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ANNO XXV - N° 4 Roccaverano, Parrocchiale bramantesca di S. Maria Annunziata L’alimentazione tra Monferrato e Oltregiogo Lo sposo rapito La Pro Loco dona un quadro all’Accademia Note iconologiche sugli affreschi ovadesi della Parrocchiale dell’Assunta Filippo Mazzei ad Ovada. Riverberi della Guerra d’Indipendenza Nordamericana Ovada, il restauro di Palazzo Spinola Il nostro paesaggio agrario Dai chierici vagantes ai papiri odierni, momenti di goliardia I 40 anni della Biblioteca Civica La contessa di Castiglione e i suoi parenti ovadesi TRIMESTRALE DELL’ACCADEMIA URBENSE DI OVADA DICEMBRE 2012 Poste Italiane s.p.a. Spedizione in Abbonamento Postale D.L. 353/2003 (conv. in L. 27 / 02 / 2004 n° 46) art. 1, comma 1, DCB/AL SILVA ET FLUMEN www.accademiaurbense.it

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ANNO XXV - N° 4

Roccaverano, Parrocchiale bramantesca di S. Maria Annunziata

L’alimentazione tra Monferrato e Oltregiogo

Lo sposo rapito

La Pro Loco dona unquadro all’Accademia

Note iconologiche sugli affreschi ovadesi dellaParrocchiale dell’Assunta

Filippo Mazzei adOvada. Riverberi dellaGuerra d’Indipendenza

Nordamericana

Ovada, il restauro di Palazzo Spinola

Il nostro paesaggio agrario

Dai chierici vagantesai papiri odierni,

momenti di goliardia

I 40 anni della Biblioteca Civica

La contessa di Castiglione e i suoi parenti ovadesi

TRIMESTRALE DELL’ACCADEMIA URBENSE DI OVADA

DICEMBRE 2012

Poste Italiane s.p.a.Spedizione in Abbonamento Postale

D.L. 353/2003 (conv. in L. 27 / 02 / 2004 n° 46)art. 1, comma 1, DCB/AL

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Periodico trimestrale dell’Accademia Urbense di OvadaDirezione ed Amministrazione P.zza Cereseto 7, 15076 OvadaOvada - Anno XXV - DICEMBRE 2012 - n. 4Autorizzazione del Tribunale di Alessandria n. 363 del 18.12.1987Poste Italiane s.p.a. - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003(conv. in L. 27 / 02 / 2004 n° 46) art. 1, comma 1, DCB/ALConto corrente postale n. 12537288Quota di iscrizione e abbonamento per il 2013 - Euro 25,00Direttore: Alessandro LaguzziDirettore Responsabile: Enrico Cesare Scarsi

Appunti per una storia dell’alimentazione: zuppe, polente, pane e frumentotra Monferrato e Oltregiogo liguredi Lucia Barba p. 231Lo sposo rapitodi Paola Piana Toniolo p. 239Filippo Mazzei ad Ovada. Riverberi della Guerra d’Indipendenza Nordamericananell’Ovada settecentescadi Pier Giorgio Fassino p. 244 Antonio Rebbora, lettere a P. Atanasio Canatadi Gian Luigi Bruzzone p. 251Grillano luogo del mio cuoredi Agostino Sciutto † p. 260Gli affreschi della Parrocchiale di Ovada, note iconologichedi Aurora Petrucci Tabbò p. 261La Pro Loco dona all’Accademia un quadro di Costantino Frixione (1828 - 1902)di Paolo Bavazzano p. 273Un elogio al nostro paesaggio agrariodi Renzo Incaminato p. 274Il restauro di Palazzo Spinola dei Padri Scolopi ad Ovada.Relazione tecnica inerente il restauro dei prospetti del palazzodi Ugo Barani p. 281Un esempio di “spupillazione” goliardica: l’orsarese Giacomo Monteggiodi Carlo Prosperi p. 284Hanno origini ovadesi i Tribone “parenti serpenti” della Contessa di Castiglionedi Mauro Molinari p. 291Omaggio a Franco Resecco: cronaca di una mostradi Paolo Bavazzano p. 296Geniere e Partigiano. Un aspetto sconosciuto della vita di Franco Reseccodi Pier Giorgio Fassino p. 297Tommaseo e Pratesi: lettere da Ovadadi Luigi Cattanei p. 300Il Cinema italiano degli anni ’30 e Ubaldo Aratadi Ivo Gaggero p. 304Festeggiati i 40 anni della Biblioteca “Coniugi Ighina”di Lorenzo Bottero p. 306In silenzio è scomparso Emilio Costa, primo presidente dell’Accademia Urbensedi Luigi Cattanei p. 309Contare fino a diecidi Paolo Repetto p. 311Recensioni: GIANNI REPETTO, Per non morire di deculturazione. Materiali per un territorio(C. Prosperi); CAMILLA SALVAGO RAGGI, Memorie improprie, (P.G. Fassino) p. 313

SILVA ET FLUMEN

SOMMARIO

URBS SILVA ET FLUMEN Stampa: Litograf. srl, - Via Montello, Novi Ligure

É per ricordare la figura di don Angelo Siri,sacerdote, studioso e uomo di grande uma-nità, che in copertina, venendo meno alla no-stra tradizione castellana, pubblichiamo laparrocchiale bramantesca di S. Maria An-nunziata di Roccaverano, sede del convegnosvoltosi il 29 -30 maggio 2009 per celebrareil 500° di fondazione dell’edificio. Promotoredi quelle giornate di studi fu appunto don An-gelo, responsabile dell’Archivio vescovile diAcqui T. e instancabile animatore della vitaculturale della Diocesi.

L’anno che sta per chiudersi è stato per la no-stra associazione ricco di iniziative e nuove stannoper essere intraprese. Tuttavia ha segnato anche lascomparsa di cari amici: il prof. Emilio Costa, chericordiamo in questo numero, e Mario Arata (fotoin alto), membro del direttivo e nostro console peril Comune di Silvano, che si è spento la scorsaestate seguito, a pochi giorni di distanza, dalla mo-glie signora Marta Carlevaro. Abbiamo saputodella loro improvvisa dipartita molto tempo dopoe la notizia ci ha doppiamente addolorato per nonaver potuto partecipare alle esequie e per l’amaraconstatazione che se le distanze fra i continenti sisono accorciate con l’aiuto delle tecnologia spessosono i fatti che accadono oltre i ponti a non giun-gere tempestivamente alle nostre orecchie. Rinno-viamo i sensi del più sentito cordoglio ai famigliariscusandoci per l’involontaria assenza.

A fine ottobre si sono svolte le elezioni del di-rettivo con una netta riconferma di quello uscente.Noi interpretiamo questo risultato come un apprez-zamento delle iniziative che in questi annil’Accademia ha realizzato. Cogliamo l’occasioneper ringraziare i membri della Commissione Elet-torale Lorenzo Bottero (presidente) Giuliano Al-loisio e Dino Gaggero per il lavoro svolto e PierGiorgio Fassino, il nostro Segretario Generale, cheha curato con la solita competenza tutta la fase pre-paratoria.

Stiamo lavorando al secondo volume della sto-ria del Risorgimento in Ovada (1848 - 1900), maè anche nostra intenzione dedicare sul web unospazio a Domenico Buffa, la figura più rappresen-tativa dell’800 ovadese, della quale contiamo direndere fruibili anche le lettere e parte dei docu-menti inediti, così come gli studi che lo riguardano.Renderemo così indirettamente omaggio a EmilioCosta che, con le sue ricerche, ha illustrato la fi-gura del politico ovadese.

Tra i progetti già avviati la formazione di unatlante toponomastico del nostro territorio che cifornirà l’occasione, attraverso una mostra, di valo-rizzare il catasto ovadese di fine settecento fatto asuo tempo restaurare con i fondi del Rotary Clubsezione di Ovada, su iniziativa dell’allora asses-sore dott. Giancarlo Subbrero, autore di un primostudio sulla documentazione esistente.

In chiusura non ci resta che fare a tutti i nostrisoci, agli amici, ai collaboratori e agli sponsor gliAuguri di un Buon Natale e di un 2013 sereno epieno di soddisfazioni.

Alessandro Laguzzi e Paolo Bavazzano

Redazione: Paolo Bavazzano (redattore capo), Edilio Riccardini (vice), Remo Alloisio, Giorgio Casa-nova, Pier Giorgio Fassino, Ivo Gaggero, Renzo Incaminato, Lorenzo Pestarino, Giancarlo Subbrero,Paola Piana Toniolo. Segreteria e trattamento informatico delle illustrazioni a cura di Giacomo Gastaldo. Le foto di redazione sono di Renato Gastaldo.Sede: Piazza Giovan Battista Cereseto, 7 (ammezzato); Tel. 0143 81615 - 15076 OVADAE-mail: [email protected] - Sito web: accademiaurbense.it

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Zuppe, polente e pan di frumento tra Monferrato e Oltregiogo ligure (appunti per una storia dell’alimentazione)di Lucia Barba

“Dacci oggi il nostro pane quoti-diano...” recita la preghiera. Il pane cheviene qui invocato risponde a due esi-genze: quella spirituale, in quanto cibodell’ anima, e quella esistenziale e terrenain quanto alimento di ogni giorno. Allostesso tempo l’invocazione definisce inmaniera incisiva la necessità e l’ univer-salità del pane a cui viene riconosciutaun’importanza vitale. E così è stato findalla preistoria.

Si è comunemente ritenuto, fino adepoca recente, che la panificazione o, al-meno, l’uso di semi macinati potesse es-sere fatta risalire all’ età neolitica (10.000a.C.) quando l’uomo passò dal nomadi-smo alla sedentarietà, dalla caccia e dallaraccolta dei frutti spontanei all’agricol-tura. Forse non fu proprio così e il pas-saggio fu più lento e graduale con anti- cipazioni e contaminazioni tra i due pe-riodi. Recenti scavi archeologici effet-tuati nella regione del Mugello, nelcomune di Bilancino, hanno portato allaluce due pietre di arenaria che, a primavista, sembravano due pietre comuni mapoi si sono rivelate essere le parti costi-tuenti di una rudimentale macina e di unmacinello; inoltre l’analisi degli amiditrovati sulle pietre ha svelato che lapianta usata per fare la farina era latifa palustre. (Pianta diffusa nellezone dove l’acqua ristagna, in dia-letto monferrino chiamata tuddro).Questo a dimostrazione che già nelpaleolitico superiore, circa 30.000anni fa, l’uomo era capace di ridurrea farina le radici di una pianta perpreparare una zuppa ricca di carboi-drati o l’ impasto di una galletta nu-triente.(1)

La possibilità di conservare la fa-rina e di trasportarla con facilità per-mise di sopravvivere in mancanza dicacciagione o in periodi con climasfavorevole. Il passaggio dalla cacciaall’agricoltura e all’allevamentocomportò cambiamenti nella strut-tura fisica dell’uomo che, cacciandomeno o per niente e mangiandomeno carne, perse vigore e si rese

più facile bersaglio per carestie e malat-tie presenti in modo endemico in comu-nità ristrette e stanziali. In cambio lapossibilità di poter far conto su scorte ali-mentari, attraverso prodotti essiccati e fa-rine raffinate, unitamente alla situazionestanziale, provocò un netto incrementodemografico, condizione imprescindibileper la nascita delle prime civiltà.

La panificazione fu, in ogni caso, tra-guardo non facile. Infatti, macinati i semicon macine più o meno rudimentali, sidoveva impastare la farina, farla lievitarein modo corretto (né troppo, né troppopoco), lavorare la pasta, ridurla in pa-gnotte, infornare e far cuocere. La cotturacome la lievitazione è sempre stata ope-razione laboriosa e, non a caso, fin dal -l’inizio la cottura è stata affidata a deglioperai specializzati.

Probabilmente i passaggi per giun-gere alla panificazione vera e propria fu-rono graduali. Certo le pappe e le zupperichiedevano minore abilità, come anchei focaccini non lievitati cotti o sotto la ce-nere o su pietre calde.

Furono gli Egizi a far diventare la pa-nificazione un’arte e a loro la leggendaattribuisce il merito di aver scoperto la

lievitazione. In alcune pitture tombali(2500 a.C.) si può vedere che acqua e fa-rina venivano impastate e cotte in stampisovrapposti, messi poi in forno. SecondoAteneo, gli Egizi erano in grado di ci-mentarsi in 72 diversi tipi di pane.(2)

Anche gli Assiri ci hanno lasciato te-stimonianza delle loro esperienze di pani-ficazione. Risulta che preparassero unafocaccia spessa messa in vasi precedente-mente scaldati sulle braci; dopo di che ivasi erano sigillati ermeticamente e postiin buche scavate nel terreno, secondo untipo di cottura ancora esistente in areamediterranea.

Con i Greci entrò in uso il forno alegna con apertura anteriore. Il pane quo-tidiano era soprattutto pane d’orzo e ilpane di frumento, più ricercato, era riser-vato alle festività.

I Romani passarono con qualche dif-ficoltà dalle pappe di cereali al pane lie-vitato, in quanto nella lievitazione venivariscontrato un senso di corruzione. Carat-teristica della loro alimentazione fu lapuls (specie di polenta), consideratapiatto tipico nei primi secoli della Repub-blica e apprezzata da Catone come segnodi mori geratezza di fronte al pane lievi-

tato, visto come una forzaturadelle naturalità degli alimenti.

Nonostante le remore cato-niane il pane si affermò a talpunto che, nel 30 a.C, a Romaerano presenti ben 329 panette-rie, gestite però non da Romanima da Galli e Greci!

Ciò che per i Romani potevasembrare un’abitudine censura-bile, per gli Ebrei fu severo di-vieto religioso.

Infatti il popolo ebraico nellanon lievitazione riconobbe e ri-conosce un segno di purezza.(3)

Caduto l’Impero Romano,passati gli sconvolgimenti delleorde barbariche, con l’instaura-zione del Feudalesimo la panifi-cazione venne controllata daprecise norme emesse dal feuda-tario, dal signore locale e poi dal

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Comune, autorità che avevano il precipuocompito di regolamentare la panifica-zione, come si desume anche da StatutiComunali e Bandi Campestri che ci sonostati tramandati.

Vari tipi di paneI pani nella tradizione italiana sono

circa 250, con moltissime varianti locali,difficilmente catalogabili. Si distinguonooltre che per la forma, per il tipo di cot-tura, di quantità e qualità degli ingre-dienti, per la qualità della farina: di granoduro, di grano tenero, di mais, di semoladi grano, di segale, di orzo, di castagne.Nei periodi di carestia, soprattutto nelleclassi marginali fu molto diffuso il panedi mistura che vedeva l’uso di semi digraminacee, di ghiande, di radici, di so-stanze varie, assai poco sostanziose, main grado di generare un senso di momen-tanea sazietà.

Molti pani vedono l’aggiunta di olio,olive, mosto, frutta, semi, strutto, ciccioli,pomodori, burro, uvetta…

Impossibile elencare i tipi di pane inbase alla forma. I più comuni da noi: pa-gnotta, biova, ciabatta, filone, micca, (4)

michetta, libretto, rosetta, cagnolino,treccia, ciambella, pane in cassetta, pancarrè…

Un tipo particolare di pane sono igrissini, il cui nome deriva da grissa, cheindicava un antico pane piemontese diforma allungata. E poi c’è il pane di pastadura, all’olio, al latte, all’ acqua.

Come si può desumere da questoelenco sommario la diversificazione èmassima. Segno di creatività, di adatta-mento all’ambiente, di intelligente rispo-sta ad una domanda diffusa ed esigentetipica delle società affluenti.

La puls, la polenta e la pute (o put)

Prima di giungere alla panificazione,l’uomo primitivo si è cimentato inun’operazione certamente più semplice,quella di mettere i semi delle graminaceein acqua dopo averli pestati e poi cuo-cerli. In quel modo nacque la polenta.Fino alla scoperta dell’America, le po-lente consistevano in pappe di semi (i più

diversi) ben triturati: farro, orzo, sorgo,miglio, panìco, frumento. Molto diffusea Roma nel periodo monarchico e neiprimi secoli della Repubblica si chiama-vano puls o pulmentum. I semi preferitiper le puls erano quelli di farro (da cui laparola farina) e la puls era il cibo delfante romano. Per secoli cibo caratteri-stico, veniva preparato quotidianamentee costituiva la base di piatti che potevanoessere completati con legumi, verdure,pesci, formaggio. Anche gli Etruschi eb-bero come nutrimento base polente costi-tuite da farina di miglio o di farrochiamate clusinae pultes.

L’abitudine alla puls o pulmentum (5)

continuò per tutto il Medio Evo. In con-trapposizione alle mense feudali, ricchedi cacciagione e di proteine animali lepuls furono la via di scampo delle classirurali con l’uso di cereali minori qualimiglio, orzo, segale, farro.

Con la scoperta dell’America ci ful’introduzione del mais (chiamato in dia-letto monferrino melia o meria da millet,termine con cui veniva definito il miglio),introduzione che fu lenta e faticosa inquanto ci fu diffidenza verso la possibilitàdi farne alimento per gli uomini, usandolosolo come foraggio per gli animali. Se necoltivava qualche pianta nell’orto davanti

a casa per pura curiosità. La crisi agricoladel XVI secolo obbligò ad una revisionedei pregiudizi popolari facendo del maiscoltura dominante. Nel XVIII secolo conl’incremento demografico, che richiedevamaggior produzione agricola si decise diinvestire su questo prodotto, che crescevavelocemente, era poco bisognoso di cure, edava un’ottima resa.

I grandi proprietari terrieri decisero didestinare grandi superfici alla coltiva-zione del mais, che divenne cibo quoti-diano per i lavoratori della terra.Contrariamente ai cereali che si dimostra-rono molto versatili, il mais conobbequasi una monocultura, nelle zone mon-tane e pedemontane dell’Italia Settentrio-nale. Una alimentazione praticamentebasata solo sulla polenta portò alla diffu-sione di una grave malattia quale la pel-lagra.(6)

La pute o put è un tipo di polenta piùliquida della tradizionale e con diversi in-gredienti vegetali. Diffusa un tempo siain Monferrato che nell’Oltregiogo Ligureè nata, con molta probabilità, dalla fu-sione tra una tradizionale zuppa di ver-dura, che affonda le radici nelle zuppemedievali, eredi della puls romana e lafarina di mais. La pute consiste in unanormale minestra vegetale basata su ca-volo nero, patate, carote, sedano o, inestate, fagioli, fagiolini, zucchini. Unavolta che la verdura è cotta si aggiunge lafarina di mais e si fa cuocere ancora unamezz’ora. Quando il tutto è ridotto acrema, il piatto è pronto e si mangia colcucchiaio pur non essendo una minestra.

La focacciaCon semi macinati finemente, acqua,

giusta lievitazione, cottura precisa neitempi e nei modi, con l’aggiunta di con-dimenti particolari possiamo passare dauna focaccia intesa come puro cibo di so-pravvivenza ad una in grado di suscitareun notevole piacere gustativo. La focac-cia a base di cereali più o meno nobili,presente già in epoca preistorica, la ritro-viamo sulle mense di Fenici, Greci, Ro-mani, Cartaginesi. La focaccia, chederiva etimologicamente da focus, in

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Alla pag. precedente, una rivendita di pane in una miniatura di un codice medievale

Alla pag. seguente, fin dai primordidella civiltà contadina i pittorihanno riservano un’attenzione particolare alla fienagione e alla falciatura delle messi.

In basso, il fornaio e il giovanegarzone in epoca medievale

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quanto cotta sul fuoco, era consideratavoto rituale e, come tale, veniva offertaagli Dei. Focacce di farro (panis farreus),condivise dai due sposi durante il rito ma-trimoniale (confarreatio), erano conside-rate simbolo di vincolo amoroso per lafutura vita in comune. In origine dove-vano anche servire come contenitori dicibo specie di piatti commestibili, comesapeva bene Enea a cui era stato vatici-nato che avrebbe avuto certezza di esserearrivato alla sua terra promessa quandofosse stato costretto, con i suoi compagni,a mangiare le mense, cioè la sfoglia checonteneva il companatico. Una pizza antelitteram? (Virgilio, Eneide, libro III,vv.374/379; libro VII , vv.154/159).

La focaccia, prodotto diffuso in tuttala penisola, ha assunto nomi e specificitàdiversi a seconda della localizzazionegeografica. In Lunigiana è chiamata te-starolo (farina di castagne), in Liguria eBasso Piemonte panissa (farina di ceci),tigella in Emilia, piada o piadina in Ro-magna, crescia nelle Marche, cecìna inToscana, pizza a Napoli, puddica in Pu-glia impanate o panelle in Sicilia (farinadi ceci), carta da musica in Sardegna,pitta nelle regioni del Sud.

Un tipo di focaccino particolare, dif-

fuso sul nostro territorio in età medievale,come accertano atti testamentari del-l’epoca, era quello, molto sottile, cotto tradue ferri roventi, chiamato ostia o negia.Quanto al focaccino non lievitato cottosotto la cenere è stata sempre usanza dif-fusa in campagna soprattutto nelle casedi campagna che avevano il forno fami-liare.

Panissa e FarinataLa panissa è un piatto di impronta li-

gure il cui ingrediente principale, la fa-rina di ceci, è lo stesso della farinata.

In una pentola contenente acqua esale si versa la farina di ceci, che si facuocere fino ad una morbida consistenza.Quindi si versa in un contenitore cilin-drico o in un piatto, si taglia a fette o acubetti e o si fa friggere o si mangiafredda condita con olio e limone o cipollaaffettata.

Questo piatto non ha nulla a che farecon l’omonimo piatto vercellese dove cisono riso, lardo e fagioli. La panissa allaligure, a base di farina di ceci esiste anchein Spagna, a Cadice, con il nome di “pa-niza”. In un porto di commerci transocea-nici come Cadice ci devono essere statefelici confluenze gastronomiche.

La farinata di ceci è quella che in dia-

letto chiamiamo panissa, evidentementeper una variazione semantica avvenutaquando della panissa tradizionale si èperso l’ uso. La farinata è una torta salatadi minimo spessore che ha come ingre-dienti oltre alla farina di ceci, acqua, sale,e olio d’oliva. Preferibilmente cotta inforno a temperatura molto alta. La fari-nata, piatto tipico della Liguria e delBasso Piemonte, è diffusa lungo le costedei paesi mediterranei e assume nomi di-versi a seconda delle diverse località: dacalentita (Marocco) a cecina (Toscana),da fainà (Liguria) a socca (Francia me-ridionale).

La farinata rientra a pieno titolo neipiatti tradizionali ovadesi. Appositi fornia legna annessi al negozio, continuano asfornare teglie di panissa per i residenti,ma anche per i non residenti, che seguonola tradizione secolare dei mercati settima-nali quando, chi veniva dai paesi , si por-tava a casa da Ovada un cartoccio difarinata bella calda.

La molituraLa panificazione non potè mai pre-

scindere dalla molitura: il pane si è sem-pre fatto dopo che i semi erano statimacinati, triturati, raffinati da una ma-cina. Per ciò le macine ebbero molta dif-fusione nel mondo antico precipuamentepresso i Romani. La macina romana pog-giava su una base in muratura di formacircolare ed era costituita da una pietraconica (meta) piantata sulla base e dauna pietra biconica, vuota all’interno (ca-tillus) che ruotava sulla meta. Il movi-mento era impresso alla pietra attraversoun’armatura di legno collegata ad unaforza umana o, più spesso, animale (perlo più un asino) come documentano i re-perti archeologici. (Museo archeologicodi Narbona, cippo del fornaio).

Il grano immesso da una tramoggianel catillus veniva macinato nella partesottostante e usciva sotto forma di farina(Pistrinum di Pompei). I Romani cono-scevano bene anche i mulini ad acquacome dimostra la superba costruzione diArles, in Provenza, dove più macinesfruttavano l’energia dell’acqua in ca-

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duta. Il mulino ad acqua ebbe grande dif-fusione nel Medioevo e continuò ad es-sere molto diffuso laddove la presenza dirisorse idriche rendeva possibile svilup-pare forza motrice.

Nelle zone appenniniche e preappen-niniche fu un sistema molto sfruttato an-cora in tempi relativamente recenti permacinare castagne, orzo, frumento, mais,segale. La raffinatezza della farina dipen-deva dalla porosità della pietra molitoria:quanto più porosa era la pietra tanto piùgrossolana era la farina.

Le ruote a pala, che facevano girare lemacine grazie all’energia dell’acqua in-canalata, per molto tempo furono dilegno e, solo ai primi dell’ 800, con losviluppo della metallurgia, divennero diferro.

Un tipo di mulini straordinari furonoquelli natanti sul Po, costituiti da due bar-coni (sandoni) appaiati che costituivanoil mulino mentre la ruota a pala pescavatra i due barconi e sfruttava l’energiadella corrente. Il mulino risaliva la cor-rente grazie ai cavalli che lo trainavanodalle sponde. (Riccardo Bacchelli, Il mu-lino del Po). Con l’ elettricità tutto si èsemplificato ma anche omologato e sisono smarrite le peculiarità territoriali, aparte qualche caso isolato di mulino apietra che esiste tuttora.

Il fornoOriginariamente il forno fu all’interno

dell’abitazione poi si preferì costruirlo al-l’esterno o in appositi edifici per evitareil pericolo di incendi domestici. Nella ca-mera di cottura si faceva fuoco e poi siriunivano ai lati del forno le braci men-tre, centralmente, venivano messe leforme dei pani a cuocere sulla pietra arro-ventata. Situazione che si è perpetuataper secoli con gli stessi ritmi e le stessemodalità. La base (platea) a forma ellit-tica era di arenaria mentre la volta era inmattoni stuccati con il gesso, piuttostobassa per non disperdere il calore. Leporte del forno erano di ferro.L’accensione avveniva con ramaglia estecchi perché capaci di fuoco vivo e diraggiungere alte temperature poi mante-nute costanti da legna grossa e ben sta-

gionata. Le pagnotte erano posate sulpiano del forno con l’ apposita pala, abba-stanza distanti l’una dall’altra da non at-taccarsi durante la cottura. Appena cotto,il pane veniva deposto su assi di legno osu tavole per permettere un raffredda-mento graduale. Secondo una tradizioneconsolidata in campagna una famiglia pa-nificava una volta alla settimana, salvocasi speciali come il pane di segale inmontagna, cotto una o due volte l’anno.

Per chi non aveva il forno domestico(questo valeva per quasi tutti quelli cheabitavano in un centro abitato) c’era ilforno che coceva per la comunità. Succe-deva, in questo caso, che per riconoscereil proprio pane si usassero marchi o segniparticolari di riconoscimento, fatti sullemicche di pane. In caso di errori involon-tari il fornaio preferiva compensare conuna pagnotta per evitare guai maggiori.

Nel Medioevo prevalse la panifica-zione controllata dal feudatario o dagliAmministratori del Comune. Conl’affermazione dei liberi Comuni sorserole corporazioni dei fornai, che tendevanoa salvaguardare i diritti della categoria ene stabilivano il codice di comporta-mento. In età moderna con l’avvento deiforni elettrici e delle impastatrici la pani-ficazione si è industrializzata e i forni alegna sono stati sostituiti dai forni ra-dianti mentre l’introduzione dei lieviti hasemplificato la prima e difficile fase dellapanificazione, vale a dire la giusta e natu-rale lievitazione.

Ad Ovada, in Monferratoe nell’ Oltregiogo

Le osservazioni che seguono, che ri-guardano la città di Ovada e i territori li-mitrofi possono essere considerate unparadigma significativo, se pur con fortiellissi temporali e spaziali, di quelle chefurono la coltivazione dei cereali e la suc-cessiva panificazione, tenuto conto siadelle caratteristiche del clima e del ter-reno sia, e ancor più, degli aspetti antro-pici e politici che spesso hanno avuto laprevalenza sulla nuda cultura materiale.

Per quel che attiene al Medioevo unvalido supporto alla conoscenza dei dati

oggettivi lo danno gli atti notarili (7). In-fatti:

11 Ottobre 1283: Giovanni di Altareprende a prestito 7 staia di frumento 26Ottobre.

1283: Josius de Ovada prende in pre-stito un tot di frumento da presbyterPietro de Ovada.

9 Novembre 1283: Guglielmo de Ca-stagneto prende a mutuo da Giovanni diAltare 5 staia di frumento.

5 Dicembre 1283: Oberto e Bertolinoda Voltri acquistano da Pietro Schiavinadi Ovada un tot di frumento per 4 geno-vini.

27 Gennaio 1284: Il rettore dellaChiesa di Santa Maria di Ovada prende aprestito da Bertone de Nigro 3 staia difrumento.

5 Gennaio 1288: Giovanni di Altareacquista da Pietro Dente di Ovada un totdi frumento.

20 Gennaio 1288: Enrico Gioia diOvada fa testamento e lascia alle mona-che di Bano 1 staio di grano in remis-sione dei propri peccati.

9 Gennaio 1288: Giovanni di Altareacquista da Enricuccio de Sena 12 moggidi frumento.

12 Aprile 1288: Guglielmo de Cam-pis prende in prestito da Mino de Sena untot di frumento per 39 genovini.

13 Ottobre 1288: Guaiacio Frascaradi Ovada prende a prestito da PietroSchiavina 10 staia di frumento.

25 Novembre 1288: Nicola di Ma-sone acquista da Montano Casio un totdi frumento per 4 lire e quattro soldi digenovini.

25 Novembre 1288: Giovannino Ala-mandro di Ovada acquista da Pietro diPavia un certo quantitativo di frumentoper lire 7 e soldi 10 di genovini.

5 Febbraio 1289: la badessa di S.Maria di Banno si fa fare un mutuo di 25lire di genovini per acquistare grano.

11 Gennaio 1289: Guido de Barbarinodi Ovada acquista da Ugaccio di Chiavariun certo quantitativo di grano che pa-gherà ad Agosto.

11 Febbraio 1289: Martino de Botonoe Lorenzo de Gilio prendono a mutuo da

234Alla pag. seguente, incisionesettecentesca di una panetteria;sullo sfondo il fornaio sfornacon la classica pala di legno ilpane giunto a cottura.

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Pietro Schiavina 10 staia di grano cherestituiranno ad Agosto.

13 Febbraio 1289: Giacomo Vaironoe Rufino Agricola di Ovada prendono amutuo da Pietro Schiavina di Ovada 3staia di frumento da restituire ad Ago-sto .

26 Febbraio 1289: Giacomo Nigro diOvada acquista un certo quantitativo digrano da Pietro Dente di Ovada e pro-mette di pagarlo a san Bartolomeo.

31 Marzo 1289: Pietro Taffone loca aUmberto fornasarius un terreno da adi-bire a fornace in cambio di un canone di10 staia di frumento per cinque anni.

19 Ottobre 1289: Giacomo Pastorinoe Simone de Dente di Rossiglione acqui-stano da Otacio de Pietrasanta un certoquantitativo di grano che pagheranno aMaggio.

20 Dicembre 1289: Giovanni Vassalloe Nigro Galea di Rossiglione e Simonede Quiliano prendono a mutuo un certo

quantitativo di frumento da Mino deSena e lo restituiranno ad Agosto.

In questa serie di Atti Notarili, scor-giamo frammenti di una complessa realtàlocale; si evince che non ci sono fitti diterreni adibiti a frumento, che risulta es-sere un bene di primissima necessità,tanto che la sua domanda spesso procededi pari passo con la richiesta di prestiti indenaro. Evidentemente si trattava di unasocietà in cui la moneta corrente scarseg-giava. Inoltre la morfologia del terrenomolto acclive e con strette vallate certonon predisponeva a grandi raccolti digrano, che lasciava il posto a castagneti,vigneti, terreni prativi e zerbi. Il ricorreredegli stessi nomi, come Pietro Schiavina,oppure nomi che denotano origine fore-stiera (i fratelli De Sena, in Ovada al se-guito del feudatario Malaspina o Piero diPavia) potrebbero far congetturare che sitrattasse di un vero e proprio commerciodel frumento in mano a poche persone. In

genere per prestiti in denaro e in grano iltempo per la restituzione era di 5, 6 mesie andava dall’ Inverno alla piena Estate,vale a dire dal periodo di zero produttivoal momento della produzione.

Gli Statuti di OvadaGli Statuti di Ovada del 1327 ci of-

frono un interessante spaccato di ciò chenel tardo Medioevo riguardava la produ-zione di pane. (8)

Alcuni articoli sono appositamentededicati alla panificazione e sono cosìcompendiabili:

1) Ogni anno i fornai, le loro mogli ei loro aiutanti dovevano giurare di non ru-bare sul pane, di custodire e restituire ipani nel giusto numero.

2) I fornai potevano richiedere solo lalegna necessaria per cuocere l’infornata,dovevano consentire la restituzione dellebraci, una volta cotto il pane. Cocevanotorte e tortelli gratis se non a Pasqua. Selasciavano bruciare torte e tortelli dove-vano risarcire, pena multa.

3) In Ovada ci dovevano essere 3forni pubblici la cui gestione venivamessa all’ asta ogni anno.

4) I mugnai e i loro aiutanti dovevanogiurare ogni anno di conservare grano,siligine e ogni altra biada o farina. Cal-colato il loro compenso in farina, dove-vano restituire la restante ai legittimiproprietari, pena una multa di 5 soldi, re-plicabile per ogni successiva infrazione.Veniva data assoluta priorità di macina airesidenti in Ovada e, solo in un secondotempo, ne veniva concessa facoltà ai nonovadesi.

Anche se gli articoli contenuti negliStatuti riguardanti le varie fasi di trasfor-mazione dei cereali non sono cronologi-camente consequenziali risulta evidenteche, sulla molitura, come sulla panifica-zione, il Comune esercitava un rigidocontrollo attraverso i suoi amministratoricomminando multe, con regole rigidesulle pesature e rimettendo ogni anno al -l’asta la gestione dei forni pubblici.

Quanto alle notizie più strettamentemateriali è interessante notare la presenzadi un altro cereale, la siligine, seme che

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può essere equiparato al farro, sicura-mente più rustico e resistente del fru-mento. Con il farro(9) si continuava l’antica tradizione romana delle zuppe dicereali e legumi durata per tutto il Me-dioevo ed ora ritornata in auge nelle dietevegetariane.

Per quel che attiene alla panificazionela restituzione delle braci fa parte del ritodella conservazione del fuoco che è con-tinuato, non senza pericolo di incendi,fino a quando l’accensione è diventatacosa facile.

Proprio perché il fuoco veniva spessospostato di casa in casa esisteva in altriStatuti il divieto di portare il fuoco do-v’erano custoditi paglia e fieno. Per i tipie la forma del pane quotidiano nullaviene detto mentre si parla di turtas etturtellos, che erano probabilmente paniritorti, forse dolci tipici della Pasqua. Idolci ritorti che, per tradizione, vengonoancora fatti per la domenica delle Palmechiamati torcet potrebbero vantare unaqualche discendenza.

Annali di Casaleggio1261, 11 Luglio: Casaleggio deve for-

nire 4 moggi di spelta alla curia di Pa-rodi.

1553: I Polceveraschi si oppongonoduramente ai Signori di Casaleggio concui sono in continua lite per lo sfrutta-mento del bosco dell’Alpe di Marcaroloe “ …passano al mulino di Casaleggio ,che si trova sul Gorzente. Naturalmentelo devastano … Buttate via circa stare 6di frumento , portano a Genova il poveromolinaro , battendolo e legandolo….”

1562,14 Aprile: Nicolò Spinola affittaun terreno in cambio di un canone annuodi 2 staia di grano che dovrà essere con-ferito in Agosto, a fatica e spesa dell’ af-fittuario.

1577, 21 Marzo: Tra i beni feudali diFrancesco Spinola risultano mulino eforno a dimostrazione di una stretta os-servanza di servitù feudale anche inepoca moderna.

1587, 19 Giugno in Mornese: In unaconsegna di beni mobiliari e immobiliarivengono annoverati fitti da riscuotere

sotto forma di grano, semente di granoe marzenghi.

1705, 22 Ottobre: Nell’ inventario deibeni feudali spettanti a Luca Fieschi,nuovo e unico titolare del feudo comestabilito dal duca di Mantova e Monfer-rato Carlo II, vengono annoverati grano,quarte di gr(10) e biada.

1764, 3 Gennaio: Nell’ investitura contitolo marchionale a favore di FrancescoRistori si citano “il mulino a una ruotasopra il fiume Piota, il Castello, le cas-sine” e, buone ultime, 110 balestre.

Questi Annali(11), che nulla dicono suimodi e tempi della panificazione, sono inverità più espliciti su altri aspetti piùstrettamente sociali. Intanto la distru-zione del forno e il sequestro del “poveromolinaro” sottendono la forza della so-praffazione sull’avversario preso perfame e quindi grano e mugnaio diventanoun fatto politico. Simile concetto, di di-sponibilità esclusiva di beni materiali afini di governo, sta dietro alla proprietàdel forno e del mulino da parte del domi-nus locale. Mulino ad acqua ubicato sultorrente Piota, di cui restano le vestigia.Ricco è anche l’elenco delle piante daseme usate per la panificazione. Risul-tano oltre al grano, il grano da semina,il grano marzengo da seminare in Pri-mavera, il granoturco (granone in dia-letto), la segala (cereale che non soffrené il freddo, né l’altitudine), la biada (de-finizione con cui, genericamente, veni-vano definite le piante da spiga).

Statuti di Silvano d’ OrbaNegli Statuti di Silvano (1308) a pro-

posito della panificazione si fa presente

che chi cocerà quattuor staria di panedovrà dare al fornaio 4 pani e così a scen-dere per cotture di minore entità.

Monferrato acquese1223, Novembre 8: Gandolfo, arci-

prete di Mombaruzzo, condanna l’erededel defunto Ottone da Gallano a versareai canonici acquesi 1 staio di spelta, 2pani, 2 capponi ed un cesto di fichi per ilfitto di una vigna a Fontanile.

1240, Agosto 22: Sacco, figlio del fuMatteo della Pisterna… consegna a Lo-terio 10 staia e 1 mina di frumento bensecco bello e pulito, a misura di Acqui atitolo di fitto.

1241, Maggio 31: I canonici acquesistabiliscono che il monastero di Tiglietoversi alla chiesa d’ Acqui, ogni anno, altempo della mietitura 1 moggio di grano,misura di Ovada, in qualità di decima perterre che i monaci, dopo il concilio gene-rale, avevano ottenuto nel territorio diCampale.

1260, Ottobre 19: Il capitolo dei Ca-nonici di Acqui può riscuotere ogni annoin cambio del fitto di un manso sito in ter-ritorio di Soirano denari e altri beni ma-teriali quali “capones, foacias, panes,spelte, spicariolos in due rate fissate allafesta di san Tommaso e alla Madonna dimetà Agosto. Sia i beni monetari che ma-teriali venivano replicati in entrambe leoccasioni, con aggiunta degli spicariolosper la festa dell’Assunta in quanto trat-tandosi di galletti del primo anno, per lafesta di san Tommaso, che ricorre il 3 Lu-glio, non erano ancora pronti.

Queste note tratte da Il Cartulare Al-berto (Liber Iurium Aquensium Canoni-

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A lato, giovani operaie dellamanifattura Brizzolesi in uncampo di granturco.

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corum. A.D. 1042-1296 a cura di PaolaPiana Toniolo ) riferiscono dei contrattinotarili intercorsi tra il Capitolo dei Ca-nonici Acquesi e alcuni affittuari che pa-gavano in beni mobili ben annotati inogni contratto. Questo ci permette di co-noscere il tipo di coltivazione prevalentenei singoli fondi agricoli e ci dà il quadrodi una realtà particolare più agiata e or-ganizzata.

In questo preciso contesto, nella re-gione acquese, il grano è presente noncome oggetto di prestito ma come si-stema di pagamento per affitto di terreniproduttivi. Specchio di una situazione dimaggior dinamismo sociale ed econo-mico in quanto si pagava nella ragione-vole aspettativa di una soddisfacenteproduzione. Al contrario nella situazioneovadese il prestito di grano avveniva adesclusivo vantaggio del prestatore senzadar profitto all’ economia locale. Quantoall’aspetto strettamente merceologico sinota frequentemente la presenza dellaspelta, quasi pari nella produzione al fru-mento. Anche in questo caso, come perla siligine in Ovada, si tratta sostanzial-mente di farro che si dimostra molto pre-sente in epoca medievale sia in territorioovadese che, soprattutto, in quello ac-quese.

Cremolino nella storiaAgosto-Ottobre 1364: invasione di lo-

custe che, trasportate dal vento di levante,distrussero tutto il raccolto.

1373: Fiera e generale carestia, cosic-ché un sacco di grano era pagato 16 fio-rini e molti abitanti morivano di fame.

Alla carestia segue la peste.1498: Passaggio di Carlo VIII. In

quell’anno ci fu un ricco raccolto di vinoe frumento ma per le guerre che ci fu-rono inter Francos et Italos i prezzi fu-rono alti fino al mese di Aprile.

1638: Sei compagnie di cavalleriaasportano dalle case dei particolari be-stiami, grani, pollami, biancheria, oro ar-gento, rami, mobili, fieno.

1654: Armate di Francia e di Spagnasi fronteggiano nella piana verso Alessan-dria e a Cremolino vengono richiesti 36barili di vino del migliore, 13 some diveccia, 1 sacco di pane.

1746: Il comandante francese acquar-tierato nel castello comanda che gli vengaassegnata la seguente fornitura: 1 vacca,1 vitello, 2 montoni, 2 agnelli, 4 cantari dilardo, 12 rubbi di sale, 4 rubbi d’ olio, 1rubbo di candele, sego, 2 fiaschid’acquavite, 6 galline, grano e biada,riso, 12 sacchi di grano in farina, 40cantari di fieno. In caso contrario avrebbemandato i soldati nelle case dei partico-lari.

1784: Non essendo sufficienti i pro-dotti del luogo né il grano, né le uve né icocchetti (bachi da seta) né i legumi nonsi riuscivano a pagare i debiti contratticon gli Ebrei di Acqui (D. Raffaghello,Storia di Molare, pag. 56).

12 Ottobre 1794: Le uve sono ancorada vendemmiare ma vengono colpite daviolentissime piogge che portano via uvee castagne. A causa della penuria dei rac-colti e dato l’obbligo di contribuzione mi-litare si è costretti a indebitarsi e

impegnare il prossimo raccolto con gliEbrei. Come se non bastasse la produ-zione di cocchetti non era andata beneperché tutti i bachi da seta erano morti.

26 Giugno 1831: Una terribile gran-dinata, domenica alle 4 del pomeriggio,ha distrutto il raccolto e anche l’annoprossimo non si vendemmierà perché itralci delle viti sono stati recisi. Distruttoil raccolto di frumento e colpiti i ramidegli alberi di castagne.

Quando alla fine del 1400 incomin-ciano le guerre tra le potenze europee perl’accaparramento delle ricchezze e deiterritori della Penisola le campagne e ipaesi del Monferrato, come molti altri,devono subire le vessazioni, le contribu-zioni forzate e le spogliazioni da partedelle forze straniere in campo sul territo-rio italiano. A questo punto negli Annalidei vari paesi non si trovano tanto notiziedi produzione bensì di privazione. Chedoveva essere tanto più dura in territori avocazione agricola volta, quasi esclusi-vamente, all’autoconsumo. In più comesanno bene quelli che di campagna vi-vono o hanno vissuto, il tempo, in sensometeorologico, colpisce senza alcunapossibilità d’appello. Sia negli Annali diCremolino(12) che nella storia di Molarec’è l’accenno ai prestatori di denaro Ebreia cui si ricorreva impegnando il raccoltodell’anno successivo. Condizioni meteo-rologiche avverse quali quelle che ven-gono segnalate negli Annali di Gavi per il1736 in cui ci fu: “Diluvio di acqua cuisegue carestia. Il prezzo del grano crescea dismisura e la gente si ciba di ghiandemacinate e di radici” (Cornelio de Si-moni, Annali di Gavi ).

In questi casi la presenza o meno deicereali non ha valore statistico ma se-gnala il limite della sopravvivenza. E’ unindicatore fondamentale dell’aspet tativadi vita ed è così vero che, pur di avere ilpane, ci si indebita portando in pegno lasperanza di un raccolto futuro. Qui sem-bra chiudersi il cerchio del racconto cheera iniziato con la preghiera del panequotidiano. Mai come di fronte alla testi-monianza di una disperazione esisten-

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A lato, il taglio delle messisulle sponde dell’Orba in unafoto di Leo Pola degli anni ‘50

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ziale che risulta dagli esempi precedentisi ha il senso, al di là del valore simbo-lico, della profonda, sostanziale, vitale eimprescindibile necessità del pane mate-riale quotidiano.

Quelli della Costa.Più ottimista e sereno (perché scritto a

posteriori) il racconto sintetico della si-tuazione della Comunità Costese (13) checosì descrive, per sommi capi, il tipo e laqualità dell’alimentazione contadina delluogo tra la seconda metà dell’800 e iprimi 50 anni del ‘900:

“… Si ricordano tra i cibi consumatiin occasione della festa patronale dellaMadonna della Neve la focaccia con lozucchero sopra e una buonissima tortadi mandorle con la cannella. I giorni fe-riali erano molto più parchi con il con-sumo di polenta, fagioli, ceci, castagne,pane nero, latte. Il pasto della sera erasempre a base di polenta.

Ricordando il periodo infausto dellaseconda guerra mondiale si ricorda an-cora il pane nero che si ritirava con latessera che, di fatto, serviva a razionarloin base al numero di bocche da sfamarein ogni famiglia.”

Non molto dissimile risulta, riferitosostanzialmente allo stesso periodo, il re-soconto sull’alimentazione contadina epastorale degli abitanti di Cavanne di Ol-bicella che ricordano (Ai Gavonne, na’vota. s.d.): “Alle Cavanne, in Estate, simangiavano minestrone, insalata, for-maggette e, in Inverno, polenta e casta-gne.

Poco lontano a San Luca in una me-moria, riferita agli anni ’30 del secoloscorso, si ricorda, che quando un ragaz-zino faceva la prima comunione, c’era ilpasto della festa che consisteva in “unuovo duro, un pezzetto di focaccino epoi …a pascolare.”

Curiosamente questo excursus su ce-reali ed affini si conclude con la storia diun focaccino così come era iniziata. Su30.000 piante che potevano essere scelteper l’alimentazione l’uomo del neoliticone ha privilegiato poche decine che tut-tora coprono da sole gran parte del fab-

bisogno alimentare. Tra queste la predi- lezione è andata ai cereali e, soprattutto,al frumento. Quella scelta di migliaia dianni fa persiste tuttora: siamo figli del-l’uomo della pietra e il bimbo di san Lucacol suo gustoso focaccino rappresentatutti noi, neolitici del terzo millennio!

Note1 ALICE VIGNA, In Italia già 30.000 anni fa

si cucinavano cereali, in «Corriere della Sera»,10/11/2011

2 Ateneo, scrittore nato nella città di Nau-crati, vissuto tra il II e il III secolo d.C. Ricor-dato in particolare per la sua opera Ideipnosofisti o Dotti a banchetto.

3 La Pasqua ebraica bandisce ogni forma dipasta lievitata. Nell’Esodo viene detto: Si man-gino gli azzimi per 7 giorni; non si veda nulla difermentato presso di te, né alcun lievito per tuttoil tuo territorio. E quel giorno spiegherai questacosa a tuo figlio dicendo: Si fa così per tuttoquello che il Signore fece per me, quando usciidall’ Egitto… Osserva questo statuto di anno inanno.

4 Mica è un termine latino che significa bri-ciola. Per sineddoche il termine, con il raddop-pio della consonante, passato ad indicare lapagnotta intera.

5 Si chiamava pulmentarium, la zuppa a basedi cereali e di legumi, condita con olio e lardo (aseconda se il giorno era di magro, o meno) cheveniva data ai pellegrini, che sostavano nei con-venti durante il Medioevo. In questo modo sievitava l’ uso della carne che avrebbe potuto su-scitare inopportuni appetiti sessuali.

6 In Italia la pellagra si diffuse fra il XVIII eil XIX secolo, quasi esclusivamente nelle zonesettentrionali della penisola. Si manifestava condesquamazione e perdita della pelle, colpiva ilsistema nervoso centrale e aveva esito funesto.(Vedi il romanzo di Sebastiano Vassalli, Marcoe Mattio Ed. Einaudi).

Nella seconda metà del 1800 in Veneto il30% dei contadini ne era colpito. Se ne cerca-rono con molto impegno le cause ma solo nel1900 si scoprì che era l’alimentazione squili-brata, quasi esclusivamente a base di polenta acausarla e non il mais in quanto tale. Quindi sidoveva riequilibrare l’ alimentazione e aggiun-

gere alla polenta gli aminoacidi mancanti.Per notizie in loco vedi Della pellagra e dei

pellagrosi del comune di Morsasco del dott.Ivaldi di E. G. Rapetti in Urbs, silva et flumen,Anno XXI, n 2 .Giugno 2008.

7 P. Toniolo - E. Podestà, I Cartulari del no-taio Giacomo di Santa Savina (1283-1288) Sto-ria e vita del Borgo di Ovada, in Memorie dell’Accademia Urbense, Ovada,1991.

8 Società Storica del Novese “NoviNostra”(a cura di), Statuti di Ovada del 1327, Ovada1989.

9 Il farro è una pianta erbacea, chiamataanche spelta. Anche quando si affermò il fru-mento, il farro rimase sempre il cibo dei poveri.Molto usato nel Rinascimento ha conosciuto, inseguito, un periodo di decadenza; attualmente,però, è stato rivalutato in cucina e nella panifi-cazione per il gusto caratteristico e la legge-rezza. Il farro in semi è ideale per le zuppe.

10 A causa di un fungo, che poteva esserecontenuto nella segale, o segala, che serviva perla panificazione, si poteva sviluppare il fuocodi sant’ Antonio o ergotismo ( ergot , in francese,vuol dire sperone che è un po’ la forma delfungo infestante), erroneamente confuso conl’herpes zoster. L’ergotismo causato da unfungo, contenente sostanze allucinogene, por-tava alla carbonizzazione degli arti e colpiva ilsistema nervoso centrale. I frati Antoniani tenta-rono di curare la malattia, che aveva un esito perlo più fatale, con un unguento a base di grasso dimaiale. Meno pericoloso l’ herpes zoster causatodal virus della varicella infantile. La confusionetra le due patologie è nata dall’aver attribuito lostesso termine, fuoco di sant’ Antonio, ad en-trambe.

11 E. Podestà, Documenti per la storia del -l’Oltregiogo monferrino in Memorie dell’ Acca-demia Urbense, Ovada, 2000.

12 G. Gaino, Cremolino nella storia, Scuolatipografica San Giuseppe, Asti 1941.

13 L. Repetto (a cura di) Quelli della Costa.Quaderno di cultura religiosa e popolare,Ovada s.d.

238A lato, il capiente calderone dirame con la polenta che ognianno, come da tradizione,viene preparata in piazza aMolare, sta per essere versatasul tavolato e servita a tutti ipresenti con un pezzo di baccalà (Foto Leo Pola).

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Lo sposo rapitodi Paola Piana Toniolo

Che la faccenda1 fosse piuttosto serianon c’era alcun dubbio, ma che dovesseandare a finire in quel modo! Un figlioche si ribellava al padre e alla famigliaper sposare la ragazza amata, anche se diceto inferiore, in fondo non presentavanulla di veramente drammatico, anche sela situazione era piuttosto insolita, ma lafamiglia in questione era addiritturaquella dei Tribone, una delle principalidella città di Ovada, e la ragazza era unacerta Maria Montobbio, non solo di mo-desti natali e orfana di padre, ma ancheun po’ chiacchierata.

No, i Tribone non volevano nel loroparentado siffatta donzella, fornita in piùdi un fratello, il capitano Andrea Montob-bio, “bandito capitale” dalla RepubblicaGenovese e al servizio, come vedremo,dei Guasco, personaggi assai pericolosi.

L’operazione matrimonio avevapreso comunque avvio nell’autunno del1663 con le prime lettere inviate in Curiadal giovane Tribone per le pratiche uffi-ciali, i certificati di stato libero, le auto-rizzazioni al matrimonio, ma quando siera resa evidente e insuperabilela contrapposizione tra le dueparti si era passati alla nominadei procuratori, il signor GuidoBlesi per il giovane FeliceMaria, il reverendo don Tom-maso Ruscone per il padre,Giovanni Vincenzo Tribone.

Da una parte si affermavache l’opposizione del padre,come quella di chiunque altro,non poteva impedire in alcunmodo il matrimonio, “non es-sendo questo contratto depen-dente da altra volontà che dallapropria”, cioè da quella del Fe-lice e della Maria; dall’altra siribatteva che il giovane era vio-lentato a sposare la Maria e cheuna volontà violentata non sipoteva chiamare volontà.

Fra una contrapposizione el’altra si era arrivati a dicembre.Il giovane era stato anche invi-tato a presentarsi ad Acqui da-

vanti al Vicario Vescovile mons. NicolòDogliani, il quale lo aveva visto ben de-terminato a sposarsi, se pur un po’ intimi-dito e pallido.

Il rev. Ruscone, intanto, a nome delsignor Tribone aveva presentato una let-tera nella quale si affermava che mai ilFelice aveva inteso sposare la Maria enon era affatto vero che avesse contrattocon lei “sponsalia de futuro”, cioè un fi-danzamento ufficiale o una promessa dimatrimonio. Per fuggire tale donzella,tempo addietro, si era rifugiato a Genovae dopo qualche mese, sempre per evi-tarla, aveva addirittura progettato di farsifrate domenicano. Mai il padre avrebbedato il consenso a simile matrimonio,consenso non richiesto forse dal diritto,ma certo dal vivere civile, dall’onestà edalla filiale reverenza. E via così, batti eribatti!

Ma il Vicario alla fine aveva presouna decisione a favore dei due giovani eaveva ordinato all’arciprete di Ovada,don Gasparo Grandi, di andare a cele-brare il matrimonio “nella capella del

Pallazzo dell’Archara”, oggi Lercaro2,tralasciando le pubblicazioni e, visto chesi era in Avvento, “ogni pompa di nozzeet accompagnamento alla casa”, come gliera stato espressamente richiesto dal gio-vane, che evidentemente – aveva certopensato il buon Vicario – voleva dare allacerimonia un carattere privato e sottotono, anche per non irritare oltre modo ilpadre.

Ma poi era successo il patatrac: Fi-lippo Tribone, fratello del Felice, avevafatto irruzione nella cappella, con degliuomini armati, proprio nel momento de-cisivo delle nozze ed aveva portato viacon la forza lo sposo.

Era un sacrilegio già l’entrare inchiesa con le armi, interrompere così unacerimonia religiosa era poi un vero af-fronto alla sacralità della Chiesa. Logicodunque che si aprisse un processo controFilippo Tribone, e di conseguenza controil di lui padre, che lo aveva certo soste-nuto, se non obbligato a tale comporta-mento.

E l’arciprete? Si diceva che avesse ri-tardato la cerimonia, era forsecolluso con i Tribone? Anche sudi lui era opportuno indagare,tanto più che il capitano Mon-tobbio lanciava minacce controtutti, e soprattutto contro il sa-cerdote, e non era un tipo da sot-tovalutare, anche perché aveval’appoggio di Carlo Guasco, deiGuasco di Bisio3, il quale avevascritto al Vescovo già il 22 di-cembre, il giorno seguente alfattaccio, assicurando anchel’interessamento del signor Vi-cegerente di Alessandria.

Lo stesso giorno 22 scrivevain Curia anche Filippo Tribone,assumendosi le responsabilità,ma precisando che, per evitarel’assalto, sarebbe stato suffi-ciente ascoltare senza preven-zioni le opposizioni presentatedal padre al Tribunale Vescovile,perché quel matrimonio era unatto di violenza contro la libera

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volontà del fratello.Quasi a smentire le sue afferma-

zioni, era arrivata in Curia, immediata-mente dopo, una lettera scritta dalprocuratore Blesi a nome del Felice,nella quale si ribadiva la volontà delgiovane di sposare la Maria e si accu-sava l’arciprete di aver colluso conpadre e fratello Tribone per rapirlo efarlo prigioniero onde impedirne il ma-trimonio. Intervenisse il Vicario e di-sponesse che le nozze venisserofinalmente celebrate, magari dall’arci-prete di Rocca Grimalda.

Strano. Se il giovane era prigionieroin casa Tribone, come poteva far cono-scere al Blesi la sua immutata volontà disposare la Maria e come avrebbe potutorecarsi a Rocca Grimalda per farsi spo-sare dall’arciprete del luogo? Strano dav-vero. Si stava forse progettando un’altraincursione armata, di carattere oppostoalla precedente?

Il Vicario ora voleva vederci chiaro eda buon conto aveva ordinato di procederenell’azione investigativa. Subito si eranofatti avanti per testimoniare alcuni uo-mini: Giovanni Battista Carenzano daCarrosio, Domenico Varco da Capriata eFrancesco Bianco pure da Capriata. Ilprimo era un mulattiere al servizio deiLercaro, proprietari del palazzo dove siera svolto il fatto, gli altri due erano uo-mini del capitano Montobbio.

Nel complesso i testimoni avevanoseguito tutti lo stesso canovaccio: l’arrivodell’arciprete, il suo recarsi in cappellaper prepararsi, l’ingresso degli sposi inchiesa, la fatidica domanda del prete algiovane Tribone, la sua risposta afferma-tiva: “sic”, l’irruzione degli armati, il ra-pimento del giovane che, cercando diliberarsi, aveva gridato: “Puotete farequello volette, ma ho già detto di sì”!Unica variante: il Bianco non era inchiesa, ma nel cortile, pure aveva sentitoil Felice dichiarare di aver già detto di sì.

C’erano dubbi dunque? Il giovane vo-leva sposare la Maria e i familiaril’avevano portato via con la violenza. Eracompito della Chiesa fare ora giustizia.

L’8 gennaio il capitano Andrea Mon-tobbio interveniva anche lui in Curia pre-tendendo l’immediata punizione degliavversari perché le testimonianze ave-vano provato adeguatamente le ragionisue e della Maria.

Lo stesso giorno il Promotor Fiscale,una specie di Pubblico Ministero, ammet-tendo e raccogliendo le istanze, denun-ciava dunque davanti al Vicario, perl’irruzione nella chiesa, Filippo Triboneed i suoi compagni. Teniamo presenteperò che il Vicario aveva già ricevuto dal-l’arciprete e da Felice Tribone due letteredi cui parleremo più avanti, lettere assaichiarificatrici, ma scritte per difenderel’arciprete e non la famiglia Tribone, perla quale si era perciò continuato regolar-mente il processo. Così il 18 gennaio ilVicario Vescovile aveva ordinato a Fi-lippo Tribone di presentarsi al Tribunaleentro tre giorni.

L’uomo aveva tentato di farsi sosti-tuire da un procuratore, ma, al rifiuto delVicario, aveva infine accettato di rispon-dere puntualizzando i diversi aspetti dellaquestione.

Per prima cosa egli aveva rigettatodecisamente i testimoni della parte av-versa, perché persone “malevole”,scelte per sostenere una tesi falsissima.

Felice Maria, ancora adolescentu -lus4, era stato trattenuto nel palazzoLercaro sotto la custodia di alcunisgherri del capitano Montobbio. Comeera noto a tutti, il giovane non avevamai inteso sposare quella donna, nonsolo per la nascita umilissima, maanche per la sua notoria cattiva fama.

Le carte presentate in Curia eranostate firmate in bianco, sotto minaccia ar-mata. Anche quando si era recato adAcqui era stato accompagnato da quattrobravacci perché non tentasse la fuga e ri-spondesse al Vicario come gli era statoordinato.

Quando, poi, in chiesa l’arciprete gliaveva chiesto formalmente se volevasposare la Maria, egli non aveva rispostoproprio niente, né con la voce né colgesto, e Filippo con i suoi armatil’avevano liberato da chi lo teneva prigio-niero e ne violentava la volontà. Colorodunque che avevano mostrato irriverenzae disprezzo per i Sacramenti e la Chiesaerano i Montobbio e non i Tribone!

Il Promotor Fiscale aveva ascoltatotutto con molta attenzione, ma aveva ri-battuto dicendo che a lui il Felice, quandosi era presentato ad Acqui, era sembratoben sicuro di sé, non era accompagnatoda alcuno ed alla richiesta specifica seagisse costretto da vis et metus, cioè daviolenza e timore, aveva chiaramente ne-gato. Non contava che detta Maria fossedi umilissimi natali e neppure che avesse

240A lato, la torre di Capriata inuna immagine tratta dalla guidaPaesi e Castelli del Monferratodi G.B. Rossi 1901).

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mala fama, come non importava che Fe-lice avesse data o non data all’arcipreterisposta affermativa. Ciò che era grave,invece, era l’interruzione della cerimoniareligiosa.

Poi aveva dimesso il Tribone conl’ordine di mantenersi a disposizione.

La sentenza spettava al Vicario e ge-neralmente non tardava, ma questa voltaerano passati diversi giorni senza alcunanovità. Così il 10 febbraio messer Filippoaveva rivolto una supplica al Vicario: erastato l’amor fraterno a spingerlo ad inter-venire per impedire il matrimonio di Fe-lice con Maria Montobbio, matrimonioconsiderato da tutti inadatto al giovaneper tanti buoni motivi “che si tacciono adogni buon fine”. Era vero che aveva var-cato la soglia di una chiesa con uominiarmati e armato lui stesso, interrompendouna cerimonia religiosa, e per questo ve-niva processato, ma mons. Vicarioavrebbe saputo compatirlo e perdonare alui ed ai suoi compagni, ordinando chenon venissero più molestati e venisse lorocondonata ogni pena meritata.

Lo stesso giorno il Vicario, consultatoil Vescovo, ordinava che l’esponente ed isuoi complici non fossero ulteriormentemolestati per la causa in corso.

Così si era conclusa le vicenda uffi-ciale, ma ci restano ancora da scopriremolti particolari e questo ci è possibileesaminando le due lettere cui abbiamogià accennato, risalenti al 26 dicembre.

La prima era stata scritta dall’ar -ciprete che, per difendersi dall’accusache gli era stata mossa di non avere ese-guito puntualmente gli ordini ricevuti persostenere il partito Tribone, faceva unpreciso racconto di quanto avvenuto, delsuo comportamento e dei rischi corsi eche ancora correva. A questa letteral’arciprete allegava quella, ancora piùdettagliata, scritta dal Felice Maria nontanto per difendere se stesso, - diceva, -quanto per sostenere le buone ragioni delsacerdote, raccontando per filo e persegno tutta la storia. E noi racconteremofatti e pensieri, facendo un tutt’uno delledue lettere, che si sovrappongono e si

completano scambievolmente.Il giovane, dunque, per prima cosa af-

fermava di non avere avuto mai inten-zione di sposare la Maria Montobbio,“cotanto disuguale a me et a mia casa”,soprattutto per la cattiva fama dei suoi“diportamenti”. Più e più volte “ritrovatain certe viti di questo territorio […] pec-car carnalmente con altri”, per un meseintero aveva convissuto con una certapersona “con nottissimo scandolo”.Anche lui aveva avuto “secco lei qualchecommercio libidinoso”, ampiamentecompensato con denari e “gallanterie dinon picciol riglievo”.

Più volte aveva cercato di interrom-pere la relazione, ma lei aveva continuatoa cercarlo. Papà Tribone, avvedutosi dellasituazione, lo aveva portato con sé a Ge-nova e questo gli aveva fatto sperare diessersi liberato della donna. Ma dopo duemesi la Maria lo aveva raggiunto anchelì. Allora lui si era rifugiato a Pegli, dacerti amici, lasciandole il messaggio chenon lo cercasse più.

Tornato a Genova, aveva preso la ri-soluzione di farsi frate domenicano,come aveva già divisato nella minore età,e suo padre aveva mostrato opposizione.Si era messo pertanto a studiare, ma lepersone che gli erano attorno avevanocercato di dissuaderlo e di riavvicinarloalla Maria.

Le sue buone intenzioni avevano cosìvacillato sotto la spinta in particolare diGaspare Buffa, amico di entrambi, finchè

un giorno, fatta incetta in casa di denaro,argenti e vestiti, si erano avviati tutti e treinsieme verso Savona. A Savona, però,era comparso suo fratello Filippo e ascol-tando le sue parole che lo richiamavanoai doveri verso la famiglia e all’onestà deicomportamenti, tutto pentito, era tornatoa casa con lui.

Mentre gustava il sapore del perdonopaterno e l’amorevolezza familiare, gliera giunta da Capriata una lettera del ca-pitano Montobbio, recapitatagli da Bar-naba Ighina, nella quale il fratello diMaria lo invitava ad un abboccamento,minacciandolo di morte se avesse man-cato.

Egli non aveva risposto, ma dopo duegiorni gli era stata portata da una donnauna seconda lettera, dello stesso mittentee dello stesso tenore.

La cosa cominciava a farsi preoccu-pante, anche se i latori delle lettere lo ras-sicuravano che il capitano non avevacattive intenzioni. Lui avrebbe volutofuggirsene lontano lontano e lasciare cheil tempo scolorisse le cose.

Poi gli era stato detto che prete PietroGastaldo, fattore del signor FrancescoMaria Lercaro, proprietario del palazzodi Lercaro, era molto amico del capitanoMontobbio e avrebbe potuto fare da in-termediario. Gli era sembrata una buonarisoluzione e tutto solo era partito allavolta del palazzo.

Era quasi arrivato quando il prete Ga-staldo, con volto ridente e belle parole,

A lato, Le illustrazioni a corredo dell’articolo sono di G.B. Galizzi e sono tratte dauna bella edizione de I Pro-messi Sposi, edita a Bergamonel 1929.

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gli era andato incontro con alcuni famiglie, presolo per mano, lo aveva invitato adentrare. Appena nel cortile però “sichiuse di balleno la porta” ed egli vide al-cuni uomini armati e minacciosi.

Ohimè, era stato ingannato e impri-gionato! Ed ecco farsi avanti la MariaMontobbio, “con vezzi e carezze puta-nesche”.

Due giorni dopo, alla sera, era arri-vato il capitano, il quale gli aveva dettochiaro e tondo che, se avesse sposato suasorella, gli “sarebbe stato per sempre ot-timo parente”, appoggiandolo anche per-ché non fosse diseredato dal padre, incaso contrario si preparasse a morire.Neppure la fuga lo avrebbe salvato!

Conscio della situazione in cui si tro-vava ed impaurito al massimo, il giovaneaveva risposto che era disposto ad obbe-dire. Poi era tornato da lui don Gastaldoper rinforzare quella decisione con millediscorsi, ma lui era ben consapevole chesposare una “putana”, figlia e sorella di“putane”, sarebbe stato un disonore gran-dissimo per lui stesso e per la famiglia,tanto più che non si sentiva di doverenulla ad una donna che non era certostato lui a violare per primo. Ma vista lasituazione in cui si trovava…. E il pretegli aveva fatto firmare alcuni fogli inbianco.

Per un mese intero egli era stato pri-gioniero nel palazzo. Solo una volta gliera stato concesso di uscire a caccia,ma assieme al già noto Gaspare Buffa econ diversi uomini armati, che gli face-vano una guardia stringente.

Poi il Montobbio lo aveva portatocon sé a Capriata, dove lo aveva tenutoin casa sua alcuni giorni, per farlo poipartire per Acqui, dove avrebbe dovutopresentarsi di persona al Tribunale Ve-scovile e chiedere ufficialmentel’autorizzazione al matrimonio. Mastesse ben attento a quanto faceva o di-ceva, perché il Montobbio era pronto afarlo ammazzare o rinchiudere “inqualche scamuzzone con ferri e ceppi”,come un prigioniero di guerra.

I suoi carcerieri, quattro tipacci da

far paura solo a guardarli, lo avevano ac-compagnato “per strade inusitate” finoalle porte di Acqui, ma in città lo avevascortato solo uno di essi. Passando lanotte in una osteria, aveva avuto occa-sione di parlare con diverse persone cheavevano tutte cercato di sconsigliargliquel matrimonio, ma non era rimasto unminuto solo con loro. Aveva sperato dipoter fuggire dalla finestra dell’osteria oalmeno di incontrare qualcuno cui poteraffidare una richiesta d’aiuto per i fami-liari, il signor Olmi, per esempio, unamico di casa, ma aveva scoperto che eraancor più amico del Montobbio.

Così aveva fatto la sua comparsa da-vanti al Vicario senza farsi scappare pa-rola sulla sua vera situazione e con ibravacci di scorta era tornato a Capriata epoi a palazzo Lercaro.

Si era arrivati infine al matrimonio.L’arciprete di Ovada, appena ricevuta

la licenza da Acqui, si era recato al pa-lazzo con il reverendo don Paolo Scarsied il chierico Lanzavecchia per eseguireimmediatamente gli ordini.

Poche ore prima, però, si era recato

costì anche Filippo, che aveva chiesto divedere il fratello. Gli sgherri avevanocercato di impedirlo, tenendo Felice nellestanze del piano superiore, ma questo neaveva riconosciuto la voce e si era preci-pitato quasi forzando le porte. Avevaavuto perciò la possibilità di fargli inten-dere con poche parole la situazione el’altro gli aveva promesso di liberarlol’indomani. Così, arrivato l’arciprete, Fe-lice Maria lo aveva convinto con dellescuse a rimandare la funzione al giornoseguente, promettendo di mandargli uncavallo per alleviargli la fatica del se-condo viaggio.

All’imbrunire era arrivato il Montob-bio, il quale, saputo che il matrimonionon era stato ancora celebrato, si era infu-riato con tutti e soprattutto con l’arcipretee voleva che si recassero la sera stessa aCapriata, per andare l’indomani ad Acquidirettamente dal Vescovo.

Era stato il Felice a calmare il capi-tano, assicurandolo di avere la certezzache l’arciprete sarebbe tornato il giornoseguente e tutto si sarebbe risolto. IlMontobbio allora gli aveva fatto prendere

carta e penna e lo aveva costretto a scri-vere di propria mano all’arciprete di ve-nire a Lercaro al più presto, subito almattino, per celebrare quel benedettomatrimonio. Questa volta voleva esserepresente anche lui!

Così il giorno di San Tommaso da-vanti al portone del palazzo si eranotrovati l’arciprete Grandi, don PaoloScarsi, Filippo Tribone, l’alfiere Al-berto Rossi e Giorgio Mazza. Era stataproprio lei, la Maria, a vedere il gruppoed a gridare di non aprire, poi era scesain cortile e, dopo molte discussioni,aveva permesso l’ingresso solo ai duesacerdoti, a Filippo e al Mazza, obbli-gando l’alfiere, forse armato?, ad allon-tanarsi.

Mentre l’arciprete si recava in cap-pella per prepararsi, Filippo era riuscitocon un cenno a rassicurare il fratello, ilquale, subito dopo, aveva dichiarato al-l’arciprete, presenti don Scarsi e Gior-gio Mazza, che egli non voleva sposare

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In basso, la torre del CastelloLercaro, villa patrizia risalenteal 1586.

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la Maria e vi era costretto con minaccia dimorte. Qualsiasi cosa fosse successa, ilmatrimonio doveva ritenersi nullo. Il sa-cerdote aveva risposto semplicemente diessere venuto soltanto per eseguire gli or-dini dei suoi superiori.

Quindi era cominciata la cerimonia.Per prima cosa don Gasparo aveva letto achiara voce l’ordine ricevuto da Acqui eda quel punto Filippo aveva preso a gri-dare che non voleva assistere a tale ver-gogna per la famiglia e si era fatto aprirela porta della cappella precipitandosi incortile e di lì aveva fatto aprire il portoneper far entrare i suoi uomini.

Intanto in chiesa l’arciprete avevafatto a Felice “l’interogatione consueta diSanta Chiesa”, ma il giovane non avevarisposto; il prete aveva ripetuto la do-manda e in quel mentre si erano catapul-tati in chiesa Filippo e i suoi, subitoprendendo quasi di peso il fallito sposo eportandolo via.

“La sfaciata – scriveva Felice Maria– m’afferrò con le mani nelle calze e peressere fatte alla francese mi sbotonai ilbotone e gliele lasciai nelle mani, re-stando in mutande, e mi resi più agile eveloce al corso5; e tutto lieto e giolivo miportai in compagnia di tutti a mia casa,lasciando mochi gli huomini armati chemi servivano per guardie; e il Montobbio,come bannito capitale, stava nascostonelle stanze di sopra6”.

Una scenetta davvero straordinaria!Solo due parole ancora per descrivere

lo stato d’animo dell’arciprete, preoccu-pato che il Vescovo lo giudicasse disob-bediente ed intimorito dalle minacce delMontobbio che, ritornato a Capriata,aveva nuovamente ai suoi ordini sgherrie sicari. “Resto avisato – scriveva – dapersona qualificata e mia amica esserminecessario star oculato per mantenimentodi mia vita, perché il capitano Andrea mi-naccia di volermi estinguere”.

Un’altra curiosità poi riguarda papàTribone, il quale aveva pubblicamente di-chiarato che suo figlio era stato vittima diuna “bevanda amatoria e superstitiosa”ed aveva intenzione di sporgere denunzia

al Santo Uffi-cio!

A questopunto la storiaha veramentetermine ed icommenti lilascio fare avoi.

Note1 ARCHIVIO

VESCOVILE DI

ACQUI, FondoParrocchie, Ovada, Processi, fald. 19, cart. 1,fasc.3; Ovada, Vertenze matrimoniali, fald. 22,cart. 1, fasc. 1.

2 “Archara” non è un errore dello scrivente,ma la formula costantemente usata ed evidente-mente nome originario della villa-castello, rima-sto in uso almeno fino alla metà del sec. XIX.Nel 1851, infatti, tra gli offerenti per la costru-zione del campanile dell’Oratorio della SS. An-nunciata di Ovada, disegnato dall’ing. MicheleOddini, è ricordata “la marchesa dell’Arcara”.ARCHIVIO STORICO CONFR. SS. ANNUNCIATA,Fald. 19, cart. 4, fasc. 5.

3 I Guasco, signori di Capriata, Bisio, Fran-cavilla e di altri territori dello Stato di Milano,già dal primo Seicento si erano dati al brigan-taggio in grande stile, con scorrerie nei territoridei feudatari vicini e persino entro i confini delGenovesato. Avevano diviso le loro bande dimercenari in diversi gruppi, comandati per lopiù da fuoriusciti della Repubblica, come An-drea Montobbio, i quali avevano le loro sediprincipali in Capriata, San Cristoforo e Montal-deo, mentre la cavalleria più consistente si te-neva a Bisio e a Predosa. Famoso lo scontro diMontaldeo del 1641, dove i Guasco, assaliti daun forte contingente di soldati corsi e dalle mi-lizie di Gavi, Parodi, Voltaggio e Fraconalto,tutti desiderosi di punire i banditi, riuscirono aresistere sotto la guida di Carlo e Giuseppe, figlidi Nicolò Guasco di Bisio, e a mettere in fuga iregolari. Nel processo che seguì i Guasco “nonebbero a patire molestie di sorta, perché si fe-cero un merito di aver difeso i confini di Spa-gna”. E. PODESTÀ, Uomini monferrini, signorigenovesi. Storia di Mornese e dell’Oltregiogotra il 1400 e il 1715, Genova 1986, pp. 283-289.

4 L’espressione adolescentulus voleva sotto-lineare l’età giovanile di Felice Maria, che, natoil 1° gennaio 1644, aveva solo 19 anni. Filippo,invece, era nato il 25 maggio1639 e il 4 aprile1660 aveva sposato Antonia Francesca Cazzo-lini. Era il maggiore dei fratelli, essendo i due

precedenti, Tribone e Tribone Maria, mortiprima della sua nascita, il primo a due anni, ilsecondo ad un mese. È interessante notare comei padrini e le madrine di battesimo di tutti que-sti bimbi Tribone appartenessero a famiglie au-torevoli del territorio, come i Maineri ed iRuffini, e come tra loro spicchi, nel 1638, Gio-van Battista Centurione, “qui fuit Dux Genue”(1658-1660), come più tardi aveva aggiunto insopralinea l’arciprete di Ovada. ARCHIVIO PAR-ROCCHIALE DI OVADA, Libro dei battesimi, fald.1, Libro dei matrimoni, fald. 1, Libro dei morti,fald. 1.

Il dott. Mauro Molinari, che ringrazio senti-tamente, mi ha informata che Felice Maria Tri-bone aveva sposato, prima del 1666, certa MariaCornelia, evidentemente non ovadese perché ilmatrimonio non risulta negli atti della nostraparrocchia, e ne aveva avuto tre figli: Giacinto,Giovanni Battista e Giovanni Vincenzo. Il No-stro non si era fatto dunque frate domenicano!

5 Dal racconto dell’arciprete: “la sposa ha-vendolo preso per le calze alla moda francese,egli medemo si sbottonò il bottone delle calzeet gliele lasciò nelle mani per esser più facilecosì in mutande correr veloce”.

6 Il prepotente ora era impaurito e si nascon-deva come poteva, né osava affrontare gli incur-sori con i suoi pochi uomini. Se Filippo avessesaputo che il bandito era lì, avrebbe potutoanche catturarlo e consegnarlo alla giustizia ge-novese in Ovada. Era appunto il timore dellacattura che aveva indotto il Montobbio ad uti-lizzare Lercaro per farne carcere del giovane. Lìaveva la possibilità di arrivare nascostamente ecelare a tutti l’operazione, agli Ovadesi, maanche ai commilitoni che avrebbero potuto co-stringerlo a denunciare il prigioniero per averneun riscatto e avrebbero così mandato a monte isuoi piani: un matrimonio a così alto livelloavrebbe potuto far cancellare il suo bando edammetterlo negli ambienti più qualificati diOvada. Ma aveva fatto i conti senza l’oste!

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Filippo Mazzei ad Ovada. Riverberi della Guerrad’Indipendenza Nordamericana nell’Ovada settecentescadi Pier Giorgio Fassino

Il mattino del 19 aprile 1775, alcunecompagnie di fucilieri, tratte da vari reg-gimenti di Sua Maestà britannica opera-tivi sulla costa atlantica nordamericana,uscirono - al rullo dei tamburi - da Con-cord, villaggio del Massachusetts, doveavevano eseguito un meticoloso rastrel-lamento poiché, secondo delazioni, inquesto insediamento i coloniali avevanocreato alcuni depositi di armi e muni-zioni. Però la spedizione era risultata in-fruttuosa in quanto i patrioti, avvertitinottetempo dell’imminente arrivo delletruppe inglesi, avevano nascosto altrovegli armamenti. Quindi l’operazione si eraingloriosamente limitata all’incendio dialcuni depositi appena svuotati ed ora lecompagnie, impeccabili nelle loro giubberosse e buffetterie bianche, marciavanoper rientrare a Boston tra le sicure paliz-zate del forte alla confluenza del Charlese del Mystic da cui erano uscite la seraprecedente.

Ma all’altezza del NorthBridge, il ponte in legno sul fiumeConcord alla periferia nord-occi-dentale del centro omonimo, siudirono le prime scariche di fuci-leria e apparvero i minutemen (1) –i coloniali nei loro sbrindellatiabiti da lavoro – che, senza farsiintimorire da quella lunga linearossa, perfettamente inquadratacome sfilasse in parata, blocca-rono il ponte. Il combattimento fusanguinoso (2) ma gli inglesi – in-gaggiata una mischia furibonda –riuscirono ad attraversare la strut-tura sul corso d’acqua e a ripie-gare confusamente su Bostonsubendo ulteriori attacchi nel riat-traversare Lexington – ove già sierano verificati alcuni scontri afuoco - e altre località minori poi-ché le voci della loro debacle sierano diffuse rapidamente di vil-laggio in villaggio.

L’esito del combattimento resepalese la possibilità di battere letruppe inglesi nonostante questefossero meglio addestrate, armate

ed equipaggiate rispetto a quella canagliain armi che, dopo avere abbandonato gliattrezzi agricoli, aveva osato assalire unreparto costituito da soldati appartenentiad alcuni dei più prestigiosi reggimentidel Royal Army.(3)

Questo scontro, a lungo paventato daiGovernatori inglesi che avevano avutomodo di constatare il continuo deteriora-mento dei rapporti tra i residenti delle 13colonie nordamericane con la madrepa-tria, segnò l’inizio della guerrad’indipendenza i cui prodromi si protrae-vano, tra alterne vicende, dalla fine dellaGuerra dei Sette Anni (1756 - 63).(4)

Situazione radicatasi alla conclusionedei quel conflitto e dovuta in buona parteai complessi problemi organizzativi, am-ministrativi e militari gravanti sulla GranBretagna che, uscita vittoriosa, si era an-nessa il Canada francese, la Florida e vir-tualmente il territorio compreso tra i

monti Allegheny ed il Mississippi. In questo contesto si inseriscono le vi-

cende di Filippo Mazzei (5), personaggionoto negli Stati Uniti per i suoi legamicon le principali figure dell’indipendenzaamericana come Beniamino Franklin,Thomas Jefferson, Thomas e JohnAdams, James Madison, James Monroee lo stesso Giorgio Washington. Anzi lacultura americana lo considera comune-mente uno dei padri della Dichiarazioned’Indipendenza del 4 luglio 1776 inquanto Thomas Jefferson, nel redigerla,vi traspose gli ideali del Mazzei. Emble-matico il suo principio di eguaglianza“Tutti gli uomini sono per natura egual-mente liberi ed indipendenti” parafrasatidal Jefferson nel preambolo della Dichia-razione d’Indipendenza in “all men arecreated equal”.

Circostanza alla quale va aggiuntal’attiva partecipazione di questo fioren-

tino come volontario nei primigiorni della guerra d’indipendenzanonché il suo concorso a sostegnoeconomico dei patrioti che com-batterono tra le file dell’esercitocoloniale.

Popolarità confermata da moltistudi, imperniati sulla sua figura,fioriti nel corso delle celebrazioniper il bicentenario della rivolu-zione americana e dal privilegio diessere commemorato, nel 1980,dalle Poste statunitensi ed italianecon l’emissione di francobolli inoccasione del 250° anniversariodella sua nascita.

Tuttavia, in Italia rimane unapersonalità poco nota mentre èconsiderato un particolare trascu-rabile il suo soggiorno in Ovadapresso l’aristocratica famigliaMaineri Celesia nel corso delquale sicuramente incontrò –come era sua inveterata abitudineogni qualvolta sostasse per uncerto tempo in una località - i no-tabili locali come i Botta-Adorno,gli Spinola, i Buffa, gli Oddini ogli Scassi.

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La circostanza della sua permanenzain Ovada è ampiamente documentata dalI volume delle sue memorie rintracciato,pochi mesi or sono, su di un sito della Bi-blioteca dell’Università del Michiganmentre il II ed ultimo, conservato pressola National Bibliothec di Vienna è an-ch’esso consultabile in rete. Al contrarionulla al riguardo è mai emerso dai fondiarchivistici delle Famiglie Botta-Adornoo Buffa o dall’Archivio storico dell’AltoMonferrato, sebbene non si possanoescludere, a priori, successivi contattiepistolari con i suoi ospiti o con qualchefacoltosa famiglia ovadese al tempo incui raccoglierà fondi per sostenerel’esercito indipendentista.

Come egli stesso ci racconta era natonel 1730 a Poggio a Caiano, vicino a Fi-renze, in una famiglia benestante che loavviò agli studi di medicina pressol’Ospedale fiorentino di S.Maria Nuovada cui forse venne allontanato. Tuttavia aLivorno, ove si era trasferito, iniziò laprofessione di medico “........quantunque

io non avessi dimostrato alcun desideriod’esercitar la chirurgia, cominciai a gua-dagnare più di quello che spendevo”.

Quindi avrebbe potuto condurre unaesistenza immune da problemi economicima ebbe l’avventura di conoscere uncerto dottor Salinas, medico ebreo, che loconvinse a trasferirsi a Smirne ove costuiaveva già esercitato la professione sanita-ria. Ma occorre sottolineare che la sceltadi abbracciare un nuovo modo di viveresulle coste turche gli era congeniale poi-ché il Mazzei, spinto da una irrequietezzainteriore costantemente presente in tuttala sua vita, accettò di trasferirsi in Tur-chia compiendo il primo di una serie in-terminabile di viaggi che lo avrebberovisto spingersi in diverse parti d’Europae d’America svolgendo le attività più di-sparate.

Nel 1752 lasciò la Toscana e compì ilviaggio, apparentemente più di piacereper l’avventura che di lavoro - via terra -con il medico Salinas ed un figlio di co-stui verso il Medio Oriente: raggiunse

Vienna, ove fu ospite del Barone Aghilar,tesoriere di Maria Teresa d’Austria, cheavrebbe incontrato nuovamente a Londraalcuni anni dopo; toccò Budapest egiunse a Temesvar (oggi Timisoara), terradi confine tra l’impero asburgico e quelloturco, ove trovò di guarnigione due reggi-menti dell’Imperial Regio Esercito au-striaco – reclutati nel lombardo veneto -: “......Quando arrivammo alla porta, isoldati che vi erano di guardia, senten-doci parlare italiano, i loro volti espres-sero una sensazione, che ci intenerì:vennero in seguito uffiziali di ogni rango,e ci s’affollarono intorno, come se ognundi loro avesse ritrovato il padre nel miocompagno, e in me un fratello.” Sicchéquella che doveva essere una breve fer-mata si concluse dopo nove giorni di fe-steggiamenti con gli ufficiali italiani.Ripreso il viaggio sul Danubio conun’imbarcazione fornita dal comandantedel vicino forte turco, rischiarono di nau-fragare e, per i postumi dell’incidente, ilSalinas cadde in un grave stato di infer-mità e furono costretti a fermarsi in Ni-copoli per quasi due mesi. Per altriquattro mesi sostarono a Istanbul, proba-bilmente in parte perché attratti dalla bel-lezza della città e in parte per risolverealcune questioni burocratiche presso lacancelleria della Sublime Porta, per cui ilviaggio durò circa otto mesi.

Le memorie del Mazzei dedicanopoche righe all’attività medica da questieffettivamente esercitata in unione colSalinas nella città turca, tuttavia raccon-tano come egli, in pochi mesi, avesse giàraggiunto una posizione ragguardevole.Ma a fine dicembre del 1755 incontrò,casualmente, il comandante di una naveda carico inglese, un certo Wilson, che gliofferse un passaggio per Londra a condi-zioni moilto favorevoli. Poiché Smirnesembrava ormai troppo angusta per il suocarattere sempre desideroso di nuoviorizzonti, il Mazzei sciolse la società coldottor Salinas ed impiegò tutto il denarodi cui disponeva per acquistare oppio efrutta secca che avrebbe potuto venderea prezzi assai vantaggiosi a Londra. Im-barcò le mercanzie e fruendo dello sti-

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Alla pag. precedente, ritratto di Filippo MazzeiA lato, ritratto di Thomas Jefferson,scienziato, architetto, terzo Presidente degli Stati Uniti d’America

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pendio da medico di bordo partì col ca-pitano Wilson per la capitale britannicaove giunse il 2 marzo successivo.

Quivi, dopo un iniziale periodo irto didifficoltà economiche, alle quali sopperìcome insegnante di italiano, grazie allasua naturale intraprendenza riuscì ad in-trodursi nell’alta società, a frequentareletterati e musicisti italiani e ad iniziareuna lucrosa attività commerciale di pro-dotti alimentari con l’Italia.

Tra le numerose personalità cono-sciute legò in modo particolare con Giu-seppe Baretti e Pietro Paolo Celesia. Ilprimo, di carattere irrequieto e combat-tivo come il Mazzei, era di origini mon-ferrine ed aveva ottenuto, nel 1742, lanomina ad economo delle nuove fortifi-cazioni di Cuneo molto probabilmentegrazie ai buoni uffici di suo padre LucaAntonio, architetto militare sabaudo. Maben presto, morto il genitore, era emi-grato in Inghilterra ove, vista l’estremafacilità con la quale imparava lingue edialetti, aveva lavorato con successo allastesura del dizionario italiano-inglese(pubblicato nel 1760) per poi rientrare inItalia ove darà vita ai fogli della FrustaLetteraria.(6)

Il Celesia(7) invece si trovava a Lon-dra come ministro [ambasciatore] dellaRepubblica di Genova da alcuni anni. Eraun giovane intelligentissimo colpito a 13anni di età dal vaiolo che gli aveva sfigu-rato il volto e lo aveva mantenuto piccoloed ingobbito. In compenso era una per-sona molto amabile con la quale il nostroMazzei aveva stretto una profonda amici-zia tanto che, nel 1760, in occasione diun viaggio in Italia lo andò a cercarepresso la sua residenza a Genova. Maquivi era presente solo Gianbattista Ce-lesia, padre di Pietro Paolo, mentre il fi-glio si trovava in Ovada, ospite dellasorella andata in sposa ad un Maineri.Gianbattista Celesia informò immediata-mente il figlio dell’arrivo dell’amico daLondra e questi, lieto per la notizia, cosìrispose:

“Appena letta la lettera di mio padrevolevo partire per venire ad abbracciarla,

ma la sorella ed il cognato, padroni dicasa, e molti altri villeggianti circonvi-cini, avendo inteso cosa era questo signorFilippo venuto inaspettatamente nellacittà di Giano, ànno detto, che voglionoanch’essi vederlo, e godere della sua con-versazione; ed io sono rimasto prigio-niero, senza speranza di uscirne, se ellanon viene a liberarmi. Confidando nellasua amicizia spedisco un’uomo con unmuletto a Voltri, dove il latore di questal’accompagnerà; e quando avrà veduto lastrada, ne tirerà la conseguenza, che chile à mandato il muletto, invece di un ca-vallo, dev’essere un vero amico.”

Quindi al Mazzei, per poter rinverdirele frequentazioni londinesi, non rimasealtra alternativa che mettersi in viaggioper la capitale dell’Alto Monferrato. Rag-giunse Voltri con un’imbarcazione equivi trovò ad attenderlo un accompagna-tore con un mulo. Ma la strada, colle-gante il centro abitato costiero col passodel Turchino e la Valle Stura, era talmentemalagevole e cosparsa di buche [solo neiprimi anni dell’Ottocento verrà apertauna vera carrozzabile] che il Mazzei, nonfidandosi della sua cavalcatura, preferìraggiunse Ovada a piedi.

L’accoglienza da parte di Pietro PaoloCelesia, di sua moglie Dorothy, di sua so-rella e del di lei marito, Maineri, e dei no-tabili ovadesi fu talmente calorosa che ilMazzei avrebbe voluto fermarsi in quel-l’accogliente palazzo di contrada Cap-puccini [oggi sede della Biblioteca Civicae dell’Accademia Urbense in piazza Ce-reseto angolo Via Cairoli] perlomeno al-cune settimane. Proponimenti condivi-sibili poiché all’epoca questo fabbricato,eretto nella seconda metà del Seicento,era una pregevole costruzione di quattropiani circondata da rigogliosi giardini e, aconferma del rango dei proprietari, do-tata, al piano nobile, di un grande saloneper i ricevimenti e, a piano terreno, di unasobria cappella gravata dell’obbligo di al-cune messe aperte al pubblico. Luogo didevozione ristrutturato e sconsacrato afine Ottocento quando Palazzo Maineripassò in proprietà del Comune che loadibì a propria sede sino all’acquisto di

Palazzo Delfino negli anni Venti del se-colo scorso.

Particolarmente apprezzabile dovevaessere anche la compagnia della dotta si-gnora Dorotea Mallet Celesia, familiar-mente chiamata Dolly o Dorothy, figliadi David Mallet – uno dei più grandipoeti e drammaturghi scozzesi del Sette-cento – particolarmente versata nel tra-durre Voltaire, nello scrivere poemi comeIndolence (1772), o come animatrice diun salotto letterario nel quale si radicò etrovò linfa vitale quel gruppo di illumini-sti e arcadici ovadesi tra i quali spiccavaIgnazio Benedetto Buffa che nel 1783fonderà l’Accademia Urbense.(7)

Ma purtroppo, per indifferibili motividi famiglia, dovette interrompere il sog-giorno e rinunciare, con gran dispiacere,alla piacevole compagnia dei coniugi Ce-lesia, dei Maineri, dei Buffa, degli Oddinie del Botta. Di quest’ultimo si ricordò inmodo particolare nelle sue memorie nar-rando che il Marchese (8) gli aveva chie-sto alcuni consigli per la propria salute:

“Stiedi a Ovada 3 giorni, e vi sareistato volentieri anche 3 settimane; se nonavessi dovuto andare a soccorrere miamadre. Oltre alla società degli ottimi co-niugi Celesia, era piacevole anche quelladella sorella e del cognato dell’amico,come pure altri villeggianti. In quell’oc-casione conobbi il marchese Botta, capodella famiglia, molto vecchio, il quale(mostrandomi le gambe, che erano assaienfiate) mi pregò di dire, che ne stavamolto meglio, al suo fratello maresciallo,allora capo della reggenza in Toscana, su-bentrato al conte di Richecourt, che sen’era tornato in Lorena, sua patria.” (pag192 op. cit.).

Rientrato a Londra, riprese i contatticon i circoli politici e con gli agenti dellecolonie inglesi nordamericane risalenti al1767 quando in Inghilterra aveva cono-sciuto lo scienziato Beniamino Frankline Thomas Adams, futuro membro delCongresso Continentale e del Senatodella Virginia.(9)

246 Alla pag., seguente, la splendida Tenuta di Monticello(dal 1987 patrimonio dell’UNESCO) progettata dallo stesso Thomas Jefferson,Presidente e amico intimo di Filippo Mazzei.

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Queste amicizie unite al suo abitualespirito di avventura lo spinsero a trasfe-rirsi, nel 1773, nella colonia virginianaper iniziare una nuova attività in agricol-tura. Pertanto, dopo avere pubblicato, tremesi prima della partenza, un avviso diquesto suo proposito sulla London Ga-zette, per avvisare i propri creditori e de-bitori, vendette le proprietà che posse-deva in Londra e quindi raggiunse Li-vorno per reclutare contadini esperti, be-stiame, attrezzi agricoli e sementi. Ilreclutamento degli agricoltori, nono-stante i buoni uffici del granduca Leo-poldo, diede magri risultati e lo seguironosolamente un genovese, due lucchesi dicui uno con moglie e figlia, ed un gio-vane sarto piemontese adatto anche ai la-vori casalinghi.

La compagine, di cui faceva parteanche Madame Martin - una vedova conuna giovane figlia al seguito che il No-stro non aveva avuto il coraggio di ab-bandonare a Londra - si imbarcò a Livor-no il 2 settembre 1773 e giunse in Virgi-nia alla foce del James, nella baia di Che-sapeake, nel Novembre successivo. Ilveliero risalì il Powhatan – denomina-zioe indigena del James – per un lungotratto sino a mollare le ancore in una in-senatura fluviale non lontana dall’inse-diamento fortificato di Williamsburg.Quivi conobbe Giorgio Washington (pag.345 op. cit.) e Samuel Griffin (10) e potériabbracciare Thomas Adams: frequenta-zioni che da sole possono spiegare lostretto legame del Mazzei con la lotta perl’indipendenza delle colonie britannichein Nord America. Tra l’altro ThomasAdams – dopo il rientro da Londra - nonsi era risparmiato in favore dell’amico

italiano e, come da accordi precedente-mente intercorsi nella capitale britannica,aveva ottenuto 5.000 acri di terreno agri-colo dal Consiglio locale perché il Maz-zei potesse impiantare delle vigne. Pur -troppo questa superficie era suddivisa invari lotti di terreno alquanto distanti traloro per cui la loro coltivazione sarebbestata problematica. Pertanto, dapprima ilMazzei partì con Thomas Adams perNorfolk ove acquistò un brigantino da180 tonnellate per spedire a Livorno uncarico di grano, alcuni daini e varie spe-cie di uccelli per il granduca Leopoldo,quindi - sempre in compagnia del fidatis-simo Adams - si mise in viaggio per rag-giungere, nella contea di Albemarle, laresidenza di Jefferson (11) , con l’intentodi conoscerlo personalmente ed ottenerequalche consiglio utile per l’acquisto diuna proprietà terriera. Proposito conclu-sosi felicemente poiché Jefferson lospinse ad acquistare un terreno di 400acri, con annessa casa colonica, confi-nante con “Monticello”la prestigiosa resi-denza del politico virginiano. Anzi ilfuturo terzo presidente degli Stati Unitidonò al Mazzei un terreno di 2.000 acriche, uniti a quelli acquistati, diedero ori-gine ad una discreta tenuta che presen-tava una parte di terreni in pianura, conun rustico adatto ai contadini recente-mente giunti dalla Toscana, ed una parteestesa su di una vicina collina sulla som-mità della quale il Mazzeì farà erigereuna villa che battezzerà col nome di“Colle”.

Dal canto suo Jefferson copiò alcuniattrezzi agricoli di origine toscana e ap-prezzò tanto il taglio della giubba da cac-cia indossata dal Mazzei che non esitò ad

ordinarne un capo al sarto piemonteseche si trovò sommerso da ordinazioniprovenienti anche dai ricchi proprietariterrieri della contea che non vollero es-sere da meno.

Le amichevoli frequentazioni conquesti virginiani ebbero riflessi anchesulla sua vita privata poiché, su consigliodi Thomas Adams, il Mazzei avanzò larichiesta ad un giudice di pace per esserenaturalizzato cittadino americano e, sem-pre spinto dall’amico, sposò la vedovaMartin. Matrimonio infelice che darà ori-gine ad una intricatissima serie di vicendedestinate a concludersi solo con la morteprematura della Martin.

Sempre più stringente diventò la col-laborazione col Jefferson quando inizia-rono a pubblicare un foglio perdenunciare lo stato in cui versava la colo-nia e propugnarono il reclutamento intutte le contee di compagnie di volontariconosciute come Independent companiesnelle quali i due amici, Jefferson e Maz-zei, si arruolarono come soldati semplicinonostante fossero stati loro offerti igradi da ufficiali. Occasione per legarsicon una profonda amicizia ad un altrogrande patriota: James Madison, desti-nato a divenire il quarto presidente degliStati Uniti (13).

Ma non deve passare in secondopiano la sua attività letteraria in quantoscrisse articoli per le gazzette virginianeattraverso le quali propugnò, verso il1776, un piano di governo basato sul suf-fragio censitario, sul principio della rap-presentanza proporzionale della popo-lazione, sul divieto di esercitare carichepubbliche per più di due anni, sullaguerra ingiusta condotta dagli Inglesicontro i pellerossa. Condusse anche unacampagna contro la schiavitù ma limitan-dosi solamente ad una blanda presa di po-sizione volta a proibire ulteriori sbarchidi schiavi provenienti dall’Africa o daaltri territori.

Atteggiamento quasi inspiegabile inun fervente combattente per la libertà inquanto, essendosi stabilito in Londra sinodal 1756, non poteva ignorare il caso em-

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blematico del giovane schiavo nero Jona-than Strong di cui tutta la capitale ingleseaveva parlato. Quest’ultimo - provenientedalle Barbados - appena sbarcato a Lon-dra era stato picchiato a sangue dal suopadrone, per motivi rimasti sempre in-comprensibili, e abbandonato in fin divita sulla pubblica via. Solo il provviden-ziale intervento di un caritatevole medicoche si occupava degli indigenti londinesiunito ad una lunga degenza gli avevanosalvata la vita. Ma due anni dopo il gio-vane ex schiavo aveva incontrato, casual-mente, in una strada di Londra, il suovecchio padrone che ne aveva reclamatoimmediatamente la proprietà, lo avevasequestrato e lo aveva messo in vendita.Ma Granville Sharp, filantropo famosoper le sue campagne contro la schiavitù efratello del medico che aveva salvato lavita al poveretto, aveva portato il caso intribunale ed era riuscito a fargli restituirela libertà.

Nel 1779 il governatore della Virgi-nia, Patrick Henry, mandò in missione inEuropa il Mazzei in cerca di prestiti indenaro o merci per sostenere l’attività delnuovo esercito americano, il ContinentalArmy, che aveva iniziato a costituirsidopo il 17 giugno 1775 quando il Con-gresso aveva designato Giorgio Washin-gton quale comandante in capo dellafutura struttura militare sino ad allorapraticamente basata sui soli minutemen.

Gli venne assegnata una prima dota-zione di 1.000 sterline e pertanto partì peril Vecchio Continente ma nel corso deltrasferimento verso il porto d’imbarco,accortosi di essere pedinato, riuscì a di-struggere le lettere credenziali prima diessere arrestato dagli Inglesi. Imprigio-nato per un certo periodo a New York,solo dopo molteplici traversie, riuscì araggiungere Parigi nel 1880 da dove ini-ziò una serie di peregrinazioni per racco-gliere fondi per il neonato Esercitostatunitense. Tra l’altro, tornato a Ge-nova, ritrovò Paolo Celesia e verosimil-mente tramite l’amico chiese fondi persostenere la lotta indipendentista anchealla famiglie ovadesi più facoltose.

Attività estesa anche ad alti livelli

presso i responsabili delle politiche esteredi alcuni paesi europei come la Francianell’ottica di stabilire scambi commer-ciali di prodotti agricoli statunitensi incambio di realizzazioni delle industriemanifatturiere europee. Contatti suppor-tati anche da argomentazioni secondo lequali i coloni americani non si erano ri-bellati alla monarchia inglese, creandoquindi un pericoloso precedente eversivo,ma si erano solamente ripresi quella li-bertà di decisione che i Padri Pellegrini(13) avevano detenuto sino dalle originidella colonizzazione del continente nordamericano e di cui i governi inglesi sierano appropriati trasferendo progressi-vamente la giurisdizione sui territori dellacosta orientale nordamericana alla direttedipendenze della Corona inglese.

Ne erano lampanti esempi: i Naviga-tion Acts, atti legislativi - varati dal 1651- tesi a limitare l’attracco del naviglioestero presso tutti i porti britannici, com-presi quelli coloniali, al fine di alimen-tare il commercio nazionale inglese adiscapito delle nazioni concorrenti; ilQuarterin Act che poneva a carico delleColonie americane il costo di accaser-mare e mantenere i soldati britannici ol’imposizione di imposte sullo zuccheroo sulla carta (Sugar Act e Stamp Act) . Di-sposizioni che culminarono col cosi dettoTea Act del 1773, legge che dava allaCompagnia delle Indie la possibilità divendere tè nelle colonie britanniche nor-damericane senza l’obbligo di pagaretasse o dazi al Regno Unito con gravedanno economico per la concorrenza.Pertanto, il 16 dicembre 1773, numerosicoloniali, travestiti da indiani Mohawk,assalirono tre navi inglesi cariche di tè,all’ancora nel porto di Boston, e getta-rono a mare il carico originandol’episodio noto come il “Boston teaparty”.

Tuttavia, per sua stessa ammissione,la mancanza delle lettere patenti rilascia-tegli dal Congresso e di cui si era sbaraz-zato nell’imminenza dell’arresto creònon pochi problemi e pertanto rientrò inVirginia. Quivi, a fronte delle sue so-stanze fortemente depauperate, chiese di-

speratamente, facendo leva su attestati edichiarazioni delle sue eminenti amicizietra i patrioti nordamericani, un rimborsoper le spese sostenute in Europa.

Il Consiglio si riunì il 10 giugno 1784e stabilì che gli fossero liquidati 600 luigiall’anno per il periodo intercorrente tra10 giugno 1784 e 8 gennaio 1779 scagio-nandolo contestualmente dal parziale fal-limento della missione imputabile acause indipendenti dalla sua condotta.

Pertanto gli furono liquidati, per i 5anni e 3 mesi nei quali aveva esplicato ilmandato per la causa indipendentista nor-damericana, 3.150 luigi.

Dopo avere fondato a Richmond, il 15giugno 1784, con alcuni amici la Consti-tutional Socierty tesa a consolidare la li-bertà appena conquistata, si trasferì aParigi al seguito di Jefferson, nominatoambasciatore, per conto del quale compìdiverse missioni in Olanda. Sempre inParigi, nel 1788, Mazzei pubblicò i quat-tro volumi delle Recherches Historiqueset Politiques sur les Etats-Unis del’Amerique Septentrionale e poco dopoottenne la nomina ad agente del re di Po-lonia Stanislao Augusto Poniatowsky.Monarca che conobbe personalmente aVarsavia, nel 1791 ove assunse la cittadi-nanza polacca e contribuì alla stesuradella Costituzione di quel Regno. Ma, nelcorso della permanenza nella capitale po-lacca, avendo intuito come imminentel’invasione russa della Polonia, aveva la-sciato quel paese per stabilirsi definitiva-mente a Pisa. Però, rimasto nuovamentesenza una fonte di reddito, nel 1802, de-cise di recarsi a S. Pietroburgo per solle-citare direttamente dalla corte zarista ilpagamento della pensione polacca di cuiera titolare. Lo Zar Alessandro I lo rice-vette, ascoltò le sue ragioni, si accollò ildebito della corte polacca e gli offrì unaliquidazione di 8.000 rubli ma il Mazzeioptò per una pensione di 1.200 che gliavrebbe consentito di condurre undignitoso teno re di vita in Toscana. Il 4settembre 1802, nel timore di essere sor-preso durante il viaggio da nevicate, la-sciò sollecitamente il territorio russo,attraversò la Prussia, la Baviera ed il Ti-

248Alla pag., a lato, Palazzo Maineri – Spinola, sede della Biblioteca Civica,in una bella inquadratura di Francesco Rebuffo.

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rolo raggiungendo Milano. Le sue me-morie sorvolano i dettagli del viaggio perquanto riguarda la tratta Milano – Ge-nova per cui non sappiamo - con sicu-rezza - se sostò, anche in questaoccasione, in Ovada. Però è certo che sitrattenne per quindici giorni con l’anticoamico Paolo Celesia, reduce da Madridove, sino al 1797, aveva svolto le fun-zioni di ambasciatore.

Il viaggio in Russia fu l’ultimo com-piuto da questo cosmopolita che, rien-trato nella città toscana, si adattò acondurre una vita più stabile: riordinò do-cumenti e il materiale d’archivio in suopossesso; procedette alla stesura delleproprie memorie e si diede alla coltiva-zione di un piccolo podere per cui amavadefinirsi “Pippo l’Ortolano”.

Sul piano affettivo convisse, a Pisa,qualche tempo con Josephine Vuy , gio-vane savoiarda conosciuta a Parigi e de-

stinata a morire per una grave malattia,che, poco prima del decesso, lo convinsea convolare a nozze con una loro giovanegovernante di Fivizzano, Antonia Antoni,che gli darà la sua unica figlia, Elisabetta.Nozze rese possibili grazie all’interessa-mento dell’amico Thomas Jefferson chegli procurò, con molta celerità, un certifi-cato di morte della prima moglie, la si-gnora Martin.

Tuttavia questa sua improvvisa dedi-zione all’autobiografia e ai lavori agricolinon cambiarono certamente lo stile divita di questo uomo di mondo che iniziòa frequentare assiduamente il “Caffè del-l’Ussero”, tuttora esistente in LungarnoPacinotti, da molti ritenuto -a quei tempi-la sede di una loggia massonica. Del tuttocoerenti col personaggio sono poi le fre-quentazioni e i contatti epistolari tenuticon personalità del calibro di PasqualePaoli, eroe dell’indipendenza corsa, Ko-

sciuzko, eroe polacco della guerrad’Indipendenza americana, alti dignitaridella corte polacca in esilio o letteraticome Vittorio Alfieri.

Continuò anche a scrivere saggi comeRiflessioni sui mali provenienti dallaquestua e sui mezzi di evitarli oppure Ri-flessioni sulla natura della moneta e delcambio in cui, nella veste di economista,criticava l’eccessivo valore dato alla mo-neta cartacea ed ai titoli di credito.

Morì a Pisa nel 1816 ma già tre anniprima, chiudendo le sue memorie con unsupplemento intitolato: Osservazionisulla proposta di legge per regolare inVirginia la navigazione dei bastimentimarittimi, esprimeva un concetto che puòessere portato ad emblema della sua vitadi combattente per la libertà: “La tiran-nia è spesso il frutto di una vergognosaimperdonabile indolenza.”

Annotazioni (1) Minutemen: nome dato ai membri della

Milizia delle Colonie Americane che dovevanoessere pronti al combattimento nel giro di un mi-nuto dopo avere interrotto la loro consueta atti-vità lavorativa. Dal 1774, il CongressoProvinciale del Massachusetts raccomandò chetutte le milizie costituissero delle minute com-panies, unità sottoposte ad un addestramento ag-giuntivo e composte da uomini scelti peraffidabilità ed entusiasmo.

(2) Battaglia di Concord-Lexington: gli In-glesi riportarono 73 morti, 174 feriti e 53 di-spersi mentre i coloniali riportarono 49 morti,39 feriti e 5 dispersi.

(3) La partecipazione agli scontri di Con-cord e Lexington è rivendicata da diversi Reggi-menti inglesi, presenti in Massachusetts, checoncorsero – fornendo aliquote di personale –alla costituzione del reparto operante il 19 aprile1775: 4th (King’s Own) Regiment of Foot; 10th(Lincolnshire) Regiment of Foot; 18th RoyalIrish Regiment; 43rd (Monmouthshire) Regi-ment of Foot; 47th (Lancashire) Regiment ofFoot e 52nd (Oxfordshire) Regiment of Foot.

(4) Guerra dei Sette Anni: il conflitto sisvolse tra il 1756 ed il 1763 e coinvolse una coa-lizione composta da Austria, Francia, Russia,Polonia e Svezia contro la Gran Bretagna ePrussia. Le operazioni si svolsero non solo inEuropa ma anche nelle varie parti del globo ovele potenze europee avevano possedimenti colo-niali. La conquista dell’intero Quebec (Sett.1759) e la presa di Montreal (1760) segnòl’abbandono definitivo di quei territori da partedella Francia, l’inizio della assoluta preminenza

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coloniale britannica ed il definitivo imporsi dellaPrussia come potenza europea.

(5) Filippo Mazzei: nacque a Poggio a Ca-iano, presso Firenze, il 25 dicembre 1730 da Do-menico ed Elisabetta del Conte. Morì a Pisa il19 marzo 1816 ove si era ritirato a vita privata.

(6) Frusta Letteraria: periodico quindicinaledi critica letteraria diretto da Giuseppe Baretti(Torino, 24 aprile 1719 – Londra 5 maggio1789) ed ispirato ai giornali inglesi; venne pub-blicato in Venezia tra il 1763 ed il 1765. Su talepubblicazione il Baretti, sotto lo pseudonimo diAristarco Scannabue, un soldato a riposo euomo esperto di mondo, contrastò i libri perversied i loro autori responsabili della decadenza mo-rale e civile del popolo italiano.

(7) Dorothea Mallet Celesia (1738 – Parigi,27.4.1786), aveva conosciuto, in Londra, PietroPaolo Celesia e lo aveva sposato il 23.3.1758nonostante l’opposizione di una precedenteamante di Pietro Paolo che lo aveva trascinato intribunale con una causa dalla quale il Celesia neera uscito vittorioso. Suo padre, il grande poetae drammaturgo scozzese David Mallet (Mal-loch) [Edimburgo, 1705 – 1765], noto sopra-tutto per Life of Lord Bacon (1740),trasferendosi dalla Scozia a Londra, aveva mo-dificato il proprio cognome dallo scozzese Mal-loch nell’inglese Mallet. Il marito Pietro PaoloCelesia (Genova, 1° ottobre 1732 – 12 gennaio1806) era nato in una facoltosa famiglia di mer-canti iscritta dal 1748 nel Libro d’oro della no-biltà genovese ( senza possibilità di estendere iltitolo ai figli nati prima dell’iscrizione all’albonobiliare). Compì gli studi presso il seminarioarcivescovile di Pisa e il locale Studio di giuri-sprudenza ove riuscirà a divenire insegnante inun corso di diritto civile. Il 13 settembre 1755venne nominato ambasciatore della Repubblicagenovese a Londra dalla quale si fece richiamarein patria nel 1759 per poi rientrare in diploma-zia accettando come sede Madrid. Dopo alcunisoggiorni all’estero tra i quali Parigi, rientrò inGenova ove ebbe diversi incarichi dalla Munici-palità per poi divenire presidente del Circonda-rio di Genova (1805). Napoleone in persona lodecorò della Legion d’onore.

(8) Marchese Botta Adorno: il casato Botta-Adorno ebbe origine dalle nozze (1508) di Mad-dalena Adorno con il marchese Luigi Botta diPavia. Il personaggio più noto di tale Famiglia èil maresciallo Antoniotto (1688 – 1774) il quale,

nel 1746, durante la Guerra di Successioned’Austria, fu governatore di Genova sino all’in-surrezione popolare contro gli austriaci inne-scata dal gesto di Balilla. Successivamente, dallaCorte viennese ebbe vari incarichi diplomatici aMadrid, a Bruxelles e quale Commissario Impe-riale a Firenze presso il Granduca Pietro Leo-poldo di Lorena, figlio dell’Imperatrice MariaTeresa d’Austria. :

(9) Thomas Adams: politico e abile uomod’affari, nacque in Virginia nella Contea di NewKent nel 1730. Si recò in Inghilterra nel 1762 eda Londra iniziò un’attività mercantile grazie allaquale ebbe modo di conoscere Filippo Mazzei.Rientrato in Virginia prima del maggio 1774, lostesso anno venne eletto presidente del NewKent County Committee of Safety. Quindi feceparte del Congresso Continentale dal 1778 al1779 e del Senato della Virginia dal 1783 al1786. Decedette nella tenuta “Cowpasture” inVirginia – contea di Augusta – nell’Agosto del1788. (“The Virginia Magazine of History andBiography” – Vol. 22 – n. 4 Oct. 1914 pag. 379– e Letters of Richard Adams to Thomas Adamsconservate nella Collection of the Virginia His-torical Society).

(10) Samuel Griffin: (Richmond County1746 – 3 novembre 1810) grande patriota dellaGuerra d’Indipendenza americana: avvocato,politico, colonnello del Continental Army, aiu-tante di campo del generale Charles Lee, rappre-sentante della Virginia alla U.S. House ofRepresentatives e sindaco di Williamsburg(1779 – 1780) -.

(11) Thomas Jefferson: (Shadwell, 13 aprile1743 – Charlottesville, 4 luglio 1826) politico,scienziato e architetto virginiano, fu il principaleautore della “Dichiarazoione d’Indipendenza”del 4 Luglio 1776. Seguace del pensiero illumi-nista, fu fautore di uno stato laico e liberale.Come architetto progettò diverse opere come ilCampidoglio di Richmpond, il campus dell’Uni-versità della Virginia, di cui fu un ardente propu-gnatore, e della sua villa a Monticello.

(12) James Madison: (Port Conway, 16marzo 1751 – Port Conway , 28 giugno 1836)alto esponente, insieme a Thomas Jefferson, delRepubblican Party (designato dagli storici comepartito democratico-repubblicano) divenne il 4°presidente degli Stati Uniti (1819 – 1817). ComeSegretario di Stato di Jefferson, supervisionòl’acquisto della Louisiana che raddoppiò il ter-ritorio della nazione.

(13) Padri Pellegrini: sono considerati iprimi colonizzatori europei del Nord-Americain quanto, sbarcati il 21 novembre 1620 sullecoste del Massachusetts, fondarono Plymouth ediedero inizio al flusso migratorio che, nel corsodei decenni, avrebbe assunto un aspetto massic-cio. Infatti prima dello sbarco di queste 102 per-sone di fede cristiana puritana, i precedentiinsediamenti erano stati unicamente di naturagovernativa e militare.

Bibliografia Filippo Mazzei, PEREGRINAZIONI, Me-

morie della Vita e delle Peregrinazioni del fio-rentino Filippo Mazzei con documenti storicisulle sue missioni politiche come agente degliStati Uniti d’America e del Re Stanislao di Po-lonia –

Volume I – Tipografia della Svizzera Ita-liana – Lugano 1845 – conservato c/o Libraryof the University of Michigan –Ann Arbor - A401766 – 203 M 48.

Volume II – Tipografia della Svizzera Ita-liana – Lugano 1846 – conservato c/o NationalBibliothec – Wien – 88 F 52 – 63822 – B. [Que-sto volume contiene anche un supplemento cheriporta alcune lettere scambiate con eminentipersonaggi ed un breve trattato intitolato Osser-vazioni sulla proposta di legge per regolare inVirginia la navigazione dei bastimenti marit-timi]

E. Tortarolo, MAZZEI Filippo, in DizionarioBiografico degli Italiani – Edizioni Istituto En-ciclopedia Italiana fondata da G. Treccani -Volume 72 – Roma 2009.

S. Botta, CELESIA, Pietro Paolo, in Dizio-nario Biografico degli Italiani – Edizioni IstitutoEnciclopedia Italiana fondata da . Treccani – Vo-lume 23 – Roma 1979.

Albert Goodwin (a cura), Storia del Mondomoderno – le Rivoluzioni d’America e di Fran-cia (1763 – 1793) – Ediz. Cambridge Univer-sity Press – Volume VIII – Aldo GarzantiEditore sas – Milano 1969.

G. Oddini, Il Fondo Archivistico BOTTAADORNO dell’Accademia Urbense, in URBS –anno XVIII – n. 1 – Aprile 2005 – pag. 55.

P. Bavazzano – G. Oddini, Palazzo Maineri-Spinola, in URBS – anno III – n. 2 – Luglio1990 pag. 48.

Per eventuali approfondimenti si segnalano:Paolo Bernardini, Magnifici e re. Le corrispon-denze di Pietro Paolo Celesia dalla Corte diSpagna 1784 – 1788. – Genova, Civico IstitutoColombiano, 1994.

Stefano Giannini, La Repubblica di Genovanella corrispondenza diplomatica di Pier PaoloCelesia. Tesi di laurea presso l’Uni versità di Ge-nova a.a. 1990 -91 – Relatore prof. S. Rotta.

Elisa Bianco, Indolence, Dorothea MalletCelesia, Tesi di laurea presso l’Università del-l’Insubria (Como).

250A lato, i francobolli dedicati aFilippo Mazzei diffusi dalleposte italiane e statunitensi

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Antonio Rebbora, lettere a P. Atanasio Canatadi Gian Luigi Bruzzone

V. L’Indole espansiva e generosa del-l’artista ovadese si accattivò la simpatia piùampia, e strinse rapporti d’amicizia - più omeno profonda conforme la comunanza ditemperamento e di ideale - con moltissimi,tanto nel borgo natio, quanto nella capitalesubalpina e a Milano: città dove in preva-lenza visse. Pur consistendo in un meroelenco, consentirà di formarsi un’ideameno fumosa palesare i nomi di alcune rag-guardevoli persone con cui fu in contatto,che lo stimarono, che lo ammirarono. Ap-partengono al mondo musicale e teatrale,letterario, pubblicistico e politico: UgoBassi, Luigi Grillo, Ernesto Di Pietro, Pie-tro Alfieri, Francesco Regli, C.A. Vecchi,Francesco Guidi, Federico Leoni, EmilioFerrari, Giuseppe Saracco, Angelo Broffe-rio, Lorenzo Valerio, Francesco DomenicoGuerrazzi, Valentino Chiala, Giulio Car-cano, Raimondo Bucheron, Gustavo Mo-dena, Francesco Testore, Biagio Garanti,Pompeo di Campello, il conte Pinelli, il ba-rone Gautier di Confiengo, Ercole Conti,Vittorio Piccarolo, Benedetto Cairoli (57) evia dicendo.

Di sentimenti patriottici, «sostenitoreper intimo convincimento d’ogni liberaleistituzione» (58) onorando ad un tempo reli-gione, patria, arti e lettere, si lamentava «dinon poter prendere parte nei giorni italicialle battaglie popolari se non sussidiandoed intanto quasi settimanalmente inviaal Bertani a Genova somme di denaro»(59). Molte sue partiture sono ispirate alsenso patriottico «tanto che la figlia diGiuseppe Garibaldi consola a Caprerail vecchio padre suonando sul cembaloil suo spartito che è la poesia Stabatmater degli italiani di Ferrari, da lui or-nato di melodiche ed appassionatenote» (60).

Gli amici più sicuri, di antica data,costante riferimento, pronti sempre alconsiglio sapiente e all’appoggio disin-teressato furono i Padri Scolopi, anti-chi maestri o già compagni di scuola.Anche sotto l’aspetto culturale: è noto-rio come nei secoli passati le localitàche ospitarono le Scuole Pie conob-bero un più ampio tasso di alfabetizza-zione ed un focolaio di attivitàculturali.

La corrispondenza rebboriana, fi-

nora inedita, che qui si presenta corroboraquanto suggerito. Riguarda un unico corri-spondente, eppure rappresenta uno spira-glio indiscutibile di più articolatopanorama. D’altra parte P. Atanasio Canatanon fu insegnante qualunque, bensì fra i piùeminenti dell’Ottocento nell’Ordine suo enon solo. Non ostante la modestia, godettedi vasta e meritata fama, vuoi per lo stuolodi allievi memori ed entusiasti del docente(61), vuoi per illustri estimatori fra cui si an-novera un Vincenzo Gioberti (62), un Nic-colò Tommaseo (63) un Pietro Giuria (64)’vuoi per la concorde ammirazione di con-fratelli e biografi (65)

P. Canata, nato a Lerici ml 25 marzo1811, era stato allievo dei missionari vin-cenziani, nondimeno desiderò entrare nel-l’ordine calasanziano grazie al compagnodi studio Girolamo Mongiardini (66) ova-dese, futuro sacerdote, che tanto decantavale Scuole Pie da poco aperte nel borgonatio, con religiosi valenti quanto affabili.L’animo sensibile di P. Atanasio conservòun ricordo di quel periodo, in particolaredel P. Daneri (67), rettore del Collegio vin-cenziano in Sarzana e visitato con indici-bile emozione dopo trent’anni di assenza(68). Il Mongiardini - la congettura è plau-sibile - presentò al Rebbora P. Canata.

Il ventenne lericino indossata l’assisescolopica e professato in Genova il 20 lu-

glio 1831, fu ordinato sacerdote ed asse-gnato per qualche anno nelle Scuole Pie diChiavari. Dall’aprica città dell’Entella erainviato a Carcare «nell’autunno del ‘40 aprendere stanza in questo paese da lui ap-pellato sua seconda patria e per 27 anni[…] vi appare sotto i vari aspetti di mae-stro, di letterato, di sacerdote, di religioso»(69) Amantissimo dell’Ordine, fedelissimoai doveri di religioso, di profondi sensi pa-triottici, studioso profondo e poliedrico, po-liglotta, P. Canata fu straordinarioeducatore (70), come peraltro s’arguisce dal-l’aurea biografia pedagogica del santo Fon-datore (71).

Codesta valenza va tenuta presente nelconsiderare la produzione drammatica dilui: egli sopraintendeva all’acca demia difine anno ed alle altre manifestazioni di vitacollegiale. Quasi tutte le tredici tragedie e inove drammi composti si rapportano al-l’ambiente scolastico in concreto, vale adire rappresentabile con pochi mezzi e daattori non professionisti, valido sottol’aspetto pedagogico, ineccepibile sottoquello morale, religioso e civile. Le esi-genze pratiche s’avvertono ancor più nellesei commedie, tutte pervase da sinceri sen-timenti, vibranti di passione propriad’animo giovanile (72).

Dal sodalizio col P. Atanasio il Rebboraapprese molto, senza dubbio: fu guida, mo-

dello, conforto, confidente colloquio.Le lettere - va da se - svelano qualchelato appena dell’amicizia, ma suffi-ciente per formarcene un’idea piùcompleta ed articolata. Essa è testimo-niata, e reiteratamente, in pubblico: ve-dansi le ventun ottave concepite per laprecoce morte della moglie Clemen-tina (73), assai apprezzate, tanto da de-finire l’autore «fra i migliori poetiitaliani viventi» (74), nonché dediche alCanata e versi dello stesso richiesti emusicati dall’Ovadese.

VI. Fra gli altri temi presenti nelcarteggio offerto in appendice segna-liamo qualche spunto, foriero di ulte-riore approfondimento. Tacendoprevedibili apporti per la biografia reb-boriana - di non esiguo conto - affio-rano parecchi amici del compositore,illustri o meno, talora menzionati con

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un nomignolo, indizio di lunga familiarità,come del pari parecchie allusioni criptiche,non sempre decifrabili.

Particolarmente avvertibile la preoccu-pazione, un poco ansiosa invero, nei con-fronti del figlio Paolino: egli avevaproseguito gli studi all’università di Torino,sosteneva gli esami sorretto dal pensiero edalle preghiere della famiglia e degli amicie nell’agosto 1860 coronava il corso con ladiscussione della tesi di laurea (Cfr. lettereVII e VIII).

Le nozze poi della matura sorella (let-tera III) fino allora convivente con Antonio,lo deludono ed irritano: sia per perdere unaamorosa presenza familiare, sia per i sotter-fugi con cui si svolsero i preparativi dellenozze, l’occulta opera di persuasione alnuovo stato e nel contempo le proteste divoler continuare a vivere con lui (75).

L’animo dell’artista ovadese - estroso,sensibile, religioso - fa intuire quanto certifatti od atteggiamenti, per altri di lieve en-tità, lo dovessero impressionare e ferire.Dalla morte di D. Girolamo Mongiardiniche lo lasciò affranto trova sollievo met-tendo in musica i versi Alla morte del Ca-nata (lettera IV); dalle contumelie subite inOvada perfino da chi fu da lui beneficato(lettera VIII) trova consolazione nella pro-fonda spiritualità. La natura sensibile gustaoltremodo anche la gioia ed il rapportoamicale: «miglior alter ego dite non sapreiove pescarlo», confida con eteroclito lin-guaggio a P. Atanasio (lettera VI).

Le notizie musicali concernono quasisempre la Galleria classica, conclusa nellaprimavera del 1859, vigilia della secondaguerra per l’Indipendenza italiana: lo rilevail sentimento patriottico del compositore.La collezione sacra, impressa in Milano,era invece terminata nel 1847 (lettera V),vigilia della prima guerra per l’Indipen-denza. Apprendiamo particolari sulla sceltadei testi, i contatti con gli autori, talune sol-lecitazioni agli stessi, il concorde gradi-mento, la IV serie con le poesie morali ed ilFlorilegio dei versi in vernacolo.

Non manca qualche sprazzo di giudiziosulle opere letterarie del Canata; evidente-mente per avvenire la discussione vivavoce, non perché il Rebbora fosse digiunodi letteratura e di stilistica o perché vedessesoltanto le proprie cose.

Amicizia profonda quella testimoniatadai nostri documenti epistolari, capace didiscernere l’essenziale dall’o pinabile, con-corde nella sostanza, non necessariamentein una strategia politica (76) o metodologica.

Segue il testo delle missive superstiti in-dirizzate dal Rebbora al Canata (77), tra-scritte in modo integro e fedele: Si sonosciolte le poche abbreviature e collocata inesordio la data. Lo stato conservativo è di-screto, l’inchiostro relativamente acido,poco accurata e poco perspicua la grafia.

LE LETTERE

I

Ovada, 3 luglio 1857Canata mio Carissimo,Ricevo la tua senza data, timbrata però

il 1 corrente e ti rispondo a volo di pennaipso facto per timore che me ne manchi iltempo domani, stante che sono lì lì per re-carmi in campagna e piantarvi il mio quar-tiere generale.... dopo un’assenza di bensedici giorni testé passati alla Capitale. Ohquanto sono dolente di non averti preve-nuto come il 12 giugno io mi sarei trovatoa Torino!.., e tanto più perché in tal con-giuntura io sarei forse riuscito a pescare unaqualche persona acconcia ad appoggiarequanto mi chiedi e desideri. Che dirti!! Ipochi miei amici o sono artisti o deputati,ma di quelli proprio dell’estrema sinistra,epperò dei primi pezzi di legno, dei secondiin siffatta bisogna (e princip[alm]ente inquesti momenti) protezione troppo pocodesiderabile nell’int[erighi] in che si tro-vano con quei falsi liberali che tu tanto pa-venti.

T’assicuro che oltremodo mi dispiace diquesto tuo serio pensiero e che se sapessitrovar modo di [l]evarti d’impiccio, mi viadopererei davvero con tutto l’impegno. Iocredo che il nostro Buffa (78) sarebbe adat-tato a ciò ma, come sai, io non tengo secolui relazione di sorta dietro intendenze an-tiche e recenti, che troppo lungo sarebbeenumerarti.

A scanso di giri viziosi ti dico che se haiqualche amico provato in Torino (e il P. Bri-zio (79) ... (80) sarà bene rivolgersi proprio alui, fidente che il vecchio ordine conservasempre quasi intera l’antica possanza …,

…(81) dietro le quinte Cavour e Rattazzistringa la mano a quelle, tuttoché in appa-renza faccian le viste di osteggiarlo. E diciò basti, giacché sono in fine di pagina.

Godo tu abbia trovato non ingiuste lemie opposizioni al tuo Cirillo (82) e che ilmio debole parere non ti sia spiaciuto. Iotel confesso in fatto di simili libri giudicopiù col cuore che collo sguardo e se, imme-desimandomi coll’autore nello scopo, loscritto mi commuove e mi strappa abbon-danti lagrime, questo è per me tale racco-mandazione che me lo rende al sommosimpatico. Di rimanente tienti molto delgiudizio del Giuria (83) competentissimo adhoc sotto ogni rispetto, e che mi rende unpocolino orgoglioso d’aver toccato in suacompagnia l’unisono.

Le notizie di Chiarello mi sono puredolcissime e per la migliorata salute del no-vello Bernardo, e per la grazia che a FraGomito (84) ha inspirato e ch’io vedrò e pertempo volentieri.

Fra breve tutti vi rifarete delle lunghefatiche. Al primo, ma che al crescit eundo(85) ed al bersagliere stagionato degli atrjscolareschi (86) presenti mille e mille ri-spetti, né dimentichi il P. Damezzano (87)che a questo punto più dite godrà in vedereil tuo vivajo più di stoffa matematica chepoetica. Troppo lungo sarebbe parlarti delnostro collegio, che non cammina bene, al-lontanata la crittogama del Merezini (vedise io m’ingannava, malgrado le smentite diquesto Rettore (88) che tardi provò io avevaragione), benché minato eternamente daiprogressisti in erba (89).

Circa la mia famiglia bene, compresoPaolino (90) che prima deI 15 corrente speroavrà subito il suo esame. Ti prego di racco-mandarlo caldamente all’unico Datore del-l’intelligenza, perché abbia a prepararlo adovere.., dopo tanti sacrifizi! Di Mongiar-dini (91) benone. Ora a me.

In questa ultima volata a Torino (donderimpatrierò il 28 giugno) ho corretto ed as-sistito alla pubblicazione di n. 10 pezzi con-tenzioso Galli (92). E qui ti notifico d’avercolto al balzo un’occa sione propizia che misi porgeva per Firenze, per ispedire alla Di-rezione del giornale “L’Arte” (93) un esem-plare de’ pezzi finor venuti alla luce, nellafiducia che colà, nel paese famoso ove eb-

252Nella pag. a lato, il Collegiodelle Scuole Pie di Carcare inuna cartolina promozionaledell’Istituto

Alla pag. precedente, Padre Atanasio Canata, insegnante di Goffredo Mamelie dinamico Rettore del Collegiodi Carcare.

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bero culla i principali nostri poeti, trovarpossono per avventura grazia speciale emeglio che altrove venir preso il nobilescopo da me vagheggiato.

Se mai qualche tuo amico fiorentino de-siderasse comperare la mia galleria poetico- musicale e se tu avessi occasione di scri-vergli, indirizzalo all’ufficio di detto gior-nale, ch’io alla cieca prescelsi, al solosuono del titolo..., senza ch’io mi com ...(94) manchi alcuno della collaborazione,nemmeno il periodico stesso. [Ma] in que-sta materia io mi son fatalista e lascio che le[cose] camminino (se il vogliono) di per sé.

In Torino già qualche giornale pronun-ziò un assai lusinghiero giudizio anche diquesti ultimi pezzi . ed io perché fin d’oratu possa formarti un’idea retta del mio la-voro ti accludo oggi (95) l’indice di bozzatesté pubblicato con qualche aggiunta ivipagina innestata…

Perdona le male scritte!. Perdonami, iomi trovo nel caso tuo, non ho più testa a ri-leggere e forse sarà troppo tardi per impo-starli. Ho cominciato troppo tardi e non sose sia con il caso, del meglio tardi .. conquel che segue.

Tuo aff.mo A. Rebbora

II

Ovada, 25 Agosto 1858Canata mio Carissimo,dal P. Borlasca (96) gentilissimo udrai la

continuazione delle strazianti mie sciagure!Dall’ultimo ottobre (il crederesti?) non pas-sai più una notte tranquilla. Colgo di tuttafretta que st’occasione per farti tenere pa-recchi pezzi della mia Galleria quei pochiche al momento trovomi avere, dolentis-simo di essere sprovvisto principalmente diquelli che, in grazia di poesie più musica-bili, sono di maggior effetto e che senza av-vedermene dietro molte richieste - mi vedo

mancare (97). E duolmi in primis di non po-terti spedire Le furie di Saul (98) che peròmi riserbo a inviarti appena andrò a Torino.

Tra i presenti riceverai le ultime miequattro pubblicazioni - e tu vedrai il n. 35 -doppio esemplare, uno più elegante perchétu possa serbarlo separato come picciol ri-cordo di amicizia e riconoscenza (99). Ledifficoltà che presentava questo grandiososonetto (per ogni verso), non mi distolserodal musicarlo, siccome quello che unica-mente quadravami di tanto Pietro, tanto piùche null’altro potrei trovare d’... (100) al mioscopo.

Il giudizio della stampa fu favorevolis-simo, tuttoché per la natura del componi-mento io dovessi tenermi al severo ed algrave e, per cagione del verso, allo spez-zato. E tal sonetto io prescelsi eziandio perla caratteristica confacente alla mia attualeposizione.

In circostanza luttuosa di morte tu haivoluto la prima volta (101) significarmi il tuoaffetto. In quest’anno in cui per la terza[volta] venne il mio cuore squarciato daconsimile sventura. parvemi non disdice-vole una scelta siffatta. A dire il vero iopensava intitolarti il sonetto di Filicaia (102),ma non essendo ancora inciso, ed ancheperché il tuo numero potesse andare incompagnia del 34 che abbraccia il nomed’un amico comune (103), ho creduto beneassicurarmi una stretta di mano pronta econte[m]poranea di due fra miei più diletticonsolatori. Via, perdonami dell’ardi mentoe della libertà che mi presi.

L’ultima tua - tel confesso - mi fu dav-vero di dolce conforto, tanto più che mi ria-nimò a continuare il mio .. (104)

Ti basti sapere che tutti i pezzi che tro-vansi nell’indice (i già pubblicati sono 33numeri), compreso l’Album, sono ultimatie vari in corso di stampa. ad eccezione però

del 37 - quel Brindisi al pubblico che il si-gnor Gazeria Bianchi dopo un anno e piùdi promesse ancor non mi consegnò; cosache in confidenza mi fece risolvere di rivol-germi ad altri ad hoc, anzi ho portato sopradite le mie viste, seppure ti criccal’argomento, locchè temo assai.

Tratterebbesi d’un ringraziamento alpubblico da cantarsi a terzetto dalla primadonna, dal primo tenore e dal basso bari-tono d’una compagnia melodrammatica infine d’una stagione teatrale: mi capisci, uncomplimento in versi sentito, appoggiantecome s’ad dice a chi deve molta gratitudinead un pubblico. Sarebbero due strofettinerimate assieme da potersi cantare da tutti etre i cantanti in un andante, più un’altrastrofa in metro diverso e di vivace coloritoper l’allegro di chiusa, varia e bene intrec-ciata da cantarsi pure assieme in tre.

In caso... pensaci in queste vacanze e seil credi accontentami. Quanto all’autore,siccome non sarebbe tema di Canata, cosìpotrei lasciare in nome o appiccicarvi unN.N. (105)

E qui, giacché sono in materia, avrei untiro ...: vedi se cammino col crescit eundo.Ti avverto che ho fissato d’ag giungere allaGalleria una serie speciale di brevi poesiereligiose e morali di Manzoni, Arici, Bor-ghi, Maria Reppetti, Giuria, Tommaseo,Capellini. Nicolini ( ecc., epperò ti pre-vengo che aspetto una cosa tua, perché vo-glio il tuo caro nome figuri nella lista.Poche strofette sentimentali - siamo intesi -ciò con tuo comodo. Poco nella lista. Pocoprima di mandarti, ebbi incitamento dal Ce-reseto a fare tal giunta e. se posso, sperocompiere il voto.

Dal Signor Carcano (107) ho ricevuto jeriuna compitissima lettera pel n. 33 dedicata-gli..., cara doppiamente perché approva lascelta per me fatta delle poesie in ogni ge-nere, ch’ei chiama benissimo ispirata. Partedi quest’elogio lo divido con te che mi haisuggerito ottimi consigli, in proposito del-l’Alfieri e del Redi (108) ecc..

Ti ringrazio del programma della vostrasolennità scolastica (109): ottimamente! alcaro Cereseto (che dovea esser mio scolarodi pianoforte) tante congratulazioni! (110)Un bacio poi, cordialissimo e rispettoso, altanto amato P. Rettore (111), e mille saluti atutti di cotesta ieratica famiglia. Prega Dio

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mi dia forza, perché io possa uscire a salva-mento da questo pelago (112) cui, per noniscoppiare d’affanno, mi sono apposta lan-ciato siccome unica tavola di conforto e dibalsamo per mezzo a tanti crepacuori cheopprimono il sempre tuo aff.mo

A. Rebbora

III

Ovada, 19 Dicembre 1858Amico Carissimo,Fin da quando ricevetti l’ultima cara

tua. io stava attendendo un’occasione pro-pizia per costi, che mi si fece sperare dal P.Cereseto. Stassera sono avvertito che do-mattina va a presentarsi. Ed io a rompicolloti scrivo e la colgo al balzo per inviarti ilpacco pervenutomi colla diligenza e la-sciato intero dietro quanto mi scrivevi ecc.Così potrai emendare questi esemplari espedirmene alcuni dell’edizione corretta.giusta il cortese cenno che me ne fai.

Godo della nuova Elegia che hai scritto.Viva il tuo genio! Unisco all’an zidetto unaltro pacco contenente vari pezzi di musicacon cui potrai completare i primi quattropoeti ed avere all’uopo per un’accademiaseria altri cinque numi (Foscolo, Chiabrera,Parini. Alfieri) compreso lo scherzo del Fu-sinato (113) che va a cappello per esilararedi chiusa l’uditorio. Confido che il tuo buoncuore vorrà accogliere benignamente que-sto povero mio dono.

Dacché non ti scrissi, suppongo saraistato ragguagliato degli alti e bassi, de’ pe-ricoli corsi, delle ansie e delle speranze cheprovammo pel caso di Mongiardini. Da tregiorni pare che di bel nuovo si presenti unacalma alquanto sentita, ma ti cerrezzo (114)che temo... temo forte di perdere l’unicoamico vero che in Ovada io m’abbia,l’unico cui potessi stringer la mano senzasentire crampi di funesto presentimento - eciò ben inteso lasciando da parte i cari PP.Scolopi (il P Rettore in ispecie, mio dilettis-simo amico.), siccome quelli che possonoda un momento all’altro mutare di ubica-zione. E qui, finché la cosa è calda, ti av-verto che D.M. (115) giorni sono, sentendosiassai male, fra le altre incombenzem’accollava quella di cercare fra le suecarte e spedirti l’autografo - che purt’accludo - di quell’angelo di virtù (116), allacui onoranza tu meritatamente dedicavi le

bellissime note poste in fine della tua dolceElegia a me intitolata, e ciò perché s’intesecome tu forse stia scrivendo alcuni cennibiografici del E Daneri (117). Se ciò è vero,credo che ‘sta lettera possa riuscirti non di-scara, essendo piuttosto interessante perquanto riguarda il De Antici, secondaanima del suo corpo e appalesando nonsolo l’ottimo cuore del E Daneri, eziandioverso i discepoli lontani, ma ancora il suovalore nello stile lapidario e in qual contotenesse l’egregio De Antici ecc. Col consi-glio pure di D. Mongiardini ho barratoquello che non può interessare alcuno.

Aggiungo una moneta pel P. Ighina (118)rinvenuta la scorsa settimana al mio SanMichele (119) sotto terra, ed a questo propo-sito ti prego di chiedere al predetto caroPadre se ha ricevuto un’altra moneta che iogli inviava in ottobre p.p., col mezzo del PRosselli (120), quale portava da un lato: AT-TICUS SECUNDUS PONTIFEX MAXIMUS S.C.DALL’ALTRO: CLAUDIUS CAESAR AU GUSTUS,con una torre (121). Mi farai favore dirmenecon comodo qualcosa ed occorrendo richie-derne conto al P. Rosselli in Savona.

Ed eccomi (122) in fin di pagina senzanemmeno poter rivedere le male scritte, chéstammi sul groppone l’incubo di chi aspettala presente. Ergo un: buone feste! in musicae di comunion cattolica... Ora non ho tempodirti le terribili prove di dolore che mi tor -mentano per una sciagura di nuovo genereche va a colpire la mia povera famiglia. Oh,questo è troppo! Ti basti (e ciò in confi-denza) che mia sorella a quarantadue annidopo mille proteste, antiche e nuove, diviver meco, adorata com’era e fu sempre..., sobillata con tradimento sotterraneo daun pessimo uomo ... era senza dirmi nulla(anche adesso, che tutto il paese sa e cono-sce essersi concluso il matrimonio) .. conun viso di ingenuità continuando a stare incasa, sta attendendo il momento di abban-donarmi .. e così privarmi non solo d’unforte interesse, ma cagionandomi l’...(123) diperdere la sua persona che mi fu sempre[d’]aiuto e conforto supremo . .. A questocolpo, ti giuro che non posso reggere, avutoriguardo al modo tenuto in questo sciagu-rato affare ... usando meco il più schifosotradimento, tutto io sapendo da estranei,nulla da chi sarebbe stato un dovere infor-marmi almeno. Prega per me!

Al P. Garassini (124) un milione di baci.Se camperò, nella serie sacra ho intenzioneillustrare qualche mio numero di sì caronome (125); così anch’io avrò i miei Danerie De Antici, consolazione unica che mirenda forte a superare tanti infortuni!

A. R.Perdonami! non rileggo: mi manca il

tempo e son convulso.

IV.

Ovada, 6 Gennaio 1859Caro Canata,colla solita furia, un dispaccio semite-

legrafico (suona mezzodì: è imminente lapartenza del corriere) per norificarti col piùprofondo cordoglio come ier sera, verso le9, il comune amico spirasse la sua bel-l’anima santamente nelle mani del Signore,che volle certo nell’odierno festeggiamentoaverlo seco in Paradiso. Forse da questoPadre Rettore avrete costà più parricolareg-giari dettagli della santa morte di questocaro che proprio s’addormentò nel sonnodel giusto in tutta l’estensione del termine.Perdonami ho concertato pe’ funerali ecc…te ne avviso apposta oggi perché possiateunire le vostre alle nostre preci a suffragiodel compianto amico.

Io gli lessi giorni sono quel brano del-l’ultima lettera che il riguardava em’incombensava di ringraziarti di tutto ecc.Dio non volle esaudire le preghiere nostre,perché gli tardava premiarlo con liberarlodi questo mondaccio.

Io ho ricevuto e per tempo il tuo bellis-simo Carme (126) che, ti confesso, mi piac-que attraendo, e trovai degno di stareaccanto a quel del Pindemonti (127), sia perla bellezza e novità del concetto chel’informa, sia per la condotta e sostenu-rezza con cui lo trattasti.

Siccome poi non posso dividere teco ilconsiglio di musicare quelle strofe che tuponesti in bocca de’ miei cari estinti (e ciòperché parmi illogico far cantare da vivi,ciò che solo s’addice ad anime passate al-l’altro mondo e già esultanti in Cielo), cosìho pensato in quella vece di musicare a suotempo quello squarcio: Bello il dì dellamorte! ecc. del tuo carme, siccome stu-pendo, vero e tanto confacente allo stato delmio cuore..., tanto più dopo aver presen-ziato a quest’ultima malattia ed alla morte

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preziosa del troppo caro D.M.Quanto alla storia della sorella,

sta pur sicuro che io mi comporteròcon quella calma dignitosa che già davarj mesi avea adottato e che nonpotrà dar pretesto di sorta a’ miei micapisci. Pregami pazienza! Il caroD.M. si dolse ripetutamente di nonpotere. inchiodato a letto, stornare odalmeno mitigare il colpo che mi stasopra.

Oh Carcare! quanto ti bramo vi-cina! Avrei proprio bisogno di pas-sare qualche giorno in codesti recessied in braccio alla tua cordiale amici-zia (ma forse ti disturberei nei tuoilavori) (128). Per ora addio! le lagrimemi impediscono di più oltre continuare.Addio. Un bacio affettuoso e rispettoso al P.Rettore

Affmo tuo sempreA.R.

PS. quel di comunion cattolica è frasesfuggitami (129) al solito e da me già adope-rata per altro, per indicare che tu dovessipartecipare a tutti i miei fausti auguri. Per-donami l’oscurità .. Un bacio a tre miei caricompatrioti.

V.

Ovada. 27 Aprile 1859Carissimodi tutta fretta colgo l’occasione del P.

Parodi (130) che recasi a Savona, per farti te-nere gli ultimi tre numeri pubblicati, cuiunisco l’Album de’ dialetti (131), sebbenesia merce poco confacente al tuo palato,merce però che vuol essere trattata per nonlasciare intentato alcun genere di musica.Ad eseguir questo abbisogna tenere la can-zone prima di Brofferio, interamente al paridello scherzo del Giusti (132). Troverai neiprimi il sonetto del Filicaja (133) per intito-larlo al Cavalier Carranti (134), quale midiede ripetute prove di vera amicizia e concui mi trovai all’unissono circa la scelta delbrano che intendo musicare dell’ultimo tuoCarme elegiaco e inserire nella quartaSerie, tutta di poesie sacro-morali. Nell’ul-tima quaresima passammo assieme parec-chi giorni in Torino..., e ti salutacordialmente. A quest’ora temo sia irregi-mentato in Ivrea.

Ti raccomando in particolar modo il

coro da eseguirsi a voci nude (135) all’in-gresso d’un camposanto la sera del 2 no-vembre: è genere nuovo, e arditissimo.

Sebbene al dì d’oggi non si badi chealla musica delle bajonette e dei treni delleartiglierie (136), pure ebbi il conforto non in-sperato di vedere parecchi giornali giudi-care nei termini più lusinghieri il miolavoro. Ti basti che la Fenice di Venezia(137) e l’Armonia di Firenze (138) ne tenneparole assai vantaggiosamente, per tacerede’ nostri Il Pirata (139). Il Diritto (140), ecc.Anche il Courrier Franco-Italien di Parigi(141) pubblicò un articolo dolcissimo sullamia Galleria, toccando specialmente delleFurie di Saul (142) e del concertato colà ese-guito nello scorso gennaio. Ma di ciò basti.E le tue tragedie? (143)

Il dì di Pasqua (144) mi riuscì graditis-sima l’improvvisata fattami da codesto P.Garassini. Corpo di tutte le bombe chevanno a lanciarsi fra pochi dì … gli è un ec-cellente sceltissimo mazzo di fiori di Para-diso … Favorirai recapitargli l’acclusoviglietto, e me lo bacerai caramente!

Termino perché sono come fuori di meper gli avvenimenti che stanno per com-piersi. Come nello scorcio del ‘47 ultimai(profeta!) la Collezione sacra in Milano,così testé per così dire mi liberai dalla pre-sente, e fu fortuna perché anche poco dopomoriva l’editore mio amico signor Stracca(145) Di rimanente io spero bene e da quanto[vedo] le cose cammineranno benone. Noi,come voi, siamo nell’olio e non .. poco.Scrivimi ed ama i1 sempre tuo aff.mo

Rebbora

PS. I1 Béranger (146) fu trovato daBrofferio stesso ed altri: è pezzo cheabbraccia i1 buffo, iI serio, i1 patetico,i1 grave, i1 satirico in endecasillabi,pizzicando d’attualità: fu eseguito inmolte conversazioni a Torino. Oh po-tessi tu farlo eseguire!

I Buratin, La Giustizia di stomondo, Lo smargiasso son cose inge-nue anche per ragazzi.

VI.

Torino, 10 Maggio 1860CarissimoCome ti promisi, ti scrivo dalla ca-

pitale e ti mando quattro numeri delFlorilegio (quarta serie) nel cui frontespi-zio troverai i1 tuo nome che dovetti forza-tamente registrarvi fin d’ora in aspettazionesempre delle strofe. Così come vedi, il Pri-mus (Dante) ed ultimus, con quel chesegue, è al tuo indirizzo. Questi numeri fa-vorirai presentarli a mio nome al tanto caroP. Garassini, pregandolo di perdonarmi seho avuto l’arditezza d’inti tolarglieli perdargli, se non altro, un attestato della miastima ed affetto cordialissimi che gli porto.

Con miglior occasione ed a suo tempomanderò poi a te intero i1 florilegio. Qua-lora in codesto collegio ed in Savona si de-siderasse da’ piccoli convittori acquistarnequalche esemplare de’ numeri suddetti, te-nendone io parecchi, potrai farmene avver-tito e te li invierò per la via d’Acqui a metàprezzo del segnato sul frontespizio.L’editore me ne lascia in deposito un quin-dici esemplari onde all’uo po valermene.

Scusami presso i1 P Rettore carissimose non gli scrivo una riga d’accompa -gnatura! Son sulle mezze per recarmi inOvada e mi manca affatto il tempo, perfarlo come vorrebbe iI mio cuore.

Conclusione. Mandami le strofe appenail puoi. Se no musicherò gli endecasillabiche intendi dedicare alla memoria de’ mieie tuoi cari congiunti perduti.

Ciao con tutta l’anima. Tuo ora e sem-pre aff.mo

A. RebboraMi raccomando! indovina e rappresen-

tami a dovere: miglior alter ego di te nonsaprei ove pescarlo. Pregate perché i1 mioPaolino possa superare l’esame di laurea a

255A lato, Antonio Rebbora in unalitografia del Perrin di metàOttocento.

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suo tempo, te lo raccomando, e al P. Rettore.

VII.

Ovada, 2 Luglio 1860, a sera tardaCanata mio Carissimobuon per te che la lontananza e i1 non

esservi strada ferrata per Carcare (147) ti sal-vano da’ miei artigli, ben peggiori - credilo- di quelli che sfoderano gli sparvieri grifa-gni che fanno il molinella sul capo delle co-lombe che sai. Sì, buon per te, chénemmanco la Pentecoste ti avrebbe scan-sata la fine da te temuta di Santo Stefano.Dopo tante ansie, dopo i1 lungo expectansexpectavi (148), venirmi fuori con improv-viso grido di disperazione, e infiltrami nel-l’ossa un brivido siffatto da dovermi buttarea letto colle convulsioni.

«Ho smesso il pensiero di comporrestrofe per musica; hai promesso endecasil-labi e tali restino: non compongo più versielegiaci di sorta o …». Dopo tante pro-messe, anzi dopo i1 tuo suggerimento, fi-nire con un tiro di questa natura!Misericordia! è un proclama secco seccoalla Garibaldi e tu pure, parmi, risenta delprogresso de’ tempi rivoluzionarj! E dopotale mazzata, come se ancor fosse poco, mivieni alla Bresciani (149) a darmi una pugna-lata al cuore con quel: «Voi, voi democra-tici avete i1 torto (con quel che segue),mettendomi enfaticamente a fascio con si-mile generica classe, che tu certo squader-nandola con l’occhiolino di Margotti (150)non conosci per bene e di quante sfumatureessa sia composta.

Tu hai un mondo di ragioni circa quantomi scrivi sull’istruzione pubblica ed io sonoteco all’unisono, come teco in parecchiealtre questioni; ma credi tu che se fossero alpotere uomini del mio colore si comporte-rebbero similmente? T’inganneresti a par-tito. Sulla mia bandiera sta: libertàd’insegnamento, tolleranza e libertà pertutti, ma chi rompe paga e moralità e reli-gione siccome cimasa dell’epigrafe. ilguaio sta che la democrazia degli odiernigovernanti e accoliti può rassomigliarsi aque’ di Soulloque e soci, ed è soltanto l’Ar -monia (151) che mettendo tutti a mucchiocon evidente malizia pone Cavour a livellodi Garibaldi e Mazzini, mentre tra quello equesti corre la differenza che passa tra i1

giorno e la notte. Se cessasse il soffio rivo-luzionario, abilmente sfruttato da Cavour,sta certo che tornerebbe come i1 Cibrario(152) collaboratore effettivo del giornale concui amoreggiò ne’ primi anni della sua vitaparlamentare.

Le parole Italia e Libertà per quel vol-pone e compagnia cantante, non sono altroche bandiere (come ben disse Guerrazzi)per far entrare di contrabbando i1 basti-mento e le mercanzie sospette in porto. Edi ciò basti quest’antifona, perché se avessiad entrare in questo torbido pelago, sareicome Michelini (153) interminabile.

Dal rimanente, avendo io a varie per-sone del ministero parlato fuor de’ denticirca que’ soprusi fatti dal Casati (154) ad al-cuni de’ tuoi correligiosi, sai che mi disse«Era un cretino, che farci?». Altri poi mi fe-cero comprendere che tale manovra slealeadoperata contro preti e frati è unicamentea fine di distrarre l’opinione pubblica dalmarcio della questione e farsi tenere da’gonzi per democratici; ciò che è certo si èche i battesimi di rivoluzionario per reli-quia dati dall’Armonia a Cavour, lo fannoringalluzzire e le fregatine di mano nonsono mai così sollucherate come quando sivede paragonato a’ democratici più salienti,malgrado e per quanto giusta, vera e san-guinosa riesca talvolta la polemica del Mar-gotti. E di ciò satis prati bibere (155).

Oh potessi volare costi per un solgiorno! metto pegno che tu mi daresti ra-gione su tutta la linea e che ti aprirei gliocchi per modo da renderti come traso-gnato Ora, bando alle celie, a noi. M’èdolce poterti notificare che nell’ul timomese ho ultimato i cinque pezzi mancantidella Galleria (in totale numeri 56) com-preso i tuoi endecasillabi, quali tutti mi pe-savano sul cuore come macigno. Presicinque, i più indiavolati per genere diversoed uno perché sestetto con cori grandiosooltre modo. Ed io ti assicuro che dopo i1 ti-more forte di non avere né lena, né vita percompiere tutta la collezione vagheggiata, iomi sento adesso proprio come i1 Boiardo,quando trovava il suo famoso nome di Ro-domonte. Se vuoi provare due tocchi dicampana puoi farlo, tanto più che i1 tuo incauda venenum mi pose proprio nel mag-giore sgomento, stante le lunghe sospen-sioni, la larghezza de’ concetti, il metro ecc.

e riuscii a cavarmene non so come procu-rando di trovare un pensiero melodico con-facente al tema e d’indi viduare unacondotta d’andamento non monotono cheforse non dispiacerà. Ora sta nell’editore: asuo tempo lo sentirò.

È tutto pel meglio. La rifrittura di taliconcetti in versi anacreontici, per avventuranon avrebbe uguagliato la bellezza de’ mu-sicati come desideravi. Ho fatto a modomio. Dal brano ho stralciato alcuni versi pernon riuscire soverchiamente prolisso. Ve-drai. Questo lavoro io compiva in abbozzo,proprio nel dì che mi visitava co’ tuoi sa-luti i1 Cereseto, reduce di costi. Mi fu dibuon augurio: Oh se sapessi! I1 dì di Pen-tecoste (156), quando tu mi scrivevi, celebra-vansi gli sponsali di mia nipote Torielli (157)Claretta sorella del Giacomino ora in Car-care. Fui pregato all’ improvviso d’un so-netto ed io buttai giù un quattordici strofe didecenarj doppi, inspirata da Garibaldi e colpresentimento nel cuore di quella vittoriadi Palermo (158), con allusioni ecc; insommauna cosa non de comunis che fu applaudita,che risentiva de’ Vespri, deIl’Etna, di pa-recchi miei amici là combattenti ecc. Strofeche al Cereseto non dispiacquero, anzil’avrebbe voluta copiare. E rotto i1 ghiac-cio, anche un’altra poesia di circostanza hotrinciato, tutte due però con fisionomia altutto nuova. A suo tempo te le farò vedereper sentire i1 tuo parere.

Bada che dal P. Rettore carissimo avraiuna girata di commissione pel mio Paolino,mi raccomando! Io, vedi, ci vedo in tuttocoll’occhialino del Bossuet, non solo nellecose domestiche, ma anche ne’ grandiosiavvenimenti in cui versiamo (159), il digitusDei (160) c’entra sicuramente. Tutti abbiamopeccati da purgare, dicono le donnicciole,e dicon bene. Ma quel digitus che imbrigliai1 mare farà a suo tempo quello che la cartamancante a me impone: Fin qui, dirà. Ed ioti dico: basta. Perdona il tutto tuo.

A. RebboraTante cose al Signor Gambarotta (161)

Perdona! non ho ripassato.

VIII.

Ovada. 9 Agosto 1860Canata dilettissimo,e sempre colle consolazioni scarse e

rare un intreccio d’un mondo di dolori. Ier

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sera tornava da Genova dove ho accompa-gnato il 7 moglie e figlio per passarvi pochidì di ricreazione, e stamani mi arriva la caratua che mi trova proprio coll’anima e colcuore acconcio per divider e sentire tutto lostrazio che provava l’amico in quest’ultimigiorni e nel tempo istesso far pro del con-forto di tante riflessioni giustissime, ondeinfioravi il racconto della perdita di quel-l’angelo sì caro…

Sotto l’impressione e l’impulso delle la-grime che mi strappasti larghe e amaris-sime. non so tenermi dallo scriverti subitoqueste poche righe, anche per provarti co-m’io sia commosso profondamente dallevicende che ti colpirono, dispiacente alsommo di non poterti riuscire d’alcun refri-gerio nella mia lontananza che tanto purm’addolora. Fra un continuo martirio,anche il padre di mia moglie perse testé ilsuo primogenito che studiava il quarto annodi legge, e lo perse com’io il caro France-sco. Era il suo braccio dritto.

E prima di tutto ti dirò che il 2 correntefino alla dimane all’ora dell’arrivo postale,fu anche per me un giorno de’ più terribilich’abbia mai provato. Ti basti: alle tre po-meridiane di detto giorno cominciaval’esame primo del mio Paolino, per cuitutto il giorno io colle figlie, moglie, sorellapassammo pregando i1 Signore con grandefiducia e principalmente in quell’ore, seb-bene fra il tormento di quell’ansia mortaleche tu puoi ben indovinare, trattandosi d’unfiglio carissimo, stanco da un lavoro im-menso, timido per natura, del rigoreestremo adoperato oggidì in simili bisogneecc.. di tante mie cure e spese grandi soste-nute e temendo, pur troppo, che Dio nellasua giustizia non mi credesse degno di tantaconsolazione, ragion per cui ripeteva piùvolte: Quoniam si voluissem sacrificium(162) rassegnato e parato a tutto. Oh giorno!oh combinazione stranissima. Tu pure inquell’ore pativi dolori incredibili, solo ad-dolciti dalla speranza anzi certezza chequella ottima tua penitente dovesse frabreve trovarsi colà dove non si muore.

Se non che, alla dimane io ebbi una rigaa mo’ di dispaccio del Paolino che mi for-zava a benedire Iddio e a versare un dilu-vio di lagrime di tenerezza e diriconoscenza. Il Signore ci aveva fatta lagrazia, e dico ci perché le tue e le preghiere

del venerato P Rettore hanno certo coope-rato al fortunato evento. Eccoti le righe delPaolino: «Torino, Ore 5, 2 agosto. L’esamebenone; ho da pensare alla laurea; è tardi, ilresto a domani». E questa laurea, oggi miavverte, la prenderà l’undici corrente, po-sdomani. Epperò ti scrivo anche subito perrinnovarti le mie suppliche in tempo utile,onde tu voglia usarmi la carità col P Ret-tore d’implorarmi il complemento d’unagrazia sì segnalata. È l’unica raccomanda-zione a cui ebbi sempre ricorso, a Dio solo,dopo quella famosa che, prima ed ultima,rivolgeva a uomini nel ‘55… in Genova, eche fidandomi del P. Cereseto (163) pocomancò non tornasse fatalissima al figlio, ri-masto quindi in tale stato da disperare dellasua salute… dietro un colpo sì duro e ina-spettato.

Perdonami questo sfuggitomi richiamodi memoria: che Dio tutti perdoni, come liho io perdonati. Dunque su ciò siamo in-tesi. La preghiera d’un cuore come i1 tuo edel P. Rettore mi fa molto sperare, e ve neanticipo i miei più cordiali ringraziamenti.

Io finisco perché debbo spedire unaforte somma ad hoc, affollato come sono dimille altre cose che oggi mi disturbano.

Orbene, Carissimo, su consoliamoci en-trambi nello sfogo confidente de’ nostri do-lori .. e lasciamo tutto nelle mani di chiveglia su noi. Ogni giorno che passa è purtroppo vero, un avviso, un lume ci vienepresentato a nostra guida e sempre più ri-conosco vero e consolante tuo: Bello è ‘ildì della morte! da me musicato con tantapassione e che fra pochi giorni porterò aTorino all’editore.

Leggerò stassera il tuo programma eson sicuro di trovarlo al solito degno del tuonome e della rinomanza che gode codestosì idrofobamente invidiato collegio. Beatiqui persecutionem patiuntur (164) ecc. Co-raggio! Dio non abbandona mai nessuno.Io pure, vedi, son fatto segno ad ogni ma-niera di persecuzione propter iustitiam (165),vivendo ritirato, come sepolto..., eppure ca-lunnie ciniche nemmeno credute da mieistessi nemici, vengono con istudiata mala-fede ad amareggiarmi la vita da chi persinomi dovrebbe riconoscenza ed invece desi-dera forse che i1 sepolto in casa non basta,e vorrebbemi morto. Oh, quante infamieavrei da narrarti, non solo patite per parte

d’alcuni individui e malevoli gratis, mapersino da parenti del vostro Cereseto, peruna opera buona da me fatta, interpretata arovescio con mala fede inaudita, di cui il P.Marcenaro (166) conosce l’intera storia e lamia delicata, illibata innocenza. Tranquilloperò nella coscienza, coll’aiuto di Dio,sfido imperturbabile siffatte nequizie e nonle curo, sperando cadranno come moltealtre Prega Dio a darmi forza a sopportarecon rassegnazione. Addio. Tuo

A. Rebbora

NOTE

57. Esule dalla Lombardia, il Cairoli fuospite di GB. Torrielli, sindaco di Ovada nel pa-lazzo della Contrada dei Cappuccini (oggi viaCairoli), mai dimenticò l’ospitalità del Torielli,né il Rebbora - ignoro se conosciuto in questaoccasione - tant’è vero «che inseguendol’austriaca fuga fra il turbine delle nevi alpineruba un momento al poco dormire per scriverglilunghissima lettera» (A.N. MILANO, cit., p. 14).

58. Francesco Regli, Dizionario biograficodei più celebri poeti ed artisti melodrammatici,tragici e comici..., Torino, E. Dalmazzo, 1860, p.440.

59. A.N. MILANO, cit., p. 13.60. IBIDEM, p. 14. Codesta notizia risulta in-

tima e curiosa, ignota alle memorie della stessafiglia Clelia e alle più accurate biografie del Niz-zardo. Anche autorevoli studiosi consultati dalloscrivente non ne sanno alcunché. Il nome delRebbora non compare neppure nell’amplissimabibliografia garibaldina del Campanella.

61. Basti la menzione di Giuseppe CesareAbba, il quale lo ricorda nelle Noterelle di unodei Mille, Bologna, Zanichelli, 1880, p. 219. Cfr,la nota 7.

62. Cfr. G. BALSAMO CRIVELLI, V Gioberti egli Scolopi. in «Risorgimento italiano», XI-XII,1919.

63. Cfr. LUIGI LEONCINI, Brevi cenni intornoalla vita e agli scritti del P A. Canata, Genova,tip. Armanino, 1893, pp. 20-21.

64. Cfr. ANDREA BERTOLOTTO, Della vita edelle opere di Pietro Giuria, Savona, A. Ricci,1880, passim.

65. GIOVANNI BATTISTA GARASSINI, Cennistorici di un amico, in «Rassegna Nazionale»,Firenze, 1895; GIUSEPPE TASCA, Un educatoremodello, in «Ieri e oggi», Genova, III, 1928, pp.266 - 269; ORESTE BARDELLINI, Atanasio Ca-nata, La Spezia, tip. Moderna, 1929: Il Risorgi-mento Italiano, Milano, Vallardi, 1930, sub voce(di Francesco Poggi).

66. Sarà menzionato nelle lettere I, III e IV.67. Menzionato nella lettera III.

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68. L. LEONCINI, Brevi cenni, cit., passim.69. FRANCESCO MARSILIO, Orazione funebre

del P Atanasio Canata celebrata in Carcare... ilXXIX maggio MDCCCLXVIII, Savona, Berto-lotto, 1868, p. XIII.

70. Ricorda un suo allievo: «soltanto chiebbe la fortuna di essere scolaro del Canata puòindovinare il segreto di tanta rispondenza distima, di affetti tra discepoli e maestro. Per lui lascuola era il centro della sua vita, delle sue gioiecome dei suoi dolori. Nel mezzo dei suoi alunniera felice: tutto brio, tutto operosità. Non maistanco, il campanello che annunziava il terminedegli esercizi scolastici era sempre importuno.Questi sentimenti e modificazioni interne sa-peva così bene trasformare nelle anime dei gio-vani discepoli da rendere loro le ore della scuolale più belle e desiderabili della giornata»: L. LE-ONCINI, Brevi cenni, cit.

71. A. CANATA, L’educatore cattolico se-condo lo spirito di S. Giuseppe Calasanzio, Sa-vona, Sambolino,1848; II ediz. Firenze, tip.Calasanziana, 1887 è preceduta dalla Vita del-l’autore composta da L. LEONCINI, pp. V-XXXV.

72. Cfr. GIOVANNI OBERTI, Il P. A. Canata edil suo tempo, in «Ieri e oggi», Genova, Il. 1927,pp. 39 - 41.

73. E CANATA, Ad Antonio Rebbora cui lagloria nell’itala melopea, le gioie della costanteamicizia, le patrie e domestiche speranze fune-stava l’immaturo fine della tanto buona con-sorte Clementina Compalati, in «Rivistacontemporanea», Torino, Il, vol. III, fase. 22,giugno 1855, pp. 707-712 (L’elegia, formata diventun ottave, è datata 21 ottobre 1845).

74. L. LEONCINI, Vita ..., cit., p. XXI.75. Questa è, almeno. la campana di Anto-

nio, che ovviamente non poté mantenere indi-viso il patrimonio ereditato dai genitori.

76. Di fatto le osservazioni politiche di cuialla lettera VII ostendono che la visuale politicadegli amici non collimasse del tutto.

77. Conservate nell’Archivio Provincializiodelle Scuole Pie liguri, fascicolo “A. Canata”,Le lettere mi furono segnalate - molti anni orsono - dal carissimo P. Angelo Ausenda.

78. Gian Domenico Buffa (Ovada, 1818 -Torino, 1858) allievo delle Scuole Piedi Carcare,laureato in legge all’Università di Torino, nel1848 fondò con Terenzio Mamiani La Legad’Italia, deputato solerte ed altruista, si dimiseper protesta quando fu approvata la legge controgli ordini religiosi.

79. Paolo Brixio (Poggio di San Remo, 1802- Genova, 1874) vestì l’abito calasanziano nel1821, docente a Chiavari, Carcare e Finale, Cfr,:Religiosi Schoiarum Piarum qui provinciae Li-guri et Pedemontanae ab anno 1800 ad annum1850 ascripti fuerunt, Flonentiae, ex Off Cala-sanctiana, 1926, pp. 27-28.

80. Due o tre parole di non univoca decifra-zione,

81 Una parola poco decifrabile; il “vecchioordine” va inteso in senso politico.

82 A. Canata, San Cirillo martire, Tragediaad uso dei collegi. Savona, Miralta, 1857.

83. Pietro Giuria (Savona, 1816-76) patriotae letterato allora stimatissimo. Fu amico di Sil-vio Pellico, fra gli altri, ed in rapporto con Fede-rico Colla, Luigi Cadorna, Ercole Ricotti,Lorenzo Valerio, Angelo Brofferio ecc. Savonae Genova (era docente all’ateneo genovese) glihanno dedicato tre busti ed un monumento.

84. Evidente soprannome che fa intuirel’affiatamento dei corrispondenti, come le suc-cessive allusioni criptiche.

85. P. VERGILIUS, Aeneis, IV, 175.86. L’usciere o bidello, forse.87. Stefano Damezzano (Genova, 1815 -

Carcare,1888), vestì l’abito calasanziano nel1838, valentissimo docente di matematica, fi-sica, amantissimo dell’ordine suo: ReligiosiScholarum Piarun, cit., pp. 140-142.

88. Superiore del Collegio di Ovada era al-lora P Stefano Marcenaro (1822-87) per il qualesi cfr.: Religiosi Scholarum Piarum, cit. pp. 166-173.

89. Allude forse a qualche contestazione deicollegiali.

90. Paolino Rebbora.91 D. Girolamo Mongiardini, grande amico

del Rebbora, morto il 5 gennaio 1859: cfr. let-tere III e IV.

92 Identificabile in Andrea Galli (Ur-bino,1807-Venezia, 1878) compositore. Cfr. AL-BERTO BASSO, Dizionario enciclopedico, cit., III,1986, p. 102.

93. L’Arte, giornale letterario, artistico, tea-trale, fondato in Firenze l’anno 1851 e vissutoper otto anni, fino al 1858 (periodico assai raro).

94. L’ultima parte della parola fu strappatanell’aprire la missiva. Le integrazioni seguentisono imputabili alla medesima causa.

95. Una lunga parola d’incerta lettura.96 Giovanni Borlasca (Gavi, 1806 - Ovada,

1872) vestì l’abito calasanziano nel 1830, mae-stro elementare amatissimo per molte genera-zioni di ovadesi. Cfr. Religiosi ScholarumPiarum, cit., pp. 83-85.

97 Precisazione interessante e che spiegacome gli spartiti più adoperati siano andati per-duti per l’usura.

98. Galleria, serie Il, 25.99. Alla morte, sonetto di Vincenzo Monti;

Galleria, serie III, 35.100. Breve parola d’incerta lettura.101. Il primo lutto alluso è quello per la con-

sorte Clementina, il secondo per il figlio France-sco.

102. La Provvidenza, sonetto di Vincenzo

Filicaia: Galleria, serie III, 30.103. Veramente il n. 34 musica un sonetto

di Gian Battista Marino.104. Due parole d’incerta lettura.105. I versi richiesti saranno dello scolopio

Francesco Pizzorno (Genova, 181 5-68).106. Alessandro Manzoni (1785-1873), Ce-

sare Arici (1782-1836), Giuseppe Borghi (1790-1847), Pietro Giuria (cfr. nota 83), NiccolòTommaseo (1802-74). Gian Battista Niccolini(1782-1861).

107. Giulio Carcano (1812-82) scrittore ru-sticale assai letto, insieme con la coetanea Cate-rina Percoto e con Francesco Dall’Ongaro.

108. Galleria.serie II, 17.109. Allude all’accademia tradizionale nella

didattica dei collegi calasanziani che quell’annofu edita: Saggio che davano de’ loro studi glialunni del Collegio delle Scuole Pie in Carcarel’anno scolastico MDCCCL VIII,Torino, GB.Paravia. 1858. Il saggio di musica fu diretto dalmaestro della Banda collegiale Paolo LuigiGambarotta.

110. L’allievo Giovanni Battista Cereseto diOvada, il quale nell’Acca demia recitò il “tratte-nimento accademico” Fede e poesia (Saggio chedavano, cit., pp. 13-25). Fra gli altri interventiricordiamo i versi l’Arte italiana recitati dall’al-lievo Cristoforo Musso di Genova (ibidem, pp.31-38), il poemetto La festa del Corpo del Si-gnore in un villaggio dell’allievo Filippo Lealedi Calizzano (ibidem, pp. 39-46), Impressionireligiose, versi dello stesso (ibidem, pp. 47-51),il sonetto Ad un angioletto scolpito dal Barto-lini (ibidem p. 51).

111. Rettore delle Scuole Pie di Cancare eraallora P. Giovanni Battista Garassini. negli anni1842-48 e 1851-89. Cfr. Religiosi ScholarumPiarum. cit., pp.l00-l14; G. NUVOLONÌ, Il P. G.B.Garassini, cenni storici, Firenze, tip. Calasan-ziana, 1895. DOMENICO SARTORE. Il P Garassini,Savona, 1913; G.L. BRUZZONE, G.B. Garassini,taggiasco della diaspora. in Provincia di Impe-ria, XI, S4, ottobre 1992, pp. 31-32.

112. Cfr. Dante Alighieri, Inferno, 1,23.113. Arnaldo Fusinato (1817-88) autore di

liriche patriottiche, apprezzate anche nelleScuole Pie.

114. Certezzo: scilicet assicuro.115. Mongiardini116. Con verosimiglianza intende la prima

moglie.117. Forse E Atanasio non ebbe tempo di al-

lestire codesta vita. Va precisato inoltre che i re-pertori a stampa dei religiosi scolopi nonricordano nessun P. Daneri, giacchè non puòidentificarsi nel fratello Bernardo Daneri (1702-80); Religiosi Scholarum Piarum qui ProvinciaeLiguri et Pedemontanae ab anno 1701 ad an-nnum 1750 adscriptifuerunt, vol. II, Florentiae,

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ex officina Calasancriana, 1901, p.84.118. Filippo Ighina (Calizzano, 1821-Car-

care, 1876) vestì l’abito calasanziano nel 1838,paleontologo e naturalista. Cfr.Religiosi Schola-rum Piarum, 1926, cit., pp. 38-40; Damiano Ca-sati, P. F Ighina delle Scuole Pie, illustrescienziato, Savona, Editrice Liguria, 1969.

119. Podere del Maestro Rebbora.120. Anche questo padre, avendo lasciato

l’ordine delle Scuole Pie per ridursi a sacerdotesecolare, non è menzionato nei repertori astampa dei religiosi.

121 La raccolta delle monete romane messainsieme da P. Ighina è andata parzialmente per-duta, nei pezzi più preziosi: cfr. Diccionario en-ciclopedico escolapio. Vol. Il, Salamanca,ediciones Calasancias, 1983, pp. 293-294.

122. Due parole d’incerta lettura.123. Una parola d’incerta lettura.124. Giovanni Battista Garassini (Taggia,

1815-Cancare,1894), di cui alla nota 111, vestil’abito calasanziano nel 1833, docente, provin-ciale della Liguria, ideatore del Collegio di Cor-nigliano Ligure, oggi rimasto l’unico apertodell’intera Ligunia.

125. La serie IV non comprende testi del EGarassini, che pure compose molti versi e stavapubblicando la silloge: G.B. GARASSINI, Alcuniversi del mio salterio, Torino, Paravia, 18S9.

126. Identificabile nei versi La morte: (Gal-leria, serie IV, 12).

127. Ippolito Pindemonte (1753-1828); quiallude al poemetto di lui I cimiteri. L’argomentoera allora alla moda e ci permettiamo di segna-larne uno edito dallo scrivente: G.L. BRUZZONE,Un’elegia cimiteriale inedita di Pietro Isola(1785-1873), in «La Rassegna della letteraturaitaliana», 1991, pp. 117-129,

128. Nei rimasugli di tempo liberi dal-l’esplemento dei doveri di religioso e di docente.E Atanasio studiava e scriveva di continuo in di-versi generi letterari: dalla lirica, alla tragedia,dal l’agiografia a saggi pedagogici, a manualettiascetico-devozionali.

129. Cfr. lettera III.130. Enrico Parodi (Ovada,1829 - Mi-

lano,1882) vestì l’abito calasanziano nel 1845.maestro elementare a Finale e a Savona, poi ret-tore e preside delle scuole in Ovada: ReligiosiScolalarom Piarom, cit., p. 183.

131. Trattasi dell’appendice alla Galleriaclassica: vedasi studio propedeutico.

132. Angelo Brofferio (Castelnuovo Calcea,1802 - Locarno,1866), di cui alla nota 83, lette-rato e politico della Sinistra storica; GiuseppeGiusti (Monsummano, 1809-50).

133. Vincenzo Filicaia (1642-1707), giàmenzionato nella lettera II, abbandonò del tuttoil marinismo, volto alla ricerca del buon gusto edella misura.

134. Così nel testo, per Biagio Caranti (Sez-zadio, 1839 - Roma 1891) forse.

135. Ossia a cappella, senza accompagna-mento strumentale.

136. I1 23 aprile 1859 -ci permettiamo dirammentare- L’Austria aveva dato l’ultimatumal Piemonte, facendo precipitare la situazione;il 27 aprile erano insorte Toscana e Massa Car-rara, il 4 giugno si combatteva la battaglia diMagenta ecc.

137. Periodico pressoché introvabile e co-munque sconosciuto alle principali bibliotecheitaliane e straniere.

138. “L’Armonia. Organo della riforma mu-sicale in Italia. Giornale di scienze, lettere. arti,teatri, concerti e varietà”, periodico fondato inFirenze nel 1856 e vissuto fino al 1859.

139. “I1 Pirata. Giornale di letteratura, va-rietà e teatri”, periodico fondato a Torino nel1834 da Francesco Regli e fra i più completi deltempo, nel proprio settore. Usciva due volte lasettimana.

140. “II Diritto”, quotidiano fondato a To-rino nel 1854 da Annibale Marazio, poi traslatoa Roma, autorevole portavoce della Sinistra mo-derata.

141. “I1 Courrier franco-italien. Journalhebdomadaire non politique”, fondato a Pariginel 1856 da alcuni esuli italiani, diretto da Gia-cinto Carini e vissuto fino al 1860, anno del-l’unificazione italiana.

142. Galleria, serie Il, 25.143. Oltre alla S. Cirillo, di cui alla nota 82,

e Gionata. Tragedia per uso dei collegi, Torino,Chirio & Mina, 1847, le tragedie canatiane ve-dranno la luce molti anni dopo: Nicanore, Chia-vari, tip. Ligure, 1878; Giaccardo, missionariomartire in Cocincina, San Benigno Canavese,tip. Salesiana, 1888; Tragedie, Torino, Sale-siana. 1888 (contiene cinque tragedie in versi:Severino Boezio, Roknedino, Mosarte, Saladino,Arrigo degli Alerami); Jacopo da S. A gara.Dramma, Savona,Bertolotto, 1892.

144. 24 aprile.145. Così nel testo, per Racca, cui succes-

sero Giudici & Strada.146. La morte di Béranger di Angelo Brof-

ferio, Galleria, appendice, 5. alla stessa serie ap-partengono i pezzi menzionati poco sotto.

147. La strada ferrata passa propriamenteper Carcare, ma oggi non c’è più la stazione ofermata: essa tuttavia fu aperta soltanto nel1874. Cfr. NELLO CERISOLA, Storia di Savona,Savona, Editrice Liguria, 1982, pp. 463-479.

148. Expectans expectavi Dominum, et in-tendit mihi: Psalmus XXXIX,1.

149. Allude al celebre gesuita e letterato An-tonio Bresciani (1798-1862) coraggioso anti-conformista, più ricco di meriti di quanto ogginon gli siano riconosciuti.

150. Giacomo Margotti (San Remo, 1832 -Torino, 1887) allievo della prestigiosa Accade-mia di Superga, sacerdote, attivissimo giornali-sta polemico ed agguerrito. Il suo epitaffiorecita, fra l’altro, che Don Margotti affermò i1vero anche se scomodo e avviò molti nel cam-mino della giustizia. Si rinvia alla recente mono-grafia: MARIO MACCHI, Giacomo Margotti e i1dramma del Risorgimento italiano, edizioniRaggio di Sole, 1982.

151. Non “L’Armonia” di cui alla lettera V,bensì “L’Armonia della religione colla civiltà”,quotidiano fondato a Torino nel 1848 e porta-voce dei cattolici intransigenti. Nel 1863 la te-stata divenne Unità cattolica.

152. Luigi Cibrario (Torino, 1802 -Trebiolo,1870) politico e storico, forse un po’

troppo obliato.153. Giovanni Battista Michelini (Cuneo,

1798-1879) conte, patriota e deputato. Cfr. TE-LESFORO SARTI, II parlamento subalpina e na-zionale, Terni, Tip.. Industriale, 1890. sub voce.

154. Il conte Gabrio Casati (1798-1873) po-litico, ministro dell’istruzione del Regno sardonel biennio 1859-60, autore della legge sul-l’istruzione che porta i1 suo nome.

155. P VIRGILIUS, Bucolicon, III, 111 (versoe .. grammatica deformati).

156 2 Maggio 1860157. La famiglia Torrielli, assai nota in

Ovada, diede fra gli altri il sacerdote Agostino,il sindaco Giovanni Battista, Ferdinando che co-struì il teatro ecc. Cfr.: MAURIZIO PARENTI. Vie,strade e piazze della nostra Ovada, Ovada, Ac-cademia Urbense, 1992, ad indicem.

158. Allude all’insurrezione di Palermo ealla battaglia del 27-30 maggio precedenti.

159. Jacques Bénigne Bossuet (1627-1704),quale autore del Discours sur l’bistoire univer-selle.

160. Cfr. Exodus VIII, 19.161. Identificato con quello di cui alla nota

109.162. Psalmus L,17.163. P. Cereseto era rettore del Convitto Na-

zionale in Genova.164. S.Matheus,V 10.165. Ibidem.166 Stefano Marcenaro (Voltri, 1822- Sa-

vona,1887) vestì l’abito calasanziano nel 1841,docente e superiore nei collegi della provincialigure, grande educatore e santo religioso: Reli-giosi Schorarum Piarum, cit., pp. 166-173.

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Grillanum: locus mei cordisUrbe mea quondam raeda profectus, amici, per-

veni in pagum vitiferis nitidum collibus et silvis vi-

ridem lymphisque micantem et sursum leviter

progrediente via. Prodiit et campus, quo athletas

ludere pilam vidi iactantes alterutraque vice.

Hic ecclesiola est sanctis dicata patronis Naza-

rio et Celso, martyrio nitidis, quam procul exstan-

tem campanae conspicis alta turri floriconis

imperitante iugis.

Indigenae seduli convivia laeta parabant quae

aedis vespere erant tunc celebranda aditu. Et silice

obtectis muris domus exstat amoena iuxta eccle-

siolam, clara super ceteras, qua sculptas lapides si-

mulacra et picta quotannis praebet amans artis

optima praemia avens.

Virginis aediculam statui spectare venustam

laeto animo pedibus altius adgrediens, et natura

loci rapuit gratissima circum, convolvit pectus lim-

pida summa quies; hic rosas redolet violasque lim-

pidus aer caela dum findunt lucida garrulae aves.

Quare corde meo, dulci commotus amore, sin-

ceram sensi surgere sponte precem: “Virgo dulcis,

summo quam monte precamur, misericors nostro

praesidio venias, ne obruat hoc caelum nox nubila

nec tenebrosa: pax, ut sol nunc est, sic homini ni-

teat.”

Sole micante alto, discessi lentus ab illa pace

loci insignis, arboribus viridis, Grillanum longo

iam tempore nomen habentis, Guardia dum supe-

rum nominat indigena.

Felix pergratus memoro, semper memorabo

haec loca quae inhaerent corde meo iugiter. Angu-

lus hic penitus iam pectore inhaeret amatus: hanc

oasim pacis, perpetue o semper pacis insulam vi-

deam!

Un giorno, partito in carrozza dalla mia città, o amici,giunsi in un borgo ricco di colline ricoperte di viti, verdedi boschi e palpitante di fonti, mentre la strada procedevadolcemente verso l’alto.

Comparve un campo nel quale vidi degli atleti che gio-cavano a palla mentre la lanciavano a turno, reciproca-mente.

In questo luogo una chiesetta era stata dedicata ai pa-troni Nazario e Celso, gloriosi per il martirio, e, da un’altatorre dominante cime ricoperte di fiori, la vedevi ergersiin lontananza verso la campana.

Laboriosi abitanti preparavano allegri convivi che al-lora si dovevano festeggiare di sera, sul sagrato dellachiesa.

E, vicino alla chiesetta, c’era un’incantevole dimoradalle pareti ricoperte di pietra, che si distingueva dallealtre, nella quale, ogni anno, esponeva sculture di marmo,statue e dipinti un amante dell’arte che ambiva a splendidipremi.

Mentre a piedi salivo più in alto (lungo la collina), mifermai a contemplare la graziosa chiesetta della Verginecon animo lieto e la natura gradevolissima del luogo mitrascinò a zonzo, una quiete pura e perfetta (mi) avvolse ilcuore, là l’aria limpida profumava le rose e le viole, men-tre uccelli canterini fendevano il cielo limpido.

Per questo, dal mio cuore, mosso da una dolce tene-rezza, sentii sgorgare spontaneamente una preghiera: “Ver-gine dolce, che preghiamo dall’alto monte, vienicompassionevole in nostro aiuto, la notte oscura e le tene-bre non inondino questo cielo: la pace, come il sole chec’è adesso, così risplenda sull’uomo!”

Mentre il sole brillava alto, discesi lentamente dallapace di quel luogo straordinario, dalle piante verdeggianti,che da tanto tempo ormai porta il nome di Grillano, men-tre la popolazione chiama Guardia quello posto più in alto.

Felice, riconoscente mi ricordo e sempre mi ricorderòdi questi luoghi che si sono impressi immediatamente nelmio cuore. Questo angolo remoto ormai si è scolpito pro-fondamente nell’animo: possa eternamente e per semprecontemplare questa oasi di pace, quest’isola di pace.

Grillano luogo del mio cuoredi Agostino Sciutto †

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Gli affreschi della Parrocchiale di Ovada,note iconologichedi Aurora Petrucci Tabbò

Nelle sere dei venerdì del luglio 2011,in occasione della manifestazione“Chiese aperte”, chi si fosse trovato inPiazza Assunta avrebbe potuto entrarenella nostra parrocchiale.

La sapiente illuminazione offriva lapiacevole visione degli affreschi dellevolte e del presbiterio che richiamavanol’interesse tutto per loro e nella penom -bra si poteva passeggiare a naso in su perfarsi guidare dalla curiosità.

L’atmosfera ovattata che si poteva go-dere, mentre fuori era il trambusto dellafesta, aggiungeva sicuramente un sottilepiacere allo spirito, che aumen tava lasensazione di pace e conforto.

L’occasione mi aveva aiutato a diven-tare pellegrina in un luogo di culto, maanche pellegrina del tempo e a percepirela meraviglia e la soddisfa zione di esserein una casa del Signore grandiosa edegna.

Gli affreschi sono di Pietro Ivaldi che,con l’aiuto del fratello Tomaso, li eseguìnegli anni 1866 -681.

I pittori si impegnarono a finirel’opera senza interruzioni entro due anni2

, offrendoci un lavoro, ordinato in modoorganico, di cui è possibile seguire conchiarezza il significato religioso.

Spesso si parla del valore pittorico,dello stile, delle influenze delle opere ar-tistiche, ma non dell’impatto spiritualeche avevano e hanno su chi si disponga aleggerle.

Nel caso della nostra parrocchiale èinteressante il fatto che la decorazione èstata chiesta dal popolo, proposta dal pit-tore, approvata dalla Fabbriceria3 equindi è viva espressione di “una comu-nità di credenti ”4 e questa omoge neitàdecorativa si coglie immedia tamente.

Dal momento che il modo di operaredi Pietro Ivaldi era quello di usare “sa-pientemente pochi cartoni per molti per-sonaggi; cartoni che con qualche variantepotevano assumere sembianze diverse” o“essere voltati sul lato destro o sinistro”5, molte scene, utilizzate nelle chiese dalui affrescate, così come molte figure, sitrovano ripetute anche qui; il pittore, cer-

tamente, avrà proposto il suo repertorio,ma ricordiamo che fu preoccupazionedel Consiglio della Fabbriceria appro-vare in corso d’opera la esecuzione. Anzinel leggerne i verbali si capisce quantalungimiranza e quanta intelligenza usas-sero nell’amministrare le “cose” dellachiesa, tanto che è possibile individuareun filo logico denso di significati devo-zionali che racchiude tutta l’opera a fre-sco e l’organizzazione degli spazi.

Non bisogna dimenticare, poi, che lapartecipazione del popolo alla decora-zione della chiesa fu vissuta in un mo-mento singolare della vita di Ovada,perché in quegli anni Paolo della Crocediventava Beato e poi Santo e gli Ovadesisi sentirono coinvolti spiritualmente epraticamente, con preghiere e proces-sioni, ma anche feste.

Nel 1853 infatti Paolo della Croce èiscritto da Papa Pio IX al catalogo deiBeati e si fa strada la decisione di dedi-cargli un altare della parrocchiale. Nel1858 l’altare è pronto e nel 1865 si affidala decorazione della cappella ai fratelliIvaldi.

Nel frattempo l’iter di canonizza zioneprocede con rapidità e il 29 giugno del1867 Paolo della Croce è proclamatosanto, proprio nel pieno dei lavori di de-corazione dell’intera chiesa, tanto che la

celebrazione della Canoniz zazione av-verrà a conclusione dei lavori stessi, nel-l’agosto 18686 .

Un fervore, dunque, di cui si deve es-sere consapevoli durante la visita allachiesa.

La chiesa è intitolata alla Assun zionedi Maria e a San Gaudenzio come laparrocchiale precedente, quella entro lemura (ora Loggia di San Sebastiano), equindi si imponevano storie di vita ma-riana.

Appena entrati, ci colpisce la voltadella navata centrale con i quattro episodidella vita di Maria: Visitazione, Adora-zione dei Magi, Presentazione al Tempio,Ritrovamento di Gesù fra i dottori e poi,nella zona absidale, l’ Assunzione alcielo.

Si nota subito che manca l’Annun -ciazione, ma l’episodio era oggetto diculto nell’Oratorio appunto della An -nunziata, nella vicina via San Paolo, lacui decorazione a fresco risale a metà Ot-tocento7 .

Per questo, credo che, nella necessitàdi una ripartizione degli spazi della volta,si sia rinunciato proprio a quell’episodio:infatti il fedele locale e anche chi fossegiunto in città per il mercato, aveval’opportunità comunque di contemplaretale Mistero.

Sì, perchè Annunciazione, Visita zione,Nascita di Gesù, Presentazione al Tem-pio e Ritrovamento di Gesù nel Tempiosono i 5 Misteri Gaudiosi del Rosario, inquesta maniera presentati come un itine-rario di fede sui quali poter meditare.

Erano le scene che illustravano inmodo vivo e duraturo gli episodi salientidella Fede ed erano le prediche che nechiarivano i concetti, spesso aiutati dalleimmagini, che chissà quante volte sarannostate additate dal predicatore capace.

Le scene, infatti, raccontano con chia-rezza la vita della Vergine e di Gesù sinoalla sua adolescenza e sono sostenute daicammei con i profeti che si trovanolungo la navata centrale, fra gli ornati chedecorano le pareti, in corrispondenzadelle colonne.

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Il Nuovo Testamento trova le sue ra-dici nel Vecchio e così partendo dall’in-gresso e guardando verso la navata disinistra si susseguono Abdias, Amos, Ioel,Geremia, mentre guardando verso la na-vata di destra si vedono Iosea, Ezechiel,Daniel, Isaia.

Sono i 4 profeti maggiori, Isaia, Gere-mia, Ezechiele, Daniele, con altri minori,i quali tutti hanno profetizzato l’arrivodel Messia.

Proseguendo sino al transetto, losguardo sale verso il presbiterio e apparela scena della Assunzione della Vergineben distribuita fra la parete dell’abside,dove gli apostoli, in cerchio attorno allatomba vuota, hanno gesti di meraviglia,alzano lo sguardo e ci invitano a fare al-trettanto; il catino absidale, in cui incon-triamo la Madonna che sale verso l’alto,e la cupola del presbiterio, sopra l’altarmaggiore, in cui Dio Padre, Cristo e iSanti ne aspettano l’arrivo pronti ad in-coronarla sotto la raggiera della SpiritoSanto, che si staglia al centro della scena.

Sequenza cinematografica, pensataanche perché dal sagrato, chi guarda at-traverso il portale centrale abbia la totalevisione della Assunta e sia invitato ad en-trare.

Al centro del presbiterio si ergel’altare maggiore con il Santissimo sor-montato dalla Croce che svetta alta soprail ciborio e indica il centro figurativo del-l’affresco sovrastante, quello della Inco-ronazione della Ver gine, dove lo SpiritoSanto, sotto forma di colomba, irradia laluce divina ed effonde i suoi doni sopral’officiante.

Questa corrispondenza di immagini ècome una sacra conversazione cui assisteil fedele.

La croce e l’altare si stagliano davantialla tomba vuota a indicare come solograzie alla morte di Cristo sia stata possi-bile la Resurrezione e la Assunzione dellaMadonna.

Quella tomba vuota è conferma di ciòche avverrà anche a noi e le rose piovutedal cielo emanano il profumo di una pro-

messa che si concretizza già per la Madredi Gesù.

Lo Spirito Santo con i suoi raggi illu-mina per noi, ci chiarisce, la presenza di-vina nelle tre persone della Trinità,festante per la presenza della Vergine in-coronata Regina degli Angeli e dei Santi8

.La decorazione concretizza in imma-

gine non solo l’episodio della Assunzioneche è titolo della par rocchiale, ma anchequella finestra del cielo che si apre adogni Messa e, mediante il sacrificio in-cruento del Cristo durante l’Offertorio, cifa partecipi, ancora imperfetti, della gioiae della perfezione del Paradiso e ci ri-corda che anche noi siamo destinati allaresurrezione.

Un tale cammino di ascensione e dimeraviglia ci guida adesso verso le deco-razioni delle volte dei transetti, vale a direle cappelle che precedono il presbiterio.

A sinistra c’è San Michele, che com-batte e vince il male con un drap pello diangeli.

L’arcangelo è citato sia nel Vecchioche nel Nuovo Testamento. E’ il principedegli angeli che nel “mezzo della indeci-sione degli Angeli durante la prova, ri-suonò...”9 con il grido “Chi è come Dio?”(nell’affresco c’è infatti la scritta in la-tino: “Quis, ut Deus?”) e si gettò controLucifero” con pieno riconoscimento dellasovranità di Dio...e ... alla fine dei tempi,per ordine di Maria, sua Regina, ancoralo (Lucifero) collocherà agli antipodi diDio. Michele rimarrà sulla terra dall’ini-zio alla fine del combattimen to”10 controil male.

Nel transetto di destra incontriamo ilCristo redentore, vincitore della morte.Affresco ahimè rovinato dall’umidità,che ha al centro la figura del Cristo vin-cente, che si staglia contro il cielo attra-verso lo squarcio di una caverna. Allebasi della volta le anime del Limbo, atto-nite, avanzano con titubanza. Un popolodi pastori, di gente semplice, senza queicostumi all’orientale con i quali di solitosi rappresentavano gli Ebrei, quindi

anime e persone nelle quali immedesi-marsi e attraverso le quali sperare nellaResurrezione.

Cristo, dopo la morte in croce, vincela morte, discende nel Limbo per liberarele anime dei giusti che hanno creduto nelCristo venturo e sale con loro in Paradiso.

La meditazione è quindi sul nostrotempo terreno, angustiato dalla presenzadel male e della morte.

Ecco allora la speranza, anzi la cer-tezza cui affidarsi: la difesa ad oltranzadi San Michele e l’abbraccio di Cristo.

Le scene sono distribuite sulle voltein modo tale che, dalla navata centrale, sivedano da una parte gli angeli e dall’al-tra le anime del Limbo, in una sorta disimmetria, mentre le due figure principalisi pongono al centro con gesti che si ri-specchiano.

C’è ancora da aggiungere qualcosa suSan Michele, per capire meglio il filo cheunisce la decorazione di questa zona.

San Michele “combatte lo spirito disuperbia e di ambizione, che fu il peccatooriginale sia per gli Angeli, sia per gli uo-mini. E superbia e ambizione si vinconocon umiltà”11.

Ora “l’umiltà porta l’amore ... senzal’umiltà, l’Io occupa tutto lo spazio di-sponibile, e non vede l’altro se non comeoggetto e come nemico”12. Si dirà chequesta è una definizione troppo moderna,ma anche San Paolo della Croce diceva“L’umiltà è il fondamento della stessafede” 13 e consigliava “ami sempre più lavirtù fondamentale, cioè l’umiltà di cuo -re”14: allora ecco l’ arcangelo che aderiscecon umiltà a Dio, rappresentato qui nonsolo per la grande devozione di cui, daglialbori del cristianesimo, è stato oggetto,ma anche per ricordare che, senza unaadesione per amore a Dio, non è possi-bile far strada nella via della perfezione.Via che ha bisogno e che chiede aiuto allevirtù. Ed infatti, a chiusura della decora-zione dei transetti, accanto alle finestre,difficili da distinguere ad occhio nudo pergli effetti della luce, ecco quattro figuredi donna, le quattro virtù cardinali: Tem-peranza (che travasa acqua da una

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Alla pag. precedente, navata centraledella Parrocchiale dell’Assunta e S. Gaudenzio

Nella pag. a lato, schema del tempio con l’indicazione della disposizione degli affreschi

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brocca all’altra e l’acqua spegne lepassioni), Prudenza (con lo specchioper vedere come si è realmente e ilserpente che agisce con prudenza),Giustizia (con la bilancia della impar-zialità), Fortezza (con accanto il leonesimbolo di coraggio)15.

Nei transetti e nell’abside abbiamodunque scoperto un percorso educativoalla virtù e alla speranza assieme aitemi dei Misteri Gloriosi del Rosario:La Resurrezione di Cristo e La suaAscesa in cielo e La Assunzione e In-coro nazione della Vergine. Manca Ladiscesa della Spirito Santo, episodiofondante della Chiesa, ma che, di-scorso già accennato, è raffiguratonella volta dell’Oratorio dell’Annun-ziata.

La possibilità di individuare nellechiese ovadesi la raffigurazione deiMisteri conferma la particolare devo-zione della città alla preghiera mariana.

A questo proposito è importante ri-cordare il forte legame che Ovada haavuto con l’ordine dei Domenicani,tanto che lo Stemma della città com-prende la Stella a otto punte di San Do-menico e San Giacinto, anche luidomenicano, ne è il patrono16.

Ricordiamo, infatti, che tale ordineha contribuito in modo notevole siaalla definizione dei Misteri del SantoRosario, sia alla diffusione di questafondamentale preghiera alla Vergine 17.Non a caso, proprio nella nostra chiesadetta di San Domenico (officiata oggidai Padri Scolopi), c’è l’altare dedicatoalla Madonna del Rosario con tutti equindici i Misteri raffigurati a raggieraattorno alla statua della Vergine.

E i Misteri dolorosi? Se consideriamo l’insieme degli

edifici religiosi di Ovada li possiamotrovare negli oratori di San Giovanni edella Annunziata, raffigurati in alcunetele di maggiore o minore importanzaartistica, che raccontano il Calvario ela morte di Cristo.

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Tutti e 15 i Misteri poi, come giàdetto, sono raffigurati attorno alla statuadella Madonna del Rosario nell’altare la-terale della Chiesa di San Domenico e isimboli della Passione di Cristo sononella scena con la Gloria di San Paolodella Croce, mistico della Passione, nelvoltino della cappella a lui dedicata.

Senza dimenticare che, per seguire leimmagini degli affreschi, noi stessi ab-biamo percorso una croce e ora ci tro-viamo più o meno al centro del transettosotto la cupola.

Il Muto amava la comunicazionesemplice e diretta ed era apprezzato daiparroci “ per l’estrema piacevolezza delrisultato finale”18 . La sua pittura quindisi accordava alla scelta dei religiosi, chesembra non abbiano voluto calcare nellarappresentazione del dolore e abbianopreferito immagini ras serenanti, edifi-canti, secondo quella indicazione di SanPaolo della Croce, generalmente consi-derato un santo duro e severo, che ricordache “Alle anime bisogna far animo e co-raggio e farle camminare con confidenzain Dio, altrimenti non fanno mai cam-mino nella via della perfezione”19 .

Ma proseguiamo la nostra visita.Alle pareti affianco all’altare, tro -

viamo due belle scene con Gesù fra i fan-ciulli e Gesù con Marta e Maria, lesorelle di Lazzaro: scene di conforto, diincontro fraterno.

Dà coraggio un Dio, che si fa avvici-nare dai bambini e dice siate come loro,innocenti e capaci di totale affidamentoo, se vogliamo, che ricorda ai suoi pastoriche i fedeli devono essere guidati e con-fortati come i fanciulli.

Dà confidenza un Dio, che invita acoltivare l’amicizia e gli affetti fami-gliari, che trova conforto nel far visita al-l’amico Lazzaro e alla sua famiglia, mache, nella conversazione con Marta eMaria, sprona alla scelta spirituale. Ri-cordate? Qui Cristo sta dicendo”Marta,Mar ta, ti affanni e ti agiti per troppecose... Maria ha scelto la parte miglioreche non le sarà tolta” 20. Cristo parla a

tutti noi, ma anche all’officiante, se con-sideriamo le parole di San Paolo dellaCroce “i sacerdoti non devono andare inParadiso da soli”21.

Alzando lo sguardo, accanto alle fine-stre i tre patroni di Ovada e San Gauden-zio seduti in atti di meditazione,ac compagnano le preghiere dei presbi-teri. Li incontreremo ancora a lato deglialtari del transetto e nella cappella dei pa-troni22.

La decorazione delle navate lateralicurata dai fratelli Ivaldi è sicuramentequella relativa alle volte, che racchiu-dono gli altari e lo spazio antistante, con-siderato come una cappella. AlcuneSocietà delle arti e dei mestieri curavanogli altari loro affidati e “dedicati ai Santiprotettori delle Società stesse”23.

Bisogna ricordare, a proposito delladedicazione di tali altari laterali, che al-cuni sono stati affidati senza problemialle società, mentre altri hanno subito deicambiamenti nel tempo per varie ra-gioni24.

Allo stato attuale è in qualche modopossibile individuare una sorta dischema, se si considerano gli altari sim-metricamente , cioè appaiando una cap-pella di destra con la sua corrispondentedi sinistra.

Ritorniamo allora all’ingresso dellanavata di sinistra. Qui incontriamo laCappella dedicata alla Madonna di Lour-des che ha nella lunetta e nella volta im-magini della Apparizione e del Santuario.

E’ la cappella più recente, infatti risaleal 190025. Prima, facendo riferimento alverbale del Consiglio dei Fabbriceri del1834, era dedicata a Santa Lucia e affi-data alla Società dei Fabbri 26.

Nel voltino si dice si potesse vedereGesù che scaccia i mercanti dal Tempio,opera del Muto, ora coperta.

Nella navata di destra, invece, la cap-pella, ora dedicata alla Divina Misericor-dia, un tempo era il battistero27 , e ha nelvoltino una bella scena con San Gio-vanni che annuncia Gesù come Agnellodi Dio28. L’agnello in primo piano ri-

manda alla scritta “Ecce agnus Dei” eprefigura la Passione di Cristo, argo-mento della volta successiva, quella de-dicata a San Paolo della Croce.

Il fedele poteva visitare l’oratorio diSan Giovanni, accanto alla Loggia di SanSebastiano, e ammirare sia le due casseprocessionali con il Battesimo di Cristo(di Luigi Fasce) e la Decollazione delSanto (di Anton Maria Maragliano), siala volta con la Gloria di San GiovanniBattista29 e quindi in parrocchia si sce-glie un altro episodio: quello della pre-dica di San Giovanni in cui il santo,vestito con la tradizionale pelle diagnello, coperta da un mantello, parla aipresenti con una gestualità che ricorda ilSan Giovannino di Leonardo.

Le cappelle successive sono dedicateai Santi Protettori di Ovada30.

Quella di sinistra ai protettori antichi:San Sebastiano, San Rocco e San Gia-cinto, quella di destra a San Paolo dellaCroce, il santo autoctono canonizzato nel1867 31, che diventerà Confessore Com-patrono della città nel 187032 .

Questa fu la prima cappella decoratadai fratelli Ivaldi e l’entusiasmo che su-scitò negli Ovadesi è stato una delle ra-gioni per cui si decise di affidare proprioa questi pittori la totale decorazione dellachiesa33 .

Nel voltino osserviamo la Gloria diSan Paolo della Croce, attorniato da an-geli che mostrano i segni della Passionedi Cristo. Il medaglione è sorretto da treprofeti e il re David, che hanno dei carti-gli con versetti della Bibbia conl’annuncio del sacrificio del Messia.

In basso a sinistra Geremia dice: “Egoquasi agnus mansuetus qui portatur advictimam” 34;

in alto a sinistra Zaccaria chiede:“Quid sunt plagae istae in medio ma-nuum tuarum?”35 ;

in alto a destra Davide dice: “Operuitconfusio facet meam”36 ;

in basso a destra Isaia dice: “Non estei species neque decor”37 .

L’altra navatella, con l’altare intito-lato ai santi protettori antichi, ha per de-

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Nella pag. a lato, Madonna della Misericordia, soffitto dell’altare dei ss. Crispino e Crispiniano

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corazione nella volta Gesù che annunciala distruzione del Tempio e di Gerusa-lemme, immagine sostenuta dai quattrodottori dalla Chiesa: Sant’Ago stino, SanGerolamo, Sant’Ambrogio e San Grego-rio, a sottolineare l’im portanza del tema,scena che si ac cordava con la Cacciatadei mercanti dal Tempio sostituita con laveduta di Lourdes nella cappella prece-dente, ma che è comunque un argomentoim pegnativo e insolito.

Lo si definisce escatologico, perchériferito alle ultime cose, come la fine diGerusalemme e la fine del mondo38 . Percapire la scelta potrebbe essere utile sen-tire cosa dicesse a proposito il predica-tore di metà 800:

“O Gerusalemme ascolta quello chepiangendo Gesù ti dice...Oh se tu volessiconoscere...il tuo vero bene, e ciò che puòsolo recarti in seno sicura pace, oh chepena, che mali, che orrenda sciagura sa-resti pur anche in tempo di allontanare, edistornar dal tuo capo! Ma tu chiudi gliocchi colpevoli di non vedere. Ah benvegg’io non lontani i funesti dì che i tuoinemici ti circonderanno e stringeran tuttadi duro assedio, ti ridurran da ogni partead estreme angustie, gitteranno a terra tecolle rovine, e i figli tuoi colle stragi, enon lasceranno in te pietra su pietra. Etutto ciò, perché tu, città sciagurata, nonavrai voluto riconoscere, e usare in tuopro il tempo grazioso in che il tuo Si-gnore, viene a visitarti e a offrirti scampoe salvezza.”39

Se consideriamo che i Santi Seba-stiano e Rocco erano invocati a protettoricontro la peste 40 e San Giacinto avevasalvato addirittura l’ostensorio e la statuadella Vergine dai Tartari 41, Ovada, colpitadalle epidemie di peste e colera, da eser-citi nemici, che l’avevano invasa sino anon tanti anni prima, poteva ricordare inquell’episodio di un Cristo ammonitore,la caducità della vita.

Ancora un passo avanti e troviamo glialtari dedicati ai Santi protettori delle So-cietà artigiane della città.

A metà 800 Ovada era un borgo agri-colo e commerciale che produceva grano,

meliga, castagne, uva, gelso perl’allevamento dei bachi da seta e avevafilande, falegnamerie, botteghe di fabbriferrai, sarti, calzolai, locande, osterie emercati settimanali e fiere annuali 42: lo-gica la devozione ai santi protettori delleproprie attività.

San Crispino e Crispiano sono onoratinella cappella che era affidata alla Pia So-cietà dei calzolai, Sant’Omobono inquella della Società dei sarti e i nego-zianti, contesa con i fabbriferrai 43, men-tre i filatorieri avevano la cappella poidedicata a San Paolo della Croce 44.

La decorazione della volta sopral’altare dei calzolai rappresenta la Ma-donna della Misericordia a richiamare ilquadro votivo dove essa 45 è assieme aisanti Crispino e Crispiano.

Questo particolare culto della Verginearriva da Savona, dove si veneral’apparizione avvenuta nel 1536 ad uncontadino, Antonio Botta, cui lascia unmessaggio chiarissimo: “ Misericordia,non giustizia”. Una tale richiesta si inse-risce nella storia di quella città. Nel 1528infatti Genova aveva aggredito Savona ene aveva interrato il porto. Da un episo-dio così grave per l’economia della zonaavrebbe potuto scaturire la vendetta. Inseguito alla apparizione invece si ritrovòla pace e anche la forza per una rinascita.Potere e popolo ebbero così come obbiet-tivo la costruzione di un santuario che di-venne presidio della città 46.

Significativo, a questo proposito, cheparecchie edicole votive che si trovano inOvada siano dedicate proprio alla Ma-

donna della Misericordia47 . Il culto do-veva essere particolarmente sentito, tantoche fu recepito dalla Diocesi acquese che,in una Appendice delle Messe inserite inun Messale del 1702, dedica il 18 Marzofesta e messa alla Madonna della Miseri-cordia48 .

Una richiesta di buona volontà, dipace, di concordia civile, per chi in que-ste zone di confine subiva la storia e chesi accorda con il bel medaglione conGesù che parla alla Samaritana che sitrova di rimpetto, nell’altra volta.

Ricordiamo l’episodio49: Gesù siferma al pozzo di Giacobbe e chiedeacqua ad una Samaritana. Assurdo allorache un Giudeo si rivolgesse a un Samari-tano considerato scismatico, che unRabbi come Cristo a una donna. Ma ciòche è importante è il dialogo fra loro esuccessivamente con alcuni degli apo-stoli e l’annuncio di una nuova chiesaspirituale. Dice infatti Gesù: “Ma vienel’ora, anzi è venuta, in cui i veri adoratoriadoreranno il Padre in spirito e verità”.

“Ma che adunque ci vuol dir GesùCristo dicendo che bisogna adorar Dio inispirito e verità?” si chiedeva il nostropredicatore del 1850.”Iddio non gradisce,né accetta quell’onor che dalle labbra gliviene, mentre da lui il nostro cuore è lon-tano ... No, se la nostra giustizia e santitànon sarà migliore della giustizia e santitàtutta apparente ed esterna degl’ipocriti,scribi e farisei, no non ci sarà dato di en-trar nel regno de’ Cieli ... ”50.

Ecco, in questa fervente richiesta diun “buon comportamento” sta forse la ra-

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gione di un tale episodio come decora-zione della cappella dedicata a San-t’Omobono, santo che ha messo inpratica la carità predicata da Cristo intutta la sua vita.

Egli era un commerciante di Cremonache aveva assistito, raccolto, aiutato po-veri e bambini e portato pace fra i liti-giosi, tanto da essere gratificato dal papaInnocenzo III dell’appellativo di “Vir pa-cificus”51 .

La serie successiva di cappelle ri-guarda, da un lato San Isidorol’Agricolore e la Società degli agricoltori,dall’altra San Giuseppe e la Pia Societàdegli Agonizzanti.

Un Santo contadino e un Santo fale-gname: le occupazioni della campa gna.

Gli agricoltori non potevano mancaredata l’importanza del lavoro dei campi inquesta zona e il loro Santo è un santo spa-gnolo, famoso per l’aiuto che ha sempredistribuito, in vita e in santità, a chi lavo-rava nei campi52.

Forse è per questo che nella lunettasopra l’altare hanno voluto un pae saggiocon l’arcobaleno che simboli camente èsegno della pace fra Dio e gli uominidopo il Diluvio, ma che, per i fedeli di al-lora, ricordava che finita la buona pioggiaritorna il sereno, quindi tutto ciò di cuiabbisognano i campi per fruttificare.Nella volta, poi, attorniata da angeli concesti di frutta ancora allusivi, c’è unascena che è stata variamente interpretata,ma che, a mio avviso, si riferisce al-l’Aiuto del santo nel pagamento di quelledecime o corvè o tasse che sempre hannopreoccupato la vita del contadino di so-lito fittavolo.53

La cappella di fronte è dedicata a SanGiuseppe ed era affidata alla Pia Societàdegli Agonizzanti.

La tela sull’altare rappresental’agonia di san Giuseppe assistito daGesù e dalla Vergine. Nessuno fra gli uo-mini è morto con migliore assistenza spi-rituale, nessun Santo, meglio di lui,poteva aiutare ed essere di conforto inquel momento che non possiamo allonta-nare.

Considerando che l’iconografia delSanto è limitata all’infanzia di Gesù e allaVergine Maria54 e quindi era già stata uti-lizzata nella decorazione della navatacentrale, la scelta per la decorazione delvoltino è caduta su Lo sposalizio dellaVergine. La scena permetteva di richia-mare il miracolo del giglio fiorito, con unriferimento al famoso quadro di Raffa-ello, e sicuramente si adattava allo stilerasserenante del Muto.

Qui la meditazione è sulla famiglia.Ricordare, sull’esempio della Sacra fami-glia e del loro stare insieme, che le gioiee i dolori della vita si affrontano megliouniti nei legami familiari e chiedendoLoro aiuto e gaudio.

La scena è sostenuta da quattro figureche si possono con una certa tranquillitàindividuare come gli evangelisti, anchese sono rappresentati senza i loro segnidistintivi.

E’ una deduzione che si basa, sia sullaosservazione delle figure, sia sulla consi-derazione che le storie della Sacra Fami-glia sono raccontate nei Vangeli, siaperché sono spesso abbinati ai quattro Pro-feti e ai quattro Dottori della Chiesa nelledecorazioni di lunette e pennacchi55 .

Siamo di nuovo giunti al transetto,dove abbiamo due altari che fece allestirela famiglia Spinola56, di cui uno, dedicatoa Santa Teresa, ha lo stemma della fami-glia, e l’altro di fronte, oggi con il fontebattesimale, ha la statua della Assunta,che nella vecchia parrocchiale era sull’al-tar maggiore 57.

Incorniciano questi due altari legrandi figure, quasi telamoni, dei SantiProtettori, sostegno della chiesa ovadese:

a sinistra San Rocco con il cointestatariodella parrocchia, San Gaudenzio e a de-stra San Sebastiano e San Giacinto.

I quattro evangelisti Matteo, Marco,Luca e Giovanni, pilastri della Chiesauniversale, sono invece nei pennacchi diraccordo che sostengono la cupola.

Rivolgendoci verso l’uscita ripercor-rendo la navata centrale e alzando losguardo verso l’alto sulla controfacciata,ecco, accanto all’organo, David chesuona l’arpa 58 , Santa Cecilia che suonaun organo59 nell’arco Angeli che cantanoe suonano strumenti a fiato, a ricordarcicome la musica sia mezzo efficace di pre-ghiera. Questi angeli non sono solo deco-rativi, formano un coro, perchè è “l’interacomunità che canta” con loro. Infatti “ciòche conta non è il cantare, ma la canzone,quella risposta che trascendel’individuo...”.

Non a caso “La regola di San Bene-detto...ricorda ai monaci che ogni voltache cantano, lo fanno in presenza dei coridegli angeli”. Ecco allora l’importanzadel canto che dall’Antico Testamento, aigrandi Santi, alla Messa, amplifica la no-stra preghiera: “... il canto ci chiama fuoridal tempo cronologico,...verso un eterno“ora” che non è tempo” 60 .

Un vecchio parroco genovese quandoci chiedeva di cantare durante la Messadiceva sempre “ e ricordate che chi canta,prega tre volte!”

Sopra i portali laterali, i veri sosteni-tori materiali di tutta l’impresa, effigiati abusto marmoreo: i parroci Gio. GuidoPerrando e Francesco Compalati61 .

Se si rivedono le date di edificazionee di decorazione di questo monumento

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A lato, scena con l’apostolo Matteo

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dobbiamo inchinarci al coraggio, allaperseveranza di chi lo ha voluto e di tuttiquelli che, anche con pochi importantispiccioli, hanno partecipato.

Spesso capita di leggere qualche datastorica e di ragionare in termini di anticoo recente e di conseguenza di interessanteo meno, perché in questa nostra Italia ab-biamo testimonianze artistiche così insi-gni e così antiche che cose dell’Ot to- cento ci sembrano da poco.

In questo caso sarà bene fare atten-zione a cosa significa quest’opera, so-prattutto pensando alla volontà e allapartecipazione popolare.

Quando entrate in chiesa dalla portalaterale di sinistra, sulla balaustra dellacappella dedicata alla Madonna di Lour-des, trovate una legenda con le indica-zioni salienti sulla Chiesa: date e misure.Indicazioni essenziali e stringate, masulla quali è bene riflettere.

La chiesa è stata edificata a partire dal1771 e nel 1797 è stata aperta al culto.

Ovada allora apparteneva alla Re -pubblica genovese, ma proprio nel 1797vien dato alle fiamme pubblicamente ilLibro d’oro del patriziato ed è pro clamatala Repubblica Democratica Ligure 62.

Quelli, ricordiamolo, sono gli anni deiLumi che sfociano nella Rivo luzionefrancese e nella età di Napo leone!

L’altar maggiore è consacrato il 26 lu-glio 1801, cioè pochi giorni dopo il Con-cordato fra Napoleone e Pio VII63.

L’epoca napoleonica ha significato in-vasioni, passaggi di eserciti, spolia zioni,prigionia del papa, chiesa gallicana con-tro chiesa romana, abolizione degli ordinireligiosi e ancora guerre e richieste one-rose, anche di uomini. Un piccolo, ma si-

gnificativo esempio è ricordare come apartire dal 1806 in tutte le chiese del-l’Impero e quindi anche qui a Ovada, lafesta del 15 agosto, quella della Assunta,fosse affiancata da un San Napoleone, ineffetti mai esistito, perché quella era ladata di nascita dell’imperatore64.

Non a caso le cappelle e gli altari sonostati eretti a partire dagli anni 1814 -1818con la caduta di Bonaparte e la Restaura-zione.

Se sotto la furia napoleonica sia il Pie-monte, sia Genova sono annesse allaFrancia, con il Congresso di Vienna,Ovada, come Genova e i suoi domini,passano ai Savoia. La storia continua, mai legami non sono più quelli di un tempoe si guarda in altre direzioni.

Comunque, ricordiamolo ancora, glianni in cui si lavora agli affreschi sonoquelli che intercorrono fra la proclama-zione del Regno d’Italia e la presa diRoma, con tutto quello che hanno com-portato per i singoli, eppure le famiglieovadesi partecipano con entusiasmo allevicende della loro chiesa e ne sostengonole spese nonostante le difficoltà deitempi, aiutati certo dal fervore suscitatodalle vicende relative alla santificazionedi Paolo della Croce, come già accen-nato.

Sembra quasi che il grande Santoovadese abbia scelto di diventare pa-trono, quando la sua terra e l’Italia ini-ziavano la nuova storia con Romacapitale per dare a questa terra ancorasperanza.

Da quella sera estiva queste e altreconsiderazioni mi accompagnano quandoentro nella nostra parrocchiale, un po’come quando si entra in una cattedrale

antica: la presenza divina si accompagnaalla palese testimonianza del lavoro del-l’uomo.

In questo caso poi si mescolano il ri-cordo di uomini i cui nomi sono spessoconservati nei documenti dell’archivioparrocchiale: dai maggiorenti che hannodeciso, sino ai muratori che hanno tra-sportato calcina e mattoni; conl’ammirazione per la scelta di una deco-razione così puntuale, articolata, resa par-lante dallo stile del Muto che proprio acausa del suo handicap sapeva raccontarein modo espressivo e chiaro. 65

Poca favilla gran fiamma se con -da.(Par. I-34)

Note1. R. ALLOISIO, Gli affreschi della Chiesa

Parrocchiale di Ovada, inAA.VV. “La Parrocchiale d’ Ovada” , 2. Ovada,1990, pp 69-79; e G. ODDINI, La chiesa par-rocchiale di Ovada dedicata a Santa Maria As-sunta e San Gaudenzio vescovo e martire, in“Urbs”, Ottobre 1987, p.13.

2. ARCHIVIO PARROCCHIALE DIOVADA ( d’ora in poi A.P.O.) Convenzione conla Fabbriceria per la pittura dell’interno dellachiesa con i pittori Pietro e Tommaso Ivaldi, inFald. 41, Fasc. 8.

3. A.P.O. doc: Progetto per la pittura dellaChiesa parrocchiale 9 Agosto 1865, Fald. 22,Reg. 3 dei Verbali 1856- 1870, p. 225; e “Crea-zione di un Comitato per la dipintura, (…) almedesimo le elemosine raccolte in Chiesa efuori”,15 Agosto 1865, Fald.22, Reg. 3, p. 27.

4. A. BAUSOLA, Introduzione, in AA.VV.“La parrocchiale ” cit., p. 9.

5. M. G. MONTALTO, Pietro Ivaldi (Toleto1810-Acqui Terme 1885) : disabilità e arte nelcontesto della cultura artistica ottocentesca, in“Percorsi e immagini nell’arte di Pietro Ivaldi IlMuto di Toleto”a cura di Enrico Ivaldi, AcquiTerme 2010, p. 30.

6 P. BAVAZZANO, Gli Ovadesi e il culto diSan Paolo della Croce, in “Urbs”, Marzo1994, pp. 29 e 30.

7. A. LAGUZZI, Ovada, Guide dell’Acca-demia urbense, Ovada, 1999, p. 57.

8. I santi qui rappresentati non sono tutti benindividuabili, ma certamente scelti con atten-zione. Da destra, San Giovanni Battista, il Pre-cursore, decollato da Erode mentre Gesù eraancora in vita, si riconosce per l’abito e la crocedi verghe; accanto con molta probabilità SanGiovanni Evangelista, perchè gli scritti apocrifida cui sono tratte le scene della Morte della Ver-

267A lato, Maria Assunta in Cielo: af-fresco della lunetta dell’abside; frai molti artisti che hanno dipintoquesto tema l’Ivaldi sembra essersiispirato alla celebre Assunzione deiFrari di Venezia del Tiziano

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gine e della Assunzione sono attribuiti a lui. Piùavanti il gruppo con Adamo ed Eva e presumi-bilmente Abele, perché il peccato originale daloro commesso è riscattato dal sacrificio di Cri-sto. Si riconosce poi Mosè,figura preminentedell’Antico Testamento, prefigurazione di Cri-sto, assieme a un gran sacerdote che potrebbeessere sia il fratello Aronne, capostipite del sa-cerdozio ereditario, sia Melchisedec, sacerdoteal tempo di Abramo per via del quale San Paolodefinisce Cristo, nella Lettera agli Ebrei (7. 1-28), “sacerdote secondo l’ordine di Melchise-dec”. Segue un gruppo di antichi fra i qualidovrebbe essere Abramo, primo fra i grandi Pa-triarchi, raffigurato con i capelli bianchi e labarba fluente e ancora i re di Israele, Davide conl’arpa, prefigurazione di Cristo e figlio di Jessedalla cui casa, secondo la profezia di Isaia, sa-rebbe nato il Messia, e Salomone, con vesti re-gali e corona, che fece incoronare e sedere sultrono alla sua destra la madre Betsabea venuta achiedergli una grazia e per questo è consideratoprefigurazione della Incoronazione della Ver-gine. Il gruppo successivo è costituito presumi-bilmente da Gioacchino e Anna, genitori diMaria e ancora San Paolo e San Pietro figure de-vozionali che si accompagnano alle immaginidella Vergine in trono perché fondatori dellaChiesa: San Pietro apostolo degli Ebrei e SanPaolo apostolo dei Gentili. Si nota subito comemolte figure appartengano all’Antico Testa-mento (le anime liberate dal Limbo rappresen-tate nella volta del transetto di destra) per darecontinuità alla storia sacra, ma quelle visibilidalla navata sono la Santissima Trinità e i Santidel Nuovo Testamento proprio in una sorta dicontrapposizione fra passato e futuro dellaChiesa. Non a caso la Beata Vergine Maria, SanMichele Arcangelo (raffigurato nella volta deltransetto di sinistra) San Giovanni Battista e isanti Apostoli Pietro e Paolo sono chiamati a te-stimoni delle nostre mancanze e intercessori pernoi presso il Padre nel Confiteor durante laSanta Messa.

HALL’S Dictionary of Subjects and Sym-bols in Art,, alle voci: Aaron, Abraham, David,John the Evagelist, Moses, Solomon, Paul,Peter, London, 1984.

9. Padre A.SAPA, Angeli demoni e santi,Carcare, 2009, p. 20 3 segg.

10. Vedi nota n.9.11. Vedi nota n.912. A. COMTE-SPONVILLE, Piccolo trat-

tato delle grandi virtù, Milano, 1996, p. 71.13. S. PAOLO della CROCE, Massime spi-

rituali, Ovada, 1994, p. 9.14. S. PAOLO della CROCE, Massime cit.,

p. 14.15. HALL ‘S Dictionary cit., ,alle voci: Tem-

perance, Prudence, Fortitude, Justice.16. A. LAGUZZI Ovada cit., p. 67

17. S. DE FIORES, S: DI MEO ( a cura di ),in “Nuovo Dizionario di Mariologia”, alla voceRosario, Torino, Ed. Paoline, 1985.

18. M. G. MONTALTO, Pietro Ivaldi cit., p.27.

19. S. PAOLO della CROCE, Massime cit.,p. 14.

20. LUCA, Vangelo, 10- 41,42.21. S. PAOLO della CROCE, Massime cit.,

p. 25.22. Per chi voglia approfondire l’argo mento

rimando a P. PIANA TONIO LO, Chiese e pa-troni d’Ovada, in “Urbs”, marzo 2012, p.27 esegg.

23. A.BAUSOLA, Introduzione cit., p. 9.24. Gli interventi della Fabbriceria si susse-

guono nel tempo, ecco un elenco che non vuoleessere esaustivo, ma indicativo. A.P.O. Fald. 22,Reg.I, Verbale delle Delibere 1806- 1856: docc.:Per una Cappella a San Crispino e San Cri-spiano a spese dei Calzolai, 3 gennaio 1816, p.43; Accettata la proposizione fatta dall’Illustris-simo Sig. Marchese Spinola per la costruzionedegli altari, 14 aprile 1831, p. 107; Delibera-zione riguardante li fabbri ferrai per l’altare perSanta Lucia, 17 maggio 1834, p. 116; Delibera-zione riguardante la Classe dei Mercanti e Sartied altare di Sant’Omobono, 26 maggio 1834, p.119; Deliberazione riguardante la supplica delSig, Michele Ivaldi per l’affran cazione del le-gato per l’altare di sant’Omobono e quattrocerei, 5 marzo 1838, p. 193; Cappella di sanGiacinto e San Rocco. Revisione dei conti deltesoriere della Fabbrica, 19 agosto 1841, p.246; Deliberazione per l’erezione dell’Altare diSanta Lucia, 19 dicembre 1841, p. 248; Crea-zione dell’altare di San Paolo (della Croce) al

posto di quello di San Giacomo, 11 agosto 1853,p. 418; Supplica dei Sig. negozianti e Sarti delBorgo a sollecitare la costruzione di un altare aSant’Omobono e creazione di un altare a SanPaolo della Croce, 27 novembre 1855, p. 447.

E ancora: A.P.O. Fald.22, Reg. II, Verbali1842-1869: docc.: Per sentire i Sig. mercanti delBorgo di Ovada se sarebbero interessati....di ri-cevere l’altare in questa Chiesa dedicato a SanGiacomo invece di quello ove Eglino avrebberoesposto il quadro di Sant’Omobono, 8 settem-bre 1853, p.. 44; Che l’altare di Sant’Omobonovenga eretto alla Cappella esistente in questaChiesa denominata della Speranza , 17 dicem-bre 1855, p.. 81; Verbale di Deliberazione peraccettare il dono di due quadri... , 5 settembre1869, p. 272, verbale in cui si coglie occasioneper richiamare la “Società di Sant’Omobono “ ediffidarla perché non si prende cura dell’altareragione per cui si potrebbe erigere un nuovo al-tare dedicato alle anime Sante del Purgatorio.

25. G. ODDINI, La Chiesa Parrocchiale diOvada, op.cit. , p. 11.

26. A.P.O. Fald 22, Reg. I, Libro delle Deli-bere 1806-1856, Verbale del 17 Maggio 1834: Proposta accordata ai Fabbri di dedicarel’altare in fondo alla chiesa in faccia al FonteBattesimale a Santa Lucia loro patrona, 17maggio 1834, p.117.

27. G. ODDINI, Visita Parrocchiale, in “ LaParrocchiale di Ovada “, cit., p. 94.

28. GIOVANNI, Vangelo, 1- 2929. A. LAGUZZI, Ovada, cit., p. 53 e segg.30. Per chi voglia approfondire l’argo mento:

Paola Piana Toniolo, Chiese e patroni d’Ovada,in “Urbs”, marzo 2012, p.27 e segg.

31. A. LAGUZZI, Ovada, cit., p. 60.

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Elisabetta; 6. Gloria di S. Paolodella Croce; 7. Angeli musicanti;seguono i quattro Evangelisti iden-tificati dai loro simboli: 8. SanLuca, 9. San Marco, 10 San Mat-teo, 11 San Giovanni; alla pag 272:

Alla pagine precedenti: 1. Adora-zione dei Magi; 2. presentazionedi Gesù al Tempio; 3. Gesù fra idottori nella sinagoga; 4. Predi-zione della distruzione del Tem-pio; 5 Visita di Maria a S.

12. Apostoli al sepolcro vuoto diMaria; 13. Gesù frai fanciulli; 14.Gesù a Betania viene onoratodalla Maddalena; 15. S. Gauden-zio; 16. S. Rocco

In basso, Gesù insegna ai discepoli

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32. P. BAVAZZANO, Gli Ovadesi e il cultodi San Paolo della Croce, cit., p. 28.

33. Vedi nota n. 334. La Sacra Bibbia, Geremia, 11-19. :“Ero

come un agnello condotto al macello”.35. La Sacra Bibbia, Zaccaria, 13-6. :“Che

sono quelle ferite sulle tue mani?”.36. La Sacra Bibbia, David, Salmo 69- 8 ,

nell’affresco segnata 68, secondo la Vulgata diClemente VIII “E la vergogna ricopre il mioviso”.

37. La Sacra Bibbia, Isaia, 53- 2: “Non haamabile aspetto né prestanza”.

38. La Sacra Bibbia, tradotta dai testi origi-nali a cura dei professori di sacra scritturaO.F.M. Sotto la direzione del Rev. P. Bonaven-tura Mariani, Milano, 1964. Nota a p. 1824.

39. Padre F. FINETTI, Storia evangelica cit.,p. 387.

40. Enciclopedia italiana, Istituto della Enci-clopedia italiana fondato da G. Treccani, Roma,ed. 2005, alle voci: San Rocco e San Sebastiano.

41. HALL’S Dictionary cit., alla voce: Hy-acinth.

42. G. SUBBRERO, Ovada a metà 800: unborgo agricolo e commerciale, in “Urbs”,marzo 2011. p. 13.

43. P. BAVAZZANO, Notizie sul la Parroc-chiale di Ovada nel bicentenario della sua dedi-cazione (1801- 2001), in “Urbs”, marzo 2002,p. 52 e segg.

44. G..ODDINI, La Chiesa Parrocchiale diOvada, cit., p.13.

45. P. BAVAZZANO, Notizie sulla Parroc-chiale di Ovada nel Bicentenario della dedica-zione, cit. p. 52.

46. G. MERIANA, La Liguria dei Santuari,Genova, 1993, p. 54 e p 170.

47. L. BARBA, Affreschi ed edicole votive adOvada, in “Urbs”, marzo 2012, p. 33 e segg.

48. Biblioteca Parrocchiale di Ovada, Appen-dix Missarum, quae propriae in diacesi (sic)Aquensi celebrantur. In “Missale Romanorumex decreto sacrosanti concilii tridentinum resti-tutum Pio V Pont. MAX. jussu editum, et Cle-mentis VIII primum, nunc denuo Urbani papaeoctavi actoritate recognitum. Antuerpiae ex of-ficina Plantimaria Balthazaris MoretiM.DCCII.”

49. GIOVANNI, Vangelo, 4 -1,42.

50. P. F. FI-NETTI, Storiaevangelica, cit., p.116

51. R. CAMIL-LERI, QuotidianoAvveni re, rubrica: IlSanto del giorno.

52. BibliothecaSanctorum IstitutoGiovanni XXIIIdella Pontificia

Università lateranense, Città Nuova editrice,Roma, 1966, vol. VII, alla voce: Sant’Isidorol’agricoltore.

53. Interessante potrebbe risultare il con-fronto con la decorazione dell’Oratorio dei Buo-nomini di San Martino a Firenze, riproposto daL. SEBREGONDI, Le buone azioni dei Buono-mini, in «Art e Dossier», gennaio 2012, p. 70 esegg..

54. HALL’S Dictionary cit., alla voce :Joseph.

55. HALL’S Dictionary cit.,alla voce: FourEvangelists.

56. A.P.O. Fald. 22, Reg. I, Verbale delle De-libere 1806- 1856, doc : Accettata la propostafatta dall’illustrissimo Sig. Marchese Spinolaper la costruzione degli altari, 14 aprile 1831,p.107.

57. A. LAGUZZI, Ovada cit., p. 41.58. HALL’S Dictionary cit., alla voce: David.59. HALL’S Dictionary cit., alla voce: Ceci-

lia.60. D. STEIDL-RAST, S: LEBELL, La mu-

sica del silenzio. Viaggio attraverso le ore delgiorno. Chiavari 2010, p. 17 e segg.

61. A. LAGUZZI, Ovada cit., p. 43.62. E. F. FALDI, Tommaso Reggio arcive-

scovo di Genova, Genova, 1971, p. 6.63. I. MONTANELLI, L’Italia giacobina e

carbonara, Milano, 1972, p. 78.64. A.P.O. Fald. 44, fg. 1, Feste di San Na-

poleone. Avviso dell’Arcivescovo di Milano diistituzione festa assieme a S.M. Assunta Patronadelle Gallie, 6 luglio 1806: e V. MESSORI e R.CAMILLERI, Gli occhi di Maria, Milano,2007, p. 254 e segg.M.G. MONTALTO, Pietro Ivaldi cit., p. 21.Il mio grazie alla carissima amica Paola PianaToniolo che ha la pazienza di correggermi e in-segnarmi.

A lato, dialogo tra Gesùe la Samaritanapresso il pozzo diGiacobbe e San Sebastiano

In basso, San Giacinto

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La Pro Loco ovadese dona all’Accademia Urbenseun quadro di Costantino Frixione (1828 -1902)di Paolo Bavazzano

Il primo ottobre 2012 il Presidentedella Pro Loco di Ovada e dell’OvadeseAntonio Rasore, per conto della Associa-zione che presiede, ha acquistato al mer-catino dell’antiquariato, in svolgimentoin città, un quadro del pittore ovadeseCostantino Frixione e lo ha donato al-l’Accademia Urbense. Si tratta diun’opera rappresentante i SS. Crispino eCrispiniano pervenuta al venditore dauna famiglia di Pontecurone. L’olio mi-sura cm. 65 x 78, e nella parte posteriore,stampata nella tela in maiuscoletto, portala seguente dicitura: FRIXIONE COSTAN-TINO – PINX OVADA 1882 – 16 MAG.

Si tratta di una acquisizione significa-tiva perchè, oltre al piacere per tale ritro-vamento, ci offre l’occasione di rac- cogliere alcuni dati sull’autore del qua-dro. Costantino Frixione fu allievo diIgnazio Tosi (1811 - 1861) che avevaavuto a sua volta come maestro Tom-maso Cereseto (1775 - 1865), entrambiovadesi. Operò in Ovada e nei paesi limi-trofi producendo lavori principalmente asoggetto religioso.

Un suo affresco rappresentante SanPaolo della Croce si poteva os-servare ancora una trentina dianni fa sulla facciata di una casacolonica (Ia cò d’Pinulu) demo-lita per far posto alla strada dicirconvallazione che da Via Vol-tri immette in Via Cavour. Altrisuoi affreschi a tema religioso sinotano tuttora sulle facciate di al-cune cascine dell’Ovadese e latradizione vuole che avesseanche dipinto un affresco sullafacciata del Santuario di N. S.delle Rocche (Molare) sostituitopoi con l’immagine della Ma-donna che tuttora si vede.

É autore anche di alcuni ri-tratti. Cercando in archivio al-cune notizie in merito si ricavanodal catalogo della mostra orga-nizzata dalla Accademia nel1980 sulla pittura dell’800 nel-l’Ovadese comprendente le se-guenti opere firmate dalFrixione: ritratto del prete Fran-cesco Nervi, pastello, (47 x 57;ritratto del marchese Giacomo

Spinola, pastello, (34 x 50); ritratto dibambino, olio su tela (17 x 23). coll. pri-vata; ritratto di padre G.B. Cereseto delleScuole Pie, olio su tela, (43 x 53).

Di Frixione è un Episodio della vitadi S. Paolo della Croce e un S. Paolodella Croce e il fratello salvati dalleacque (1891), quest’ultimo discreto la-voro che ancora oggi adorna la sacrestiadella Parrocchiale di Ovada (entrando asinistra, parete destra). Ancora in Parroc-chia si nota l’ovale rappresentate leAnime Purganti all’altare dei SS. Cri-spino e Crispiniano.

Ha inoltre eseguito alcuni affreschituttora visibili in città: in via San Seba-stiano la Madonna della Misericordia ein via Lungo Stura Michele Oddini. laMadonna delle Rocche di Molare, lavoridel secondo Ottocento. Nella chiesa par-rocchiale di Costa d’Ovada all’altaredella navata sinistra di Frixione notiamouna Madonna del Rosario fra due Santi.Ha scritto alcune biografie di ovadesi il-lustri pubblicate su il foglio locale «IlCorriere delle Valli Stura e Orba». É suoil profilo biografico del padre scolopio G.

B. Perrando da Sassello con il quale man-tenne amicizia e contatti epistolari peroltre quarant’anni. Nel periodo in cui ilPerrando fu rettore della Scuole Pie diOvada, (decennio 1840 – ‘50) il suo stu-dio divenne il punto di riferimento dellenuove speranze intellettuali dell’Ova-dese, in particolare ne furono assidui fre-quentatori i fratelli Domenico e IgnazioBuffa, Francesco Gilardini, il pittoreIgnazio Tosi e Frixione suo allievo.

Qualche considerazione sul quadro ri-cevuto in dono dalla Pro Loco. Non sap-piamo come sia finito a Pontecurone,mentre per quanto riguarda i Santi in essorappresentati, Crispino e Crispiniano,protettori dei calzolai, troviamo signifi-cativa testimonianza nella parrocchialedell’Assunta di Ovada. Nel 1817, infattiin essa veniva eretto a cura dei calzolaiun altare, il terzo della navata sinistra, in-titolato a detti Santi Martiri.

La loro festa era solennemente cele-brata il 25 ottobre e, nel 1838, auspice ilparroco Bracco, i calzolai e ciabattini, gliartigiani più numerosi del luogo, fonda-rono anche una Pia Società di Mutuo

Soccorso. L’altare è adorno delquadro del Cereseto raffigurantela Madonna della Misericordia(18 marzo), con corona, cheguarda dall’alto i Santi Protettoridella categoria. Prima che i fra-telli Ivaldi affrescassero le voltedella chiesa (si veda l’articolo apag. 261) sulla volta dell’altareFrixione aveva eseguito un affre-sco poi cancellato, operazione in-dubbiamente sgradita all’autore ilquale protestò vivacemente comeattestano i documenti di fabbrice-ria.

Ringraziamo ancoral’Associazione Pro Loco diOvada e dell’Ovadese per la sen-sibilità dimostrata e ci auguriamodi poter giungere, come in questocaso, a promuovere insieme ini-ziative volte a valorizzare semprepiù il patrimonio artistico e cultu-rale della zona in cui entrambe leassociazioni operano.

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Un elogio al nostro paesaggio agrariodi Renzo Incaminato

La grave crisi che stiamo vivendo ènata da una economia virtuale molto piùgrande di quella reale ed è cresciuta spa-ventosamente per gli effetti della specula-zione finanziaria. Siamo in un bruttolabirinto, ma come la Storia ci insegnauna “crisi” è sempre una crisi di civiltà ecultura. E questa volta occorre fare i conticon le conseguenze dello sviluppo inso-stenibile di tante attività umane, causa ditristi risvolti sociali e di degrado ambien-tale.

Uno degli esempi più concreti di questa crescita incosciente èl’URBANIZZAZIONE INCONTROLLATA che,priva di qualità formali e funzionali, si èdilagata nel paesaggio italiano in questiultimi decenni. L’avanzare del cemento edell’asfalto, spesso caratterizzato dallaspeculazione edilizia, ha già compro-messo, e in modo irreversibile, molto fer-tile suolo agricolo, potenziale produttoredi alimenti e di buon cibo italiano. E im-portiamo dall’estero più del 20% dellenostre derrate alimentari! Per il granol’Italia importa vergognosa-mente il 45% della quantità chegli occorre... Tutto questo incidesensibilmente sulla nostra bilan-cia commerciale.

Forse mai come adesso oc-corre riconsiderare l’importanzadell’Agricoltura. Essa è semprestata la base della cultura e dellanostra stessa civiltà. Tra l’altronon è una semplice coincidenzache le parole cultura, coltiva-zione e naturalmente Agricol-tura abbiano in comune lestesse radici etimologiche.

Non dovrebbe passare moltotempo che nel computo dellaricchezza di una nazione, oltreal PIL andranno inseriti altri in-dicatori di benessere e in primis:il paesaggio agrario con i suoicorretti agroecosistemi, la di-sponibilità di acqua pulita e lavarietà biologica dei viventi(BIODIVERSITÀ).

Il consumo di suoloQuando osserviamo da una

altura il nostro territorio e il pae-saggio circostante e viaggiamo

un po’ indietro con la memoria, anchesolo 25 – 30 anni, ci accorgiamo dei no-tevoli cambiamenti portati dall’espan-sione edilizia. Proviamo anche questesensazioni impressionanti comparando lavisione di vecchie fotografie e di cartinetopografiche con le recenti fotografie sa-tellitari o anche con quello che vediamodirettamente oggi.

C’è stata una grande dispersione sulterritorio di insediamenti produttivi e re-sidenziali, spesso inutili e assurdi (in pia-nura: mega zone lottizzate subitoperimetrate da muretti di cemento e dastrade asfaltate, senza sapere a prioriquale impresa o ditta occuperà quel de-terminato lotto e costruirà il capannone,cosa essa produrrà e quanti posti di la-voro porterà (!?); sulle colline: estesi vil-laggi turistici con residenze occupatesoltanto due mesi all’anno!).

Le conseguenze ambientali di questaurbanizzazione sono sotto gli occhi ditutti: perdita di suolo agrario fertile, di-struzione degli habitat naturali con per-

dita della Biodiversità dei viventi, grandedispendio energetico, aumento del traf-fico veicolare con i relativi disagi e inqui-namenti che implica, impermeabilità deisuoli con alterazione degli assetti idrau-lici superficiali e sotterranei, la riduzionedelle capacità di assorbimento e smalti-mento delle immissioni civili e industriali(aumento degli scarichi fognari e loro de-purazione, aumento della produzione dirifiuti vari), l’aumento iperbolico delconsumo di acqua potabile (gli acque-dotti devono essere continuamente poten-ziati, c’è ormai una ricerca continua dinuove sorgenti, si pensa di costruiredighe...).

Tutto questo è avvenuto e avviene conmaggiori costi economici e sociali.L’iniziale vantaggio degli oneri di urba-nizzazione incassati dai Comuni è poiquasi sempre superato dalle spese che iComuni stessi devono affrontare per for-nire i nuovi servizi alla nuova edilizia eper arginare gli inconvenienti ambientaliche sono arrivati in seguito a questi nuovi

insediamenti.Alcuni ricercatori urbanisti

(BATTISTI C., ROMANO B.,PAOLINELLI G. 2007), hannointrodotto il cosiddetto “Indicedi Rischio Insediativo”, valu-tato secondo criteri legati allecomponenti geomorfologichee idrogeologiche, e dalla riela-borazione di modelli su questorischio, hanno purtroppo di-mostrato come si potrà giun-gere in qualche decennio allasaturazione ambientale dimolte pianure.

Molto eloquente, anche seprovocatoria, è la frase delprof. Salvatore Settis: In Italiasi vive troppo di edilizia incon-trollata e si rischia di moriredi edilizia! Non pensiamo albene comune e alle future ge-nerazioni!

Dopo secoli, quello che noiconsideriamo il paesaggio tra-dizionale italiano, derivante dauna evoluzione tra attivitàumane e natura, sta scompa-rendo e al riguardo l’atten-

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zione politica e gestionale è ancora ca-rente e irresponsabile. La legislazionecon i piani urbanistici comunali e la pia-nificazione regionale e provinciale, con-sente attraverso le varianti di “proseguirein un certo senso” e poi ci sono sempre isoliti procedimenti di aggiramento e diaggiustamento all’italiana...

Nel Luglio 2012 il Ministro delle Po-litiche Agricole ha presentato un disegnodi legge che vieta ai Comuni di usare ifondi recuperati con gli oneri di urbaniz-zazione per la spesa corrente e di modifi-care (per almeno 10 anni) la destinazioned’uso dei terreni dove siano stati erogatiaiuti di Stato o dalla Comunità Europea.Inoltre, sul modello dei land tedeschi,verrà introdotta una limitazione massimasulla superficie agricola edificabile...

Il Paesaggio agrarioEmilio Sereni, già nel 1961, nella sua

opera Storia del paesaggio agrario ita-liano definisce il paesaggio agrario come“quella forma che l’uomo nel corso deisecoli e delle sue attività produttive agri-cole, imprime coscientemente e sistema-ticamente al paesaggio naturale” met-tendo molto in correlazione le condizioniambientali (la geomorfologia e la pedo-logia del suolo, il clima e le risorse idri-che) con l’organizzazione socio –economica, i mezzi di produzione e lacultura che aveva la popolazione in quelmomento storico. Descrive l’evoluzionedel paesaggio agrario e le varie tecnichedi coltivazione con cui l’uomo producevaalimenti attraverso una serie mirabile diosservazioni e considerazioni, eseguiteanche dall’analisi dei documenti e fonti

storiche, con il commento di opere lette-rarie e artistiche (dipinti) che hanno ca-ratterizzato la Storia d’Italia.

Per Sereni l’ambiente rurale è quindiun documento storico che valorizza il pa-trimonio culturale umano e i suoi rapporticon la natura... e da questo equilibratorapporto sono nati i bei paesaggi.

Ma chi operava in questa bella cam-pagna ha sempre fatto un lavoro faticosoe incessante, spesso ostacolato dalle ca-lamità naturali, con tante crisi economi-che – agrarie. La classe contadina hasempre avuto una debolezza contrattualeed è stata sfruttata dalle altre caste socialiche, di certo, non si abbassavano e nonsudavano per curare la terra. Non ci sonostati tanti Cincinnato nella Storia. Lostato di servitù della gleba del Medioevo,e che in certi paesi (Russia) si è protrattosino all’800, è una delle tante vergognedell’umanità. I contratti di mezzadria o diconduzione con salariato non riportavanocerto norme degne di un Diritto Civile.Tutta la Storia dell’Agricoltura italiana èricca di lotte e rivolte contadine, spessorepresse duramente... la povera classecontadina ha sempre dovuto fare i conticon i ricchi proprietari latifondisti eanche con il Capitalismo nelle campagne.

Su queste ingiustizie si è alzata lavoce di Lev Tolstoi (1828 - 1910), unodei più potenti e suggestivi narratori del-l’umanità. Egli fu molto sensibile allacondizione dei contadini e in molte sueopere sviluppò la tesi secondo cui “il la-voro agricolo è non solo doveroso pertutti, ma anche l’unico che, se condottoin condizioni di non sfruttamento, sia ve-

ramente adatto all’uomo epossa renderlo sano e felice”.Verso la fine della sua esi-stenza terrena, Lui, nato da fa-miglia di antica nobiltàfeudale, che spesso vestiva dacontadino e coltivava conloro, scrive nei suoi diari:“L’errore principale nell’or-ganizzazione della vita uma-na, è tale che esclude la possi-bilità di qualunque organizza-zione nazionale della vita, èche la vita agricola sia solouna e la più bassa forma di

vita (...). L’agricoltura indica cosa è piùe cosa è meno necessario. Essa guida ra-zionalmente la vita. Bisogna toccare laterra!” (2 e 17 Aprile 1906).

Naturalmente anche il nostro Serenitratta con una efficace analisi storica laquestione agraria nelle sue opere come IlCapitalismo nelle campagne (1860 -1900), Einaudi, Torino 1968 e La que-stione agraria nella rinascita nazionaleitaliana, Einaudi, Torino 1976.

Nonostante le dure lotte che i conta-dini affrontarono nella Storia per ribel-larsi alla loro condizione servile, labellezza della campagna è andata avantiper secoli e secoli... fino all’avvento del-l’era industriale in cui ci fu l’abbandonodelle colture soprattutto montane e colli-nari con la migrazione della forza lavoronelle fabbriche delle città. L’agricolturastessa divenne industriale, con i suoiaspetti positivi immediati (grandi resedelle produzioni ottenute con l’uso dinuove varietà coltivate e miglioramentodelle tecniche di lavorazione) e si è svi-luppata di più nelle comode pianure,mentre sulle colline si è abbastanza man-tenuta la redditizia viticoltura.

Nel contempo l’UNESCO (United Na-tions Educational, Scientific and Cultu-ral Organization) ha voluto riconoscerel’importanza di certi paesaggi agrari chesono l’espressione della cultura di un po-polo e ne ha raccomandato, a più riprese,nelle sue Convenzioni Internazionali, laconservazione e la loro valorizzazione.Nel 1994 anche il Comitato dei Ministridel Consiglio Europeo ha recepito questeindicazioni e ha caldeggiato l’importanza

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Nella pag. a lato, ruderi dell’acquedotto romano di Acqui in un incisione degli inizi del secolo XIXa lato, panorama di Costad’Ovada in una cartolina di Ernesto Maineri dei primi anni del ‘900

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del mondo rurale, il cui sviluppo può as-sicurare oltre alla produzione di alimenti,la tutela della natura e dei paesaggi agrarieuropei.

Il paesaggio CULTURALE o paesag-gio agrario storico

Paesaggi culturali o paesaggi storiciindicati dall’UNESCO sono in genere rap-presentati da aree rurali in cui l’assettostrutturale e tipologico delle coltivazioni,le modalità di utilizzo dei prodotti el’architettura dei manufatti rendono que-sti paesaggi unici e riconoscibili. Questipaesaggi culturali sono quindi una bellatestimonianza della profonda conoscenzache l’uomo aveva del sistema naturale, incui si è inserito utilizzando la maggiorparte delle risorse naturali. Pascolo etransumanza, selezione delle varie razzedegli animali utili (bovini, equini, capre,pecore), conoscenza e utilizzo pratico deivari stadi degli ecosistemi agrari, rota-zione delle colture tra le specie migliora-trici e consumatrici della fertilità deiterreni, concimazione naturale organicache mantenendo e rinnovando la fertilitàdei suoli permetteva di iniziare un nuovociclo agroecosistemico, tecniche di pota-tura delle piante da frutto, selezione dellecultivar di piante più adatte alle caratte-ristiche ambientali e più resistenti alle fi-topatie e anche in base alla qualità piùdesiderata dei frutti.

Secondo gli Ecologi i paesaggi cultu-rali si possono definire come quelle areeagricole dove le attività dell’uomo e iprocessi ambientali hanno creato modellie sistemi di grande diversità ed eteroge-neità del paesaggio con meccanismi diretroazione attiva (feed-back) che gover-nano la presenza, la distribuzione el’abbondanza di molte specie di viventi.In essi c’è propriamente una grande Bio-diversità di ecosistemi e di specie (in pro-posito teniamo presente che l’UNESCO

aveva proclamato il 2010 come anno in-ternazionale della BIODIVERSITÀ).

Nei frutteti e nei vigneti la presenzadelle siepi e di altri alberi come i saliciviminali e anche di piccoli appezzamentiboschivi, permetteva la vita di tante spe-cie di viventi con sviluppo efficace dellecatene alimentari e quindi autocontrollopredatorio ecosistemico come ad esem-

pio avveniva per alcune specie di Uccelli,il cui soprannumero poteva danneggiareil raccolto delle uve e di altre frutta. Nelcontempo era assicurata la presenza degliInsetti impollinatori dei fiori e la preda-zione degli insetti parassiti da parte dialtre specie di Uccelli...

Nei campi coltivati c’era il reticolodei fossi con acqua che garantiva la pre-senza degli Anfibi (rane, rospi) molto im-portanti negli equilibri ecosistemici.

Lo sfalcio dei prati e dei pascoli creacondizioni ottimali per la sosta degli Uc-celli migratori e le praterie submontanesono aree ad elevata diversità floristica(api � miele) e per il loro mantenimento ènecessario un taglio estivo e il pascolotardo estivo ed autunnale di pecore o divacche.

Molte ricerche hanno dimostrato unaricchezza di specie di farfalle lungo gliecotoni tra coltivi e boschi o nei prati pa-scolo submontani [ECOTONO è la zona dicontatto e di transizione tra due ecosi-stemi diversi].

L’uomo ha quindi favorito in questipaesaggi agrari molte forme di organismiviventi già presenti e più diffuse che neglistessi ambienti naturali.

Non va dimenticata poi la ricchezzadi CULTIVAR presenti nei paesaggi cultu-rali, cultivar di piante da frutto o di se-menti o tuberi o bulbi di altre piantealimentari, che oggi non sono inseritenella gran parte delle catene commercialidell’Agroindustria; queste cultivar sonoun patrimonio per la Banca Genetica perfuture varietà da utilizzare e sono ancheassicurazione contro malattie epidemicheperchè erano state selezionate per la resi-stenza ad esse.

Particolare significato hanno poi laselezione e la presenza di razze di animalidomestici (bovini, ovini, ecc.) che carat-terizzavano ogni area geografica italiana.Molte di queste razze di animali sono ingrado di utilizzare in maniera ottimale lerisorse che non sono state direttamenteutilizzate dall’uomo, con grande adatta-mento ambientale e locale sono quindi ingrado di alimentarsi sufficientemente e dicrescere abbastanza bene anche in areeagricole marginali.

BIODIVERSITÀ GENETICA INFRASPECI-

FICA – ECOTIPI o RAZZE LOCALI – CULTI-VAR:

Qualsiasi forma vivente è il risultatodi una lenta e costante evoluzione natu-rale, avvenuta generazione dopo genera-zione, nel corso dei millenni e anche intempi ancora più lunghi.

La trasformazione degli esseri viventisi è sempre realizzata per successive mu-tazioni genetiche spontanee; ognuna diqueste mutazioni ha subito il vaglio deimeccanismi della selezione naturale.

Soltanto le mutazioni funzionali almantenimento degli equilibri biologicisono state mantenute e quindi sono en-trate a far parte dei caratteri stabiliti di undeterminato organismo vivente; tutte lealtre sono state automaticamente elimi-nate.

Le mutazioni artificiali, indotte me-diante manipolazione genetica, nonhanno ancora subito alcuna selezione na-turale e quindi la loro introduzione neidelicati equilibri naturali potrebbe deter-minare sconvolgimenti difficili da preve-dere.

Ogni forma vivente possiede un ge-noma specifico che la differenzia da tuttele altre. Però dal punto di vista geneticonon esiste un unico tipo (o razza) di granoo di altra specie vegetale o animale, ma cisono centinaia di tipi... ognuno dei qualiè importante per il mantenimento dellecatene alimentari e soprattutto per au-mentare la VARIABILITÀ GENETICA INFRA-SPECIFICA. E questa esistenza di varietàdifferenti di ogni specie di vegetale e dianimale rappresenta una garanzia nelcaso siano colpite da qualche evento dan-noso (stress ambientali, attacco di paras-siti o altre patologie).

I nostri antenati con secoli di lavoro edi attenta osservazione hanno “domesti-cato” e selezionato molte specie di vege-tali e animali adattandole ai bisognidell’uomo, cosicché un gran numero diECOTIPI (o RAZZE) e di CULTIVAR si sonovenuti a differenziare e a specializzarenei diversi areali, diventando caratteri-stica di quel determinato luogo. E cia-scuno di questi tipi ha qualità specifica inquanto a esigenze nutritizie, adattamentiambientali a quel luogo, resistenza allemalattie e utilizzo (produzione di frutti di

2781 Reg. Pobiano di Cassinelle (gen. 2009):un vigneto d’inverno. 2 Olmo Gentile(dic. 2008): la neve evidenzia i terrazza-menti della Langa astigiana. Oggi qui ilvento marino, la natura del terreno e leerbe aromatiche influiscono sulla qualitàdel latte prodotto dalle capre... così puònascere l’eccellenza della “robiola diRoccaverano”. 3 da Bazzana a Momba-

ruzzo (ott. 2009): ecco un buon esempiodi vigneti del Monferrato gradito agliispettori dell’UNESCO. 4 piana di Castel-ferro di Predosa (gen. 2009): i filari digelsi costituiscono una delle forme della“piantata padana” consociata alle col-ture di cereali e di foraggi. Le foglie diquesto albero erano poi il cibo dei bruchidel Baco da seta... 5 reg. Pobiano di Cas-

sinelle (gen. 2009): un incantevole alto-piano ancora oggi coltivato a cereali, vi-gneto e foraggiere e con presenza di fossie filari di alberi. 6 cascina Battura loca-lità Termo (sett. 2006): prati pascolo esullo sfondo il versante ovest del monteColma. 7 cascina Merigo di Capanne diMarcarolo (nov. 2010): caratteristicocomplesso architettonico. 8 cascina Mo-

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pregio, quantità e qualità dei prodotticome ad esempio la qualità delle uve e ilvino tipico risultante o la qualità del lattenecessaria per la produzione del formag-gio tipico, ecc.). É ovvio che questi eco-tipi e cultivar sono portatori di unpatrimonio genetico prezioso che deveessere protetto dall’erosione gentica].

Con le pratiche agricole che si sonosuccedute e migliorate nel corso dellaStoria l’uomo ha raggiunto una grandeconoscenza della trama della VITA e si èinserito nella Natura attuando il MetodoScientifico Sperimentale.

Il paesaggio agrario odiernoQua e là, nel nostro territorio, tro-

viamo ancora moltissimi tratti di paesag-gio agrario storico o culturale e alcuni diessi sono ancora meravigliosamente con-dotti. Sono dei quadri affascinanti digrande valenza simbolica che ci trasmet-tono forti valori emozionali – affettivi eammirazione per la vita laboriosa e per lefatiche che facevano i nostri vecchi con-tadini per curare coscientemente la terra,mantenendo per se stessi e per i loro di-scendenti la funzionalità degli Agroecosi-stemi. Sono il riflesso delle nostre radicie del mondo che abbiamo ereditato e permolto tempo trascurato ... Sono la media-zione tra presente e passato per farci “ve-dere” il futuro.

Verso la metà del secolo scorso iniziòl’agricoltura “industriale”. Diminuì il nu-mero degli operatori agricoli ma aumen-tarono vistosamente le produzioni con lacombinazione tra l’introduzione di nuovevarietà e il miglioramento dei sistemi dicoltivazione (macchine, fertilizzanti chi-mici, antiparassitari, diserbanti). Però inmolti casi la iperproduzione delle derratealimentari è stata ottenuta con un grande

input di energia ausiliaria esterna al-l’agro ecosistema e con costo molto ele-vato a carico dell’ambiente: aumentodell’azoto chimicamente reattivo nelleacque, inquinamento da diserbanti e dapesticidi nei terreni e nelle acque, residuidi pesticidi negli alimenti, erosione gene-tica con perdita di tanti ecotipi e cultivarlocali (Il 75% della varietà alimentaripresenti all’inizio del XX secolo sonoscomparse!), perdita di habitat e di Bio-diversità con rottura degli ecosistemiagronaturali, conseguenze della manipo-lazione genetica artificiale, ecc.

Il paesaggio agrario della nostre pia-nure è prevalentemente rappresentatodalle distese di monocolture come il maisibrido che sono forti consumatrici diacqua, e questa viene captata abbondan-temente dai fiumi e dai canali, e irroratacon robusti impianti a pioggia quasi gior-nalmente. Se si esclude una parte recen-temente destinate alla produzione dibiocarburanti, le monoculture a maissono mangimifici per mega allevamentiche avvengono in mega capannoni stalledove, lì dentro, gli animali nascono, cre-scono, vivono, danno latte ed escono soloper essere macellati (!?).

Non pochi tratti di terreno agricolo dipianura presentano anche la grande di-stesa dei pannelli fotovoltaici.

La situazione migliora sulle nostrecolline dove, nonostante le boscaglied’invasione della vegetazione spontaneanei coltivi abbandonati, c’è sempre unmare di vigneti e si è incrementata la vi-ticoltura di qualità.

Fortunatamente nell’opinione pub-blica e nelle varie Istituzioni sta cre-scendo la consapevolezza che la Terrafornisce soltanto una quantità definita e

limitata delle risorse e che gli ecosistemi,gli habitat e le popolazioni naturali de-vono essere conseguentemente protetti esalvaguardati.

Da diversi anni il mondo accademicodella Scienze Agrarie e Paesaggistichelanciano allarmi e promuovono ricerche estudi sull’Agricoltura sostenibile. Oc-corre ricostruire un rapporto tra città ecampagne e le associazioni degli agricol-tori affrontano già questi temi con inizia-tive come: fattoria scuola, “orto incondotta” delle classi scolastiche, le ca-ratteristiche di un azienda agrobiologica,disposizioni sulla limitazione dell’uso deiprodotti chimici, politiche di conversionedelle aziende verso un’Agricoltura piùnaturale.

La nuova politica agricola del-l’Unione Europea programmata per il2014 – 2020 renderà obbligatori e conaiuti finanziari interventi, che favori-scono la Biodiversità all’interno dellearee agricole, come: ripristino e crea-zione di filari di cespugli e piante tra icampi coltivati, ripristino ove è possibiledei fossi e dei canali portatori d’acquacircolante, creazione di aree umide e dilaghetti...

C’è anche una cometa da seguire:Terra Madre che è arrivata dal cielo ma èpartita da un’idea del piemontese CarlinPetrini realizzatasi con il congresso diTorino il 23 ottobre 2008. É sorretta datanti protagonisti, tra cui 250 Università ecentri di ricerca, con oltre 450 accade-mici in tutto il mondo che si impegnanoa favorire la conservazione e il rafforza-mento di una produzione di cibo sosteni-bile, attraverso la ricerca, l’educazionedella società civile e la formazione deglioperatori...

Poi c’è da chiedersi come mai da piùdi 30 anni, molte cascine e terreni dellecolline del Monferrato e delle Langhesono state acquistate da cittadini stranieri(Svizzeri, Tedeschi, Olandesi, ecc.) e leconducono con criteri agrobiologici. Enon dimentichiamo che i molti turisti chevengono continuamente in Italia dichia-rano di essere attratti dalla qualità enoga-stronomica della nostra cucina, dalle cittàd’arte e anche dalla bellezza armoniosadella nostra campagna!

279glioni di Capanne (nov. 2010): castagnoda frutto varietà “rossina”. 9 strada delTermo, Costa d’Ovada, cappelletta dellaSalve (gen. 2009): c’era molta religiositànel mondo rurale, quando si riceveva unagrazia o si era avuta una buona annataagraria si erigevano cappelle votive.(Ledidascalie proseguono a pagina 280)

(Da A. Peano, Politecnico di Torino)

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W. Goethe (1749-1832) fu incantatodal nostro paesaggio agrario e nel suoViaggio in Italia lo definì: “una secondaNatura, che opera a fini civili”.

Abbiamo ancora suolo agricolo chepuò produrre il cibo fra i più buoni delmondo, non possiamo rovinarlo ulterior-mente con il cemento dell’urbanizza-zione selvaggia e speculativa e con leconseguenze dell’agricoltura chimica eindustriale.

Emilio Sereni, prendendo spuntodalla serie di affreschi allegorici “Delbuono e del cattivo governo” di A. Lo-renzetti (1290-1348) nel Palazzo comu-nale di Siena, ci trasmette una lezione:quando c’è Buon Governo la societàumana è ricca di energie e di creatività,c’è un rapporto equilibrato tra uomo e na-tura, nascono così paesaggi ordinati eproduttivi; quando invece ci sono de-grado culturale, crisi politiche ed econo-miche abbiamo la distruzione del belpaesaggio ...

BibliografiaAA.VV, (2008) Riconquistare il paesaggio. La

Convenzione Europea del Paesaggio e la conserva-zione delle Biodiversità in Italia, MIUR Roma.

AA.VV, (2010) Gli uomini e la Terra, DanielePiazza ed. Torino.

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G. REPETTO, (2011) Per non morire di Decultu-razione, Pesce, Ovada.

B. ROMANO, G. PAOLINELLI, (2007)L’interferenza insediativa nelle strutture ecosistemi-che, modelli per la rete ecologica del Veneto, Can-gemi, Roma.

E. SERENI, (1961) Storia del paesaggio agrarioitaliano, Laterza, Bari.

S. SETTIS, (2010) Paesaggio, Costituzione, Ce-mento, Einaudi, Torino.

E .VIGNA, (2010), La società rurale e i suoi protagoni-sti, Vento Largo, Alessandria.

Dobbiamo riappropriarci del nostro cibo,salvaguardare i nostri paesaggi e le cul-ture che li animano. Con piccoli gesti,Terra Madre cammina verso un grandeobiettivo: garantire a tutti, anche alte ge-nerazioni future, cibo di qualità.Cosa vuoi dire? Un cibo è di qualità se ri-sponde a tre principi correlati, se è“buono, pulito e giusto”. Buono: un ciboquotidiano fresco e saporito che soddisfai sensi e fa parte della nostra cultura lo-cale; pulito: prodotto senza danneggiarel’ambiente o la salute dell’uomo; giusto:che garantisce ai produttori condizioni eguadagni equi e ai consumatori prezzi ac-cessibili. Per raggiungere questi scopi,Terra Madre sostiene le economie lo-cali mettendo in rete tutti gli attoricoinvolti. Promuovendo il cibo di qualitàe le filiere corte. Terra Madre salva-guarda:La biodiversità agricola e alimentarePrediligendo le varietà e le razze locali,adattate da secoli al territorio, limitiamoi trattamenti chimici e partecipiamo allasalvaguardia dell’ambiente, della culturae dei sapori.La sovranità alimentareTutti i popoli devono essere in condi-zione di decidere quali cibi coltivare ecome trasformarli. Riportare l’agricolturaad una dimensione locale vuole dire ga-rantire un libero utilizzo della terra, spe-cialmente nei paesi in via di sviluppo,dove il passaggio dall’agricoltura fami-liare alle monocolture per l’esportazionecompromette la sopravvivenza stessadelle comunità.La produzione di piccola scalaSostenere le economie locali vuoi direcreare un’alternativa a un sistema iper-produttivo che ha inquinato la terra el’acqua, distrutto l’identità culturale di in-tere popolazioni e ridotto drastica mentela biodiversità. La produzione alimentaredi piccola scala rispetta le culture locali esi basa sulla saggezza delle comunità.

Le lingue, le culture e le tradizioniTutelando le produzioni tradizionali le-gate alla cultura locale e al territorio, as-sicuriamo un futuro alla lingua, alleusanze, all’identità di ogni comunità.L’ambienteL’agricoltura e la pesca sono strettamentelegate all’ambiente. Non possono esseretrattate come settori dell’economia, sog-getti alle leggi della domanda e dell’of-ferta. Dobbiamo far sì che la produzionealimentare elimini o riduca l’uso di so-stanze chi-miche, protegga la fertilitàdella terra e i nostri ecosistemi idrogra-fici, elimini o riduca gli sprechi, pro-muova le fonti energetiche sostenibili.Un commercio equoLa giustizia sociale e il commercio equosi possono realizzare attraverso un si-stema produttivo che rispetti i produttori,garantendo loro un giusto guadagno e altempo stesso prezzi accessibili per i con-sumatori, rispettando la diversità cultu-rale e le tradizioni. Una filiera alimentarebreve è uno degli elementi chiave del-l’agricoltura sostenibile. Le reti del cibolocali limitano l’impatto ambientale gra-zie alla riduzione dei trasporti, valoriz-zano la produzione locale e contribuisconoa preservare la cultura alimentare di ogniregione. Inoltre, riducendo il numero dipassaggi intermedi, è possibile ottenerecondizioni economiche eque sia per i pro-duttori sia per i consumatori.I saporiPrivilegiare la filiera corta vuoi dire di -rigere i propri acquisti verso prodotti fre-schi, legati alla stagione e al territo rio,ricchi di sapore per il palato e per lamente, perché legati alla cucina e allacultura locale.Le relazioniIn un’economia locale, si rinforzano i le-gami sul territorio e nascono rela zioni difiducia tra produttori e consu matori. Ilbeneficio economico è im mediato e simoltiplicano le relazioni personali e so-ciali, un dato difficil mente quantificabile,ma altrettanto importante!

10 Il mulino di Olbicella (gen. 2006):funzionava con le acque sapientementeconvogliate dal bric dei Gorrei, in quantoè situato 50 m. sopra il livello dell’Orba.11 loc. Case Vecchie tra Mantovana eCarpeneto (ott. 2009): si è appena semi-nato il grano. 12 cascina Ortosano (delBersò) di Ovada (sett. 2012): splendido

muretto in pietra arenaria costruito nel1985 da Renzo Canepa e dalla cognataFranca Pesce. 13 abergo restaurato dellacascina S. Rocco, strada del monte Colma(apr. 2011). 14 Valle di S. Remigio, ParodiLig. (giu. 2012): un bell’esempio di mo-saico tra le colture a rotazione di grano eforaggi, con estesi vigneti. 15 e 16 Badia

di Tiglieto (marz. 2007 e giu. 2003): inquesta monumentale conca dell’Alta ValOrba il tempo si è fermato... c’è moltafertilità. I campi coltivati sono divisi daregolari fossati di irrigazione, filari di al-beri, presenza di mulini e di aberghi.

Obiettivi di Terra Madre

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Cenni storiciPalazzo Spinola fu costruito accanto

alla quattrocentesca chiesa di S.Mariadelle Grazie, oggi. S. Domenico, su unlato della omonima piazza. Non si cono-scono documenti dai quali si possa de-durre una precisa datazione del palazzo,ma, secondo alcune voci e una carta diconfini di G.B. Massarotti (1648), si do-vrebbe risalire alla seconda metà delXVII sec. Palazzo Spinola si imponecome un volume chiuso, ben squadrato,compatto, con il fronte ritmato dal grandifinestroni del piano nobile compreso tradue ordini di mezzanini. Così come ci ègiunto, il palazzo ricalca un modello diville genovesi del ‘600 che in quel secolorisentivano ancora dell’impostazionealessiana nel volume cubico e negli spaziinterni. Il Labò conclude riferendosi al-l’ambiente genovese dice che col Sei-cento “l’architettura di villa scompare”

e che anche “le ville diventano palazzoniserrati e chiusi” Nel 1921 avvenne lavendita del palazzo da parte del marcheseUgo Spinola ai padri Scolpi attuali pro-prietari che continuano fin da allora asvolgere un preziosissimo apostolato nelcampo educativo formativo per la localegioventù.

Il restauroI vasti restauri di palazzo Spinola, rea-

lizzati negli anni 2011-12 hanno coin-volto le coperture e i prospettidell’immobile e sono stati intrapresi gra-zie anche ad un contributo reso disponi-bile dalla Fondazione CARIGE (Cassa diRisparmio di Genova e Imperia ) e dallaFondazione CRT (Cassa di Risparmio diTorino)

Il tetto ormai da anni era in stato diavanzato e pericoloso degrado anchestrutturale tanto che le infiltrazionid’acqua interessavano la maggior parte

del sottotetto e le murature a livello delcornicione rendevano di fatto disagevolel’agibilità dell’ultimo piano dove sonocollocate le abitazioni dei padri.

Il degrado dei prospetti riscontrato aponteggi montati si è rivelato anche peg-giore di quanto ipotizzato in fase proget-tuale soprattutto nelle zone della partealta degli stessi. Si riscontravano porzionidi intonaco dilavate fino all’appari zionedella tessitura muraria sottostante, dovutea perdite dai canali di gronda (o man-canza dei medesimi), che avevano cau-sato vie preferenziali di dilavamento cheavevano eroso in profondità sugli into-naci. Il prospetto sul retro nella parte altaaveva perduto buona parte dell’arenino difinitura lasciando apparire la raddrizza-tura sottostante in fase anch’essa di sfari-namento con estesa apparizione di saliigroscopici.

Earno presenti numerose pezze di in-

Il restauro di Palazzo Spinola dei Padri Scolopi ad Ovada Relazione tecnica inerente il restauro dei prospetti del palazzodi Ugo Barani

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tonaco realizzate in malta cementizia che,a causa della scarsa traspirabilità e rigi-dezza del materiale, hanno dato luogoalla comparsa di tracce di umido e estesecavillature e crepe. La parte basamentaledei prospetti era stata realizzata con inap-propriate cartelle in cemento ad imitareun rivestimento lapideo.

I prospetti erano attraversati da nume-rosi cablaggi e tubazioni di vario genereche ne deturpavano la leggibilità. Si ri-scontrava infine un notevole degrado perumidità di risalita, usura e vetustà dellepilastrate in pietra arenaria del portoneprincipale e delle finestre ad esso affian-cate che si collocano in prossimità delterreno.

Si è potuto rilevare che l’origi naria fi-nitura delle superfici dei prospetti, di cuisopravvivono varie parti, si trova sottol’intonaco di cui si è detto, ed aveva unafinitura costituita da un sottile strato inpasta di calce priva di inerti tinteggiata incolore molto chiaro (bianco appena pig-mentato verso il beige) sul quale furonorealizzate a fresco delle decorazioni chesi leggono ancora in molti punti. Quellameglio conservata si trova sopra il por-

tone di ingresso anch’essa realizzata adaffresco su cui si trova la presenza di ri-coloritura forse risalente al subentro degliScolopi agli Spinola.

Interventi eseguitiConsiderando che l’intonaco più re-

cente ormai storicizzato è per la maggiorparte della superfici in buono stato e cheal di sotto di esso non è nota l’estensionedi quello originario, si è optato per con-servare il più recente intonaco laddovepossibile rifacendone le parti ormai irre-cuperabili. Tale approccio è stato peral-tro confermato dal primo sopralluogocon la Soprintendenza che ha confermatoessere giusto l’orientamento assunto,volto a mantenere e restaurare l’intonacopiù esterno che copre parti della fase pre-cedente che con grande probabilità èquella originaria e non deve essere per-duta.

Sono stati demoliti innanzitutto leparti di intonaco cementizie evitando didanneggiare eccessivamente quelle adia-centi in buono stato. Si è quindi effettuatoun trattamento antivegetativo di tutte lesuperfici che presentavano l’ap pa rizionedi vegetazione minore ed alghe. Si è ef-

fettuato quindi il totale lavaggio dellefacciate a bassa pressione per eliminare iresidui polverosi delle precedenti lavora-zioni La fase successiva ha visto la realiz-zazione delle nuove parti di intonaco inmalta a base calce con granulometria del-l’inerte simile a quella esistente.

La coloritura è stata effettuata continte ai silicati pervia stesa di una prepa-razione del medesimo materiale di spes-sore più consistente che permette diottenere un fondo più uniforme e traspi-rante. Questo tipo di tinta garantisce unamaggiore durevolezza, una notevole te-nacia pur permettendo di ottenere effettivelati che conferiscono un aspetto finalemolto simile alle tinte a calce. I colori letonalità e le velatura utilizzate sono stateconcordate con la Soprintendenza previaeffettuazione di apposita campionatura.

La zona basamentale è stata protettacon una zoccolatura in lastre di pietra diluserna con adeguato distacco dal muroretrostante, protette in sommità da unbordo dello stesso materiale La superfi-cie del materiale è lasciata grezza comesi trova comunemente in molti palazzi diOvada..

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La parti in pietrapiù deteriorate delle pi-lastrate del portoned’ingresso e delle fine-stre ad esso affiancatein gran parte sbricio-late, sono state sosti-tuite con nuove dellamedesima pietra arena-ria cavata nei dintornidi Ovada.

Conclusione Ovada è il classico

esempio di città di di-mensioni contenute cheriesce a garantire aisuoi abitanti un note-vole grado di vivibilità,grazie anche all’offerta,nonostante la presentecrisi, di opportunità la-vorative in un’ampiavarietà di settori. Laqualità del costruitoesistente, la sua tutela eil suo restauro, sia chesi tratti dei più notevolimonumenti o dell’edi-lizia di base, è un ele-mento qualificante checontribuisce ad accre-scere la vivibilità di uninsediamento e la suaattrattiva . L’in terventosu palazzo Spinola siinserisce in tale conte-sto e costituisce unpiccolo esempio dicome sia possibile ri-qualificare una piccolaporzione di città tra-mite un’operazionepensata anche nei det-tagli, contestualizzata erealizzata da personalequalificato.

A pag. 281, vista del prospettoSud su P.zza S. Domenico

Alla pag. precedente, vista del pro-spetto Sud su P. zza S. Domenico. Si nota al centro l’originariostemma della Famiglia Spinola, poi trasformato con i simboli dei Padri Scolopi

In questa pag., sotto, dettagliodelle finiture del cornicione restaurato e delle orditure lignee del nuovo tettoin basso, dettaglio dello zoccolo in pietra di Luserna, edel davanzale della finestra inarenaria locale

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Chi erano i goliardi. Nel GlossariumLatinum Gallicum citato dal Du Cangeleggiamo che Goliardi, bufones, jocula-tores iidem sunt [“Goliardi, buffoni egiullari sono la stessa cosa”]. In realtàqualche differenza sussiste. “Lo giullare- a quanto ne scrive Brunetto Latini nelLivres dou Trésor - si è quel che con-versa con le genti con riso e con gioco efa beffa di sé e della moglie e dei fi-gliuoli; e non solamente di loro, maeziandio degli altri uomini”. Oltre tuttojoculatores era un termine generico,come histriones e mimi. Nel novero rien-travano anche quelli che praticavano gio-chi speciali o suonavano con una certamaestria qualche strumento musicale.Boncompagno da Signa ce ne fornisce unelenco: violator, lirator, sym phonator, zi-tharedus, arpator e rotator. Ma eranoprobabilmente deigiullari anche quei mi-lites, qui dicuntur decuria di cui parla Sa-limbene nella suaChronica, se è veroche tra i giochi predi-letti dai signori nelDuecento vi era quellodi “tener corte” o“tener corte bandita”(curiam habere). Inquelle occasioni acorte si giocava, sidanzava, si facevanotornei, corse di cavalli,ci si divertiva al suonodi musici, alle esibi-zioni di cantimbanchi,giocolieri, buffoni,ballerini di corda,istrioni. Cavalieri epopolani, piccoli egrandi indifferente-mente, deposte learmi, si davano ad ba-landum, ad bagordan-dum et cetera omniaalia gaudia facien-dum. Non di rado sidava vita a delle fintebattaliolae, di cui pos-siamo farci un’idealeggendo le pagine in

cui Rolandino racconta della festa tenutanel 1214 dai Trevigiani a Spineta. Quiessi eressero una sorta di fortezza cheaveva per mura dei drappi di seta; a di-fenderle erano duecento nobili donzelle,con corone d’oro al posto degli elmi evesti finemente ricamate invece delle co-razze; dei giovani altrettanto riccamentevestiti davano loro l’assalto con mela-rance, mele, pere, confetti, ampolled’acqua profumata e fiori. Compito pre-cipuo degli joculatores era dunque quellodi rallegrare le brigate con giochi, canti,spettacoli di vario genere: tutto conditodi facezie e lepidezze.

L’arcivescovo di Canterbury Thomasde Cabham, alla fine del XIII secolo, nelsuo libro Summa poenitentiae distin-gueva i giullari in tre categorie: allaprima appartenevano qui transformant et

transfigurant corpora sua per turpes sal-tus et per turpes gestos, vel denudando seturpiter vel inducendo horribiles larvas,et omnes tales damnabiles sunt, nisi reli-querint officia sua [“quelli che trasfor-mano e contraffanno il proprio corpo conturpi movenze e turpi gesti, o denudan-dosi sconciamente o indossando orribilimaschere, e tutti costoro sono destinatialla dannazione, a meno che non desi-stano dalle loro prestazioni”]. Nella se-conda rientravano qui nihil operantur,sed criminose agunt, non habentes cer-tum domicilium; sed sequuntur curiasmagnatum et dicunt opprobria et ignomi-nias de absentibus ut placeant aliis. Talesetiam damnabiles sunt, quia proihibetApostolus cum talibus cibum sumere, etdicuntur tales scurrae vagi, quia ad nihilaliud utiles sunt nisi ad devorandum et

maledicendum [“quelliche non fanno nulla diutile, ma vivono damaudits, senza fissa di-mora e, bazzicando lecorti signorili, sparlanodegli assenti, calunnian-doli e oltraggiandoli,per divertire gli altri.Anche costoro sono de-stinati all’inferno,poiché l’Apostoloproibi - sce di mangiarecon gente del genere.Tali buffoni sono dettivagabondi, poiché nonsono buoni che a divo-rare e maledire”]. Dellaterza categoria, infine,fanno parte quanti di-spongono di instru-menta musica addelectandum homines[“strumenti musicali perdilettare la gente”], esono di due tipi: quelliche sogliono frequen-tare publicas potationeset lascivas congregatio-nes, et cantant ibi diver-sas cantilenas utmoveant homines ad la-sciviam [“pubblichegozzoviglie e licenziose

Un esempio di “spupillazione” goliardica: il caso dell’orsarese Giacomo Monteggio (14 marzo 1678)di Carlo Prosperi

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compagnie, e lì cantano sguaiate canzon-cine per indurre la gente alla dissolu-tezza”] e quelli che cantano le gesta deiprincipi, le vite dei santi ed altrettali temiedificanti ut faciant solatia hominibus velin aegritudinibus suis vel in angustiis[“per confortare la gente nelle sue angu-stie e nelle sue afflizioni”]. Mentre iprimi sono anch’essi condannabili, i se-condi bene possunt sustineri [si possonoben tollerare”] o sono, comunque, pres-soché discolpabili [vicini sunt excusa-tioni].

Il fenomeno dei giullari e degliistrioni si riallacciava a una tradizioneche affondava le sue radici nel mondoclassico, dove le figure dei mimi e dei pa-rassiti, per tacere poi degli istrioni, ab-bondavano. E, nonostante gli anatemidella Chiesa e degli ecclesiasti, nono-stante le sanzioni comminate dalle auto-rità a vario titolo costituite, perdurò pertutto il medioevo e oltre. I “goliardi”sono invece collegati all’istituzione del-l’università e sono fondamentalmente deiclerici vagantes, vale a dire degli studentiche per esigenze culturali erano costrettia spostarsi di città in città, da un ateneoall’altro, per seguirvi i corsi tenuti daimaestri più rinomati. Spesso, per soprav-vivere, ricorrevano ad espedienti nonsempre leciti od erano costretti a cercarsiun mecenate o un protettore. E proprioperché vagabondi, squattrinati e talora ri-

baldi tanto nei loro comportamentiquanto nelle opere che andavano via viacomponendo finirono per essere assimi-lati ai giullari. Emarginati e mal tolleratidalla società in cui vivevano, essi ne de-nunciavano con veemenza le magagne ele contraddizioni, dai vizi del clero allatristitia temporum. Ma, all’occorrenza,dalla satira violenta o ridanciana e dallerampogne moralistiche non esitavano atrascorrere all’adulazione più smaccatanei riguardi dei nobili e dei potenti, di cuiin fondo agognavano i favori e la prote-zione. Orgogliosi della loro cultura, di-sprezzavano e deridevano i “villani”, manello stesso tempo ne condividevano avolte l’indigenza o più di loro si abbruti-vano abbandonandosi senza ritegno aduna vita sregolata, all’insegna della“donna”, della “taverna” e del “dado”.Ne fanno ampia e indubitabile fede i Car-mina Burana, considerati appunto la“Bibbia della goliardia medievale”. Sitratta - come è noto - di 315 testi poeticiin latino e in tedesco medio-alto, compo-sti in area inglese e franco-germanica trail XII e il XIII secolo, ma ritrovati solonel 1801 (alcuni addirittura nel 1901) inun codice illustrato dell’ab bazia benedet-tina di Benediktbeuren, l’antica BuraSancti Benedicti.

Nulla meglio della celebre ConfessioGoliae dell’Archipoeta di Colonia può il-lustrare la condizione del goliardo medie-

vale: Estuans intrinse-cus ira vehementi / inamaritudine loquormee menti. / Factus demateria levis ele-menti, / folio sum si-milis, de quo luduntventi. // Cum sit enimproprium viro sapienti/ supra petram poneresedem fundamenti, /stultus ego comparorfluvio labenti / subeodem aere nunquampermanenti. // Ferorego veluti sine nautanavis, / ut per viasaeris vaga fertut avis./ Non me tenent vin-cula, non me tenet

clavis; / quero mei similes et adiungorpravis. // Mihi cordis gravitas res videturgravis, / iocus est amabilis dulciorquefavis. / Quicquid Venus imperat, labor estsuavis, / que nunquam in cordibus habi-tat ignavis. // Via lata gradior more iu-ventutis, / implico me viciis, immemorvirtutis, / voluptatis avidus magis quamsalutis, / mortuus in anima curam gerocutis [“Ardendo in cuore d’ira veemente,/ amareggiato parlo alla mia mente. / So-stanzïato di lievi elementi, / sembro unafoglia in balìa dei venti. // E mentre è pro-prio di chi ha savio zelo / le fondamentasulla roccia porre, / io stolto assomiglioal rio che scorre / senza mai rispecchiar lostesso cielo. // Alla deriva vado comenave / senza nocchiero, a mo’ di vago uc-cello / per l’aria, né mi tien catena ochiave; / cerco i simili miei, trovo un bor-dello. // L’austerità mi sembra cosa grave,/ amo lo scherzo, dolce più dei favi. / Lafatica di Venere è soave, / pure se impo-sta, il che non san gli ignavi. // Seguo nel-l’ampia via la gioventù, / nei vizi avvolto,scordo la virtù, / più ghiotto di piacer chedi salute, / morto di dentro, affino la miacute”].

La Chiesa cercò in vari modi di impe-dire che i clerici vagantes si trasformas-sero in goliardi, minacciando anzitutto diprivarli di ogni privilegio ecclesiastico.Tra le disposizioni sinodali si legge in-fatti: Item praecipimus quod Clerici non

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sint joculatores, Goliardi, seu bufones,declarantes, quod si per annum illamartem diffamatoriam exercuerint, omniprivilegio ecclesiastico sint nudati, etetiam temporaliter gravati, si moniti nondestiterint [“Ordiniamo inoltre che i chie-rici non facciano i giullari, i goliardi ov-vero i buffoni, dichiarando che, qualoraabbiano esercitato per un anno quell’artediffamatoria, siano spogliati di ogni privi-legio ecclesiastico, ed anche temporal-mente puniti, se, ammoniti, nondesisteranno”]. Ai goliardi erano pure im-pedite le questue e si invitavano espressa-mente i sacerdoti a non permettere lorodi predicare né in chiesa né all’aperto enemmeno di passare di porta in porta aoffrire indulgenze. In particolare il con-cilio di Treviri del 1227 prescrisse ai sa-cerdoti di non consentire a trutannos[“mendicanti simulati”], aut vagos scho-lares, aut goliardos di cantare versussuper Sanctus, Agnus Dei, in Missis velin divinis Officiis - cosa peraltro vietatadal canone - per non scandalizzarel’uditorio (et scandalizantur homines au-dientes).

2 - Un po’ di etimologia. Anteriore aiCarmina Burana è comunque un ano-nimo poema satirico del XII secolo, dichiara impronta goliardica, che porta il ti-tolo di Apocalipsis Goliae. Pubblicato nel1928 da Karl Strecker, esso si presentacome una parodia dell’Apo calisse gio-vannea che chiude il Nuovo Testamento.Ma chi si celava sotto lo pseudonimo diGolia? Con precisione non sappiamo. Sì,certo, Golia è il noto gigante biblicosconfitto e ucciso da Davide: un perso-naggio che, per la sua tracotanza, nell’im-maginario medievale divenne un’ipostasidel demonio. Ma sul termine goliardusinfluì l’assonanza, fin troppo facile, traGolia e gula (“gola”), favorendo una in-terpretatio nominis che dei goliardi met-teva chiaramente in risalto (e in cattivaluce) la voracità e, in particolare,l’inclinazione alla crapula e all’ubria-chezza. La gola era infatti uno dei vizi ca-pitali, rappresentato negli affreschi goticie tardogotici come un giovane e obesopaesano o come una prosperosa ragazzacon una caraffa di vino in una mano e un

cosciotto di carne nell’altra, in groppa adun lupo o ad un porco simboleggianti lapulsione bulimica che, al pari degli altrivizi, sospinge inesorabilmente l’animaverso le fauci spalancate del leviatano in-fernale. Silvestro Giraldo di Cambrai, nelsuo Speculum Ecclesiae, 4, 16, è forse ilprimo a delineare una connessione tra“Golia” e “gola”: Parasitus quidam - egliracconta infatti - Golias nomine, nostrisdiebus gulositate pariter et dicacitate fa-mosissimus, qui Gulias melius, quiagulae et crapulae per omnia deditus, dicipotuit, litteratus tamen affatim, sed necbene morigeratus, nec disciplinis infor-matus, in Papam et curiam Romanamcarmina famosa pluries et plurima, tammetrica quam rythmica, non minus impu-denter quam imprudenter evomuit [“Unparassita di nome Golia, famigerato aigiorni nostri non meno per la golosità cheper la mordacità, il quale si sarebbe po-tuto chiamare più appropriatamenteGulia, giacché in ogni occasione si ab-bandona alla gola e alla crapula, tuttaviaabbastanza istruito, se pur non certo unmodello di virtù né informato a buoniprincipi, con impudenza non minore del-l’imprudenza più volte vomitò carmiscandalosi a iosa, tanto metrici quanto rit-mici, contro il Papa e la curia di Roma”].

Non tutti, però, concordano sulla de-rivazione di goliardus da Golias (e dagula). Soprattutto in area anglosassone,dove prima E. G. Fichtner [The Etymo-logy of Goliard, in “Neophilologus” 51(1967), pp. 230-237], poi A. G. Rigg[Golias and Other Pseudonyms, in “Studimedievali”, n. s., 18.1 (1977), pp. 65-109] e infine J. Mann [Giraldus Cam-brensis and the Goliards, in “Journal ofCeltic Studies” 3 (1981), pp. 31-39]hanno convincentemente dimostratol’indipendenza dei due termini. Ma pro-prio quest’ultimo studioso ha ricordato[J. Mann, La poesia satirica e goliardica,in G. Cavallo, C. Leonardi, E. Menestò(a cura di), “Lo spazio letterario del Me-dioevo. I. Il Medioevo latino”, vol. I, “Latradizione del testo”, t. II, Roma 1993,pp. 73-109] un’os servazione di GastonParis, che nel 1889 aveva richiamatol’attenzione sui difficili rapporti tra SanBernardo e Pietro Abelardo. In una let-

tera inviata dal cistercense a papa Inno-cenzo II, Abelardo era definito spregiati-vamente come “novello Golia”. DaWalter Map (De nugis curialium I, 24)sappiamo che, in questa lettera, letta adalta voce alla tavola di Thomas Becket(arcivescovo di Canterbury ai tempi di reEnrico II Plantageneto), si diceva espres-samente quod magister Petrus instarGolie superbus esset [“che il maestro Pie-tro fosse superbo alla stregua di Golia”].Ma i seguaci di Abelardo, che non cela-vano la loro ostilità verso San Bernardo ei Cistercensi, in segno di sfida fecero diquel nome ingiurioso la loro bandiera esi proclamarono appunto “goliardi”.

Questi clerici ribaldi [...] de familiaGoliae si divertivano a comporre versusridiculos ed erano famosi per i loro in-ganni e per i loro ricatti, soprattutto neiriguardi delle donne più sprovvedute,tanto che Alain Chartier nel suo poemaintitolato La belle dame sans mercy af-ferma che Faulx amoureux au temps quicourt / servent tous de Goliardie [“Algiorno d’oggi i falsi amanti / son tutti alservizio di Goliardia”]. In una poesia diGuglielmo della Torre si legge: Se gar-dan et an paor / dels lairos et des tri-chors, / an des fals galliadors las domnas[“Si guardano ed han paura / dei ladri edei truffatori, / ma anche dei falsi goliardile donne”]. Gouliardise divenne sino-nimo di “mordacità” e di “canzonatura”.Nei concili di Tours e di Sens si pre-scrisse ai vescovi di far tosare e radere igoliardi ita quod non remaneat in eis ton-sura clericalis. E gli studenti universitaritardarono a scrollarsi di dossol’infamante nomea, anche se, col tempo esoprattutto col venir meno dei clerici va-gantes, a seguito dell’istituzionalizza-zione degli atenei e della stabilizzazionedegli insegnanti, dell’antica ribalderia so-pravvissero solo vaghe tracce. Goliardiapassò quindi a designare la spensierata al-legria che suole accompagnare la giova-nile stagione degli studi universitari edegli amori, secondo quanto professal’inno internazionale dei goliardi: Gau-deamus igitur juvenes dum sumus. / Postiucundam iuventutem, / post molestamsenectutem, / nos habebit humus [“Siamogiovani: godiamo! / Dopo la gaia giovi-

A pag. 284, una rappresentazionedel XVII secolo di un giullare russoda Wikipedia L’enciclopedia libera

Alla pag. precedente, la grandescena della Fontana della Giovinezza affrescatanella Sala Baronale del Castello della Manta.

Nella pag. a lato, una cantinamedievale tratta dalla copertinadei Camina Burana nell’edizionedel complesso Mondo Antiquosotto la direzione di Bettina Hoffmann.

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nezza / e la sgradevole vecchiezza / fini-remo nella terra”]...

A lungo andare, via via che il con-trollo della vita universitaria da partedelle autorità sia politiche che religiose sifece più stringente, dell’intemperanzad’un tempo ben poco sopravvisse: si ebbetutt’al più qualche occasionale rigurgitodi débauche, qualche circoscritto episo-dio di ribellione, mentre la scurrilis dica-citas si ridusse a innocuo sberleffo, aparodia coprolalica, a scherzo (magari dicattivo gusto) più ozioso che oltraggioso,con abuso a volte del latino declinato inchiave maccheronica. Ne proponiamo unesempio: Quo usque tandem, Catilina, /pulieris culum cum carta velina? / Car-tam velinam si rumpabis, / ditum inculum penetrabis. In questo caso, nonserve tradurre. Le parolacce, del resto,non erano privilegio esclusivo degli sco-lari, se è vero che - a quanto si legge nel-l’anonima Ligue des nobles et des prêtrescontre les peuples et les rois, Paris 1820,t. I, p. 179 - già nel Cinquecento i giovanisignori assuefatti à la fétardise (all’infin-gardaggine) dès qu’ils sont néz, c’est-à-dire, qu’ils apprennent à parler, ils sont àl’école de gouliardie et des viles paroles.Bisognerà aspettare i moti rivoluzionaridel 1820-21, del 1831 e, soprattutto quellidel 1848 per vedere riemergere, questavolta in forma agonisticamente positiva,lo spirito ribelle dei goliardi. Di cui qual-cuno ravvisa l’impronta anche nel Ses-santotto. Ma questa, almeno per noi, è

tutt’un’altra storia. Il tema della goliardiaaffiora, se mai, in toni nostalgici, nellacommedia Addio, giovinezza! (1911) diSandro Camasio e Nino Oxilia, nonchénella popolare canzone Piemontesinabella, ma, poiché nulla vi permane del-l’aria scanzonata ed eslege delle origini,bisogna ammettere che, anche in questicasi, siamo di fronte a un’ombra o aun’eco appena di quello che veramentefu.

3 - La spupillazione dei “beani”. Inepoca moderna gli studenti universitaripresero a riunirsi in accademie, ma già inprecedenza essi si raggruppavano in as-sociazioni a carattere iniziatico, per acce-dere alle quali i novizi dovevanosottostare a vari rituali, talora scherzosi,non di rado anche umilianti. Le matri-cole, dette con voce gallica bejaunes, dabec-jaune, “becco-giallo”, quale hannoaviculae quae nondum e nido evolarunt[gli uccelletti che non sono ancora volativia dal nido”], erano spesso sottoposte agravosi e incresciosi taglieggiamenti: apagare cioè il bejaunium o bejannum: loscotto dell’ammissione. Così, ad esem-pio, a Parigi; così a Vienna. La defini-zione di beanus era per così dire iscrittanell’acrostico da cui il nome derivava:Beanus Est Animal Nesciens Vitam Stu-diosorum. E, stando al Du Cange, Novel-lum scholasticum quem Bejanumvocabant, recipere, in socium admittere[“accogliere, ammettere tra i soci lo sco-laro novello che chiamavano Bejanum”]

si diceva appuntobejannare o bejan-nizzare.

Numerosi furonogli interventi delleautorità per elimi-nare o almeno limi-tare il fenomeno.Negli Statuti medie-vali dell’AccademiaViennese ad un certopunto si legge: Itemquod nullus praesu-mat supervenientesnovos, quos Beanosvocant, indebitis qui-buscumque exactio-nibus gravare, aut

aliis iniuriis aut contumeliis molestare[“Nessuno inoltre presuma di aggravaregli ultimi arrivati, che chiamano Beani,di indebite esazioni di qualsivoglia ge-nere o molestarli con altre ingiurie o con-tumelie”]. E negli Statuti dell’Universitàdi Tolosa del 1401: Ordinamus quodamodo, cum contingat aliquem de novointrare ac recipi in collegio praedicto,pro suo novo ingressu, sive nomine Be-jauni, aut pro suo principio lecturae, autdisputationis, aut alio quaesito colore,non tallietur [“Ordiniamo che d’ora inavanti, qualora accada che qualcuno entriper la prima volta e sia accolto nell’Uni-versità, non venga sottoposto a taglie peril suo nuovo ingresso ovvero a titolo dimatricola, o per la sua prima lezione oper la sua prima disputa o sotto qualsiasialtro pretesto”]. A Parigi - ma si può pen-sare, senza tema di sbagliare, anche al-trove - la matricola (o beano) al suoprimo ingresso nell’università venivafatta oggetto di scherzi, talora piuttostopesanti, “battezzata” con l’acqua, lordatao cosparsa di strame o di altra materia. Ele insolenze si sprecavano tam in capi-tulo, in dormitorio, in parvis scholis, injardinis, quam ubiubi, et tam de die quamde nocte. In alcuni collegi si eleggeva ad-dirittura uno quem Abbatem Bejanorumvocabant.

Naturalmente si cercò di porre unfreno agli eccessi, vietando espressa-mente rituali iniziatici del genere: perquemcumque modum ludi, vel per que-

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cumque tactum mediatum vel immedia-tum aquae, straminis, vel alterius rei. Sifiniva nondimeno per tollerare o conce-dere qualcosa: la matricola era tenuta adoffrire un piccolo obolo oppure un mode-sto pranzo (unam moderatam refectio-nem) ai suoi conterranei (illis de suanatione). In tal modo otteneva l’eman -cipazione o - secondo il lessico del -l’epoca - la “spupillazione”. Una volta“pelata”, alla matricola veniva rilasciatauna pergamena che attestava l’avvenutopagamento per impedire che altri studentianziani pretendessero da lei ulteriori pre-stazioni. Ebbene, queste pergamene, re-datte in un latino ora ampolloso oramaccheronico e talvolta infarcito di ame-nità, erano gli antenati dei più recenti“papiri”, corredati di disegni sconci, stro-fette triviali o frasi ironiche, che, fino aqualche anno fa, costituivano il lasciapas-sare o il salvacondotto delle matricoleuniversitarie. Nel Veneto, in particolare aPadova e Vicenza, sopravvive la tradi-zione di affiggere in città, per festeggiarei nuovi laureati, i cosiddetti “papiri di lau-rea” che ne immortalano in modo scher-zoso e non di rado “spinto” le gestagoliardiche.

Ordinariamente la matricola era con-siderata minus quam merdam. Lo stu-dente del secondo anno era detto“fagiolo” (flatulentissimus famelicus tol-leratus sed necessarius faseolus); quellodel terzo era invece una collenda co-lumna, quello del quarto un nobilis antia-nus. Al vertice stavano il divinuslaureandus e gli studenti fuori ruolo (si-derei extracursus). Questa gerarchia, conle relative distinzioni e denominazioni, siè andata via via definendo in epoca mo-derna, ma in realtà ben poco sappiamodella vita associativa universitaria traCinque e Settecento. Della goliardia, checertamente continuò, sia pure in sordina,il suo corso o la sua deriva esistenziale, cisfugge l’evoluzione, seppure da docu-menti notarili o da altre testimonianze in-dirette traspaiano informazioni checonfermano la persistenza della classicatriade - la donna, la taverna e il dado -quale croce e delizia degli studenti diquesto periodo. I giovani monferrini,salvo rare eccezioni, erano obbligati a

frequentare l’università di Pavia. E pro-prio da Pavia ci perviene il curioso docu-mento - una vera e propria rarità - chepubblichiamo; si tratta del “privilegio”che attesta la “spupillazione”, avvenutanel 1678, di un giovane orsarese di buonafamiglia: Giacomo Monteggio.

4 - Il “privilegio” di Giacomo Mon-teggio di Orsara. Giacomo - stando allenotizie che abbiamo raccolto nell’Archi-vio Vescovile di Acqui - era nato a Orsarail 31 agosto 1654 dal signor Antonino eda donna Orsolina (o Ursina), originari diGavazzana, in diocesi di Tortona, e fubattezzato il 2 settembre dallo zio donGiovanni Battista Monteggio, dal 1644prevosto di Orsara. Fu suo padrinol’illustre medico rivaltese Giovanni dellaTorre, madrina donna Eleonora, mogliedi Angelo della Torre. Era il quintogenito,in quanto prima di lui Orsolina avevadato alla luce Beatrice (nata l’11 febbraio1646 e battezzata il 16 dello stesso mese),Rosina Bernardina (nata il 31 marzo1647 e portata al sacro fonte il 3 aprile diquell’anno), Jacobina (che fu battezzataalla nascita, il 13 giugno 1650, dall’oste-trica Maria, moglie di Lorenzo Ricci, perimminente pericolo di vita, ma ricevetteil nome il 18 giugno, suscepta dallo ziodon Simone Monteggio e da donna Doro-

tea, moglie di Antonio Tarta), Bartolo-meo (nato e battezzato il 28 gennaio1653: padrino fu Domenico di GiovanniCanegalli di Sarezzano e madrina Augu-sta Maria, moglie dell’orsarese GiacomoVacca). Seguirono il 21 maggio 1657Giovanni Battista, tenuto a battesimo ilgiorno seguente da Angelo Torre e dadonna Susanna, moglie del medico Gio-vanni Torre, rivaltesi entrambi, e il 12 no-vembre 1659 Francesca Maria, che fubattezzata solo il 28 novembre, scortataal sacro fonte dallo zio don Simone Mon-teggio, arciprete di Sarezzano (diocesi diTortona).

Con tutta probabilità Antonino si eratrasferito nel Monferrato al seguito delfratello, parroco di Orsara, che in tantianni di cura aveva saputo guadagnarsi lastima e l’affetto della popolazione, alpunto che, alla sua morte (14 giugno1673), gli agenti della comunità, a nomedi tutti i parrocchiani e confortati anchedall’espresso sostegno del marchesePaolo Vincenzo Ferrari, dominus loci,supplicarono il vescovo di Acqui di chia-mare a succedergli il fratello don Simone,lui pure “di ottimi costumi”. Cosa chemonsignor Bicuti si affrettò a fare, forseanche confidando nella preparazione cul-turale di don Simone, che era dottore.Non ebbe a pentirsene, in quanto il nuovo

Sotto, un quadro di Dosso Dossi.

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parroco proseguì, con zelo reli-gioso e cristiana pietà, sulla lineatracciata dal predecessore, cosìche i due fratelli Monteggio si di-stinsero, per esemplarità di co-stumi, nel panorama non sempreconsolante del clero acquese nelXVII secolo.

Di Giacomo Monteggio nonabbiamo, per ora, altre notizie al-l’infuori di quelle provenienti dal“privilegio” che pubblichiamo eche, data la natura scanzonata eironica del testo, andrà preso -come si suol dire - con le pinze.Esso però documenta che a Paviavi era una “colonia” di studentialessandrini e monferrini, che co-stituivano una “nazione” (vale adire un gruppo cementato dalla co-mune origine geografica) dotato di unacerta autonomia e non privo di organiz-zazione né di spirito solidale. Immagi-niamo che a Giacomo, rampollo di unanobile famiglia dell’area tortonese, gio-vassero, nella circostanza, l’espe rienza ele conoscenze dello zio, forse anch’eglilaureato a Pavia, ma certamente nel Gin-nasio Ticinese poté contare sull’appoggioe sull’amicizia dei suoi conterranei che làstudiavano e con un certo garbo aderi-vano alla tradizione goliardica del luogo,contribuendo a perpetuarla.

Il testo, che proponiamo sia nellaveste linguistica originaria (un latinoostentatamente enfatico nella parte inprosa, irriverente e scanzonato nella partein versi, in distici elegiaci) sia in tradu-zione, ci è stato fornito dall’amica PaolaPiana Toniolo (che ringraziamo); neignoriamo però la provenienza e di que-sto ci scusiamo con i nostri lettori. La suaautenticità è nondimeno fuori discussionee non è da escludere che, leggendo que-ste righe, qualcuno si scopra in grado didarci ulteriori lumi. La traduzione è ingenere letterale, ma, al posto degli esa-metri e dei pentametri originari, abbiamopreferito ricorrere all’endecasillabo, checi è più familiare. Un vocabolo di cui iltesto latino, per ragioni di convenienza,ci dà soltanto l’iniziale seguita tra trepuntini (B...) allude, in maniera abba-stanza trasparente, all’atto sessuale, ma

finora, a dispetto delle nostre ricerche,non siamo riusciti a individuarlo. Trattan-dosi verosimilmente di una parola sdruc-ciola di tre sillabe, tale cioè da costituireun piede dattilico, avremmo potuto tra-durla con “fóttere”, ma, per esigenze me-triche, abbiamo invece optato per ildeverbale “bùggera”, meno noto e menocomune, fors’anche un tantino improprio,e tuttavia non privo di attestazioni lettera-rie. Ci scusiamo se talune arditezze o cru-dezze di linguaggio turberanno le mentidi taluno: non era nostra intenzione scan-dalizzare. Il documento è quello che è e,per il resto, facciamo nostro il motto in-glese dell’ordine della Giarrettiera: honisoit qui mal y pense.

***Privilegium D[omini] Iacobi Mon-

tigij ex oppido Ursarie

Nos Nicolaus Vechius Inclitae Na-tionis Alexandrinae Monferrinaeque

Consiliarius Maximus etc.

Pulcherrimus et Amatissimusd[ominus] Jacobus Montigius ex OppidoUrsariae Genere insignis, virtutibus ex-cellens, omnique honore tam pro pulchri-tudine corporis quam pro pluribus aliisingenij praerogativis et qualitatibus di-gnus, cupiens in hoc almo TicinensiGymnasio medicinae scolaris esse ad nosdevenit exorans, ut inter huius in[c]litaeNationis scolares in hoc almo Gymnasio

degentes, admittamus; QuapropterNos hanc requisitionem uti iustamattendendam esse putavimus, cumiusta petenti non sit denegandus as-sensus, immo prestandus favor;Illum itaque praecedente prius de-bita spupillatione ab ipso liberalis-sime facta, inter praedictaeNationis scolares recensemus et utitalem nominamus et ab omnibus etsingulis haberi volumus et hono-rari iubemus, illumque provectumdeclarando, nec non illi conce-dendo omnia privilegia more solito[nihil] amplius detrahentes, astomnia si quae sunt superaddentes;Illum hortamur, immo praecipi-mus, ut pro honore nostrae Natio-nis sit semper paratus,promptusque, ne illius iurisdictio-

nem minui sinat, sed ampliare studeat,utque sese in hoc libentius gerat, etultro, sequens illi concedimus privile-gium prout ecc., Illique concedimus fa-cultatem arma quaeque deferendi, nonsolum hic, sed ubique locorum, ita utomnibus libertatibus, exemptionibus, fa-voribus et gratijs, quibus inclitae huiusnostrae Nationis scolares utuntur, et utipotuerunt plene fruatur etc.

Stilum, pistolas, s[c]lopos utriusque misuraeArmaque, quae velit nocte dieque ferat

Sbirris ossa caput rumpens ad usque medullamSi nostris iussis mox obedire nolint

Usque ad campanam matutinis dormiat horisAc omni mane de vite gustet aquam.

In scolam veniens sbragies, faciesque fracassumEt prius, ac repetas B... vivat Io.

Vivat Io repetant concorda voce sodalesArti tam dignae ne minuatur honor

Dum vero venient magna comitante catervaDoctores, repetas nomina quaeque sua

Et plaudes iubilans sed statim grides abassumNe aures fastidiat lectio longa nimis

Ad murram biscottinos, seu ludas ofellasEt vini blanci pocula plura bibas

Nec nummos umquam cauponi praebeas ullosPuttanisque minus omnia namque licent

Scolari si qui sgrident infunde sgrognonosNam septem pugnos singula verba volunt

Calcia Villanis, bellis da baccia puellisSi bruttae mittas alla malora statim

Foemineum si quaeris sexum foemina presto

A lato, un papiro rilasciato dalPontefice massimo dell’ Università di Padova.

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Sit cum qua tota nocte iocare potesArs vero decanum [?] iam B... nobilis immo

Quam longe reliquis clarior est iterumNobilis hanc artem debet scolaris amare

Quaeritur in nobis ut pretiosa satisHac oculi fiunt clari morbusque vitatur

Gallicus, et pestes, coetera quaeque fugatAd pontem vadas, videas et saepe Ticinum

Omnibus atque vijs B... viva grides.Per calles fructus comedas quicumque placebunt

Nec sit respectus nam haec bizaria placet.Verbaque spurca potes semper profferre bravando

Et compellando semper ubique BacumComponas bellos cantus allegrus, et arma

Dispares, subito sed caricare redi.Pupillis toccare potes, vultumque, culumque

Et dare bochino baccia mille potesSic scolaris eris tanto de nomine dignus

Debitus atque tibi sic tribuetur honor.

Quod si ut supra dictum est se geratsciat se lauream gloriae consequturumtam hic, quam ubique locorum; Illi autemmandamus ut debeat residere in hac almauniversitate debitis studiorum tempori-bus, et multo magis si consiliarius erit,cum dedecus sit scolarem scolas non fre-quentare, quod in tantae indolis iuvenenon credimus, de quibus omnibus a Can-cellario nostro hoc ei sequens dari iussi-mus privilegium; In quorum omniumfidem etc. Datum ex Regio TicinensiGymnasio die decima quarta mensisMartij hora iuridica anni millesimi sex-centesimi septuagesimi octavi etc.

Johannes Andreas RubeusCancellarius.

Privilegio del signor Giacomo Mon-teggio dell’oppido di Orsara

Noi Nicolao Vecchio, massimo con-sigliere dell’inclita cittadinanza ales-

sandrina e monferrina ecc.

Il bellissimo ed amatissimo signorGiacomo Montigio dell’oppido di Or-sara, di stirpe illustre, di virtù eccellentee degno d’ogni onore tanto per la bel-lezza del corpo quanto per diverse altreprerogative e qualità d’ingegno, deside-rando essere scolaro di medicina in que-sto almo Ginnasio Ticinese, venne da noipregando instantemente di ammetterlo

tra gli scolari di questa inclita cittadi-nanza che vivono in questo almo Ginna-sio. E Noi pertanto abbiamo ritenuto diaccogliere, in quanto giusta, questa ri-chiesta, non dovendosi negare l’assenso,bensì dimostrarsi favorevoli, a chiavanza giuste richieste. Lo iscriviamodunque, previa debita spupillazione dallostesso liberalissimamente fatta, tra gliscolari della predetta cittadinanza ecome tale lo nominiamo e vogliamo cheda tutti quanti e singolarmente sia consi-derato e ordiniamo che sia onorato, di-chiarandolo provetto e concedendoglimore solito tutti i privilegi senz’alcunaulteriore restrizione, aggiungendo anziquanto altro è possibile. Lo esortiamo,anzi gli prescriviamo che, per l’onoredella nostra cittadinanza sia semprepronto e disposto a non permettere chene venga sminuita la giurisdizione, mas’impegni ad ampliarla, e perché più vo-lentieri a questo si dedichi, e spontanea-mente, gli concediamo il conseguenteprivilegio secondo ecc., e gli concediamola facoltà di portare ogni tipo di arma,non solo qui, ma per ogni dove, così chefruisca appieno di tutte le libertà, le esen-zioni, favori e grazie di cui fanno edhanno potuto fare uso gli scolari di que-sta nostra inclita cittadinanza ecc.

Porti il pugnale, le pistole, schioppi /lunghi e corti e le armi che desidera /giorno e notte, rompendo e testa ed ossa/ fino al midollo agli sbirri restìi / ad ob-bedire a quanto prescriviamo. / Dorma ilmattino fino a quando suona / la campanae degusti ogni mattino / succo di vite. Edal tuo ingresso in scuola / con gran fra-casso sbraiterai dapprima / e poi ripete-rai Viva la bùggera / ed i sodali ad unavoce Evviva / ripeteranno, acché puntonon scemi / a sì degna arte il convenienteonore. / Quando poi da gran seguito scor-tati / giungeranno i dottori, d’ognund’essi / ripeterai i nomi applaudendo / fe-stoso, salvo subito gridare / Abbasso,acché lezione troppo lunga / non abbia a

infastidire l’uditorio. / Gioca allamorra biscottini e offelle / e bevi piùbicchieri di vin bianco / senza versareall’oste alcun denaro / e tanto menoalle puttane: tutto / allo scolaro è con-sentito. Molla / sgrugnoni a chi ti

sgrida: ogni parola / esige infatti settepugni in cambio. / Ai villani da’ calci,baci invece / alle belle fanciulle e senzaindugio / manda le brutte alla malora. Atua / disposizione sempre sia una donna,/ se una donna desideri con cui / tutta lanotte sollazzarti: invero / la bùggera è benarte da decani, / arte nobile ed anzi digran lunga / più delle altre apprezzata edunque deve / quest’arte amare il nobilescolaro. / Tra noi si cerca come assai pre-ziosa: / chiari si fanno, grazie ad essa, gliocchi / e dal morbo francese si rifugge, /essa caccia le pesti e ogni altro male. /Va’ spesso al ponte e visita il Ticino, /grida Viva la bùggera per tutte / le vie ecammin facendo mangia tutti / senza ri-guardo i frutti a te graditi: / è questa, in-fatti, bizzarria che piace. / E puoibravando proferire ognora / parole spor-che e sempre in ogni dove / apostrofandoBacco allegramente / bei canti intona escarica le armi, / ma subito ritorna a cari-carle. / Puoi toccare ai fanciulli e volto eculo / e mille baci dare alle boccucce /loro, così sarai scolaro degno / di tantonome e così ben potrai / d’onore avere ildebito tributo.

E sappia che, se farà come si è dettosopra, conseguirà la laurea della gloriatanto qui che in ogni altro luogo. Gli rac-comandiamo però di risiedere in questaalma università nei tempi debiti deglistudi e molto più se sarà consigliere,giacché è di disdoro per gli scolari nonfrequentare le scuole, cosa che non rite-niamo credibile in un giovane di indolesì buona, e relativamente a tutte questecose abbiamo ordinato al nostro cancel-liere di dargli questo conseguente privile-gio. In fede di tutto ciò ecc. Dato dalRegio Ginnasio Ticinese il 14 marzo1678, in ora di udienza ecc. Il cancelliereGiovanni Andrea Rossi.

A lato, il Castello Malaspina ad Orsara in una foto di Peterannapartecipante al Concorso Fotografico dei Comuni Italiani,edizione 2009.

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Quando la contessa di Castiglione il15 gennaio 1894 si trasferì a rue Cambon14, il generale Louis Estancelin, l’anticoinnamorato, l’unico a restarle fedele, larimproverò di essersi seppellita in una to-paia. Si faceva portare i pasti in cameradal ristoratore sottostante che le aveva af-fittato l’apparta mento, non vedeva piùnessuno ed aveva fasciato di nero tutti glispecchi e le fotografie e i dipinti che siera fatta fare dai pittori e dai fotografi piùprestigiosi di Parigi.

I giornali francesi non le risparmia-vano cattiverie dozzinali e lei cercò, inuna intervista a L’Evénement, di ristabi-lire la verità. Perché soffermarsi sulla suadecadenza ed offendere chi aveva servitola propria patria e un po’ anche la Fran-cia?

Virginia voleva solo il silenzio el’oblio, mettere in luce sì la sua parte neifatti del 1859 e del 1860, ma negava de-cisamente di essere stata l’amante di Na-poleone III, di Vittorio Emanuele,Rothschild, Poniatowski, Nigra ed infi-niti altri. Ma la “Divina Contessa” è statadavvero determinante nell’entrata inguerra della Francia a fianco del Pie-monte contro il gigante austriaco nella se-conda Guerra d’Indipendenza?

Gli storici su questo punto non sonod’accordo. Chi nega decisamente il suoruolo di avvenente spia al servizio di Ca-vour, altri lo ammette. Senz’altro la mi-steriosa sparizione delle sue carte, i furtisu commissione per distruggere le mis-sive più compromettenti, hanno giocatoun ruolo importante nell’avvolgere di mi-stero la sua figura.

Molto è stato scritto sull’amante del-l’imperatore, sulla donna più bella delsuo tempo, che si presentava ai balli sfi-dando la palese ostilità dell’imperatriceEugenia, a volte con vestiti trasparentiche poco lasciavano all’immagina zio ne,altre volte in abito monacale che le la-sciava scoperto il viso bellissimo.

Senz’altro all’epoca della pace diPlombieres li aveva tutti ai suoi piedi,Napoleone, Vittorio Emanuele. Cavour,lontano cugino, l’aveva indotta a trasfe-rirsi a Parigi e Costantino Nigra era statomolto abile a presentarla nel posti giustie a far crescere attorno a lei un alone di

curiosità e di mistero. Cavour infatti scri-veva di aver arruolato la Contessa e inuna lettera a Costantino Nigra “ Se noial-tri facessimo per noi, cioè per il nostropersonale interesse, quello che stiamo fa-cendo per l’Italia, saremmo delle bellebirbe, anzi i peggiori porcaccioni delmondo. Ne conviene caro Nigra?” (Maz-zucchelli)

Ed alla cugina scriveva: “…… riu-scite, cara cugina. Usate tutti i mezzi chevi pare, ma riuscite.” (Pettenati). Nicchiaera stata “arruolata” alla causa piemon-tese da Cavour e Vittorio Emanuele attra-verso i buoni uffici dello zio, il generaleCigala, che lei chiamava affettuosamente,alla genovese, “Barba Cigala”.

Cigala era zio di Francesco, marito diVirginia, Francesco Verasis Asinari Contedi Castiglione e di Costigliole-Tinella,Grande Scudiere e Direttore delle RealiScuderie, cugino germano della mogliedel generale Enrico Morozzo della Roccache, nella sua biografia a proposito dellatragica morte di Francesco durante il cor-teo dei Principi Reali in occasione delmatrimonio del Principe Amedeo il 30maggio 1868, scriveva: “Il Conte Fran-cesco era il marito della bella MarchesinaOldoini, che tanto fece parlare di sé du-rante il secondo Impero e della quale eraancora innamorato, quantunque da parec-chi anni ne vivesse diviso.” Virginia sitrovò così a venticinque vedova con unfiglio piccolo e ormai tagliata fuori dallaCorte Imperiale. Rimaneva comunquel’amante di Vittorio Emanuele!

Nicchia dunque per gli intimi: sembrache il soprannome, glielo avesse trovatonientemeno che Massimo D’Azeglio, chel’aveva conosciuta fanciulla a Firenze,nella casa dei nonni materni, i Lamporec-chi, ed era rimasto colpito dal suo fa-scino. Nel palazzo fiorentino di RanieriLamporecchi, nonno e tutore di Virginia,erano di casa i Bonaparte che abitavanoun’ala del suo palazzo. (Grillandi)

Però Virginia era innamorata della te-nuta di Spezia, da cui venivano gli Ol-doini: la famiglia del padre di Virginia, ilmarchese Filippo Oldoini, per gli spez-zini “Rapalin”, la nonna, era “Rapalina avecia” e di conseguenza, Nicchia era “ àRapalina”. Il luogo della sua infanzia a

cui era più legata era una antica torre chegli Oldoini possedevano vicino al mare“Il Torretto”. Tanto aveva pianto e fattomoine, che la nonna, la “Rapallinavecia”, un Natale le aveva fatto trovarel’atto di donazione del torrino sul cami-netto.

La villa degli Oldoini era dotata di ungrande parco digradante fino al mare cheVirginia chiamava la “sua montagna”.

Quando i militari glielo espropriaronoper completare la costruzione dell’Arse-nale militare, Virginia intraprese unalunga battaglia legale che, nonostante lesue amicizie, perse e contribuì a dissan-guare le sue risorse economiche.

Fu proprio nel 1853, a Spezia, cheVirginia a soli diciassette anni conobbe ilmarito Francesco Verasis, conte di Casti-glione, perché la Regina Maria Adelaideaveva bisogno di fare bagni di mare e lacorte sabauda si trasferì sul Golfo spez-zino. Virginia giovanissima e bellissimaera al centro dell’attenzione e in capo apochi mesi si ritrovò, contessa a Torino,ammirata da tutta la città che contava!

Torino fu il trampolino di lancio perla giovane contessa, anche se la parteci-pazione alle feste portò praticamente allarovina il marito. Probabilmente per of-frire ai coniugi Verasis la possibilità dirimettere in ordine le finanze del ConteFrancesco, che avevano subito un durocolpo a seguito della frequentazione dellaCorte Sabauda e delle perdite al gioco,Cavour propose alla cugina di recarsi aParigi dove, grazie alla sua bellezza edalla sua intraprendenza, poteva conqui-stare l’Imperatore alla causa Risorgimen-tale.

Negli ultimi mesi di vita, dopo avertentato invano di mettere ordine e di pub-blicare le sue memorie, Virginia riempìcon la sua calligrafia divenuta indecifra-bile alcuni foglietti del suo taccuino eprecisò le sue ultime volontà: “senzafiori, né candele, né croci” voleva esseresepolta con ai piedi i suoi fedelissimi ca-gnolini, Casino e Sanduga, e per megliofissare la volontà di non lasciare eredielencò i nomi di coloro che non dove-vano assolutamente entrare in possessodei suoi beni: no Oldoini, no Rapallini,no Lamporecchi, no Castiglione, no Co-

Hanno origini ovadesi i Tribone “parenti serpenti”della Contessa di Castiglionedi Mauro Molinari

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stigliole, no Asinari, no Verasis. Fatalitàvolle che dimenticasse i Tribone, lonta-nissimi parenti degli Oldoini, così a loroandò la cospicua eredità in immobili egioielli.

Ed i Tribone, “parenti-serpenti”, di-sattesero tutte le sue volontà: la camiciada notte di Compiègne nella notte fataledel 1857, i suoi gioielli, tutto vennemesso all’asta, alla Casa d’Aste pressol’Hotel Drouot, dal 26 al 29 giugno 1900,mentre le sue lettere, per volere delle au-torità francesi ed italiane, vennero bru-ciate continuando pertanto ad alimentareper oltre un secolo il mistero sul loro con-tenuto.

Altre furono rubate: due volte la con-tessa denunciò furti nelle sue residenze aSpezia: nel 1890 e nel 1892, ignoti pene-trarono nella sua villa e portarono via obruciarono sul posto lettere autografe diVittorio Emanuele, di Napoleone III, diCavour e persino del papa Pio IX. Alcunianni dopo la morte della contessa, nel1901, alcune cose rubate in quell’occa-sione vennero ritrovate in casa di taleVergassola, ex cameriera della Contessa,che venne condannata con i suoi com-plici.

Gli unici ad avere pietà della Contessafurono due poeti, Robert de Montesquiouche venuto in possesso della fatale cami-cia di Compiègne, la chiuse in un’urna dicristallo e d’oro, ed un altro poeta rima-sto ignoto che scrisse:

“… Voleva essere insieme imperatricee regina or la bellezza si incrina e il te-nero cuore ne geme. ….. un attimo solo.La Morte distende il suo negro mantelloe il viso che fu così bello conoscel’oltraggio più forte.”

I Tribone; parenti serpenti?

Ma chi erano i Tribone? Si tratta sen-z’altro di una delle più importanti e dellepiù antiche famiglie ovadesi, già docu-mentate in epoca medioevale.

Borsari a proposito dei Tribone citatestualmente “…Casato non più presentenella nostra città. Possedevano terreni ecase nell’antico rione Voltegna, dove unacasa porta ancora affrescato il lorostemma. Un canonico Tribone, vissuto

nel 1800, lasciò ingenti beni alla Parroc-chia di Ovada.”

La stessa notizia è ripresa dall’Otto-nello che racconta che le più importantifamiglie ovadesi, come i Tribone, risie-devano nel rione Voltegna e dipingevanoil loro stemma sulla facciata della casa.

Anche i Tribone come le famiglie piùimportanti avevano il proprio “blasone”,l’uso infatti dello stemma in quel temponon era riservato solo alle famiglie nobili,ma moltissime famiglie borghesi nei se-coli XIV – XV avevano iniziato a fareuso di un blasone imitando gli aristocra-tici.

L’arma dei Tribone, “ troncato, nel 1°d’azzurro all’aquila di nero, nel 2° dirosso al bue al naturale” è anche dise-gnata nel manoscritto di padre Bernar-dino Barboro.

Negli atti del notaio G. Antonio DeFerrari Buzalino vengono citati più volteAntonio, Bartolomeo, Corrado e GiorgioTribone, fra il 1463 ed il 1464 ora cometestimoni in atti, ora come parti attive, lo-catari o venditori, a volte semplicementeperché i loro terreni sono confinanti conquelli di altre persone citate in atti.

Anzi il 29 aprile 1463 Nicolò Balbodi Voltaggio, ma abitante ad Ovada, af-fitta a Giorgio Tribono di Ovada la terzaparte della vigna in località Piazzollo chegli è stata venduta da Corrado Tribono,fratello di Giorgio; il contratto è validoper un anno e come canone dovranno es-sere consegnati a Nicolò otto barili divino, quando lo stesso sarà clarum, niti-dum et recissum!

Il contratto verrà rinnovato l’annosuccessivo alle medesime condizioni, mala consegna del vino dovrà essere effet-tuata dalla prossima festa di San Martinoin avanti su richiesta di Nicolò.

Il 2 ottobre 1464 Corrado e Giorgiosono fra i firmatari del giuramento di fe-deltà a Francesco Sforza, Duca di Mi-lano, sottoscritto dagli uomini di Ovada edi Rossiglione.

Nella “Descrizione delle Anime dellaPodesteria di Ovada” effettuata fra il 27ed il 31 agosto 1607 risultano due fami-glie Tribone nel Borgo di dentro: GiorgioTribone con moglie, tre figli ed un nipote,Michele Tribone con moglie tre figli ma-

schi e tre femmine.Nel 1619 a seguito dei disordini che

si sono verificati in Ovada la Repubblicagenovese invia il commissario CornelioDe Ferrari ed il 3 febbraio viene ratifi-cato con una solenne cerimonia nellaChiesa dell’Annunziata da tutti i capi fami-glia di Ovada un accordo per sedare i tu-multi, portare la calma e, in definitiva, potergovernare la città. Fra i 231 capi famigliaabbiamo tre Tribone: Alessandro, Filippo eGiovanni Vincenzo (Borsari G 2).

Non mi risulta che i Tribone siano no-bili e non sono riportati fra le famiglieche nel 1528 vennero ascritte negli Alber-ghi della Repubblica genovese: sono sen-z’altro fra le famiglie che contano adOvada.

Se scorriamo gli atti della parrocchiaAssunta di Ovada ci rendiamo conto chein molti documenti nel 1600 e nel 1700 iTribone facevano precedere i loro nomidalla “D”: ad esempio nel settembre 1695muore Antonia moglie di D. Filippo Tri-boni, nel 1742 la Nobil Donna Rosa, fi-glia di D. Giovanni Vincenzo Tribonisposa Filippo Plana del fu Antonio; an-cora nel 1824 muore ad Ovada DonnaAloisia, della città di Genova, figlia diGiuseppe Tribone.

Attorno alla metà del Settecento i Tri-bone si trasferiscono a Genova. Infattiscorrendo gli atti di battesimo della Par-rocchia Assunta di Ovada si osserva chefra il 1750 ed il 1840 non si registrano na-scite nella famiglia Tribone, poi dal 1840al 1860 riprendono.

Dal Catasto Napoleonico del 1790,conservato alla Biblioteca Civica diOvada risulta che i fratelli Franco Ago-stino, Tommaso e Giuseppe, Canonico,sono figli del fu Vincenzo, hanno nume-rose proprietà ad Ovada, ma vivono tuttia Genova.

A Don Giuseppe Tribone, canonicodella Chiesa metropolitana di Genova,San Lorenzo, nel 1818 vennero rimbor-sate dal Comune di Ovada le spese peruna missione a Genova; lo stesso cano-nico nell’ottobre 1837 in occasione dellaFesta di N.S. della Salute compose un so-netto alla Madonna conservato nell’Ora-torio della Confraternita dell’Annunziatao dei “turchini” dal colore delle cappe in-

Alla pag. a lato, Michele Gordigiani,ritratto di Virginia Oldoini, contessadi Castiglione (1862)

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dossate dai confratelli. E’ stato anche fra gli

amministratori del Comunedi Ovada perché nel 1827firma con il Sindaco Gio-vanni Pesci ed altri una“Supplica al Re perché ilComune sia rimesso sottola Giurisdizione del Senatodi Genova”. (A.S.T. Serie“Paesi per A-B Lettera O;Mazzo 7 fasc. 14 – 1827)

Don Giuseppe Tribone,dai libri della Metropoli-tana di San Lorenzo, morìil 29 dicembre 1839, la-sciando i suoi beni alla Par-rocchia dell’Assunta diOvada.

Dal Catasto Napoleonico del 1790 ri-sulta infatti che i fratelli Tribone possie-dono terreni, vigne, prati e case colonichesia in località Manzolo che nella località“Sotto il Colzero” ed un palazzo con cor-tile in Borgo di dentro al n. 126. Probabil-mente è la stesso palazzo a cui accennanol’Ottonello e Borsari a proposito dellostemma dei Tribone.

A questo proposito è interessante no-tare che in Vico dell’Ancora esiste tuttoraun palazzo in cattive condizioni con unostemma nobiliare di difficile lettura,(quello dei Tribone?) mentre a pochimetri di distanza in vico Rocca ne è statorestaurato un altro riportando alla luce lostesso stemma. Probabilmente si trattadello stesso palazzo a cui accenna Gio-vanni Carrara, Padre scolopio nelle suememorie:

“….17 agosto 1835. Il Provinciale P.Lorenzo Isnardi manda da Torino unacircolare a tutti i religiosi della provin-cia in cui dà norme precise da seguireper l’infierire del colera, ed ordina ai ret-tori - atteso il dominante flagello - di nonpermettere a nessuno dei padri di allon-tanarsi per qualsiasi motivo dalla casa incui si trova.

Il 25 agosto il Sindaco di Ovada Mai-nero informa con sua lettera il rettore P.Gerolamo Andrealli che per l’infieriredel colera il comandante della Provinciaha scelto per il locale destinato a lazza-retto il Convento e la Chiesa dei Padri

Scolopi, e propone come temporanea re-sidenza della religiosa famiglia la CasaRossi con cappella pubblica intitolata aSan Francesco da Paola, oppure casaTribone anche essa con cappella; o il ca-stello Lercaro in campagna.”

Probabilmente il testamento del Ca-nonico Tribone ci permetterebbe di ca-pire a chi ha lasciato i suoi beni.

Senz’altro alcune proprietà sono an-date ai nipoti, figli del fratello Tommasoperché “…..L’anno del Signore mille ottocento quarantuno ed alli 27 del mese diAprile in Genova. Per la presente pri-vata scrittura fatta in altrettanti originaliquante sono le parti infrascritte contra-enti e da insinuarsi in caso di bisogno aspese della parte inosservante. La si-gnora Annetta Oldoini moglie del sig.Gio Stefano Tribone fu Tommaso, e daquesti a cautela debitamente autorizzataha dato e concesso al signor GiovanniBattista Torrielli fu medico Biaggio diOvada assente, e per esso accettante ilR.do D. Giuseppe suo fratello nella suaqualità di Procuratore generale, come daatto notarile Guala in data 1831. 11Aprile debitamente insinuato il 28 stessomese in Ovada n: 239 fol. 403 col dirittopagato di lire tre e centesimi 89 come daricevuta Rossi, li seguenti descritti beniposti tutti sul territorio di Ovada”.

Si tratta dei terreni, delle cascine edelle vigne di cui al Catasto Napoleonicoper cui il Torrielli si impegna a pagare aiconiugi Tribone un fitto annuo: “ La pre-

sente locazione e condi-zioni è fatta inoltre me-diante l’annuo fitto ossiapigione di lire nuove di Pie-monte novecento, quali ilsig. Conduttore suddettopromette e si obbliga di pa-gare in due eguali rate ed asemestri anticipati allasuddetta signora Locatrice,oppure anche al marito diessa sig. Gio Stefano Tri-bone il quale resta autoriz-zato ad esigere, e quitareovvero anche a quello oquelli che per parte deidetti coniugi Tribone edaltro di essi venisse indi-cato al suddetto signor

Conduttore.Il suddetto fittavolo pagherà annual-

mente numero quattro capponi non mi-nori in peso di libre dieci cadauno paioalli primi di Dicembre e numero quattropolastri non minori in peso di libre trecadauno paio in Agosto, e numero 6 don-zine d’ova a tutto Aprile d’ogni anno.

Anche i registri dei Censimenti del-l’Archivio del Comune di Genova ed ilfondo degli iscritti all’Università conser-vato all’Archivio di Stato di Genova ciconfermano che i Tribone residenti a Ge-nova hanno mantenuto forti legami conOvada.

Infatti fra i documenti di iscrizione al-l’Università di Giovanni Vincenzo, figliodi Giovanni Stefano e di Anna Oldoini,troviamo che è stato battezzato a San Lo-renzo proprio dallo zio Canonico: Giu-seppe Tribone. Contrariamente allatradizione il ragazzo venne battezzatonel 1805 a quasi due anni: era infatti natoil 18 dicembre 1803! Al battesimo oltreai genitori Giovanni Stefano Tribone eAnna Oldoini del fu Filippo Maria sono èpresenti i Padrini Tommaso Tribone delfu Giovanni Vincenzo, Margherita mo-glie di Giacomo Montebruna e CamillaRapallino, vedova di Filippo Oldoini.

Anna Oldoini è pertanto la sorella delnonno di Virginia, Contessa Castiglione!

Il Sindaco della Città di Genova, al-l’atto dell’iscrizione di Vincenzo all’Uni-versità, alla Scuola di Istituzioni Civili,

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attesta il 27 novembre1822 che il padre Ste-fano è negoziante e lui ei figli vivono dei redditidella moglie, Anna Ol-doini, la quale possiedebeni stabili per lire90.000 importate dallasua dote!

In allegato ho cercatodi ricostruire l’albero genealogico deiTribone, degli Oldoini, dei Verasis e deiCavour ossia di una buona parte delle fa-miglie legate alla storia della magnificaContessa.

Ritornando ad Ovada, dall’esamedegli atti conservati nel fondo Universitàci rendiamo conto che sono numerosi idiscendenti dei Tribone, genovesi, cheancora mantengono legami con Ovada.

Pietro Tribone, figlio di Giuseppe e diGeronima Quartara, iscritto all’Univer-sità al corso di Legge, nell’ottobre 1843durante le vacanze autunnali presenta unadichiarazione del Parroco di Ovada,Padre Arata Giacomo, che attesta che hafrequentato le funzioni Parrocchiali e iSacramenti.

Anche il fratello David Pietro, chefrequenta Teologia e diventerà prete, nel1839 è suddiacono della Congregazionedi Prè: l’Arcivescovo di Genova Mons.Tadini scrive a Don Bracco della Parroc-chia di Ovada nell’agosto 1839 chieden-dogli conferma dell’assiduità di Davidnel frequentare la Chiesa, e nell’evitarele cattive compagnie, ed il Parroco diOvada nell’ottobre attesta che ha fre-quentato “diligentissimo” (sic) la Parroc-chia!

Mi piace pensare che la Contessa Vir-ginia quando in viaggio di nozze da Ge-nova raggiunse per la prima volta Torinoper andare a vivere nello splendido pa-lazzo che il Conte Francesco aveva arre-dato per lei, si sia fermata magari per unabreve sosta proprio ad Ovada, magari daicugini Tribone: d’altra parte il viaggio daGenova a Torino a quei tempi durava duegiorni!

Per concludere i Tribone, parenti ser-penti, eredi della Contessa sono i discen-denti di Giovanni Stefano e di AnnaOldoini e precisamente i fratelli Paola,

Angelo, Adelaide e Fanny, del fu Vin-cenzo, Argentina del fu Filippo e Luigia,Clementina e Maria del fu Tommaso.

Al momento della morte della Con-tessa disattesero le sue ultime volontà emisero all’asta i suoi gioielli, si trattavadi una vera e propria fortuna: fra i piùprestigiosi una goccia verde di smeraldodi oltre quaranta carati donatale dall’Im-peratore valutato oltre centomila franchioro (De Feo), mentre un “vezzo” di cin-que giri di perle bianche e nere, 279 perl’esattezza, pari a 3.838 carati, fu vendutoall’asta per quattrocentomila franchi,quando lo stipendio annuale di un mae-stro era di 450 lire! (Piano).

Nel 1910 vendettero anche le sue pro-prietà immobiliari a Spezia dando avvioalla cosiddetta speculazione “Fondega”con la realizzazione di quattro palazzi instile liberty da parte del l’ar chi tetto Vin-cenzo Bacigalupi nell’area del parcodella Contessa!

Solo in tempi recenti i giardini nel-l’area antistante il Conservatorio Puccinidella Spezia sono stati intitolati a VirginiaOldoini come un tardivo riconoscimentodella cittadinanza alla memoria dellaContessa che dal suo volontario esilio pa-rigino ricordava sempre con rimpianto ilsuo joli golfe.

BibliografiaARCHIVIO STATO GENOVA, Magistrato, La

Caratata Nova de Uvada 1682ARCHIVIO STATO LA SPEZIA, Fondo Vecchio

Catasto Urbano (Vol. 4 part. 739 e Vol. 27 part.5204, Atti Trapasso proprietà contessa – ErediTribone

BERTOLO B. Donne del Risorgimento Leeroine invisibili dell’Unità d’Italia Ed. AnankeTorino 2011

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BORSARI G., Famiglie e persone nella sto-

ria di Ovada, Tip. Olcese Genova1978

BORSARI G., Non solo Ovada2° Volume Ovada 1997

CHIOMA G., La Contessa Vera-sis di Castiglione Ed. Tridente LaSpezia 1993

DANESE O., La Rapallina Vir-ginia Oldoini Verasis Contessa diCastiglione Ed. Luna

DE FEO Italo, Cavour L’uomo e l’opera,Mondadori Edit Milano 2011

GATTO CHANU T., Le grandi donne del Pie-monte, Newton Compton Ed. Roma 2006

GRILLANDI M., La Contessa di Castiglione,Rusconi Libri Milano 1994

LANZA E., Confini e controversie nelle vallidell’Orba e dello Stura dal XVIII ai giorni no-stri Facoltà di Magistero Tesi di laurea 1965-66

MARENCO G., Ricerche di geografia storicanella Comunità di Ovada Facoltà di MagisteroTesi laurea 1971-72

MAZZUCCHELLI M. La Contessa di Casti-glione Dall’Oglio Edit. Milano 1962

MOROZZO DELLA ROCCA E. Autobiografia diun veterano Zanichelli Bologna 1898

OTTONELLO E. Gli stemmi di Cittadinanzadella Magnifica Comunità di Ovada Memoriedell’Accademia Urbense N. 61 Ovada 2005

PETACCO A. L’amante dell’imperatore Mon-dadori Ed. Milano 2000

PETTENATI A. La belle des belles Vita di Vir-ginia Contessa di Castiglione NEOS Ed. Torino

PIANO PIERLUIGI “La drôle affaire” dellavendita dell’archivio della Contessa di Casti-glione.

PODESTÀ E., Gli atti del notaio G.AntonioDe Ferrari Buzalino (1463-1464) Storia e vitadel borgo di Ovada nel secolo XV, AccademiaUrbense Ovada 1994

RAPETTI BOVIO DELLA TORRE Lo “Stemma-rio Ovadese” di Bernardino Barboro sta in Attidel Convegno di Studi di Storia Ovadese, Ovada2002, Memorie dell’Accademia Urbense Ovadan. 53 - 2005

VIARENGO A. Camillo Benso di Cavour Au-toritratto BUR Rizzoli Milano 2010

A lato, ritratto di Virginia Ol-doini, contessa di Castiglione,al tempo dei suoi successi pa-rigini

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Famiglia Tribone

La Divina Contessa in un quadro di E. Giaraud.

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Qualche flash sulla mostra Omaggioa Franco Resecco per ricordare alcunimomenti significativi che l’hanno carat-terizzata e per esprimere la nostra viva ri-conoscenza a tutti coloro che, a variotitolo, ne hanno consentito l’allestimentoe lo svolgimento nel corso delle tre setti-mane di apertura.

Quando abbiamo deciso di esporreparte delle opere dell’indimenticabile arti-sta ovadese, uno dei fondatori della nostraassociazione culturale, non avevamodubbi che la manifestazione avrebbe ri-chiamato e incuriosito quanti a Reseccohanno voluto bene come persona e per ciòche ha saputo rappresentare attraverso lasua vena pittorica e vernacolare. Ma labuona riuscita dell’iniziativa è andata benoltre le aspettative e se tale risultato non ciha sorpreso ci ha effettivamente toccato.

Già all’apertura il calore della genteverso una figura così popolare si è tangi-bilmente manifestato in termini di parte-cipazione. Dopo il saluto dell’Assessorealla Cultura del Comune di Ovada M°Gianni Olivieri è stata la volta degli in-terventi illustrativi del prof. Arturo Ver-cellino, che della mostra è stato ilcuratore, di padre Rinaldo Resecco cheha ringraziato tutti e ricordato con affettofiliale alcune tappe artistiche e di vita dipapà Franco; quindi ha concluso l’ing.Alessandro Laguzzi che ha evidenziatoquante energie abbiano concorso alla riu-scita della mostra e quanto slancio di par-tecipazione sia venuto dalle famiglie checon grande liberalità hanno messo a di-sposizione oltre la metà delle opere espo-ste. La cerimonia è stata filmata da FlavioRolla, foto di Renato Gastaldo.

Ad ogni apertura, sia nei giorni ferialiche festivi, è stato un continuo via vai divisitatori e, dell’affluenza e dell’interessedimostrato, ne fanno fede le firme sulquaderno posto all’ingresso della mostra,fitto anche di incoraggianti annotazionilasciate dalle oltre 3000 persone interve-nute.

Molto apprezzato il catalogo andatoletteralmente a ruba fino ad esaurimentodelle copie e altrettanto graditi i filmati

dedicati a Resecco, visibili nel salottinopredisposto allo scopo, e realizzati attin-gendo il materiale documentario dalla vi-deofototeca dell’Accademia.

La mostra è stata visitata da un buonnumero di scolaresche accompagnate dairispettivi insegnanti a cui plaudiamo peraver accostato i giovani all’opera del no-stro pittore. É stato un vero piacere con-statare come la vitalità esuberante deiragazzi posta a contatto dei quadri di Re-secco si sia mutata in una sentita parteci-pazione, quasi in uno stupore inatteso difronte alla forza espressiva, che le varieopere esposte erano in grado di trasmet-tere all’attento osservatore.

Lo stesso esprimiamo il nostro plausoagli accompagnatori dei Ragazzi di SanDomenico e dello Zainetto; ai bambini diCammin facendo, all’AISM (Ass. Malatidi sclerosi multipla - Gruppo di Ovada)per aver visitato la mostra con i varigruppi, grazie all’opera di coordinamentosvolta da Michele Rolla.

Una menzione particolare per la colla-borazione data in fase di allestimento,prima, durante e dopo, e per la presenzacostante ed attiva nel corso della mostra,va fatta a Silvio Pernigotti che ha vera-mente onorato la memoria di un caroamico come Resecco con il quale ha col-laborato in passato all’allestimento ditante personali. Lo stesso impegno va ri-

conosciuto a Giacomo Gastaldo che oltrealla parte organizzativa e preparativadella mostra ne ha seguito personalmenteogni fase logistica durante le tre setti-mane di apertura.

L’Accademia non ha voluto che si di-menticasse Franco Resecco poeta e il 26ottobre alle ore 21, si è tenuta nell’ampiasala della Loggia e in mezzo alle sue opereuna piacevole serata all’insegna del dia-letto. Sono intervenuti e hanno recitato pro-prie composizioni in vernacolo ArturoVercellino per Cassinelle - Bandita e MarioTambussa per Capriata. Si sono cimentaticon successo nell’arduo idioma anche duegiovani che rappresentano un po’ il futurodella tradizione dialettale delle nostre val-late: Riccardo Basso di Silvano d’Orba, fi-glio del compianto poeta e storico Sergio, eAlessio Olivieri di Ovada. Franco Pesce,che per l’occasione ha rispolverato il suo aplomb di presentatore, ha brillantementecondotto la serata che è stata per noi filmatada Daniela Gastaldo e fotografata da Re-nato Gastaldo.

Se l’Accademia e gli altri organizzatorinon possono, quindi, che essere soddisfattiper l’omaggio tributato dalla Città al grandeartista ovadese, per noi per i quali Franco èstato prima di ogni altra cosa un vero a caroamico la soddisfazione di ritrovarlo nellesue opere è stata cento volte maggiore

Ciao Franco

Omaggio a Franco Resecco, cronaca della mostra di Paolo Bavazzano

Padre Rinaldo,

figlio del pittore, con alcuni

studenti universitari

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La valigia era ormai logora ma la trat-tava con ogni cura poiché recava gli in-confondibili segni delle pazienti ed abiliriparazioni che suo padre aveva eseguitonel corso degli anni.

Il contenuto era vario: alcuni oggettidi vestiario ed una serie di disegni ese-guiti a matita o a carboncino che in ge-nere ritraevano commilitoni o rispec-chiavano paesaggi provenzali, terre bat-tute dal mistral, il vento di nord-ovest,che avevano ispirato i capolavori di Cé-zanne, Gauguin e Van Gogh.

Ma ora, giunto ad una casa colonicatra radi pini marittimi, mandorli selvaticie campi di lavanda che nei giorni se-guenti gli avrebbero ricordato il profumodella Provenza, Franco Resecco era co-stretto ad abbandonare quel bagaglio a luicosì caro ma divenuto ormai troppo in-gombrante. In tal modo avrebbe avutouna chance in più nel cercare di rientrarein Italia arrampicandosi pazientemente,come un alpino, lungo quei sentieri adattia caprioli e stambecchi che, attraverso leAlpi Marittime, lo avrebbero riportatoin patria senza utilizzare strade e passiinfestati dall’ex alleato tedesco pronto acatturare i resti isolati di un esercito indisfacimento.

Conseguenza di quanto avvenuto lasera di mercoledì 8 Settembre quando –alle 18.30 - Radio Algeri aveva diffusola notizia che il governo italiano avevafirmato l’armistizio con le Potenze Al-leate. Notizia confermata alle 19.45 dalgenerale Badoglio che – con un ritardodi cinque giorni, dal momento in cuiera stata siglata la tregua, trascorsi neltentativo di escogitare provvedimentiadeguati alla prevedibile reazione chene sarebbe seguita - aveva letto, pressola sede dell’EIAR in Via Asiago, il pro-clama radiofonico che confermavaquella che in realtà era una resa incon-dizionata:

“Il Governo italiano, riconosciutal’impossibilità di continuare l’imparilotta contro la soverchiante potenza av-versaria, nell’intento di risparmiare ul-teriori e più gravi sciagure allaNazione, ha chiesto un armistizio al

gen. Eisenhower, comandante in capodelle Forze alleate anglo-americane. Larichiesta è stata accolta. Conseguen -temente, ogni atto di ostilità contro leforze anglo-americane deve cessare daparte delle forze italiane in ogni luogo.Esse, però, reagiranno ad eventuali at-tacchi da qualsiasi altra prove nien za.”

In buona sostanza il proclama la-sciava in balia di se stessi decine di mi-gliaia di soldati italiani braccati daitedeschi poiché l’uscita dal conflitto, su-bodorata dall’alleato che aveva predispo-sto adeguate contromisure per occuparemilitarmente il territorio italiano, era nel-l’aria da tempo.

La vita militare di Franco Resecco,era iniziata nel 1940 quando, come sol-dato di leva, era giunto al 2° ReggimentoGenio a Casale Monferrato e quivi erastato assegnato al Battaglione Teleferisti.Una specialità creata a Luglio del 1916per sopperire alle necessità di provvedereal rifornimento di viveri e munizioni allequote elevate con un mezzo rapido e si-

curo come la teleferica in quanto il teatrodi guerra era prevalentemente montano.

Tuttavia la permanenza in questa spe-cialità era stata di breve durata poiché,nel 1940, la speditiva campagna sulleAlpi Occidentali – apertasi il 10 giugno echiusa il 25 dello stesso mese dall’armi-stizio firmato a Roma a Villa Incisa -aveva portato all’occupazione della Pro-venza da parte delle truppe italiane dellaIV Armata e conseguen temente quel bat-taglione del Genio, tralasciati gli impiantiteleferici, veniva utilizzato per la costru-zione di bunker e casematte. Molte diqueste fortifica zioni, ubicate non solo inaperta campagna o in corrispondenza dinodi stradali ma anche sulla costa pro-venzale, erano camuffate come semplicicase di campagna o innocue villette vi-cino al mare decorate con tenui colori edarricchite con qualche trompe l’oeil. Ap-punto nel maschera mento di questi fab-bricati si era specializzato il geniereFranco Resecco e, data l’abilità con cuili eseguiva, era stato trattenuto al reparto

addetto a tali lavori evitandogli trasfe-rimenti in zone di guerra come il fronterusso o nordafricano. Ma il sopraggiun-gere dell’armistizio aveva interrottobruscamente quel tipo di attività e per-tanto, dopo il caotico susseguirsi degliavvenimenti che avevano portato al di-sfacimento della IV Armata, si eraunito ad altri 24 commilitoni che, uti-lizzando mezzi di fortuna, avevanopreso la via del ritorno in patria.

Scartata la litoranea Nizza – Venti-miglia perché ormai saldamente inmano alla 305^ divisione di Fanteria te-desca che la controllava in modo rigo-roso, il gruppo aveva imboccato stradedi campagna fuori mano e distanti dallegrandi rotabili percorse da unità germa-niche sino a giungere ai primi contraf-forti delle Alpi Marittime. Ma, nellaprospettiva di dover affrontare le mu-lattiere ed i sentieri che si inerpicavanosui monti, il Nostro si era visto co-stretto ad abbandonare la valigia conquei preziosi disegni che egli stessoconsiderava “ ...eseguiti con impulsogiovanile, prime prove formative di

Geniere e Partigiano. Un aspetto sconosciuto della vita di Franco Reseccodi Pier Giorgio Fassino

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un’arte che mi ha sempre affascinato”.Sicché l’aveva lasciata in una casa dicampagna (forse con la segreta speranzadi ritornare un giorno a recuperarla) poi-ché con quel peso non avrebbe potuto af-frontare il percorso montano mentre eragià affardellato da un pesante zaino e dauna coperta.

Il gruppo aveva cominciato a girova-gare attraverso le alture dell’Alta Pro-venza evitando le fortificazioni che, afine Seicento, il Vauban, utilizzando lasua famosa basterne, inconsueta portan-tina con lunghe stanghe anteriori e poste-riori sorrette da due cavalli, aveva visitatoper adeguare l’antiquato sistema fortifi-catorio locale in funzione anti sabauda:Colmars Les Alpes, Seyne Les Alpes, Si-steron ed Entreauvaux divenute ora va-lide sedi per i distaccamenti dellaWehrmacht. Quindi, verosimilmente, igenieri avevano imboccato la Val Tinéeper puntare verso il Colle della Lombardae scendere verso Vinadio sperando di nonincappare in qualche alpinjager di pattu-glia oppure essere visti dalle sentinelle te-desche a guardia dei capi saldi della lineaMaginot alpina o delle decine di posta-zioni, ridotte, casematte e batterie in ca-verna che obbligavano a lunghi giriinvece di poter seguire il sentiero piùbreve o sicuro per evitare di essere cattu-rati e spediti in un campo di concentra-mento.

Giunti al valico che pone in comuni-cazione l’alta Valle Tinée con il vallonedel torrente Salso Moreno (denomina-zione data dai soldati spa gnoli che sierano accampati nei pressi di quel passonel 1744 diretti ad invadere il Piemontedurante la guerra di successione

d’Austria),a v e v a n oproseguitoverso Isola,ultimo bor-go alpino int e r r i t o r i ofrancese nonlontano dalsovrastantevalico del

Colle della Lombarda a 2.350 metri diquota. Quivi si erano finalmente imbat-tuti nel primo cippo confinario dopo illungo vagare tra le montagne del versantefrancese che era durato quasi un mese edaveva procurato una falcidia tra il gruppooriginario: ventidue uomini avevano ri-nunciato per la stanchezza, il freddo e lafame oppure si erano uniti a qualche nu-cleo di partigiani del Maquis, l’organiz-zazione resistenziale francese.

Però i tre rimasti si erano rinfrancatiquando ad un tratto, lungo la discesadalla cresta spartiacque tra la Val Tinée ela Valle Stura, avevano intravisto in lon-tananza gli spalti del forte di Vinadio. Ag-girarono quindi questa località e sidiressero speditamente su Cuneo dove gliabitanti generosamente donarono lorodegli abiti civili che consentirono ai tregenieri di sottrarsi alla cattura.

Infatti i cuneesi si erano abituati al so-praggiungere di soldati italiani dal con-fine francese ed a questi cambi d’abitosicché non rifiutavano mai di aiutare glisbandati con capi di vestiario anche seancora in buono stato. D’altra parteCuneo può essere considerata la culladella Resistenza: già nel pomeriggiodell’11 settembre ’43, tre giorni dopol’annunzio radiofonico dell’armistizio,una dozzina di civili erano partiti direttiverso la montagna e si erano installatipresso il santuario della Madonna delColletto a 1.300 metri di altitudine a ca-vallo tra la Val Gesso e la Valle Stura.

Ma lasciamo la descrizione dell’ul-tima parte di questa anabasi alle paroledi Franco Resecco raccolte in un articolodi Paolo Bavazzano pubblicato su URBS:

“Il tragitto verso casa è ancora lungoe rischioso. Sono tempi terribili con i te-deschi che ci danno continua mente lacaccia. Durante il viaggio in treno daTorino ad Alessandria alcuni genovesitravestiti da frati pregano con il breviarioin mano; indossano calze e scarponi mi-litari che male si combinano con il saio enon ingannerebbero nessuno. Alcuni mi-litari tedeschi os servano nel corridoio lascena ma fanno finta di niente; forseanche loro sono stufi di fare la guerra esperano di poter tornare presto a casa.

Nei pressi di Castellazzo guadol’Orba a piedi; dopo qualche ora di cam-mino giungo in vista di Roccagri malda e,alla cascina Colombara, ven go accoltoda amici di famiglia. Mio padre Gio-vanni, di professione ciabat tino, avvisatodel mio arrivo si precipita ad abbrac-ciarmi.”

La situazione nell’Alto Monferratoera però alquanto difficoltosa poiché giàdal mese di Agosto ’43 l’ LXXXVIICorpo d’Armata tedesco stazionavalungo la riviera ligure per concorrere alcontrasto di eventuali sbarchi alleati. Per-tanto, alla notizia dell’armistizio, at-tuando i piani accuratamente predi spostinell’intento di disarmare le truppe ita-liane ed occupare il territorio del Regnonon ancora in mano degli Alleati, il 9 set-

Alla pag. precedente, Franco Resecco, autoritratto del periodo bellicoA lato, Casa colonica della Badia di Tiglieto (proprietà della Famiglia Salvago Raggi).In basso, Genieri del 2° Reggimento(commilitoni di Franco)

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tembre 1943 – poche ore dopo la mezza-notte - lo Stato Maggiore dell’ LXXXVIIsi era già installato nel castello di Ta-gliolo mentre Ovada era stata occupatapoco dopo con un presidio accasermatosinell’edificio delle scuole elementari del-l’attuale Piazza della Libertà e comandonell’antico Palazzo Maineri in piazza Ce-reseto.

Aveva così inizio anche nell’Ova desequella lotta partigiana a margine dellaguerra che gli eserciti alleati conduce-vano lungo la penisola per cacciarel’occupante tedesco: i primi volenterosicorsero a cercare armi e offrirono unalarga solidarietà ai prigionieri di guerraalleati, ai soldati sbandati, ai giovani cherifiutavano il servizio militare per il ne-mico ed a uomini attratti dal nobileideale per la libertà.

Quindi, sin dai primi giorni successiviall’armistizio, sui monti Tobbio, Porale eLanzone e attorno ai centri abitati di Mor-nese, Bosio e Voltaggio erano affluiti sol-dati sbandati, prigionieri di guerra inglesie russi, fuggiti dai vicini campi di prigio-nia ai Giovi o in Val Fontanabuona, ed iprimi volontari che avevano raggiunto lemontagne incoraggiati dai Comitati di Li-berazione appena sorti.

Ma la costituzione delle prime forma-zioni partigiane ovviamente non eranosfuggite alla Guardia Nazionale Repub-blicana, organo di polizia della neocosti-tuita Repubblica Sociale Italia na ed aicomandi delle SS tede sche che avevanoiniziato a contrastare questo mo vimentopopolare con duri ra strellamenti.

Questo il commento di Franco Re-secco su quel periodo apparso sulla rivi-sta dell’Accademia Urbense:

L’avventurosa odissea non è ancorafinita. Sono fra i tanti che giornalmenterischiano di cadere vittima di un rastrel-lamento per rappresaglia da parte dei te-deschi; quindi occorre nascondersi bene.Mio padre conosce una famiglia di con-tadini nella piana di Tiglieto, vicino allaBadia e riesce ad accasarmi presso dellabrava gente. Incomincio di nuovo a dise-gnare; i luoghi sono famigliari e laguerra sembra lontana. Traduco sul fo-

glio da disegno, a carboncino, a penna, amatita grassa, a guazzo, le mie impres-sioni prendendo spunto dall’anticabadia, dalla ferriera, dalle rocce e dalleacque limpide del torrente. Trascorronogiorni indimen ticabili.

La zona raccoglie numerosi parti-giani [sono gli uomini che formarono iprimi Distaccamenti d’as salto “Gari-baldi” da cui trassero origine le Brigateche costituiranno la Divisione Mingondr] e alcuni chiedono aiuto alla fami-glia che mi dà ospitalità. E’ in tale occa-sione che conosco il comandante parti- giano Oscar. Una figura carismatica ca-pace di farsi ubbidire, e all’occorrenzatemere, da giovani un po’ sbandati chetalvolta tralignano dalle buone regole dicomportamento.

Entriamo in confidenza e vedendo cheOscar dimostra di apprezzare i miei la-vori gliene regalo alcuni. Parliamo alungo di quello che si attende e si speradebba avvenire: la fine della guerra.Sono giorni di tensione e pericoli. Capitadi incontrare sconosciuti ben vestiti chechiedono informazioni sui partigiani pro-mettendo in cambio somme di denaro.Allo stesso tempo si insinuano fra le filepartigiane individui che non ispiranonessuna fiducia. C’è da prestare moltaattenzione.

Un giorno al comandante Oscar con-fido alcune perplessità circa il compor-tamento di uno del gruppo e lui mitranquillizza dicendomi di aver capitotutto da tempo. Mi convinco che Oscar èuna persona coraggiosa e che sa il fatto

suo. Poi ci perdiamo di vista e solo al-cuni giorni dopo la Liberazione da DonBerto Ferrari, il cappellano dei parti-giani, vengo a sapere che Oscar è statofucilato dai tedeschi perché qualcunol’aveva tradito.

Non lo ho mai dimenticato e posso af-fermare che molti lavori su tema dellaResistenza li ho eseguiti ispirandomi aquei tempi difficili e alla sincera amiciziache ci legava. Questa è un po’ la storiache questi miei disegni racchiudono.”

Dunque questo è il periodo che ha la-sciato una traccia indelebile nell’iter for-mativo dell’artista e che ispirò leillustrazioni (1971) che corredano le poe-sie del partigiano Aldo Farina oppure leopere del ciclo resistenziale donate al Co-mune di Ovada: Al di là del filo spinatoed Il martire (1969); Ai piedi dell’impic-cato (1978); Partigiani all’attacco(1978); Partigiani dopo il combattimentoe L’anelito alla Libertà (1980).

Tuttavia è consolante immaginare cheun domani emerga un qualcosa che con-senta di ricostruire anche il periodo pro-venzale dell’artista sebbene, in questocaso, la realtà sconfini nell’uto pia: chissàche un giorno, nel corso della ristruttura-zione di un vetusto casale nelle campa-gne provenzali di Pierrefeu-du-Var o delPlan de Caussols venga rinvenuta unavecchia valigia, quasi sommersa da pol-vere e ragnatele, contenente disegni sucarta – eseguiti con tratto sicuro a matitao carboncino - raffiguranti soldati e pae-saggi locali, datati tra il 1940 ed il 1943e firmati dall’autore: Franco Resecco.

Franco Resecco con alcunicommilitoni fotografato su diuna spiaggia provenzale

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Due lettere ovadesi della BibliotecaNazionale di Firenze(1) vergate dalloScolopio P. Leoncini per il Tommaseoriaprono il capitolo dei rapporti corsi fral’Abba, i suoi maestri, Mario Pratesi e ilTommaseo, riportandoci a ore difficili perlo scrittore toscano e al seguito che il dal-mata riscosse fra i Padri Calasanziani.

L’amicizia dell’Abba col Pratesi (econ Giusti, Thouar, Barzellotti, Dal -l’Ongaro risaliva ai mesi del 1861 da luitrascorsi a Pisa fra studenti, patrioti, in-tellettuali, frequentando con religioso ri-spetto la casa del Mayer, custode di cartefoscoliane e padre di quell’Elisa prestomancata all’amore di Abba.

Cultore di canti popolari fin dal ‘60,il P. Leoncini aveva contatti col Tomma-seo (che aveva pubblicato a VeneziaCanti popolari corsi greci illirici nel ‘42)e riscuoteva la gratitudine del Leoncini:

«per le povere Scuole Pie nella bella,affettuosa tanto commemorazione dalcaro Padre Antonelli, e per le pietoselinee scritte in lode del carissimo Ab. Ca-rosio.»

Già dal 1864 una lettera confidenzialedel P. Garassini riferiva al Tommaseosulle proprie fatiche di rettore e lodava ibenefici venuti dalle pagine dello scrit-tore: all’educazione e alla religione no-stra santissima, preannunziando la visitaa Firenze d’un altro dotto Padre del Col-legio di Carcare al P. Matteo Ricci. Giànel l861 il P. Canata, maestro di Abba, erastato ad Ovada per conoscere novità di-dattiche e confortare d’un lutto recente ilmusico Antonio Rebora. Forse il Canatastesso persuase l’Abba ad inviare la suaCanzone in morte di F. Nullo al Tomma-seo, per un giudizio: il dalmata fornivainfatti allo Scolopio elementi per unaoperetta(2) del Canata su S. Caterina daSiena (lodata poi dall’arcivescovo di Ge-nova, Charvaz).

Le vicende del Pratesi erano meno se-rene e positive: perduta dall’infanzia lamadre, in urto col padre, scontento di sé,della propria salute e delle condizioni

economiche, formulava pensieri suicidi,e in versi!:

Alcuno / in cielo in terra / amicoagl’infelici / e rifugio non resta /altro cheil ferro,

anche se al Tommaseo confessava (l3,X. 1864) pure non vorrei ancor morirvi.

Deluso dall’esperienzad’insegnamento al Collegio Cicognini diPrato, egli aveva lasciato cadere la pro-posta dell’amico Abba di procurargli unacattedra al Collegio di Carcare, ove il ret-tore ti avrebbe usato quei riguardi che sidebbono alla tua cultura, e vivere in unpiccolo villaggio ti potrebbe giovare (3).

Mentre Abba. dal Ponte Vecchio sa-liva all’Arco de’ Tintori a visitar Tomma-seo, Pratesi scontento, irritato, scrivevaall’amico: «non trovo gioia, non trovosorriso», lamentando l’assenza «d’unacompagna che avesse tollerato gli insultidel mondo, che fosse educata a patire findagli anni più teneri… amato da lei chem’importerebbe del mondo». (31 Gen-naio 1867).(4)

Poco più tardi, premuto da guai eco-nomici, ribadiva: la sventura mi padro-neggia, mi annienta… la mia musa è lafame… Solo nel luglio poteva alfine co-municare, pur fra motivi discordanti al-l’Abba (5):

«Ho trovato da lavorare presso Ni-colo Tommaseo, ma la fatica è grande, ilfrutto che ne traggo meschino. Il Tomma-seo però è un uomo integro e mi sono diqualche conforto le sue parole spesso af-fettuose e cordiali... pur col suo mali-gnare e inviperire contro il Foscolo e ilLeopardi, contro i quali non sa usaremaggior carità come quelli chel’offendono in ciò che costituisce la suaidea più intima».

La quotidiana convivenza col Tom-maseo non era serena; in poche settimanene coglieva e circoscriveva l’ispirazione:

«il sentimento dell’arte si è così im-medesimato alla fede. da formare in luicon la fede un’unica cosa. E l’arte che ilTommaseo è conformato a sentire profon-damente è quella cristiana; quindi egliper sentimento cristiano prende in odio

chiunque fu scetticamente pagano». (6).Con rapidità forse eccessiva e non

equanime le lettere del Pratesi alterna-vano slanci e moti malevoli verso

«il povero accecato... spiantato anchelui... gli voglio molto bene perché non èun gaudente... se egli non mi pagasse ese io non fossi bisognoso di tutto, ne sop-porterei pazientemente le impazienze egli sdegni.» (7)

Le trenta lire mensuali sono sprezzatefra motivi d’urto o di attrito a certe paroleun po’ brusche del Tommaseo gli ho rispo-sto con insolenza, scrive il Pratesi, pur sealtrove definisce Tommaseo Venerabile…per disperazione e pianto. E scriverà: glivoglio bene perché ha sposato una donnadi popolo, povera, illetterata a segno dinon saper leggere e ci trovò quanto gli ab-bisognava a confortar la sua cecità e unavita logora di dolori».(8)

Il carteggio con Abba denuncia volu-bilità, turbamenti, permalosi timori, giu-dizi ben lontani dall’Abba. stesso e daiPadri Scolopi.

Quel però che Pratesi t’acque più alungo e ne motivò incertezze fu il senti-mento nato e nutrito nella casa dell’Arcodei Tintori per Caterina, la figlia di Tom-maseo, a lungo taciuto al padre. Pur semancano espliciti cenni scritti alla pas-sione, le cose dovettero proceder fra ten-sioni e attriti coll’irritabile dalmata, certoin sospetto (o al corrente...).Vi fa paleseriferimento una lettera di scuse al Tom-maseo vergata il 14 Aprile 1868 dal Pra-tesi, pentito della sua malagrazia,incupito e scosso da sentimenti che lo tur-bano. Ma solo un mese dopo, l’11 mag-gio, con evidente scarto di tono egli davanotizia all’Abba della rottura (implicitala manifestazione al Tommaseo di senti-menti e progetti):

«Ho scritto al Tommaseo; m’ha rispo-sto che avessi compassione di lui e di mestesso, che pensassi che tanti immerita-tamente soffrivano più di me e che sa-peva quello che mi aveva detto... non gliscrivessi, non avendo alcuno da cui farsileggere. Egli mi disse, se è destinato sifarà.. La colpa è mia, ma tu sai. Non mi

Tommaseo e Pratesi: lettere da Ovadadi Luigi Cattanei

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accusare di debolezza».Forse Tommaseo non colse appieno

l’incupirsi dell’animo del Pratesi, i riaf-fioranti propositi suicidi, i dolorosi pen-sieri, in breve giro di giorni seguiti allarottura eccolo malato nella ragione,scosso nei nervi (come scriveva l’amicoCosci (9) all’Abba, consigliando di con-dur via Pratesi da Firenze); questi co-nobbe il ricovero, seppur breve, nel- l’Ospedale dei pazzi, ove la presenza diquei malati come lava d’inferno mi lique-fece il cervello...

A sigillar lo sviluppo dell’episodio cimancano ovviamente molte lettere degliScolopi; da Carcare e da Ovada dovetteropartir pagine di cristiana pietà, inviti allarassegnazione: al Tommaseo era morta lamoglie Diamante; la figlia CaterinaAvrebbe poi preso il velo finendo in unconvento francescano.

Nelle lettere del 1873 dei Padri Ga-rassini e Leoncini(10) si parla infatti dicommenti evangelici ed opere religioseinviate dal Tommaseo e diffuse fra gliScolopi; tramite l’Abba, il P. Canata po-teva far giungere al Pratesi parole di cri-stiano conforto (attendendo all’opera suS. Caterina aveva mantenuto certo rap-porti col Tommaseo). II tempo aveva so-pito rancori e turbamenti, talché latensione irritata pareva dissolversi. In unalettera del settembre 1873 Pratesi si duoledel lutto del Tommaseo e spinge il rap-porto ben oltre le lodi del 1871 per ilcomportamento “italiano” di lui. Nel di-cembre riferisce da Viterbo condizioniscolastiche migliori rispetto a quelle diPavia, ma torna sulla propria solitudinee, cautissimo, associa nel saluto a Cate-rina il fratello di lei Girolamo. Non tuttoè accaduto invano. Accompagna la letterada Viterbo una poesia inviata in copia alP. Leoncini ad Ovada: La mia chiesa (11).Il dolore è stato assorbito, i ricordi diSanta Fiora (paese natale), delle giornategiovanili e delle chiese fiorentine visitateo custodi di piazze e colline sembranoaver avuto la meglio.

La lettera prenatalizia del professorelontano serba solo richiami letterari:

quelli personali sono celati nelle rinno-vate condoglianze al vedovo Tommaseo,giacché Pratesi cerca di consolare e nontace un implicito rimprovero al dalmata,per aver tenuto presso di sé a consolar lapropria solitudine quasi forzando coleiche piange a rimanerle vicino. La figuradi Caterina vive dunque ancora sulla pa-gina e la chiude; ma pare sfumata, tratte-nuta appena nella memoria, nelrimpianto. Un sospiro, nulla più: Pratesiconfessa che il nuovo ambiente gli ha in-segnato a ingaglioffirsi per sopravvi-vere... . Ritroverà l’Abba; ma i PadriScolopi sono lontani…

Note(1) Oltre alle due del P. Leoncini, il fasci-

colo comprende sei lettere al Tommaseo: due delP. Garassini (1864 e 1873) e quattro del Pratesi1868, 1871, 1873, 1873).

(2) P ATANASIO CANATA, Vita e scuola di S.Caterina da Siena, vol. 2, Torino, 1861.

(3) C’erano stati carteggi coi P.P. Carosio,Canata e Faà di Bruno

(4) 31 gennaio 1867. Le date e le citazionisono attinte all’Ediz. Naz. delle Opere di G.C.ABBA, Brescia, Morcelliana, 1999, Epistolario,VIII, a cura di E. C’OSTA e L. CATTANEI.

(5) 11 maggio 1867.(6) Luglio 1867.(7) Fine maggio 1868.(8) 4 novembre 1866.(9) Datata 19 maggio 1868.(10) Datate rispettivamente 11 aprile 1873 e

15 dicembre 1873.(11) I versi si riferiscono alla Chiesa fioren-

tina di S. Miniato al Monte.

La mia Chiesa1Più ch’à ogni tempio che la prece accoglieche i derelitti mandano al Signor,a te, piccola chiesa, alle tue sogliem’accosto pien di religione il cor2In co’ del ponte semplice, modesta,e come mendica la tua vista appare,l’acqua che giù di sotto scorre lestasembra una prece eterna mormorare.3Niuno ti bada povera chiesetta,non ti vien lo straniero a visitar,in mezzo alla città bassa , solettasembri piccola barca in mezzo al mar.4Pur come te non m’agita il maestosotempio d’Arnolfo, che ‘1 suo genio alzò,né quel di Pisa, solitario, ascosonella quiete d’un tempo che passo.5Sull ‘imbrunir tra le tue sante muravidi una volta un angelo pregar... Soli eravamo ... l’umile creaturaFea l’aer di luce intorno sfavillar.6Chiesetta all’ara tua, china la testaprega quel vecchio, afflitto peccator …7Prega per i deserti i travagliaticon verace umiltà raccolta in sé;e lei pregando per gli sventuratiquella cortese prega anche per me.8Anima santa! ... .sempre in quell’ascosoasilo d’orazion vi cela a ognunchè quando il tuo gentil core pietoso,con Dio favella non ti vegga alcun!9Nota d’arpa lontana e di liutonon mi fa pianger, non mi scende al corcome, o chiesetta, il fievole salutoche la tua sponda manda al dì che muor10Io l’odo .... da lontano ti rimirole prime stelle spuntano nel ciel...con la luce che fugge il mio sospiroti mando... cala della notte il vel.

In basso, Mario Pratesi in una foto degli anni ‘70 dell’Ottocento

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Appendice: Le lettereIA Nicolò Tommaseo, Carcare, 12 Maggio

1864.Egregio Signorenon avrei osato scrivere a V.s Signoria Ill.ma

se il nostro Del Bono non mi avesse vinto colleripetute istanze, e in ispezie ultimamente co-piandomi in una sua le di lei preziose parole diringraziamento per i sensi di stima e di affettoche mi credetti in dovere di espri merle per di luimezzo.

Non le dissi con quale desiderio si leggonoda me da questi Religiosi miei Confratelli le dilei opere ed ogni più piccolo scritto o lettera sitrovi in giornali, che ci vengono in Collegio,certi di scoprirvi sempre qualche utile docu-mento di sapienza i di virtù civile o Religiosa.Ma a noi Scolopi incombe un dovere più sacrooltre la stima e la devozione che le dobbiamo,di pregare, cioè per la conservazione della di leipersona, dovere di gratitudine per l’amore cheporta al nostro sodalizio. E ne’ miei Confratelliha vicini degli affettuosi ammiratori della di leidottrina e virtù, non temo affermare che anche inquesto, quasi incunabolo delle Scuole Pie (certoin Liguria) benedetto in sugli inizi dalla pre-senza dello stesso S. Fondatore dell’ordine, hacuori che la amano, e invocano dal Signore in-columità e ogni benedizione sopra la rispettabiledi Lei persona sopra la di Lei famiglia.

Nella povertà delle mie preghiere le pro-metto di ricordarla tutte le volte che celebrerò laS. Messa, a Gesù Cristo: V/s Sig.a stima facciaaltrettanto per me alle sue orazioni. Ho bisognotanto tanto del soccorso delle preghiere deibuoni, che mi sento raddoppiate le forze e ilbuon volere, quando so che i buoni e gli amicimiei pregano per me. Sono ormai ventidue anniche sono a capo di questo Collegio (forse terzaCasa dell’Ordine, prima, in Liguria) e se i tempicorressero meno agitati e più propizi alle societàReligiose, avrei forse ottenuto dai moderatoridell’Istituto di ritirarmi, per la stanchezza e idiuturni incomodi, in quie te operosa, si, ma taleche mi concedesse un po’ di tempo a prepararmiall’avvento del Signore.

La scarsezza crescente degli Individui Reli-giosi, il noviziato deposto da anni, obbliga tutti,anche i più provetti a tener ferma la mano al-l’aratro, nella viva fiducia che il Padrone dellamesse mandi altri operai a rilevare gli invalidi.Già più volte ho pregato i miei Sup.ri col dimitteergo me di Giobbe, pure debbo proseguire: nel-l’arduo compito, fatto più scarso di conforti, emonco per tante ragioni che V.s Signoria Ill.maben conosce, fin che piaccia al DegnissimoIddio darmi un po’ di respiro antequam vadamet non revertar.

Ella vede così se ho bisogno delle di Lei

preghiere, e se ho saputo raccomandarmele concalore: sono quindi pieno di speranza che vorràscusare questa lamentazione, con cui venni a of-ferirle i miei deboli omaggi di stima e di osse-quio.

Riceva co’ miei gli ossequi di P. Canata delquale spero presto spedirle un’ operetta sopraSa.ta Caterina dr Siena, e mi creda di V.s Sig.aIll.ma e Ch.ma Dev.mo Servo GP. B. Garassinidelle S.P.

IIA Nicolo Tommaseo Carcare,19 maggio

1873Egregio Signore,rimando e V.s Signoria Ill.ma le schede coi

nomi dei sottoscrittori alla nuova edizione dellaversione de’ Santi Evangeli col commento ecc

Ritardai perché sperava accrescere il nu-mero de1 sottoscrittori, ma sono in un passettodi campagna, e se non colgo l’occasione che miporge qualche forestiero o amico per aggregarlo,mi è difficile assai accrescerlo.

Ho ancora qualche speranza su Parroci ePreti vicini, allievi e amici nostri, e vedendoliraccomanderò l’opera santamente benefica.

Mi perdonerà poi, egregio Signore, se conquesta mia le invio un mio libretto, povera cosadavvero né degna d’esserle presentata. Lo stam-pai trepidando, sebben confortato da amici e dauno scopo pio. Come a Dio piacque non fu di-scaro a molti e antichi miei discepoli e allievi diquesto Collegio, visitato in sul nascere dal Cala-sanzio.

Lo riceva come segno di ossequio ricono-scente di uno Scolopio. Mi creda di V.s Sig.iaIll.ma dev.mo servo

P.G. B.Garassini d..S..P.

IIIA Nicolò TommaseoSiena, 27 Settembre 1873Signor Nicolò,La disgrazia che Lei con le cure dell’amor

suo riuscì ad allontanare quasi forzando quellache piange a rimanerle vicina, sento che l’hacolpita. Dura battaglia contro la quale non var-rebbe essere forti com’Ella è, se non l’aiutasse laFede: ed Ella usa la sua virtù e col suo amore miriconferma sì nella Fede che le anime che si ac-compagnarono con noi nell’esilio, rimarrannocon noi eternamente su patria celeste. Mam’immagino il suo dolore. Ma già lo espressein tenerissimi versi che rimarranno. Mi perdonidunque se io piango con Lei e i suoi figliuoli.

Implora da Lei una benedizioneil suo aff .mo dev.mo

Mario Pratesi.

IVA Nicolo TommaseoL’ultimo giorno dell’anno 1871Venerabile signor Tommaseo,Io faccio voti per Lei: Dio sa se sono di

cuore. E mi perdoni se un altro voto m’esce dalcuore. Possano i giovani italiani imitarla nellasentita del lavoro, nella dignità, nella Fede. Noinel legger le cose Sue ci sentiamo nobilitati. Dioesaudisca le Sue preghiere.

Devoto Suo Mario Pratesi.

VA Nicolo TommaseoOvada, 11 aprile 1873Venerdì SantoEgregio SignoreSia compiacente di mandare a chi le scrive

n° 5 copie dei Sancto Evangeli quando sarà fattala annunziata ristampa. Bramo di essere anno-verato fra coloro che compiranno il loro doverein due sole mandate.

Permetta V.s Stimatissima ch’io mi valgadell’occasione per ringraziarla col cuore dellabenevolenza da Lei sempre dimostrata per le Po-vere Scuole Pie. Anche ultimamente, colla bellaaffettuosa tanto commemorazione del caro P.Antonelli e nella lettera all’abate Carosio. NoiScolopi siamo pieni per lei di stima riconoscenteed anche di vero affetto, e non solo per il detto,ma principalmente per il gran bene che Ella hafatto e fa co1 suoi scritti alla sana letteratura, al-l’educazione, alla Religione nostra santissima.

Il buon Gesù, morto oggi per tutti, gliene diaun premio degno, Le moltiplichi nell’anima iltesoro della sua pace e della preghiera, le rendaleggero il peso degli anni e delle calamità, e vo-glia concederle salute per lunghi anni a benedella Sua amata Famiglia e a conforto nostro.

Le debbo ancora un grazie affettuoso ed èper quelle pietose linee scritte in lode del po-vero, carissimo Damasio alla vecchia Madre.

Dovendo, se Dio vorrà, sul finire del corr.temese passare per Firenze, quanto sarei lieto sepotessi stringerle la mano!

Abbia i miei affettuosi rispetti e si compiac-cia tenermi quale mi è caro rivelarmi

della S.V. Pregiatissima ed am.ma Devo.moservo

Luigi Leoncini delle S.P..

VIA Nicolò TommaseoOvada, 15 dicembre 1873Stimat .mo Signore,ebbi giorni or sono le copie dei due Primi

Vangeli, che tosto distribuii agli associati. Uni-sco Lire 31,50 valore dei medesimi. Non fecispese di riscossione. Aspettiamo con desiderioa suo tempo gli altri due. Esaurita questa edi-

Alla pag. a lato, Giosué Carducci,circondato dagli amici, fotografatodurante una breve escursione,Mario Pratesi è seduto, a sinistra,immediatamente al suo fianco

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zione, quanto sarebbe accetta altra di più grossoformato, il doppio almeno della presente!

Permetta Vs Signoria Preg.ma ch’io le dicauna parola tardiva ma sincera di ringraziamento,a molta bontà usatami in luglio, sopportandomialcune ore seco, parola di memoria ricono-scente, che m’invita ad augurare di cuore a Leie alla Sua degna Famiglia sante e liete in Dio levicine Feste e un felice fine con miglior princi-pio d’anno.

In quei giorni di fede pregherò Gesù Bam-bino ad arricchire V/s S. car.ma, del suo dono, ainondarle l’anima ognor più della mite SuaLuce, alla corporea dolorosamente perdutaampio compenso; a serbarle per lunghi anni in-tera la salute preziosa e tanto spirito.

Le chieggo un favore. Si compiaccia di faravere all’ottimo mio Confratello P. Mauro Riccil’unito biglietto.

Perdoni la libertà e m’abbia della S.V. Sti-mat. ma Dev.mo Servo

Luigi Leoncini delle Sc. Pie

VIIA Niccolo TommaseoFirenze, Via della Pace 914 aprile 1868Riverito Sig.TommaseoFui spesso sul punto di scendere per l’ultima

volta le scale di casa sua, ma il dubbio che Ellapotesse ciò attribuire a disamore e ad orgogliomi obbligò a risalirle. Ma quando mi fé Ellacomprendere chiaramente che le avrei reso ser-

vizio grande a non starle più attorno, e vidi a’suoi ordini altri che potevamo far meglio,e conpiù zelo servirla, potei liberamente ritrarrai, sod-disfatto di compiacerla. E infatti pretendere cheElla cieco d’occhi potesse continuare a valersidi me, cieco d’anima e d’intelletto, era davveroun troppo pretendere. E passando la porta dicasa Sua mi è parso che i suoi polmoni mandas-sero un gran respiro, come di persona che è riu-scita a liberarsi, finalmente, d’una gran noia. Mispiace solo di non aver compreso alla prima. EdElla ha avuto con me una pazienza propriamenteinfinita. Un altro m’avrebbe chiamato dopo tregiorni dicendomi “bimbo,fatti prima accomo-dare la testa e poi ritorna”.. Ella invece settemesi m’ha tollerato! Questa mia, adunque, nonha altro scopo che quello di dirmele grato pertanto grande bontà. Io l’ho servita alla peggio:me ne perdoni, di servirla male non era certo lamia intenzione.

Ed anche le ho risposto in maniera da addo-lorarla: le ho tolto anche il rispetto,e di questol’anima mi rimorde profondamente. Ma chevuole io son pieno dello mia propria meschinità,de mio piccolo niente e chi ha coscienza d’essermeschino è intollerante e orgoglioso..

Pure in quel mostrarmele insofferente eraun’altra ragione. Se Ella non m’avesse pagato, ese io non fossi bisognoso di tutto, avrei in altramaniera, creda, esercitati i miei uffici verso dilei . Né pensi che io mi sentissi umiliato d’ “aiu-tarla”.’

Ma ora è inutile chiacchierare. Io son calmo,

anzi in ventiquattr’ore mi trovo un altro da quelche ero. Sono tornato gelido come un sepolcro.Arrossisco d’essermi lasciato andare a piangerein sua presenza. 0ra che non posso più piangerericonosco quanta puerilità fanciullesca fosse inquelle mie povere lagrime. Fui davvero unafemminetta cui per niente vengono i lucciconi.Ma che vuole per poter vivere amando, cercaid’aggrapparmi anche ai rovi e alle spine. Maormai tutto è finito, e appongo alla disgrazia laforza medesima che la pagliucola al vento. E ladisgrazia mi ha portato tanto innanzi, da farmipersuaso di certe terribili verità che nons’apprendon nei libri, ma. guai a chi 1’apprende!Chi è malato ricorre al medico, e allo speziale,ma vi son tali malanni pe’ quali il miglior rime-dio si ritrova nella bottega di un armaiuolo.

Quando la cancrena è in una gamba, si ta-glia. Ma quando è nell’anima e nel cervello, chefare? Quando sentite che a forza di patirv’inabissate che fare? Me lo dica lei che potèvolere e credere fortemente, e vincere nella vita.Con questo io non voglio dirle che intenda ucci-dermi ebbi sempre ripugnanza a tutto quello chefa del chiasso,e vorrei partirmi da questomondo, silenzioso come una gocciola d’acqua,ma quel che m’atterra è un’immagine di miseriache io vidi a Pisa or tre anni..

Un pover’uomo dal molto accorarsi, era di-venuto imbecille e la sua disgrazia era sollazzoe passatempo degli onesti felici: lo chiamavanoil Sor Pasquini. In gioventù aveva studiato filo-sofia, e sempre ne ragionava da pazzo. Ungiorno in un caffè gli diedero a bere, fra le risae gli scherni, dell’assenzio con della senapa, be-vanda più infernale di quella che i giudei die-dero a Gesù Cristo. Io tolsi di là quel disgraziatoal quale dissi parole che lui, benché folle, com-prese. Orbene in quell’uomo io vedo (dié in unpianto dirotto e mandò tali voci...) quel che di-verrò se non mi soccorre la morte. Che le parenon è tremenda l’ira di Dio? Ma è tempo che lafinisca. Scusi se l’ho tediata, forse scandalizza-ta: mi perdoni questa lettera disadorna. Io nonebbi né tempo né quiete d’apprendere il bellostile, ed ora sono un vecchio né più lo posso, ela mente - Ella.’pure lo ha detto - più non miregge. E mentre le scrivo ho nel cranio la pas-sione di Gesù Cristo: i chiodi, le spine e la lan-cia. Veda dunque se eran possibili le eleganze.

A questa lettera già non aspetto risposta, chénon la merita. Io glielo scritta perché come pos-siamo abbandonare una condizione che per deltempo ha riempito di qualche cosa la nostra vita,e star zitti?

Saluti, ne la prego, Girolamo e gli altri disua famiglia e mi creda

Suo Dev.mo Mario Pratesi

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Le altre collaborazioni di UbaldoArata.

Di minore interesse dal punto di vistastorico cinematografico sono le altre pro-duzioni a cui il nostro operatore collaborain questo periodo. Un periodo che si ri-vela molto intenso dal punto di vista la-vorativo e che sembra non risentire dellacrisi della casa di produzione di via Vejo.La nascita di piccole e medie imprese diproduttori privati che sentono che il ci-nema può diventare un affare grazieanche agli aiuti di legge che nel frattemposono stati varati, ha sì anche portato allacrisi la Cines, ma anche aperto nuoviorizzonti. Tra il 1931 e il 1935 numerosisono i provvedimenti sul credito cinema-tografico: premi di qualità, premi e anti-cipi sugli incassi, concessioni di mutuiai produttori che avranno ottenutol’approvazione del Ministero dellaStampa e Propaganda. Quest’ultimoprovvedimento, datato novembre 1935,si rivelerà un ottimo sistema di controlloe di censura preventiva.

La “Giuseppe Amato Italia” (GAI), laManenti Film, la Produzione CapitaniFilm, il Consorzio ICAR solo alcune.Anche le nascite della Titanus e della Luxsono importanti, anche se inizieranno aprodurre solo tra il 1937 e il 1938. Èmolto probabile che a quest’ultima, laLux, si riferisca Ubaldo Arata nella let-tera a Nino Natale Proto già precedente-mente citata:

«[...] Si dice che a Torino si riapre unanuova casa cinematografica, anche noisperiamo in questo nuovo evento el’assicuro che se mi sarà possibile saperequalche cosa per poterlo mettere a postofarò del mio meglio per potere essereutile in qualche cosa trattandosi di unconcittadino94».

La lettera è del 10 novembre 1933mentre la “Compagnia Italiana Cinema-tografica Lux” viene fondata nel capo-luogo piemontese il 21 febbraio 193495,date e fatti che mi sembra possano con-fermare questa mia supposizione.

Quelle a cui Arata collabora sonoquasi tutte produzioni che si avvalgono,attraverso l’uso degli stabilimenti cine-matografici di via Vejo, del contratto trala Cines e gli Indipendenti. Solo tre non

ne fanno parte ma sono accomunati, di-rettamente o indirettamente, a Giovac-chino Forzano (1883-1970). Si tratta di:Villafranca, Campo di maggio e La si-gnora Paradiso.

Va anche premesso che sia in Villa-franca che in Campo di maggio l’apportodi Arata è minimo: per il primo i direttoridella fotografia risultano essere ben cin-que96 (insieme ad Arata hanno collaboratoAlbertelli, Kuntze, Tiezzi e Vitrotti), peril secondo, con il ruolo di operatore97 (in-sieme a Montuori e Brizzi, mentre per ilruolo di direttore della fotografia risul-tano Albertelli, Tiezzi e Von Lagorio), glivengono accreditate solo le scene dellabattaglia di Waterloo.

Villafranca, diretto da GiovacchinoForzano e tratto da un soggetto dellostesso con la collaborazione di BenitoMussolini, racconta gli eventi storici tra il1858 e il 1859 conclusisi con il trattato dipace di Villafranca. Girato tra Torino eValeggio sul Mincio (in provincia di Ve-rona), per gli interni si sfruttano gli stabi-limenti Fert 2, riaperti proprio perl’occasione, e per alcune scene anche ipalazzi storici del capoluogo piemontese(Palazzo Reale, Palazzo Madama, TeatroRegio). Tramite questa produzione el’incontro di Forzano con l’industriale to-rinese Giovanni Agnelli nasceranno glistudi Tirrenia-Pisorno98.

Anche Campo di maggio, dove ven-

gono narrati i famosi ultimi “centogiorni” di Napoleone Bonaparte, è direttoda Forzano ma è già girato nei nuovi sta-bilimenti Pisorno (nome generato dal-l’unione dei toponimi Pisa e Livorno)appena sorti nella zona litorale denomi-nata Tirrenia. La società produttrice delfilm è il “Consorzio Vis” che il Forzanoha fondato con Agnelli.

Anche La signora Paradiso, sotto laregia di Enrico Guazzoni (1876-1949), ègirato per gli interni negli stabilimenti diTirrenia. La riviera ligure è invece sceltaper gli esterni. Per la fotografia, quil’Arata è responsabile unico. Una dellesue doti, che ho riscontrato dalle recen-sioni dei critici dell’epoca, è di riuscire afotografare paesaggi e luoghi turistici tra-sformandoli in splendide sequenze, tantoda risultarne degne di citazione.

Le pellicole a cui il nostro operatorecollabora uscite nelle sale cinematografi-che tra il 1934 e il 1936 sono:

Luci sommerse, diretto dal regista ci-leno Adelqui Millar (1891-1956) (alla fo-tografia collabora anche Carlo Mon- tuori), con Fosco Giachetti (1900-1974,in una delle sue prime apparizioni) eNelly Corradi (1914-1968, al suo se-condo film, ha esordito ne La signora ditutti).

Frutto acerbo, una commedia direttada Carlo Ludovico Bragaglia con NinoBesozzi (1901-1971) e, al suo esordio sulgrande schermo, la soubrette della cele-bre compagnia di rivista dei fratelliSchwarz, Lotte Menas (una carriera chenel cinema non avrà molta fortuna).

La marcia nuziale, per la regia diMario Bonnard, vede l’esordio di un’al-tra attrice, Kiki Palmer (1907-1949, al se-colo Giulia Fogliata, che morirà suicida ,è stata la madre adottiva del celebre at-tore Renzo Palmer). Altri interpreti sonoTullio Carminati (1895-1971) e AssiaNoris.

L’albergo della felicità di GiuseppeVittorio Sampieri, una commedia conTuri Pandolfini (1883-1962) e Isa Pola.

Lorenzino De Medici di Brignone,ambientato nella Firenze rinascimentale,è una produzione della Manenti Film ot-timamente curata, dalle scenografie ai co-stumi. La fotografia di Arata valorizza

Il Cinema Italiano degli anni ‘30 e Ubaldo Aratadi Ivo Gaggero

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l’interpretazione, nell’unico film girato inItalia, di Alessandro Moissi (1879-1935),il celebre attore teatrale austriaco, di ma-drelingua italiana e di origini albanesi,che morirà di polmonite solo pochi mesidopo la fine delle riprese. Non da meno èanche l’interpre tazione di Camillo Pilotto(1888-1963) (probabilmente la miglioredi tutta la sua lunga carriera).

Ginevra degli Almieri è un’altro filmin costume di Brignone, prodotto da Li-borio Capitani e interpretato da Elsa Mer-lini (1903-1983). Per ruolo maschile c’èl’esordio di Amedeo Nazzari (1907-1979).

Arata cura la fotografia in altre dueproduzioni Capitani interpretate dal“mattatore” Angelo Musco (1871-1937),che pur provenendo dal teatro dialettalesiciliano è uno degli attori di maggiorsuccesso (e dal maggior incasso) del ci-nema italiano del primo decennio del so-noro99.

Nel Re di denari, diretto da Guazzoni,reinterpreta un suo cavallo di battagliateatrale, I Don, riuscendo ad adeguarlo allinguaggio cinematografico.

Lo smemorato per la regia di Righelliè invece vagamente ispirato al caso dicronaca Brunelli-Cenella100, noto anchecome “lo smemorato di Collegno” (cheispirerà anche il celebre film omonimo diTotò nel 1962). Di particolare interesse(rilevato anche dalla critica dell’epoca) èl’esordio sullo schermo, malgrado giàtrentaquattrenne, dell’at trice teatralePaola Borboni (1900-1995).

Una donna tra due mondi è inveceuna produzione Astra film, girata neglistabilimenti Cines e realizzata in doppiaversione, italiana e tedesca. Per la ver-sione italiana la regia è di Goffredo Ales-sandrini (1904-1978), quella tedesca diArthur M. Rabenalt. La sceneggiatura ètratta da un romanzo e ci racconta la vi-cenda di una giovane pianista corteggiatae contesa da due uomini: un violinistasuo collega e un ricco maragià, al qualeella rammenta la moglie scomparsa. In-terpretato da Isa Miranda e dal celebreviolinista cecoslovacco Vasa Prihoda(1900-1960). Il giudizio critico di DarioFalconi su “Il Popolo d’Italia” non èmolto tenero:

«[...] Il film mi par fatto per veder disfruttare cinematograficamente la fama ela valentia di Vasa Prihoda, il celebreconcertista di violino [...] Certo che ilfilm [...] poteva in più di un momentocommuovere, e invece ci lascia freddi.[...] la stessa Isa Miranda, una delle no-stre attrici più interessanti e cinematogra-fiche, non riesce tuttavia a convincercipienamente, sebbene appaia qui fotogra-fata con cura e comprensione partico-lari101».

Riporto anche una testimonianzadella stessa Isa Miranda che del film ri-corda:

«Dovevo girare una scena in italianoe subito dopo in tedesco. Ma il guaio erache i due registi avevano entrambi ideepersonali, e la scena che era andata beneper Alessandrini, non piaceva affatto aRabenalt. Discutevano fino a perdere lavoce, ma la conclusione era sempreunica: cioè toccava a me mettered’accordo i due registi, recitando la scenacome la voleva ognuno di loro. La trage-dia di “una donna tra due mondi” misembrava niente in confronto a quella diuna donna fra due registi102».

Aldebaran e Ginevra degli Almieri sa-ranno, in ordine temporale, le ultime pro-duzioni girate sfruttando gli stabilimentiCines.

L’incendio degli stabilimenti di ViaVejo.

La notte tra il 25 e il 26 settembre1935 è l’ultima per gli stabilimenti cine-matografici romani di via Vejo. Un’incendio gli ha parzialmente distrutti:non verranno più riaperti e saranno de-moliti poco dopo. Dalle ceneri dellaCines nasce Cinecittà: il rogo dei teatridella Cines e la posa della prima pietra di

Cinecittà (29 gennaio 1936) sono ancoraoggi fonte di discussione tra gli storici dicinema. L’origine dolosa dell’incendionon è mai stata provata, ma come tutti gliaffari edilizi resi possibili da poco chiarieventi devastanti, tra i quali il più getto-nato è senza dubbio l’incendio, anche inquesto caso i misteri e i dubbi sonomolti103. La nascita di Cinecittà e, succes-sivamente, quella della Scalera, unanuova casa cinematografica, fanno peròparte di un’altra storia che spero di po-tervi raccontare.

Note94 Maria Coletti, Il cinema coloniale tra

propaganda e melò, in O. Caldiron, cit., pp. 354-355.

95 Vincenzo Buccheri, La crisi della Cinese il panorama produttivo, in O. Caldiron, cit., p.122.

96 E. Lancia, R. Chiti, cit., p. 409.97 Ivi, p. 57.98 Lorenzo Cuccu, Tirrenia, progetti e re-

altà, in O. Caldiron, cit., p. 138.99 Ernesto G. Laura, La commedia e il co-

mico, in O. Caldiron, cit., p. 319.100 Ivi, p. 322.101 Recensione di Dino Falconi, “Il Popolo

d’Italia”, 30 ottobre 1936, in E. Lancia, R. Chiti,cit., p. 112.

102 Giovanni Spagnoletti, Registi stranieriin Italia, in O. Caldiron, cit., pp. 269-270.

103 Ronnie Pizzo, cit., p. 12.

Alla pag. precedente, Mario Pratesi in una foto degli anni ‘70 dell’Ottocento

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Venerdì 21 settembre 2012 presso ilBallon – Enoteca Regionale di Ovada edel Monferrato di via Torino, a cura dellaBiblioteca Civica “Coniugi Ighina”, si èsvolto il Convegno Per una Biblioteca.L’iniziativa era volta a celebrare i 40anni di vita del centro culturale ovadesetenuto a battesimo nella primavera del1972 dal senatore Franco Antonicelli.

Sono intervenuti il prof. Giovanni DeLuna, storico, Camilla Salvago Raggi,scrittrice, Lorenzo Bottero già Sindaco diOvada e Cinzia Robbiano, bibliotecaria.

Per l’interesse storico che rivestepubblichiamo l’intervento di LorenzoBottero il quale, oltre a ricordare le pre-messe che hanno portato alla apertura diuna civica biblioteca in città, ha parlatodei coniugi Ighina ed in particolare dellaSignora Marie Minuto - Ighina che tantosi è adoperata per la costituzione dellabiblioteca stessa.

***Prima di tutto, mi devo scusare per la

mia scarsa vena oratoria, che mi ha con-sigliato di proporvi una sorta di appunti,forse poco congeniali, ad una cerimonia,come quella di oggi. Non so, però, andareoltre.

Ma vi confesso, che la proposta di ri-cordare Marie Minuto Ighina, senza va-lutare, minimamente, da parte mia, se neavessi titolo o meno, mi ha lusingato, emi sento onorato di poterlo fare oggi, in-tendiamoci, senza la pretesa di fare unabiografia, ma di evidenziare, anche consemplici note, le molteplice ini-ziative che, nel corso della vita,ha portato avanti, ed i suggeri-menti che ha saputo dare, eviden-temente, non solo a me.

E per questo, ringrazio la Ci-vica Biblioteca, che mi ha datoquesta possibilità.

E questa piacevole opportu-nità, naturalmente, si affianca, al-l’onore che ho avuto per moltianni, di esserle vicino in moltecircostanze, di discutere ed af-frontare, con lei, problemi, dicontribuire a realizzare propositied iniziative, sempre con lo scopoprimario, che la guidava, quellodi essere utile alla sua città, ed

alla sua gente.Favorito senz’altro, almeno inizial-

mente, per essere stato un modesto colla-boratore di giornali, mi sono poi trovato,man mano che il tempo passava, a fre-quentarla, e questo mi ha permesso difare tesoro della sua esperienza, anchenegli impegni che ho avuto, nel corsodegli anni, cercando di non sfuggire aisuoi suggerimenti, alle sue osservazioni(e queste non mancavano mai), che si tra-sformavano, puntualmente, in un pre-zioso aiuto.

Un rapporto che ha avuto come cul-mine, la indicazione del sottoscritto, as-sieme al compianto Marcello Venturi, diessere suoi esecutori testamentari.

Comunque, va detto subito, che MarieIghina, era una donna dal carattere forte,anche molte volte testarda, ma si è sem-pre adoperata nell’interesse della città e,sia ben chiaro, come succede a tutti quelliche si danno da fare, anche lei, non le haindovinate tutte. Ma è certo che quandoindispettiva qualcuno, la sua intenzioneera sempre quella di tutelare gli interessidella comunità, del pubblico, magari, enecessariamente, a danno del singolo pri-vato.

Sempre pronta, anche a tirarci le orec-chie per scelte sbagliate - e dico tranquil-lamente - che in molti casi, col tempo,non ha poi avuto torto.

Marie Ighina è nata nel 1906 ed èmorta nel 1982 a 76 anni, nel 1926 avevasposato il dottor Eraldo Ighina, amatis-

simo medico condotto e direttore del-l’Ospedale Civile Sant’Antonio.

E, con il marito, che ha avuto impor-tanti incarichi del “ventennio”, ha certa-mente collaborato a portare avantiiniziative, più o meno del regime, comela realizzazione delle famose feste ven-demmiali, la costruzione della coloniaestiva per i bambini di Pizzo di Gallo, dicui da anni non c’è più traccia, ma anchela costruzione del teatro Lux.

Come si sa, la costante di allora, eraquella di costringere, muratori, lavoratoriin genere, a prestare la loro opera quasisempre non pagata, mentre gli impresaridel momento, dovevano rinunciare aquanto, a loro dovuto, per le prestazionieseguite e per il materiale fornito.

Ma, al di la di queste anomalie, certa-mente non giustificabili, la realtà è cheOvada è venuta ad avere il suo teatro, chedopo i passaggi da O.N.D. ed E. N. A. L.,recentemente è divenuto finalmente“Comunale”.

Ma, dopo il passato, con una attivitàinquadrata nel regime, il dottor Ighina edanche Marie, hanno poi saputo schierarsi,immediatamente dalla parte di chi volevaeliminare il fascismo e ridare al Paese lalibertà. E, non hanno tentennato, a fare laloro parte. Il medico, oltre a favorire il ri-covero dei partigiani feriti in ospedale,molte volte è salito in montagna per cu-rare sul posto chi ne aveva bisogno. Nu-merosi i suoi viaggi notturni, comeraccontava Eugenio Androne che, a quel

tempo, svolgeva servizio di taxi.Degno di nota, è statol’intervento del dottor Ighina, aLerma, quando, con tempestività,prestò le sue cure a un partigianosovietico, ferito gravemente, cureche salvarono la vita al giovane.Per questo nel maggio del 1961,due mesi prima della sua morte,ricevette ufficialmente, nella saladel Municipio di Ovada, una at-testazione della Associazionedell’URSS “Guerra e Patria”.

Come è noto, Marie Ighina,era cugina di Sandro Pertini, edil rapporto che aveva con lui,anche attraverso la signora Carla,consorte del Presidente, gli per-

Festeggiati i 40 anni della Biblioteca Coniugi Ighinadi Lorenzo Bottero

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metteva, con il loro tramite, di arri-vare, con più facilità, al complicatomondo burocratico ed anche ai Mi-nistri della Repubblica sempre conl’obiettivo di risolvere problemidelle gente, ed anche di Ammini-strazioni comunali. Ricordiamo aproposito l’intervento che ha favo-rito il tempestivo finanziamento perl’acquedotto di Tagliolo, per il qualeil compianto sindaco Antonio Bruz-zone, gli ha manifestato, nel tempo,tanta riconoscenza.

Fra i suoi interventi va poi ricordatoquello relativo al finanziamento per laedificazione del Romitorio di Masone,che resterà un punto di riferimento dellaStoria Partigiana delle nostre vallate,dove, oltre ad alcuni Martiri del Turchinoed al comandante delle Brigata Ligure -Alessandrina, capitano Carlo Oddino, ri-posano anche personaggi della Resi-stenza ovadese, come Giovanni Alloisio eLudovico Ravanetti.

“Ispettore onorario” della Soprinten-denza, importanti e determinanti sonostati, nel corso di tanti anni, i suoi inter-venti per salvaguardare il patrimonio sto-rico ed artistico. Ed il suo interessamento,in questo settore, è andato ben oltre la no-stra zona. Basta ricordare la Badia di Ti-glieto, Santa Croce di Bosco Marengo, lemura di Pozzolo, ecc.

Presidente della Pro Loco di Ovada edell’Alto Monferrato, da ricordare la suaapprezzata attività anche nell’Ente pro-vinciale del Turismo, tanto che nel 1973,gli venne assegnato “l’Oscar Provincialedel Successo”, proprio per settore del tu-rismo.

Determinante, fu l’idea, e poi il con-tributo concreto per le iniziative da partedi Marie, nella realizzazione dei festeg-giamenti del “Millenario del Monferrato”che coinvolsero, con successo, oltrel’Ovadese, anche il Casalese.

C’è poi da ricordare la sua opera per ilriconoscimento della D.O.C. del vinoDolcetto di Ovada. Soprattutto per l‘ope-ra di ricerca per la necessaria documenta-zione, ma ha sempre partecipato anchealle iniziative pubbliche e non, dei pro-duttori. Tutta una azione, che ha poi por-tato, il 1° settembre 1972, all’emissione

del decreto relativo all’importante rico-noscimento, ora avvalorato dalla recentedenominazione garantita.

Ma, nel quadro della valorizzazionedell’importante prodotto delle nostreterre, ha saputo collegare anche iniziativefolcloristiche come è stata quella del“Carro del Dolcetto” che nel 1969 ha ot-tenuto il primo premio alla sfilata dellafesta vendemmiale di Torino. Ci sono poile Mostre del Dolcetto. Iniziate nel 1969nel castello di Carpeneto, dove fu deter-minate il contributo di Marie Ighina,presso il marchese Chiavari, per avere adisposizione i suggestivi locali. Le Mo-stre sono poi seguite negli altri castelli,Rocca Grimalda, Tagliolo, Montaldo perpoi essere trasferite ad Ovada, dove sisono svolte fino al 1989. Poi, come ènoto, è scomparsa questa importate ini-ziativa. Non va dimenticata l’opera dicollegamento, che Marie Ighina era riu-scita ad avere, con i produttori di vinodell’Astigiano, e le varie organizzazioni,e ricordo, a proposito, riunioni, già neglianni ’60, quando si iniziò a parlare delle“Strade del vino”, la cui proposta uffi-ciale per una “Strada dell’Ovadese”,venne lanciata in occasione della tavolarotonda del 6 settembre 1969 proprio aCarpeneto. Nell’Albese e nell’Astigiano,nel corso degli anni. le “strade” venneropoi realizzate mentre noi, nell’Ovadese,ci siamo arrivati tanti anni dopo, conl’Associazione Alto Monferrato.

Per Marie Ighina, tutti quelli chel’anno conosciuta lo sanno bene, era im-portante la salvaguarda dell’ambiente, eda proposito è sempre stata alla testa diogni sorta di iniziativa, di battaglia, dilotta, collaborando in prima fila sempre

con le Istituzioni, contro le nume-rose minacce che sono venute, nelcorso degli anni. Ricordiamo: ilfrantoio di Lerma, la Cromium, laMammut, e le minacce di altri inse-diamenti in valle Stura, ecc.

L’attenzione all’ambiente, allasalvaguardia del verde e della na-tura, che aveva Marie Ighina, si evi-denzia di riflesso, anche la nettaposizione che assunse per la costru-zione del nuovo ospedale, nell’area,fra via Ruffini e via Carducci, atti-

gua alla famosa Villa Gabrieli. Lei avevavisto, come abbiamo visto anche noi,come nel corso degli anni, a causa di unaedificazione selvaggia ed alla mancanzadi una adeguata regolamentazione, moltispazi verdi della città siano scomparsi perlasciare il posto a grossi fabbricati. Ed aproposito, nel 1977, ha redatto un docu-mento dove sono evidenziati tutti glispazi verdi, persi da Ovada e dagli Ova-desi. Quindi l’esproprio del terreno peruna opera pubblica importante, comel’ospedale, ha evitato il pericolo di unaltro scempio, che non è da escludere, sa-rebbe potuto accadere, visto i precedenti.Aver salvato Villa Gabrieli ed il suoParco, si collega successivamente adun’altra decisione importante assunta dalComune, e sollecitata da Italia Nostra edalla stessa Marie Ighina, che ha respintola proposta di edificare anche in una partedel Parco delle Madri Pie, fatto cheavrebbe ridotto lo spazio verde, con ilvantaggio, secondo la società propo-nente, della costruzione di una scuolamaterna, nel Borgo.

Poi, grazie proprio anche alla risorselasciate dalla Ighina, l’ex spazio delleMadri Pie è un parco pubblico e non po-teva avere intitolazione più appropriatache quella di Sandro Pertini. La validitàdi questa scelta è ora evidente a tutti, stanel successo di frequentazione che ilparco ha, soprattutto da parte dei bam-bini.

Ma parlando del nuovo ospedale,credo, valga la pena ricordare che neipropositi di Marie, c‘era anche quellodella acquisizione di Villa Oddini, dove,secondo lei, avrebbero dovuto essere al-lestiti gli uffici collegati all’ospedale

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mentre Villa Gabrieli avrebbe dovuto es-sere utilizzata come pinacoteca. Ma si èanche resa conto che, con quanto rappre-sentavano le risorse, che avrebbe lasciatoal Comune, queste non erano sufficienti.E, la sua intenzione, era, infatti di lasciarel’intero patrimonio all’ente pubblico,senza decurtarlo di beni che sono andatiad altri eredi. Ma non ha fatto in tempo arifare il testamento, come mi aveva ripe-tutamente annunciato.

Ma oltre a questo proposito non con-cretizzato che aveva la cara Marie, c’èanche quella della azienda di sperimen-tazione agricola per la quale avrebbe do-vuto essere utilizzato il suo terrenoagricolo di Tagliolo. Era forse, per diversimotivi, un proposito fantasioso, ma biso-gna dare atto alla giusta sua intuizione, sepoi abbiamo visto la Regione, allestirel’azienda sperimentale della Cannona diCarpeneto.

Superfluo, da parte mia, ricordare illegame che ha avuto con la Biblioteca Ci-vica, i 5000 libri del marito, donati as-sieme allo studio, ad altri volumi, ai qualisono da aggiungere, quelli arrivati tramitePertini.

Proprio per le conoscenze che MarieIghina aveva non ha tralasciato di coglierel’occasione di essere a fianco del Comunee delle Associazioni locali, come quelladel suo interessamento per l’acquisizionedel terreno antistante la caserma dei Cara-binieri, di fronte ad una burocrazia checoinvolgeva Prefettura, Intendenza di Fi-nanza, Ministero delle Finanze e Dema-nio. Si è interessata per la utilizzazionedello Sferisterio Comunale, quando ilcomplesso sportivo. era ancora metà diproprietà di privati ed ha contribuito a por-tare avanti la battaglia a fianco dell’alloraCircolo ENAL, perché il Teatro Lux pas-sasse in proprietà agli ovadesi che, comelei giustamente insisteva, lo avevano co-struito. Ed a proposito è nota la insistenza,che naturalmente tramite Pertini, l’ha por-tato avanti, anche con l’allora ministroAdolfo Sarti, ma senza risultato, a parte lebenevoli parole.

Ancora un cenno della attività di que-sta donna va rivolto alla attenzione cheaveva per gli animali e quando nonc’erano ancora associazioni, gli ovadesi

che avevano un cane o un gatto ammalato,sapevano, che rivolgendosi a lei, potevanoavere a disposizione gratuitamente i me-dicinali adeguati per la cura del loro ani-male. Non va nemmeno dimenticatol’interessamento che ha ripetutamenteavuto per Aldo Mazzarello di Mornese, unpersonaggio conosciuto da tutti, che, connon pochi sacrifici, ha dedicato buonaparte della sua vita proprio agli animali.

Forse gli appunti che vi ho proposto,possono essere stati sollecitati anche daelementi un po’ retorici.

Me ne scuso.Ma credo, che la “Signora Ighina”,

come era conosciuta comunemente datutti, al di là del cospicuo lascito al Co-mune, quindi alla collettività ovadese,abbia tutti i titoli per trovare il suo inseri-mento, nella storia della nostra Comunità.

Emilio Costa, ci ha lasciatodi Alessandro Laguzzi

Nella notte fra il 29 e il 30 settembresi è spento nella sua casa di Ge-Corni-gliano il Prof. Emilio Costa che fu fra ifondatori nel 1957 dell’Accademia Ur-bense e ne divenne il primo presidente.

Va detto che nel 2003 era stato colpitoda un ictus e, nonostante le cure riabilita-tive prestategli, non si era più ripresodalla paresi che lo aveva colpito al latodestro immobilizzandolo su di una sediaa rotelle ed impedendogli di fatto ogni at-tività. Anche la voce stentorea di oratorebrillante ed appassionato, che oltre aisuoi studi aveva contribuito a farlo cono-scere in tutta la Liguria durante convegnie commemorazioni ufficiali di perso-naggi risorgimentali, si era ridotta ad unsussurro articolato a fatica; solo la menterimaneva lucida e questo faceva semmaiaumentare la sua pena e l’aveva indottoad esprimere il desiderio di una fine ra-pida che lo liberasse da quello stato chedi giorno in giorno gli era sempre più in-sopportabile.

Se grande era il valore di Emilio comestudioso la sua modestia lo era ancor dipiù, in occasione di una delle tante visite,che in quel primo periodo del suo malegli facevamo, ritornando sul tema dellamorte che gli era sempre presente, volledarci indicazioni dettandoci uno scritto,che Paolo Bavazzano ha consevato e checredo utile riportare perché ci da la mi-

sura dell’uomo.«A futura memoria...All’ing. Alessandro Laguzzi, Presi-

dente Accademia Urbense e Direttore Ri-vista Urbs.

Caro Sandro ti voglio esprimere al-cune mie ferme volontà. Se io ho scrittomolto l’ho fatto soltanto per mio piaceree non intendo che a me si attribuiscanoelogi o quant’altro. Desidero che semmainella rivista che tu dirigi sia pubblicata laseguente notizia:

E’ mancato Emilio Costa studiosodel Risorgimento Italiano e del Movi-mento Operaio, il quale ha lasciatomolti contributi scientifici, alcuni deiquali possono essere definiti fonda-mentali. La nostra rivista diffondequesta notizia desiderata dallo scom-parso.

Caro Sandro scusa se ti ho portato viaun po’ di tempo ma quello che ti ho det-tato è la mia ferma convinzione. Saluti atutti.

Genova, 14 Luglio 2005.Emilio Costa.»

Avevo già avuto notizia di questa suoqualità infatti, durante una cena socialedel nostro sodalizio a cui partecipava ilProf. Geo Pistarino, quest’ultimo ciaveva raccontato che, anni prima, quandoricopriva l’incarico di Preside di Facoltà,in vista della costituzione della cattedradi Storia del Risorgimento si era rivolto aEmilio ritenendolo il più adatto a quel-

(l’articolo prosegue a pag. 310 in basso)

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La scomparsa di Emilio Costa (a finesettembre) ci rimanda alla doverosaquanto ardua rievocazione delle sue fati-che e iniziative di storico, di maestro, diorganizzatore, di amico. E subito, comelegata alle sue origini e al suo predilettoterreno d’indagine propone la sua figuracome fondatore e presidente dell’Acca -demia Urbense, nel lontano 1957. Natonel 1931 appena ventenne già rivelavanella ricerca di carte e volumi rari la suascelta cul turale. E presto, per approfon-dire i temi prediletti dei suoi studi, decisedi non separarsi dalla Scuola Media “Vol -ta”di Cornigliano, sebbene vantasse dotie titoli per la carriera docente; ma la cat-tedra degna di lui, di Storia del Risorgi-mento, manca ancor oggi nell’Ateneogenovese.

Ma c’erano le Carte-Buffa, c’eraOvada, c’era la Casa Mazzini a Genova:e vi si volse e dedicò per tutta la vita. Lecarte dell’Archivio dell’ovadese Dome-nico Buffa rivelarono a Costa il ruolo diprimo piano di quel politico dalle riformedel Regno di Sardegna al bien nio rivolu-zionario l848-49, seguito da un’intensaattività politica a Genova e in Parla-mento, nei rapporti diretti con Cavour econ Michelangelo Ca-stelli nonché con nume-rosi “esponenti dell’eli-te culturale e liberaledella penisola”, comescrisse l’amica e col-lega Bianca Montale.Se si pensa che i car-teggi or citati del Buffavidero 1a stampa neglianni sessanta del nostrosecolo ad opera di Emi-lio Costa (in tre volumifitti d’annotazioni), sipuò avere l’idea dellasua dedizione rigorosa,del le vie aperte agli stu-diosi per penetrar la vitadel regno sardo in orerivoluzionarie. Ne fuprova il successivo vo-lume sui primi moti diLunigiana, che avvici-narono Costa al mondomazziniano e garibal-

dino (né di menticò, in due saggi , Barto-lomeo Marchelli e Gerolamo Airenta mi-liti della sua terra fra i Mille, con unacontinuità che fa luce sul rigore e sullapassione dello studioso.

Costa si aprì e spaziò sul giornalismoe sulla cultura ligure di quei tempi, scri-vendo e promuovendo convegni sulPadre Spotorno, sull’Alizeri, sul Ceva-sco, sul Canale fino alle più recenti pa-gine su Pietro Sbarbaro, Mameli, Barrili,Abba, scrutando i fondi archivisti delMuseo genovese del Risorgimento(Erede, Pareto, Balbi Piovera, Türr, Ce-lesia) per l’edizione degli scritti di Maz-zini. Più tardi Costa fu chiamato a curarei carteggi del primo volume dell’epi -stolario di G .C..Abba, patrocinato dalMinistero dei Beni Culturali. Poteva ba-stare? Presidente della Sez. Genovesedell’Istituto Storico del Risorgimento,Costa puntò sul giornalismo mazzinianoe operaio, del Savi, del Boccardo, vol-gendosi naturaliter alle società operaie dimutuo soccorso, con un volume di fonti,L’universo della solida rietà che partivadai primi tentativi associazionistici allavera storia del mutuo soccorso, muo-vendo dalla “Società di Mutuo Soccorso

Universale” di Genova - Sampierdarena(l85l). Da quello studio nacque il volume- monografico sull’Armirotti, primo de-putato - operaio, affiancato da alcunevoci sul Dizionario dei Liguri che ancoranon è oggi completo. Del resto ben dueedizioni (1971 e 2001/2003) della Biblio-grafia dell’età del Risorgimento in onore;di A. M. Ghisalberti non racchiudonotutte le segnalazioni dell’opera di Costae del le fatiche da lui durate per la Com-missione per l’edizione degli scritti diMazzini seguite a quella del Menghini.

Emilio Costa aprì il raggio dei suoi in-teressi storiografici alle sedi e agli uominidella Liguria risorgimentale, dagli Sco-lopi di Carcare alle vicende post napoleo-niche di Savona e del suo Dipartimento,fino alla figura e all’opera di GiuseppeBiancheri, documentata in ben due con-vegni a Ventimiglia, presenti Autorità eMinistri: a Levante dai moti lunigianensipassava al mazziniano sarzanese VittorioBerghini, aprendo la via agli studiosi lo-cali come la rivista ovadese «Urbs» fa-ceva da tempo in quell’area e accoglievadiscepoli e colleghi del fondatore, apertocon severo eppur disinvolto giudizioanche alla cultura letteraria.

Proprio un volume dipoeti liguri, appena apparsoe subito discusso (l957) cifece conoscere e ci avvi-cinò, nel breve tempo d’unviaggio Savona – Corni-gliano. Nacque così conEmilio un rapporto cheuniva la stima alla confi-denza, la sua voracità di let-tore al mio bisogno dimaestri e di sodali. E ognioccasione allargava i campid’indagine, di conoscenza,di concordanza..

Le sue iniziative “lan-ciavano” giovani studiosi,ma attingevano a “maestri”del rango di Ghisalberti.Della Peruta,Galante Gar-rone, Morelli, Spadolini,Talamo, Venturi e porta-vano sulle pagine di UrbsPistarino, Bausola, BiancaMontale e letterati vicini al

In silenzio è scomparso Emilio Costa, primo presidentedell’Accademia Urbensedi Luigi Cattanei

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cuore e alla sua sensibilità.Per noi colleghi e discepoli (e laure-

andi !) che lo visitavamo al suo letto didolore (che tenne, immobilizzato perquasi otto anni) la conversazione non lan-guiva mai attraverso date, memorie,versi, riviste il magistero di Emilio nonaveva soste, con una modestia pari soloalla sua memoria instancabile.

Per mesi parecchi di noi annotaronosotto dettatura quanto Costa ambiva fossecon segnato a storici, a riviste, agli uominidel Vittoriano: dopo la collaborazione al-l’Antologia fiorentina, venne quella col-l’editore Olschki. Eppure, in tutta la suaopera, si ravvisava una costante fedeltà aitemi più antichi, unitamente ad una mo-destia esemplare: quand’ebbi l’incaricodi proporgli la chiamata ad una presti-giosa accademia, mi guardò corrucciato,rimandandomi dura mente ad una suanorma etica: far cammino da solo, con leproprie forze. Era un uomo di studi, liserviva, non se ne serviva.

Ci ha lasciato il 28 settembre,senzamai negarsi alle visita, deciso nei cennialla Sua fine e al silenzio chiesto, dopo diessa, a parenti ed amici, con la massimasobrietà di riti. Fui l’ultimo a parlargli.Sollecitato dagli amici, ne tradisco qui,ora, la volontà di silenzio post mortem,espressa con animo di cristiano antico edautentica. Ma non mi fa ombra lo scriveredi lui e della sua opera: doveroso come latestimonianza, doloroso come la perdita,per tutti noi.

Emilio Costa ci ha lasciatol’incarico, ma aveva ricevuto un rifiutogarbato, ma insormontabile. L’uomo checonosceva così bene le figure del Risor-gimento Ligure, che aveva illustrato indecine di convegni, riteneva di essereinadeguato a trattare l’argomento nelleaule universitarie.

L’Accademia voleva dargli un ricono-scimento per i suoi studi su DomenicoBuffa e l’Ovada dell’800 ma la sua innatamodestia era di ostacolo. Dovemmo ri-correre ad uno strattagemma Lo invi-tammo al pranzo in onore di FrancoResecco che veniva premiato per la sualunga attività di artista. Contento perl’onore reso all’amico si fece un dovere

di essere presente. Solo dopo la premia-zione di Franco, cogliendolo completa-mente impreparato. Lo mettemmo difronte al fatto compiuto. Si commosse egli fece piacere che a consegnargli la Me-daglia d’oro del Millenario fosse il sin-daco della nostra cittadina, VincenzoRobbiano.

Ma il premio si tradusse per Lui in unrinnovato proposito di impegno di studi,a noi rimane il ricordo di quei momentidi festa trascorsi insieme e della sua com-mozione.

Con la scomparsa di Emilio Costal’Accademia Urbense perde il suo numetutelare, colui che con il suo esempio distudioso, con la sua attività di presidenteaveva indicato ai giovani, che nel 1986fondarono la rivista URBS, la via per ilrinnovamento dell’associazione. Neglianni successivi il suo incoraggiamentonon era mancato e, nel 1991, quando ilconvegno storico: San Quintino di Spi-gno, Acqui Terme e Ovada: un millena-rio. Fondazioni religiose ed assettodemo-territoriale dell’Alto Monferratonei secoli X e XIII celebrò il millenariocittadino, e due giorni vennero dedicatiad Ovada e alla sua storia, Emilio inter-venne di persona con una relazione suDomenico Buffa. Da allora i rapporti conLui si intensificarono ed iniziò a collabo-rare alla rivista. Fu però nel dicembre del2002, in occasione del convegno indettodall’Accademia in memorie di AdrianoBausola che Egli partecipò di persona,trascinando con se l’amica Bianca Mon-tale e due ricercatrici del Mazziniano:Lara Piccardo e Liliana Bertuzzi, contri-buendo così alla piena riuscita di quelmomento. Fu un periodo questo digrande intesa e numerose volte andammoa trovarlo nella sua casa di Corniglianotornando sempre carichi di libri, giornalie documenti per la nostra biblioteca.

Volle a tutti i costi coinvolgerci con le sueiniziative. Partecipammo così al conve-gno organizzato dalla Società Universaledi Sampierdarena sulle Società Operaie, el’anno dopo a Savona, al Priamar suiprimi mazziniani di Liguria con una re-lazione su Carlo Cattaneo della Volta,marchese di Belforte dalla Carboneriaalla Giovine Italia. Queste esperienze cispronarono ad uscire dal nostro orticelloe a rappresentare Ovada in un ambito piùvasto Purtroppo di lì a poco l’ictus Lo do-veva colpire e iniziò una lunga riabilita-zione che però non dette i beneficisperati. Poi la lunga notte in cui il suo spi-rito forte si ribellava al corpo esausto inuna lotta che non dava speranze, ma ilsuo insegnamento non è venuto meno.

La grande mostra che lo scorso annol’Accademia Urbense ha organizzato peri 150 anni dell’Unità d’Italia: Vival'Itölia, lveve ra brètta. Ovada el'Ovadese nel Risorgimento, che tantosuccesso a riscosso sia fra gli Ovadesi siafra gli appassionati, rieccheggiava quellaorganizzata 40 anni prima proprio daEmilio Costa: Ovada come era, che seb-bene fosse stata allestita con povertà dimezzi lasciò un ottimo ricordo.

Ora la lotta si è acquietata e Emilio hatrovato finalmente la pace. A noi rimanesolo il dolore di aver perso un amico e laconsapevolezza di essere più soli, ma rin-noviamo il nostro impegno perché i temiche gli erano così cari non siano abbando-nati continueremo nel nostro lavoro sen-tendolo, come sempre, al nostro fianco.

Alessandro Laguzzi

Alla pag. precedente, Ovada 1961, EmilioCosta commemora il Centenario dell’Unità d’ItaliaA lato, Ovada 2002, premiazione del prof.Costa per i suoi studi RisorgimentaliA pag. 308, Ovada 2002, Emilio Costa interviene al Convegno in memoria di Adriano Bausola

É intenzione della redazione ricordarela figura di Emilio Costa con un numeromonografico a Lui dedicato; si pregano glistudiosi che vorranno aderire a comuni-care l’adesione alla redazione.

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Le manifestazioni per la pace mi sem-bravano un tempo un po’ patetiche; qual-che volta magari ipocrite, ma sostanzial-mente innocue. Devo confessare che le se-guivo in genere con scarso interesse, anchese venti e passa anni fa ho persino parteci-pato ad una delle prime marce da Perugiaad Assisi, trascinandomi appresso tre oquattro sventurati studenti. In quell’occa-sione coprimmo a piedi, per la mia solitasbadata buona fede, l’intero percorso (a dif-ferenza degli altri marciatori, che affronta-vano solo l’ultimo tratto - e già questo vuoidire qualcosa). In verità era stato più unpretesto per scappar di casa che il frutto diun’adesione convinta, e infatti non ascol-tammo gli oratori - anche perché arri-vammo mezza giornata dopo - e nemmenoricordo chi ci fosse (forse Aldo Capitini).Le stesse manifestazioni hanno invece co-minciato a infastidirmi da quando si sonoinfoltite di studenti in magno, di ragazzinetetragone alla storia e alla geografia, disbandieratori professionisti e di saltimban-chi di passaggio. Mi riferisco naturalmentealle manifestazioni nostrane, perché rico-nosco che altre, ad esempio quelle ameri-cane dei tempi del Vietnam, un senso ed uneffetto pratico lo hanno avuto, soprattuttoperché si accompagnavano ad attività di re-sistenza alla guerra più concrete, boicot-taggi, diserzioni, controinformazione, ecc...Da noi, in assenza di conflitti che ci vedes-sero impegnati in ruoli diversi da quello delportamazze, il pacifismo da corteo è sem-pre stato dapprima smaccatamente parti-giano e unilaterale, sotto l’egida delvecchio pci, poi è diventato il terreno digioco dei radicali e da ultimo ha ridato unachance di presenza politica alla Chiesa oalle varie chiese più o meno new age che sistanno diffondendo nel paese. È anche esi-stito, a onor del vero, un pacifismo d’élite,quello appunto originario della Perugia -Assisi, cui va riconosciuta se non altro lacoerenza e il purtroppo vano tentativo disottrarsi all’abbraccio dei partiti: ma è cosade passato, di poche personalità forgiate tral’altro proprio dall’ultima guerra mondiale,e di peso specifico, oltreché politico, deci-samente modesto. Non è un giudizio inge-neroso, ma una considerazione realistica:un conto è la stima per gli uomini, un altrol’apprezzamento delle loro idee. A mio giu-dizio infatti il problema del pacifismo nonconcerne solo la ricaduta pratica, ma lostesso assunto di partenza. E qui vado acacciarmi nei guai.

Vediamo di procedere con ordine. Di-cevo di come si vedono di lontano le cose.Oggi, in occasione della locale marcia della

pace, sono costretto a vederle da vicino,perché volente o nolente ci sono stato tiratodentro. E da dentro le cose appaiono di-verse, nel senso che sono peggio. Intanto lanecessità di contatti con il comitato promo-tore ti porta ad avere sentore di tutti i latenti- ma mica tanto - conflitti ideologici e deicontrasti personali che stanno dietro un’or-ganizzazione di questo tipo, delle conse-guenti mediazioni alchemiche che devonoessere operate e dell’inevitabile appiatti-mento di ogni posizione o interpretazioneoriginale sulla banalità degli slogan più omeno ufficiali. La verità è che paroled’ordine generiche e fumose come “la pacesenza se e senza ma” finiscono per mettereassieme, oltre ai succitati nuovi soggetti so-ciali, la più improbabile accozzaglia di mo-tivazioni, di provenienze, di modi e di scopiche si possa immaginare. Raccolgono ve-tero-comunisti, gruppi parrocchiali, buddi-sti nostrani, frequentatori di centri sociali,di monasteri, di mercatini biologici e di or-ganizzazioni ambientaliste, oltre natural-mente agli assessori e ai rappresentanti dipartito e a tutti quelli che non possono man-care perché le assenze si notano. Gente chenon ha assolutamente niente in comune, senon il telefonino, e che ha visioni delmondo - quando ce l’ha - totalmente con-trastanti e inconciliabili. Ben venga allorala pace, dirà qualcuno, se ha il potere dimettere d’accordo tante teste diverse! Unaccidente. Quale accordo? Su cosa debbaessere la pace e su come la si possa otte-nere? Basta vedere quante bandiere e inse-gne di ogni sorta di appartenenza e dimilitanza colorano il corteo per rendersiconto del paradosso. Le guerre si fannoproprio al seguito delle bandiere, si fannoquando ciascun individuo rinuncia a pen-sare e a partecipare a titolo personale, e siintruppa al seguito di uno stendardo.Quando accetta che in luogo del “ci sonoanch’io”, mescolato e disperso in mezzo atutti gli altri, ma proprio per questo unitoad essi, si dica “ci siamo anche noi”, rico-noscibili, visibili, distinti, fieri magari diaver ottenuto la prima fila e il primo pianotelevisivo. È vero, un corteo senza bandierenon fa colore: ma se il problema è questo,allora sono molto meglio le sfilate del car-nevale. Quello che sto dicendo potrà appa-rire superficiale e cinico, e non nego che unpo’ lo sia. Ma non vorrei essere frainteso.Non sto mettendo in dubbio la legittimitàdel manifestare a favore della pace: sto solochiedendomi se un certo tipo di manifesta-zioni universalistiche, forzatamente unita-rie e a loro modo integraliste, producanoqualche risultato, almeno a livello di una

maggiore consapevolezza individuale, onon inducano invece un generale svacca-mento. Non è difficile immaginare la rispo-sta. Sono fermamente convinto che il farmale le cose sia sempre peggio del nonfarle, e che la stessa coscienza che ci inducea pensare che qualcosa va fatto debbaanche imporci di farlo come meglio pos-siamo. Ciascuno ha il diritto di desiderarela pace, ma ogni diritto postula dei doveri,e il primo dovere in questo caso è quello diessere seri con se stessi e con il bene desi-derato; di sapere, cioè, che cosa veramentesi vuole.

Ed è qui che torna in ballo l’assunto dibase, e mi gioco definitivamente la reputa-zione. Desiderare la pace per sé e per glialtri è legittimo e sacrosanto, ci manche-rebbe altro. Non mi azzardo a aggiungereche è anche naturale, perché in effetti nonlo è. In natura la legge è quella della com-petizione, e la competizione è conflitto. Maa dispetto degli eco-integralisti non sempreciò che è naturale è meglio di ciò che èfrutto di artificio, del prodotto culturale. Ildesiderio di pace è un frutto della cultura, edella volontà umana che le sta dietro. Pacein terra agli uomini di buona volontà recitail vangelo, declassandola un po’ a regalo dacarta-Bennet. La versione corretta do-vrebbe suonare invece “dagli” uomini dibuona volontà. La pace può venire solo dalconcorso delle buone volontà di tutti uo-mini. Il problema è che non tutti gli uominiquesta volontà ce l’hanno altrettanto buona.Alcuni ne hanno un po’ meno, altri sonoproprio stronzi, geneticamente malvagi. Eoccorre partire da questo dato di fatto, enon fingere di ignorarlo, se davvero si vuoirealizzare quel poco di pace che già sarebbeauspicabile, e che non c’è. All’atto praticoquesto significa una cosa molto semplice:volere la pace non implica adottare sempree soltanto la resa incondizionata comeforma di lotta. Significa volere davvero lasoluzione pacifica e dare all’antagonistal’opportunità di capirne i vantaggi, ma es-sere anche preparati a scontrarsi con un te-stone e a ridurlo all’impotenza. Perrimanere in tema evangelico, se ho capitobene il personaggio e lo spirito che loanima, quando Gesù ci invita a porgerel’altra guancia intende dire che non dob-biamo lasciarci andare ad una reazioneistintiva e rabbiosa, ma concedere al nostroavversario il tempo di realizzare che si stacomportando male e magari di pentirsi: chedobbiamo insomma contare sino a dieci,come mi raccomandavano i miei genitori.Non dice però che dobbiamo offrirci comepungiball per i suoi allenamenti al male.

Contare fino a dieciDiscorso sul pacifismo che avrei dovuto tenere ad un’assemblea di pacifisti,ma che non ho pronunciato in quanto pacifistadi Paolo Repetto

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Quindi, se davvero voglio la pace offrol’altra guancia, ma se vedo che l’amico ciha provato gusto alla prima e si prepara acolpire nuovamente lo prevengo e lo dis-suado, e conto sino a dieci quando è lungoper terra, come io interpretavo la raccoman-dazione. Questo ci porta su un terreno mi-nato, lo capisco bene, lungo una strada cheparrebbe condurre sino alle guerre preven-tive. Non è affatto così io sono più ottimi-sta rispetto agli uomini di quanto lo siano iteorici della resa incondizionata (che è lamaniera più brusca ma anche più esplicitaper definire la “pace senza se e senza ma”):non credo nella loro bontà, ma credo nelloro buon senso, o almeno nel fatto che lamaggioranza lo possieda, e preferisca findove è possibile evitare il conflitto, se nonaltro per una rispettabilissima paura. Ma findove è dignitosamente possibile, e nonoltre. Quindi rifiuto a priori di perderetempo con chi rilegge la storia ipotizzandomiracolosi approcci di pace ad Hitler (nonme lo sto inventando, è una delle posizionipresenti in questa manifestazione: e d’altrocanto era anche quella di certo pacifismo an-glosassone alla Bertrand Russell) e ritieneper l’oggi sempre e comunque non solo pos-sibile, ma addirittura senza alternative, lamediazione. Questo non ha più niente a chevedere col pacifismo, questa è idiozia.

Forse sto forzando i toni, ma non tolleroche vengano ridotte a pagliacciate le pocheidee serie che ancora sopravvivono. Il paci-fismo serio non ha niente a che fare natural-mente con le mode, ma nemmeno con leposizioni assiomatiche né con le profes-sioni religiose o ideologiche: nasce da unadisposizione di carattere, ma per cresceredeve nutrirsi di conoscenza storica e di con-sapevole realismo biologico. Funziona, secorrettamente usato, come strumento: perdeogni possibilità di azione concreta quandodiventa uno scopo. Proviamo ad applicarequeste distinzioni alla situazione attuale,quella che ci ha indotti a mobilitarci. C’èdifferenza tra l’affermare che la guerra nonha mai risolto i conflitti e il sostenere che“questa” guerra non ha altra motivazione senon l’egemonia economica e strategicadegli Stati Uniti, così come tante altre chel’hanno preceduta nel secolo scorso. Nelprimo caso non si ritiene mai giustificataalcuna azione militare, sia pure di rispostaad una aggressione o di resistenza, e si met-tono sullo stesso piano gli aggrediti e gliaggressori, fornendo pretesti al sarcasmodegli opinionisti di regime: nel secondo sismonta l’apparato di condizionamento del-l’opinione pubblica mondiale montatodagli USA sull’attacco alle Twin Towers, sifa opera di controinformazione e magari siinsinua qualche dubbio anche nelle co-scienze più lobotomizzate dal martella-mento televisivo. Certo, nella sostanza,rispetto a questo particolare momento, si

arriva alla stessa conclusione, e cioè chequesta guerra non s’ha da fare. Ma non misembrano indifferenti i percorsi e i modi at-traverso i quali ad essa si perviene, perchéquei modi sono parte integrante del convin-cimento che deve animarci.

Questo convincimento si fonda sullaconsapevolezza che il problema non è in re-altà rappresentato dalla guerra, questa oaltre che siano, ma da un progetto strate-gico globale, di controllo del mondo interoe delle sue risorse, che si esplica nelleforme più disparate e capillari, e del qualela guerra è solo uno dei momenti più appa-riscenti, ma certamente non il più efficace enemmeno il più distruttivo, e gli USA stessisono alla fin fine solo pedine, come noi. Cisono bombardamenti effettuati con armiben più intelligenti di quelle del Pentagono,martellamenti più subdoli ma altrettantodevastanti, dei quali sono vittime i nostricorpi e i nostri cervelli, e quando dico no-stri mi riferisco a sei miliardi e passa di es-seri umani, ma soprattutto a quel miliardoche la guerra crederà di averla vinta. In re-altà “questa” guerra noi la perdiamo tutti igiorni, nel momento in cui consideriamocome ineluttabile e irrinunciabile, o addi-rittura esportabile, un certo standard di vita,un certo livello di benessere; conseguente-mente, lo si voglia o no, accettiamo che lanostra esistenza di produttori e di consuma-tori sia risucchiata nel processo di autono-mizzazione di quelli che un tempo erano glistrumenti del sogno occidentale, la scienzae la tecnica, divenuti oggi valori autorefe-renziali nel segno di una crescita illimitata.L’aspetto più tragico di questa guerra, e in-sieme il più paradossale, è costituito dalfatto che gli attaccati e le loro milizie, le si-nistre internazionali, non hanno nemmenoancora individuato il vero nemico, e conti-nuano a battersi soltanto contro le forze au-siliarie, i frombolieri del capitale, senzarendersi conto che i colpi veri arrivanodalle artiglierie di quella che ancora vieneconsiderata la neutralità del Progresso.

Prevengo la vostra obbiezione. Il modomigliore per non affrontare un problema èsempre stato quello di non considerarlo ilvero problema, e di risalire tanto a monteda perdere di vista ogni possibilità praticadi azione. Non è questo che intendo fare.Intendo parlare di strategie che mi sem-brano più efficaci e più serie rispetto allemarce per la pace, o almeno rispetto aquelle marce per la pace che possono di-ventare grandi momenti di aggregazione edi visibilità, ma rischiano di rimanere per-fettamente fini a se stessi. Se il problemanon è questa specifica guerra, che pure c’èe per carità va in ogni modo osteggiata, seil problema non è neppure l’imperialismoamericano, che pure c’è e si fa sentire ed èproconsole dell’impero della crescita, equindi va combattuto con ogni mezzo, se il

problema vero è per l’appuntol’autoperpetuazione della crescita, alloravanno studiate ed adottate strategie di con-tenimento e di rovesciamento di questo dominio, ed elaborate proposte realistica-mente alternative alla progressione illimi-tata. E l’unico modo per essere realisti,rispetto a questo, è accettare l’idea che ridu-zione dello sviluppo non significa soltantopiù equa redistribuzione significa proprioregressione del livello di benessere, o al-meno di quello che qui da noi chiamiamocosì. Non è sufficiente pensare che se le ri-sorse fossero distribuite in modo menoscandaloso si ovvierebbe al problema dellafame: occorre rendersi conto che tra quelliche beneficiano dello scandalo ci siamo co-munque anche noi, e che dobbiamo assal-tare il palazzo d’inverno non per spartire lesuppellettili o ricavarne dei mini apparta-menti, ma per liquidare quella forma di po-tere e sottrarci al suo dominio.

Tradotto in termini concreti, tutto que-sto significa ad esempio auto limitazionenei consumi di ogni tipo, praticata a partiremagari dalla sottrazione al nuovo e capil-lare strumentario della sorveglianza (ban-comat, carte di credito, telepass, cartepremio, telefonini, utenze le più svariate,ecc...), il che consentirebbe almeno la spa-rizione progressiva dagli schermi radardelle centrali di controllo, o attraverso il ri-fiuto di ogni forma di spettacolarizzazionedel proprio agire, individuale e collettivo (ilche ribalta la logica della visibilità sullaquale si fondano queste marce e l’interoagire politico della odierna sinistra, nellesue componenti moderate come, in manierasolo in apparenza diversa, in quelle movi-mentiste o autonomistiche, dietro l’ipocritaassunto che o si gioca questo gioco o siscompare - come se sparire significassesolo “non apparire”). Significa anche, adesempio, capire che optando per il consumoequo o solidale o per quello biologico sicompie una scelta lodevolissima ma non sirisolve il problema, perché questo spostasoltanto l’ordine dei fattori, senza cambiareil risultato. Non è questione di consumarepapaya non trattata o commercializzata dareti alternative, ma se sia proprio necessa-rio consumare papaya o qualsivoglia altroprodotto messo in circolo e imposto dallaglobalizzazione. Perché in questo modo lapretesa, peraltro legittima, di mangiare cosepiù genuine e di respirare un’aria più pulitarischia di tradursi in un ulteriore elementodi spinta alla autonomizzazione dello svi-luppo, se prescinde dalla necessità di eman-ciparsi dallo stesso: tale pretesa riposainfatti pur sempre sul convincimento che lacrescita scientifico-tecnologica sarà ingrado di consentirci anche questo lusso, dimangiare tutti e meglio producendo e in-quinando meno. Significa anche rendersi fi-nalmente conto che in quest’ottica la lotte

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connesse alla dinamica dei rapporti di pro-duzione, quelle per intenderci in difesa del-l’occupazione e delle conquiste sociali esindacali, sono lotte di retroguardia, sem-plici operazioni di disturbo, marginali e ir-rilevanti rispetto al vero conflitto, ecomunque ancora interne alla logica dellosviluppo illimitato. Le contraddizioni sonoormai evidenti, esplodono ogni volta che aconfrontarsi sono le esigenze dell’occupa-zione e quelle della salvaguardia ambien-tale, e nascono dall’ostinazione adinterpretare a misura d’uomo un sistema dicrescita che da un pezzo si è dato parame-tri diversi, nei quali l’uomo non rientra piùcome fine e a breve non rientrerà nemmenocome mezzo.

Magari parrà che io stia auspicando unnuovo ascetismo, o una scelta savonaro-liana, ma le cose non stanno affatto così.Non è in questione un ritorno al medioevoo all’età preindustriale, sto parlando solo difreno alla crescita, e quindi indubbiamenteanche di una regressione, ma solo ad un li-vello di consumi che appare oggi, per cia-scuno di noi, anche prescindendo dagliyacht o dagli elicotteri o dalle ferrari dei piùaccreditati servi della crescita, assoluta-mente assurdo. E mi rendo anche conto chenon basta praticare questo stile di vita, maoccorre diffonderlo, propagandarlo: nonper questo credo tuttavia che sia necessariopiegarsi all’obbligo della visibilità. Pos-siamo anzi cominciar proprio di qui a libe-rarci, boicottando ogni apparizionetelevisiva. Ci sono altri mezzi, quello radio-fonico ad esempio, che per l’esiguità deicosti possono essere gestiti in proprio, emagari creare già di per sé un diverso stilecomunicativo, ma sono lasciati oggi inmano ai venditori di canzonette, o peggioancora al Vaticano e ai radicali. Non sitratta quindi di rifiutare la tecnica, ma discongiurarne l’autocratico dominio, di evi-tare di essere fagocitati nel vortice della suaautoreferenzialità, e di sfruttarne quindi glistrumenti più maneggevoli e meno perico-losi. Gli appelli per le grandi manifesta-zioni, per le occasioni di incontro, didisobbedienza, di opposizione, possonopassare di lì. E se l’affluenza sarà minore,se andranno persi quelli che avrebbero par-tecipato per potersi rivedere, tanto di gua-dagnato, È ora di liberarsi di questaossessione dei numeri, e della riduzionedella democrazia a scontro di cifre.

E questa guerra, allora? lasciamo che sifaccia? Francamente, sono convinto che lafaranno comunque, anche se manifestas-simo in venticinque milioni. E che sia as-surdo, e anche colpevolmente ingenuo,pensare che i governi e i poteri non possanonon tener conto delle cifre della mobilita-zione. Sai quanto gliene può fregare dei no-stri slogan, quando sono certi di averci inmano col ricatto del “benessere”. Credoanzi che in questo modo non solo la passe-

ranno liscia, ironizzando anche sulle malin-coniche sfilate multicolori, ma addiritturasi sentiranno più tranquilli per la prossimaoccasione, che non tarderà a presentarsi:mentre sarebbe forse bastato identificaredue o tre multinazionali colluse col settoredelle armi, con quello del petrolio, con lesponsorizzazioni del presidente americanoo con i suoi affari, cioè in pratica tutte, elanciare campagne internazionali di boicot-taggio dei loro prodotti nei settori più paci-fici di consumo, per creare anche nel frontedei guerrafondai qualche spaccatura e qual-che interessato ripensamento. Avrebbe po-tuto essere il primo piccione, e in caso dirisultati positivi si sarebbe trascinato ap-presso anche il secondo, lo smaschera-mento cioè della coazione al cicloproduzione-consumo come atto di guerra,e dell’intero sistema di sviluppo che su essasi fonda come nemico.

Recensioni

GIANNI REPETTO, Per non morire dideculturazione. Materiali per un territo-rio, Tipografia Pesce, Ovada 2011

Per anni Gianni Repetto ha diretto inmodo creativo, con grande competenza epassione, il Parco Naturale di Capanne diMarcarolo, cercando non solo di salvaguar-darne e valorizzarne il patrimonio naturali-stico, ma anche di recuperarne, per così diree per quanto possibile, la storia e la cultura.Da un lato, infatti, ha promosso la tuteladella biodiversità, salvando dall’estinzione“le varietà storiche della frutta coltivata suinostri monti prima del grande esodo deglianni ’60”; dall’altro, mediante la pubblica-zione di un atlante toponomastico e varieindagini di tipo storico e linguistico, hacontribuito a sensibilizzare l’opinione pub-blica sulla necessità vitale di preservarel’identità di un territorio: operazione, que-sta, tutt’altro che facile, che passa attra-verso l’amorosa difesa delle radici e delletradizioni locali, a cominciare dalla lingua(un tempo) parlata in loco, dal dialetto,dalle memorie e dalle storie delle singolecomunità. Alla base di queste iniziative c’èovviamente una fede profonda e convintanella “civiltà rurale”, nel “mondo conta-dino”, visti come modelli di vita autentica,

a misura d’uomo, nel rispetto quasi reli-gioso della natura. Rimettere la natura alcentro del discorso vuol dire rinunciare aogni hybris, ad ogni volontà di potenza e, diconseguenza, a ogni insana sfida che rischidi affrettare l’apocalisse. Di cui già si av-vertono inquietanti presagi.

L’ideale umano di Repetto non è dun-que il superuomo faustiano, bensì l’umile“ricamatore della Terra”, il contadino chevive in un rapporto simbiotico e solidalecon la natura. Mentre il primo, spinto dauna forsennata libido dominandi, non si av-vede di essere una semplice mosca coc-chiera o, meglio ancora, un apprendistastregone inetto a governare le “forzeoscure” da lui stesso evocate, il secondo haun sacrale rispetto della natura, da cui di-pende non meno di tutta la “bella d’erbe fa-miglia e di animali” che lo circonda; epoiché sa che la natura tende costantementeall’omeostasi e pertanto nei suoi moti è im-prevedibile e talora - se è lecito giudicarlacon criteri che non sono i suoi - anche “cru-dele”, per premunirsi si stringe, leopardia-namente, “in solidal catena” con i suoisimili, “porgendo / valida e pronta ed aspet-tando aita / negli alterni perigli e nelle an-gosce / della guerra comune”. Tornare allanatura, in fondo, significa tornare alla co-munità, che è sì fatta di uomini (e dagli uo-mini), ma, per certi versi, è anch’essa“naturale”. Ognuno di noi, venendo almondo, se la ritrova, a prescindere da ogniscelta, al pari dei propri genitori, del lin-guaggio che - per dirla con Heidegger - “ciparla” ancor prima che ne prendiamo co-scienza. La comunità è “un tutto, la cui por-tata eccede quella delle parti: solidarietà eaiuto reciproco vi si sviluppano dal con-cetto di bene comune, non distribuitougualmente fra tutti, ma di cui si gode su-bito, prima della spartizione” (Alain de Be-noist). È insomma l’insieme delleconsuetudini e delle attitudini che sono in-scindibilmente legate a un luogo partico-lare, a uno spazio geografico circoscritto,di qualche omogeneità, e per ciò stesso di-verse, sia pure per sfumature a volte imper-cettibili, da quelle delle comunità limitrofe.È il cibo che mangiamo, l’aria che respi-riamo; sono i luoghi e le persone chedanno, effettivamente ed affettivamente,senso e colore alla nostra esistenza. Modelliculturali, luoghi dell’anima che segnano edorientano i nostri destini.

Ebbene, anche le comunità muoiono,anche le culture che esse esprimono. Unpo’ a causa della globalizzazione e del pen-siero unico che - al pari della notte hege-liana - tende a sopprimere tutte le dif- ferenze, omologando mentalità e culture;un po’ per la forza d’inerzia che ci inducead assecondare passivamente l’economi -cismo imperante. Adorno ha dimostratocome, tramite l’ideologia dell’industria cul-turale, l’adattamento abbia ormai preso il

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posto della coscienza. La mentalità comuneoggi comporta infatti l’adattamento, sen-z’alcuna riflessione, a ciò che immediata-mente è, nella sua potenza, nella suaonnipresenza. Col risultato - messo in evi-denza da Marcuse - che “le persone si rico-noscono nelle loro merci; trovano la loroanima nella loro automobile, nel giradischiad alta fedeltà, nella casa a due livelli, nel-l’attrezzatura della cucina”. Completa-mente alienate o, per meglio dire,anestetizzate dal sistema, esse non riesconopiù a distinguere in maniera critica fra biso-gni “veri” e bisogni “falsi”. Ne risulta unasorta di “inferno vellutato”, “un’euforiaframmezzo all’infelicità”: un’euforia chenasce dal bisogno di “rilassarsi, di diver-tirsi, di comportarsi e di consumare in ac-cordo con gli annunci pubblicitari, di amaree odiare ciò che altri amano e odiano”.L’uomo a una dimensione è il frutto dell’in-naturale appiattimento indotto dalla societàindustriale avanzata, dove gli individuisono numeri, anzi atomi fungibili, asserra-gliati come monadi senza porte e senza fi-nestre nella loro ovattata disperazione. E lecomunità si dissolvono così in agglomeratisociali indifferenziati, senza storia, senzamemoria, senza identità. Senza bellezza,verrebbe da aggiungere. Così si muore: dideculturazione.

Preso atto di questa realtà, material-mente, per esperienza diretta, prima ancorache per via teoretica, Repetto si è subito at-tivato per impedire la catastrofe. Una voltaindividuate le cause dello sfacelo, si è pre-murato di escogitare gli antidoti necessariper invertire la tendenza. Sul piano con-creto non resta che (ri)partire dalla natura,dal recupero e dalla valorizzazione dell’am-biente rurale, che non va considerato comeun insieme di risorse da sfruttare - come fi-nora si è fatto - in maniera a volte dissen-nata. E poi aiutare gli agricoltori rimasti apresidiare il territorio, a produrre biologi-camente, senza intralciarli con pastoie bu-rocratiche. Trasformare l’economia (conta-dina) di sussistenza in “multispecializza-zione di nicchia”. Non lasciar morirel’artigianato locale. Valorizzare il disagio,“senza farsi incantare dalla sirena delle in-frastrutture che non sono mai fatte per ipaesani, ma per coloro che dopo aver rapi-nato il piano vogliono mettere a soqquadroanche la montagna”. Incrementare la demo-crazia, incoraggiando le forme dirette dipartecipazione...

Ma queste misure non sarebbero chepalliativi inefficaci se dietro non ci fosse unrecupero, appunto, della memoria storica euna convinta riappropriazione delle proprieradici. L’identità, cioè la tradizione vivente,di una comunità non si riacquista se non at-traverso un atto d’amore, una condivisionedi intenti, uno slancio appassionato che nerimetta in circolo i miti fondanti e ridiasmalto e nerbo all’immaginario collettivo.

Lo strumento ideale per rendere possibilequesta impresa è l’affabulazione: un’affa-bulazione che prima di diventare letteraria,prima quindi di tradursi in scrittura, sia, co-m’era in origine, oralità: logos (parola) ca-pace di farsi mythos (racconto esemplare).Una comunità, potremmo anzi dire una ci-viltà, vive nella sua lingua, attraverso laforza della sua parola. Repetto, che ne è benconsapevole, nell’ultima sezione di questovolume, dopo aver dato spazio alla storia ealla memoria, dopo aver discettato sul-l’identità, sulle cause della sua crisi e suipossibili rimedi, si lascia andare, con il tra-sporto che gli conosciamo, ad alcune me-morabili esemplificazioni, raccontando“storie di vigna” e suggestioni d’infanzia inuna lingua screziata di dialettalismi, cheperò, memore della lezione verghiana, deldialetto serba più che altro l’intonazione, lacadenza, l’impronta orale. A questo ri-guardo proprio “Storie di vigna”, un branodi teatro (di parola) che, rifacendosi ai modie ai temi della “veglia”, dà voce a una co-munità di parlanti e recupera una “coralità”forse mai più sperimentata dopo Goldoni (eci riferiamo a Le baruffe chiozzotte o, me-glio ancora, ad Una delle ultime sere di car-nevale), ci sembra particolarmente inte- ressante e passibile di ulteriori sviluppi. Chivivrà, vedrà.

Carlo Prosperi

CAMILLA SALVAGO RAGGI, Memorie im-proprie, maria pacini fazzi editore, 2012,

Mario Canepa, raffinato narratore difatti fuori dell’ordinario, già da tempo miaveva raccontato di come Camilla SalvagoRaggi, per un curioso intreccio di circo-stanze al limite dell’incredibile, avrebbepotuto andare in sposa a Ronald Reagan, ilfuturo Presidente degli Stati Uniti, “rubare”la dignità di first lady a Nancy ed installarsialla Casa Bianca.

Ma la succosa vicenda che sarà oggetto,specialmente tra il pubblico femminile, diinfiniti commenti salottieri è ormai di pub-blico dominio poiché l’Autrice di Memorieimproprie la racconta con la massima natu-

ralezza e una certa dovizia di particolari.Nondimeno, quella che dalle prime pa-

gine potrebbe sembrare solo un leggero ededulcorato racconto della propria vita è ineffetti una autobiografia, quanto mai scru-polosa e ponderata, aperta – per la primavolta – al ricordo della madre e dei fratelli.E, come lei stessa ammette, “ Nessuno dicemai tutto di sé. C’è sempre qualcosa che,coscientemente o meno, ha preferito tenernascosto. Ma, state pur certi, quel qualcosaad un certo punto salterà fuori”. Que-st’ opera è stata appunto l’occasione perraccontare di quella parte della famigliamaterna, tenuta sempre in ombra, sebbenela Mamma – sapientemente mascherata –affiori nelle sue opere precedenti come: Pa-radiso Bugiardo, L’ora blu, Prima o poi.

Il racconto si radica nei primi anni del-l’educazione scolastica con l’immancabile– in una famiglia blasonata – istitutrice dilingua inglese e risale lungo gli anni versola singolare situazione di trovarsi investita– in giovanissima età – della responsabilitàe del titolo di marchesa.

Tra l’altro l’Autrice non omette di ri-vangare la figura di suo padre Paris e, ine-luttabilmente, la spiacevole situazione (perl’epoca) che lo vedeva convivere con unadonna che, non avendo ottenuto il divorziodal primo marito, non aveva potuto convo-lare a giuste nozze come allora era prassi.

Seguono le nozze della giovane Mar-chesa con un ufficiale di Marina dal tragicodestino; la breve vedovanza e le nozze conMarcello Venturi col quale dividerà gli annipiù felici ed intensi della sua vita di scrit-trice.

Nello stesso tempo, forse senza chel’Autrice ne abbia pienamente contezza,l’opera è un quadro quanto mai aperto sullavita di una grande famiglia, nobile edagiata, del Novecento che scorre tra palazzinobiliari, ville, vaste proprietà agricole e ri-cevimenti. Inevitabili quindi i richiami alleimportanti figure dei Salvago Raggi: il bis-nonno Paris, il nonno Giuseppe, nonna Ca-milla, nonna Menotti e così via.

Il volume si chiude con una ricetta dacucina ed un commento che attenua la se-rietà degli argomenti trattati: Non so, forsenon si dovrebbe finire un libro con una ri-cetta? Ma questo non è un libro, è un pot-pourri di cose che non legano tra di loro,come una maionese impazzita. Ecco: peruna che in cucina combina solo disastri, iltitolo giusto potrebbe esser questo: una ma-ionese impazzita!

Pier Giorgio Fassino

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