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V. Arti suntuarie, microtecniche, scultura Arti monumentali, arti suntuarie Nel 1299 il direttore dei lavori per la costruzione del Palazzo Pubblico di Siena era un calligrafo e minia- tore, un esperto di arte libraria. Lo attesta un paga- mento di Biccherna di quell’anno a maestro Gio- vanni “miniatori, operario Comunis senensis” 1 . Quando quarant’anni dopo, nel 1339, avevano ini- zio i lavori per il “duomo nuovo” (vale a dire il gran- de ampliamento della cattedrale, l’ambiziosa e sfor- tunata impresa portata avanti a partire dal 1339 e mai compiuta) 2 con solenne deliberazione del Con- siglio generale della Campana fu richiamato da Na- poli affinché sovrintendesse alla costruzione il “pro- vidus vir” Lando di Pietro, un orafo di grande fama: “homo legalissimus” – dice la deliberazione – “et non solum in arte sua predicta [ovvero l’oreficeria], sed in multis aliis […] homo magne subtilitatis et adinventionis tam his que spectant ad edificationes ecclesiarum” 3 . Colui che nel 1311 aveva realizzato il diadema servito per l’incoronazione a re d’Italia di Enrico di Lussemburgo, l’orafo di tanta sottigliezza e capacità inventiva, ricevette quindi l’incarico di “offiziale a fare la chiesa maggiore” per i tre anni successivi. Ancora nella seconda metà del secolo un orafo pote- va essere deputato a sovrintendere alla più impor- tante fabbrica cittadina: Michele di Ser Memmo, in- fatti, dopo aver intagliato sigilli per il Comune ed essere stato contattato, mentre era “chapomaestro del Palagio del Comune di Pistoia”, per i lavori del- l’altare argenteo di san Iacopo nel duomo di quella città, tra il 1360 e il 1361 fu nominato capomaestro della cattedrale di Siena 4 . Sono dei fatti significativi. Un miniatore e due orafi si trovarono così a capo, per qualche tempo, delle due più importanti, rappresentative e impegnative fabbriche architettoniche di Siena. È probabile che la dimestichezza con le tecniche grafiche e il nuovo ruolo del disegno come fondamento delle tecniche progettuali 5 abbiano contribuito a render possibile l’avvicendarsi di orafi e miniatori, assieme agli ar- chitetti-scultori, nella direzione delle grandi fabbri- che architettoniche. Ma il fatto fa inoltre toccare con mano quale fosse il prestigio di questi artefici e quanto importante sia la questione del dialogo, del- lo scambio – nel momento in cui Siena diventa, co- me scriveva Giovanni Previtali, “la capitale, in To- scana, del nuovo stile occidentale, gotico” 6 – tra arti suntuarie e arti monumentali. Accanto alle novità che a Siena si produssero nel cantiere del duomo – con la ricostruzione della chiesa, che si protrasse per gran parte del Duecento, con la realizzazione del pulpito nicoliano (1266-1268) e più tardi con la presenza di Giovanni Pisano – è infatti l’oreficeria che, in un momento assai vitale della propria storia, mostra la più spiccata apertura verso il gotico tran- salpino. Qualche cenno sulle vie di propagazione dell’arte gotica Nella Siena degli ultimi venti anni del Duecento, contemporaneamente al costituirsi di un contesto cimabuesco – quale è rappresentato dal “Maestro dei dossali di san Pietro e di san Francesco” (vale a dire Guido di Graziano, un pittore documentato nel 1284 e nel 1292, figg. 137, 138), dal caso del giovane Duccio (fig. 139) e dalla serie degli antifonari del duomo 7 –, il campo dell’illustrazione libraria è già altrettanto ricettivo nei confronti delle novità prove- nienti d’oltralpe, se le illustrazioni del Tractatus de creatione mundi della Biblioteca Comunale degli In- tronati di Siena si mostrano aggiornate sulla minia- tura parigina del tempo di Luigi IX il Santo 8 . Ma che al passaggio tra Due e Trecento, a Siena, sia l’orefice- ria a mettere più prepotentemente in crisi gli schemi consolidati, a rompere più decisamente la vischiosi- tà della tradizione, è un dato che dagli studi degli ul- timi decenni emerge in modo sempre più evidente 9 . Come apparisse agli occhi del committente (il papa francescano Niccolò IV, sul soglio pontificio tra il 1288 e il 1292) il calice commissionato al senese Guccio di Mannaia e destinato alla basilica di San Francesco ad Assisi (fig. 141) naturalmente non è dato sapere 10 . A noi, oggi, sembra attestare una con- tinuità nelle predilezioni gotiche che segnano la sto- ria duecentesca della basilica superiore di Assisi, a partire dall’architettura e – legate al nuovo stile ar- 117 136. Goro di Gregorio, San Cerbone ristora i messi del papa col latte della cerva, particolare dell’arca di san Cerbone. Massa Marittima, cattedrale © 2005 Banca Monte dei Paschi di Siena, vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale

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V. Arti suntuarie, microtecniche, scultura

Arti monumentali, arti suntuarieNel 1299 il direttore dei lavori per la costruzione delPalazzo Pubblico di Siena era un calligrafo e minia-tore, un esperto di arte libraria. Lo attesta un paga-mento di Biccherna di quell’anno a maestro Gio-vanni “miniatori, operario Comunis senensis”1.Quando quarant’anni dopo, nel 1339, avevano ini-zio i lavori per il “duomo nuovo” (vale a dire il gran-de ampliamento della cattedrale, l’ambiziosa e sfor-tunata impresa portata avanti a partire dal 1339 emai compiuta)2 con solenne deliberazione del Con-siglio generale della Campana fu richiamato da Na-poli affinché sovrintendesse alla costruzione il “pro-vidus vir” Lando di Pietro, un orafo di grande fama:“homo legalissimus” – dice la deliberazione – “etnon solum in arte sua predicta [ovvero l’oreficeria],sed in multis aliis […] homo magne subtilitatis etadinventionis tam his que spectant ad edificationesecclesiarum”3. Colui che nel 1311 aveva realizzato ildiadema servito per l’incoronazione a re d’Italia diEnrico di Lussemburgo, l’orafo di tanta sottigliezzae capacità inventiva, ricevette quindi l’incarico di“offiziale a fare la chiesa maggiore” per i tre annisuccessivi.Ancora nella seconda metà del secolo un orafo pote-va essere deputato a sovrintendere alla più impor-tante fabbrica cittadina: Michele di Ser Memmo, in-fatti, dopo aver intagliato sigilli per il Comune edessere stato contattato, mentre era “chapomaestrodel Palagio del Comune di Pistoia”, per i lavori del-l’altare argenteo di san Iacopo nel duomo di quellacittà, tra il 1360 e il 1361 fu nominato capomaestrodella cattedrale di Siena4.Sono dei fatti significativi. Un miniatore e due orafisi trovarono così a capo, per qualche tempo, delledue più importanti, rappresentative e impegnativefabbriche architettoniche di Siena. È probabile chela dimestichezza con le tecniche grafiche e il nuovoruolo del disegno come fondamento delle tecnicheprogettuali5 abbiano contribuito a render possibilel’avvicendarsi di orafi e miniatori, assieme agli ar-chitetti-scultori, nella direzione delle grandi fabbri-che architettoniche. Ma il fatto fa inoltre toccare conmano quale fosse il prestigio di questi artefici e

quanto importante sia la questione del dialogo, del-lo scambio – nel momento in cui Siena diventa, co-me scriveva Giovanni Previtali, “la capitale, in To-scana, del nuovo stile occidentale, gotico”6 – tra artisuntuarie e arti monumentali. Accanto alle novitàche a Siena si produssero nel cantiere del duomo –con la ricostruzione della chiesa, che si protrasse pergran parte del Duecento, con la realizzazione delpulpito nicoliano (1266-1268) e più tardi con lapresenza di Giovanni Pisano – è infatti l’oreficeriache, in un momento assai vitale della propria storia,mostra la più spiccata apertura verso il gotico tran-salpino.

Qualche cenno sulle vie di propagazione dell’arte goticaNella Siena degli ultimi venti anni del Duecento,contemporaneamente al costituirsi di un contestocimabuesco – quale è rappresentato dal “Maestrodei dossali di san Pietro e di san Francesco” (vale adire Guido di Graziano, un pittore documentato nel1284 e nel 1292, figg. 137, 138), dal caso del giovaneDuccio (fig. 139) e dalla serie degli antifonari delduomo7 –, il campo dell’illustrazione libraria è giàaltrettanto ricettivo nei confronti delle novità prove-nienti d’oltralpe, se le illustrazioni del Tractatus decreatione mundi della Biblioteca Comunale degli In-tronati di Siena si mostrano aggiornate sulla minia-tura parigina del tempo di Luigi IX il Santo8. Ma cheal passaggio tra Due e Trecento, a Siena, sia l’orefice-ria a mettere più prepotentemente in crisi gli schemiconsolidati, a rompere più decisamente la vischiosi-tà della tradizione, è un dato che dagli studi degli ul-timi decenni emerge in modo sempre più evidente9.Come apparisse agli occhi del committente (il papafrancescano Niccolò IV, sul soglio pontificio tra il1288 e il 1292) il calice commissionato al seneseGuccio di Mannaia e destinato alla basilica di SanFrancesco ad Assisi (fig. 141) naturalmente non èdato sapere10. A noi, oggi, sembra attestare una con-tinuità nelle predilezioni gotiche che segnano la sto-ria duecentesca della basilica superiore di Assisi, apartire dall’architettura e – legate al nuovo stile ar-

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136. Goro di Gregorio,San Cerbone ristora i messi del papa col latte della cerva,particolare dell’arca di san Cerbone.Massa Marittima, cattedrale

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137. Guido di Graziano,San Pietro in cattedra,Annunciazione, Natività di Gesù e storie di san Pietro.Siena, Pinacoteca Nazionale

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138. Guido di Graziano,San Francesco e storie della sua vita. Siena,Pinacoteca Nazionale

139. Duccio di Buoninsegna,Madonna dei francescani.Siena, Pinacoteca Nazionale

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141. Guccio di Mannaia,calice. Assisi, Museo del Tesoro della basilica di San Francesco

142. Guccio di Mannaia,San Giovanni Evangelistadolente, placchettasmaltata del piede,particolare del calice.Assisi, Museo del Tesorodella basilica di San Francesco

143. Guccio di Mannaia,San Paolo, placchettasmaltata del nodo,particolare del calice.Assisi, Museo del Tesorodella basilica di San Francesco

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chitettonico – dalle vetrate (eseguite da maestranzetedesche e francesi), fino almeno all’inizio della de-corazione pittorica nel transetto destro, affidata auna maestranza inglese. Le placchette del calice assi-siate di Guccio di Mannaia (figg. 142, 143) – un in-sieme di ben ottanta smalti11 – mostrano difattiun’apertura incondizionata verso i modi della pittu-ra parigina del tempo di Filippo il Bello, re di Fran-cia a partire dal 1285. E dunque, a una data compre-sa fra il 1288 e il 1292, il calice ancora oggi sembra

rappresentare quanto di più organicamente e preco-cemente “oltremontano” si producesse sul suolocentro-italiano.Sono state giustamente chiamate a confronto le fi-gurazioni del miniatore della corte parigina, MaîtreHonoré (fig. 140), quelle del Decretum Gratiani del-la Biblioteca Municipale di Tours, le miniature delbreviario di Filippo il Bello (Parigi, BibliothèqueNationale) e de La Somme le Roy (Londra, British Li-brary)12. I canali di una tale propagazione gotica in

140. Maître Honoré,La Somme le Roy:la Bestia diabolica.Londra, British Library,ms. Add. 54180, c. 14v.

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145. Atelier parigino,reliquiario della VesteInconsutile, recto. Assisi,Museo del Tesoro dellabasilica di San Francesco

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Italia centrale dovettero tuttavia essere plurimi, an-che se non è agevole circoscriverli con nettezza.Non siamo ancora in grado, infatti, di costituire uncorpus delle opere che, provenienti di là dai monti,trovarono stabile dimora nei tesori delle chiese ita-liane tra Duecento e primo Trecento, né di proporreun censimento esauriente delle presenze in carne,nei cantieri italiani, di maestri inglesi, francesi, tede-schi. Che sontuosi manufatti venuti di là dai montisiano approdati assai per tempo in Italia è ampia-mente provato: un caso celebre si ha nel piviale dimanifattura inglese donato alla cattedrale di AscoliPiceno dallo stesso papa Niccolò IV; un altro nellacroce dipinta duecentesca, anch’essa probabilmenteinglese, della cappella della Pura a Santa Maria No-vella a Firenze, la cui presenza nella chiesa domeni-cana è attestata almeno dalla metà del Trecento13.Sono inoltre da ricordare i ricorrenti doni diploma-tici, che nel Tesoro della basilica di San Francesco adAssisi, ad esempio, fecero affluire diversi libri minia-ti e prestigiosissimi reliquiari parigini, come quellidella Veste Inconsutile (fig. 145) e della Sacra Spi-na14. D’altronde, Julian Gardner ha messo in eviden-za come nel tardo Duecento a Roma si potessero ac-quistare, senza troppe difficoltà, i più famosi tessutiricamati del tempo, ciò che i contemporanei chia-mavano opus anglicanum15.Che maestri transalpini fossero attivamente impiega-ti nei cantieri italiani del secondo Duecento è relati-vamente ben documentato. Parlano eloquentementein tal senso la basilica di San Francesco ad Assisi e la

fabbrica del duomo di Orvieto, dove nel 1293, assie-me a fra’ Guglielmo da Pisa, a Iacopo di Cosma ro-mano, a Ramo di Paganello senese, sono stipendiatiun Rolando da Bruges, un “Lambert gallicus”, un Pie-tro spagnolo, un “Martinus de Schothia”, uno “Jo-hannes anglicus”16. E anche il caso di Siena non do-vette essere troppo diverso, se consideriamo che nel1294 Giovanni Pisano, negli anni in cui è capomae-stro della fabbrica della cattedrale, è testimone assie-me all’operaio del duomo di un rogito il cui protago-nista è Giovanni di Giovanni “francisine”17.Accanto alla circolazione delle maestranze e dei tac-cuini di modelli18, dei codici miniati, degli avori, del-le oreficerie parigine o dei manufatti di opus angli-canum, è tuttavia di buona evidenza ormai – com’èstato sostenuto19 – che uno dei canali privilegiati del-le penetrazioni gotiche in Italia centrale dovette es-sere proprio la basilica di San Francesco ad Assisi,una delle basiliche più importanti – in questo mo-mento – dell’intera cristianità.Già prima del tempo di Niccolò IV la chiesa supe-riore si era avviata a essere la ribalta più prestigiosadel nuovo stile gotico nell’Italia mediana. Nell’ela-borazione del corpo architettonico della basilica erastato accolto lo stile alieno delle grandi cattedralidell’Île-de-France – seppur frenato nel suo slancioascensionale e nella tendenza a trasformarsi in tra-forata gabbia aerea da massicci contrafforti cilindri-ci e da una rilevanza delle strutture murarie cui nonsi volle rinunciare. E qui, appunto, legate alle nuoveforme architettoniche, le vetrate dell’abside, deltransetto e di parte della navata sinistra furono ese-guite da maestranze venute di là dai monti (tedeschee francesi)20. Anche l’inizio della decorazione ad af-fresco della basilica (così fondamentale per la storiadella pittura italiana) fu affidata a una maestranzatransalpina, con tutta probabilità inglese. Nel transet-to destro, venati da accenti umorali, espressionistici, idipinti murali che segnano l’inizio della decorazioneportavano così alla ribalta i modi figurativi che ave-vano corso alle corti del Nord Europa: modi appenaun po’ più arcaici di quelli che conosciamo nella Pa-rigi di Filippo il Bello e di Maître Honoré, o nellaLondra dei Plantageneti che vide la nascita del pa-liotto dell’abbazia di Westminster21. Già nel 1969, aproposito di quest’avvio della decorazione della ba-silica, Carlo Volpe aveva colto il punto nodale. Par-lava infatti di “un grande pittore nordico”, forse in-glese, e della necessità di una ricerca mirata “al finedi valutare tutte le implicazioni che da quella pre-senza discendono; massime per quel che riguarda ilprocesso di goticizzazione, e di corrispondente rifiu-to della normativa bizantina e romanica”, nelle“maggiori personalità nuove dell’arte italiana”22.

A Siena, fra Due e TrecentoA Siena furono sicuramente gli orafi la punta di dia-mante nella pronta ricezione e rielaborazione del

144. Guccio di Mannaia (?),sigillo della Società dei Raccomandati del Santissimo Crocifisso di Siena. Roma, Museo di Palazzo Venezia

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146. Reliquiario a pisside.Collezione privata

147. Vergine dolente,placchetta smaltata del nodo, particolare del reliquiario a pisside.Collezione privata

148. San Giovanni Evangelistadolente, placchetta smaltatadel nodo, particolare del reliquiario a pisside.Collezione privata

149. Santa Maria Maddalena,placchetta smaltata del nodo, particolare del reliquiario a pisside.Collezione privata

150. Reliquiario a ostensorio. Parigi,Musée National du Moyen Âge-Thermes de Cluny

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linguaggio transalpino. E le loro proposte dovetteroavere una precoce adesione di pubblico e commit-tenti. Dopo la commissione ricevuta dalla curia pa-pale per il calice destinato ad Assisi (fig. 141), a Guc-cio di Mannaia, fin dal 1292, le più alte magistratu-re della repubblica senese affidarono l’incarico di in-tagliare i loro sigilli23. Nel 1292 e nel 1318 fu la voltadi quelli del camerario e del camerlengo di Biccher-na; mentre nel 1298 l’orafo ebbe una commissioneancora più prestigiosa: fu incaricato di realizzare ilsigillo dei Nove Difensori e Governatori del Comu-ne e del Popolo della Città di Siena.Ancora nel 1318, quando i Signori Nove decisero dirinnovarlo, si rivolsero nuovamente a Guccio diMannaia. E anche un potente cardinale di SantaRomana Chiesa, già generale dei francescani, ovve-ro Matteo d’Acquasparta, aveva voluto probabil-mente che proprio Guccio eseguisse il suo sigillopersonale24.Ora, considerate in parallelo alle figurazioni traslu-

cide del calice assisiate di Guccio di Mannaia o a unsigillo come quello bellissimo della Società deiRaccomandati del Santissimo Crocifisso di Siena(fig. 144), una compagnia fondata nel 129525, leaperture in senso gotico di Duccio (fig. 139), cosìenfatizzate dalla letteratura artistica, e della sculturasenese al passaggio tra Due e Trecento, sembranopiene di riserve, improntate piuttosto a un equili-brato moderatismo26. Già a partire dagli ultimi annidel Duecento, a limitare e allontanare il pericolodelle iperboli lineari, dei giochi calligrafici di su-perficie, del patetismo di fonte oltremontana, gioca-va del resto un ruolo decisivo, sia in pittura che inscultura, anche l’azione del nuovo, razionalisticoparadigma giottesco.A Siena era stato operoso a lungo Giovanni Pisano,ma, per quanto duro da ammettere possa a primavista sembrare, si converrà che la sua attività com-portò tutt’altro che un incanalamento dei maggioriscultori senesi sulla strada da lui aperta27.

151. Ugolino di Vieri e “soci”,Il papa ordina di recarsi a prendere il Corporale,particolare del reliquiario del Santissimo Corporale.Orvieto, cattedrale

152. Ambrogio Lorenzetti,Congedo di san Ludovico.Siena, basilica di San Francesco

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153. Goro di Gregorio,San Cerbone esposto agli orsidi Totila, particolaredell’arca di san Cerbone.Massa Marittima, cattedrale

154. Goro di Gregorio,I cittadini di Populonia accusano san Cerbone di fronte a papa Vigilio,particolare dell’arca di san Cerbone.Massa Marittima, cattedrale

155. Goro di Gregorio,I messi del papa invitano san Cerbone a comparire dinanzi a papa Vigilio,particolare dell’arca di san Cerbone.Massa Marittima, cattedrale

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156. Goro di Gregorio,San Cerbone celebra la messa al cospetto di papa Vigilio, particolare dell’arca di san Cerbone.Massa Marittima, cattedrale

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157. Goro di Gregorio,Madonna col Bambino,santi e un profeta,particolare del coperchiodell’arca di san Cerbone.Massa Marittima, cattedrale

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Prestigio dell’oreficeria seneseLungo la via segnata da Guccio di Mannaia, i primidecenni del Trecento rappresentano ancora un mo-mento decisamente innovativo nella storia dell’ore-ficeria senese. La sua forza di propagazione e diirraggiamento è consistente, coinvolgendo centriche vanno dalla Napoli angioina a Venezia, dall’Um-bria (Gualdo Tadino, Perugia, Orvieto) agli Abruzzi.Di fronte alla grande vitalità, alla particolarità e allaqualità della produzione orafa senese di questi de-cenni, paiono infatti abbattersi – se così si può dire –i confini regionali. Anche le mura della grande cittàrivale, Firenze, dove pure non mancava una produ-

zione orafa “autoctona”28, dovettero aprirsi, e fu co-me riconoscere tacitamente un predominio. A tal ri-guardo, è assai significativo il caso di un reliquiarioben poco noto (per il semplice fatto che è oggi diproprietà privata), nonostante sia stato segnalato daHans Hahnloser e Susanne Brugger-Koch nel lorocorpus degli intagli in pietre dure, che una fonte set-tecentesca, tuttavia, descrive ancora nella chiesa dioriginaria destinazione29. È questo un reliquiario apisside in rame dorato, di 30 centimetri di altezza,dalla teca e dal coperchio intagliati in cristallo dirocca e dal piede profilato come una stella a sei pun-te (fig. 146). Nel nodo sono inserite cinque plac-

158-159. Goro di Gregorio,Madonna col Bambino.Collezione privata

160. Goro di Gregorio,Madonna col Bambino,particolare.Collezione privata

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161. Goro di Gregorio,Annunciazione, particolaredel sepolcro del vescovoGuidotto d’Abbiate († 1333).Messina, cattedrale

162. Goro di Gregorio,Crocifisso con i dolenti in umiltà, particolare del sepolcro del vescovoGuidotto d’Abbiate († 1333).Messina, cattedrale

163. Goro di Gregorio,Madonna col Bambino,detta “degli storpi”.Messina, Museo Regionale

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chette con smalti traslucidi, raffiguranti il Crocifisso,i Dolenti e alcuni Santi (figg. 147, 148, 149), mentreuna sesta placchetta presenta uno stemma, che con-siste in tre bande d’argento risparmiato e tre bandedi smalto rosso opaco.Che il centro di produzione di un tale manufatto va-da identificato in Siena (e non nell’Italia settentrio-nale, come proposero Hans Hahnloser e SusanneBrugger-Koch) pare indubbio30. Tipologia e struttu-ra architettonica lo apparentano al reliquiario aostensorio, datato 1331, del Musée National du Mo-yen Âge-Thermes de Cluny a Parigi (fig. 150) e – an-cora di più – al reliquiario conservato ad Arezzo cheElisabetta Cioni ha studiato di recente in rapporto alfusto del reliquiario di Frosini (seppure in esso noncompaiano gli smalti di plique presenti in questi ul-timi)31. Anche la struttura del nodo (leggermenteschiacciato ai poli) e le decorazioni fogliacee acco-munano tutti questi esemplari. Infine, le figurazionia smalto – nel solco determinato dagli smalti pre-senti nelle opere firmate da Tondino di Guerrino eAndrea Riguardi – sono analoghe agli smalti del re-liquiario di Arezzo, anche se a un livello di qualità digran lunga maggiore.Come recita l’iscrizione nella base del fusto, il reli-quiario fu eseguito per la chiesa di San Miniato frale Torri a Firenze nel 1333, al tempo del presbiteroPaolo32. Nel 1756 Giuseppe Richa lo descriveva an-cora nella sacrestia di San Miniato, chiesa che sorge-va nell’area dell’antico centro storico di Firenze eche sarebbe stata distrutta in seguito agli sventra-menti di fine Ottocento33. Committente del reli-quiario fu la famiglia Pulci, la stessa che deteneva ilpatronato della cappella dei Martiri in Santa Croce,affrescata appena pochi anni prima da BernardoDaddi. Lo attestano lo stemma figurato sul nodo(d’argento, a tre pali di rosso) e un’iscrizione sottoal piede. Il reliquiario fu infatti donato alla chiesa diSan Miniato fra le Torri pro remedio animae di unadefunta della famiglia, Manta dei Pulci34. Nello stes-so giro di anni, quindi, una famiglia fiorentina co-me quella magnatizia dei Pulci, se per gli affreschidella cappella di famiglia poteva contare su un ar-tista come Bernardo Daddi, per la commissione diun oggetto suntuario non esitava a ricorrere a Sie-na. Si tratta di un esempio eloquente, dunque, daaggiungere al dossier che documenti il prestigio e laforza di irraggiamento dell’oreficeria senese delprimo Trecento.

Oreficeria, pittura: tracce di un dialogoA Siena, nei primi decenni del Trecento, gli orafi, ov-vero Duccio di Donato, Tondino di Guerrino e An-drea Riguardi, il “Maestro del reliquiario di Frosini”,i maestri di sigilli, sono ancora i più convinti porta-bandiera dell’alternativa gotica, francesizzante. Il lo-ro repertorio ornamentale si insinua perfino nellepale d’altare di pittori ostinatamente fedeli alla glo-

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riosa tradizione duccesca. È il caso, ad esempio, deifantastici draghetti e delle illusive placchette anico-niche che, negli spazi di risulta al di là degli archi tri-lobi delle loro opere, profondono pittori come ilmodesto “Maestro di Chianciano”, Niccolò di Segnae, ben dentro gli anni trenta, il giovane BartolomeoBulgarini35. Ma questo senza intaccare in alcun mo-do, per così dire, la sostanza formale del loro lin-guaggio pittorico. Il gotico oltranzista di cui è veico-lo l’oreficeria ha svolto un ruolo importante, piutto-sto, nella formazione di grandi pittori quali PietroLorenzetti e Simone Martini, come ormai è statoadeguatamente sottolineato. Ma l’intelligenza dellapittura di colui che l’aveva elevata fino a poter “com-piacere allo ’ntelletto de’ savi”, ovvero di Giotto36, lispinge molto innanzi nelle sperimentazioni in ordi-ne alla rappresentazione dello spazio e della veritàd’ambiente, con risultati, com’è noto, che oltrepas-sano anche gli esiti, nella vicina Firenze, di un Masodi Banco o un Taddeo Gaddi. Su questa strada, tut-tavia, la pittura trecentesca conduce tendenzialmen-te all’emarginazione del gotico estremistico di cui èveicolo l’oreficeria. Sarà solo questione di tempo.Già negli anni trenta, nelle scene in smalto trasluci-do del reliquiario del Santissimo Corporale di Or-vieto, sottoscritto da Ugolino di Vieri e “soci” e data-to 1338, prorompe la volontà di allinearsi ai model-li imposti dalla grande pittura contemporanea. LeStorie del Corporale, soprattutto, hanno in questosenso particolare significato: nell’assunzione dicomplessi schemi spaziali mutuati da Ambrogio Lo-

renzetti (figg. 151-152), rendono evidente come or-mai la pittura rinnovata, con i suoi corollari di raffi-gurazione normalizzata, tridimensionale e spaziosa,svolgesse un ruolo inequivocabilmente egemone, diarte-guida. Con significativa convergenza, proprioquesti sono gli anni in cui, con Giovanni d’Agostino,le sperimentazioni in ordine alla razionale rappre-sentazione dello spazio penetrano anche nel campo

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165. Goro di Gregorio,frammento architettonicocon la raffigurazione di un Santo. Torino,collezione privata

166. Placchetta smaltata “a figure risparmiate”raffigurante la Madonnacol Bambino, san Pietro e san Paolo. Firenze, MuseoNazionale del Bargello,collezione Carrand

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164. Gano di Fazio,San Pietro.Massa Marittima,Museo d’Arte Sacra,dalla cattedrale di Massa Marittima

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167. Sigillo delle clarisse di Sant’Andrea a Fucecchio.Firenze, Museo Nazionaledel Bargello

168. Sigillo del monasterodi San Giusto nel Chianti.Firenze, Museo Nazionaledel Bargello

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del rilievo scultoreo37. Il dialogo tra arti “monumen-tali” e microtecniche è ancora in atto, ma la direzio-ne del colloquio è mutata.

La scultura di Goro di GregorioAll’inizio del Trecento la situazione era diversa. E inquesto momento di grande vitalità della produzioneorafa senese, con la mediazione e sull’esempio del-l’oreficeria, può prendere corpo anche un fenomenocome la scultura fortemente francesizzante di Gorodi Gregorio.È questo un ordine di considerazioni che viene di fa-re ogni qualvolta si incontri un’opera di questo arti-sta: l’arca di san Cerbone della cattedrale di MassaMarittima (fig. 102), in primo luogo, ma anche quelche resta, nel cortile del Rettorato dell’Università diSiena, della tomba del giurista Guglielmo di Cilia-no38. Ripropone la questione un’ammirevole Ma-donna col Bambino, fino a qualche anno fa custodi-ta in una collezione privata fiorentina.Si tratta di una piccola scultura in eccellente stato diconservazione, scolpita in marmo senese dellaMontagnola, che conserva ancora dei frammenti diazzurrite (in parte ossidati) nei risvolti del mantel-lo39 (figg. 158, 159, 160). Prezioso oggetto forse de-stinato alla devozione privata, dovrebbe appar-tenere al periodo più antico dell’attività conosciutadello scultore. Come sappiamo, la carriera di Gorodi Gregorio, documentato a partire dal 1311-1312(date alle quali non è ancora un magister, a differen-za del fratello Meo)40, si articola intorno a due perni

cronologici fondamentali: il 1324, anno di com-pimento dell’arca di san Cerbone a Massa Maritti-ma, e il 1333, data di morte del vescovo Guidottod’Abbiate, iscritta sul suo sepolcro nel duomo diMessina (figg. 161, 162), che dovrebbe indicare iltermine oltre il quale si conclusero i lavori al monu-mento41. A questa data è sempre stata associata an-che l’altra opera eseguita per Messina, la cosiddettaMadonna “degli storpi”, oggi nel Museo Regionaledella città siciliana42 (fig. 163).Tra i due poli cronologici, decisamente non è ver-so quello più tardo che la nuova Madonna colBambino viene a gravitare. In essa non è ancoraquel rinsaldarsi dei volumi che fa dei volti dei sacripersonaggi di Messina delle sfere tornite, di unmodellato pieno e preziosamente levigato. Né lacostruzione del corpo ha l’espansione voluminosadella Madonna siciliana. Anche se le opere eseguiteper Messina, rispetto all’arca di san Cerbone, rap-presentano una tappa assai vicina nel tempo (è pro-babile infatti che già al 1326 risalgano i primi con-tatti per le commissioni che ebbe dal presule messi-nese)43, esse, seppure in una linea di fondamentalecontinuità con quanto le precede, appaiono suffi-cientemente diversificate, tanto da far capire in chedirezione si stesse muovendo lo scultore tra la finedegli anni venti e il decennio successivo. Lo testi-monia non soltanto il fare più monumentale,strutturato, della Madonna “degli storpi” (fig. 163),ma anche, nei rilievi della tomba del vescovo Gui-dotto d’Abbiate (figg. 161, 162), un ampliamentodella profondità di campo rispetto a quelli masse-

tani, una chiarificazione e razionalizzazione dell’orga-nismo spaziale.Anche se il Bambino, nella parte superiore del cor-po, ha la stessa impostazione di quello di Messina,assai maggiore è la comunanza della piccola scultu-ra con l’arca di san Cerbone e la tomba di Guglielmodi Ciliano. Il volume del volto (fig. 160) ha infattiquella tenera modulazione evidente nelle sculturemassetane, e come in queste vi si creano episodi dipacato chiaroscuro (figg. 120, 121, 129). Dà vita auna morbida carnosità, a un piccolo mento sfuggen-te, a una bocca minuta, proprio come nei giovaniscolari del rilievo del Rettorato (figg. 108, 112, 113).Anche la torsione pronunciatissima del corpo l’ac-comuna a molte delle figure più impressionanti neimedaglioni sul coperchio dell’arca (fig. 157): vienealla mente non solo la lenta curva a S della Madon-na, ma anche il repentino movimento ondulato diun Santo vescovo, oppure il sinuoso snodarsi del cor-po in carne di un giovane Profeta, poi riproposto inuno degli scolari della tomba di Guglielmo di Cilia-no (figg. 120, 121).La veste è immaginata come se fosse di una stoffaleggerissima, quasi una sottile pasta sfoglia che soloraramente aderisce alle forme del corpo (figg. 158,159). Ma anche dove questo avviene, un’incisione(come quella sotto al seno), leggere increspature(come sulla manica destra), introflessioni uncinate(come sotto al ginocchio piegato in avanti) compli-cano e movimentano le superfici. Nell’incredibilecomplessità di articolazioni, il panneggio, con i suoiricaschi, le sue pieghe lunate, i ghirigori calligraficidei bordi, le falcate visibili sul retro, può accordarsisolo con gli episodi di maggiore ricchezza e accen-sione goticizzanti presenti nell’arca.Al pari dei rilievi dell’arca di san Cerbone o di figu-re come i Fraticelli appartenuti alla tomba di Gu-glielmo di Ciliano (figg. 105, 106), quest’opera diGoro di Gregorio affonda una parte delle proprie ra-dici nella scultura senese del secondo decennio delsecolo. Mi riferisco soprattutto ai risultati dell’attivi-tà più avanzata di Gano di Fazio, quelli rappresenta-ti dalla tomba di santa Margherita da Cortona (figg.84, 85) e dai Santi e i Profeti del duomo di MassaMarittima44 (fig. 164). Ma, sostanzialmente, un’altraè la posizione di Goro di Gregorio.Poniamo attenzione per un momento alla concezio-ne generale della figura, alla sua impostazione, alsuo equilibrio dinamico (fig. 158). La gamba destraportata in avanti è il punto dal quale parte l’artico-lazione accentuatamente ondulata di tutto il corpo,una sorta di lento movimento a spirale che tende aspostare la figura rispetto al proprio asse verticale.Decisamente quel canone di bilanciato movimentoelaborato in Francia ormai da tempo, che si realizzanell’armonioso equilibrio di una curva a S, è qui fat-to proprio interamente ed estremizzato. È un cano-ne della figura cui lo scultore si attiene sistematica-mente, anche in figurazioni di formato ridottissi-

mo. È il caso di questo piccolo Santo entro un clipeo(fig. 165): un elemento scultoreo minimo, appunto,testimonianza di un altro insieme architettonicoscolpito da Goro di Gregorio (si tratta forse di par-te dello stipite di un portale) di cui non si ha altraattestazione45.Con Goro di Gregorio siamo di fronte a una nettaalternativa rispetto all’altro grande scultore senesedi questi anni, Agostino di Giovanni, lontani dalsintetismo, dall’empito monumentale della suascultura46; e poste al confronto con queste opere an-che le figurazioni del più francesizzante tra i pittorisenesi, Simone Martini (si pensi ad esempio ai San-ti affrescati nel sottarco della cappella di San Marti-no ad Assisi, o anche alla stessa Maestà del PalazzoPubblico di Siena), paiono frenate da una più mo-numentale, quadrata, insomma giottesca, stabilità.Proprio la volontà di eguagliare, da parte di Goro diGregorio, quanto di più spregiudicatamente “oltre-montano” era stato elaborato dagli orafi può darconto di simili risultati. Per non fare che un esem-pio, si osservi quante siano le affinità della Madonnacol Bambino (fig. 158) con un’immagine, pur diver-sa iconograficamente e di almeno un decennio ante-riore, come quella del san Pietro a fianco della Ma-donna col Bambino nella placchetta smaltata “a fi-gure risparmiate” del lascito Carrand, oggi al MuseoNazionale del Bargello47 (fig. 166): non solo nellacomposizione del panneggio – mosso, complicatis-simo, dai serpeggianti calligrafismi nei bordi – maproprio nella pronunciata ondulazione ritmica del-la figura. D’altra parte, la vibrante ricchezza di arti-colazioni delle superfici trova i più naturali prece-denti nei caratteri fortemente francesizzanti di queiparticolari prodotti dell’arte orafa, minuscoli ma dalgrandissimo prestigio, che furono i sigilli: sono indi-cativi in tal senso il sigillo delle clarisse di Sant’An-

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169. Atelier parigino o di Rouen, reliquiario a forma di chiesa, detto“châsse de saint Romain”.Rouen, Tesoro della cattedrale

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170-171. Goro di Gregorio,I messi del papa invitano san Cerbone a compariredinanzi a papa Vigilio,particolari dell’arca di san Cerbone.Massa Marittima, cattedrale

172. Pisside. Pienza,Museo Diocesano

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drea a Fucecchio (fig. 167), l’altro del monastero diSan Giusto nel Chianti (fig. 168) oppure il sigillo diFrancesco dei Tolomei pievano di Salti (fig. 135), cheprobabilmente sono da datarsi ormai in prossimitàdell’attività di Goro di Gregorio48.

Goro di Gregorio e le tecniche orafeNel caso dell’arca di san Cerbone questo colloquiocon le tecniche orafe si può toccare davvero con ma-no. Il fatto è stato notato da tempo – già Adolfo Ven-turi parlava del monumento come di un “capolavo-ro di eleganza” e degli “ornati finissimi [che] paionocesellati da un orafo”49 – ed è stato precisato moltobene da Enzo Carli, il quale ha osservato come l’ar-

ca appaia quasi “un immenso scrigno preziosamen-te intagliato e cesellato […] reliquiario di inusitatedimensioni […] più simile ad una grandiosa operadi oreficeria che non ad un complesso sculturale ve-ro e proprio”50. Ma su una base – potremmo dire –anche più “positiva”, è da sottolineare come le ele-ganti, elaborate decorazioni che ornano le cornici, learchitetture, i fondi delle scene dell’arca, siano deri-vate direttamente dal repertorio ornamentale del-l’oreficeria – francese in primo luogo, ma evidente-mente attraverso la mediazione dei preziosi manu-fatti di produzione locale.È il caso dei motivi a girali fogliacei in delicatissimobassorilievo che compaiono sulle fasce che separanole figurazioni e in alcuni sfondi delle storie (figg.

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174. Toreuta senese dei primi decenni del Trecento,Vergine dolente,particolare della croce.Padova, Tesoro della cattedrale

175. Toreuta senese dei primi decenni del Trecento,San Giovanni Evangelistadolente, particolare della croce. Padova,Tesoro della cattedrale

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173. Toreuta senese dei primi decenni del Trecento,Madonna col Bambino,particolare del pastorale.Città di Castello,Museo Capitolare

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è il caso della bellissima Vergine dolente (fig. 177) cheorna la croce stazionale del Museo Diocesano diPienza (fig. 176). L’iscrizione sul fusto informa che ilprezioso manufatto è opera dell’orafo senese Gorodi Ser Neroccio, compiuta nel 143057. La microscul-tura, tuttavia, non può essere pertinente all’impe-gno quattrocentesco di Goro di Ser Neroccio, pro-prio nel momento in cui attendeva alla donatellia-na Fortezza del fonte battesimale di San Giovanni aSiena (commissionata nel 1428, fu consegnata nel1431), alla quale niente l’apparenta58. Ogni aspettoformale l’accomuna invece alle microsculture delpastorale di Città di Castello e della croce padova-na (figg. 173, 174, 175). Dovrebbe trattarsi pertan-to del reimpiego di un elemento appartenuto a unacroce più antica (anche l’evidente sproporzione ri-spetto al Crocifisso sembra parlare in tal senso), as-semblato a un piede e a una croce certamente nonesenti da manipolazioni successive al loro compi-mento nel 143059.

Tali esempi di microtoreutica costituiscono quantodi più affine ai rilievi dell’arca di san Cerbone e aun’opera come la marmorea Madonna col Bambinosia oggi rintracciabile in seno alla produzione arti-stica della Siena trecentesca. Siamo di fronte a unastretta comunanza di intenti, che è assai significati-va. A una relazione che getta molta luce sulla vicen-da di Goro di Gregorio.Se, spingendoci più oltre, potessimo provare chequeste microsculture, dividendo il lavoro con gliorafi e gli smaltisti, sono state realmente realizzateda Goro di Gregorio, come per primi Luciano Bello-si e Giovanni Previtali hanno ipotizzato a propositodella croce di Padova e del pastorale di Città di Ca-stello60, ci troveremmo a dover constatare l’esistenzadi rapporti operativi diretti con gli orafi, di una di-retta implicazione operativa dello scultore in questeparticolari tecniche. Avremmo allora un dato di fat-to cui ancorare una chiave interpretativa dimostra-tasi così fruttuosa.

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177. Toreuta senese dei primi decenni del Trecento, Vergine dolente,particolare della crocestazionale. Pienza,Museo Diocesano

178. Toreuta senese dei primi decenni del Trecento, Cristo.Firenze, collezione privata

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103, 104, 153, 154). Il motivo, con largo anticipo, èattestato nell’oreficeria dell’Île-de-France già nel-l’ultimo terzo del Duecento. Un esempio significati-vo è quello del reliquiario a forma di chiesa cono-sciuto come “châsse de Saint Romain”, prodotto diun atelier parigino o di Rouen51 (fig. 169). Sullo zoc-colo e alla sommità di questa chiesa in miniatura –in zone, cioè, non interessate dai ripetuti restauri – èappunto un fregio modulare di una precisa tipologiada cui, per “li rami”, discendono anche i fregi che sivedono nell’arca di san Cerbone. D’oltralpe il moti-vo era infatti migrato assai per tempo nell’oreficeriacentro-italiana. Presente sulle cornici che inquadra-no le scene di Andrea di Iacopo d’Ognabene nel pa-liotto frontale dell’altare argenteo di san Iacopo delduomo di Pistoia (ricorre comunque anche nei pa-

liotti laterali), oppure sullo spessore della croci diLupinaia, di Lucchio e di Convalle in Lucchesia, del-la croce Carrand del Bargello e della croce-reli-quiario del duomo di Massa Marittima, esso costi-tuiva appunto una tipologia decorativa propria or-mai dell’oreficeria toscana, diffusa a Siena come aPistoia, a Pisa come in Lucchesia52.Anche gli animaletti fantastici che del tutto irrazio-nalmente ornano l’architettura della scena in cuiSan Cerbone è invitato a comparire dinanzi a papaVigilio (figg. 155, 170, 171) sono una particolarità dicui difficilmente potremmo additare altri esempinella contemporanea scultura toscana. Presenti nel-l’oreficeria francese dell’ultimo Duecento, essi eranogiunti a imporsi anche nell’ambito della pittura pa-rietale, com’è il caso dei medaglioni del castello diRavel, fatto decorare da Pierre Flote (che l’avevaavuto in dono direttamente dal re di Francia Filippoil Bello) tra il 1299 e il 130253.L’oreficeria senese del primo Trecento ne sviluppa ilrepertorio in mille variazioni. Essi ricorrono difattiin una miriade di oggetti: dalla croce stazionale diSanta Vittoria in Matenano a un ostensorio con-servato al Victoria and Albert Museum di Londra,da un cofanetto nel Tesoro della cattedrale di Todialla pisside del Museo Diocesano di Pienza (fig.172), dalla croce del Tesoro del duomo di Padova aun pastorale del Museo Arqueológico Nacional diMadrid. E quindi, pressoché identici, fanno la lorocomparsa nell’arca di san Cerbone.Nella tomba messinese dell’arcivescovo Guidottod’Abbiate lo scultore arriva fino a immaginare nel-le cornici delle storie una serie di piccoli rombi in-cisi disposti in orizzontale (figg. 161, 162), che inorigine dovevano essere debitamente colorati, co-me del resto larga parte dell’intera sepoltura. Sitratta della contraffazione di inserti vitrei o di pie-tre dure, che si finge siano incastonati nella corni-ce. Di una simulazione di polimaterismo, insom-ma, che, al pari dei veri vetri incastonati da SimoneMartini nell’intonaco della Maestà del PalazzoPubblico senese, ci proietta di nuovo verso il mon-do gotico transalpino e, allo stesso tempo, verso letecniche dell’oreficeria54.Ma del resto, pure sotto il profilo della concezionescultorea, e anche di certi aspetti della lavorazionedel marmo55, le prefigurazioni più immediate deipersonaggi dell’arca di san Cerbone e delle altreopere di Goro di Gregorio sono ravvisabili proprioin alcuni preziosi oggetti di oreficeria. Si pensi allemicrosculture in argento dorato del pastorale delMuseo Capitolare di Città di Castello (fig. 173) e aquelle assemblate nella croce del Tesoro della catte-drale di Padova (figg. 174, 175). A queste si aggiun-gono altre microsculture in metallo. È il caso di unminuscolo Cristo di proprietà privata a Firenze (fig.178), dalle superfici un po’ consunte ma nel qualesono ancora perfettamente percepibili le iperboli li-neari del panneggio e la sinuosissima silhouette56. Ed

176. Goro di Ser Neroccio,croce stazionale.Pienza, Museo Diocesano

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36 Sono parte delle folgoranti parole che Giovanni Boccaccio, co-m’è noto, riserva al pittore nella novella dedicata a “Messer Fore-se da Rabatta e maestro Giotto” (Decameron VI, 5).37 Si veda il capitolo XII.38 Come si è visto nel capitolo precedente.39 Misura 41,5 centimetri di altezza e 13,5 centimetri alla base. Pre-senta una frattura all’altezza del collo che è stata risaldata. La scul-tura apparteneva alla collezione De Carlo.40 Si veda il capitolo precedente (in particolare alla nota 43).41 Le iscrizioni sul sepolcro – in parte perdute in seguito ai dannisubiti nel terremoto del 1908 e di nuovo in un incendio nel 1943– ricordavano il nome dello scultore (M[A]G[ISTE]R GREGOR[IUS]DE GREGORIO DE SENIS FECIT) e la data di morte dell’arcivescovo(ANNO D[OMI]NI MCCCXXXIII IND[ICTIONE] I V M[ENS]IS MARTII).42 Non è chiaro se questa fosse destinata a un altare oppure se inorigine appartenesse al sepolcro del presule.43 Come si è visto nel capitolo precedente (in particolare alla nota 38).44 Per queste opere di Gano e loro vicenda critica si veda il capi-tolo III.45 Il blocco di marmo misura 21 centimetri di altezza. Appartienea una collezione privata torinese. È stato lungamente esposto agliagenti atmosferici; a causa della dilavatura, presenta infiltrazioniferrose e una consistente corrosione delle superfici.46 Per la ricostruzione dell’attività di Agostino di Giovanni si vedail capitolo X.47 Firenze, Museo Nazionale del Bargello, inv. C. n. 678. Sulla plac-chetta: Cioni 1998, pp. 166-171, con la precedente bibliografia.48 Sigilli… 1988-1990, I, pp. 122 (n. 287), 280 (n. 733), 280-282(n. 735).49 Venturi 1901-1940, IV (1906), p. 362.50 Carli 1946a, pp. 37-38; e inoltre: Carli 1968b.51 D. Gaborit-Chopin, in L’art au temps de rois maudits… 1998, pp.184-185.52 Sul paliotto frontale dell’altare argenteo del duomo di Pistoia,commissionato nel 1316, si veda Gai 1984, pp. 73-86, figg. 4, 61-69, 71-72, 75-84. Per le croci di Lupinaia, Lucchio e Convalle: C.Baracchini, in Oreficeria sacra a Lucca… 1993, I, pp. 117-129.Sulle croci Carrand e di Massa Marittima (anche per la ricca bi-bliografia anteriore): Cioni 1998, pp. 86-103, 133-135, 140-142e passim.53 M.-P. Subes-Picot, in L’art au temps de rois maudits… 1998, pp.371-372.54 Per gli inserti polimaterici nella Maestà di Simone Martini si ve-da Bagnoli 1999, pp. 72-74. Com’è stato osservato (particolar-mente da Bellosi 1988, pp. 45-46), anche tali aspetti di arricchi-

mento e di complicazione materica delle superfici affondano leloro radici nella nuova pittura gotica dell’Europa del nord. Pertrovare dei paralleli (o meglio, dei precedenti) si deve infatti ri-correre a prestigiosi manufatti transalpini: i quadrilobi all’internodella Sainte-Chapelle a Parigi, dove le numerose scene di martiriodei santi sono dipinte su fondi incrostati di paste vitree, oppure ilpaliotto realizzato per l’abbazia di Westminster a Londra sul fini-re del Duecento, dove accanto alle figurazioni a tempera sono dis-seminate incrostazioni di vetri colorati, simili a smalti, e addirit-tura cammei. Quanto nel mondo francese fossero ricercati similieffetti di polimaterismo anche nel campo della scultura, può mo-strarlo, ancora all’inizio del Trecento, la bella Madonna col Bam-bino del Musée Max-Claudet a Salins-les-Bains (Jura), esposta al-cuni anni fa alla mirabile mostra parigina dedicata all’arte deltempo di Filippo il Bello e dei suoi figli (F. Baron e D. Gaborit-Chopin, in L’art au temps de rois maudits… 1998, pp. 76-77). An-cora oggi ravvivata dall’integra policromia, essa presenta dellesontuose placchette con smalti di plique incastonate nella coronae a fingere il fermaglio della veste.55 Si vedano a tal proposito le osservazioni di E. Cioni 1998, p. 131.56 Il piccolo bronzo, che conserva ampie tracce della doratura, mi-sura 8,4 ×5,2 ×3 centimetri.Appartiene alla Galleria “Il Cartiglio”di Firenze.57 Come segnalò Machetti (1929, pp. 56-60, in particolare p. 59), alquale si deve la raccolta delle notizie documentarie relative all’o-rafo e la ricomposizione della sua attività (probabilmente per unrefuso tipografico, tuttavia, la data sul fusto della croce pientina èindicata come MCDXXXIV anziché 1430). In seguito, su Goro di SerNeroccio, si veda A. Bagnoli, in Jacopo della Quercia… 1975, pp.200-201; e, sulla croce di Pienza, L. Martini, in Museo Diocesano diPienza 1998, pp. 35-36, 47-48.58 I documenti relativi alla commissione sono parzialmente tra-scritti da Machetti 1929, pp. 59-60. Per i caratteri della Fortezza delfonte senese: A. Bagnoli, in Jacopo della Quercia… 1975, p. 200, ilquale tra l’altro sottolineava a dovere la disparità tra questa e laVergine dolente pientina.59 L’inventario dell’Opera della cattedrale di Pienza del 1784 de-scriveva infatti sul piede delle lastre smaltate con l’arma di Pio IIPiccolomini, papa tra il 1458 e il 1464 (cfr. L. Martini, in MuseoDiocesano di Pienza 1998, pp. 47-48), e dunque posteriori di al-meno un trentennio alla realizzazione della croce.60 Si vedano, rispettivamente, E. Cioni Liserani e D. Cinelli, in IlGotico a Siena 1982, pp. 104-108, 201-205. In merito alla croce eal pastorale, anche per il seguito degli studi, si tengano ora pre-senti le ampie trattazioni di E. Cioni 1998, pp. 112 sgg., 524 sgg.

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1 Palazzo Pubblico di Siena… 1983, p. 418. Il fatto è stato richia-mato e ottimamente valorizzato da F. Bologna, in Il Gotico a Sie-na 1982, p. 32.2 Alla vicenda del “duomo nuovo” di Siena è in larga parte dedica-to il capitolo XIV.3 Milanesi 1854-1856, I, pp. 228-231.4 Per la commissione a Michele di Ser Memmo, il 17 aprile 1348,di “una figura d’ariento a la immagine di misser santo Jacopo” de-stinata all’altare argenteo della cattedrale di Pistoia (un incaricoche tuttavia non si concretizzò): Milanesi 1854-1856, III, p. 276;Gai 1984, p. 96. Quanto alla sua attività nel campo della sfragisti-ca: Milanesi 1854-1856, I, p. 103; Machetti 1929, pp. 36, 94, nota71. Il suo ruolo quale capomaestro del duomo di Siena è attestatodalla computisteria della fabbrica (Archivio dell’Opera metropo-litana di Siena, Entrata e uscita generali di cassa, cod. 341, cc. 38v.,45r., 49v., 54r., 56v., 57v., 62r., 66v., 70r.). L’anno precedente(1360) era capomaestro della cappella di piazza del Campo, un’al-tra fabbrica dipendente dall’Opera del Duomo di Siena (Milane-si 1854-1856, I, p. 103). Ancora nel 1363 è iscritto quale orafo nel“Libro delle Capitudini delle Arti” (ibidem).5 Si vedano al riguardo le osservazioni di Castelnuovo 1983, pp.171-172, nonché Ascani 1997.6 G. Previtali, in Il Gotico a Siena 1982, p. 14.7 La ricostruzione di tale contesto cimabuesco senese, sulla viaaperta da Roberto Longhi riguardo a Duccio, spetta a Bellosi(1991b; 1991c; in Duccio… 2003, pp. 38-49, 118-131), al quale sideve anche l’identificazione dell’attività di Guido di Graziano. Pergli antifonari del duomo si vedano A.M. Giusti, in Il Gotico a Sie-na 1982, pp. 47-58, A. Labriola, in Labriola, De Benedictis, Freu-ler 2002, pp. 30-42, nonché la scheda relativa al Corale 33C di F.Mori, in Duccio… 2003, pp. 100-102.8 Come per primo ha osservato Castelnuovo 1983, pp. 200-201.Sul Tractatus de creatione mundi si può vedere ora anche il riepi-logo di F. Mori, in Duccio… 2003, pp. 104-106.9 Si vedano particolarmente Bellosi 1988; Cioni 1994; Cioni 1998,pp. 8-83 e passim.10 Sul calice assisiate si veda da ultimo Cioni 1998, pp. 8 sgg., conla discussione dell’intera bibliografia precedente.11 Se ne veda la descrizione tecnica e l’analisi di D. Liscia Bempo-rad, in Il Tesoro… 1980, pp. 123-125.12 Cioni Liserani 1979, pp. 47-48; Cioni 1994, pp. 316-319; Cioni1998, pp. 43-54.13 Giusti 1984; Bellosi 1988, p. 39; A.M. Giusti, in L’arte a Firenze…2004, pp. 150-151.14 Si vedano, da ultimo, D. Gaborit-Chopin, in L’art au temps derois maudits… 1998, pp. 193-195; Cioni 1998, pp. 12-14, 46.15 Gardner 1994a, p. 8616 Della Valle 1791, pp. 263-264; Fumi 1891, pp. 309-310.17 Il documento fu fatto conoscere da Bacci 1944a, p. 33. In talecontesto si ricorda sovente la vicenda Ramo di Paganello, lo scul-tore bandito da Siena con una condanna in contumacia e riam-messo in città il 20 novembre del 1281, rientrato “de partibusultramontanis”, affinché l’Opera del Duomo potesse profittaredelle sue non comuni capacità di scultore: “Item cum magisterRamus filius Paganelli de partibus ultramontanis qui, olim fuit ci-vis senensis, venerit nunc ad civitatem Senarum pro serviendoOperi Beate Marie de Senis, ex eo quod est de bonis intalliatori-bus et sculptoribus et subtilioribus de mundo qui inveniri possitet ad dictum servitium morari non potest eo quod invenitur ex-bannitus et condemnatus per contumaciam occasione quod de-buit iacere cum quadam muliere, eo existente extra civitatem Se-narum si videtur vobis conveniens quod debeat rebanniri et ab-solvi de bano [sic] et condemnationibus suis ad hoc ut possit li-bere et secure servire dicto Operi ad laudem et honorem Dei etbeate Marie Virginis in Dei nomine consulatur” (la prima edizio-ne del celebre documento si deve a Milanesi 1854-1856, I, p. 157;una nuova trascrizione, a opera di Leonardo Mineo, è in appen-dice a Tigler 2002, p. 25). Su questa base si è comunemente am-messo un passaggio francese dello scultore e, attivo nel cantieresenese e poi a Orvieto, da quasi un secolo si tenta di ricompornel’attività chiamando a raccolta le più francesizzanti opere sculto-ree dislocate tra Orvieto stessa e Assisi (un ragguaglio dell’interavicenda storiografica è offerto da Tigler 2002, pp. 13-16). È benetuttavia non porre eccessiva enfasi sul caso e non confidare trop-po su quel rientro “de partibus ultramontanis”, data l’ambiguitàdell’espressione. Essa non significa necessariamente che lo sculto-re senese avesse soggiornato al di là delle Alpi (e men che meno inÎle-de-France, come qualcuno ha supposto), considerato che lamedesima espressione ricorre in una celebre fonte dantesca, l’as-sai discussa epistola indirizzata a Uguccione della Faggiuola da

Ilaro, monaco del cenobio di Santa Croce del Corvo alla foce delMagra, che racconta di come Dante si fosse fermato al monasterointendendo recarsi “ad partes ultramontanas” attraverso la Luni-giana (“per Lunensem dyocesim”), ossia semplicemente recarsi inEmilia Romagna valicando la catena montuosa dell’Appennino(cfr. Padoan 1971, p. 363).18 Proprio il cantiere del duomo di Siena offre un caso significati-vo (nelle Storie di Davide e Betsabea figurate tra i girali della co-lonna di sinistra del portale maggiore) di documentabile ricezio-ne di precisi modelli francesi (in questo caso il rapporto è col mo-numentale ciclo biblico figurato nel portale laterale sud della fac-ciata occidentale della cattedrale di Auxerre) attraverso la media-zione di traduzioni grafiche, ovvero di un taccuino di disegni: Sei-del 1969, pp. 124-137, figg. 45-48 (ed. italiana in Seidel 2003a, pp.311-328, figg. 43-46); Middeldorf Kosegarten 1984, pp. 106-108,341-343, figg. 113, 115; Tripps 1994, p. 142, figg. 5-8; R. Bartalini,in Duccio… 2003, p. 427.19 Bellosi 1988.20 Se ne veda l’articolata trattazione di Martin 1997, ed. 1998, pp.19-52, 235-266. Sulle vetrate absidali, inoltre: Martin 1994.21 Per questa prima fase della decorazione assisiate, nella prospet-tiva che qui interessa, si vedano particolarmente Belting 1977, pp.112-119, 182-190, 192-204; Bellosi 1985, pp. 180-191; Bellosi1988. Sul ciclo murale, più recentemente: Bagnoli 1994; Romano2001, pp. 49-76 (con ampia bibliografia alle pp. 71-72, nota 10).22 Volpe 1969, pp. 23-24, nota 4.23 La documentazione relativa è trascritta da Hueck 1969, p. 32;Cioni Liserani 1979, p. 56, nota 1; Cioni 1998, pp. 34-35, nota 44.24 La matrice è perduta; un’impronta è conservata all’Archivio diStato di Firenze su un documento del 2 agosto 1300 (E. Cioni, inDuccio… 2003, pp. 448-451, con la precedente bibliografia).25 L’ipotesi che nel sigillo possa riconoscersi un intaglio di Gucciodi Mannaia, la cui intera produzione sfragistica documentata nonè arrivata fino a noi, è merito di E. Cioni Liserani 1979, pp. 48-51(qui anche gli essenziali cenni storici sulla Compagnia dei Racco-mandati di Siena). Si veda infine, della stessa, la scheda relativa al-la matrice del sigillo in Duccio… 2003, p. 452.26 Si vedano, in tal senso, anche le osservazioni di L. Bellosi, di E.Cioni e mie, in Duccio… 2003, rispettivamente pp. 121, 423-435.27 Si veda al proposito il capitolo III.28 Tra le voci bibliografiche più recenti, si consultino almeno Leo-ne de Castris 1987; Liscia Bemporad 1995; Cioni 2000.29 Hahnloser, Brugger-Koch 1985, p. 163, n. 282. In anni recenti, ilreliquiario era parte della collezione di Carlo De Carlo (Firenze),che è stata dispersa dopo la sua morte (1999).30 Ciò non esclude, naturalmente, che le parti in cristallo di roccamontate nel reliquiario siano state lavorate altrove.31 Per il reliquiario del Musée National du Moyen Âge-Thermes deCluny a Parigi: Taburet-Delahaye 1989, pp. 173-175, n. 66; perquello in collezione privata ad Arezzo: Cioni 1998, pp. 308-313,figg. 43, 45, 50-55. Il reliquiario a pisside che qui interessa è men-zionato anche da E. Cioni (1998, p. 312, nota 67) per un raffron-to tipologico col reliquiario della Colonna, della Grotta del Prese-pe e del Santo Sepolcro, datato 1329, della chiesa di Santa Croce inGerusalemme a Roma.32 L’iscrizione è la seguente: † F(A)CT(VM) FVIT H(OC) A(NNO)D(OMINI) MCCCXXXIII T(EM)P(O)|R(E) P(RES)B(ITE)RI(S) PAVLI P(RO)ECC(LESIA) S(ANCTI) MINIATI|S INTER TVRRES FLOREN(TIAE).33 “Passo per fine a dire di alcune preziosissime cose, che in Sagre-stia [della chiesa di San Miniato fra le Torri] si conservano, le qua-li, oltre l’esser monumenti dimostranti antichità di secoli, sonoancora documenti della pietà de’ Fiorentini. Vedesi adunque unOstensorio tutto di cristallo orientale lavorato a facce bellissime,nel cui piede, oltre l’arme di smalto de’ Pulci, si leggono queste pa-role […]” (Richa 1754-1762, IV [1756], pp. 72-73). Sulla chiesafiorentina e la sua distruzione: Paatz 1940-1954, IV, pp. 297-301;A. Bricoli, in Il centro di Firenze… 1989, pp. 218-220.34 L’iscrizione sotto al piede recita: FATTV(M) E(ST) HOC PRO

A(N)I(M)A D(OMI)NE MANTIS DE PVLCIS.35 Mi riferisco, per fare solo alcuni esempi, alla Madonna col Bam-bino del “Maestro di Chianciano” proveniente dal conservatoriofemminile di San Girolamo a Montepulciano e oggi alla Pinaco-teca Nazionale di Siena (inv. n. 606; Torriti 1990, p. 44, fig. 48), al-la Madonna col Bambino di Niccolò di Segna appartenente an-ch’essa alla Pinacoteca di Siena (inv. n. 44; Torriti 1990, pp. 38-39,fig. 40), ai Santi Ansano e Galgano di Bartolomeo Bulgarini dellaPinacoteca Nazionale (inv. nn. 42-43), parte di un trittico, assiemealla Madonna col Bambino del Museo dell’Opera del Duomo diSiena, oggi ricostruito (Torriti 1990, pp. 85-86, figg. 98-99; F. Mo-ri, in Duccio… 2003, pp. 382-384).

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