, lavorati mirabilmente e splendenti meno per le lumiere

sovrastanti che per le proprie gemme. A che cosa pensi tu che si miri con

tutto questo? Alla compunzione dei penitenti o alla meraviglia dei guardanti?

0 vanità delle vanità, non meno vana però che insana! La chiesa rifulge nelle

sue pareti e penuria nei suoi poveri. Riveste d'oro le sue pietre e abbandona

nudi i suoi figli. Col denaro che dovrebbe spendersi per gli indigenti si dà

piacere agli occhi dei ricchi. I raffinati trovano onde prender diletto e i

poveri non trovano onde sostentarsi. Ma perché non rispettiamo almeno le

immagini dei santi onde è coperto il pavimento stesso che si calca coi piedi?

Spesso si sputa in faccia a un angelo, spesso il viso di un santo vien

logorandosi sotto i calcagni di chi passa in chiesa. E se non si vogliono

rispettare le sacre immagini, perché non aver riguardo almeno alla bellezza

dei colori? Perché si fa bello quello che si deve tosto buttare? Perché si

dipinge quello che deve necessariamente essere calpestato? Che cosa fanno

le belle immagini dove sono continuamente insozzate dalla polvere? E infine

che giovano queste cose ai poveri, ai monaci, agli uomini spirituali? Tranne

che a questo punto, per confutare il verso già citato del poeta, si rechi il

passo del Profeta: «0 Signore, ho amato la bellezza della tua casa e il luogo

dove abita la tua gloria» [Sa1. 26,8]. Lo riconosco. Permettiamo pure che si

facciano anche queste cose nella chiesa, giacché sebbene riescano nocive

agli spiriti vani e avari, non però lo sono per gli spiriti semplici e devoti.

29. Del resto, che cosa fa nei chiostri, dove i frati stanno leggendo l'officio,

quella ridicola mostruosità, quella specie di strana formosità deforme e

deformità formosa? Che cosa vi stanno a fare le immonde scimmie? O i

feroci leoni? O i mostruosi centauri? O i semiuomini? O le maculate tigri? O i

soldati nella pugna? O i cacciatori con le tube? Si possono vedere molti corpi

sotto un'unica testa e viceversa molte teste sopra un unico corpo. Da una

parte si scorge un quadrupede con coda di serpente, dall'altra un pesce con

testa di quadrupede. Lì una bestia ha l'aspetto del cavallo e trascina

posteriormente una mezza capra, qui un animale cornuto ha il posteriore di

cavallo. Insomma appare dappertutto una così grande e così strana varietà

di forme eterogenee, che si prova più gusto a leggere i marmi che i codici e

a occupare l'intiera giornata ammirando a una a una queste immagini che

meditando la legge di Dio. O Signore, se non ci vergogniamo di queste

bamboccerie, perché almeno non ci rincresce delle spese?

TITULI DELLA MAESTA’ DI SIMONE MARTINI NEL PALAZZO PUBBLICO DI

SIENA

Mille trecento quindici vol <gea>E Delia avia ogni bel fiore spintoE Iuno già gridava: “I mi rivol<lo>

Se <l>a man di Symone <...>

Responsio Virginis ad dicta Sanctorum

Diletti miei, ponete nelle mentiche li devoti vostri preghi onesticome vorrete voi farò contenti.

Ma se i potenti a’ debil fien molesti,gravando loro o con vergogne o danni,le vostre orazion non son per questi

né per qualunque la mia terra inganni.

Li angelichi fiorecti, rose e gigli,onde s’adorna lo celeste prato,non mi dilettan più che i buon’ consigli.

Ma talor veggio chi per propio statodisprezza me e le mie tera inganna,e quando parla peggio è più lodato.

Guardi ciascun cui questo dir co[n]danna.

DANTE ALIGHIERI, Divina Commedia

Pg XXVIII 55-8:

volsesi in su i vermigli e in su i giallifioretti verso me, non altriMENTIche vergine che gli occhi ONESTI avvalli;e fece i PRIEGHI miei esser CONTENTI

Pg XXIII 88:

con suoi PRIEGHI DEVOTI e con sospiri

If XXVIII 70-72

e disse:”O tu CUI colpa non CONDANNAe cu’ io vidi in su la TERRA latina,se troppa simiglianza non m’INGANNA

Il Buon Governo di Ambrogio Lorenzetti. Iscrizioni

A1Questa santa virtù, là dove regge,induce ad unità li animi molti,e questi, a cciò ricolti,un ben comun per lor signor si fanno,lo qual, per governar suo stato, eleggedi non tener giamma’ gli ochi rivoltida lo splendor de’ voltide le virtù che ‘ntorno a llui si stanno.Per questo con trionfo a llui si dannocensi, tributi e signorie di terre,per questo senza guerreseguita poi ogni civile effetto,utile, necessario e diletto.

A2

Volgiete gli occhi a rimirar costei,vo’ che reggiete, ch’è qui figurataper su’ eciellenzia coronata,la qual sempr’ a ciascun suo [dritto rende.Guardate quanti ben vengan da leiE come è dolce vita e riposataquella] de la città du’ è servataquesta virtù ke più d’altra risprende.Ella guarda e difendechi lei onora e lor nutrica e pascie;da la suo lucie nascieel meritar color c’operan benee agl’iniqui dar debite pene.

A3 Senza paura ogn’uom franco camini,e lavorando semini ciascuno,mentre che tal comunomanterrà questa donna in signoria,ch’el à levata a’ rei ogni balia.

B1

Là dove sta legata la iustitia,nessuno al ben comun già mai s’acorda,né tira a dritta corda:però convien che tirannia sormonti,la qual, per adempir la sua nequizia,nullo voler né operar discordadalla natura lordade’ vitii che con lei son qui congiunti.Questa caccia color ch’al ben son prontiE chiama a sé ciascun c’a male intende;questa sempre difendechi sforza o robba o chi odiasse pace,unde ogni terra sua inculta giace.

B2……………………… e per effetto,che dove è tirannia è gran sospetto,guerre, rapine, tradimenti e ‘nganni.Prendasi signoria sopra di leiE pongasi la mente e lo intelletto[in tener sempre a iustitia suggiettociascun, per ischifar sì scuri danni,abbattendo e’ tiranni;e c]hi turbar la vuole sie per suo mertodiscacciat’ e disertoinsieme con qualunque sia seguacie,fortificando lei per vostra pace.

B3 Per voler el ben proprio, in questa terrasommess’ è la giustizia a tirannia,unde per questa vianon passa alcun senza dubbio di morte,ché fuor si robba e dentro da le porte.

GIOVANNI PISANO ISCRIZIONI DEL PULPITO DI PISA

ISCRIZIONE AGiovanni pose qui attorno i fiumi e le parti del mondo, tentando con duro lavoro tutte le numerose vie dell'arte e generosamente proponendo ammaestramenti. Ed ora grida a gran voce: «Non mi sono sufficientemente premunito, perché quando più grandi novità ho creato, allora ho sofferto maggiori ostilità e danni. Ma con animo sereno sopporto in cuore la pena della mia remissività». Affinché io possa allontanare da lui il livore dei suoi nemici, mitigargli il dolore e ottenergli fama, aggiungi ai miei versi anche questo conforto: che mostra sé indegno chi biasima un uomo degno d'onore: così, procurando biasimo a se stesso, onora proprio colui che intende disapprovare.

ISCRIZIONE BSia lode al Dio vero, per cui esiste tutto ciò che è buono, e che ha concesso ad un uomo di plasmare queste splendide figure. Quest'opera scolpirono con arte le sole mani di Giovanni, figlio del fu Nicola, quando era trascorso completamente l'anno del signore 1311 e già dominava sui Pisani, concordi e discordi, il conte Federico di Montefeltro. Egli fu assistito da Nello di Falcone, che aveva in cura questo lavoro e rappresentava i diritti dell'Opera. Anch'egli nacque a Pisa, come Giovanni, che con abilità superiore a tutti gli altri fece splendidi lavori in pietra legno ed oro, secondo tutte le regole dell'arte della vera scultura. Cose brutte o deformi non le avrebbe potute produrre, neppure se avesse voluto. Molti sono gli scultori, ma a lui resta il vanto della lode. Egli creò splendide sculture e figure di vario tipo. A buon diritto è approvato chiunque le ammira. Cristo, abbi pietà di lui, a cui sono state concesse tali doti. Amen.

DANTE ALIGHIERI, Divina Commedia, Purg., XI, vv. 73-117

73 Ascoltando chinai in giù la faccia;74 e un di lor, non questi che parlava,75 si torse sotto il peso che li 'mpaccia,

76 e videmi e conobbemi e chiamava,77 tenendo li occhi con fatica fisi

78 a me che tutto chin con loro andava.

79 «Oh!», diss'io lui, «non se' tu Oderisi,80 l'onor d'Agobbio e l'onor di quell'arte81 ch'alluminar chiamata è in Parisi?».

82 «Frate», diss'elli, «più ridon le carte83 che pennelleggia Franco Bolognese;84 l'onore è tutto or suo, e mio in parte.

85 Ben non sare' io stato sì cortese86 mentre ch'io vissi, per lo gran disio87 de l'eccellenza ove mio core intese.

88 Di tal superbia qui si paga il fio;89 e ancor non sarei qui, se non fosse90 che, possendo peccar, mi volsi a Dio.

91 Oh vana gloria de l'umane posse!92 com'poco verde in su la cima dura,93 se non è giunta da l'etati grosse!

94 Credette Cimabue ne la pittura95 tener lo campo, e ora ha Giotto il grido,96 sì che la fama di colui è scura:

97 così ha tolto l'uno a l'altro Guido98 la gloria de la lingua; e forse è nato99 chi l'uno e l'altro caccerà del nido.

100 Non è il mondan romore altro ch'un fiato101 di vento, ch'or vien quinci e or vien quindi,102 e muta nome perché muta lato.

103 Che voce avrai tu più, se vecchia scindi104 da te la carne, che se fossi morto105 anzi che tu lasciassi il "pappo" e 'l "dindi",

106 pria che passin mill'anni? ch'è più corto107 spazio a l'etterno, ch'un muover di ciglia108 al cerchio che più tardi in cielo è torto.

Filippo Villani, De origine civitatis Florentiae et eiusdem famosis civibus

Gli antichi, che scrissero cronache di grande valore, inclusero nei loro volumi, assieme agli altri uomini famosi, anche i pittori e gli scultori di immagini e di statue. E anche i poeti classici, trattando ammirati del talento e della bravura di Prometeo, lo rappresentarono come colui che plasmò 1'uomo col fango della terra'. Così credettero infatti (almeno ìmmagino) questi saggi: gli imitatori della natura, che cercarono di produrre immagini di uomini col bronzo e con la pietra, non avrebbero potuto farlo senza un nobile talento, una grande memoria, e una delicata capacità manuale. Perciò, tra tanti personaggi illustri, inserirono nei loro annali Zeusi, [...] Fidia, Prassitele, Mirone, Apelle c altri ancora, insigni in quest'arte. Seguendo il loro esempio, voglio anch'io parlare a questo punto - con buona pace di chi mi potrebbe schernire-dei pittori fiorentini più importanti, che resuscitarono un'arte ormai esangue e pressoché in estinzione. E tra questi il primo è Giovanni, detto Cimabue, che ridestò con arte e ingegno la pittura, a quell'epoca ormai decaduta dopo essersi da gran tempo allontanata dalla natura, ed averla quasi dimenticata. Prima di lui, per molti secoli la pittura greca e latina giaceva infatti inerte, sconfitta dalla totale incapacità tecnica dei pittori, come mostrano chiaramente le immagini e le figure di santi che vediamo come decorazioni nelle chiese, sia su muro che su tavola. Dopo di lui, ormai aperta la strada al nuovo, fu Giotto a restituire alla pittura la fama più alta e la sua dignità originaria: non solo lo possiamo paragonare per reputazione ai più grandi artisti dell'antichità, ma lo dobbiamo preferire a loro per arte e ingegno. Le raffigurazioni da lui rese col pennello sono così simili alle immagini che ci offre la natura, che allo spettatore sembrano vivere e respirare; e í loro gestì, i loro atteggiamenti sono così corrispondenti alla realtà che paiono davvero parlare, piangere, ridere e fare ogni cosa: con grande piacere di chi guarda e loda l'ingegno e la mano dell'artista. Molti pensano (e non a torto) che i pittori non siano di ingegno inferiore rispetto a quelli definiti nelle «arti liberali» magistri, dal momento che questi ultimi assimilano i principi della loro arte, messi per iscritto, con lo studio e l'istruzione, mentre ì primi ricavano quello che esprimono nella loro attività solo con un in gegno elevatissimo e una memoria assai tenace. A parte la pittura, Giotto fu assai saggio e si interessò a molte cose. Oltre ad avere piena cognizione della storia, fu a tal punto emulo della poesia, che riuscì a dipingere ciò che í poeti avevano descritto a parole (così almeno giudicano gli spettatori più avveduti). Come conviene ad un uomo molto prudente, fu più desideroso di fama che di guadagni. E fu quindi per divulgare il suo nome che dipinse nei luoghi più importanti di quasi tutte le città principali di Italia, e soprattutto a Roma, nell'atrio della Basilica di San Pietro, realizzò un mosaico con la Navicella degli Apostoli, rappresentata splendidamente nel momento del pericolo, per offrire una pubblica dimostrazione della sua arte e delle sue capacità a tutto il mondo, che viene a visitare 1'Urbe. Con l'aiuto di uno specchio, dipinse se stesso e Dante Alighieri, poeta a lui contemporaneo, in una parete della cappella del Palazzo

Pubblico. Da quell'artista così ammirevole, come fosse stato una sorgente pura e ricca, discesero per così dire dei ruscelli pittorici di gran livello, che spinsero ancora innanzi una pittura ormai fervida imitatrice della natura, splendida e appagante. Tra questi, il più elegante fu Maso, che dipinse con straordinaria e ammirevole eleganza. Stefano, scimmia della natura, la riprodusse con tanta precisione che le sue immagini di uominí mostravano le arterie, le vene, i nervi, e ogni più piccolo particolare, proprio come fossero state preparate da uno studioso di anatomia, tanto che ai suoi dipinti -lo testimonia lo stesso Giotto- sembrò mancare solo la funzionalità respiratoria. Taddeo dipinse molti (luoghi ed] edifici, con un'arte tale da apparire un secondo Dinocrate, o un Vitruvio (l'autore di un trattato sull'architettura). E contare tutti gli innumerevoli artisti che nell'esercizio di quest'arte nobílitarono Firenze richiederebbe troppo tempo, e troppo spazio. Basta quindi ciò che ho già detto, e passiamo ad altro.

GIOVANNI BOCCACCIO, Decamerone

Sesta giornata

[....] E l'altro, il cui nome fu Giotto, ebbe uno ingegno di tanta eccellenzia, che niuna cosa

dà la Natura, madre di tutte le cose e operatrice col continuo girar de'cieli, che egli con lo

stile e con la penna o col pennello non dipignesse sì simile a quella, che non simile, anzi

più tosto dessa paresse, in tanto che molte volte nelle cose da lui fatte si truova che il

visivo senso degli uomini vi prese errore, quello credendo esser vero che era dipinto.

E per ciò, avendo egli quella arte ritornata in luce, che molti secoli sotto gli error d'alcuni,

che più a dilettar gli occhi degl'ignoranti che a compiacere allo 'ntelletto de'savi

dipignendo intendeano, era stata sepulta, meritamente una delle luci della fiorentina gloria

dir si puote; e tanto più, quanto con maggiore umiltà, maestro degli altri in ciò vivendo,

quella acquistò, sempre rifiutando d'esser chiamato maestro.

CENNINO CENNINI

Il libro dell'arte'

Incomincia il libro dell'arte, fatto e composto da Cienino da Colle a riverenza di Dio e della

Vergine Maria e di Santo Eustacchio e di Santo Francesco e di San Giovanni Battista e di

Santo Antonio da Padova e generalmente di tutti e' Santi e Sante di Dio, e a riverenza di

Giotto di Taddeo e d'Agnolo maestro di Ciennino, e a ultolità e bene e guadagno di chi alla

detta arte vorrà pervenire.

Capitolo I

Nel principio che Iddio onipotente creò il cielo e la terra, sopra. tutti animali e alimenti creò

l'uomo e la donna alla sua propria inmagine, dotandoli di tutte virtú. Poi, per lo inconvenente

che per invidia venne da Lucifero ad Adam, che con sua malizia e segacità lo ingannò di

peccato contro al comandamento di Iddio (cioè Eva, e poi Eva Adam), onde per questo Iddio

si crucciò inverso d'Adam, e sí li fe' dall'angelo cacciare, lui e la sua compàgnia, fuor del

paradiso, dicendo loro: "Perché disubidito avete el comandamento il quale Iddio vi détte, per

vostre fatiche ed esercizii vostra vita traporterete." Onde cognoscendo Adam il difetto per lui

conmesso, e sendo dotato da Dio sí nobilmente, sí come radice principio e padre di tutti in

noi, rinvenne di sua scienza di bisogno era trovare modo da vivere manualmente; e cosí egli

incominciò con la zappa e Eva col filare. Poi seguitò molt'arti bisognevoli e differenziate l'una

dall'altra; e fu ed è di maggiore scienzia l'una che l'altra, ché tutte non potevano essere uguali:

perché la piú degna è la scienzia; appresso di quella seguitò alcune discendenti da quella, la

quale conviene avere fondamento da quella con operazione di mano; e quest'è un’arte che si

chiama dipignere, che conviene avere fàntasia e operazióne di mano, di trovare cose non

vedute, cacciandosi sotto ombra di naturali, e fermarle con la mano, dando a dimostrare quello

che non è; sia. E con ragione merita metterla a sedere in secondo grado alla scienza e

coronarla di poesia. La ragione è questa: che '1 poeta, ' con la scienza prima che ha, il fa

degno e libero di potere comporre e legare insieme sí e no come gli piace, secondo sua

volontà. Per lo simile al dipintore dato è libertàpotere comporre una figura ritta, a sedere,

mezzo uomo mezzo cavallo, sí come gli piace, secondo sua fantasia. Adunque ho per gran

cortesia a tutte quelle persone che in loro si sentono via a sapere o moda di potere adornare

queste principali scienze con qualche gioiello, che realmente senza alcuna periteza si mettano

innanzi, offerendo alle predette scienze quel poco sapere che gli ha Iddio dato.

Sí come piccolo membro essercitante nell'arte di dipintoría, Cennino, d'Andrea Cennini da

Colle di Valdelsa nato, fui informato nella detta arte XII anni da Agnolo di Taddeo da Firenze

mio maestro, il quale imparò la detta arte da Taddeo suo padre; il quale suo padre fu

battezzato da Giotto e fu suo discepolo anni XXIIII. Il quale Giotto rimutò l'arte del dipignere

di greco in latino, e ridusse al moderno; ed ebbe l'arte piú compiuta che avessi mai più

nessuno. Per confortar tutti quelli che all'arte vogliono venire, di quello che a me fu insegnato

dal predetto Agnolo mio maestro nota farò, e di quello che con mia mano ho provato:

principalmente invocando l'alto Iddio onnipotente, cioè Padre Figliuolo Spirito Santo;

secondo, quella dilettissima avvocata di tutti i peccatori Vergine Maria, e di Santo Luca

evangelista, primo dipintore cristiano, e dell'avvocato mio Santo Eustachio, e generalmente di

tutti i Santi e Sante di Paradiso. Amen.

LORENZO GHIBERTILorenzo Ghiberti, I commentarii (Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, II, I, 333). Introduzione e cura di Lorenzo Bartoli, (Biblioteca della scienza italiana, XVII), Firenze 1998, pp. 65-67

I. Arte antica

VII.1. Agatharco in Atene da Aschylo amaestratamente fece tregedia e lasciò d'essa

comentarii. Perciò, monisti, Democrito e <A>nasagora di quella medesima scrissono, in

che modo bisogna, *** a gli occhi per distendimento de' razi insino in certo luogo dal

centro ordinato, le linie rispondere per ragione naturale delle cose pitte nella scena, certe

ymagini et ediiicii le spetie renderobono nelle piane fronti altre cose, et altri proponimenti

essere si veggono`.

VII.2. E poi stiamo cheti delle simetrie doriche, compuose il volume della casa doricha; di

Giuno e di Samino, Teodo; della ionicha d'Epheso di Diana, Cresiphon, Metagenese; del

tempio di Minerva ch'è di Piena ionicho, Fileos; ancora della casa dorica di Minerva la

quale è in Atene nella rocca, Ictiono e Carpion; Teodoro Phoceo; dorico, i] quale è in

Delphii; Phylo delle semetrie delle case sacre e dello armontario che era stato nel porto di

Pyrreo; Hermogene della casa di Diana ionica <c>he è in Magnesia scudo dipttos,

monothoros; ancora Argellio delle simetrie corintiie et ionicho Eculapio in Tralibi, che

anchora si dice che esso colla sua mano el facesse; di Mars *** Saturo e Phytto.

VII.3 Alli quali la felicità portò grande e sommo dono. De' quali in prò dell'arti per lungo e

perpetuo tempo nobilissime laude et in sempiterno fiorenti si giudicano avere alle cose

pensate, et egregie opere ànno pensate Leochare, Bryase, Soaphe, Praxitelis, Timotheus;

pensate dell'arte de' quali la nobile excellentia constrigne ad septe delli spettaculi dell'opera

sua pervenire alla fama.VII.4. Oltra di ciò, molti meno nobilissimi comenti d'esse simetrie, Sì come Nessari,

Theocide, Demophylo, Pollia, Leonide, Sylanion, Melappo, Sarnaco, Euphranor. Non

meno delle machine, Monclutades, Architas, Archymede, Esobyos, Ninphodoro,

Pylolisantes Diphylos, Democles, Caridas, Possdes, Pyrros, Agesistratas. De' comentarii

dice quelle cose che utili fosseno avere pensato e veduti molti volumi greci composti,

quanto pochi dalli nostri delle dette opere non si truova alchuna cosa. Dice Vitruvio che

Fufido instituì fare di queste cose maravigloso volume; ancora Terentio Varro. E però in

Athene Antistates e Chalesteros, Antymachides e Porinos.

LORENZO GHIBERTI, I Commentari,

II, Arte moderna

I.1. <A>dunche al tempo di Constantino imperadore e di Silvestro papa sormontò su la fede

christiana. Ebbe la ydolatria grandissima persecutione, in modo tale, tutte le statue e le picture

furori disfatte e lacerate di tanta nobiltà et anticha e perfetta dignità, e così si consumaron colle

statue e picture, e vilumi, e comentarii, e liniamenti, e regole davano amaestramento a tanta et

egregia e gentile arte. E poi levare via ogni anticho costume di ydolatria, constituirono i templi

tutti essere bianchi. In questo tempo ordinorono grandissima pena a chi facesse alcuna statua o

alcuna pictura, e così finii l'arte statuaria e la pictura et ogni doctrina che in essa fosse fatta.

Finita che fu l'arte, stettero e templi bianchi circa d'anni 600. Cominciorono i Greci

debilissimamente l'arte della pictura e con molta rozeza produssero in essa: tanto quanto gl'

antichi furori periti, tanto erano in questa età grossi e rozi. Dalla edificatione di Roma furono

olimpie 382.

II.1. <C>ominciò l'arte della pictura a sormontare in Etruria. In una villa allato alla città di

Firenze, la quale si chiamava Vespignano, nacque uno fanciullo di mirabile ingegno, il quale si

ritraeva del naturale una pecora. In su passando Cimabue pictore, per la strada a Bologna, vide

el fanciullo sedente in terra, e disegnava in su una lastra una pecora. Prese grandissima

amiratione del fanciullo, essendo di sì pichola età fare tanto bene. [domandò] Veggendo aver

l'arte da natura, domandò il fanciullo come egli aveva nome'. Rispose e disse: «Per nome io son

chiamato Giotto. El mio padre à nome Bondoni, e sta in questa casa che è apresso», disse.

Cimabue et andò con Giotto al padre; aveva bellissima presentia; chiese al padre el fanciullo. El

padre era poverissimo, concedettegli el fanciullo a Cimabue. Menò seco Giotto, e fu discepolo

di Cimabue. Tenea la maniera greca, in quella maniera ebbe in Etruria grandissima fama. Fecesi

Giotto grande nell'arte della pictura.

Arrechò l'arte nuova, lasciò la rozeza de' Greci, sormontò excellentissimamente in Etruria. E

fecionsi egregiissime opere e spetialmente nella città di Firenze et in molti altri luoghi, et assai

discepoli furono tutti dotti al pari delli antichi Greci. Vide Giotto nell'arte quello che gli altri non

agiunsono. Arecò l'arte naturale e la gentileza con essa, non uscendo delle misure. Fu

peritissimo in tutta l'arte, fu inventore e trovatore di tanta doctrina la quale era stata sepulta circa

d'anni 600. Quando la natura vuole concedere alcuna cosa, la concede sanza veruna avaritia.

Costui fu copio<so> in tutte le cose, lavo<rò> in ***, in muro, lavorò a olio, lavorò in tavola.

Lavorò di mosayco la nave di San Piero in Roma, e di sua mano dipinse la capella e la tavola di

San Piero in Roma. Molto egregiamente dipinse la sala del re Uberto de' huorrúni famosi, in

Napoli, dipinse nel castello dell'uovo. Dipinse nella chiesa, cioè tutta è di sua mano, della Rena

di Padova. È di sua mano una gloria mondana. E nel Palagio della Parte è una storia della fede

christiana e molte altre cose erano in detto palagio. Dipinse nella chiesa d'Asciesi, nell'ordine de'

frati minori, quasi tutta la parte di sotto. Dipinse a sancta Maria degli Angeli in Ascesii. A

sancta Maria della Minerva in Roma uno crocifisso con una tavola.

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