UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI NAPOLI FEDERICO II FACOLTA ... · Adam Smith ,in una celebre ......
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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI NAPOLI FEDERICO II
FACOLTA’ DI LETTERE E FILOSOFIA
Corso di Laurea in Lettere Moderne
TESI DI LAUREA
IN
MUSEOGRAFIA
MUSEI AZIENDALI: TRE ESEMPI IN EMILIA ROMAGNA.
Relatore: Candidata: Prof. Vincenza Sansone Arturo Fittipaldi matr. 02/22105
ANNO ACCADEMICO 2006/2007
INDICE
I. Storia di una rivoluzione I. 1 La rivoluzione industriale p.1 I. 2 Perché l’Inghilterra? p.10 I. 3 L’Italia p.15
II. Musei nell’Ottocento II. 1 Nascita dei musei p.26 II. 2 Musei industriali e artistico – industriali p.37 II. 3 Il Regio Museo Industriale Italiano p.53 II. 4 Un museo dell’industria legato al territorio nell’età della globalizzazione p.81
III. Musei e aziende III. 1 Dal tempio delle Muse ai musei delle aziende p.95 III. 2 Musei d’impresa p.117 III. 3 Il Museo Alessi e la Fondazione Piaggio p.133 III. 4 La parola all’oggetto e l’industrial design p.143
IV. Museo Ducati IV. 1 Dal “cucciolo” alla “desmo” attraverso le stanze del museo p.172 IV. 2 Uno sguardo oltre la collezione p.188 IV. 3 Dai radio-brevetti alle moto p.199
V. La Galleria Ferrari V. 1 Entriamo a visitare la Galleria Ferrari p.210 V. 2 Ferrari e poi p.223
VI. Il Museo Lamborghini VI. 1 Il museo della casa del toro p.233 VI. 2 Terra di motori p.252
Appendice I. Intervista a Livio Lodi curatore del Museo Ducati p.258 Bibliografia p.263
1
I. Storia di una rivoluzione
I.1 La rivoluzione industriale 1851. Londra aveva riunito 17.000 espositori al “Palazzo di
Vetro”, alla Esposizione Universale, la prima rassegna delle
realizzazioni industriali dell’epoca delle macchine e del vapore di
recente inaugurata.
Il primato inglese era schiacciante: il suo prodotto interno era
arrivato a 580 milioni di sterline, cioè al doppio di quello
registrato cinquanta anni prima.1
Il Chrystal Palace segnò, all’aprirsi del secolo, l’apogeo
dell’Inghilterra come “officina del mondo”.2
Cosa era accaduto? L’Inghilterra aveva dato avvio al processo di
industrializzazione nel settecento, quello che è generalmente
indicato col termine di rivoluzione industriale.
1cfr. V.Castronovo, La rivoluzione industriale, Sansoni, Firenze, 1973, pagg. 80-81 2 D.Landes, Prometeo liberato. Trasformazioni tecnologiche e sviluppo industriale nell’Europa occidentale dal 1750 ai giorni nostri. Einaudi,Torino,1978, pag. 164
2
<<Quando J.Wyatt, nel 1735, annunciò la sua macchina per
filare - scrive Marx nel Capitale –ebbe inizio la rivoluzione
industriale del diciottesimo secolo[…]
E’ la macchina-utensile che inaugura nel decimottavo secolo la
rivoluzione industriale>>3
In sede storiografica non tutti accettano questa denominazione
come la più appropriata.
Rivoluzione industriale o evoluzione?
Rottura radicale col passato nei modi di produzione e
nell’organizzazione sociale o maturazione senza apparenti
cesure?
<<La parola rivoluzione - ha scritto Ashton – implica una
subitaneità di cambiamento che, in realtà, non è tipica dei
processi economici>>4
Nel 1778 A. Joung aveva intravisto una <<rivoluzione in atto>>.
I primi a parlare di <<rivoluzione industriale>> furono, tra il
1844 e il 1848, F. Engels e l’economista J. Stuart Mill. Con la
pubblicazione nel 1884 delle Lectures on the Industrial
Revolution of the 18th Century in England di Arnold Toynbee
l’espressione entrò nell’uso comune. Per più di trent’anni, a
partire dalla metà dell’ottocento, il termine di rivoluzione
industriale non fu contestato. Tale problema storiografico oggi ha
3 cit.in.V.Castronovo, op. cit, pag. 2 4 cit. in ivi,pag. 7
3
acquistato un rilievo diverso per il venir meno della prospettiva
storico-politica entro cui le interpretazioni che insistevano più
sull’evoluzione che sulla rivoluzione erano state assunte. Nella
rivoluzione industriale, come in ciascun evento storico, sono
presenti molti elementi di continuità caratteristici dei periodi
precedenti, e una complessa connessione di fattori di origine
diversa. Tuttavia oggi si tende, sia pure con molte differenze e
sfumature, ad accettare la nozione di rivoluzione industriale,
come un’irrevocabile, e forse la maggiore, frattura verificatasi nel
corso della storia: se non altro perché la continuità del processo
economico e l’equilibrio dei precedenti rapporti di produzione e
delle forze sociali vennero allora spezzati nel giro di tre sole
generazioni. Mantoux, in un’opera classica del 1905 5, osservava
che l’invenzione delle macchine non era stata prerogativa del
diciottesimo secolo. In effetti la sfera vuota di Erone è stato il
principio della macchina a vapore. Tuttavia non ne era venuto
niente fuori. Dai tempi della Grecia erano stati numerosi i
cambiamenti e i progressi tecnici, ma non avevano portato alla
nascita dell’industria. Lo sviluppo tecnologico che si è avuto in
2000 anni è stato certamente importante, ma va distinto da
quello che è accaduto nel XVIII secolo. La storia delle
parole,delle definizioni, ci consente di cogliere –almeno come
5 P.Mantoux, La rivoluzione industriale. Saggio sulle origini della grande industria moderna in Inghilterra.Editori Riuniti, Roma, 1971, pagg. 55-113
4
prima approssimazione – il momento in cui taluni fenomeni
assumono dimensioni talmente nuove che, nel far ricorso a
termini preesistenti, imprimono loro nuovo significato. Industria
–prima della rivoluzione industriale – era il nome di un
particolare attributo dell’uomo,nome che potrebbe essere
parafrasato con “abilità, assiduità, diligenza ingegnosa” come
indica l’etimologia latina. Dovrà essere nostro compito cercare di
determinare, storicamente, i vari momenti in cui l’industria –
come fatto moderno- si è affermata e cosa abbia significato
questa affermazione: se cioè essa si sia risolta in un semplice
processo di industrializzazione o se sia giunta a creare una civiltà
industriale. Secondo Ruggiero Romano5 l’industria in senso
moderno presenta caratteri sconosciuti a tutti i fenomeni che
l’avevano preceduta: industria significa rapporto uomo-natura
mediato dal lavoro svolto attraverso la macchina e che coinvolge
a fondo i concetti di quantità e di qualità,mentre infine il più
grande cambiamento è quello che si riferisce al mondo del
lavoro. Romano invita a non confondere natura e ruralità. Il
mondo rurale ha già sconvolto la natura non meno di quanto lo
abbia fatto l’industria. Le attuali giuste proteste per gli squilibri
indotti dal processo di industrializzazione non debbono farci
dimenticare altre più antiche proteste che sono state indotte
5 R.Romano, Industria: storia e problemi. Einaudi,Torino,1976
5
dagli squilibri apportati dall’agricoltura. Caino, l’agricoltore, non
uccide Abele,il pastore?E per risalire più vicino a noi, non si
protesterà contro l’introduzione in Europa del mais,del riso e
delle patate? L’agricoltura rappresenta la prima stabilizzazione
dell’uomo, che modifica l’ambiente ai suoi fini. L’agricoltura è la
più antica delle arti: razionalizza, precisa il limite, il mio e il tuo,
produce per sopravvivere. E’ il primo segno di produttività e di
proprietà privata. Ad essa si lega in maniera particolare il valore
del tempo,che diviene prezioso,diventa sinonimo di denaro e
pertanto non va sprecato. Lo stesso Marx vide il punto cruciale
del processo nella sostituzione degli strumenti tradizionali con
macchine di lavorazione azionate da energia termomeccanica. Le
attrezzature mosse dall’uomo appaiono come un prolungamento
dei suoi organi. L’organo trasmette e amplifica la forza umana,
non agisce per virtù della sua struttura interna. L’attrezzo sposa
il ritmo del corpo: agisce nel tempo umano in quanto non ha un
tempo proprio. Soltanto un mezzo naturale come il fuoco fa
eccezione. Secondo Marx gli strumenti e gli apparecchi coi quali
lavora l’artigiano diventano strumenti di un meccanismo, e
riappaiono in questo in dimensione ciclopica. La piallatrice
meccanica è così un falegname di ferro che lavora sul legno con
gli stessi strumenti del falegname in carne ed ossa.
6
Cambiano i luoghi del lavoro e nasce la fabbrica che
rappresenta un altro punto di arrivo di una complessa
evoluzione. La stessa architettura degli edifici ne esce
modificata: non più bassi fabbricati che si sviluppano in
lunghezza, come potevano essere “le manifatture reali” fatte
installare da Colbert attraverso tutta la Francia, ma imponenti
edifici a più piani. La bottega e il laboratorio casalingo cedettero
il posto allo stabilimento e alla fabbrica. Quest’ultima fu qualcosa
di più che una grande unità lavorativa. Fu infatti un sistema di
produzione basato su due nuovi protagonisti del processo
produttivo: l’imprenditore che anticipa il capitale tecnico, ne
sorveglia l’uso e vende il prodotto finito e l’operaio ridotto al
rango di manodopera. A legare l’uno all’altro è il nesso salariale.
Attraverso la macchina e la fabbrica si è fatto un primo passo
verso l’identificazione di quello che costituisce certamente
l’aspetto più originale della rivoluzione industriale: la divisione
del lavoro.
<< Un uomo trafila il metallo,un altro raddrizza il filo,un terzo lo taglia, un quarto gli fa la punta,un quinto lo schiaccia all’estremità dove deve inserirsi la capocchia;fare la capocchia richiede due o tre operazioni distinte; inserirla è un’attività distinta,pulire gli spilli è un’altra, e persino il metterli nella carta è un’operazione a sé stante; sicchè l’importante attività di fabbricare uno spillo viene divisa in tal modo in circa diciotto distinte operazioni….>>7
7 cit. in P. L. Bassignana, Dalla manifattura alla fabbrica,sta in, AA.VV,IL sogno della città industriale tra ottocento e novecento, catalogo della mostra, Fabbri,Milano,1994,pag. 77
7
Adam Smith ,in una celebre pagina della Ricchezza delle nazioni,
così descrive la produzione di spilli per illustrare i vantaggi
economici derivanti dalla divisione del lavoro. E’ l’affermazione
del principio della razionalità economica: massimo risultato con
risparmio dei mezzi e del tempo. La suddivisione in decine di
mansioni diverse riduce i tempi morti tra un’operazione e l’altra.
La disciplina di fabbrica è scandita dall’inesorabile tirannia
dell’orologio. Il tessitore che lavorava a casa, o l’artigiano, erano
padroni del proprio tempo, staccavano e riattaccavano quando
volevano. Nel capitolo XIII del I libro del Capitale Marx osserva:
<<…non solo i particolari lavori parziali vengono suddivisi fra
diversi individui, ma l’individuo stesso viene diviso, viene
trasformato in motore automatico di un lavoro parziale>>8
Nella “fabbrica automatica” Marx individua <<l’annessione di un
uomo intero ad una operazione parziale e la trasformazione
dell’operaio in accessorio consapevole e coerente di una
macchina parziale>>.9 Nell’attività artigianale tutte, o quasi, le
differenti operazioni necessarie alla confezione di un determinato
manufatto erano attribuite a una sola persona, alla sua
padronanza dell’intero processo lavorativo. In verità di questi
processi di frammentazione del lavoro è dato ritrovare dei
8 cit. in,V.Castronovo, Fabbrica ,sta in AA.VV, Enciclopedia, Torino, Einaudi, 1978, vol. 5, pag. 1057 9 cit. in ivi, pag. 1059
8
precedenti: così, già dal medioevo è dato riscontrare
nell’industria tessile una specializzazione tra i filatori, tessitori e
stiratori. Quel che ora muta è la generalizzazione ed il suo essere
spinta fino ad una vera e propria atomizzazione, che non
significa solo una semplice divisione del lavoro dovuta ad
innovazioni tecniche. L’operaio come strumento di una catena di
montaggio è ”alienato”rispetto al prodotto finito. Con la divisione
del lavoro si afferma cioè una nuova struttura sociale
caratterizzata dalla trasformazione della forza lavoro in merce.
In definitiva, la rivoluzione industriale è stata simile, nei suoi
effetti, al gesto compiuto da Eva allorché gustò il frutto
dell’albero della conoscenza: il mondo non è stato mai più lo
stesso. Adamo ed Eva furono cacciati dal paradiso terrestre e
puniti, ma conservarono il sapere.
Landes10 invece è assunto Prometeo come simbolo della
maggiore trasformazione che l’uomo abbia mai conosciuto: la
rivoluzione industriale. Le innovazioni tecnologiche hanno dato
origine e continuità al processo di industrializzazione e al tempo
tesso a una serie di mutamenti nella struttura del potere, nei
modi di governo, negli ordinamenti sociali e negli atteggiamenti
culturali. La tecnologia moderna non soltanto produce di più e
più velocemente, ma crea oggetti che non si sarebbero mai
10 cfr.D. Landes, op.cit, pagg.731-733
9
potuti produrre con i metodi artigianali del passato. La tecnologia
moderna, ciò che più conta, ha creato cose inconcepibili nell’era
pre-industriale: citando a caso, la macchina fotografica,
l’automobile, l’intera gamma dei congegni elettronici dalla radio
ai reattori nucleari. Con la macchina fotografica sarà possibile,
tra l’altro, riprodurre opere d’arte e ognuno potrà entrare in
contatto con esse e fruirne. La riproducibilità è democratica sul
piano culturale perché le opere perdono il loro carattere elitario.
Tuttavia c’è un limite di fondo, ed è quello indicato da
W.Benjamin in L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità
tecnica11: la riproducibilità pur essendo positiva presenta
appunto come limite la perdita dell’aura dell’opera d’arte e cioè
la perdita dell’unicum. La riproducibilità tradisce le dimensioni, la
materia, le tecniche, il linguaggio. Usata bene però può essere
ancella della conoscenza. A questa gamma di prodotti nuovi o
perfezionati occorre aggiungere lo sfruttamento intensivo
dell’enorme varietà delle merci esotiche considerate rarità-
perché provenienti da un tempo o da un luogo lontano- o beni di
lusso, e poi disponibili a prezzi contenuti grazie al miglioramento
dei mezzi di trasporto. Ci volle la rivoluzione industriale per fare
del té e del caffè, delle banane dell’America centrale e degli
ananas delle Hawaii, dei cibi di ogni giorno. Ne è risultato un
11 W.Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Torino, Einaudi, 1966
10
aumento enorme, sia quantitativo che qualitativo, dei beni e dei
servizi, e ciò di per sé ha modificato il modo di vita dell’uomo più
di qualunque altra cosa fin dalla scoperta del fuoco.
In conclusione la rivoluzione industriale e il conseguente
matrimonio di scienza e tecnica rappresentano l’apice di millenni
di progresso intellettuale. I miti di Eva e Prometeo sono la
conferma dell’antichità e della continuità nella cultura occidentale
dello spirito di innovazione e di dominio. L’uomo deve e vuole
conoscere, e una volta impadronitosi della conoscenza non la
dimenticherà più.
I.2 Perché l’Inghilterra?
E perché l’Inghilterra del XVIII secolo? Hobsbawm osserva che
<< le origini della rivoluzione industriale in Gran Bretagna non si possono esaminare come un problema di storia britannica>> <<L’albero del moderno sviluppo capitalistico – continua lo stesso autore – si è sviluppato in una particolare regione d’Europa, ma le sue radici hanno tratto alimento da un’area più ampia di scambio e di accumulazione primitiva che comprendeva tanto le colonie d’oltremare legate da vincoli formali quanto le economie dipendenti dell’Europa orientale>>12 L’ascesa della Gran Bretagna a grande potenza marittima e
commerciale aveva finito per procurare non solo ingenti
12 cit in V.Castronovo, op. cit, pag48
11
occasioni di lucro e di speculazione alle grandi compagnie
privilegiate, ma più ampie fonti di materie prime e nuovi accessi
di mercato. Le sue mercanzie dominavano in tutti i mercati del
mondo; i suoi manufatti non temevano concorrenza. Uno dei suoi
punti forti era questo: la capacità di fabbricare a buon mercato
proprio gli articoli nei confronti dei quali la domanda estera era
più elastica. Di certo fu anche la natura generosa a renderla
pioniera del capitalismo industriale. Il clima umido era adatto
all’industria del cotone, le regioni settentrionali e nord-occidentali
erano ricche di forza idraulica. E soprattutto vi era grande
abbondanza di carbone e di ferro, facilmente trasportabili per via
d’acqua. Favorevole fu anche la mentalità puritana degli inglesi
che consideravano il lavoro quasi un sacramento, e la ricchezza
un segno tangibile del favore celeste. Di certo anche il
tradizionale empirismo fu di aiuto: da quando Bacone aveva
proclamato il valore del metodo induttivo, la scienza si era
diffusa sempre più. L’ingegnere James Watt permise alla forza
del vapore di rivoluzionare l’industria, ma non inventò l’uso del
vapore come forza agente, né creò la macchina a vapore.
Meditando sui difetti di una macchina inventata cinquatotto anni
prima, permise alla forza del vapore di rivoluzionare l’industria.
Una cosa è inventare, un’altra è tradurre un’invenzione in
successo commerciale. L’impiego del vapore libera l’industria
12
dagli ostacoli che ne attardavano il progresso. Una macchina a
vapore può essere installata dovunque è possibile procurarsi
carbon fossile a un prezzo ragionevole. In Inghilterra
quest’ultimo abbondava ed era diffusamente impiegato dalla fine
del XVIII secolo. Il vapore dà tutta la sua potenza alla grande
industria e ne rende irresistibile lo sviluppo. Ma soprattutto
l’industria assume la sua caratteristica unità. L’interdipendenza
delle diverse industrie era molto meno stretta che ai giorni
nostri; infatti dal punto di vista tecnico avevano poco in comune
e il loro sviluppo seguiva strade del tutto indipendenti. Al nome
di Watt devono essere associati quelli di coloro che lo
incoraggiarono e finanziarono: Roebuck e Boulton. Mantoux dice
che la politica delle recinzioni (enclosures)13 e l’ascesa della
grande industria sono fenomeni strettamente connessi. I
progressi agricoli permisero l’incremento della produzione
industriale mettendo a disposizione di questa un’aliquota di
accumulo, originariamente agricola, che era diventata eccedente.
Seguirà l’incremento della domanda di beni di consumo e
soprattutto tessili da parte della popolazione contadina, e
l’aumento della produzione di prodotti siderurgici per vari attrezzi
del fabbisogno agricolo. Il movimento degli enclosures, iniziato
fin dal XIV secolo, si sviluppa nel corso del XVIII secolo.
13 enclosures acts erano decreti del Parlamento che legittimavano le recinzioni eseguite sugli open fields-campi aperti
13
L’agricoltura inglese alla metà di quest’ultimo era esente dal
peso dell’autorità feudale. Le campagne subiscono un processo di
privatizzazione per iniziativa dei più grossi proprietari terrieri
decisi ad imboccare le strade già battute dai ceti capitalistici al
fine di valorizzare le loro terre introducendo nuovi metodi di
coltivazione, o riducendole a pascolo di pecore per la produzione
della lana. Sopprimono pertanto il sistema dei campi aperti e
aboliscono i pascoli comuni. I piccoli proprietari finirono per
vendere ai più fortunati e ai più ricchi le loro proprietà. La
comunità tradizionale si sfascia e al suo posto si costituiscono
grandi fattorie, affidate a imprenditori che accrescono la
produzione grazie ai nuovi metodi di conduzione. Non tutti i
vecchi proprietari, rimasti privi dei loro campi, trovarono lavoro
come salariati nelle nuove aziende capitalistiche. I più
abbandonarono le campagne e si ritirarono a vivere nelle città
industriali. La modernizzazione dell’agricoltura rese possibile
l’accumulazione dei capitali che saranno utilizzati dalla nascente
industria. Le recinzioni misero a disposizione dell’industria una
grande quantità di forza lavoro che rese possibile lo sviluppo. Gli
yeomen14 –piccoli proprietari non nobili – avendo ricavato una
somma ragionevole dalla vendita del proprio fondo, possedevano
un piccolo capitale e tentavano la sorte avviando e guidando il
14 La yeonmanry era costituita dai piccoli proprietari terrieri non nobili. I proprietari nobili costituivano invece la gentry.
14
movimento industriale. Infine vanno considerati tre fattori quali;
mercato interno, mercato d’esportazione e governo che diedero
al paese la possibilità di far denaro. La domanda interna era
aumentata, quella esterna moltiplicata e poi il governo orientava
la sua politica estera e militare soprattutto a fini economici, o
meglio non genericamente commerciali ma industriali. Contro
tale concorrenza inglese gli unici paesi che poterono difendere la
loro industria nascente furono quelli che avevano una forza
politica e militare ben consolidata: Francia e Germania.
Fin dall’inizio il processo di industrializzazione rivelò una
disuguale capacità di sviluppo. Non solo nei diversi paesi, ma
anche all’interno di ciascuno di essi l’industrializzazione si diffuse
a macchia di leopardo. La Francia aveva conosciuto l’avvio e la
prima fase dell’industrializzazione nel periodo 1815-1848, ma
ancora nella metà del secolo rimaneva un paese soprattutto
agricolo. Soltanto durante il secondo impero la Francia si sarebbe
data una struttura industriale moderna con il definitivo passaggio
all’impiego del carbon fossile. In Germania erano state
sopravvivenze strutturali e politiche di natura feudale a
ostacolare l’avvio della rivoluzione industriale. Anche lo
spostamento della popolazione dalle campagne alla città - la
formazione di un mercato di forza lavoro per l’industria- verrà
ostacolato fino al quarto decennio dell’800. Di fatto, il processo
15
di industrializzazione in Germania sarebbe iniziato assai tardi,
intorno al 1850-1860. In compenso, sarebbe giunto a
maturazione in un breve volgere di anni tanto da superare già
nel 1880 in determinati settori, dalla siderurgia alla chimica, i
traguardi produttivi raggiunti dalla Francia.
I.3 L’Italia
1861. L’Italia al momento della sua costituzione in stato unitario si trova nella condizione di un paese in forte ritardo economico
rispetto a una parte dell’Europa occidentale già molto più
avanzata, e attenta a sbarrare la strada ad altri concorrenti. La
situazione in cui si trova ad agire l’Italia all’indomani dell’unità
non è quella di prolungata assenza di rivali che aveva
caratterizzato la rivoluzione industriale inglese. Il paese si
affaccia sulla scena internazionale con una struttura e una
vocazione essenzialmente agricola. Il sottosuolo godeva di scarse
quantità di minerali e di combustibili, e le risorse agricole
comunque non soddisfacevano il fabbisogno di una popolazione
di 26 milioni di abitanti. L’agricoltura non aveva svolto quel ruolo
fondamentale nell’accumulazione originaria del capitale che era
16
stato decisivo a suo tempo per l’Inghilterra. A questo si aggiunge
l’assenza di un mercato nazionale, la povertà di risorse
energetiche, la carenza di manodopera specializzata e la scarsa
esperienza degli imprenditori. Tutto questo spiega in parte il
ritardo economico accumulato dalla penisola nel corso della
prima metà dell’800.I moti sociali susseguitesi tra il 1847 e il
1849 avevano contribuito a scuotere le classi dirigenti, e a far
emergere fra le forze più consapevoli e attive della società
l’esigenza di porre mano ad un ammodernamento del sistema
economico. Alla progressiva integrazione della penisola nel
movimento economico in corso su scala europea concorse
soprattutto l’aumento delle esportazioni agricole. La domanda di
generi alimentari e di prodotti della terra da parte delle nazioni
più progredite, dovuta anche all’incremento della popolazione,
aveva ravvivato il mondo rurale. Le zone che meglio si
affrancavano dal vecchio immobilismo erano Piemonte,
Lombardia e Veneto. Il Piemonte e la Lombardia incentivavano lo
sviluppo degli scambi con l’esportazione di seta greggia, e
agevolavano così l’ascesa di un ceto borghese intraprendente.
L’Italia era un paese fortemente distanziato dalle nazioni
dell’Europa occidentale molto più avanzate sotto il profilo
economico, ma non per questo emarginato del tutto. C’erano
nella penisola slanci verso un processo di integrazione economica
17
che avvenne gradualmente e per singole aree. L’azione dello
stato si rivelò essenziale per l’ammodernamento delle principali
infrastrutture, caratteristica fondamentale dei periodi di
preindustrializzazione. Ma ciò nonostante le due principali sezioni
del paese, nord e sud, procedevano ognuna per proprio conto,
quasi si trattasse di due entità distinte. Dopo il 1861 la classe
dirigente mutuò l’indirizzo liberista di cui Cavour era stato
massimo assertore. La politica di libero scambio rafforzò i
rapporti politici e diplomatici con Francia e Inghilterra per il
risanamento della finanza pubblica, tendendo comunque più a un
rilancio dell’agricoltura che a un autonomo potenziamento
dell’industria. Ma il rimedio a questo stato di cose, ossia il
passaggio al regime liberistico, fu in taluni casi troppo energico o
repentino. Negli esponenti della classe dirigente e negli
intellettuali fautori di una politica liberista si dava per scontato
che, nella divisione internazionale del lavoro, l’Italia non potesse
che perseguire lo sviluppo della produzione e delle risorse
cosiddette naturali. Il ruolo dell’industria appariva secondario o
marginale: per gli economisti liberisti l’agricoltura rimaneva più
vantaggiosa, la sola capace di generare ricchezza e occupazione,
di accrescere il reddito individuale e di alleviare i disagi delle
classi più povere. Solo Quintino Sella aveva compreso la
necessità di creare condizioni per l’espansione dell’attività
18
industriale. Senza una strategia industriale l’Italia non avrebbe
potuto allinearsi alle società più progredite. Sella era assertore
del rafforzamento dell’industria, e del progresso degli studi
tecnico scientifici. Con il protezionismo si aprì il mercato
nazionale e si posero le basi per una interconnessione fra le varie
aree della penisola per un progressivo ampliamento degli sbocchi
commerciali delle maggiori imprese. Dall’ultimo scorcio dell’800
prese a spirare il vento della ripresa, e l’inizio del nuovo secolo
diede vita a una fase intensa di sviluppo che produsse rilevanti
mutamenti di ordine strutturale. L’Italia ebbe la sua rivoluzione
industriale agli inizi del ‘900, e tale decollo giunse a compimento
alla fine della prima guerra mondiale, mentre primo ventennio
unitario aveva apportato vantaggi quasi esclusivamente
all’agricoltura.
Nel 1896 si scorgono in Italia i primi segni della ripresa
limitatamente al settore dell’industria e in particolare a quello
automobilistico. Maggiori importazioni di materie prime e
crescenti esportazioni di manufatti denunciano una
accentuazione dell’attività industriale. Migliorano le condizioni di
vita e aumenta il reddito pro capite.
Nel 1922-1923 si delinea una notevole ripresa in tutti i principali
settori dell’economia mondiale che doveva avere nei progressi
grandiosi del credito e dell’industria automobilistica le sue
19
maggiori forze propulsive. La prima guerra mondiale aveva certo
rappresentato una rottura nell’opera di progressivo sviluppo
dell’economia italiana, portando comunque a compimento altri
processi. Aumentarono i profitti siderurgici, quelli dell’industria
automobilistica crebbero dall’ 8,20% al 30,51%. Rapidissima fu
la diversificazione e l’espansione dell’industria meccanica. Si può
dire veramente che solo con la guerra l’Italia vide la nascita di
una nuova industria meccanica di dimensioni adeguate
all’apparato produttivo nazionale, e anzi eccedente in larga
misura i bisogni della produzione in tempo di pace. L’industria
degli armamenti produsse circa 12.000 pezzi di artiglieria,
37.000 mitragliatrici, oltre 79 milioni di proiettili. Le automobili
prodotte da 9.200 nel 1914 giunsero a 20.000 nel 1918, mentre
si iniziava la fabbricazione su grande scala di autocarri, e quella
di trattori di impiego militare, e si alimentava anche un’attiva
esportazione. In definitiva nel settore automobilistico non fu
necessario rincorrere le imprese straniere. La nostra industria
infatti si affermò fin dall’inizio, e in modo tale da acquisire
posizioni d’avanguardia. Come per altri paesi europei, il modello
a cui essa fece riferimento fu quello americano che già ai suoi
esordi si era imposto grazie all’opera e alle fortune di alcuni
pionieri (David Buick, il capostipite del grande impero della
General Motors ed Henry Ford, il padre del taylorismo). Sia pure
20
con un ritardo di una decina d’anni anche nel vecchio continente
l’industria automobilistica venne organizzandosi in funzione di
una produzione standardizzata, e i suoi sviluppi coinvolsero una
serie di altri settori (dal materiale elettrico alla gomma, dal vetro
all’alluminio, dai cuscinetti a sfere, alla carrozzeria), nonché le
fonderie di ghisa, di acciaio, di leghe leggere. E, se nel caso della
Francia e della Germania la nuova industria automobilistica
consentì di ridurre le distanze con l’Inghilterra, in Italia essa
contribuì non solo a creare nuovi posti di lavoro, ma ad
assecondare anche la formazione di un aggregato intermedio di
robuste fabbriche di macchine utensili,di componenti,di strumenti
di precisione e di servizi ausiliari. In Italia, dove il mondo
dell’automobile aveva esordito sull’onda più delle passioni
sportive e delle iniziative eccentriche di artigiani e carrozzieri di
lusso che sulla base di solide iniziative industriali e di sicure
prospettive di mercato, la fiammata d’interesse suscitata dai
primi successi dei colori italiani in alcune prestigiose gare
internazionali, indussero la FIAT (sorta nel 1899) e altre
fabbriche che s’erano affacciate alla ribalta (dall’Itala, all’Isotta-
Fraschini, alla Lancia) ad attrezzarsi in modo tale da concentrare
le operazioni di montaggio e quelle di carrozzeria, e da produrre
non soltanto veicoli di lusso e da diporto. L’ascesa travolgente
dei titoli delle principali case automobilistiche (che vide crescere
21
il capitale delle società anonime da 8 a 90 milioni) e il loro
brusco tracollo nella seconda metà del 1907, ai primi sintomi
della recessione manifestatasi su scala mondiale, provocarono
dissesti e fallimenti, ma non bloccarono lo slancio dell’industria
automobilistica. La FIAT, quantunque colpita duramente dalla
crisi, aveva approfittato delle supervalenze azionarie raggiunte
dai suoi titoli per rilevare una serie di stabilimenti meccanici e di
carrozzeria essenziali per avviare una produzione su basi
industriali e per realizzare adeguate economie di scala. Passata
la bufera che aveva travolto le aziende più deboli, le maggiori
imprese automobilistiche si erano così trovate nelle condizioni di
rafforzare il loro ruolo, cercando all’estero quei più ampi spazi di
mercato che l’alto prezzo delle vetture e il basso potere
d’acquisto del consumatore italiano non consentivano in patria.
Nel 1910 sorgeva a Milano una nuova impresa, l’ALFA, per
iniziativa di un gruppo di finanzieri appoggiati dalla Banca
Agricola Milanese che aveva rilevato lo stabilimento della società
francese Darraq; e due anni dopo la FIAT inaugurava la prima
linea di montaggio. A quel tempo il patrimonio della società
torinese s’era arricchito di nuovi complessi per lavorazioni iniziali
e terminali al ciclo dell’automobile: dalla RIV (fondata nel 1906)
per la fabbricazione di cuscinetti a sfera, all’Ansaldo specializzata
nella costruzione di grandi motori. Nel 1911 l’industria
22
automobilistica contava su di un saldo largamente attivo nel
movimento commerciale; e si era aperto, grazie alle commesse
di autocarri da parte del governo in occasione della guerra in
Libia, un nuovo campo d’espansione, come stava avvenendo in
paesi come la Germania,la Francia o l’Inghilterra, dove i comandi
militari avevano provveduto in quegli stessi anni a incrementare
il parco di veicoli e di camion a disposizione dell’esercito e dei
servizi ausiliari. E, accanto alle automobili, altri mezzi di
trasporto avevano cominciato a popolare sempre più le nostre
strade, grazie alla notevole produzione di tranvai e di biciclette.
Non bisogna dimenticare che lo sviluppo italiano nel suo
complesso –appunto perché era quello di un paese duale, in
bilico tra arretratezza e sviluppo-non poteva volgersi secondo gli
schemi 'classici’ di quello inglese a cui erano rivolti gli occhi degli
osservatori liberisti. Allo stesso modo lo sviluppo industriale
all’interno della penisola si svolse a macchia di leopardo.
Nell’Italia settentrionale infatti si concentrava alla fine del primo
decennio del secolo scorso tanto il maggior numero di aziende
industriali quanto la parte più rilevante degli stabilimenti di
imprese di medie-grandi dimensioni. Ancora più indicativa era la
concentrazione di impianti e di manodopera nelle regioni nord-
occidentali. Messe insieme, Lombardia, Piemonte e Liguria
avevano un peso specifico uguale a quello di tutto il resto della
23
penisola, per l’entità del personale occupato nell’industria, per il
numero di imprese che impiegavano più de dieci addetti e per la
quantità di energia consumata dalle industrie manifatturiere. Ma
soprattutto esse figuravano ai vertici della graduatoria nei settori
più moderni: dall’industria metalmeccanica alla chimica. Gli indici
di sviluppo non erano molto distanti da quelli del nord-est
francese, della Svizzera, del Belgio e della Germania. Né molto
dissimile era il grado di istruzione, dal momento che nel
“triangolo”nord-occidentale il numero degli analfabeti venne
abbassandosi intorno al 15 per cento della popolazione contro il
59 per cento delle regioni del mezzogiorno. Fu del resto questa
ristretta “isola” territoriale tra le Alpi, il Garda, e le due riviere
liguri a esprimere fin dai primi anni del secolo notevoli capacità
espansive. Di fondamentale importanza per il circondario
milanese era stata l’apertura nel 1882 della linea ferroviaria del
Gottardo che, ricalcando gli antichi tracciati stradali del traffico
internazionale fra l’Italia e il Mare del Nord, aveva rinverdito la
vocazione commerciale di Milano e accresciuto le sue potenzialità
industriali. Genova a sua volta aveva fatto leva sul crescente
sviluppo del commercio marittimo e sul regime protezionistico
per avviare la trasformazione economica della città e dare nuovo
impulso agli investimenti. Dopo il 1896 Genova era divenuta di
gran lunga il primo emporio italiano per volume di traffici, per
24
movimento di navi in entrata e in uscita, per densità di agenzie
commerciali e di compagnie di assicurazione. Nel 1913 il
capoluogo ligure era in testa alla graduatoria dei traffici
commerciali con l’estero. A completare il “triangolo industriale”
era poi sopraggiunta l’espansione dell’industria automobilistica e
metalmeccanica torinese. Diversi fattori avevano assecondato la
crescita economica in questa parte della penisola, ma anche in
alcune zone del nord-est con livelli intermedi di
industrializzazione. Particolare rilevanza ebbe in questo senso
l’apertura dell’industria italiana verso il mercato internazionale,
che favorì la localizzazione degli stabilimenti là dove essi
potevano disporre di un’intelaiatura di servizi collettivi e di
prestazioni sussidiarie. Anche le interdipendenze fra l’evoluzione
di un’agricoltura orientata verso più aggiornati sistemi di
conduzione, la crescita dei redditi della borghesia rurale, la
domanda di nuovi capitali da parte dell’industria e l’offerta di
beni e prodotti finiti indispensabili al rinnovamento delle
campagne, concorsero alla polarizzazione dello sviluppo
economico nelle regioni del nord. In queste zone era concentrata
inoltre la quota più considerevole di risorse finanziarie, da quelle
delle casse di risparmio a quelle delle grandi banche di credito
ordinario e di altri enti. Ciò significava una maggiore disponibilità
di mezzi per investimenti anche in esercizi commerciali. Questi e
25
altri requisiti resero possibile la formazione di un sistema
economico relativamente unitario, articolato intorno alle città di
Milano, Torino e Genova, ma sorretto anche da una ossatura
robusta in grossi centri urbani (da Bologna a Piacenza a Parma,
da Padova a Verona a Venezia. Per molti aspetti il “triangolo
industriale” aveva così assunto una fisionomia del tutto specifica.
Il dualismo fra le regioni settentrionali e quelle meridionali non fu
in realtà dovuto allo sfruttamento delle risorse del mezzogiorno
da parte del nord. E’ vero piuttosto che al ristagno del sud
concorsero sia le limitate possibilità di accumulazione del capitale
dell’agricoltura meridionale, sia le scarse opportunità di
investimenti offerte dall’economia locale a imprenditori stranieri
e di altre regioni.
26
II. Musei nell’Ottocento
II. 1 Nascita dei musei
Dopo la prima rivoluzione industriale inglese un altro
cambiamento epocale è stato la rivoluzione francese.
Alessandra Mottola Molfino in Il libro dei musei dedica un capitolo
ai <<Musei della Ragione>>6 per spiegare come i musei moderni
siano stati creati dall’illuminismo e aperti dalla rivoluzione.
Il 10 agosto 1793 la sede delle collezioni private dei re di
Francia, il Louvre, diventa <<Museè Révolutionnaire>> ed è
aperto al pubblico.
Cosa era accaduto?
Il museo è un messaggio complesso da decodificare, è un
segnale storico preciso, e la rivoluzione francese si esprime
6cfr. A.Mottola Molfino, Il libro dei musei, Allemandi, Torino, 2000, pagg. 11-42
27
anche nei confronti dell’istituzione museale. Il Louvre, il prodotto
della nazionalizzazione del patrimonio reale e dei nobili di
Francia, subisce un cambio radicale di proprietà. L’ex palazzo
regale diventa pubblico: è la fine del regno e l’inizio della
repubblica. E’ aperto il sabato e la domenica dalle 9 alle 16 con
ingresso libero. E’ dotato di cartellini, di visite guidate e di
cataloghi a buon prezzo destinati a tutti. Aperto al pubblico vuol
dire che chiunque ha il diritto – se vuole - di entrare. Il
pagamento di un eventuale biglietto è una variabile non
secondaria. Non c’è più il “permesso” concesso da un’autorità
che, quantunque fosse generosamente elargito, conservava la
sua natura di un beneficio concesso, di un “piacere”. Pagare per
entrare è un un’operazione democratica. Ognuno può decidere di
accedervi, è aperto a tutti tecnicamente e culturalmente. Gli
ideali illuministici trovano la loro compiuta affermazione .Si crede
nella perfettibilità dell’uomo che può crescere e migliorare, e il
museo è finalizzato all’educazione di tutti i cittadini. Con la
rivoluzione il museo si afferma come un’istituzione di interesse
pubblico come la scuola, inserito nel sistema educativo statale.
Prima del Louvre solo i Musei Capitolini fondati con la donazione
di Sisto IV nel 1471 erano aperti a tutti, anche se solo in alcune
determinate ricorrenze annuali. Il papa, non avendo eredi, dona
al senato e al popolo romano i simboli dell’antica Roma: alcuni
28
bronzi – tra cui la lupa – ed alcuni marmi. Alessandra Mottola
Molfino afferma che l’illuminismo crea i musei e la rivoluzione li
apre. In effetti il museo illuministico è aperto a un pubblico
sempre più vasto, ma non a tutti.
Il Pio Clementino era aperto a molti ma non era giuridicamente
pubblico (pubblico come si intende dalla rivoluzione francese in
poi): è ancora solo un sintomo – anche particolarmente evidente
– di quell’elemento pubblicistico che esploderà dopo.
Ma perché nascono i grandi musei romani settecenteschi,
“pubblici” o privati che siano?
Le autrici de Il possesso della bellezza7 individuano l’Italia come
meta decisiva del Gran Tour europeo per i giovani europei, e
Roma come la tappa più importante per l’acquisto di opere d’arte
antica. Qui infatti c’erano le migliori opere perché il sottosuolo
era ricchissimo e i pontefici sono sempre stati grandi
collezionisti. Il viaggio era diventato un esercizio indispensabile
per una educazione nobiliare e culturale, e acquistare antichità
era segno distintivo di classe, di censo,di intelligenza e
raffinatezza. Il turismo del settecento aveva effetti positivi per
l’economia dello stato della Chiesa, ma incidenza negativa sul
patrimonio a causa dei furti di opere e del mercato selvaggio
organizzato intorno ad esse. Le opere che erano a Roma
7 Molfino, Il possesso della bellezza ,Allemandi, Torino,1997, pag. 103
29
finivano, spesso clandestinamente, nelle collezioni di tutta
Europa, e lo stato della Chiesa, conoscendo bene questa realtà,
emana editti per tutelare il patrimonio. L’illuminismo è stato
anche il secolo delle leggi sui beni culturali. Che arrivino turisti e
collezionisti va benissimo, che ci sia un mercato legale intorno
alle opere va bene,ma se vengono ed esportano
clandestinamente non va più bene. Come è ovvio, niente di
nuovo sotto il sole!Basta ricordare le orazioni di Cicerone contro
Verre: le spoglie dei vinti a spasso sul carro dei vincitori ci
ricordano che da sempre l’arte è bottino di guerra 8.
Al riguardo l’Editto Pacca del 1802 è esaustivo. Bisogna bloccare
le esportazioni perché le opere d’arte sono decoro dell’alma città
di Roma; decontestualizzate, non parlano più, oppure dicono
poco e male: infatti esse parlano la lingua del luogo; sono
documenti per antiquari e storici;sono modelli per i nuovi artisti
che si formano nell’Accademia di San Luca;attraggono altri
turisti. Sia l’Editto del cardinale Valente Gonzaga del 1750, che
l’Editto Pacca del 1802, sono leggi vincolistiche. Dicono cosa è
possibile esportare e secondo quale burocrazia, e le eventuali
pene in caso di inadempienza. La nascita del museo ha pertanto
come scopo meno ufficiale quello di sistematizzare e di dare un
crisma inattaccabile ai valori del mercato antiquario, ma anche e
8 cfr.K.Pomian, Collezione,sta in AA.VV.,Enciclopedia,Einaudi,Torino,1978,vol.III,pagg. 336-338
30
soprattutto quello di fermare le esportazioni illegali. Il museo Pio
Clementino9 voluto dai pontefici Clemente XIV e Pio VI partire
dagli anni settanta del XVIII secolo, e Villa Albani già nel 1746,
furono tra i primi a porsi il problema di uno spazio architettonico
per l’allestimento e l’ordinamento delle collezioni archeologiche.
Il primo è il seguito illuminato, la consacrazione, la
valorizzazione dell’esperienza dei Musei Capitolini. E’ sistematico
ed è organizzato per tipologie e sale tematiche, è un museo
illuministico. Villa Albani invece, pur essendo di fatto aperto a
selezionati visitatori, è privata. Il cardinale Alessandro Albani,
collezionista, conoscitore e antiquario,fa costruire una villa-
museo sulla via Salaria per esporre una delle sue collezioni. E’
un’idea moderna. Fa costruire un edificio ex novo,
un‘’contenitore’’ che deve esporre in modo museografico e
museologico corretto il “contenuto’’, la raccolta. L’architetto è
Carlo Marchionni e sceglie per la villa uno stile difficile da
definire, uno stile di transizione tra rococò e primissimo
neoclassicismo. Il museologo che cura i percorsi espositivi è
Winckelmann, il più grande e innovativo degli archeologi del
9 A.Mottola Molfino, op cit, pagg. 8-9.L’autrice ne Il libro dei musei annovera il museo Pio Clementino tra i suoi <<musei del cuore>>, dedicandogli un gruppo di immagini a colori fuori testo. Comunica così la sua predilezione per i musei “auratici”, caldi, caratterizzati dalla più stretta coerenza tra “contenitore e contenuto”. Come direttrice dal 1973 del Museo Poldi Pezzoli preferisce le esposizioni di tipo ambientalistico, come in una casa-museo, perché gli oggetti richiamano anche la loro funzione di uso. La scelta di questi musei conferma la tesi del libro: i musei che hanno rispettato nel tempo gli allestimenti originali hanno curato non solo la lettura delle singole opere, ma anche quella dell’opera –museo complessiva. Quest’ultimo infatti è un documento globale della storia della cultura e del gusto:una vera <<gesamtkunstwerk>>.
31
tempo. A questi due musei mancava quindi solo l’ultimo passo,
aprire al pubblico,che sarà compiuto dal Louvre (non a caso
finiranno qui tutte le opere che saranno razziate da Napoleone)
In conclusione il museo moderno nasce come male necessario,
come luogo della memoria e della storia. E’ il prodotto della
decontestualizzazione, è il luogo atto alla conservazione, fa fruire
a un pubblico sempre più ampio una serie di oggetti che
altrimenti andrebbero persi. Le opere vengono sottratte ai loro
contesti originari, smarriscono la loro funzione originaria (un
quadro per esempio non ha più la funzione di arredamento), e
trovano un nuovo contesto. Questo è quello che accade nei
musei ottocenteschi, nei <<Musei della Colpa>> 10.
Qual è la colpa? Quella – innanzitutto - di essere depositi di
opere asportate dai contesti originari. Nell’epoca della
restaurazione i vecchi sovrani spodestati torneranno pure sui loro
troni, ed anche questa è una “colpa” di cui farsi perdonare, ma le
opere uscite dal “chiuso’’ dei privati palazzi del potere non vi
ritorneranno più. Nella chiesa, o nel palazzo per cui erano stati
dipinti, i quadri avevano avuto precise relazioni ambientali e
avevano il compito di trasmettere messaggi selezionati
all’origine; in una pinacoteca erano ora accostati e confrontati
con altri quadri e sollecitati a comunicare soprattutto i percorsi
10cfr. A.Mottola Molfino, op cit, pagg. 43-62
32
storico-artistici individuati da chi li studia: dagli storici dell’arte,
dai conoscitori,dai direttori dei musei. D’ora in poi rifletteranno
nella loro disposizione lo stato degli studi specialistici.
Contro la forma museo protesterà nel 1796 Quatremère de
Quincy con le sue Lettre al generale Francisco de Miranda 11 che
danno voce alle preoccupazioni degli studiosi per lo
smembramento dei contesti e per l’impossibilità di studiare le
opere antiche nella loro sede naturale. L’intellettuale francese
odia i musei e difende i contesti originali in cui le opere si
trovano perché corrispondono alla loro collocazione morale,
religiosa, estetica, collezionistica.Tuttavia la sua tesi, benché
convincente, subirà una flagrante contraddizione nel 1818
davanti ai marmi del Partenone.Nelle sale del British Museum
ammira i marmi tolti dall’Acropoli nel 1812 dal console inglese
Thomas Bruce Lord Elgin, e acquistati nel 1816 dal parlamento
inglese. Nelle lettere da Londra a Canova del giugno 1818 sui
marmi fidaci, Quatremère cerca di giustificare la propria
approvazione con ragioni politiche e morali (il governo greco-
turco aveva spontaneamente concesso le sculture che non erano
quindi prede di guerra), con ragioni di gusto (sul Partenone
erano invisibili, collocate così in alto), e di conservazione (ad
Atene tutto deperisce e nessuno va a visitare quei luoghi).
11cfr. F.Molfino-A.Mottola Molfino, op cit, pagg. 122-131
33
Gennaro Matacena sul n.6 di Museologia pubblica un articolo dal
titolo Museo come<< Istituzione Totale>> 12.Sul piano dei ruoli
e dell’utilità sociale – dice Matacena – non c’è alcuna differenza
tra il museo, lo zoo, l’ospedale psichiatrico o il carcere. Sono
tutte istituzioni che servono il potere. Non v’è alcuna
disomogeneità tra la <<Gioconda>>, una tigre in gabbia, un
<<pazzo>>, un recluso. Sono tutti accomunati dall’alienazione,
frutto della divisione capitalistica dei ruoli. Il pazzo è alienato nei
confronti della società a causa dei rapporti di produzione che
tendono alla emarginazione del più debole. Privato dei rapporti
sociali, escluso dal mercato del lavoro, viene terapeuticamente
rinchiuso tra quattro mura. Allo stesso modo il museo e
l’ospedale psichiatrico rendono alienato ciò che in essi entra. A
dispetto di chi vuole considerare il museo come un luogo eletto e
perciò inviolabile, è emblematico proprio il gesto del folle che, a
volte, finisce per scagliarsi sul capolavoro custodito nel tempio
dell’arte. Per Matacena è un gesto di rivalsa ideologica secondo il
meccanismo della “proiezione”. La realizzazione del desiderio di
vendetta viene spostato da un bersaglio irraggiungibile ad uno
possibile: dalla istituzione “totale” ospedale, di cui il folle è
succube, verso l’istituzione museo, più facile da aggredire e più
soddisfacente sul piano psicologico. La Gioconda, la Pietà, come
12 G.Matacena, Museo come <<Istituzione Totale>>, sta in “Museologia”, 1977, n°6, pagg. 29-56
34
il <<matto>> sono vittime di un sistema discriminatorio.
Sembrerebbe, quindi, logico che l’ira del folle le risparmiasse.
Scegliendo il capolavoro, al di là del gesto eclatante che
certamente serve almeno una volta a richiamare l’attenzione
della società su di sé, il folle punisce la stesa società colpendola
nei suoi feticci, nel cuore stesso delle istituzioni <<sacre ai riti
del bene>>13. Lo stesso discorso vale per lo zoo e per gli animali
che vi sono esposti. Le prime “raccolte’’ di animali cominciarono
con gli stessi presupposti di quelle d’arte: prima il desiderio di
manifestare la propria potenza con l’esibizione di animali feroci e
selvaggi e poi in epoca illuminista la divulgazione della
conoscenza del regno animale. Questo secondo fine non fu
comunque esente dal compiacimento di mostrare il potere della
scienza – soggiogare la natura anche se per fini superiori come
quello divulgativo – e quindi della classe borghese. Il nodo su cui
ruotano le osservazioni di Gennaro Matacena e che investe
questo tipo di istituzione è quello della ridefinizione del loro
ruolo. Il museo si è adoperato all’affermazione del Bene ed ha
fornito una interpretazione della storia e dei suoi prodotti. Ha
esaltato valori ideologicamente finalizzabili; ha tradito perciò il
suo fine dichiarato – quello cioè di servire oggettivamente la
conoscenza – e si è chiuso su sé stesso alla stregua di ogni altra
13 ivi,pag. 46
35
istituzione totale14.Queste istituzioni possono svolgere un
compito prezioso, purchè riescano realmente ad elevare il livello
della conoscenza, in una visione democratica, problematica e
costantemente riferita alla realtà storica e non più chiusa nei
limiti di uno specifico asservito ad una logica15. Alberto Boralevi
sul n.7 di Museologia nell’articolo dal titolo Museo come
comunicazione totale16 definisce suggestivo l’articolo di Gennaro
Matacena e scrive che la proposta di lettura del museo in quanto
istituzione totale <<richiama alla mente altre posizioni
antimuseali che hanno spesso caratterizzato le dichiarazioni
programmatiche di certa cultura d’avanguardia>>17.
Così i futuristi, nel loro Manifesto (Parigi 1909), dichiaravano i
musei luoghi ammissibili solo per i moribondi, non certo per i
<<giovani e forti Futuristi>>. Con questo non si può certo dire
che questi Futuristi<<della prima ora>> mancassero di coerenza
perché, essendo il <<Passato>>, e cioè la storia, il<<nemico
numero uno>>, vedevano proprio nei musei -contenitori di
storia- gli obiettivi strategici e più significativi contro cui sparare
le loro roboanti cannonate. Tuttavia i musei esistono ancora e
anzi hanno avuto un vertiginoso sviluppo dopo l’ultimo
14 ibidem. Una istituzione totale -secondo Matacena- si fonda sul funzionamento separato e passivo delle sue parti, sotto l’egida di un controllo superiore che, a sua volta, è funzionale agli obiettivi del sistema. 15 ivi,pag. 48 16 A.Boralevi, Museo come comunicazione totale, sta in “Museologia’’, 1980, n°7, pagg.51-60 17 ivi,pag. 51
36
dopoguerra. Il museo però non è solo un <<contenitore di
storia>>, ma anche e soprattutto un <<promotore di cultura>>.
La più moderna ed efficace definizione è quella elaborata
dall’americano Duncan Cameron, che definisce il museo
come<<unico mezzo di comunicazione basato sul linguaggio non
verbale degli oggetti e dei fenomeni naturali>> 18.Con questa
definizione cadono le critiche rivolte al museo in quanto
istituzione per la conservazione. Tuttavia una volta riconosciuto
in teoria come “medium” più che come istituzione, occorre che
diventi tale anche sul piano operativo. Nel museo moderno la
funzione della comunicazione è in contrasto con quella della
conservazione. Considerando la realtà dei musei italiani, afferma
l’autore, bisogna riuscire a trovare il giusto equilibrio tra
comunicazione e conservazione. Questo infine è il compito della
museologia e della museografia: individuare le tecniche e le
strategie operative affinché il museo diventi sempre più
comunicante senza però recare danno agli oggetti e alla loro
conservazione.
Andrea Emiliani, nel saggio Il museo laboratorio della storia, 19
traccia il percorso dell’evoluzione del museo da luogo di raccolta
di reperti a moderno strumento di conservazione, di scienza e di
18 cit in ivi,pag. 53 19cfr. A.Emiliani, Il museo laboratorio della storia, sta in AA.VV., I musei,Touring Club Italiano, Milano, 1980, pagg. 19-46
37
didattica. E’ un modello di cultura e un laboratorio di istruzione,
nel quale il fine conservativo e di tutela fisica degli oggetti si
associa senza fatica, ma anzi con spontaneità, al fine educativo.
I musei storico-artistici “giocano’’ con le Accademie, i musei
scientifici “giocano’’ con l’Università. Musei didattici, pedagogici,
utili, luoghi di formazione come aule universitarie. Tali obiettivi
sono rintracciabili anche in altre tipologie museali dell’Ottocento.
II.2 Musei industriali e artistico-industriali
Prototipo del museo industriale e antesignano degli attuali musei
aziendali è il Conservatoire des arts et mètier fondato a Parigi,
nel 1794 20. <<Vero museo industriale sotto il punto di vista
precipuo della scienza applicata all’industria>>, così osservò nel
1873 Codazza, poiché
<<sullo scorcio del passato secolo dovette riconoscere la Francia che se poteva tenere il primato per i lavori che richiedono gusto e abilità manuale, per gli oggetti di lusso e ornamentazione, tuttavia sotto il punto di vista industriale non poteva gareggiare con l’Inghilterra, sussidiata com’era dalle potenti sue macchine
20cfr. M.Amari, I musei delle aziende. La cultura della tecnica tra arte e storia. Franco Angeli, Milano, 2001, pag. 22
38
motrici, e dalle meravigliose macchine operatrici, diffuse in ogni parte del regno, non meno che dagli assidui perfezionamenti che i suoi ingegneri sapevano introdurre in tutti i dettagli di esse e dalla educazione pratica de’suoi operai nel loro uso>>21.
Società che vai museo che trovi: il Conservatoire, segnale storico
preciso, rivela la condizione della Francia del tempo. Il paese sa
di essere arretrato sul piano della produzione rispetto
all’Inghilterra e pensa ad una soluzione illuministica, concreta
compiendo un’operazione funzionale. Crea un museo dove
espone macchine, modelli, brevetti, descrizioni e libri di tutti i
generi di arti e mestieri, <<un dépot public de machines,
modèles, outils, dessins, descriptions et livres de tous les genres
et mètiers >>22. Risponde alla situazione economica francese del
XVIII secolo, ma riflette il recupero in chiave umanistica del
pensiero e della stessa pratica tecnica e scientifica operato dalla
cultura illuminista. Presso il museo, anche se soltanto a partire
dal 1819, furono istituiti corsi di scienze applicate: chimica,
meccanica, costruzioni e agraria. E’ un museo attivo e didattico:
vuole dare modelli per stimolare la manifattura e farla diventare
industria. A tal fine ha bisogno di “ informare per formare "sia gli
operai che gli industriali. Lo stesso movente indusse Giuseppe De
Vincenzi ad istituire, a Torino, il Regio Museo Industriale che,
21 cit in A.Buzzoni, Musei dell’Ottocento,sta in, AA.VV., I musei,Touring Club Italiano, Milano, 1980, pag. 160 22 ibidem
39
negli intenti del suo fondatore, avrebbe dovuto concorrere ad
elaborare e a promuovere una diversa strategia dello sviluppo
economico nazionale. Il modello francese di museo industriale
ebbe scarso seguito in Europa, se si esclude, appunto, il caso di
Torino. Maggiore fortuna ebbe invece la tipologia del londinese
South Kensington, il prototipo dei musei d’arte e industria.
Fondato nel 1852, è la prima istituzione museale di questo
genere. Venne concepito <<propriamente sotto il punto di vista
dell’arte applicata all’industria>>, e nacque dalla constatazione
fatta <<dallo spirito eminentemente pratico degli inglesi>> in
occasione della celebre Esposizione Universale tenutasi a Londra,
nel Palazzo di Cristallo, nel 1851, allorquando ci si rese conto
<<della superiorità dei prodotti francesi sotto il punto di vista del
gusto e dell’arte, ciò che li rendeva più ricercati ed accetti>>.
Una constatazione che li convinse, appunto, <<della necessità di
educare il gusto non solo dei fabbricanti e degli operai, ma altresì
del pubblico>> 23.
Il primo maggio 1851 si inaugura sotto la volta trasparente in
ferro e vetro, costruita da Joseph Paxton, la prima Esposizione
Universale. Gli espositori provenivano da tutto il mondo
industrializzato del tempo e gli oggetti esposti costituivano il
meglio della produzione industriale dell’epoca. L’Esposizione non
23 ibidem
40
seguiva nessun ordinamento estetico, l’unica differenziazione era
la divisione per paesi, e l’impressione era quella di una moderna
“wunderkammer’’. L’uso della scienza era finalizzato alla
meraviglia. Questa Esposizione era tipica espressione dello
spirito di emulazione ottocentesco, secondo cui i momenti
espositivi sono necessari per educare non solo il gusto dei
fabbricanti e degli operai, ma anche quello del pubblico.
<<Esse sono le sole che ci possano agevolmente far conoscere
le attitudini e le capacità delle varie nazioni e quali siano le
industrie destinate a divenire grandi presso i diversi popoli. Sono
inoltre queste esposizioni mezzi adattissimi per convertire a
vantaggio generale gli studi e i trovati di ciascuna nazione.
Un’Esposizione Universale è una gran scuola di mutuo
insegnamento dell’universalità del genere umano>>24.
Dal confronto con gli altri paesi la Gran Bretagna si accorse di
avere poca qualità nella sua produzione in serie. La riunione degli
oggetti – manifatturieri e industriali - di tanti paesi, il loro
immediato confronto e la faciltà grandissima di avere notizie ed
informazioni di tutte le parti del mondo, offrono tale e tanta
opportunità per fare analisi ed indagini, che in pochi giorni si può
giungere a considerazioni che in altri tempi avrebbe richiesto 24 G.Benso di Cavour-G.De Vincenzi, Relazione al ministro d’Agricoltura, Industria e Commercio dei Regii Commissari generali del Regno d’Italia presso l’Esposizione Internazionale del 1862, W.Trounce, Londra 1862, pag. 4
41
lunghi viaggi e tempi lunghi. La produzione manifatturiera
francese creava oggetti fatti a mano, ciascuno dei quali è in
fondo un unicum, mentre la produzione industriale inglese
produceva in serie e a buon prezzo, ma con poco gusto. Le due
nemiche storiche si rincorrevano anche su questo piano. Gli
stessi organizzatori dell’esposizione londinese non disperderanno
gli esempi commerciali e tecnici più significativi del nuovo
sviluppo industriale. Il South Kensington sarà infatti costituito in
gran parte con gli oggetti esposti all’Esposizione Universale, e nel
1899 fu ribattezzato, diventando Victoria and Albert Museum25.
Era il più grande museo al mondo di arti decorative, e applicate,
pertanto molto diverso da quelli delle “arti maggiori’’, conservava
l’anima dell’Esposizione Universale, esponeva ogni genere di
oggetti e il pubblico accorre molto numeroso. Il primo museo a
ispirarsi al South Kensington fu l’Österreichisches Museum für
Kunst und Industrie, fondato a Vienna nel 1863; poi nel 1867 il
KunstGewerbe Museum di Berlino. In Italia invece fu fondato a
Roma nel 1873 il Regio Museo Artistico Industriale, intitolato nel
1876 <<Museo del Medioevo e del Rinascimento per lo studio
dell’arte applicata all’industria>>, che beneficiò degli oggetti
d’arte dell’Esposizione di arte decorativa e industriale allestita a
Roma nel 1881. Nel 1954, dopo settant’anni di continui traslochi
25 Il principe Alberto con gli utili dell’Esposizione acquistò i terreni sui quali sorsero gli edifici
42
in scuole ed ex conventi, fu soppresso, smontato e disperso tra i
musei comunali, Palazzo Venezia, Palazzo Barberini, Castel
Sant’Angelo. La storia della nascita del M.A.I di Roma fino alla
diaspora delle sue collezioni è analizzata in un libro pubblicato
nel 2005 dal Ministero per i Beni e le Attività culturali e
dall’Istituto centrale per il catalogo e la documentazione26.Uno
dei saggi contenuti, in questo testo di recente pubblicazione, è
quello di Michela Cesarini27 e ha come titolo Il M.A.I.di Roma.
Una istituzione in linea con le esperienze museali più avanzate
dell’epoca28. L’autrice scrive che l’apertura del Museo d’arte
applicata all’industria, il I marzo del 1874 nei locali dell’ex
convento di San Lorenzo in Lucina, costituì il primo passo verso
l’attuazione di un ambizioso progetto discusso da lungo tempo in
consiglio comunale: fondare a Roma un museo ispirato al South
Kensington di Londra. Il regolamento, stilato e dibattuto in seno
alla giunta municipale nella primavera dell’anno precedente,
stabilì sia lo scopo che la struttura. Sebbene al municipio spetti il
merito di aver reso possibile la creazione del museo, questa
istituzione rappresentò il concretizzarsi di un progetto che da
26 G.Borghini (a cura di ), Storia del museo artistico industriale di Roma, Ministero per i beni e le attività culturali-ICCD, Roma, 2005 27 Michela Cesarini si è laureata presso l’Università degli Studi di Firenze nel luglio del 1996, nell’ambito della cattedra di Museologia,con una tesi di laurea dal titolo ‘’Il museo d’arte industriale: il dibattito in Italia attraverso le vicende del Museo romano’’. Il suo intervento nel testo pubblicato dal Ministero costituisce una sintesi della sua tesi di laurea. 28 M.Cesarini, Il M.A.I. di Roma. Una istituzione in linea con le esperienze più avanzate dell’epoca,sta in AA.VV,op cit,pagg.53-71
43
diversi anni stava a cuore ad una figura estremamente
importante e significativa nel panorama culturale e politico
italiano: il principe Baldassarre Odescalchi. Già dal 1871 il
principe aveva espresso precise e dettagliate direttive sulla
tipologia delle opere da raccogliere nell’istituto romano:
<<cristalli di Venezia fatti ad imitazione delle antiche fabbriche
di Murano, alle porcellane di Ginori, agli intarsi ed intagli in legno
di Bologna, Pisa e Siena, alla mobilia fatta ad imitazione antica a
Milano, all’oreficeria della scuola di Castellani di Roma e Napoli,
ai lavori di corallo e di intarsiatura in tartaruga di detta città, ai
mosaici di Venezia,Roma e Firenze >>29, tutto ciò avrebbe
dovuto affiancarsi agli analoghi prodotti d’arte creati nei secoli
passati dai nostri antichi maestri. Nel 1880 Odescalchi ricevette
dal Ministero dell’agricoltura, industria e commercio, l’importante
compito di recarsi in Inghilterra,Francia e Belgio, al fine di
studiare l’ordinamento dei musei d’arte industriale ivi presenti e
delle istituzioni scolastiche annesse, nonché analizzare l’influsso
che tali organismi esercitavano sulla produzione manifatturiera.
Odescalchi individuò nel rinnovamento delle tradizionali
produzioni artistiche nazionali –intagli e oreficeria, arte vetraria,
ceramica, tessuti – lo sviluppo industriale più consono alle
caratteristiche dell’economia italiana e alle attitudini dei nostri
29 cit. in ivi ,pag. 53
44
lavoratori. <<…L’italiano non sembra nato pel lavoro delle
macchine; le sue stesse forze non ve lo spingono. Secco e
nervoso, sobrio, impaziente, attivo e laborioso a tratti, ma
spesso scoraggiato, dominato da una immaginazione che lo
innalza alle nuvole per gettarlo poi al più basso della terra,egli
non ha nulla dell’operaio modello>>30. Odescalchi pur essendo
consapevole della diversa situazione economica su cui agirono i
musei d’arte industriale nei paesi europei, fu ugualmente
convinto della loro utilità in Italia, in quanto rivolti ad una
produzione in sintonia con le attitudini innate dell’operaio
italiano. Occorreva a suo avviso fondare musei d’arte industriale,
<<vere università del lavoro>>, depositari di modelli storici dalle
corrette forme artistiche da riutilizzare nella moderna produzione
manifatturiera. Il rifiorire delle antiche attività artigianali avrebbe
consentito all’Italia di inserirsi nel moderno sistema economico
europeo, con il vantaggio di evitare il notevole degrado sociale
connesso alla produzione meccanizzata. Nelle scuole annesse agli
istituti, infatti, si sarebbe insegnato un mestiere decoroso e
richiesto dai manifattori che volevano migliorare la loro
produzione, adeguandola ai desideri della clientela
europea.’’Risvegliare’’ le tradizionali manifatture italiane è un fine
che fraintende lo scopo degli analoghi musei stranieri. La
30cit. in ivi, pag. 67
45
Cesarini spiega bene questo punto cruciale. Il South Kensington
si presentava come <<una vera enciclopedia >>nella quale.
<< gli studiosi si trovano schierati sotto gli occhi gli oggetti o i
disegni riferibili a pressoché tutto lo scibile umano>>31. Lo scopo
di questa istituzione era quello di correggere lo scadente design
della produzione industriale britannica di oggetti d’arte
ornamentale. Alla base del sistema didattico-espositivo del South
Kensington c’erano le riflessioni di sir Henry Cole, personaggio di
primo piano nella direzione dell’istituto. Egli impegnò l’azione
metodologica e pedagogica del museo sul concetto di
<<imparare a vedere>>. In Inghilterra la prima rivoluzione
industriale apportò una sostanziale modifica del sistema
lavorativo e separò la fase progettuale da quella esecutiva. L’atto
creativo divenne appannaggio esclusivo del designer, con la
conseguente perdita dell’abilità disegnativa e del buon gusto
degli operai, dovuta alla loro condizione di esecutori materiali di
singole sezioni di produzione. Cole ideò l’espressione art
manufacturer <<intendendo le belle arti o la bellezza applicati
alla produzione industriale >>32. Nel secolo scorso gli oggetti
dotati di una forma armoniosa erano denominati opere di arte
industriale, e venivano distinti dagli oggetti appartenenti alle
31 ivi, pag. 54. 32 ibidem
46
belle arti in base al concetto di utile. Lo stesso Gaetano Filangieri
dirà <<l’arte e l’industria comprendono tutta l’umana attività:
l’una e l’altra hanno modo lor proprio. L’industria si prefigge
l’utile; l’arte la ricerca del bello.Donde l’arte addirizzata
all’industria è l’utile nel bello. E’ questo l’enunziato del problema,
che a’ nostri giorni intende risolversi, a mezzo dei Musei Artistici
Industriali’’33. L’Italia, diversamente dall’Inghilterra, ebbe tempi
e modi propri per realizzare l’avvio all’industrializzazione.
Pertanto, ed è questo un elemento imprescindibile nell’analisi, il
dibattito sulla necessità di fondare musei d’arte industriale
avvenne in un momento delicato della storia italiana, ovvero<<in
coincidenza con le trasformazioni economiche, culturali ed
amministrative tese ad integrare la rapida unificazione politica
>>34. Coloro che proposero per il “bel paese” uno sviluppo
industriale incentrato sulle manifatture artistiche non si resero
conto di incentivare uno sviluppo economico regressivo. Nel
nostro Paese, inoltre, le arti applicate non sono state considerate
tipologie artistiche alle quali dedicare numerose e forti entità
museali. I pochi musei d’arte industriale italiani, a causa del
modesto sussidio dello stato, della generale indifferenza
dell’opinione pubblica ed in particolare degli imprenditori, ai quali
esplicitamente si indirizzavano, si differenziarono, dunque,
33cit.in ivi,pag.66 34 ivi, pag. 55
47
profondamente da quelli europei per il debole influsso esercitato
sulle manifatture e per gli esigui mezzi economici a disposizione.
Attraverso le collezioni degli istituti d’arte, continua la Cesarini,
non fu possibile incentivare l’industria e modernizzare il sistema
produttivo italiano. L’industria continuò inesorabile il suo
cammino e tali istituti si trasformarono in musei di tipo
tradizionale. La storia del Museo d’Arte Industriale di Roma, ad
esempio, fu costellata da continui traslochi in locali di ex-
conventi, inadeguati, nel ristretto spazio concesso e nella
struttura architettonica ereditata, all’esercizio di funzioni e
prerogative di un museo d’arte industriale. La ricerca di un
edificio adatto all’esposizione ottimale delle raccolte e dotato di
spazi in cui impartire l’istruzione artistico-industriale rappresentò
la principale preoccupazione dei curatori del museo, i quali
cercarono invano di sensibilizzare sia gli organi governativi che
quelli municipali a concedere locali più adeguati, insieme a
contributi economici più cospicui. Nonostante le contraddizioni e
le traversie a cui si è accennato, il Museo d’Arte Industriale di
Roma fu l’istituto italiano più simile al celebre South Kensington
di Londra. Nell’istituto romano coesistettero infatti tutti gli
elementi considerati indispensabili all’attività di un museo d’arte
industriale: collezioni d’arte decorativa, scuole, biblioteca,
laboratorio di riproduzione in gesso ed esposizioni temporanee.
48
Nell’ultimo ventennio dell’Ottocento Roma non fu l’unica città che
ebbe un museo artistico industriale. A Milano nel 1878 al Museo
Artistico Municipale fu affiancata una scuola d’arte. A Napoli il
Museo Artistico Industriale (M.A.I), fondato nel 1878, fu
inaugurato nel 1889. Il 25 novembre 1878 F. De Sanctis, allora
ministro della Pubblica Istruzione, <<per l’utilità che verrebbe
agli insegnamenti della seconda sezione dl Real Istituto di Belle
Arti, quando le si aggiungesse un museo industriale>>35 nomina
una commissione per l’istituzione di un simile museo. Tra i
membri della commissione c’era Gaetano Filangieri (presidente),
Filippo Palizzi, Domenico Morelli, Demetrio Salazaro (segretario).
Nell’articolo 1 dello statuto del Museo si legge: <<al fine di
concorrere all’istruzione di artisti ed artigiani e di promuovere
l’operosità delle arti e delle industrie, nonché nobilitarne il
gusto..>>36. L’articolo 2 riguarda il contenuto del museo; fanno
parte della collezione oggetti d’arte applicata antichi o moderni
(copie o originali), relativi sia alle industrie già esistenti nel
paese, sia a quelle che si sarebbero potuto sviluppare. Corredo
indispensabile al museo erano quattro officine nelle quali l’allievo
poteva perfezionarsi non solo teoricamente ma anche
praticamente, avendo a sua completa disposizione sia le materia
prime da lavorare che le macchine. <<Noi abbiamo creduto fin
35 cit. in N. Barrella, Il museo Filangieri,Guida Editori, Napoli, 1988,pag. 72 36 cit. in ivi, pag. 75
49
da principio di dover creare noi stessi per noi le officine del
museo…>>37, così scrive Filangieri nello statuto per distinguere
le officine del M.A.I napoletano da quelle di <<parecchie
istituzioni consimili alla nostra che hanno aggregate a sé delle
private officine già esistenti nel paese…>>38. Tali officine fanno
del M.A.I napoletano un’istituzione diversa dalle altre industriali e
artistico-industriali nate nell’Ottocento in Europa. Era infatti un
Museo Artistico Industriale Scuola Officina, affiancato alla scuola
politecnica di arti e mestieri istituita dallo stesso Filangieri nel
1878. La particolare attenzione riservata dal principe al compito
delle Officine è testimoniata anche dalle parole scritte da
Filangieri a Marco Minghetti: << Io credo che un museo artistico
industriale come conviene a noi nel nostro stato presente debba
costare di tre parti:di una raccolta di modelli antichi e moderni;
di una scuola ove si insegni disegno e plastica propria delle
industrie; e soprattutto delle scuole–officine ove si apprende la
tecnica delle diverse lavorazioni >>39. L’attenzione del principe è
peraltro rivolta in modo particolare al compito riservato alle
officine, e prosegue <<Quest’ultimo insegnamento mi pare di
tanta importanza, che senza di esso i primi due non approdano a
nulla: e per esperienza ho visto che qualunque più diligente
37 cit. in ivi,pag. 76 38 ibidem 39cit in E.Alamaro, Il sogno del principe, Centro Di, Firenze, pag. 18
50
studio di disegno fallisce all’opera,se manca il corrispondente ed
armonico studio della tecnica; mediante cui sarà solo possibile
avere in Italia abili operai e valenti artisti industriali >>40.
Filangieri vuole evitare il formarsi di sacche di “spostati”. Con
questo termine, usato diffusamente all’epoca, si indicava la
molteplicità di soggetti esterni al processo produttivo in
espansione e collocati in un’area difficilmente definibile a livello
di classi sociali. Il M.A.I di Napoli non è pertanto un semplice
contenitore di oggetti d’arte, ma è un vero strumento di crescita,
non solo artistica, ma anche tecnico-industriale, rispondente alle
necessità di allora. Accanto alla necessità di una crescita
industriale nel campo delle arti applicate, non mancò la
consapevolezza della decadenza dei loro linguaggi e la volontà di
fornire mezzi atti a riqualificarli. Il M.A.I napoletano ha
caratteristiche proprie: non è il Conservatorio parigino perché
l’educazione del gusto è importante, tuttavia non è paragonabile
nemmeno al museo di Kensington perché il momento tecnico,
inteso come legame con la macchina da conoscere, è
fondamentale. A Napoli nella seconda metà dell’Ottocento si
viene a creare un interessante “ibrido” in grado di riunire in sé le
due diverse necessità del tempo: l’istruzione industriale
(propagandata in Italia dal Museo industriale di Torino ) ed il
40 cit in N. Barrella, Il museo Filangieri op cit,pag. 82
51
design (ricercato dal M.A.I di Roma). Per Nadia Barrella l’uomo in
grado di far raggiungere l’equilibrio tra le due tendenze fu
proprio Filangieri. Al M.A.I si aggiunge, facendo sistema, il Museo
Civico “G.Filangieri”, inaugurato nel 1888. Nadia Barrella 41
osserva che è un museo inserito nell’ambito di quel periodo che
vide, in Italia, il fiorire di molte istituzioni civiche. Queste ultime
nacquero in seguito alla liquidazione nel 1866 dell’asse
ecclesiastico (che comportò una devoluzione ai musei degli enti
locali di una notevole massa di materiali artistici e storici), ma
anche grazie all’orgoglio municipalistico di singoli collezionisti che
alimentò i lasciti alle città per offrire strumenti di conoscenza e di
formazioni efficaci. Durante la fase iniziale della vita del Museo
Artistico Industriale, in un momento in cui le collezioni di
quest’ultimo erano ancora scarse per quantità e, soprattutto,
prive di particolare pregio artistico, Filangieri dona alla città la
sua collezione, fondando nel quattrocentesco Palazzo Como un
ricchissimo museo. Scopo della donazione: lo studio e
l’educazione di artisti ed operai tanto nelle arti maggiori che nelle
minori. Il museo civico si veniva a porre nella città come un
ulteriore momento espositivo che, ricco di oggetti d’arte
applicata, sosteneva con le sue collezioni le finalità del M.A.I. Il
museo civico <<era una festa dell’arte antica, dico antica e non
41Cfr. N.Barrella, Il museo civico <<Gaetano Filangieri>> di Napoli tra il 1882 e il 1892: dalla politica di un principe una lezione per il presente ,sta in “Museologia”, 1985, n°18, pagg. 27-45
52
arte morta, poiché l’arte nella sua manifestazione del bello
visibile si trasforma nel cammino progressivo della civiltà, ma
non muore mai >>42, il M.A.I <<è la festa del lavoro vivente,
produttivo, fecondo, sorgente di lucro all’operaio >>43.
Filangieri, dunque, dona la propria collezione in vita, e non post
mortem, perché non è animato solo da uno spirito encomiastico.
Come collezionista egli trattiene non tanto le cose, ma il tempo
stesso. Tuttavia la sua esperienza ha trasformato la finalità del
suo collezionare, e l’amore egoistico ha ceduto il passo al sogno
di poter offrire alla massa popolare uno strumento di crescita. Il
comune denominatore, comunque, di questi musei delle arti
industriali era – assieme all’importanza che attribuivano
all’istruzione pubblica - quello di educare il gusto degli artigiani e
degli studenti delle scuole d’arte, utilizzando i “begli esempi’’
delle manifatture del passato. Queste tipologie museali ebbero
grande successo. La seconda metà dell’Ottocento è anche il
secolo delle arti minori. Le arti applicate hanno un valore di uso,
sono oggetti belli e funzionali. Il pubblico non è spaventato,
ammira cose che magari possiede anche a casa. In questi musei
non va in “estasi’’, non c’è un rapporto empatico e selettivo tra il
pubblico e le opere come nei musei romantici della Germania
hegeliana, in cui si esalta la soggettività, l’individualità, il genio,
42 cit in N.Barrella, op cit, pag. 88 43 ibidem
53
attraverso la scelta di capolavori. Questi ultimi sono templi di
bellezza, luoghi di contemplazione; sono aperti al pubblico, ma di
fatto non democratici. Il museo romantico non ha spesso finalità
pedagogiche, non tende ad una comunicazione educativa col suo
pubblico e, quindi, non dà importanza al buon supporto didattico.
Esalta piuttosto il linguaggio specifico e le particolari
caratteristiche di ogni singolo artista: nasce la connoisseurship,
la scienza dell’arte, la figura del conoscitore.
II.3 Il Regio Museo Industriale Italiano
Il Museo Industriale di Torino viene istituito <<affin di
promuovere l’istruzione industriale e il progresso delle industrie e
del commercio>>44 con Regio decreto 1001 del 23 novembre
1862, per iniziativa dei commissari generali del Regno d’Italia
all’Esposizione Universale di Londra del 1862, Gustavo Benso di
Cavour e Giuseppe De Vincenzi 45. Gli scopi erano analoghi a
quelli del Conservatoire francese, ma la struttura organizzativa
era mutuata dal South Kensington. De Vincenzi, che già
44 G.De Vincenzi.Del museo industriale italiano e del progetto di legge pel suo ordinamento.Osservazioni di G.De Vincenzi, Enrico Dalmazzo, Torino, 1865, pag. 17 45 cfr. C. Olmo, Il museo industriale di Torino fra crisi urbana ed innovazione tecnologica, sta in “Le culture della tecnica”, n°1, 1994, pag.45
54
nell’Esposizione londinese del 1851 era stato direttore della
sezione del Regno di Sardegna, partecipa all’Esposizione del
1862 con Gustavo Benso di Cavour46 in qualità di commissario
generale per l’Italia, e scrive nella Relazione 47 che la
manifestazione internazionale non era stata sorprendente come
quella del 1851 né sul piano dell’evento, né per la novità
dell’architettura, anche perché veniva dopo appena dieci anni.
Quella del 1851 aveva fatto il punto sullo svolgimento economico
dell’umanità fino a quel tempo. De Vincenzi osserva come le
Esposizioni Universali soddisfino un bisogno principalissimo dei
tempi moderni: grazie alla facilitazione dei commerci tutte le
nazioni del mondo tendono a costituirsi come in una sola famiglia
in cui ciascuno dei componenti concorre con la sua opera
all’utilità di tutti e al suo massimo benessere.Tra i maggiori
vantaggi di un’Esposizione c’è la fondazione di un museo per
provvedere al <<progresso delle industrie>> e all’<<istruzione
industriale della nazione>>, e pensa di istituirne uno per il
Regno di Italia, animato da un movente squisitamente
economico. Così come non sarebbe possibile avere scuole di
scienze naturali senza i musei di storia naturale, allo steso modo
non possono esistere scuole industriali senza i musei industriali.
46 Gustavo Benso di Cavour (1806-1864).Il marchese,fratello del conte Camillo,è stato deputato ed editore. 47 cfr.G.Benso di Cavour-G.De Vincenzi,op cit,pagg.3-4
55
Nel progetto di legge, presentato alla camera dall’onorevole
Ministro dell’Agricoltura, Industria e Commercio c’è un articolo
così redatto <<Il Museo Industriale farà parte dell’Istituto
Tecnico di Torino, il quale avrà sede in uno degli edifici pubblici
che rinarrano disponibili>> 48. De Vincenzi nelle Osservazioni a
questo progetto ammonisce dicendo che bisogna fare il contrario
e annettere al museo l’Istituto Tecnico. Altrimenti significherebbe
ridurre quel museo, che deve essere rivolto alla nazione,
all’utilità dei pochi allievi dell’Istituto.In tal caso chi seguiterebbe
a far doni per conseguire un proprio utile? E che diviene un
museo industriale che non progredisce? L’Istituto tecnico cosa
farebbe della completa collezione di aratri, delle rotaie, delle
migliaia di specie di cotone e di lana? Il museo di Torino
proponeva un modello di industria moderna in un paese non
ancora industrializzato, e non riuscirà a mediare tra una realtà
tecnico-industriale ancora in embrione e in posizione di
arretratezza rispetto al resto dell’Europa, e un’antica tradizione
manifatturiera nel cui ambito non era ancora iniziata una
riflessione sui possibili rapporti con la cultura industriale.La storia
del Regio Museo è anche una traccia per capire come era
rappresentata l’innovazione, che concezione c’era della scienza e
della ricerca in una città che viveva la crisi originata dal cambio
48G.De Vincenzi, op cit, pag. 17
56
di status: da città capitale a città industriale49. Scienza come
processo o come sapere separato: questo per esempio un
conflitto tra le èlites intellettuali.De Vincenzi è nominato direttore
del museo. I primi tre anni, a partire dal 1862, furono dedicati
alla ricerca di una sede in cui collocare le collezioni in arrivo da
Londra e alla definizione del progetto istituzionale.Tale
definizione porta alla luce profondi conflitti tra le èlites che
congeleranno il museo fino al 1879. Per De Vincenzi la tecnologia
è un processo sociale e non solo tecnico. Per lui il museo deve
valorizzare il sapere scientifico come capacità di una società di
trasferire l’innovazione. L’innovazione tecnologica è garanzia di
progresso e fonte di legittimazione sociale, e richiede uno stato
garante per le regole di scambio e in grado di entrare nella
formazione della ricerca e della cultura industriale. Per il primo
direttore, il Regio Museo Industriale è nel novero delle istituzioni
preposte alla formazione di insegnanti per le scuole tecniche, dei
direttori di industrie e capi officina, di ingegneri industriali50.
Proprio sul carattere “sperimentale” della scuola si apre il
conflitto, formalmente con la Scuola di Applicazione, in realtà con
alcune élites intellettuali e imprenditoriali. Nella iniziale bozza di
accordo tra Museo e Scuola di Applicazione, stesa da Giovanni
49 cfr.C.Olmo,op cit,pag. 45 50 cfr.C.Olmo,op cit,pag.46
57
Codazza il 9 ottobre 1867, 51 si prospetta una divisione per la
quale la Scuola avrà la gestione unica dei corsi di ingegnere per
le industrie agricole, per le industrie meccaniche, per le industrie
chimiche, per le industrie di metallo. Per le figure di ingegnere
civile e per una non meglio definita figura di ingegnere
industriale si prevede la collaborazione tra le due istituzioni.
Questo compromesso avrà breve durata. Il Regio decreto del 31
ottobre 1869 e il successivo decreto ministeriale del 16
novembre 1869 escludevano i professori del museo dalla
formazione degli ingegneri. Il Museo doveva <<dedicare tutta la
sua opera a quanto richiedevano i bisogni industriali e scientifici
del Museo>>52, mentre l’insegnamento che vi si svolgeva doveva
assumere i caratteri dell’insegnamento libero. Il 29 agosto 1874
si costituì una commissione per la riorganizzazione del Museo
Industriale Italiano presieduta da Federico Sclopis di Salerno.Il
Ministero di agricoltura, industria e commercio fu costretto a
riprendere in mano una discussione sulle funzioni del museo che
avevano ormai investito gli enti locali, gli intellettuali, oltre che i
responsabili delle istituzioni scientifiche torinesi. I lavori della
commissione sono introdotti da De Vincenzi che propone alla
commissione di discutere attorno all’istituzione di tre figure: un
ingegnere industriale, - in grado di trasferire l’innovazione tra
51 ibidem 52 cit. in. ivi. pag. 48
58
settori e comparti dell’industria e dell’agricoltura, dovendo
operare in un sistema di imprese non ancora differenziato
tecnologicamente –un direttore delle industrie e un capofficina.
Queste due ultime figure, sempre secondo De Vincenzi, devono
essere legittimate non solo gerarchicamente ma anche
scientificamente. Infine invita a riflettere sul ruolo di una
burocrazia pubblica (i professori di materie tecniche come i capi
delle dogane) che completi l’opera di trasferimento tecnologico e
che garantisca la trasparenza delle regole di mercato. A
rappresentare, nella commissione, un’immagine diversa
dell’innovazione è Luigi Luzzati53: il museo <<deve educare al
buon gusto nelle produzioni industriali>>, << sorvegliare le arti
e i mestieri>>, <<esprimere l’arte applicata all’industria>> 54.
In sintesi gli scontri riguardano <<cosa sia un museo industriale,
quale sia il suo ufficio, quali siano le sue attribuzioni, il carattere
degli insegnamenti da ripartire, - generali o specializzati -
l’importanza come misura reale del progresso tecnologico dei
brevetti d’invenzione, quali dovevano essere i settori industriali
da privilegiare nella definizione di corsi e laboratori, il ruolo e i
contenuti del disegno nei processi di trasferimento tecnologico
53 La commissione viene formata con R.D. 29 agosto 1874 ed è composta, oltre che dal presidente,da Domenico Berti,vicepresidente, Luigi Arcozzi Masino, Giacinto Berruti, Enrico Betti,Giovanni Codazza, Giuseppe De Vincenzi, Giovanni Andrea Gregori,Luigi Luzzati,Paolo Masa, Amedeo Peyron, Giuseppe Venanzio,Piero Spurgazzi, Aldo Bonino in veste di segretario. 54cit.in.C.Olmo, op cit., pag.50
59
>> 55. Il definitivo decreto del 1879 vede il museo come
<<istituto direttamente inteso a promuovere il progresso
dell’industria>>, con finalità di ricerca per il governo e per i
privati.Con la scuola di applicazione concorre inoltre alla
definizione dei curricula degli ingegneri industriali e civili, dei
direttori delle industrie, oltre che di insegnanti di fisica, di
chimica, di meccanica, di disegno ornamentale e industriale. La
diffusione all’interno del paese di una cultura industriale è
fondamentale, e in sua assenza sarebbe rimasto sterile ogni
stimolo. La forma assunta dal Regio Museo Industriale Italiano
alla fine di questo percorso sembra riprendere molte ipotesi
inizialmente formulate da De Vincenzi, e che nel 1862 si
contrapponevano come <<una metafora viva a credenze
consolidate, l’irrompere di nuovi paradigmi ad una scienza
consolidata >>56. A giudizio di Carlo Olmo, Torino nel 1862 è una
città ancora sotto choc per la perdita dello status di capitale. A
questa città la proposta di De Vincenzi appare una metafora, una
definita strategia dell’innovazione. Il Museo torinese lega crisi
urbana e progresso tecnologico. Nel Museo, laboratori e brevetti,
esposizioni permanenti e proposte formative, archivio industriale
e biblioteca, cercano di anticipare le tendenze dei mercati non
solo locali e di favorire la produttività di un sistema, non della
55 ivi,pagg. 52-53 56 ivi. pag. 56
60
singola impresa. Carlo Olmo conclude il suo articolo osservando
che a G.De Vincenzi già nel 1862 appariva illusorio pensare ad
una concorrenza armata unicamente di vetrine e ornamenti.La
commissione che stende il definitivo ordinamento del Museo
maturerà quella comprensione dopo 17 anni, nel 1879. Gli
oppositori del De Vincenzi e del suo istituto erano interessati
all’artigianato artistico-industriale, ovvero ad un processo
produttivo basato sull’ingegno, sulla cultura e sulle capacità
manuali dell’artefice. Baldassarre Odescalchi sosteneva che
l’istituto torinese <<tendeva al miglioramento nelle materie
quanto al modo di manifatturarle, senza curare ciò che si
riferisce all’Arte del disegno la quale con assai felice successo
viene applicata all’industria >> 57. Pertanto il museo avrebbe
dovuto offrire modelli per elevare qualità formali e non
macchinari come quelli che costituivano le raccolte del museo
torinese. Di industriale in senso proprio Odescalchi e gli altri
oppositori non avevano niente, tanto che nel 1873 fondarono a
Roma l’istituzione museale nella quale credevano: il Regio Museo
Artistico Industriale, dove l’aggiunta dell’aggettivo artistico è una
modifica sostanziale. Le relazioni tra industria, arte e scienze
sociali che vedono Torino come luogo di sperimentazione sono al
centro dei saggi –nati da ricerche autonome- di Cristina
57 Cit.in.A.Buzzoni, Musei industriali e artistico-industriali: realtà nazionale e realtà locale, sta in E. Borsellino, (a cura di ), Musei locali.Luoghi e musei, atti del convegno, Roma, 1987, pag.47
61
Accornero e Elena Dellapiana nel volume pubblicato da CRISIS
nel 200158. Delle due autrici, la prima si occupa di storia della
città e del territorio con particolare riferimento a Torino tra
ottocento e novecento, mentre la seconda, che insegna storia
dell’architettura contemporanea presso la I Facoltà del
Politecnico di Torino, si occupa della formazione professionale e
accademica di architetti e artisti sempre tra ottocento e
novecento. Il saggio della Accornero tratteggia le figure di tecnici
intellettuali impegnati a innalzare il livello della produzione
industriale; il saggio della Dellapiana è sui contatti tra il museo e
le istituzioni dell’istruzione artistica di base e superiore. Una
interpretazione dal punto di vista della storia delle scienze
sociali, e una dal fronte delle Belle Arti. La cultura tecnica ha un
ruolo chiave nelle trasformazioni sociali ed economiche nell’epoca
dell’industrializzazione. Uno scambio interdisciplinare tra cultura
tecnica e scienze sociali che contribuisce alla formazione di una
nuova figura di ingegnere. Il progresso dell’industria ha
aumentato la complessità dei rapporti fra il capitale ed il lavoro,
ha generato l’esigenza di fondare una legislazione in grado di
tutelare l’operaio, nella sua attività lavorativa, da infortuni e
malattie. La nuova figura di ingegnere sociale è intermediaria tra
gli operai e l’industriale. La sua preparazione deve essere anche
58 C.Accornero-E.Dellapiana, Il Regio museo industriale di Torino tra cultura tecnica e diffusione del buon gusto , CRISIS, Torino, 2001
62
in economia e legislazione industriale, per potere applicare le
leggi preventive sul lavoro e sulle malattie professionali. Da
questo punto di vista il Museo Industriale è importante non solo
in relazione all’istituzione didattica, ma anche per la sua attività
di sperimentazione scientifica e volontà di trasformazione
sociale. La storia del Regio Museo Industriale è di estrema utilità
perché rappresenta una fonte importante per le vicende della
Torino industriale di inizio secolo. Questa ipotesi si avvale non
degli aspetti più noti del Museo, come sede di istruzione tecnica
e di complemento della Scuola di Applicazione per gli ingegneri,
quanto della sua capacità d’interazione con altri enti accademici
e con il mondo imprenditoriale ed amministrativo. Il Museo è
stato una istituzione didattica partecipe dello sviluppo industriale
locale.Secondo Vittorio Marchis 59, il carattere di “frontiera’’ del
Museo costituisce la premessa alla costruzione della cultura
politecnica in grado <<diventare una nuova comunità scientifica,
indipendente, autonoma, di riferimento al di là dell’Accademia
delle Scienze, che già accusava segni di invecchiamento e
dell’Università che si proiettava su altre prospettive>>60. <<Il
museo materializza i concetti del metodo positivo
dell’osservazione e della classificazione attraverso il
59 cfr.C.Accornero, Positivismo e programmi riformatori, sta in, C.Accornero-E.Dellapiana, op cit, pag.10 60 ibidem
63
collezionismo ed è strumento di pedagogia nazionale e di
formazione di una nuova classe dirigente >>61.L’idea e la
realizzazione del Regio Museo Industriale nascono dalla
partecipazione italiana all’Esposizione londinese del 1862,
tuttavia alla Accornero sembra interessante fare alcune
considerazioni sul ruolo del positivismo e della politica post-
risorgimentale per comprendere il significato del Museo nella
storia culturale della città di Torino. Non a caso dopo il
trasferimento della capitale a Firenze il mondo accademico e
scientifico torinese riorganizza le proprie sedi di ricerca e di
discussione.Oltre a numerose esposizioni, si programmarono la
fondazione del Museo Risorgimentale, del Museo di Anatomia e di
Zoologia, la costituzione di un nuovo Museo Civico, che
comprende la sezione d’arte applicata all’industria, il
riordinamento dell’Accademia di Agraria che, per un certo
periodo (1865-1872), è annessa al Museo come Società Reale di
Agricoltura, Industria e Commercio. Nel contesto positivista,
dunque, una pratica diffusa è quella della creazione dei laboratori
annessi alle collezioni museali scientifiche e accademiche: il
laboratorio di fisiologia sperimentale dove si formeranno gli
igienisti, il laboratorio di Anatomia e di Zoologia, il Laboratorio di
Economia Politica di Salvatore Cognetti de Martiis, docente di
61cit in ivi.pag.12
64
Economia Industriale al Museo torinese negli anni ’80. Tra il
Museo Industriale e le istituzioni accademiche, gli enti
amministrativi e le imprese c’è una trama di rapporti
determinata dalla capacità di interazione del Museo.Tuttavia la
scelta di costituire il Politecnico (1906), come unico centro di
formazione tecnica, avvia un processo che tenderà a separare le
discipline e a superare le aspettative interdisciplinari della
scienza positiva. Anche in ambito degli studi politici e sociali
questa separazione è realizzata con la fondazione, nel 1908,
della Scuola di Economia e Commercio, ad opera di Secondo
Frola. La nascita di numerose sedi della sperimentazione pratica
delle differenti discipline coinvolge anche il Museo. Il Reale
Decreto del 31 ottobre 1869, imposto per il riordino della
struttura didattica, prevede di riformare gli insegnamenti con
l’introduzione di nuovi ordinamenti. La relazione di
accompagnamento del decreto, redatta dall’allora Ministro
dell’Agricoltura, Industria e Commercio, Marco Minghetti, coglie il
carattere dell’istituto, che pur mantenendo la sua caratteristica
originale, di esposizione permanente, storica e progressiva dei
prodotti della natura e dell’industria, assume la funzione di
centro nazionale delle informazioni, degli studi e delle ricerche
relative all’industria, con l’introduzione di nuovi laboratori di
meccanica, chimica, fisica industriale, di disegno e di archivi e
65
biblioteche industriali a disposizione del Governo e dei privati.
Per Minghetti il Museo deve essere <<il centro di tutta l’Italia,
quasi fuoco donde irraggia il calore e si diffonde per la
Penisola>>62. L’iniziativa della riforma didattica è nuovamente
oggetto della seduta del collegio degli insegnanti nel 1897, su
proposta del Prof. Tessari, riguardo alle necessità di istituire dei
laboratori di meccanica. Michele Ferrari nelle memorie del corpo
insegnante, pubblicate in occasione dell’Esposizione Generale
Italiana 1898 in Torino, sottolinea l’importanza
dell’insegnamento sperimentale dei laboratori, accanto agli studi
teorici: <<…Non solamente gli studi di scienze applicate, ma
anche gli studi economici, giuridici, storici richiedono,oggi, per
essere fatti in modo efficace, l’istituzione del laboratorio, nel
quale si completi l’insegnamento orale con esperienze e ricerche
lasciate all’iniziativa dell’allievo sotto la sorveglianza e la guida
del professore…>>63. Infine nel discorso di inaugurazione
dell’anno accademico del 1901 presso il Museo, Le scuole degli
ingegneri e la loro influenza nell’opera di incivilimento umano di
Domenico Tessari, ingegnere, professore di cinematica applicata
alle macchine, è ripreso l’ideale della funzione del tecnico anche
nei confronti della società in trasformazione: <<abbellisce e
risana le città con buone canalizzazioni, con acquedotti, colla
62cit. in ivi. pag. 52 63 cit. in ivi.pag.22
66
illuminazione a gas ed elettrica…..La scuola non ha solo da
preparare i futuri ingegneri, ma uomini che sappiano far
progredire le industrie, per la grandezza della Nazione, affinché
essa possa tenere degnamente il suo rango fra le altre
Nazioni>>64.La Accornero dopo aver individuato in Positivismo e
programmi riformatori la pratica diffusa della creazione dei
laboratori si pone una domanda precisa: quale esperienza
scientifica e culturale è in grado di rappresentare la sintesi tra
indagine positivista e i programmi riformatori?Per rispondere
focalizza il suo discorso sul Laboratorio di Economia Politica
all’interno del Museo Industriale. L’industrialismo provoca
questioni economiche e sociali; lo studio degli strumenti tecnici
capaci di migliorare le condizioni di lavoro dell’uomo fa parte di
un programma che non è strettamente scientifico, ma si propone
di riformare la nuova società industriale.Per comprendere i
rapporti tra scienza economica e sapere tecnico l’autrice
ricostruisce l’organizzazione dell’istruzione e la formazione della
nuova classe dirigente.Il Regio Decreto 25 marzo 1877, per il
Regolamento del Museo, comprendeva fra gli insegnamenti il
corso di Economia Politica ed Industriale.Fino a quel momento il
reclutamento dei docenti, a seguito di pubblico concorso, non
ottiene dei risultati positivi.Nel marzo 1878 il ministro della
64 cit.in ivi.pag.19
67
pubblica istruzione istituisce la commissione per la scelta del
professore per l’incarico di Economia Politica Industriale che non
produce nessun esito positivo 65. Per l’anno scolastico 1879-1880
l’incarico fu affidato ad Alessandro Garelli, della facoltà giuridica
torinese.Negli anni 1880-1881 la cattedra restò vacante fino
all’anno scolastico 1883-1884 in cui Cognetti de Martiis ricopre il
ruolo di professore incaricato fino al 1901.Durante il decennio
della presidenza di Domenico Berti (1888-1897) presso il Museo
Industriale, l’attività di Cognetti si rafforza.Berti era docente di
filosofia morale all’Università di Torino, tra i suoi programmi
politici vi era quello di favorire lo sviluppo delle scuole di arti e
mestieri e l’istruzione professionale secondaria.Fu il primo ad
introdurre in parlamento la legislazione sociale e ad occuparsi di
istruzione tecnica e ceto operaio. De Martiis è un sostenitore
convinto della teoria evoluzionista applicata all’ economia politica
e dell’uso dell’analogia organica tra fenomeni sociali e naturali.
Sostenitore del darwinismo sociale, applica le leggi
dell’evoluzione naturale al sistema della società umana: anche
l’economia e le sue azioni sono determinazione di fatti biologici
fondamentali. Per Cognetti i principi economici stanno alla base
del benessere e dello sviluppo della società.In un testo del 1869,
65 Il presidente della commissione è Luigi Luzzati e tra i membri c’è Minghetti .Entrambi parteciparono all’Esposizione Universale di Parigi del 1867 e furono in stretto contatto con l’organizzatore Frèdèric Le Play, ingegnere francese, ideatore dell’ingegneria sociale.
68
intitolato L’economia sociale e la famiglia, sostiene questa tesi
ponendo al centro di tutto la famiglia, perché <<è il nocciolo
l’embrione d’ogni umano consorzio, di qui la necessità di tutelare
lo sviluppo, di impedire ogni turbamento>>66. Per Cognetti il
ruolo del Museo è fondamentale per il progresso industriale e per
la formazione di una dirigenza nazionale, in grado di gestire il
sistema delle fabbriche: <<…valenti giovani usciti appena dal
Museo Industriale di Torino, sono chiamati a dirigere miniere,
fabbriche industriali,.. sicchè elementi nazionali adatti
subentrano via ai più costosi elementi stranieri nella direzione
della nostra produzione manifatturiera>>67. I suoi studi compiuti
sulle questioni del lavoro e della legislazione sociale non
rimangono semplici dottrine ma sono resi praticabili dalle
iniziative che Cognetti intraprende. Durante l’Esposizione Operai
del 1898, Cognetti è membro della commissione operaia e
presiede la III divisione di assistenza e previdenza, e cerca di
organizzare un congresso internazionale di legislazione sociale,
sulla tutela del lavoro. Intende realizzare un “atto di giustizia
sociale’’ che comprende i diversi rami dell’attività lavorativa, dal
commercio, ai trasporti, all’igiene, alla proprietà industriale.
Purtroppo il convegno non trova nessun sostegno e consenso da
66 cit.in C.Accornero,Il Regio Museo Industriale ed il laboratorio di economica politica. Il corso di economia industriale al museo e il sapere tecnico, sta in C.Accornero-E.Dellapiana,op cit, pag. 30 67 cit. in ivi. pag. 33
69
parte del Comitato esecutivo dell’esposizione. Cognetti non si
arrende e queste esperienze trovano finalmente una sede pratica
di realizzazione di studio e di ricerca. La fondazione del
Laboratorio di Economia Politica segna un momento importante
per Torino. <<Strumento per la conoscenza di più vivi problemi
economici e sociali>>68, sede per la diffusione della cultura
scientifica positiva e di propaganda di legislazione sociale. Nel
novembre 1893 la Facoltà di Giurisprudenza approva la proposta
di costituire un istituto autonomo, in sostituzione dell’istituto di
esercitazione nelle scienze giuridico-politiche, con
un’organizzazione molto simile al Museo Sociale di Parigi. Nel
contesto torinese, il Laboratorio è un punto di riferimento e la
sede della sperimentazione della ricerca positivista nell’ambito
delle scienze sociali. Sono ammessi al Laboratorio in qualità di
allievi gli studenti universitari e gli allievi ingegneri del Museo
Industriale. Il Laboratorio fornisce il materiale scientifico per
buona parte dei saggi che appaiono sulla rivista torinese “La
riforma sociale”, fondata nel 1894, la cui redazione è costituita
dagli stessi membri e soci dell’istituto di Cognetti. La rivista
costituisce, anche per l’apertura ai dibattiti internazionali, una
sede di ricerca ad elevato livello scientifico in campo di studio
differenti,come sociologia, economia, politica, materie giuridiche.
68 ivi. pag. 34
70
Tra la schiera di coloro che contribuiscono a tale cenacolo di
idee, vi sono delle personalità che fanno parte della struttura
amministrativa e accademica del Museo Industriale, come
Cognetti De Martiis, Luigi Einaudi, Effren Magrini.Nel novembre
1898, su iniziativa del ministro della Pubblica Istruzione Guido
Bacelli, e del ministro dell’Agricoltura, industria e commercio
Alessandro Fortis, e del suo successore Antonio Calandra, del
presidente del Museo Secondo Frola e del rettore dell’Università
Cesare Nani, il Laboratorio è annesso ufficialmente all’Università
ed al Museo Industriale Italiano.Tale decisone è sanzionata con il
Reale Decreto del 17 marzo 1901.I rapporti tra il Museo ed il
Laboratorio risultano complessi, in particolare dopo la scomparsa
di Cognetti nel 1901. Einaudi nel memoriale del 16 giugno 1903,
rivolgendosi alla Giunta direttiva del Museo, presenta alcune
considerazioni sull’utilità del Laboratorio e ricorda gli scopi del
suo fondatore <<creare un centro di studi, ove i fenomeni
economici potessero essere studiati nel vivo, nei documenti,
rapporti, inchieste, statistiche, che di quei fenomeni fanno
testimonianza. Sovratutto voleva il suo fondatore che il
Laboratorio diventasse strumento di sussidio continuo
all’insegnamento orale…>>69. Einaudi ottiene l’incarico
dell’insegnamento di Economia e Legislazione Industriale in
69cit. in ivi.pagg.38-39
71
sostituzione di Cognetti, e per mantenere vivo l’insegnamento
del suo maestro cerca di dimostrare l’importanza didattica del
dell’istituto. Nell’anno scolastico 1901-1902, sotto la direzione di
Einaudi e insieme all’ingegnere Magrini, gli studenti avviano
un’inchiesta sulle condizioni dell’emigrazione in Piemonte.
Nell’anno successivo Einaudi invita gli studenti a seguire il
Laboratorio per un’indagine <<attorno ai mezzi tecnici di
prevenire gli infortuni sul lavoro…>>70. Lo scopo di Einaudi è
quello di sensibilizzare la Giunta direttiva a sostenere il
Laboratorio come istituto annesso al Museo. L’interesse di
Einaudi non trova riscontro: la Giunta direttiva infatti prima di
esprimere un parere si rivolge al Collegio dei Professori sulla
convenienza di tali proposte e quest’ultimo risponde così<<…per
la libertà lasciata agli studenti di seguire le esercitazioni…con
raccomandazione che siano compiute in un orario speciale, senza
incaglio delle altre esercitazioni>>71. Nel 1926 il Laboratorio è
trasformato in Seminario e successivamente in Istituto di
Giurisprudenza. Malgrado le difficoltà di coordinamento tra
Laboratorio e Museo –scrive la Accornero- la collaborazione
dell’ingegnere Magrini risulta essere una figura chiave per
l’esperienza didattica del Museo. Nell’ambito della storia urbana
torinese la figura di Effren Magrini permette comprendere la
70cit. in ivi.pag.39 71 cit. in ivi pag. 40
72
funzione dell’ingegnere sociale.Il 5 giugno 1900 assunse
l’incarico di assistente per i corsi di Economia e Legislazione
Industriale, Tecnologia Tessile, Tecnologia Meccanica, Disegno di
macchine a mano libera.Con il progresso dell’industria si avverte
l’esigenza di fondare una legislazione sociale per tutelare
l’operaio nella sua attività da infortuni e malattie.Magrini in Lo
studio dell’economia e della legislazione industriale nelle Scuole
industriali scrive <<è utile che il Laboratorio di economia politica
S.Cognetti De Martiis, annesso al Museo Industriale Italiano, sia
in parte trasformato in Laboratorio di economia e legislazione
sociale e che così trasformato sia il centro di simili laboratori
istituiti nelle scuole industriali inferiori>>72.L’introduzione
nell’ambito del Museo del tema dell’ingegneria sociale è un
contributo scientifico del tutto nuovo. L’assicurazione e la
previdenza, la classe di risparmio, l’igiene e l’abitazione, la
protezione delle donne e dell’infanzia costituiscono degli
strumenti di tutela e controllo sociale. Magrini vuole che il
Laboratorio diventi centro di studio sulle questioni di economia e
legislazione sociale, e considera come modello di riferimento
l’industria di soda e prodotti chimici di Solvay. Le opere di
previdenza dimostrano l’attenzione dell’industriale alla questione
sociale: <<queste officine impiegano più di 1600 operai; le
72 cit. in ivi. pag. 48
73
principali opere di previdenza nello stabilimento centrale
sono:servizio medico e farmaceutico, servizio di soccorso agli
operai bisognosi, cassa di risparmio per operai e impiegati, ….La
ditta oltre a ciò, pensò pensò anche allo sviluppo intellettuale e
morale del suo personale ed ha fondate le seguenti
istituzioni:Società di musica, Società di ginnastica, Biblioteca
popolare e scuola d’arti e mestieri >>73.L’attività didattica e
scientifica di Magrini orienta e influenza una parte delle decisioni
del politica riformatrice di Secondo Frola, come presidente del
Museo dal 1897 al 1903 e come sindaco della città di Torino dal
1903 al 1908. La giunta comunale collabora con il Museo – come
istituzione didattica e come sede della sperimentazione e
innovazione tecnologica - per realizzare il risanamento del centro
cittadino. A sottolineare la crescita del Museo in concomitanza
con l’economia e l’industria del paese è il memoriale della Giunta
direttiva 5 gennaio 1906 del Ministero Pubblica Istruzione
<<…Ed invero, quando al primo sorgere del Regno d’Italia, la
industria di questa nuova nazione era incerta e quasi totalmente
tributaria dell’estero furono le collezioni, le raccolte di materie
prime e dei prodotti che se ne potevano trarre, a dimostrare
all’Italia quali fossero i tesori che essa possedeva, quale utile
73cit. in ivi. pag. 50
74
immenso che avrebbe potuto ricavarne seguendo l’esempio delle
Nazioni che l’avevano preceduta nel risveglio economico
industriale.Svolgendosi le industrie sorse il bisogno dei tecnici
che ne dirigessero gli sforzi, ed ecco il Museo aggiungere alle sue
collezioni le ricerche sperimentali, il servizio d’analisi ed
accingersi a impartire l’istruzione tecnica…>>74.Nel 1901 Frola
visita i politecnici e le scuole tecnico industriali di Monaco, di
Berlino, di Praga e di Vienna.Lo scopo della visita è quello di
approfondire la conoscenza degli studi di fisica, di chimica, di
meccanica, di elettrotecnica, e di apprendere l’organizzazione
didattica, tecnica e amministrativa. Questo confronto con i
politecnici stranieri è l’occasione per fare un bilancio della
condizione italiana, ancora indietro rispetto al modello
tedesco.Sebbene il Museo sia riconosciuto all’estero, l’assenza di
finanziamenti cospicui riduce le potenzialità degli stessi
laboratori.La crisi finanziaria degli anni ’90 aveva ridotto i fondi
statali per le spese di gestione del Museo. L’ambiente
amministrativo della città di Torino, per consolidare la propria
posizione di città industriale, si fece carico dei finanziamenti per
sostenere le spese per i nuovi laboratori e i lavori di ampliamento
del 1898. Le richieste di un’organizzazione didattica più
efficiente, e l’inadeguatezza dell’istituto a rispondere a tali
74cit. in ivi. pag. 63
75
bisogni, fa emergere la conflittualità tra il Museo Industriale e la
Scuola di Applicazione.Tale contrasto si trascina già dai tempi
della fondazione dell’Istituto. All’inizio del 1903, durante il
dibattito consiliare sul bilancio comunale, la presa di posizione di
due scienziati di fama internazionale, Angelo Mosso e Cesare
Lombroso, segna la demarcazione tra il mondo scientifico e
quello amministrativo e politico.Per Mosso l’industria deve essere
scientifica, ovvero deve essere sostenuta dall’attività di ricerca
dei laboratori universitari, che contribuiscono al progresso degli
studi conformi ai bisogni della scienza e dell’industria. Per Mosso
l’istituto, a causa della sua disorganizzazione, non segue
l’evoluzione dell’industria nel momento in cui la chimica organica
e l’elettrochimica sono gli insegnamenti di grande utilità per il
mondo produttivo dell’epoca. Mosso concilia il “trionfo della
scienza con l’industria” con la soluzione della “questione sociale’’,
<<poiché migliorando le industrie chimiche si migliorano pure le
condizioni degli operai >>75.In realtà ciò che emerge dal
dibattito è l’interesse alla costituzione di “un’università
esclusivamente scientifica’’ ed “un’università essenzialmente
tecnica”, e a superare l’incompatibilità tra Museo e Scuola di
applicazione. Non è un caso che a seguito delle dichiarazioni di
Mosso si crea un movimento di opinioni sull’opportunità di
75cit. in ivi. pag. 69
76
formare un ente autonomo ed unico, che corrisponda al
Politecnico. Sul piano dell’organizzazione didattica emergono,
nella costituzione del Politecnico, alcune necessità come
l’introduzione dell’insegnamento sull’esercizio ferroviario, di un
ordinamento della scuola di architettura e di una scuola di
miniere; sul piano della formazione professionale,
l’organizzazione prevede la creazione di specializzazioni come la
sezione di chimica industriale e l’insegnamento di agraria e
d’igiene. Il dibattito sul Politecnico si arricchisce dell’intervento di
Luigi Pagliani, medico, consigliere comunale e docente di Igiene
all’Università.Il discorso di Pagliani non scinde la scienza dalla
questione sociale e rimarca il ruolo dello scienziato positivista
che risana i malesseri sociali.In questo senso anche l’ingegneria
moderna deve adeguarsi ai mutamenti della società con la
scienza dell’igiene.La Accornero, in conclusione, non ha proposto
un modello interpretativo univoco, ha preferito tracciare linee
interpretative che si accavallano per affrontare un universo
tutt’altro che omogeneo e dai contorni indefiniti. Questa
impostazione è dovuta principalmente alle caratteristiche
dell’epoca, che rappresentano un mondo scientifico, intellettuale
e tecnico in continua evoluzione e, soprattutto, aperto allo
scambio e alla creazione di reti di contatto.
Elena Dellapiana tenta invece una interpretazione delle Belle
77
Arti.Sebbene in Italia non fossero ancora maturi i tempi per la
produzione seriale, era invece vivace e allineato a livello europeo
quello dell’arte per tutti, e quindi della qualità del prodotto
industriale.Anche quest’ultimo è vettore del buon gusto, in
quanto bisogna che si trovi qualità anche in un oggetto di uso
comune. L’istruzione artistica, con particolare attenzione al
disegno, è lo strumento atto a sanare lo iato tra arte e
produzione seriale. Nel 1861 il ministro dell’istruzione Francesco
De Sanctis invita i professori dell’Accademia torinese di Belle Arti
a fornire un sostanziale contributo al fine di <<sviluppare ed
estendere a più ampie proporzioni l’istruzione primaria
elementare dell’ornato, atta a diffondere il buon gusto ad ogni
ramo di industria>> 76. L’Albertina, come tutte le istituzioni
analoghe del paese, era stata affidata fin dall’anno precedente
alla gestione del Ministero dell’Istruzione, a sancirne un ruolo
pedagogico di ampia diffusione, non necessariamente esclusivo
appannaggio di èlite toccate dall’ispirazione artistica.
Contemporaneamente, nel 1862, viene istituito a Torino il Regio
Museo Industriale con lo scopo di promuovere l’istruzione
industriale e il progresso delle industrie e del commercio. I temi
della decorazione, delle arti applicate e più in generale dell’opera
seriale avendo già subito un forte impulso con la riforma
76E.Dellapiana, La diffusione del buon gusto nelle masse, sta in C.Accornero-E.Dellapiana, op cit, pag. 124
78
dell’insegnamento accademico del 1856. Dal compimento
dell’Unità di Italia la funzione dell’ornato diviene centrale nei
programmi e nelle preoccupazioni non solo dell’Albertina, ma di
tutte le Accademie italiane. In periodo pre-unitario ci si spronava
per raggiungere l’eccellenza rispetto alla altre istituzioni, ora
l’indirizzo è il raggiungimento di un obiettivo comune nell’ottica
dell’utilità. L’invito del Ministro De Sanctis nel 1861 è ripreso
l’anno seguente dal segretario Biscarra:
<<Molto si debbe altresì al riordinamento ed all’ampliazione
recente nelle scuole d’ornato e di plastica ornamentale, che
….arreca somma utilità ad ogni ramo dell’industria, la quale,
elemento vitale del commercio, ha parte tanto attiva negli agi
migliori, nel buon gusto e benessere, nella civiltà e nello
splendore di un popolo >>77.Nella Relazione accademica
pronunciata il 6 dicembre 1863 precisa: <<La scuola d’Ornato
…dirozza la mente dell’operaio, e addomesticandone la mano ne
ingentilisce lo spirito>>Il disegno dell’ornato è applicato anche a
mobili e a oggetti di manifattura.La disciplina diventa fondante
per l’identità stessa dell’Accademia.Il presidente della Reale
Accademia di Belle Arti, Michele Panissera, nel Discorso
inaugurale del 1869 dice: <<Il bello che un dì ornava i palazzi
del Re e dei potenti ora è fatto tale che entra liberamente nella
77 ivi. pagg. 130-131
79
modesta abitazione di ogni cittadino…mascherandosi colla
modesta foggia dell’industria>>78. Presso il Museo Industriale di
Torino l’anima dell’insegnamento dell’ornato è rappresentata da
Pietro Giusti79. La sua presenza a Torino coincide con una
consistente attività di pubblicista soprattutto sui temi
dell’insegnamento. La sua principale attività dovette consistere
nelle raccolte di disegni da proporre ai suoi studenti; Codazza ne
ricorda 1136 raccolti in 5 libri. La tesi di Giusti parte dalla
considerazione della necessità di utilizzare l’arte come mezzo di
diffusione del buon gusto in tutte le fasce della popolazione.Egli
propone una fondamentale distinzione nell’insegnamento tra due
filoni consequenziali ma virtualmente indipendenti l’uno
dall’altro: il “disegno di Ornato’’ e “l’Ornamentazione’’. Il disegno
di ornato consiste nel principio tecnico e preparatorio
all’ornamentazione ed è materia di insegnamento nelle scuole
tecniche e nei ginnasi. Altro è l’ornamentazione, discernimento
tra il gusto buono o meno buono, insegnata negli istituti tecnici o
all’università. Giusti sostiene che anche in mancanza di una
particolare competenza tecnica, l’abitudine alla composizione e
l’esercizio alla naturale inclinazione al disegno presente in ogni
fanciullo, opportunamente assecondate, costituiscono il miglior
78 ivi.pag.133 79 Scultore in legno e intagliatore in avorio, insegna all’Accademia di Belle Arti di Siena dal 1855 al 1865, anno del suo trasferimento alla gestione del corso di Ornato al Museo Industriale di Torino.
80
viatico per l’educazione al buon gusto.Il proposito di Giusti è
quello di trovare uno spazio nel sistema formativo da occupare
con i corsi e le collezioni del Museo. Codazza, nella sua opera
storica sul Regio Museo Industriale, sottolinea i caratteri di
indipendenza, rispetto ai principi adottati nella maggior parte
delle scuole ufficiali, del programma di Giusti. Tuttavia, tra i corsi
all’interno del Museo, la parte del leone è affidata al corso per
ingegnere industriale istituito nel 1879.Gli scritti al corso sono 38
nell’anno 1888-1889, gli abilitati all’insegnamento negli Istituti
tecnici e nelle Scuole di arti e mestieri vanno da quattro a sei. A
partire dall’anno 1898 il corso di Ornato diventa Scuola Normale
per gli aspiranti all’insegnamento dell’ornato superiore negli
Istituti tecnici e nelle Scuole professionali d’arti e mestieri. I
diplomati del Museo sono destinati alle scuole afferenti il
Ministero del Commercio, Agricoltura e Industria, mentre quelli
dell’Albertina ai corsi di studi alle dipendenze del Ministero
dell’Istruzione.La scuola nell’Italia liberale si era trovata di fronte
alla doppia emergenza di un tasso di analfabetismo di
proporzioni enormi e della necessità di configurarsi come un
sistema a larga base professionale; quest’ultima caratteristica
era all’origine di un sistema di professionalizzazione precoce,
misero e riduttivo nel suo complesso, dove qualsiasi
insegnamento artistico, sia a livello storico, sia a livello pratico,
81
era assente.Le scuole tecniche si configuravano come una
risposta immediata alle necessità del mercato, con una miriade
di specializzazioni, sostanzialmente inadeguate a costituire un
momento propedeutico alla vera professionalità anche da un
punto di vista culturale. E’ sufficiente scorrere gli atti
parlamentari sui temi dell’istruzione per constatare la prevalenza
di interessi della classe politica sugli ordini di scuole finalizzate
alla formazione di una classe dirigente, piuttosto che su quelle
ormai dirette ad indirizzare le classi subalterne a un rapido
inserimento nel mondo del lavoro, nonché all’uso strumentale del
sistema di istruzione in chiave anticattolica. Le due letture si
incontrano sulle cause di un “ insuccesso’’: la specializzazione
produce frammentazione dei saperi, ridimensiona il ruolo
dell’istruzione di base nelle classi subalterne e si focalizza sulla
preparazione delle sole classi dirigenti.Il museo nato dal giusto
credo di De Vincenzi non riscuote grande approvazione perché gli
industriali richiedono quello strumento di miglioramento del
design che fu creato a Roma nel 1873, col Regio Museo Artistico
Industriale. In un paese che doveva evolversi industrialmente si
preferì lo studio della forma.Prevalse una politica conservatrice
che ebbe come conseguenza il decadere della vitalità dei musei
artistici industriali che andranno sempre più emarginandosi dalle
82
modificazioni culturali, sociali, politiche, economiche che hanno
determinato la fisionomia dell’Italia moderna.
II.4 Un museo dell’industria legato al territorio
nell’età della globalizzazione
E’ possibile fare qualche considerazione: a Torino nel 1862
venne creato il Regio Museo Industriale Italiano; a Roma nel
1873 il Reale Museo Artistico Industriale; a Milano nel 1878 il
Museo Artistico Municipale;a Napoli nel 1878 viene fondato, e nel
1889 inaugurato ufficialmente il Museo Artistico Industriale di
Filangieri e Salazaro. Altri musei, come il Bargello di Firenze e il
Correr di Venezia, nacquero come musei artistico-industriali.In
quegli anni di primissima, germinale industrializzazione italiana,
si capì quanto fosse importante collegare l’attività economica-
industriale a una attività di conservazione della memoria. Poi
cosa è accaduto? Successivamente è avvenuto qualcosa di
strano: mentre negli altri paesi europei queste istituzioni
crebbero, in Italia con gli anni vennero smantellate, impedendo
così una presa di coscienza e una diffusione di quella che è stata
giustamente definita “la cultura industriale’’. Ci fu dunque una
83
cesura, una sorta di oblio. Perché da noi si è spenta questa
tradizione che pure aveva avuto una nascita così fertile? Fu solo
disattenzione, è stata carenza di risorse o c’è qualcosa di più
profondo? Paolo Mazzanti, relatore di Confindustria, al convegno,
“Un patrimonio culturale. I Musei dell’industria”, realizzato dalla
Fondazione Luigi Micheletti 80 di Brescia, il 19 Aprile 1993, nel
suo intervento che ha per titolo Valorizzare la cultura
industriale,81 individua gli elementi che sono intervenuti nel
nostro Paese determinando questo risultato. La cultura
industriale, altrove, si è innestata quasi naturalmente con
continuità nella cultura generale del paese, secondo un rapporto
di non-contraddizione fra “rami alti” e “rami bassi” della cultura,
fra cultura concettualizzata, teorica, e cultura applicativa, fra
valori estetici e valori utilitaristici.Non a caso una corrente della
filosofia anglosassone si chiama “utilitarismo”. Da noi invece si
determinò quasi subito un conflitto tra cultura ‘’alta’’ e
cultura’’bassa’’; anche le correnti culturali come il “futurismo” nei
primi anni di questo secolo, che spingevano a favore di una
cultura industriale, lo facevano con una valenza quasi ideologica,
di conflitto, di contrapposizione rispetto alla cultura del passato.
80 La fondazione Luigi Micheletti è un istituto specializzato nella ricerca storica sul XX secolo e conosciuto a livello internazionale. Nel 1981 Luigi Micheletti, imprenditore e organizzatore di cultura, raggiungeva il primo importante obiettivo della sua appassionata attività. La biblioteca e l’archivio a cui aveva dato vita, con l’aiuto di pochi amici e appassionati, si costituivano in Fondazione ottenendo l’anno successivo il riconoscimento giuridico della regione Lombardia. 81 P.Mazzanti, Valorizzare la cultura industriale, sta in, AA. VV, Un patrimonio culturale. I musei dell’industria, Atti del convegno internazionale di studi di Brescia, 19 aprile 1993, pagg. 29-33
84
Marinetti, nel Manifesto dei futuristi, glorificò il nuovo e la
bellezza delle invenzioni meccaniche augurandosi però di
distruggere l’eredità del passato. Quindi la cultura
contemporanea, industriale, nella letteratura futurista nacque
come contraddizione, volontà di distruzione della vecchia cultura,
con conseguente reazione da parte dell’idealismo. Nel 1912, nel
suo Breviario di estetica, Benedetto Croce scrisse che il
riconoscimento del bello è l’unica legge, è l’unico valore
costitutivo di ogni arte, affermando la preminenza dei valori
estetici su ogni altro tipo di valore, mentre quasi dieci anni prima
Paul Sorian aveva affermato:<<Non ci può essere conflitto fra
bello e utile>>. Quindi negli altri paesi europei, dove la cultura
industriale venne assimilata più profondamente, questo rapporto
venne compreso, mentre da noi la cultura tardo-idealistica di
matrice crociana contestò tale continuità e affermò la prevalenza
assoluta dei valori estetici sui valori dell’utile. Nel secondo
dopoguerra questa sorta di schizofrenia si è addirittura
accentuata. E’ vero che l’Italia ha vissuto la grande esplosione
dell’industria diffusa, ma è anche vero che non è riuscita a
collegare questa grande, vitalissima attività economica con una
autocoscienza culturale diffusa, perché si è determinata una
radicale contraddizione fra l’attività pratica degli italiani e i loro
valori culturali di riferimento. Tutto ciò ha reso difficile per gli
85
italiani assimilare i valori della cultura industriale, e quindi
mentre essi facevano praticamente industria, producevano,
esportavano, erano delle formiche indefesse che continuavano a
dar vita ad innovazioni e invadevano i mercati, avevano però
difficoltà a fare della cultura industriale una loro cultura di
riferimento intimo, personale, profondo, a interiorizzare i valori
industriali. Non parliamo poi della tradizionale cultura della
separatezza del mondo accademico, che in molte sue parti ha
visto la commistione con l’attività pratica, dell’impresa, come una
sorta di degradazione morale; ad esempio, di fronte alla legge
sull’autonomia universitaria, che consentiva maggiore spazio al
rapporto fra università e impresa, nelle università ci sono stati
persino degli scioperi per contestare questo principio, che in
tutte le università del mondo costituisce una delle basi
dell’attività accademica. All’interno di questa riflessione si colloca
il progetto più importante della Fondazione, il Museo Industria e
Lavoro82 intitolato a Eugenio Battisti, storico dell’arte e studioso
di archeologia industriale. Tale progetto costituisce anche una
parte significativa della vicenda dell’archeologia industriale che
da oltre un ventennio va consolidandosi anche in Italia. Dagli
inizi degli anni ’90, su impulso di Micheletti è iniziato il lavoro di
82 Nel maggio 2004 si è concluso il concorso internazionale di progettazione a procedura ristretta, con pre qualificazione dei concorrenti, per la realizzazione della sede centrale del museo. Il progetto vincitore è degli architetti Klaus Schunwerk e Jan Kleihues. A tutt’oggi la sede centrale è ancora in fase di allestimento.
86
raccolta delle collezioni, confluite poi nel museo, insieme a tutta
la documentazione di corredo, come fonti della storia del nostro
secolo e fotografie. La collezione è costituita di 2000 macchine
ed utensili di vari settori industriali – tipografico, tessile,
meccano-tessile con macchine da stampa per cotone e velluto
degli anni ’20, oltre ad un’originale sezione dedicata al cinema e
alla televisione, per molti versi legata alla storia dell’industria -
dal 1800 a oggi. Il museo comprenderà quattro sezioni
permanenti, un auditorium e una grande hall di ingresso con uno
show-case dell’innovazione tecnica. Una seconda parte ospiterà
sale per esposizioni permanenti e temporanee, un grande
magazzino visitabile, strutture per la ricerca e formazione.
L’obiettivo è conservare, attraverso reperti concreti, la memoria
dell’età dell’industrializzazione e far conoscere il bene storico
industriale nella sua dimensione tecnica, economica, sociale e
come uno dei protagonisti principali del nostro modo di vivere e
produrre. Il rinnovamento operato da questa tipologia museale
non è tanto l’uso di tecnologia informatica, ma l’avere immesso
la tecnica nel suo contesto. Le macchine sono collocate nei luoghi
in cui sono nate e in cui hanno operato; i contenitori sono
strutture produttive dismesse –la sede centrale è una fabbrica
metallurgica sorta nella prima periferia industriale della città tra
otto e novecento. La struttura ha mantenuto la sua fisionomia
87
originaria, e il suo riuso arricchisce il grande progetto di
riqualificazione dell’area ex industriale a ridosso della città
storica. Pier Paolo Poggio, in un articolo del 1996 dal titolo Un
museo dell’industria legato al territorio nell’età della
globalizzazione 83, dice che questo tipo di allestimento ha
permesso un racconto più “vero”, e un recupero forte del il
territorio e delle risorse che hanno caratterizzato tutto il primo
ciclo dell’industrializzazione antecedente alla grande fabbrica
fordista. In questo particolare caso l’obiettivo perseguito è il
modello italiano di industrializzazione, individuando la città di
Brescia e il suo territorio come collocazione ottimale, sia per la
lunga e solida vocazione industriale che per la posizione di snodo
tra il vecchio “triangolo industriale” e le aree di più recente
sviluppo industriale. Altra testimonianza del legame con il
territorio è l’avere creato una rete –o un sistema museale diffuso
-con altre realtà museali già avviate: museo del ferro,
dell’energia idroelettrica, la città delle macchine. In questo
fondamentale binomio il territorio è anche il luogo in cui si è
formato il capitale sociale che consente di competere
nell’economia globale. Nel momento in cui l’industria e il lavoro
cambiano significato e sono in atto profonde dinamiche di
trasformazione, il territorio deve essere indagato col fine di una
83 P.P.Poggio, Un museo dell’industria legato al territorio nell’età della globalizzazione, sta in ‘’Rassegna’’, rivista della Banca Regionale Europea, 1996, n°4, pagg. 76-81
88
comprensione riflessiva del bisogno di identità e significato.
Valerio Castronovo84 scrive che oggi, a distanza di un secolo dai
primi esordi della nostra industrializzazione, esistono le
condizioni per un grande recupero della “memoria storica
dell’impresa”. Definisce un autentico “giacimento culturale” tutto
ciò che è emerso dalla sistemazione di archivi aziendali e dalle
ricognizioni dell’archeologia industriale. C’è una gran massa di
documenti e di materiali di ogni genere, rimasta finora in gran
parte inesplorata, che costituisce un patrimonio di notevole
importanza e interesse scientifico. Sono proprio questi i motivi
che hanno indotto la Fondazione Micheletti a concepire il
progetto del Museo. Sebbene ben cinque generazioni di italiani si
siano avvicendate dall’Ottocento a oggi nel mondo della fabbrica,
non esiste tutt’ora un’istituzione museale di rilevanza nazionale
che abbia per fine precipuo la raccolta e la valorizzazione delle
testimonianze documentarie della nostra storia industriale. Tra
gli interventi al convegno ci sono due confronti con i musei
all’estero: il Museo della Scienza e della Tecnica di Catalogna, e il
Museo statale della tecnologia e del lavoro di Mannheim. Per il
primo museo è intervenuto Eusebi Casanelles, ingegnere
industriale, direttore del museo e presidente del Comitato
internazionale per la conservazione del patrimonio industriale
84V.Castronovo, L’industria italiana e la valorizzazione del patrimonio industriale, sta in,AA.VV,Un patrimonio…cit, pagg. 24-29
89
(ICCIH). La Catalogna iniziò la sua industrializzazione agli esordi
dell’Ottocento e fu il frutto dello sviluppo manifatturiero del
secolo XVIII, quando Barcellona era uno dei centri più importanti
d’Europa per la fabbricazione delle stoffe indiane (tessuti
stampati)85. Assieme al nord Italia fu una delle poche regioni
dell’Europa meridionale che riuscirono ad industrializzarsi.
All’inizio degli anni ottanta del secolo scorso con la riconquista
dell’autogoverno catalano si tracciarono le grandi linee della
politica museale. Uno dei musei che venne creato fu il Museo
della Scienza e della Tecnica che, con la legge del 1990, divenne
uno dei tre musei nazionali esistenti. Per la struttura del museo
si optò per un modello decentralizzato, vale a dire per un museo
centrale avente il compito di coordinare i programmi che man
mano si sviluppavano. Tale organizzazione non deve essere
scambiata per una associazione di musei tecnici, ma riconosciuta
come un sistema che illustra l’industrializzazione catalana.
Ognuno dei centri museali affronta l’argomento da un punto di
vista tematico e territoriale specifico. Si ha come una delega
tematica del Museo centrale ad un determinato museo locale.
Ogni museo è parte costituente del “grande museo” di Terrassa,
che costituisce il centro del coordinamento, e pertanto deve
avere una sua specificità rispetto agli altri. I musei legati al
85 cfr.E.Casanelles, La base concettuale di un museo:Il Museo della Scienza e della Tecnica di Catalogna, sta in AA.VV,Un patrimonio culturale…op cit, pag.41
90
sistema possono essere costituiti da una collezione di oggetti
tecnici, oppure possono essere antichi siti produttivi, scientifici o
tecnici. Il museo che fa parte del sistema deve possedere una
collezione con un discorso museale su un determinato filone
tecnologico, che viene trattato solo in quella realtà. Per esempio,
il tema della fabbricazione della carta viene affrontato in
Catalogna singolarmente, in uno specifico museo. Tra i musei
collegati, sia pubblici che privati, c’è il museo conceria e museo
dell’acqua, il museo del sughero e il museo del legno. Tra i siti di
interesse archeologico c’è una centrale idroelettrica e una
miniera di piombo. Le regole che sovrintendono alla gestione
sono sancite dai programmi approvati dal Comitato Direttivo.
Alcuni programmi sono ineludibili come la conservazione, la
divulgazione, il restauro; altri sono facoltativi, come gli aspetti
turistici ambientali. Ciascun museo gode di indipendenza
statutaria e, dopo aver accettato i programmi generali, deve
formulare una richiesta per aderire al sistema. Gli obiettivi
principali coprendono due grandi blocchi: quello tecnologico e
quello storico-sociale. Casanelles scrive che è essenziale che la
tecnica e la scienza entrino a far parte delle conoscenze che
costituiscono il mondo della cultura. Siamo circondati dalla
tecnologia e per comprendere la nostra società dobbiamo
conoscere il funzionamento delle macchine e le forme della
91
produzione di energia, così come il rapporto tra la tecnica,
l’uomo e la natura. Al tempo stesso è fondamentale conoscere
anche la storia dell’industrializzazione e il suo impatto sulla
società. Per questo motivo il Museo della Catalogna mette in luce
non solo gli aspetti della rivoluzione industriale, ma sottolinea
anche gli aspetti del processo di industrializzazione catalano. E’
un museo che presenta l’evoluzione delle innovazioni
tecnologiche e la relazione tra scienza e tecnica, con lo scopo di
rendere manifesta la capacità creativa dell’uomo. Diversamente
del museo della Catalogna, il museo statale della tecnologia e del
lavoro di Mannheim non può avere musei ad esso collegati. Al
convegno di Brescia, Lothar Suhling86 ha dedicato il suo
intervento a questo museo. L’intervento di Suhling è una breve
sintesi della storia del museo, un tentativo di tour guidato al suo
interno. Suhling dice che il governo del Land, il parlamento e
l’opinione pubblica del Baden-Wurttemberg cominciarono a
formulare l’idea di fondare un museo centrale verso la metà degli
anni ’70. In quegli anni ci fu un rifiorire di mostre e di esposizioni
storiche, un crescente interesse per le origini della società
industriale e per il cambiamento delle condizioni di lavoro e di
vita provocato dalle innovazioni tecniche. Questo interesse diede
origine a un dibattito serrato che alla fine portò il governo a
86 L.Suhling, Il museo statale della tecnologia e del lavoro di Mannheim, sta in, AA.VV, Un patrimonio culturale…op cit, pagg. 37-41
92
decidere, nel 1978, di costruire un museo di stato della
tecnologia e del lavoro di Mannheim. Il parlamento di Stoccarda
lo approvò nel febbraio 1980. Il governo pagò tutte le spese
dell’edificio, degli impianti e delle collezioni. Visitare il museo,
continua Suhling, vuol dire percorrere sedici stadi dello sviluppo
tecnico, sociale e politico degli ultimi 250 anni, a partire
dall’epoca dell’assolutismo illuminato e del cameralismo,
fenomeno tipico del Palatinato sotto il regno del principe elettore
Carl Theodor (1743-1799), il quale ebbe la sua capitale a
Mannheim fino al 1778. Suhling usa l’espressione “spirale dello
spazio e del tempo”per definire il concetto espositivo che sta alla
base del museo. Vuol dire che il visitatore viaggia attraverso uno
spazio storico da una città o regione della Germania sud-
occidentale all’altra;ad esempio dalla Mannheim della fine
settecento alla Heilbronn degli inizi ottocento. In questo modo si
procede passo dopo passo dall’epoca preindustriale e dall’era
napoleonica alla prima fase dell’industrializzazione, e da qui al
periodo della grande industrializzazione e alla prima guerra
mondiale, fino alla rivoluzione industriale del presente. I
visitatori possono ammirare una cartiera, costruita nel 1870
circa, azionata da una grande ruota ad acqua. Tutto questo ebbe
inizio grazie a un trasferimento di tecnologia dall’Inghilterra a
Heilbronn nel 1820, quando due imprenditori di quella città
93
acquistarono una macchina inglese per la produzione della carta
e la installarono a Heilbronn. Un’altra unità espositiva
interessante è quella che mostra il processo della sintesi
dell’ammoniaca inventato da Fritz Haber a Karlsruhe, e applicato
su scala industriale da Robert Bosch ei pressi di Mannheim.
Infine non poteva essere dimenticata la produzione delle auto.
Grazie a Carl Benz la Germania sud-occidentale può vantare di
essere la culla dell’industria automobilistica moderna. Gli
interventi presenti al convegno dimostrano la rilevanza a livello
internazionale della Fondazione Micheletti e i due assi portanti su
cui fa perno il Museo E.Battisti, e vale a dire il rapporto con il
territorio e il rapporto museo-fondazione. Nella proiezione del
museo nel territorio, la fondazione è a contatto con esperienze
ormai consolidate in altri paesi. Gli interventi rivelano anche la
maniera di intendere la cultura all’interno della fondazione: la
cultura non è uno strumento di potere e di separazione dagli
altri, ma è uno strumento d crescita e di emancipazione
dell’uomo, di tutti gli uomini. La fondazione vuole realizzare il
ricongiungimento della cultura scientifica e della cultura
umanistica separatesi nell’evoluzione storica dal ‘500 in poi.
Ricongiungerle vuol dire affidare alla ricerca senza più
separazioni uno stesso obiettivo di crescita complessiva della
nostra società. Gian Primo Cella afferma: <<La cultura da noi
94
viene ancor concepita separata dal resto della vita. Si lavora
tutta la settimana, poi ci si mette il vestito della festa e si fa
cultura >>87. Micheletti tuttavia non ha mai avuto il “vestito della
festa” dell’uomo di cultura. E’ un operatore, un industriale, uno
che ha usato più le mani che la penna e che ha sentito la
necessità di diventare grande organizzatore di cultura. Ha intuito
per tempo il rischio di disperdere, di non sapere valorizzare sul
piano della cultura, quell’enorme accumulo di intelligenza, di
lavoro, di sacrificio che ha consentito al nostro Paese, facendo
leva sull’unica materia prima che avevamo e che abbiamo, il
capitale umano, di compiere progressi impensabili in ogni settore
di attività.
87 cit.in.S.Fontana,Iniziative e strutture per la diffusione della cultura scientifica e tecnologica,sta in AA.VV. Un patrimonio culturale…op cit, pag. 16
96
III. 1 Dal tempio delle Muse ai musei delle aziende. Tolomeo II di Filadelfo fonda nel 284 a.c ad Alessandria d’Egitto
il mouseion, un complesso dedicato alle Muse, le nove figlie di
Zeus e Mnemosyne, il quale - incentrato sulla famosa biblioteca e
sulle raccolte di opere d’arte e di oggetti di varia curiosità -
rappresentava una istituzione culturale che oggi potrebbe essere
definita polifunzionale.
La parola greca mouseion racchiude una radice indogermanica,
ma(n), il cui significato è pensare, conoscere. Il museo, già alle
origini linguistiche, è testimonianza della mente umana, ed è un
termine che fa riferimento al sapere dell’uomo. E’ il luogo pronto
ad accogliere tutti i prodotti creati con l’apporto della mente
umana, e non a caso è consacrato alle divinità protettrici delle
arti e delle scienze, delle attività intellettive e creatrici dell’uomo.
Il museo, come l’archivio, corrisponde a un archetipo della
comunicazione umana. In una prospettiva socio-antropologica
legata al tempo e allo spazio lo spirito dell’uomo si è sempre
espresso attraverso questi luoghi della memoria. Sin
dall’antichità l’archivio o la biblioteca e il museo-tempio delle
Muse hanno sviluppato una summa di pratiche costanti, che
hanno caratterizzato queste strutture come spazi a parte, spesso
97
costituiti con l’ambizione di rappresentare un compendio
universale delle conoscenze dell’uomo.
Sebbene la sua origine sia tanto antica, è possibile definire un
museo prendendo in prestito dall’attuale linguaggio informatico
vocaboli come hardware e software. Un museo può essere
definito come un contenitore immutabile, un hardware, un
edificio-casa secondo la concezione anglosassone e, nello stesso
tempo, un software, capace di essere flessibile e di trasformare
la casualità degli oggetti che si accumulano in un percorso
logico88. L’universo degli oggetti si può dividere in tre classi:
quelli che hanno un valore perché sono utili, quelli che hanno un
valore perché hanno un significato, quelli che non hanno né
utilità, né significato. Un museo, secondo la definizione di
Pomian, è un <<insieme di oggetti naturali o artificiali,
mantenuti temporaneamente o definitivamente fuori dal circuito
di attività economiche, soggetti a una protezione speciale in un
luogo chiuso sistemato a tale scopo, ed esposti allo sguardo
pubblico>>89. In definitiva gli oggetti del museo hanno un
significato e un valore ma non hanno un’utilità. Pomian illustra la
sua tesi principale, ovvero della finalità non utilitaria, con alcuni
esempi: << Le locomotive e i vagoni riuniti in un museo non
88 cfr.M.Amari, I musei delle aziende. La cultura della tecnica tra arte e storia, Franco Angeli, Milano, 2001, pag.72 89 K.Pomian, Collezione, sta in AA.VV, Enciclopedia, Einaudi, Torino, 1978, vol.III, pag.332
98
trasportano né viaggiatori, né merci….Gli utensili, gli attrezzi e i
costumi raccolti in una collezione o in un museo d’etnografia non
partecipano alle opere e ai giorni delle popolazioni contadine o
urbane…..Anche se nella loro vita precedente avevano un uso
determinato, i pezzi da museo o da collezione non ne hanno più.
Si assimilano così a opere d’arte che non hanno una finalità
utilitaria…>>90. Tuttavia la funzione di questi oggetti non è meno
importante: essi ci mettono in comunicazione con il passato, con
ciò che per noi, nella nostra esperienza, è diventato invisibile, e
ancor più lo sarà per le generazioni future. Pomian definisce
questi oggetti semiofori: sono oggetti privi di valore d’uso, ma
dotati di significato91. Infine la qualità e le tipologie delle
collezioni dipendono dall’attenzione della collettività verso la
conservazione e soprattutto dal livello e dalle priorità nel campo
dell’istruzione. Tuttavia la cultura museale italiana, figlia di una
tradizione in cui l’approccio tecnico-scientifico continua a soffrire
di un ruolo subalterno nei confronti di quella umanista, rimane su
posizioni ambigue. Non ha offerto in misura sufficiente i dovuti
riconoscimenti e gli spazi espositivi alle arti decorative e alle
testimonianze della vita materiale, e continua a non accorgersi
dei grandi cambiamenti che in questo secolo hanno modificato la
nostra civiltà. La nostra cultura è rimasta sorda e cieca davanti
90 ivi, pag.330 91 cfr.ivi , pag. 350
99
alla possibilità di lasciare testimonianza delle trasformazioni del
nostro modo di vivere tramite, ad esempio, i prodotti
dell’industria, grande protagonista della nostra epoca. Tale
resistenza ad una rappresentazione e storicizzazione del
processo di sviluppo industriale si è verificata, in Italia, perché
per troppi anni per mera casualità la cultura è stata scissa
dall’industria e il museo è stato lo scrigno dei pretiosa, di oggetti
unici ed originali frutto dell’irripetibile esperienza estetica. E’
soltanto a partire dagli anni sessanta del secolo scorso che si
sono costituiti i primi musei e le prime collezioni aziendali, in
maggioranza con sede nel nord Italia, non a caso dove sono
localizzate le rispettive aziende proprietarie. La localizzazione per
aree geografiche è il primo dato da proporre per un’analisi sui
musei d’impresa in Italia: queste strutture hanno sede per il
70% al nord, per il 25% al centro e solo pochi esempi si
ritrovano al sud. Le percentuali, risultato della ricerca compiuta
da Monica Amari, sono un indicatore della geografia industriale
italiana e della nostra attività imprenditoriale: quest’ultima infatti
si è consolidata innanzitutto in quella aggregazione di territori
definita “triangolo industriale”, con la conseguente
concentrazione industriale nell’Italia settentrionale,e con la
minore presenza di grandi e medie aziende nel centro e nel sud
del paese. Nel 1958 apre al pubblico il Museo Civico della
100
calzatura realizzato grazie alla donazione di Pietro Bartolini,
titolare di un noto calzaturificio. Due anni dopo, nel 1960, a
Torino nasce - con il supporto della Fiat,dell’Alfa Romeo, di
Lancia92 - il Museo Carlo Biscaretti di Ruffia, più noto come
Museo dell’Automobile, unico museo nazionale dedicato
all’industria automobilistica. La collezione presenta oltre
centosessanta vetture italiane e straniere ed esempi di telai e
motori, insieme a stampe, quadri e trofei che si riferiscono
all’avventura automobilistica. Tra le macchine più rare sono da
ricordare le prime Benz con il cambio di velocità a “cinghie”, la
prima Fiat del 1889 senza retromarcia. Le vetture di prestigio
sono rappresentate dalla Lancia K del 1919, dalla Mercedes 500,
dalla Rolls-Royce <<Silver Ghost>>. Fra le utilitarie è esposta la
Fiat Balilla. Il museo, cui si affianca una biblioteca e un centro
documentazione, si è arricchito nel 1992 di una dozzina di
vetture che aggiornano la raccolta fino agli anni ’80. Nel 1961
viene inaugurato il Museo Martini di Storia dell’Enologia. Sempre
negli anni sessanta viene istituito a Sesto Fiorentino il Museo
delle Porcellane di Doccia, per conto della Società Ceramica
Italiana Richard Ginori. Nel 1976 ad Arese viene aperto il Museo
92 Contribuirono anche varie industrie italiane come Agip, Esso, Magneti Marelli, Michelin Italiana, Pirelli, insieme a enti quali l’A.C.I, il C.N.R e l’Unione Italiana Giornalisti dell’Automobile. E’ pertanto ovvio che si tratta di un museo privato.
101
Storico Alfa Romeo93. Il museo è situato in una palazzina del
complesso industriale di Arese; lo spazio espositivo si articola in
sezioni dedicate, oltre all’esposizione delle vetture storiche dal
1910 al 1977, alla progettazione e al settore aeronautico
dell’azienda, e alla collezione di modellini Alfa Romeo. Negli anni
ottanta vengono fondati: a Montebelluna, il Museo dello
Scarpone e della Calzatura Sportiva da un gruppo di aziende del
trevigiano; a Cassina dè Pecchi il Museo della Telecomunicazione
Sirti; a Roma Il Museo Montemartini94 dell’energia elettrica.
Dal 1990 in poi i musei di nuova costituzione sono numerosi: il
Museo dell’Occhiale a Pieve di Cadore, Il Museo dell’Olivo Fratelli
Carli ad Imperia, il Museo Lamborghini a S.Agata Bolognese, la
Galleria Ferrari a Maranello. I musei delle aziende. Il già ricordato
volume La cultura della tecnica tra arte e storia di Monica Amari,
93 A.L.F.A, Anonima Lombarda Fabbrica di Automobili, è stata fondata nel 1910. Verso il 1915 l’imprenditore napoletano Nicola Romeo prende le redini della società e lega il proprio nome all’azienda milanese. Da qui ALFA ROMEO. 94 La prima centrale elettrica di Roma, realizzata nel 1911 su progetto dell’Ingegnere Piccioni, porta il nome di Giovanni Montemartini, economista pavese che fu assessore ai lavori pubblici nella giunta capitolina guidata da Ernesto Nathan. Nel 1970 la Centrale chiuse a causa degli alti costi di manutenzione degli impianti. L’ACEA, società proprietaria della Centrale Montemartini, decide di utilizzare l’edificio per ospitare mostre, convegni e spettacoli. La Centrale, restaurata nel 1989, accanto ai vecchi macchinari produttivi, accoglie nelle tre sale(Sala Colonne, Sala Macchine, Sala Caldaie) un’importante selezione di sculture antiche soprattutto romane, dei Musei Capitolini, in buona parte rinvenute alla fine dell’Ottocento. In questo caso, dunque, pur essendoci un’azienda di riferimento, quale l’ACEA, il museo è civico. Questo museo è anche, come il castello di Rivoli e come la mostra permanente Terrae-Motus esposta nelle sale della Reggia di Caserta, uno dei pochi esempi italiani di dissociazione tra contenitore e contenuto. Il percorso della memoria industriale riesce a integrarsi con altri momenti espositivi totalmente diversi in un processo che può essere definito di “simbiosi culturale”. Tale museo coniuga due percorsi espositivi diversi: uno di matrice archeologica e l’altro scientifica, permettendo così di fruire del patrimonio industriale in spazi originari.
102
apparso nel 199795, è il risultato di dieci anni di ricerche e di studio
cominciate nel 1987 con una serie di articoli pubblicati sulle pagine
culturali de “Il Sole 24 ORE”. La scommessa era quella di dare
unità, identità e, perciò, anche un nome a una realtà frammentaria,
composta da situazioni all’apparenza disomogenee. In quegli anni si
parlava genericamente di “Museo del Lavoro” per indicare situazioni
espositive che avrebbero dovuto raccontare la storia della nostra
industria. Nel 2001l’autrice pubblica la seconda edizione del
volume96, dopo aver effettuato una analisi quali-quantitativa. Tra i
risultati il primo dato che balza all’attenzione è come il numero delle
imprese che dichiarano di possedere un museo o una collezione è
aumentato tra le due edizioni di circa il 30%, passando da 129
situazioni a 167. L’indice di “mortalità” di queste realtà si aggira
intorno all’8%: in questo dato sono comprese strutture espositive
chiuse definitivamente o trasferite ad altri clienti o assorbite da
altre collezioni aziendali. E’ stato chiuso il Museo Enel dell’energia
95 Monica Amari, specializzata in scienze economiche e sociali a Ginevra, alterna alla ricerca e alla formazione un’attività professionale progettando mostre, eventi e convegni. Svolge inoltre attività di consulenza, ricerca e formazione nell’ambito della politica, progettazione e marketing culturale. 96 Il volume è articolato in due parti: la prima esamina l’origine del museo di impresa con paragrafi dedicati alla nascita dei musei industriali e artistici industriali. La seconda si riferisce specificamente ai musei aziendali, alle sue articolazioni, all’individuazione dei contenuti museali. L’ultima parte, appunto quella che ha ampliato l’edizione del 2001 rendendola anche la prima banca dati e una sorta di guida ragionata dei musei aziendali, comprende schede sui singoli musei e i risultati di una ricerca realizzata attraverso questionari inviati alle aziende. In questi ultimi è stato chiesto all’impresa di specificare:la denominazione della struttura espositiva; la sua tipologia; il contenuto espositivo; la descrizione dell’allestimento; i cenni storici; la presenza di un curatore; il numero annuo di visitatori; le modalità di visita; il supporto didattico; i servizi accessori presenti fino ai canali promozionali utilizzati. Il questionario è stato sottoposto al soggetto che si identificava come responsabile della struttura espositiva. La Amari usa indifferentemente le definizioni “Musei delle aziende” e “Musei dell’impresa”. Utilizza la prima denominazione nel titolo perché è più accattivante e di maggiore presa sul pubblico.
103
elettrica di Roma, mentre è confluito nel Museo del Patrimonio
Industriale di Bologna il Museo Aldini Valeriani. L’Archivio Storico
Ansaldo ha ceduto tutti i suoi manufatti e i suoi cimeli al Museo
dell’Industria e del Lavoro di Brescia. Infine una struttura non
fruibile dal pubblico, in quanto in attesa di essere ristrutturata, è la
collezione Candy. L’incremento registrato è sicuramente indice di
una maggiore attenzione delle aziende italiane nei confronti della
conservazione della propria memoria storica e dell’uso che della
stessa si può fare in termini di comunicazione, per rafforzare la
propria immagine e la notorietà presso il pubblico, i propri clienti e
gli studiosi del settore. Il problema affrontato dalla Amari non è
stato soltanto quello di identificare e reperire i singoli musei, bensì
di individuare e provare a definire l’oggetto specifico del discorso, e
cioè cosa si debba intendere per museo aziendale. La studiosa
opera prima di tutto una distinzione tra due situazioni con alcuni
punti in comune ma che sostanzialmente sono molto differenti: la
collezione aziendale e la collezione d’arte di proprietà dell’azienda o
dell’impresa. In genere sono le banche e le casse di risparmio che
hanno collezioni d’arte realizzate grazie a un programma
continuativo di acquisizioni, espressione di una scelta di politica
culturale e di un certo tipo di investimento. Un esempio importante
in Italia è la collezione d’arte moderna e contemporanea della
Banca Commerciale italiana. La collezione aziendale è un insieme di
104
oggetti relativi all’attività e alla produzione di una o più aziende
appartenenti ad uno stesso settore merceologico. In essa vi è la
esplicita volontà di conservare materiali che possono essere
testimonianza della produzione e della vita dell’impresa. La
collezione aziendale è fruibile normalmente da estranei, insomma
ha un pubblico più o meno ampio, può essere visitata da studiosi
del settore o essere utilizzata come supporto didattico per i corsi di
formazione. E’ il caso della Fondazione Arte della Seta Lisio che
produce tessuti pregiati a Firenze e si avvale della propria raccolta
di stoffe antiche per svolgere le esercitazioni dei corsi di restauro e
schedatura della scuola annessa. Precisa l’autrice che la collezione
rimane il punto di partenza per una futura struttura museale e non
è assolutamente da confondere con l’archivio che per definizione
raccoglie documenti ufficiali97. Le raccolte aziendali invece mettono
insieme soprattutto quegli oggetti e quel materiale attinente
all’azienda, privi dell’ufficialità dell’archivio e pertanto più soggetti
all’oblio. Il museo aziendale, a differenza della collezione, non si
caratterizza solo con l’esistenza di un percorso espositivo. A
identificarlo concorrono diversi elementi quali:
1. il rapporto dichiarato con il pubblico98
97 L’etimo della parola archivio è di derivazione greca, archè, e significa comando. L’archeion greca era la dimora dei magistrati supremi, gli arconti, che detenevano il potere politico. Tenuto conto dell’autorità così pubblicamente riconosciuta, è presso di loro, nella loro casa privata, di famiglia o di funzione, che venivano depositati i documenti ufficiali. 98 Il costante aumento del numero dei visitatori verso i musei d’impresa è un segnale del crescente interesse da parte dell’opinione pubblica sollecitata da una politica di comunicazione che le
105
2. la definizione di obiettivi specifici:rappresentazione
storica dell’azienda, trasmissione della cultura industriale
3. uno stanziamento adeguato alla copertura dei costi d
gestione
4. uno spazio fisico adatto all’esposizione della raccolta
5. personale qualificato: direttori, restauratori, custodi,
guide
6. la definizione delle modalità di apertura al pubblico
7. l’organizzazione di alcune attività comunicazionali e
didattiche:pubblicazioni, ricerche, conferenze.
Caratteristica del museo aziendale, capace di
contraddistinguersi da gran parte di quelli storico-artistici, è
la capacità e la necessità di essere un museo in progress. E’
un museo dinamico che per la sua stessa natura è costretto
ad aggiornarsi di pari passo con l’evolversi delle attività
aziendali e pertanto costringe l’azienda a una riflessione
sulla propria storia. Seguendo alcuni criteri di classificazione
è possibile individuare le diverse tipologie di musei
aziendali. Il primo criterio può essere definito in base al
soggetto giuridico titolare del museo o della collezione.
Esistono:
imprese hanno cominciato ad attivare con l’ausilio di istituti di formazione. Il 31.5%dei musei d’impresa ha infatti la consapevolezza di essere uno strumento didattico, il 22% valorizza il momento promozionale e informativo partecipando a mostre ed eventi e il 37% utilizza internet per promuovere la propria struttura espositiva.
106
1. musei di proprietà di Enti Territoriali (stato, regioni,
province, comuni), fondati da un’azienda e poi ceduti
all’Ente Pubblico (es. il Museo Borsalino di
Alessandria)o creati dallo stesso ente pubblico per
testimoniare un’attività produttiva della zona (es. il
Museo Civico del Marmo)
2. musei aziendali di imprese pubbliche (es. il Museo
Nazionale Ferroviario di Pietrarsa e il Museo Storico
delle Poste e delle Telecomunicazioni)
3. musei aziendali privati. In questa categoria vengono
comprese, per maggiore semplicità, le Fondazioni.
Un’ulteriore distinzione si può tentare in base
all’oggetto della collezione aziendale, tenendo conto
della tipologia del bene prodotto dall’azienda. Tali beni
possono essere principalmente distinti in:
• beni semidurevoli
• beni durevoli
• beni strumentali
Per i primi due casi la collezione del museo
concerne innanzitutto il prodotto aziendale, nelle
sue molteplici versioni (automobili, motocicli,
abbigliamento, accessori,…)(Museo moto Guzzi,
Museo Ferragamo). Le imprese che realizzano beni
107
strumentali documentano l’intero settore in cui
operano con un’attenzione agli oggetti che esse
producono (Museo Sirti delle telecomunicazioni).
Considerando queste variabili si può definire un
museo aziendale come un museo:
1. generico di settore, che documenta la
storia e l’evoluzione di un intero settore
industriale e non solo l’attività
dell’azienda di riferimento.
2. generico del prodotto, che ripercorre
l’evoluzione tecnica di un particolare
prodotto industriale (es. Museo della
Bilancia e della Pipa).
3. storico aziendale, che rappresenta la
storia e lo sviluppo dell’azienda. Espone
prodotti, macchinari, segue l’evoluzione
del marchio e del logotipo (es,Galleria
Ferrari).
4. territoriale. Testimonia l’evoluzione di un
settore che ha avuto particolare
rilevanza economica in un territorio
delimitato.
108
5. complementare. Si tratta di imprese che
producono beni di largo consumo, o di
aziende che forniscono servizi. La
collezione è in genere composta da
oggetti necessari per consumare il bene
prodotto dall’azienda. (es. Museo della
Radio e della Televisione RAI a Torino).
Il testo di Monica Amari è stato oggetto di una
recensione99 di Giulio Pane in cui si sottolinea
positivamente l’impegno dell’autrice nel ricercare e
nell’illustrare le caratteristiche peculiari dei musei
aziendali e le loro singolarità culturali. Queste ultime
sono così affrancate dalla demonizzazione e dalla
emarginazione di cui sono destinatarie le iniziative
culturali che si misurano con l’uso del capitale. Non vi è
museo aziendale che non esalti l’apporto manuale e la
tradizione operaia come parti integranti e significative
della storia stessa delle aziende. La struttura stessa del
museo aziendale si configura come un microcosmo non
immediatamente riconducibile ad altre simile esperienze
museali tradizionali. Il museo aziendale non mostra solo
ciò che è stato fatto, ma anche come è stato fatto e
99 G. Pane, I musei aziendali, sta in “Napoli Nobilissima”, 5 serie, vol. III, fascicoli III-IV, maggio-agosto 2002, pagg. 153-155.
109
come si fa, rivestendo un ruolo didattico che è di gran
lunga più rilevante di quanto avvenga nelle strutture
tradizionali. Monica Amari ha anche dato il suo
contributo per il Manuale di museologia per i musei
aziendali di Massimo Negri100. Quest’ultimo specializzato
nel campo dell’archeologia industriale con studi negli
Stati Uniti, è socio fondatore della Società Italiana per
l’archeologia industriale e dell’Associazione italiana per
il patrimonio archeologico industriale. Dagli anni ottanta
svolge un’intensa attività di consulenza a livello
internazionale sulle problematiche museali,
collaborando con aziende e associazioni imprenditoriali
private oltre che con istituzioni pubbliche. Dal 1983 è
presente nella Giuria del Premio europeo museo
dell’anno promosso dal Consiglio d’Europa, di cui è
attualmente direttore. Ha rappresentato l’Italia in seno
a The International Commitee for the Conservation of
the Industrial Heritage. Il testo di Negri si rivolge agli
operatori museali o paramuseali, ai ricercatori, agli
operatori culturali, agli amministratori pubblici, ma
anche a uomini d’azienda che si trovano ad affrontare
100 M. Amari, Un mondo in trasformazione: lo scenario dei musei aziendali in Italia e in Europa, sta in, M. Negri, Manuale di museologia per i musei aziendali,Rubbettino Editore, Soveria Mannelli 2003, pagg. 159-171.
110
problemi complessi e diversificati. Il libro fornisce
informazioni, suggerimenti, spunti di riflessione e tracce
per ulteriori approfondimenti, oltre a un corredo teorico
e critico e una più precisa formulazione dei progetti per
aiutare il processo di formazione del personale operante
nel settore. Negri, nel primo capitolo dal titolo I molti
perché di un museo aziendale, parla della missione di
un museo di questo tipo. L’abitudine di esplicitare la
“mission” è fondamentalmente esterna alla tradizione
dei musei: deriva infatti dalle moderne teorie della
gestione di organizzazioni. Nel mondo dell’impresa, la
definizione della “mission” sta al vertice della piramide
in cui si articola qualunque piano strategico. La
missione è la cellula fondamentale dell’identità di
un’organizzazione. Ne esplicita le finalità e la ragione di
essere. Per restare nel settore specifico dei musei
aziendali, l’autore distingue tra missione dell’azienda e
missione del suo museo. Il museo aziendale è uno
strumento dell’azienda, è servito o serve in qualche
modo all’impresa. Ci sono ovviamente diverse modalità
di conduzione e diverse finalità per l’uno e per l’altra,
ma tra l’azienda e il suo museo esiste un legame forte e
strumentale. Le due missioni sono quindi distinte, ma il
111
grado di dipendenza dell’una dall’altra e di integrazione
degli obiettivi dipende dal legame in essere al momento
in cui il museo esplicita le proprie finalità. La
dichiarazione della propria missione deve ispirarsi ad
alcune caratteristiche formali e rispondere a queste
domande: perché il museo esiste, come è nato, a chi è
affidata la responsabilità della gestione, quale è la
natura delle collezioni e del suo patrimonio complessivo,
a chi è rivolta la sua attività. Le motivazioni che stanno
all’origine della realizzazione di un museo aziendale
sono molteplici, e Negri ne ha individuate almeno
quattordici:
• conservare una collezione
• raccontare una storia imprenditoriale
• soddisfare un’ esigenza di gratificazione
dell’imprenditore rispetto alla sua storia
familiare o personale
• risolvere un problema
immobiliare(riutilizzo di un edificio)
• dotare l’azienda di un luogo e di uno
strumento per attività culturali
• creare uno strumento di trasmissione
del “saper fare” per il personale
112
• evidenziare e comunicare i valori base
dell’azienda con gli strumenti specifici
dell’ambiente museale
• dare maggiore visibilità all’azienda
anche in senso fisico
• pubblicizzare ed esporre prodotti
• dotarsi di uno strumento di internal
marketing101
• accrescere l’impatto dell’azienda sul
contesto sociale
• dotarsi di uno strumento di marketing
del territorio e della comunità in cui
l’azienda opera
• riposizionare un marchio sul mercato
• reinvestire una quota dell’utile prima
delle tasse
A seconda del mix tra alcuni dei fattori sopra elencati nasce
una diversa collocazione del museo nel panorama
genericamente definito dei musei d’impresa. Negri opera
una distinzione tra museo dell’impresa e museo generato
101 L’internal marketing è quel complesso di azioni rivolte al personale, e in generale alla comunità aziendale, per motivarlo e coinvolgerlo nelle strategie e nel perseguimento degli obiettivi da queste indicati
113
dall’impresa. Alla prima categoria appartiene il museo
aziendale classico, realizzato da un’impresa attiva,
preferibilmente all’interno di una sua sede. Alla seconda
appartengono molti altri musei la cui storia è
indissolubilmente legata a una vicenda aziendale e che da
questa sono generati102. Per richiamare l’attenzione sulle
diverse caratterizzazioni dei musei aziendali, Negri li
suddivide nelle seguenti categorie103:
1. museo di storia aziendale. Qui l’oggetto è lo sviluppo
dell’impresa e la crescita dell’imprenditore
2. museo di marca. Sono i musei che portano in primo
piano il valore del marchio aziendale e presentano il
catalogo storico dell’intera produzione di un’azienda.
L’affermazione dell’identità del marchio è l’essenza della
missione (Museo Ducati, Museo Piaggio)
3. museo di prodotto o di categoria merceologica (Museo
dell’occhiale).
4. museo di distretto produttivo. Un caso tipico è il
Museo della Bilancia di Campogalliano: non nasce
102 E’ il caso del museo municipale tedesco Schreiber. Presenta la storia della ditta Schreiber che svolse un ruolo leader nella produzione di libri cartonati per bambini. L’ultimo membro della famiglia donò la propria collezione al comune di Esslingen con il vincolo della realizzazione di un museo. Si tratta quindi di un museo civico originato da una collezione aziendale. 103 Negri come Amari non comprende in questo ordinamento le collezioni d’arte realizzate grazie a un programma continuativo di acquisizioni.
114
dall’apporto di una singola azienda, ma dall’insieme delle
realtà produttive del settore.
5. museo archivio. In alcuni casi il pezzo forte della
collezione è costituito dall’archivio aziendale. E’ il caso del
Museo Piaggio di Pontedera dove il percorso prevede
l’accesso libero ad alcune parti dell’archivio.
6. museo a tema. Il Museo della comunicazione di
Lisbona non racconta univocamente la storia
aziendale, bensì l’evoluzione della comunicazione.
Ancora qualche parola sulla tipologia museo di marca.
Perché la motivazione alla base di numerose istituzioni di
questo tipo consiste nella comunicazione e valorizzazione del
marchio e/o del prodotto o di una gamma di prodotti? Nel
marchio si riassumono tutti i valori simbolici di una impresa.
Il marchio è quel segno preposto a comunicare i significati
linguistici - il nome - e iconici - l’immagine - del simbolo
che l’azienda assume come suo strumento di identificazione
sul mercato. La “forza” del marchio è data da diverse
componenti, quali la sua capacità di essere identificato nella
moltitudine,di essere ricordato , di comunicare in estrema
sintesi i contenuti dell’attività aziendale e il suo stile. Infine
deve essere interprete della personalità dell’azienda. Inoltre
non è inusuale la migrazione di un marchio leader dal
115
settore merceologico originario a campi del tutto diversi. Il
marchio Ferrari, come quello di altre case automobilistiche,
si applica a capi di abbigliamento, accessori, cura del corpo
e altro ancora. Anche le istituzioni culturali sono
contraddistinte da marchi che si dimostrano, alla lunga, più
o meno efficaci, secondo criteri diversi, ma non antitetici
rispetto alle logiche delle imprese. Nel mondo dei musei la
forza di determinati marchi è sempre esistita: Louvre,
MOMA, l’elenco potrebbe essere davvero lungo. Tale forza
però è sempre coincisa con una specifica sede museale, un
singolo luogo. Il marchio Guggenheim - legato alla fama del
museo realizzato a New YorK da Frank Lloyd Wright a
partire dal 1946- si va oggi estendendo in Europa, in Asia,
negli Stati Uniti, non con la semplice apertura di succursali,
ma con la diffusione di un modello che – semplificando - è
riassumibile secondo una formula: architettura-collezione-
organizzazione-marchio.
Il Guggenheim è il primo museo dell’era della
globalizzazione. Cosa c’entra tutto questo con il museo
aziendale?C’entra, perché riguarda il rapporto tra il marchio
del museo e il marchio dell’impresa che lo genera. Agli
estremi della scala delle possibili scelte stanno due
opzioni:l’adozione della marca aziendale per nominare il
116
museo oppure la formulazione di un marchio autonomo. Due
esempi rappresentativi sono il Museo dell’Olivo, realizzato
dai fratelli Carli ma il cui nome non compare nella
denominazione della struttura museale, e il Museo Ducati
che segue invece la tradizione della denominazione di
marca. Negri individua inoltre sei risorse fondamentali del
museo di impresa: la collezione, il personale, l’edificio, la
dotazione finanziaria, il rapporto sinergico con l’impresa, le
risorse immateriali(diritti, brevetti, immagine). La prima
risorsa è la collezione, perché senza di essa non esiste un
museo; può esserci un centro visitatori, uno spazio
espositivo, un centro di cultura, ma non un museo. Per
comprendere la varietà degli elementi costitutivi della
collezione di un museo aziendale viene richiamato il
concetto di patrimonio industriale. Quest’ultimo è maturato
a seguito della necessità di ampliare la nozione di
archeologia industriale – di matrice tipicamente britannica- a
favore di un’idea più dinamica di “patrimonio” in continuo
divenire. Per rispondere a questa nuova esigenza di
definizione, è possibile raggruppare per grandi categorie gli
elementi costitutivi di una collezione aziendale:
monumenti industriali come edifici o infrastrutture, oggetti
mobili propri della vita aziendale (macchinari, utensili,
117
arredi, campioni di materia prime), documenti di archivio
cartacei di varia natura, documenti cinematografici e
comunque visivi. L’interesse da parte delle imprese italiane
per la conservazione degli elementi in grado di testimoniare
la propria storia imprenditoriale nasce intorno agli anni
sessanta quando si assiste al “miracolo economico”. Negli
anni successivi gli imprenditori hanno cominciato ad
acquisire un orgoglio di impresa. Tale orgoglio non è limitato
al compiacimento per i successi economici ottenuti, ma si è
aperto verso orizzonti più ampi, dando avvio a un lento
processo di identificazione in grado di prendere in
considerazione più elementi. L’impresa ha cominciato a
leggersi, oltre che come soggetto economico e sociale,
anche come soggetto culturale capace di esprimere valori.
In quest’ottica non solo il prodotto finale ma tutti gli
elementi del processo produttivo cominciano a essere
considerati, in primis dallo stesso imprenditore, come il
risultato di un processo innovativo ricco di rimandi
funzionali, storici ed estetici. Nel nord Italia questo
atteggiamento è il frutto di una mentalità comune a molti
industriali e associazioni di categoria. Al sud, invece, i casi di
musei di impresa, come il Museo della liquirizia Amarelli o il
Lanificio Leo, ambedue in Calabria, o i Musei delle saline in
118
Sicilia, sono l’espressione di una scelta individuale dove
l’atteggiamento culturale personale dell’imprenditore prevale
su decisioni strategiche azienda.
III. 2 Musei d’impresa
Il 18 giugno 1998 il Palazzo Ducale di Genova ha ospitato il
primo convegno regionale, I musei d’impresa. La Regione
Liguria tra comunicazione e politica culturale104, organizzato
dalla Regione Liguria e ideato e coordinato da Linda Kaiser
in collaborazione con la Fondazione Novaro 105. I musei
d’impresa sono un’importante realtà anche del territorio
ligure, in quanto sono testimonianza di attività non solo
104 Linda Kaiser (a cura di), I musei d’impresa. La Regione Liguria tra comunicazione e politica culturale, Atti del convegno Genova, Palazzo Ducale, 18 giugno 1998, Regione Liguria, Genova, 2000 105 Mario Novaro (1868-1944) compie studi universitari a Vienna e a Berlino laureandosi i filosofia nel 1893. Due anni dopo consegue la laurea anche all’Università di Torino e pubblica i suoi primi scritti. Stabilitosi nella attuale Imperia diventa assessore comunale per il giovane partito socialista e, dopo un breve periodo di insegnamento nel locale liceo, si inserisce con i fratelli nell’industria olearia di famiglia intestata alla madre Paolina Sasso. Questa attività non gli impedisce tuttavia di continuare a coltivare interessi letterari e culturali attraverso la direzione della rivista “La riviera ligure”. La Fondazione, riconosciuta dal ministro per i Beni e le attività culturali e dalla Regione Liguria, è nata per volontà degli eredi e di un gruppo di docenti dell’Università genovese allo scopo di valorizzare il lascito intellettuale di Mario Novaro e di proseguire le iniziative a favore della cultura ligure del Novecento. La Fondazione attua il proprio compito istituzionale attraverso la realizzazione di incontri, mostre, convegni e l’edizione di testi. Nello svolgimento di tali attività c’è occasione di collaborare con enti locali, atenei e varie istituzioni nazionali ed internazionali. Di questo lavoro culturale la Fondazione dà rendiconto attraverso i “notiziari” regolarmente pubblicati in appendice ai quaderni trimestrali.
119
economiche ma anche sociali e culturali106. Nei musei
d’impresa sono conservate le tracce dell’evoluzione di una
società, sia dal punto di vista tecnologico che della storia del
lavoro, degli usi e dei costumi di una regione o di un paese.
La Liguria infatti è parte di quel “triangolo industriale” che
ha caratterizzato lo sviluppo economico del nostro paese, e
non è stata soltanto la terra dei grandi porti industriali o
quella del turismo delle riviere, ma anche il luogo della
manifattura di grandi prodotti industriali, senza pari, sia sul
territorio nazionale, che all’estero (la produzione della carta,
le costruzioni aeronautiche, la cantieristica navale). Tutto ciò
che ha consentito alla gente della Liguria di lavorare sulla
propria terra è frutto di un grande ingegno diffuso, rivolto a
convertire le ostilità orografiche in vantaggi per la
trasformazione. Il convegno genovese è stato un mezzo per
far conoscere alcune realtà culturali della regione e per
accendere il dibattito tra studiosi e conservatori, ma è stato
soprattutto un incentivo per qualsiasi impresa a conservare
il proprio patrimonio storico e ad assumere quindi un ruolo
attivo in campo culturale. La Regione Liguria ormai da
tempo ha indirizzato la propria attenzione ai musei,
concependoli come mezzi di trasmissione e di conoscenza,
106 Tra i maggiori musei d’impresa in Liguria va ricordato il Museo del Merletto, Ecomuseo dell’Ardesia, Museo dell’Olivo –F.lli Carli, Museo del Vetro, Museo Nazionale dei Trasporti.
120
come sistemi di sviluppo legati al territorio di cui
geograficamente e culturalmente fanno parte. Per assolvere
questo compito il museo non deve essere mero contenitore,
ma deve sviluppare compiti di divulgazione e di didattica,
favorire il dialogo e lo scambio tra realtà produttive,
mettersi in relazione con altre collezioni, costituire uno
spazio di ricerca per studiosi e specialisti. Linda Kaiser,
Dottore di ricerca in Storia e Critica dei Beni artistici e
ambientali e ideatrice e coordinatrice del convegno, nel suo
intervento scrive107 che l’idea di patrimonio culturale e di
memoria collettiva insita nei musei d’impresa si è evoluta a
partire dalle Esposizioni Universali di metà Ottocento e dalle
strutture in ferro e vetro costruite per ospitare i prodotti
industriali di nazioni diverse. Il South Kensington e il
Conservatoire des arts et métiers hanno in comune il
modello enciclopedico e le finalità didattiche, celebrative,
scientifiche e progressiste degli exempla conservati, sotto
forma di macchinari, disegni tecnici, attrezzi, volumi di uso e
manutenzione. Questo clima culturale, continua la Kaiser,
rese propizio uno sviluppo puntiforme di singoli musei
specializzati. Questi ultimi si diffusero nelle aree
maggiormente industrializzate d’Europa, soprattutto nel
107 L.Kaiser, Archivi e musei d’impresa: comunicazione e politica culturale in Liguria, sta in. L. Kaiser (a cura di), I musei d’impresa… op cit, pagg. 13-18.
121
secondo dopoguerra, quando la ricostruzione per i diversi
paesi significava non solo ripresa economica ma anche
consapevolezza storica delle proprie tipicità.
Assolombarda108 si è fatta portatrice di questi ultimi valori
organizzando ricerche scientifiche, convegni, curando
pubblicazioni e costruendo il sito
www.museidimpresa.com.Quest’ultimo costituisce la banca
dati nazionale degli archivi e dei musei d’impresa con i quali
Assolombarda sollecita e tiene vivo il dibattito su un tema
che a sua volta ne tocca molti altri di interesse più ampio: il
rapporto pubblico-privato, la metodologia espositiva,
l’ordinamento giuridico, la funzione di curatori specifici. La
Kaiser definisce le realtà in oggetto “archivi e musei
d’impresa”109, piuttosto che d’azienda. Impresa deriva dal
verbo latino imprehendere e «richiama più direttamente al
concetto di opera o di azione che si incomincia, attività,
iniziativa, che mette in relazione e coordina, da una parte, il
lavoro e, dall’altra, gli strumenti opportuni per conseguire
finalità economiche»110. Azienda trova invece «la propria
origine nello spagnolo hacienda, si riferisce più
108 Assolombarda è l’associazione delle imprese industriali e del terziario dell’area milanese. E’ una delle più antiche organizzazioni imprenditoriali d’Italia e, per dimensioni, la più rappresentativa nel sistema Confindustria. La sua base è costituita da imprese nazionali e internazionali piccole, medie e grandi, produttrici di beni e servizi in tutti i settori merceologici. Scopo di Assolombarda è lo sviluppo dell’industria e dell’imprenditoria sul territorio. 109 L.Kaiser, op cit, pag.14 110 ivi. pag. 14
122
genericamente a un “fare” – l’etimologia è la stessa di
faccenda - come complesso di beni organizzati per la
produzione di altri beni o servizi»111. Un’impresa è una
società, una ditta connessa in qualche modo con un
progetto, un’iniziativa, un’attività: è qualcosa –scrive la
Kaiser - « che sia in rapporto con il reale, che vi si inserisca
modificandolo, che faccia sentire una presenza positiva,
abbia una finalità per esistere, crei lavoro, produca »112. Un
museo – continua la Kaiser – « è qualcosa che deve esistere
come parte della cultura. Deve produrre reddito? No, nessun
museo tradizionale – e quindi neppure il museo d’impresa,
che si regge su meccanismi simili - può autofinanziarsi »113,
anzi l’organizzazione di un museo prevede spese elevate per
la gestione, per le nuove acquisizioni e per la didattica.
Infine pone la domanda: cos’è un museo d’impresa? Un
museo d’impresa è un sistema espositivo permanente
attraverso il quale un’azienda rende leggibile al pubblico la
propria filosofia e comunica la qualità del prodotto. Se
comunicare significa che si lavora bene, allestire un buon
museo d’impresa significa non una spesa, ma un
investimento, che conviene all’azienda per l’immagine e per
111 ibidem 112 ivi. pag. 15 113 ibidem
123
le opportunità che offre. A questo primo convegno regionale
ne seguì un secondo a Milano in Assolombarda nel1998 e poi
ancora nel 1999 Assolombarda organizzò con Linda Kaiser,
in qualità di consulente scientifica, e con l’Università di Siena
il primo convegno nazionale dal titolo Musei d’impresa.
Identità e prospettive. Per questo convegno la Kaiser scrive
un intervento, dal titolo Il museo d’impresa come network
per la comunicazione di qualità114,in cui ricorda che già i
teorici della rivoluzione industriale, Morris e Ruskin,
interpretavano il museo come scuola per le accademie e
l’artigianato, come fonte di ispirazione e di emulazione per
la produzione contemporanea legata al sapere e al fare. I
musei d’impresa documentano, rispecchiano e rendono
leggibile un sistema complesso come quello delle tecniche,
dei processi, della produzione, del lavoro collettivo e
dell’economia imprenditoriale. La funzione di questi musei
costituisce al tempo stesso la difficoltà che devono superare,
e che può essere interpretata come la «contraddizione
logica” rappresentata nell’arte contemporanea dal
114 L.Kaiser, Il museo d’impresa come network per la comunicazione di qualità, sta in. L.Kaiser(a cura di) Musei d’impresa identità e prospettive, Atti del convegno Siena, Certosa di Pontignano, 12-13 giugno 1999, I Quaderni della Cultura di Assolombarda IV/99, pagg. 17-20
124
duchampiano ready-made in cui l’oggetto di uso comune
mantiene la propria identità diventando opera d’arte»115.
Omar Calabrese -docente di Comunicazione di massa e
Scienze della comunicazione all’Università di Siena, e
Rettore dell’Istituzione Santa Maria della Scala di Siena- con
il suo intervento che ha per titolo Musei d’impresa: storia o
feticcio?116contesta che questi musei rappresentino un
specie di “storia del contemporaneo” e anche la storia delle
tecniche e delle tecnologie. Anche Calabrese, con ragione,
scrive che i musei d’impresa sono figli di quella politica di
conservazione e di memoria dell’oggetto industriale nata
all’epoca delle Esposizioni Universali. Queste ultime infatti,
nate con l’ideologia del progresso, erano i luoghi deputati ad
“esporre” la modernità, con tutti i tipi delle produzioni più
avanzate, di tecniche scientifiche e di innovazione. Erano
funzionali allo spirito di conservazione e classificazione di
una memoria, di un sapere moderno. Tutto ciò avveniva per
iniziative del potere pubblico che metteva a confronto le
produzioni dei singoli privati. Oggi invece è lasciato tutto ai
privati medesimi e con uno spirito diverso. In un oggetto
individuale transitano molte storie che è necessario che
115 ivi.pagg. 17-18 116 O.Calabrese, Musei d’impresa: storia o feticcio?sta in. L.Kaiser(a cura di), Musei d’impresa...op cit, pagg. 21-26
125
restino nella nostra memoria collettiva. Pertanto possono
esserci musei che attestano una storia dei consumi, una
storia sociale, una storia della tecnica, una storia del gusto,
una storia del design.
Infine esiste anche il museo di impresa come storia della
comunicazione dell’impresa medesima. Il museo, dunque, è
soprattutto auto-valorizzazione e talvolta le conseguenze
non sono positive perché si tenta di dare all’impresa uno
spessore storico che non c’è. Calabrese vede in questo
fenomeno il tipico senso di colpa dell’industria italiana. Nella
nostra cultura c’è stata prima una penalizzazione dei
prodotti industriali, negando qualsiasi valore che non fosse
economico, e poi per compensazione è stato riversato su
questi ultimi un eccesso di estetizzazione, al punto che
spesso gli oggetti presentati dalla civiltà industriale ritornano
quasi ad una dimensione di artigianato, piuttosto che di
industria. Si cerca quasi di nascondere che ci sia stata
industria, questo è il punto. Secondo la definizione – di
origine romantica - il museo vede come suo elemento
essenziale la collezione di oggetti unici e irripetibili: nella
concezione dei musei d’impresa c’è pertanto una
contraddizione di fondo. La civiltà industriale produce in
serie e pertanto l’irripetibilità è negata dal valore stesso
126
degli oggetti-merce. Tuttavia, continua Calabresi, “oggetto
unico e originale” può essere anche tradotto nel senso di
unico/individuale: unico non è sinonimo di irripetibile. Si
passa così dalla concezione del singolare a quella
dell’individuale: «ogni oggetto è infatti la replica di un
prototipo che corrisponde a un’idea individuale di esistenza
nel mondo»117. Nei musei d’impresa come nei musei della
storia industriale sono esposti patrimoni relativi alle
conoscenze artigiane, al design, ai mezzi di produzione; la
differenza sta nel fatto che il patrimonio del museo
d’impresa è relativo a una specifica impresa e alla sua storia
produttive, mentre il museo di storia dell’industria riporta
testimonianze di un insieme di prodotti e di tecnologie di
diversa provenienza. Calabrese, per concludere, crede che i
musei di impresa siano non solo un fatto legittimo, ma
altamente positivo perché altrimenti avremmo disperso un
patrimonio. Vedere all’interno di un prodotto industriale il
trascorrere di testimonianze storiche e antropologiche è
un’opera corretta, ma non bisogna correre rischi. I singoli
prodotti - passi che al museo Coca Cola ci siano le opere di
Andy Warhol e al Museo Piaggio la Vespa di Dalì - non
devono diventare di carattere prettamente artistico. In tal
117 ivi, pag. 22
127
caso non produrremo l’ammirazione per l’oggetto singolo,
ma soltanto feticci. Tommaso Fanfani, preside della Facoltà
di Economia all’Università di Pisa, nel suo intervento dal
titolo Economia e Cultura. Un incontro possibile negli archivi
e nei musei d’impresa118, riprende e condivide quanto
asserito da Calabrese. Il museo d’impresa è un elemento
significativo e importante per ricostruire lo sviluppo
economico e produttivo di un’azienda e con essa di una
comunità che è parte di un’intera civiltà. Dietro l’esposizione
di un tornio c’è una società che si organizza e che cresce.
Dietro un pannello di una nave costruita nell’Ottocento c’è il
problema dell’immigrazione, con esso la tristezza della
miseria e la necessità della fuga alla ricerca della certezza di
reddito. L’obiettivo-funzione è far diventare il museo
d’impresa un elemento di ricostruzione della società civile in
tutti i suoi aspetti, evitando di creare una raccolta e di
allestire un’esposizione di pezzi che si proponga al pubblico
secondo una valenza “artistica”, mettendo in secondo piano
la portata reale e originaria di un bene nato in una bottega o
in una fabbrica, e funzionale al raggiungimento di obiettivi
produttivi. Ciò non significa che un tornio non possa essere
esposto in un contesto museograficamente ricercato dal
118 T. Fanfani, Un incontro possibile negli Archivi e nei Musei d’impresa, sta in. L.Kaiser (a cura di ), Musei d’impresa....op cit, pagg. 27-36
128
punto di vista estetico e architettonico, ma il modo di
esposizione non deve pregiudicare il senso ultimo del museo
d’impresa, dove quel tornio è esposto. Allo stesso modo le
raccolte di disegni o di oggetti derivati dall’inventiva dei
creatori di moda e degli stilisti, quando sono raccolte in un
museo d’impresa devono narrare la loro essenza nel divenire
produttivo; non devono essere oggetti di una galleria
artistica, ma testimonianza dell’ingegno creativo in un
percorso produttivo presentato in tutta la sua complessità
inventiva e tecnica. Non bisogna falsificare il messaggio
primario che il museo d’impresa deve avere.« Un’opera
d’arte racconta quello che è il significato di un mondo visibile
e non visibile che essa rappresenta, e può lasciarne in parte
l’interpretazione allo spettatore, il pezzo esposto nel museo
d’impresa racconta e ricostruisce vicende visibili e reali di
una collettività, fatte anche di creatività artistica, di
genialità, ma comunque esposte quali testimonianze della
produzione economica»119. Allora il museo d’impresa può
divenire un elemento di compattamento e di armonizzazione
tra due mondi che sono sempre stati, specialmente nel
nostro paese, distinti e dicotomici:la cultura e l’economia.
Assolombarda nel 2001 ha organizzato il convegno avente
119 ivi, pag. 29
129
come titolo Proprietà privata, pubblico dominio120. L’impresa
svolge una specifica funzione intellettuale: elabora un
progetto imprenditoriale, organizza i fattori produttivi,
mobilita e forma le risorse umane chiamate a cooperare alla
sua attenzione. Di questa avventura collettiva sono
testimonianza i documenti tecnici, commerciali e
amministrativi, le macchine, gli edifici, il prodotto e tutto ciò
che è in grado di illustrarne l’evoluzione. L’impresa è sede di
formazione continua di un insieme di segni materiali e di
valori che sono a pieno titolo beni culturali sia per la loro
capacità di esprimere valenze etiche ed estetiche, sia per la
loro utilità ai fini dello sviluppo sociale della conoscenza e
della formazione. E’ in virtù di questa funzione culturale che
la possibilità di una loro fruizione diventa di interesse
pubblico:questa grande ricchezza merita di essere
conosciuta. Bisogna valorizzare soprattutto due elementi del
patrimonio culturale di impresa: quello progettuale, estetico,
architettonico e quello storico-documentale per testimoniare
il percorso di vita dell’azienda. Quest’ultimo ha una
dimensione etica importante. Se un’impresa ha vita lunga,
significa che ha saputo stabilire legami duraturi tanto con i
120 A. Magistroni (a cura di), Proprietà privata, pubblico dominio: il museo, l’archivio, il territorio e la responsabilità culturale dell’impresa,Atti del convegno Milano, auditorium Assolombarda, 15 ottobre 2001, I Quaderni della Cultura di Assolombarda VI/2001.
130
suoi interlocutori diretti quanto con il contesto nel quale si
trova a operare. La longevità dell’impresa e la sua durata sul
mercato si fondano sulla volontà di ricercare vantaggi sia
per sé che per la collettività,di perseguire una crescita
diffusa ed equilibrata, non solo sul piano economico. Le
imprese hanno questo e molto altro da offrire alla collettività
sul piano culturale. Tuttavia non sempre se ne rendono
pienamente conto. Per questo, è necessario aiutarle ad
acquisire questa consapevolezza e incentivare l’apporto della
cultura imprenditoriale ed economica per la formazione di
una coscienza culturale nazionale. Assolombarda e
Confindustria, come soci promotori, hanno costituito il 15
ottobre 2001 l’Associazione Museimpresa, frutto del lavoro
di un qualificato gruppo di musei e archivi di impresa. Lo
scopo dell’Associazione, come si legge nell’articolo 2 del suo
statuto, è quello di individuare e promuovere le imprese
che hanno scelto di privilegiare la cultura nelle proprie
strategie di comunicazione e hanno concepito l’investimento
culturale come valore qualificante per l’azienda. Poiché in
Italia i musei e gli archivi di impresa costituiscono un
tessuto assai ricco, variegato e capillare, ma in larga parte
spontaneo, l’obiettivo di Museimpresa è di costituire una
vera e propria rete di musei e archivi di impresa eccellenti.
131
Poiché ogni rete si sviluppa in virtù dell’esistenza di un
sistema informatico che relaziona i diversi nodi, la soluzione
più opportuna è stata la creazione del sito web
www.museimpresa.com che ha sostituito il precedente
www.museidimpresa.com. Questa soluzione consente ai
singoli soggetti di mantenere la propria specificità, ma di
attivare le opportune sinergie per assicurare all’intero
settore visibilità e condivisione di valori e obiettivi121. Il sito
si pone più precisamente l’obiettivo di: costituire uno
strumento attivo dell’Associazione come organo di
comunicazione interno ed esterno, diffonderne la teoria e la
prassi, inserirsi in un sistema di rapporti e di interscambio
con analoghe strutture espositive e conservative nazionali e
internazionali, fornire agli utenti un accesso privilegiato e un
servizio reale sulla tematica dei musei e degli archivi
d’impresa. Il sito è rivolto: alle imprese e ai curatori delle
raccolte d’impresa, agli appassionati, agli studenti e alle
scuole, alla stampa e alle istituzioni. Fare rete significa,
dunque, anche costruire una capacità di connessione e di
collaborazione con analoghe iniziative per collocarsi in un
progetto condiviso di consolidamento dell’identità collettiva 121 L’associazione è aperta a imprese, associazioni e federazioni del sistema confindustriale, ad enti e istituzioni che ne condividono le finalità. I soci fondatori sono i seguenti: Museo Alessi, Archivio Storico Barilla, Museo dell’olivo Olivo Carli, Museo Kartell, Archivio Storico Olivetti, Archivio Birra Peroni, Museo Piaggio, Zucchi Collection, Museo Ducati, Archivio Storico Industrie Pirelli, Museo Rossimoda, Museo Alfa Romeo, Museo del vino.
132
di una comunità, collaborando anche con le istituzioni, con le
scuole e con il sistema universitario. Per fare un museo
d’impresa, quindi, non basta dedicare qualche sala dei propri
edifici industriali, magari altrimenti dismessi, o l’esibizione di
alcuni oggetti della propria storia. E’ importante perché
dimostra comunque una sensibilità,ma è soltanto il primo
passo rispetto al quale bisogna poi andare avanti. Serve
dotare i musei di un progetto scientifico serio da declinare in
molte attività collaterali come letture, conferenze,
collegamenti con altri musei per mostre e iniziative varie, e
non limitarsi alla semplice esposizione. Anche l’ausilio di
tecnologie d’avanguardia può essere utile: gli oggetti in sé
dicono poco se non sono supportati da una adeguata
capacità espositiva, divulgativa e rievocativa. Un progetto
così ambizioso di trasmissione di valori è positivo, ha le
gambe su cui camminare e soprattutto affranca l’impresa
dalla condizione di sponsor e la innalza a centro propulsore
di cultura. Su quest’ultimo tema, e cioè sulle
sponsorizzazioni delle imprese a sostegno di manifestazioni
culturali, accennato da Salvatore Carruba 122, assessore alla
Cultura e ai Musei del Comune di Milano, interviene con una
122cfr. S. Carruba, intervento alla tavola rotonda, sta in. A.Magistroni (a cura di), Proprietà privata…op cit, pag. 62
133
breve riflessione Giuseppe Paletta 123, direttore del Centro
per la cultura d’impresa. Il mecenatismo, secondo Paletta,
benché sia valido e importante, è spesso per l’impresario un
facile aggiramento di un problema che si ostina a non
risolvere: il problema del suo rapporto con la cultura e della
sua autorappresentazione frammentata per cui non riesce a
percepirsi in modo unitario e complessivo, « ma soltanto
come homo economicus, come uomo portatore di risorse
staccate e indipendenti»124. Il problema, secondo Paletta, è
ricomporre la propria identità all’interno della mente
dell’imprenditore. L’impresa è un soggetto economico, ma è
soprattutto un grande collettivo, una mescolanza di ingegni,
è capacità di costruzione di consenso, capacità di conquista
di fattori di natura più disparata intorno a un sogno, attorno
a un principio che è quello dell’intuizione dell’imprenditore.
Così è possibile vedere il patrimonio dell’impresa come
espressione e «sedimentazione di un processo faticoso
dell’imprenditore che è quello della condivisione del proprio
progetto intellettuale e quindi della capacità di unire altra
gente – collaboratori, operai, consulenti - intorno alla sua
123 G. Paletta, intervento alla tavola rotonda, sta in. A.Magistroni (a cura di ), Proprietà privata…op cit, pagg. 92-95 124 ivi. pag. 93
134
visione»125. L’imprenditore scrive, genera archivi, genera
prodotti, disegni tecnici per comunicare con altri soggetti e
per portarli nella costruzione di un proprio sogno.
Quest’ultimo è il completamento di un processo di
modernizzazione che a suo avviso gli consentirà di ricevere
un profitto, ma consentirà in parallelo alla qualità
complessiva di vita sul territorio, e non solo, di beneficiare di
un sostanziale miglioramento. Quando l’imprenditore riesce
a capire che il patrimonio di informazioni che ha costruito
può essere manifestato perché è qualcosa che ha consentito
alle persone e alla comunità di migliorare, assume su di sé
una responsabilità culturale che è un frammento della
responsabilità sociale dell’impresa.
III.3 Il Museo Alessi e la Fondazione Piaggio
Francesca Appiani, curatrice del Museo Alessi, articola il suo
intervento126 per il convegno Musei d’impresa. Identità e
prospettive come una risposta alla domanda a cosa serve un
125 ivi. pag. 94 126 F. Appiani, Museo Alessi, sta in. L.Kaiser ( a cura di ), Musei d’impresa.…op cit, pagg. 115-120
135
museo d’impresa? La risposta di getto è “dipende”. Dipende
dall’impresa, dalle sue intenzioni, dai motivi per cui decide di
aggiungere alla sua struttura un museo o un archivio. Ogni
museo ha una propria identità: possiamo trovare tratti
comuni nei musei di storia naturale piuttosto che nelle
pinacoteche, ma, esattamente come le persone, i musei
sono realtà individuali, con prerogative uniche e irripetibili.
Tale individualità si amplifica quando il museo è in rapporto
con l’impresa, ossia con un altro organismo dotato di
caratteristiche e bisogni peculiari. Per l’ICOM (International
Council of Museums)il museo, secondo uno statuto adottato
nel 1989 ed emendato nel 1995, è un’istituzione
permanente, senza scopo di lucro, al servizio della società e
del suo sviluppo, aperta al pubblico e che compie ricerche
riguardanti le testimonianze materiali dell’uomo e del suo
ambiente, le raccoglie, le conserva, le comunica e
soprattutto le espone con finalità educative e di diletto.
Queste sono le funzioni individuate, ma occorre intendersi
sulla loro definizione. Il punto è come interpretare la propria
“missione”. La Appiani prende come esempio la dimensione
“pubblica” dei musei o il fatto che queste strutture abbiano
delle ricadute sulla realtà locale. Il museo che ha sede in
un’azienda spesso non può aprire al pubblico come altre
136
istituzioni; ciò non toglie che esso possa offrire un servizio
pubblico. Chi entra nel Museo Alessi, ad esempio, è
accompagnato nel corso della visita, riceve spiegazioni sulla
collezione, su come è stata conservata e organizzata. La
mediazione personale, afferma a ragione la Appiani, è la
migliore interfaccia con la quale un visitatore può avvicinare
una collezione. Un’altra iniziativa che può dirsi pubblica è la
schedatura degli oggetti in un archivio informatico
accessibile attraverso internet. Questo database è stato
realizzato grazie al lavoro di due archiviste particolarmente
aggiornate,di un architetto specializzato nella progettazione
di nuovi strumenti di comunicazione dei beni culturali, e
ovviamente di due analisti che hanno tradotto le indicazioni
e bisogni del museo in un software progettato ad hoc. La
costruzione di questa banca dati ha richiesto anche la
creazione di una serie di strumenti ausiliari necessari al suo
svolgimento. Fra questi, un “lemmario controllato”, ossia un
sistema di termini univoci con i quali poter definire gli
oggetti da archiviare. Anche la promozione di mostre,di
seminari dedicati alla collezione ed eventuali collaborazioni
con qualsiasi istituzione per sviluppare progetti culturali
possono essere letti come servizi al pubblico. Il punto
cruciale è che, in molti casi, il grado di apertura al pubblico
137
dei musei d’impresa è solo quantitativamente diverso da
quello dei musei tradizionali. Il Museo Alessi, per esempio, è
un archivio operativo utilizzato quotidianamente da chi
lavora nell’azienda e per questo motivo è visitabile solo su
appuntamento. A questo punto è possibile riformulare la
domanda iniziale con più precisione: a cosa serve il Museo
Alessi? La Appiani risponde: è un archivio operativo127 per
tutte le persone coinvolte nello sviluppo dei nuovi prodotti. Il
museo occupa il secondo piano di uno degli edifici dello
stabilimento di Crusinallo. Un unico ambiente di circa 500
metri quadri raccoglie oggetti Alessi usciti di produzione,
prototipi e pezzi realizzati da altre aziende o da artigiani.
Tali materiali sono ordinati in base all’ambito di utilizzo, alla
funzione e alla tipologia. Un primo gruppo di vetrine
contiene prodotti utilizzati per preparare, conservare e
offrire alimenti e bevande; un secondo insieme riunisce
oggetti legati alle altre dimensioni dell’esistenza indagate
dall’Alessi: la cura del corpo, il viaggio, il sesso, il gioco.
Un’ultima sequenza di vetrine ospita l’archivio colore e
l’archivio materiali. Le vetrine consistono in 40 contenitori
aperti che scorrono su binari (sono gli stessi utilizzati dal
127 Va ribadito che essere un archivio costruito sulla base delle necessità operative dell’azienda è la prima funzione, ma con questo non si intende rinunciare alle attività proprie di un muso di arti applicate. La collezione Alessi rappresenta uno spaccato della storia del design ed è a disposizione di ricercatori, studenti universitari e operatori del settore.
138
MAK, Museum fϋr Angewandt Kunst di Vienna). Su una
scaffalatura che corre lungo uno dei muri perimetrali sono
disposti libri, riviste e cataloghi. In una serie di cassettiere
speciali sono conservati i disegni e gli schizzi. Ogni volta in
cui un nuovo progetto è completato, il museo archivia una
selezione dei materiali di sviluppo(prototipi, disegni, oggetti
di riferimento). Archivia inoltre i materiali dei progetti
“congelati”: su dieci progetti intrapresi, soltanto quattro o
cinque arrivano alla produzione, gli altri rimangono in
sospeso. Li definiscono “congelati” perché sanno che in
futuro potrebbero esserci le condizioni per riprenderli e
svilupparli fino alla produzione. Da questo punto di vista il
museo è, scherzosamente, il “congelatore” dell’Alessi. La
Appiani infine coglie il senso profondo del progetto di un
allestimento quando scrive che quest’ultimo è una riflessione
teorica utile per la conoscenza della storia dell’azienda:
allestire significa scegliere un criterio di classificazione,
“organizzare un mondo” 128, rappresentarlo. Infine per
“l’impresa di fare cultura” 129ci sono discipline sviluppate ed
efficaci dalle quali attingere in modo inedito e originale
(museologia, museografia, archivistica, biblioteconomia, …). 128 F. Appiani, Il museo d’impresa: l’impresa di fare cultura, sta in. L.Kaiser (a cura di), Musei d’impresa:professionalità emergenti per un nuovo marketing culturale, Atti del convegno Venezia, Marittima terminal passeggeri, 2 dicembre 2001, I Quaderni della Cultura di Assolombarda VII/2001, pag. 45 129 ivi. pag. 47
139
I musei delle imprese possono essere una nuova forma di
valorizzazione culturale, una forma che può e deve imparare
dalle discipline appena ricordate, ma che al tempo stesso
può offrire un contributo autonomo e originale dato dalla sua
natura peculiare. Un altro significativo intervento per i
convegni organizzati da Assolombarda è quello di Tommaso
Fanfani 130. Come presidente della Fondazione Piaggio di
Pontedera (Pisa), collegandosi al tema di impresa e cultura,
tratteggia la figura di un imprenditore illuminato, Giovanni
Alberto Agnelli131. Quando Agnelli volle costituire l’archivio e
il museo dell’azienda li concepì come il centro proprio di un
territorio, in modo che si interfacciassero con tutta la società
del luogo e che rappresentassero allo stesso tempo il punto
di arrivo di un processo di sviluppo e un elemento che
provocasse in chi aveva lavorato alla Piaggio un forte senso
di appartenenza. Secondo Fanfani l’Italia, giunge in ritardo
alla business history, eppure è il paese europeo che vanta le
più antiche tradizioni nelle attività imprenditoriali,
nell’organizzazione della vita produttiva, nell’introduzione di
ardite forme di operazioni mercantili. E’ il paese dei primi
130 T. Fanfani, Le imprese, sta in. L.Kaiser (a cura di ), Musei e archivi d’impresa: il territorio, le imprese, gli oggetti, i documenti, Atti del convegno, Venezia, Giardini di Castello, 3 dicembre 2000, I Quaderni della Cultura di Assolombarda VII/2001, pagg. 19-25 131 Giovanni Alberto Agnelli (Milano 19 aprile 1964-Villar Perosa Torino 13 dicembre 1997), detto Giovannino, figlio di Umberto Agnelli e Antonella Bechi Piaggio, è stato presidente della Piaggio, dal 1993 fino alla sua morte per una rara forma di cancro allo stomaco, risollevando le sorti dell’azienda. Si avviava a diventare il successore di Gianni Agnelli alla guida della Fiat.
140
manuali di contabilità e ragioneria, il paese dei mercanti-
imprenditori di Venezia, di Prato, di Firenze, di Napoli, di
Milano e di ogni altra città di età medioevale e moderna. Per
assurdo, il paese che ha dato vita alle forme più avanzate di
imprenditorialità nei secolo passati è anche il paese che
giunge tra gli ultimi a comprendere l’importanza della storia
di impresa. Soltanto dalla fine degli anni ’80 del secolo
scorso si sono sviluppati studi e hanno preso forma iniziative
di valorizzazione del patrimonio storico delle imprese. In
questa nuova stagione degli studi di storia d’impresa un
ruolo sempre più significativo viene svolto dagli archivi
storici e dai musei dell’azienda. Come contagiati da una
piccola febbre che coinvolge a frequenza crescente, gli
imprenditori hanno cominciato a recuperare la memoria
storica della propria azienda: ne raccontano le origini,
l’evoluzione e l’affermazione attraverso la documentazione
cartacea, i beni, le macchine e gli oggetti. Anche Fanfani
pone qualche domanda:perché un’impresa investe nella
raccolta dei documenti e delle testimonianze della sua
storia? Perché impiegare preziose risorse per realizzare
l’archivio storico e il museo che non possono né
autofinanziarsi, né essere direttamente sorgente di profitto?
Perché un’impresa attenta all’ottimizzazione degli impieghi
141
dovrebbe investire in realizzazioni che sono
prevalentemente, se non esclusivamente, voci di costo?
Alcune di questa domande contengono elementi solo
apparentemente contraddittori: uno vale per tutti, e cioè il
fatto che l’investimento in cultura, in valori immateriali, non
è affatto inutile spreco di risorse sotto il profilo della
redditività degli investimenti. I fondi impiegati all’interno di
progetti tecnico-culturali seri, nel medio e breve periodo
avranno comunque un ritorno positivo per l’azienda. Fanfani,
come presidente della Fondazione Piaggio, per esemplificare
il suo pensiero espone come preciso caso aziendale la
realizzazione dell’archivio e del Museo Piaggio. Nel luglio
1993 furono analizzati i documenti raccolti dall’ingegnere
Lanzara negli anni trascorsi alla direzione dello stabilimento
di Pontedera. Giovanni Alberto Agnelli132, allora Presidente
della Piaggio, chiese allo stesso Tommaso Fanfani, allora
preside della Facoltà di Economia e ordinario di Storia
Economica all’Università degli studi di Pisa, di far svolgere
qualche tesi di laurea sulla storia dell’azienda da lui
presieduta. Dalla richiesta di tesi si passò ad immaginare
l’archivio storico dell’azienda, vale a dire di un’impresa che, 132 Giovanni Alberto Agnelli non era un ingegnere, né un aziendalista o un economista. Aveva conseguito alla Brown University un bachelor in Social Science e successivamente un master in Business Administration. Credeva moltissimo nel binomio impresa-cultura, e considerava la cultura, nelle sue forme non squisitamente tecnicistiche, un elemento indispensabile per l’imprenditore e per il manager.
142
in oltre un secolo di vita, aveva prodotto tipologie di tutti i
mezzi di trasporto per mare, via terra e in cielo. L’impresa
era decisamente rappresentativa per la capacità produttiva,
per la genialità del fondatore e dei suoi eredi, per la
creatività dei suoi manager. Poche persone, competenti ed
appassionate, realizzarono un archivio storico che oggi è
uno dei più ricchi archivi di impresa del nostro paese. Dopo
questo obiettivo il presidente della Piaggio chiese la stesura
di una relazione sulla storia dell’azienda:doveva essere la
narrazione di un secolo di vita e parlare agli amministratori.
Riteneva che soci e amministratori dovessero avere la
consapevolezza della loro azienda, anche sotto il profilo
storico. Maturò così l’idea di raccogliere le testimonianze
della produzione, le macchine e i prodotti usciti dagli
stabilimenti liguri e toscani della Piaggio. Giovanni Alberto
Agnelli individuò un’area dello stabilimento per accogliere il
museo e, nel 1995, dette inizio alla complessa realizzazione.
Inaugurato il 29 marzo 2000, il Museo Piaggio raccoglie
molte decine di pezzi, compresi i prototipi e i modelli più
preziosi della Vespa. Il giovane Presidente pensò di dare
ulteriore sostanza al progetto cultura dell’impresa e nacque
la Fondazione Piaggio:una realizzazione mista pubblico-
privato, voluta per raccordare in campo non economico i
143
rapporti tra azienda e territorio. All’origine di questo
complesso progetto ci sono alcuni elementi specifici, come la
curiosità sulle origini dell’azienda e in questo caso sulle
proprie origini. Giovanni Alberto era figlio della nipote del
fondatore dell’azienda, cioè era figlio di Antonella Piaggio, a
sua volta figlia di Enrico. Il capostipite, Senatore Rinaldo
Piaggio, era il padre di Enrico, per cui la curiosità di Giovanni
Alberto poteva ovviamente anche derivare dal desiderio di
ricostruire la dinastia di parte materna. La motivazione
tuttavia non era solo questa: era infatti solito ripetere che
un’impresa che ha oltre un secolo di vita suscita rispetto e
ammirazione da parte degli operatori economici,
specialmente stranieri, i quali identificano nella lunga durata
la somma di elementi di validità e vitalità operativa e
produttiva. Alla scomparsa di Giovanni Alberto Agnelli il suo
successore alla presidenza della società e il top management
della Piaggio non solo hanno condiviso quel progetto, ma ne
hanno raccolto le fila, portando felicemente a compimento la
realizzazione133 del Museo Piaggio Giovanni Alberto Agnelli e
dell’archivio Antonella Visconti, mantenendo attiva la
Fondazione Piaggio. Questo conferma che, oltre la
componente soggettiva ed emotiva, ci sono altre motivazioni
133 Il museo ha aperto quattro anni dopo la morte di Giovanni Alberto Agnelli.
144
aziendali che spiegano il bisogno di ricostruire la memoria
storica. Lo scopo principale dell’operazione cultura non deve
assolutamente essere di natura commerciale. Dove
l’operazione di recupero dei valori immateriali della cultura
diventasse di sfruttamento di tale assunto, essa sarebbe
destinata a fallire e a non avere durata nel tempo.
III.4 La parola all’oggetto e l’industrial
design
La parola all’oggetto è il titolo del workshop134 che si è
tenuto in Assolombarda durante la seconda giornata della
settimana della Cultura d’Impresa indetta da Confindustria
nel novembre 2002. Il seminario si è ispirato a esperienze
anglo-americane di tipo pragmatico in cui ogni relatore, che
è il curatore di un museo, ha a disposizione dieci minuti per
la presentazione di uno e uno solo oggetto esposto nel
museo che rappresenta. A partire da questo, lo scopo è
rendere chiara quale sia la finalità dei musei d’impresa,
verso l’interno e verso l’esterno, nell’esporre e nel
134 L.Kaiser (a cura di ), La parola all’oggetto,storie di musei e archivi d’impresa, Atti del workshop, Milano, Assolombarda, 19 novembre 2002, II Quaderno di Museimpresa, settembre 2003
145
conservare oggetti, documenti ed eventuali altri elementi. La
parola è data all’oggetto fisico, all’oggetto della discussione,
all’oggetto-soggetto. Una valvola, una forcella monobraccio
rivelano i particolari di atti rivoluzionari nella meccanica,
realizzati da Ducati, Alfa Romeo, Piaggio. L’oggetto, libero
dalla raccolta, dalla collezione, dalla musealizzazione, viene
messo in condizione di esistere per un momento come
forma, estetica, idea, funzione, ingranaggio; è la parte per il
tutto.
Tra i partecipanti c’è stato Marco Montemaggi135, Project
Manager del Museo Ducati, che per la presentazione ha
scelto alcune componenti del motore Ducati, tra cui una
valvola e la parte in cui il movimento della valvola si
trasmette per essere poi riprodotta dal motore. La valvola è
tipica di tutti i motori, tanto delle automobili quanto delle
moto. L’altro pezzo è meno tipico, perché la Ducati ha un
sistema rivoluzionario unico:il Desmo. Questo sistema è
diverso rispetto a quello tipico a molle applicato di solito su
una moto. Il sistema Desmo, nella sua applicazione
motociclistica, è stato inventato da Fabio Taglioni all’inizio
degli anni ’50 e ha differenziato da subito la Ducati rispetto
alle altre aziende permettendo ai suoi motori di non andare
135 M. Montemaggi, Museo Ducati, sta in L.Kaiser ( a cura di ), La parola...op cit, pagg. 13-14
146
mai fuori giri. Infatti per quanto il movimento della valvola
possa essere veloce lo è altrettanto il pistone, in quanto non
c’è la molla ad azionare le valvole bensì un congegno
meccanico. Questa innovazione ha permesso alla Ducati,
uscita distrutta dalla seconda guerra mondiale, di diventare
un’azienda vincente, nelle corse come nelle vendite. Nel
corso degli anni ’50 la Ducati ha vinto tutte le gare
motociclistiche italiane, così come numerose competizioni in
Spagna, in Inghilterra, in Francia e addirittura in America.
Un’azienda che aveva da poco iniziato la produzione delle
motociclette diventava il simbolo di un’Italia che si stava
rilanciando. Negli anni 1995-1996 l’amministratore delegato
Federico Minoli, che aveva a disposizione tanto il denaro
quanto le abilità per ristrutturare l’azienda, aveva bisogno di
un elemento che rappresentasse la rinascita dell’azienda.
Minoli capì – e molti altri imprenditori lo avrebbero capito in
seguito - che per rappresentare una rinascita e dare senso
al futuro, serviva dare senso alla storia dell’impresa. Fino ad
allora la Ducati aveva avuto una storia di successi
estemporanei, in cui venivano ricordati i singoli episodi, ma
non il continuum storico. La prima funzione del Museo
Ducati è stata quella della seconda rinascita, dopo la prima
operata da Fabio Taglioni, e non a caso la realizzazione del
147
museo fu gestita e seguita da un giovane di allora ventisei
anni136, con pochissima esperienza professionale. E il museo
fu un passo oltre tutti i processi che avevano segnato
l’azienda fino ad allora. La seconda funzione importante del
Museo Ducati è la rappresentatività, vale a dire la
congiunzione tra il mondo esterno e il mondo dell’azienda. Il
museo, non a caso, si trova all’entrata dell’azienda, dentro
l’azienda. E’ costruito nello spazio in cui si teneva la Messa
aziendale di Natale, ed è posizionato come un luogo di
passaggio obbligato, è un grande benvenuto alla concreta
produzione della Ducati. La terza funzione è esemplificata
dal caso “Mike Hailwood Evolution”: Mike Hailwood è stato
un pilota Ducati per dieci anni. Il capo designer, Pierre
Terblanche, voleva creare una moto in suo onore e
frequentava il museo osservando i diversi pezzi esposti. Da
quell’intento e da quel lavoro è nata una moto nuova: era la
sintesi delle moto usate da Mike Hailwood applicata alla
tecnologia moderna. E’ stata appunto chiamata “Mike
Hailwood Evolution”. Questo modello è nato proprio grazie
all’ispirazione generata dal museo, una struttura che
generalmente viene considerata come qualcosa di
sedimentato e statico, e che invece può essere lo spunto per
136 Quel giovane era proprio Marco Montemaggi
148
creare un significativo volano di economia, cultura e storia
aziendale. La storia di quella moto, che è stata anche un
grande successo economico, deriva da un mito del passato
che si è riusciti a far rivivere. Infine, così conclude Marco
Montemaggi, c’è una quarta funzione del museo, che non è
assolutamente percepibile se non dopo esserci stati molto e
averne vissuto l’avventura: è la funzione legata alle
persone. All’ingresso del museo è stata costruita una parete,
la “parete della memoria”, sulla quale compare un’enorme
foto con tutti gli operai della Ducati, scattata quando
l’azienda contava 3.000 dipendenti, negli anni ’40. La foto
mostra migliaia di facce, molte di queste persone tornano
per rivedersi. Questo dà forza all’azienda.
Un’altra “parola” interessante e quella della “scatola di
pasta” o meglio di “tortiglioni”. Il relatore Giancarlo
Gonizzi137, Curatore dell’Archivio Storico Barilla (Parma),
scrive che in quella scatola molto speciale non c’è pasta
bensì 125 anni di storia. Nel 1877 Pietro Barilla, discendente
da una famiglia di panettieri la cui storia è documentata già
a partire dal 1576, aprì il suo negozio di pane e pasta nella
strada maestra a Parma. La bottega era costituita da un
ambiente per la vendita e da un retro per il forno e il locale
137 G.Gonizzi, Archivio storico Barilla, sta in L.Kaiser (a cura di), La parola…op cit, pagg.23- 24
149
dove impastare. Nel 1910 la piccola attività artigianale
divenne un’azienda; a un centinaio di metri da quel negozio
fu affittato un edificio e installato il primo pastificio
industriale Barilla. Riccardo, uno dei figli di Pietro, resta alla
guida dell’azienda aiutato soltanto dalla moglie, animato da
una particolare passione per la tecnologia, che lo porterà a
compiere frequenti viaggi in Germania per acquistare
macchinari sempre più nuovi e sempre più potenti. Nel 1940
l’azienda contava 800 dipendenti e produceva
quotidianamente 800 quintali di pasta che venivano poi
venduti sfusi. La scatola non esisteva, nei negozi di generi
alimentari c’erano grandi mobili pieni di cassetti e dentro a
ogni cassetto un formato diverso di pasta:tortiglioni, rigatoni
e altri formati. La pasta veniva impacchettata in un foglio di
carta azzurra, questo infatti era il colore per gli alimenti
secchi. Come si faceva a sapere chi l’aveva
prodotta?All’epoca avevano risolto il problema in questo
modo: in ogni negozio veniva venduta solo una marca di
pasta. Nel 1950 Pietro, figlio di Riccardo e nipote del
fondatore, fece un viaggio negli Stati Uniti. In quel viaggio
vide quello che in Italia ancora non c’era: supermercati,
prodotti confezionati nelle scatole, pubblicità, televisione e
infine una grande distribuzione di merci in cui la qualità e il
150
giusto prezzo si avvicinavano e si affiancavano. Al suo
rientro in Italia Pietro Barilla decise di chiamare una persona
adatta per farle raccontare i tempi nuovi: era Erberto
Carboni, un architetto-designer che si era sempre dedicato
alla comunicazione e soprattutto alle architetture
pubblicitarie e a tutte quelle costruzioni che servivano a fare
immagine. Cosa fece Carboni per la Barilla? Prese il foglio di
carta azzurra, ci mise sopra la pasta, lo fotografò e gli diede
una forma di scatola. Poi prese un uovo, elemento
primordiale che rappresenta la pasta, lo tagliò in due e ne
ricavò il marchio che ancora oggi vediamo. Ma non si fermò
qui, realizzò gli stand fieristici e si occupò della
comunicazione a stampa e quella televisiva 138. Questa
scatola esiste ancora, è quella che vediamo sugli scaffali dei
supermercati, e conserva i colori della tradizione: l’azzurro
della carta originaria in cui si impacchettava la pasta sfusa e
il giallo, il colore della pasta. Di certo il colore è più intenso e
più forte, da colore tecnologico è diventato un colore
psicologico: oggi non si vende più un servizio, ma
un’immagine, un’idea. Negli ultimi 50 anni grandi
personaggi come Dario Fo e Mina hanno legato il loro volto
alla comunicazione di questa pasta, contribuendo così a
138 In Italia nel 1954 era nata la TV e nel 1958 con Carosello la prima trasmissione televisiva pubblicitaria.
151
crearne l’immagine. Giancarlo Gonizzi in dieci minuti ha
raccontato oltre cento anni di un’azienda che trasforma il
grano in pasta. Nella scatola, dunque, c’è l’Archivio Storico
Barilla che raccoglie i documenti, le testimonianze, le
pubblicità che hanno raccontato questo prodotto nel corso di
più di un secolo di vita.
Mentre i luoghi di produzione sono attinenti all’ambito
dell’architettura e dell’ingegneria industriale, il “prodotto”, al
pari della sua stessa comunicazione, è attinente a un ambito
sociologico, senza ovviamente dimenticare che il progetto di
un prodotto e della sua comunicazione concerne in primis
l’ambito del design. Come un architetto organizza lo spazio,
così un designer “dà forma all’ambiente, alle suppellettili,
agli oggetti”139. Si tratta di una questione molto importante
perché siamo ancora abituati a considerare troppo spesso
l’arte nelle sue eccellenze qualitative e “pure”.
Per Enrico Crispolti 140 – noto critico e storico dell’arte
contemporanea - il progetto di un oggetto, la metodologia
produttiva e la comunicazione ad esso collegate rientrano
nell’ambito di interesse della cultura materiale dell’arte, e
pertanto un museo d’impresa parla anche di industrial
139 E. Crispolti, Per un’identità dei musei d’impresa, sta in. L.Kaiser (a cura di ), Musei d’impresa. …op cit, pag. 11 140 ivi. pag. 13
152
design. Sull’onda di questo discorso lo studioso sottolinea
che nel museo d’impresa risulta forte la componente di
carattere storico-artistico, attinente cioè all’ambito della
cultura visiva. La comunicazione di un prodotto e l’utilizzo
dell’immaginazione artistica a tal fine ha una larga
complessità:non è affatto scandaloso che l’arte possa
mischiarsi con l’offerta del prodotto. Crispolti ricorda di
essersi occupato a lungo di futurismo e di condividere il suo
pensiero circa la pubblicità: per i futuristi la pubblicità era un
momento saliente in cui si realizzava la loro volontà di
fondere arte e vita. Il cartellone pubblicitario era considerato
arte nella strada, era un momento di fruizione diretta,
quotidiana e pubblica della proposizione artistica. L’arte
moderna non si limita ad una esclusività ideale, consiste
anche in una dimensione pragmatica della quale, per
esempio, ha sentito tutta l’intensità la pop art nei primi anni
’60. Pertanto anche il prodotto di impresa costituisce un
bene culturale, giacchè ha una valenza culturale per cui può
diventare appunto oggetto di un museo e quindi di tirocinio
formativo. Alberto Bassi, storico del design, docente alla
facoltà di design e all’Istituto Universitario di Architettura di
Venezia,ha partecipato al convegno di Venezia Musei
d’impresa:professionalità emergenti per un nuovo marketing
153
culturale con un intervento dal titolo Storia e cultura del
progetto dentro i musei d’impresa141. Le imprese producono
prodotti o servizi, beni materiali o immateriali, e pertanto
per ricostruire le vicende storiche di un’impresa bisogna
attribuire forte rilevanza all’indagine sui caratteri dei
prodotti. Questi ultimi si possono studiare in molti modi, in
quanto sono il punto di partenza per molte possibili storie:
della tecnologia, dei modi di produzione, della progettazione,
della comunicazione e del consumo. La Vespa, ad esempio,
è interessante dal punto di vista del design, perché
l’ingegnere che l’ha progettata ha pensato qualcosa di molto
innovativo sia dal punto di vista tecnico-funzionale ed
estetico, che dell’usabilità per il muoversi su due ruote. Una
moto su cui sedersi e non più da cavalcare ha consentito un
allargamento del pubblico e del mercato: dall’utenza
femminile a quella borghese o di impiegati e lavoratori.
Pertanto è possibile studiare la Vespa perché ha motorizzato
gli italiani, per la sua incidenza sociale sui consumi, per il
suo impatto sull’impresa Piaggio che su quel modello ha
costruito un quarantennio di dominio assoluto. Ancora, la
Vespa è stata comunicata attraverso campagne
pubblicitarie, manifesti, spot televisivi: è testimonianza
141 A. Bassi, Storia e cultura del progetto dentro i musei d’impresa, sta in. L.Kaiser (a cura di ), Musei d’impresa:professionalità…op cit, pagg. 49-50
154
dell’evoluzione dei modi progettuali del design, ma anche
dei costumi di una società. Un museo d’impresa, dunque, è
un luogo in cui esercitare una lettura multidisciplinare.
In Italia tra i primi a porsi i problemi culturali e storici sul
disegno industriale c’è Gillo Dorfles con la sua notissima
Introduzione al disegno industriale142.
L’autore fa coincidere l’inizio del disegno industriale con
l’avvento della macchina nella produzione di oggetti progettati
dall’uomo. Sin dall’antichità ci sono stati oggetti eseguiti con il
parziale intervento di macchinari primitivi come il tornio, il
trapano, la ruota dei vasai, ma non è possibile discorrere di
disegno industriale riferendosi ad epoche precedenti la
rivoluzione industriale.
Soltanto agli inizi dell’Ottocento è possibile porre l’inizio
dei primi oggetti industrialmente prodotti su disegno
appositamente studiato per una produzione di serie, e in
grado di adempiere, oltre ad una funzione pratica -
utilitaria, anche ad una estetica. Dorfles non considera
«come artistico soltanto il prodotto delle “arti belle “:
pittura, scultura e architettura, ma anche molti degli
oggetti, degli strumentari, di cui la attuale civiltà
142 G. Dorfles, Introduzione al disegno industriale. Linguaggio e storia della produzione di serie, Einaudi, Torino, 2001. La prima edizione è datata 1972, ma già nel 1963 Dorfles aveva pubblicato Il disegno industriale e la sua estetica, che anticipa molte delle analisi dell’Introduzione.
155
tecnologica si vale nelle sue diverse manifestazioni»143.
Lo studioso tuttavia ammonisce circa la componente
funzionale dell’oggetto industrialmente prodotto. «Si
può concepire l’esistenza e, si dà, l’esistenza di oggetti
inutili: soprammobili, oggetti decorativi, e anche oggetti
di arte pura, eseguiti in serie mediante l’esclusivo
intervento della macchina e che sono quindi, a buon
diritto, da considerarsi come facenti parti della categoria
che stiamo esaminando »144. In sintesi, la “seriabilità”,
la produzione meccanica, la presenza di un quoziente
estetico dovuto alla iniziale progettazione e non ad un
successivo intervento manuale, sono le caratteristiche
richieste ad un oggetto appartenente al disegno
industriale. Serie significa possibilità di riproduzione, di
iterazione di un determinato modello. Tale carattere è
alla base di ogni produzione industriale. La fase
lavorativa del prodotto deve essere organizzata in
maniera tale da consentire una resa che sia sempre
uguale e che non presenti la benché minima deviazione
dal prototipo. Nei precedenti tipi di produzione, come le
lavorazioni artigianali eseguite con mezzi parzialmente
meccanici, il controllo della produzione era relativo,
143 ivi. pag. 11 144 ivi. pag. 12
156
perché non interessava l’assoluta identità dei diversi
oggetti, e perché questi ultimi non avevano bisogno di
adeguarsi ad un prototipo iniziale e costante. Nella
produzione industriale, il concetto di serie riguarda il
metodo produttivo ancora più della quantità dei singoli
elementi. Si riproduce un modello che possiede –
secondo la definizione di G.Ciribini - «nella più larga
misura quell’insieme di caratteri ritenuti necessari al suo
uso a fine di campionatura o esemplativi di processi
operativi di serie e come impiego combinatorio o
compositivo di elementi standardizzati»145. E’ possibile
avere una piccolissima serie in cui gli esemplari
prodotti, poche decine di unità o addirittura pochissime
unità, conservano il loro identico carattere di serialità
che è alla base della loro produzione. Allo stesso modo è
possibile avere una grandissima serie, ad esempio gli
elettrodomestici, in cui la ripetizione del prodotto
raggiungerà le decine di migliaia di capi mantenendo
sempre costante la fedeltà del singolo oggetto al
prototipo iniziale. Nella produzione industriale viene a
cadere la presunzione di una particolare abilità manuale
da parte dell’artefice, giacchè ogni dato esecutivo è già
145cit in ivi. pag. 29
157
implicito nella progettazione da parte del designer e non
può essere aggiunto dall’eventuale tocco dell’artefice.
Per ogni prodotto artigianale invece c’è sempre un
«limite di compiutezza e un margine di azzardo»146 in
cui l’intervento personale, anziché essere inesattezza o
difetto, assurge a pregio estetico. Per un oggetto
industriale ogni difetto costituisce un ostacolo alla
produzione e alla vendita. L’oggetto industriale esiste
sin dal momento in cui è stato progettato ed è stato
ultimato il disegno esecutivo. Nel pezzo artigianale
l’opera dell’artista-artigiano si esplica alla fine della
lavorazione, nel pezzo industriale al principio. Infine
oggi esistono molti oggetti ibridi che talvolta vengono
compresi nella categoria del disegno industriale. I
mobili, prodotti solo parzialmente con un principio
seriale, ma rifiniti e lucidati a mano, non possono essere
considerati oggetto di tale discorso. Allo stesso modo
esula dal settore del disegno industriale la categoria dei
tessuti stampati a macchina: il motivo è presto
spiegato. Non si tratta di forme tridimensionali create in
base ad una progettazione, ma di semplici motivi
decorativi sovrimposti ad una superficie bidimensionale.
146 ibidem
158
Del tutto diverso è il caso del packaging-imballaggio.
Questo settore, pur avendo attinenze con la grafica e la
pubblicità, rientra nel vero e proprio disegno industriale.
L’imballaggio è l’esempio di una interessante ricerca per
una forma tridimensionale capace di contenere un
determinato prodotto in maniera opportuna conciliando
funzionalità, estetica e pubblicità.
Dorfles traccia una breve storia del disegno industriale
partendo dalla rivoluzione industriale. Uno dei primi a
voler introdurre l’elemento estetico nel campo della
produzione di serie fu William Morris, uno degli
animatori del movimento inglese delle Arts and Craft. La
posizione di Morris era però del tutto negativa rispetto
all’intervento della macchina nell’operare artistico e
artigianale. Per Morris una delle più alte qualità
dell’uomo era appunto la sua capacità di fabbricare
manualmente senza fare ricorso all’intervento
meccanico. Pertanto tutto quello che egli fece per
promuovere la comprensione di ogni forma d’arte fu
frutto di questa sua profonda convinzione che lo
impegnò a richiamare in vita vecchi procedimenti di
lavorazione artigianale e manifatturiera. Alcuni dei
principi morrisiani ispirarono numerosi movimenti e
159
personalità, tra le quali emerge, per i suoi influssi sul
disegno industriale, quella di Henry Van de
Velde,massimo esponente dell’Art Nouveau. Questo
nuovo indirizzo architettonico e artistico ebbe come
luogo di nascita Bruxelles e di lì si diffuse poi nel resto
d’Europa, quasi contemporaneamente all’affermarsi in
altri paesi di movimenti analoghi come il liberty in Italia,
e il modernismo in Catalogna. Tale movimento ebbe il
merito di proporre alla creazione architettonica e
disegnativa moduli e decorazioni che astraevano da ogni
ricordo stilistico precedente, ispirandosi ad elementi
naturalistici e a motivi dove era possibile avvertire
influssi estremo orientali. Inoltre si discostava dalle
posizioni morrisiane in quanto accettava l’intervento
della macchina. Van de Velde infatti scrive che ‹‹ il
gioco potente delle loro braccia di ferro creerà la
bellezza, purchè la bellezza la guidi››147. Uno dei periodi
decisivi nella storia del disegno industriale è il 1920: in
quell’anno Gropius iniziò la sua attività presso il
Bauhaus. «Gropius, infatti, mirava a creare un’arte
capace di raggiungere col minimo costo il più alto livello
artistico e mirava a creare degli oggetti che fossero
147 cit in ivi. pag. 21
160
destinati a tutte le categorie sociali e che non fossero
riservati a sparute élites; non solo ma credeva
che,abbinando l’insegnamento artigianale con quello
industriale e artistico, si potesse creare quell’artista
completo capace di dominare tutti quanti i settori della
produzione»148. Alcune realizzazioni di questa scuola, i
mobili in tubo di acciaio, lampade da tavolo, diffusori di
luce, rimangono tappe fondamentali per il disegno
industriale. Una riflessione fondamentale ed innovativa
sull’industrial design è stata quella di Ferdinando
Bologna149, che sceglie per l’introduzione del suo testo
una “voce” stesa da Diderot per l’Encyclopédie
« Mestiere. Si dà questo nome ad ogni professione che esiga l’impiego delle braccia, e che si limiti a un certo numero di operazioni meccaniche, il cui scopo è la produzione d’un oggetto che l’operaio produce di continuo. Non so perché questa parola abbia assunto un significato dispregiativo: dai mestieri ci vengono tutte le cose necessarie alla vita. Chi si darà la pena di visitare i laboratori artigiani vi troverà dappertutto l’utilità unita alle più grandi prove di sagacia. L’antichità fece di coloro che inventarono i mestieri altrettanti dei; i secoli seguenti gettarono fango su quelli che li perfezionarono. Lascio giudicare a chi ha un minimo senso di giustizia se siano la ragione o il pregiudizio a farci considerare con occhio così sdegnoso uomini d’importanza tanto essenziale. Il poeta, il filosofo, l’oratore, il ministro, il guerriero, l’eroe sarebbero nudi e mancherebbero di pane senza quell’artigiano che è l’oggetto del nostro crudele disprezzo »150 .
148 ivi. pag. 25 149 F. Bologna, Dalle arti minori all’industrial design. Storia di un’ideologia, Laterza, Bari, 1972 150cit in ivi. pag. 3
161
Bologna intende riconsiderare i problemi storico-estetici
che si sono stretti attorno a quelle arti definite o
applicate, o industriali, o perfino minori. Il problema
centrale della questione non è soltanto la considerazione
in cui tali arti sono state tenute nel tempo, quanto la
storia dell’apprezzamento che i secoli correnti dal
Rinascimento in poi hanno riservato sulla componente
operativa, «cioè tecnico – fabbrile, e perciò a quella
strettamente connessa della funzionalità, in tutti i
prodotti umani che denominiamo artistici »151. Lo
studioso precisa che è in questione la stima che la
società «ha accordato al lavoro umano nell’arte »152 e in
tal senso è legittimo parlare di « storia di
un’ideologia»153 più che di semplice teoria o di questione
estetica. Il testo di Dorfles –nell’edizione del 1972- pur
essendo contemporaneo a quello di Bologna è
considerato da quest’ultimo « di una singolare ingenuità
»154 circa la cognizione del problema. Bologna cita
Dorfles: « con l’avvento dell’era industriale, tali settori
erano andati vieppiù decadendo e questo poteva
151 ivi pag. 4 152 ibidem 153 ibidem 154 ivi. pag. 8
162
giustificare il fatto che si tendesse a considerare queste
forme artistiche come minori rispetto a pittura,
architettura, scultura »,155 e poi prosegue egli stesso: «
se non intendo male, si vorrebbe insomma sostenere
che il giudizio di minore nei confronti di tali prodotti
dipese sostanzialmente dal loro scadimento qualitativo
ad un certo punto della loro storia; e che per
conseguenza, se le cose andarono così, quel giudizio
svalutativo non era immeritato»156. Infine menziona
anche il compendio di Mario Rotili ed Antonella Putaturo
Murano157 in cui si afferma che le arti minori sarebbero
divenute tali durante il Rinascimento e che sarebbero
state poi restituite al rango dell’arte, tra la fine del XVIII
secolo e il principio del XIX secolo, grazie a Ruskin e
Morris che riscoprirono la bellezza dei prodotti artigianali
del Medio Evo. Secondo Bologna tale opinione
rappresenta solo una parte della verità storica in quanto
a suo avviso né il Rinascimento può essere caricato di
una così grave responsabilità, né Ruskin e Morris
pervennero ad una rivalutazione senza essere preceduti
da un processo di revisione. Nell’Inghilterra 155 cit in ivi. pag. 8 156 ibidem 157 M. Rotili – A. Putaturo Murano, Introduzione alla Storia della miniatura e delle arti minori in Italia, Napoli 1970 (dispense universitarie); cfr. specialmente M. Rotili, Le «Arti minori », ivi, pagg. 7 e sgg.
163
ottocentesca il punto cruciale attorno a cui ruotò il
problema della rivalutazione delle arti minori fu
costituito dallo sforzo di elaborare una teoria e una
razionalizzazione del design per superare
quell’atteggiamento che durante la prima rivoluzione
industriale aveva determinato l’isolamento del designer
nella pura dimensione dell’ideare. L’autore si sofferma
sul contributo di Morris: «seppe collegare valori generali
a una forza sociale vera e in via di espansione:quella
della classe lavoratrice organizzata »158.Per Morris non è
possibile una separazione fra ideazione ed esecuzione
poiché i due momenti si unificano di fatto nel processo
lavorativo o più precisamente nel gruppo di uomini che
lavorano. In arte l’ispirazione è inesistente come
momento privilegiato poiché prende figura nell’esercizio
pratico. Pertanto l’opera d’arte non è più concepibile
come puro elemento estetico, ma « accrescendo il
connotato di utilità ben oltre il fatto elementarmente
strumentale che essa serve a qualcosa, va intesa e
valorizzata nella dimensione del tutto sociale della sua
origine e della sua destinazione »159.Queste parole
spiegano anche in che modo Morris si documentò sul
158 ivi. pag. 230 159 ivi. pag. 233
164
Medio Evo e cioè « non per vedervi attuati in figura gli
ideali di purezza religiosa o di libertà di immaginazione,
bensì per individuare alla radice delle opere d’arte
d’allora i principi di una irripetuta solidarietà sociale,
specialmente per ciò che riguarda il lavoro collettivo
nella bottega artigianale o nei grandi cantieri delle
cattedrali »160. Secondo Morris l’intagliatore medievale,
che scolpisce le decorazioni di una chiesa, offre il
proprio contributo creativo allo sforzo unitario di una
comunità cooperante. La sua soddisfazione personale è
in relazione dinamica con le esperienze degli altri; c’è
inoltre consapevolezza di partecipare ad un’impresa
realmente collettiva. Il tema dell’unità delle arti è
presente anche nel Manifesto firmato da Gropius al
momento dell’istituzione del Bauhaus
« …Il mondo meramente disegnativo o pittorico del progettista di modelli e degli artigiani deve divenire un mondo che costruisce di nuovo. ….Architetti, scultori, pittori, dobbiamo tornare tutti al mestiere!L’arte non è una professione. Non v’è alcuna differenza qualitativa fra artista e artigiano. L’artista è solo un artigiano potenziato. In rari momenti d’ispirazione, che vanno al di là della sua volontà consapevole, la grazia del cielo può far si che il suo lavoro fiorisca nell’arte….»161. Il senso del richiamo all’artigianato e della riunificazione
didattica «di tutte le discipline di arte pratica – scultura,
160 ibidem 161 cit. in ivi. pag. 282
165
pittura, lavori manuali e mestieri …»162 sono il punto
focale della scuola. Gropius intendeva realizzare il
ricongiungimento dell’ideazione con i processi esecutivi:
l’esecuzione era considerata garante e fonte
dell’immaginazione creativa. Su questo nodo si erano
basati tutti i tentativi finalizzati a superare la gerarchia
accademicamente idealistica delle arti. Per Gropius –
sottolinea Bologna - «l’artigianato non era fine a se
stesso, sì da poter rappresentare tradizioni o ethos
genericamente popolari; né era posto solo come binario
di transito all’industria. Esso intendeva essere prima di
tutto una funzione, anzi una funzione squisitamente
sperimentale e prammatica, in cui tutte le arti
dovessero ritrovarsi »163. Il manifesto elimina «
l’arrogante barriera che ha determinato la distinzione di
classe fra artigianato e artista »164 e pareggia
quest’ultimo rispetto ad una società di uguali in cui il
lavoro collettivo realizza la dignità e il valore storico di
ciascuno. Lo spirito del manifesto è profondamente
democratico e riprende dalla visione marxiana per cui «
alla vecchia società borghese, con le sue classi e i suoi
162 ibidem 163ivi. pag. 285 164 ivi. pag. 286
166
antagonismi, subentra un’associazione in cui il libero
sviluppo di ciascuno è condizione del libero sviluppo di
tutti »165.Lo stesso Gropius a proposito del manifesto
precisa « Il manifesto della Bauhaus è opera
mia…Bisogna aver vissuto il clima di quel tempo per
poterlo comprendere…. Dalla Germania e dall’estero
giunsero dei giovani non per progettare lampade
efficienti, ma per entrare a far parte di una comunità
che intendeva formare l’uomo nuovo in un nuovo
ambiente»166.
Con la fine della seconda guerra mondiale167, si può
considerare chiusa l’epoca dominata dal Bauhaus. Tra le
tappe fondamentali del design nel dopoguerra non
bisogna sottovalutare l’influsso esercitato nel decennio
1950-60 dall’avvento del design italiano che apparve,
165 cit .in ivi. pag .287 166 cit. in ivi .pag. 288 167Dopo la seconda guerra mondiale c’è stata una nuova fase di rapporti tra il disegno industriale e la pittura o scultura. Nel periodo del Bauhaus, ad esempio, prese forza la convinzione secondo cui non solo l’oggetto industriale, ma anche i prodotti artistici tradizionali, dovessero essere sottomessi al binomio utilità-bellezza. In quel periodo, non a caso, si verificarono noti casi di analogie stilistiche tra alcune pitture di Mondrian o Malevič e gli oggetti industrialmente prodotti. Nel dopoguerra invece si è potuto assistere ad un progressivo ribellarsi di pittura e scultura alle frigide regole del costruttivismo, e sono così sorte nuove forme pittoriche assai più libere e sfociate addirittura nei modi estroversi e irrazionali della pittura informale, del tachisme e dell’action painting. Tra queste forme di arte e l’oggetto industriale non poteva sussistere che una scarsa affinità, poiché la pittura vuole mantenere intatti i suoi privilegi di assoluta libertà creativa e di assoluta indipendenza da ogni costruzione razionale. E’ d’altronde vero che non sono mancate le inclusioni nelle “arti pure” di elementi presi a prestito dal mondo del disegno industriale – vedi il caso di artisti pop come Rauschenberg - ma è vero anche che la land art e l’arte concettuale esprimono anche un forte impulso a ribellarsi ai dettami della macchina e dell’industria. Queste forme artistiche, basate più sull’enunciazione di un concetto che sulla realizzazione di veri e propri oggetti, stanno ad indicare anche un rifiuto del mondo meccanizzato e standardizzato della civiltà tecnologica di cui l’oggetto creato dal design è uno dei principali esponenti.
167
sia in Europa che oltreoceano, come un elemento
rivoluzionario per i suoi aspetti anticonformistici tra cui
l’introduzione dei primi motoscooter Vespa e Lambretta.
Un importante apporto alla diffusione del design italiano
fu dovuto alle Triennali del 1951 e del 1954 e all’attività
di alcune ditte come la Olivetti e la Necchi.
E’ diverso invece il caso dello styling168, termine che si impose
nel linguaggio parlato dopo la grande crisi economica del
1929 quando gli Stati Uniti furono obbligati a ricorrere, per
necessità di cose, a tutti i sistemi più efficaci per attirare
l’attenzione degli acquirenti sui prodotti di un mercato in crisi.
Il vero significato della parola può essere considerato quello di
una appropriata e cauta cosmesi del prodotto, tale da
conferire nuovo fascino e nuova eleganza all’oggetto,a
prescindere da ogni vera e propria ragione tecnica e
funzionale. Tornando a Dorfles, va detto che egli vede nel
disegno industriale il caso di una forma artistica che mira a
pubblicizzare se stessa nel prodotto e il prodotto in se stessa.
Tutta quanta l’arte ha in sé un elemento di auto-
pubblicizzazione, che mira a renderla visibile e fruibile, e
bisogna ammettere come nel disegno industriale vi sia, oltre
questo stesso aspetto, anche quello di un simbolismo
168 Con questa parola si intende una sorta di sottocategoria artistica il cui valore estetico è soltanto aleatorio e la cui importanza è nel rispondere alle esigenze delle masse.
168
presentativo, cioè di un elemento simbolico che mira a
mettere in rilievo le caratteristiche che rendono appetibile per
il consumatore l’oggetto in questione. La pubblicità fa parte di
un grande meccanismo comunicativo,nel quale rientra anche
l’arte,che ha ovviamente il compito di attirare l’attenzione del
pubblico verso il prodotto, il nome, la ditta che mira a
reclamizzare, e pertanto non può mai prescindere da un
quoziente altamente informativo che più facilmente di quello
estetico sottostà ad una rapida usura. Un messaggio offre il
massimo d’informazione quando per la sua imprevedibilità ci
procura il massimo di sorpresa. Ove tale messaggio venga più
volte ripetuto verrà man mano a perdere la sua efficacia; ecco
perché è indispensabile che la forma dell’oggetto venga
spesso mutata e subisca continui processi di rinnovamento.
L’elemento di novità, inaspettato, è fondamentale per il
rapido consumo a cui l’oggetto va incontro. Dorfles si
sofferma anche sull’importanza del fattore tecnologico nella
determinazione della forma, dell’aspetto esterno e del
funzionamento dell’oggetto. Il processo di fabbricazione porta
ad una modificazione sostanziale della forma, e determina
quindi non solo importanti trasformazioni funzionali, ma
anche decisive modifiche formali. Per molti oggetti meccanici,
ad esempio, prodotti con il sistema della saldatura, è possibile
169
ottenere l’unione di parti di lamiera e di acciaio, e saranno
pertanto necessarie nervature rinforzate per sostenere la
saldatura; l’aspetto esterno apparirà più spigoloso perché non
è consentita alcuna plasticità. Gli oggetti prodotti con il
metodo della fusione hanno invece una maggiore libertà
formale, spigoli arrotondati e necessitano di spessori maggiori
piuttosto che di nervature. Un oggetto subisce trasformazioni
in seguito all’avvento di nuovi tipi di lavorazione e di nuovi
materiali impiegati:si pensi alla differenza tra la classica sedia
in legno, quella metallica oppure quella in plastica. Tutti
questi elementi ci fanno riflettere sul fatto che il disegno
industriale è un lavoro di équipe. E’ possibile concepire un
oggetto artigianale creato da un singolo individuo, ma non si
può fare lo stesso per un prodotto industriale. Quest’ultimo
infatti esclude l’invenzione autonoma e incontrollata, appunto
per la necessità del convergere di elementi tecnici, economici
e meccanici. Il designer agisce sempre in vista di una
programmazione del prodotto per l’industria, e non è possibile
pensare ad un progettista libero da ingerenze esterne: nei
casi più favorevoli il gusto del designer non è coartato dal
produttore, ma finisce comunque con l’essere vincolato dal
gusto del pubblico al quale il suo prodotto è destinato. Nel
caso dell’oggetto industriale il lavoro di équipe è
170
determinante: un particolare prodotto può richiedere
conoscenze tecniche quanto mai particolareggiate, e solo la
collaborazione con gli operatori ed i tecnici di ogni singolo
settore potrà permettere al progettista di non incorrere in
gravi errori nel risolvere costruttivamente le sue intuizioni
plastiche e formali. Nell’équipe inoltre è fondamentale la
presenza di studiosi di tecnica del mercato, di ricerca
motivazionale e di altri metodi di indagine rivolti a studiare la
possibilità di assorbimento del prodotto. In conclusione
possiamo ripetere che il compito di un designer non è
stilizzare determinate forme rivestendole di panni acconci, ma
progettare un oggetto da produrre industrialmente e
pianificarne la stessa vicenda produttiva. A questo punto
Arthur Becvar scrive che « il design, nel suo stadio iniziale di
progettazione, consiste nel pensare al problema non nel
considerare la soluzione…cercando di individuare se il
problema è stato posto in maniera chiara….»169.
Per me che scrivo in qualità di studente è stato stimolante
aver messo a confronto le due strade, radicalmente diverse e
pertanto opposte, percorse da Dorfles e da Bologna per
discutere di industrial design. Entrambi sono stati utili per
considerare le diverse sfaccettature del design: la tecnica,
169 cit in G. Dorfles, Introduzione al disegno.. op cit,pag. 87
171
l’estetica, la progettuale e l’ideologica. Il testo di Dorfles è a
mio avviso monco dell’intera impalcatura storica che sottende
le varie discussioni sull’industrial design. Dorfles è stato
funzionale, efficace, “tecnico”, nel tracciare i margini di
competenza dell’industrial design: di cosa si occupa, in che
modo se ne occupa, chi è il designer, qual è il suo compito, da
che momento in poi è possibile usare questa espressione. Mi
ha dato le coordinate di riferimento per definire l’oggetto del
discorso. Leggendo Bologna ho capito poi che c’è qualcosa di
semplicistico in Dorfles; la citazione dall’Enciclopédie è stata
la chiave di volta per seguire il sentiero che l’autore traccia e
per capire che dietro la discriminazione di certe arti ci sono
motivi socio economici nonché il mantenimento di certi
privilegi di classe. Bologna, ad esempio, individua nelle
Accademie del Disegno uno strumento sociale di
discriminazione: il pittore è eccellente, produce opere di
significato ideale e trova agganci con i ceti alti. Il semplice
artigiano invece, svalutato il momento tecnico della sua
opera, è relegato al ceto servile ed è condannato ad una vita
di stenti. Dorfles non accenna minimante a queste complesse
dinamiche. Si sofferma sul Bauhaus e sull’Art Nouveau, è
stato uno dei primi testi di successo sull’industrial design, ma
172
è come se non scardinasse nulla, ha il merito di aver
compiuto il punto della situazione, ma non solleva problemi.
173
IV. MUSEO
fig1. sala centrale
IV. 1 Dal “cucciolo” alla “desmo” attraverso le stanze del Museo Ducati
fig2. moto desmo16 fig3.prima moto da gara con motore cucciolo “…un caloroso saluto a Fabio “Vieni con me, ti porterò sul dedicandogli la sinfonia più eccitante cucciolo, il motorino è piccolo che c’è:il rombo del desmo” 170 ma batte come il mio cuor “171
170 www.ducati.it/protagonisti/pag. 7 171 www.ducati.it/museo/stanza1
174
Il “cucciolo” è il primo esemplare di micromotore a quattro
tempi, la desmo 16 è la moto guidata da Loris Capirossi nel moto
GP del 2003. Queste due rosse di Borgo Panigale hanno alcuni
elementi base in comune, come l’appartenere al marchio Ducati
e l’essere esposte nel museo Ducati, ma sono tuttavia figlie di
tempi diversi perché scanditi da situazioni sociali, economiche e
tecnologiche differenti. Su ognuna di loro sono sedimentate
storie, e molte altre transitano tra l
’una e l’altra, di uomini che assurgono a testimoniare un saper
fare italiano, che ci identifica nel mondo con sinonimi quali stile,
qualità, competenza e passione. Come membri di una grande
famiglia il “cucciolo”, capostipite, e la desmo 16, la più giovane
discendente, si rincorrono e dialogano tra loro raccontandoci
queste storie all’interno del museo. Il museo è stato presentato il
12 giugno 1998 in occasione della prima edizione del WDW (
World Ducati Week ) ed è stato ufficialmente inaugurato il 16
ottobre dello stesso anno. L’esposizione permanente del museo
consiste in una trentina di veicoli da competizione Ducati, storici
e attuali, oggetti della produzione pre-motoristica, dépliant
pubblicitari, immagini d’archivio, video storici, abbigliamento da
corsa appartenuto ad alcuni piloti Ducati e infine disegni tecnici.
Si estende su un’area di circa 1000 mq, ed è strutturato in un
duplice itinerario di visita che consente di conoscere la storia
175
dell’azienda sia attraverso le moto da competizione, sia
attraverso un excursus storico. Nella grande sala centrale di
forma circolare sono esposte in sequenza cronologica, dal primo
micromotore del 1946 alle ultime moto vincitrici del mondiale
Superbike, 33 moto da corsa che si inseguono idealmente come
su una pista virtuale. Queste moto inoltre fanno da corona ad un
grande casco rosso con la visiera aperta posizionato al centro
della sala che è utilizzato come auditorium per le conferenze.
L’excursus storico invece è stato organizzato, da Marco
Montemaggi originale direttore del museo e da Livio Lodi attuale
curatore, in sette stanze tematiche e multimediali disposte
all’interno della grande sala centrale. Ognuna, a partire dagli
anni ’40, è dedicata ad un decennio. Tale percorso di visita è
preceduto dalla parete della memoria che espone radio,
macchine fotografiche, prodotti radio-elettrici che testimoniano
la produzione pre-motociclistica Ducati dal 1926 al 1946. « E’
una vera e propria macchina del tempo attraverso la quale le
vecchie generazioni di appassionati rivivono i fasti di un’epoca
che sembrava scomparsa, mentre le nuove generazioni scoprono
quanto vasta, ricca e importante sia la storia della Ducati »1, con
queste parole Livio Lodi parla del museo. Federico Minoli invece,
presidente e amministratore delegato di Ducati, considera il
1 Intervista a Livio Lodi, vedi appendice, pag.
176
museo « un passo importante per comunicare la nostra storia e
credo che l’obiettivo che ci eravamo posti sia stato raggiunto
esaudendo così anche il desiderio dell’Ingegnere Taglioni,
indiscusso genio della Ducati »2.
fig4. motore cucciolo applicato su u3na bici La prima stanza è dedicata agli anni ’40 e al “cucciolo”: è
possibile vedere filmati sulle competizioni di quell’epoca, poster e
brochure aziendali. Come è nato il cucciolo? Durante il secondo
conflitto mondiale viveva a Torino l’avvocato e scrittore Aldo
Farinelli, collaboratore della nota ditta SIATA ( Società Italiana
Applicazioni Tecniche Auto-Aviatorie). Nel 1943, dopo
l’armistizio, Farinelli e il ragioniere Ambrosiani, titolare
dell’azienda, incaricarono Aldo Leoni di progettare un motore a
due tempi simile a quello di Giuseppe Remondini, un tecnico
francese di origine italiana. La guerra era ancora in corso e il
lavoro iniziò in segreto, contro le direttive del Governo. Farinelli
pensava che con la fine del conflitto ci sarebbe stata una
maggiore necessità di mobilità e più voglia di spostarsi per
2 www.ducati.it/museo/introduzione 3
177
svago, ma le difficili condizioni economiche non avrebbero
permesso a molti l’acquisto di un mezzo costoso, non solo per il
prezzo, ma anche per la difficoltà di procurarsi il carburante.
L’intento era quello di realizzare un motore da applicare senza
particolari trasformazioni al telaio di una comune bicicletta. Leoni
propose di studiare un motore a quattro tempi con cambio a due
velocità: ottenuto il consenso disegnò a casa il nuovo progetto
ed ebbe inizio l’avventura cucciolo. Oltre ad essere a quattro
tempi, era un motore monocilindrico, 48cc, raffreddato ad aria,
realizzato in lega leggera per un peso di 7 kg e una capacità di
due litri per il serbatoio della benzina. Nel 1944 Farinelli
collaudava il prototipo sulle strade di Torino: percorreva 100 km
con un litro di benzina, non sporcava le candele, poteva portare
due persone e affrontare anche le salite più rapide.
fig5. motore cucciolo «A Torino è nato un cucciolo»4: con queste parole la rivista
Motociclismo titolò l’articolo scritto il 26 luglio 1945 per la
presentazione del micromotore alla Fiera di Torino. I primi
esemplari di “cucciolo” furono rapidamente assorbiti dal mercato
4 www.ducati.it
178
torinese, e nel 1946 la SIATA decise di fronteggiare la crescente
richiesta aprendo un proprio ufficio vendite in via Leonardo da
Vinci a Torino. Tale scelta comunque si rivelò inadeguata a
soddisfare le esigenze del mercato. La soluzione al problema
venne dall’accordo tra la SIATA e la Ducati; quest’ultima si
incaricò dapprima della produzione ed in seguito anche della
vendita del “cucciolo”, riconoscendo alla SIATA e a Farinelli una
quota per ogni motore venduto. «Vieni con me ti porterò sul
cucciolo…» sono le parole di una orecchiabile canzoncina diffusa
in quegli anni dalla pubblicità radiofonica che diede il suo
contributo alla motorizzazione. Fu un enorme successo popolare.
La produzione che nel 1946 aveva superato i 15000 motori,
raggiunse negli anni seguenti le 25000 unità. Nel 1949 oltre
60000 “cucciolo” circolavano sulle strade italiane rappresentando
circa la metà dell’intero mercato nazionale dei ciclomotori. Dal
1946 al 1958 il “cucciolo” fu prodotto in sei versioni
continuamente migliorate. Non mancarono consensi anche
all’estero dove venne esportato in alcune migliaia di esemplari. Il
“cucciolo” infine è entrato nella storia non soltanto come riuscito
mezzo utilitario. I suoi risultati sportivi dimostarono tutta la
qualità del progetto: i primati di velocità a Monza nel 1950, il
raid Parigi-Tokyo, le vittorie con Zitelli e Farnè evidenziarono
tutto il suo potenziale. Così il “cucciolo” lanciò la Ducati nel
179
firmamento motociclistico. Infine il 24 aprile 2002 Gianluigi
Mengoli, Direttore Ricerca e Sviluppo Ducati, ha voluto
commemorare Aldo Farinelli e Aldo Leoni apponendo sul libro
Year book Ducati 2001 portato in dono alla vedova Farinelli e a
Aldo Leoni la seguente dedica: « Per questo piccolo motore, si
sono uniti due grandi talenti, accompagnati da una perizia
tecnica, da una straordinaria serietà di studio e spirito
innovatore. Sono queste le qualità che hanno influenzato chi ha
avuto il compito di produrlo. Da tutto questo è nata l’industria
Motociclistica Ducati »5. Aver ricordato Farinelli e il progetto
“cucciolo” è stato un modo per riandare con la memoria agli anni
della grande crescita del successo Ducati nel mondo.
fig6. stanza2 La seconda stanza è dedicata agli anni ’50 e all’ingegnere Fabio
Taglioni che in quel periodo entrò in azienda. L’ingegnere imparò
i primi rudimenti della meccanica dal padre che aveva una
officina, dove tra l’altro conobbe Enzo Ferrari e Tazio Nuvolari.
Nel 1954 fu assunto in Ducati e vi lavorò per trenta anni:
l’amministratore delegato dei tempi, Giuseppe Montano, volle 5 www.ducati.it/moto-archeologia
180
creare un nuovo team per sviluppare moto esclusivamente da
gara, e la scelta cadde sull’ingegnere Fabio Taglioni. Montano
pensava che i successi sportivi, legati ad un conseguente
programma di ricerca e sviluppo, avrebbero portato benefici
anche alla produzione di linea, nonché effetti pubblicitari di
sicuro rilievo. L’ingegnere realizzò in sei mesi la prima vera moto
da corsa della Ducati, la Gran Sport, chiamata affettuosamente
“Marianna” in omaggio alla moglie di Montano, che avrebbe vinto
i motogiri di Italia e la Milano-Taranto nel 1955, 1956, 1957 e
progettò oltre 1000 motori diversissimi l’uno dall’altro: dalle
piccole cilindrate proprie dei motorini, agli scooter, ai
potentissimi bicilindrici dei campionati Superbike. Le moto
firmate Taglioni non erano soltanto tecnicamente avanzate, ma
dotate di un carisma e di un fascino rimasti per certi aspetti
insuperati. Taglioni è morto il 18 luglio 2001, ma il suo spirito
innovatore è ancora vivo e applicato anche sulla più avanzata
delle Ducati, la desmo 16. Taglioni ha realizzato il primo motore
con un sistema di distribuzione desmodromico per moto; tutta la
tradizione tecnologica della casa di Borgo Panigale poggia sulla
sua genialità. La parola desmodromico deriva dalle parole greche
“desmos” e “dromos” che significano rispettivamente
“costringere, obbligare”, e “ corsa, percorso”. In meccanica viene
usata per citare meccanismi che dispongono sia di un comando
181
per attivarli in un senso, sia di un apposito comando per attivarli
nell’altro; può essere una chiusura o un ritorno. In campo
motociclistico e automobilistico è conosciuto sin dall’inizio del
ventesimo secolo, ma fu Taglioni che seppe concretizzare questa
idea. Egli, va chiarito, non è stato l’ideatore di questo sistema di
distribuzione, ma fu in grado di interpretare ed applicare ai
motori motociclistici questo sistema come nessun altro. La
Mercedes, ad esempio, tentò l’applicazione sulle sue auto da
competizione ma gli esiti furono sconfortanti. Il fine di tale
sistema è quello di eliminare le limitazioni dovute all’azione
meccanica delle valvole, sostituendo le molle con un sistema di
chiusura meccanica. Pertanto con l’assenza delle molle non si
avranno mai valvole che sfarfallano in un motore desmo e sarà
possibile raggiungere regimi di rotazione più elevati.
fig7. motore desmo I pareri circa la sua efficacia sono contrastanti: c’è chi lo osanna
e chi lo critica per la sua complessità costruttiva. Ducati è
comunque l’unico costruttore a livello mondiale a proporre il
sistema desmo su tutta la produzione di serie. A Borgo Panigale
la prima moto ad avere questo sistema fu la 125 desmo che
182
debuttò sulla pista del circuito di Hedemora dove il 14 e il 15
Luglio si disputò il Gran Premio di Svezia. Ducati schierò sulla
griglia di partenza due 125 desmo guidate da Gianni Degli Antoni
e dallo svedese Ille Nygren che arrivarono al primo e al secondo
posto distanziati di tre secondi. Il sistema realizzato da Taglioni
funzionava con successo anche in un motore da corsa ed era in
grado di vincere una gara. L’intero anno 1957 fu dedicato allo
sviluppo della 125desmo. Nella seconda stanza, infine, è esposta
una vasta collezione fotografica sul leggendario moto giro
d’Italia, una delle rarissime Marianna Gran Sport e il famoso
Siluro vincitore di 44 record mondiali.
fig8. stanza3. tecnigrafo di Taglioni e moto di Mike Hailwood La terza stanza è dedicata agli anni ’60 e alle moto
monocilindriche derivate di serie e alle parallele bicilindriche
trialbero. E’ esposto il motore del prototipo Apollo6 e la 250cc
6 Apollo era una moto di 270 kg, 125cc, capace di raggiungere 200 km/h. Fu voluta da Joe Berliner che era l’unico importatore ufficiale Ducati negli U.S.A nonché un uomo dotato di enorme potenziale all’interno dell’azienda. Questa moto doveva essere dapprima la concorrente della Harley-Davidson utilizzata ai tempi dalla polizia americana e poi sarebbe dovuta diventare una proposta per i clienti. Il progetto non andò a buon fine a causa dei problemi dettati dal peso e dalla potenza del motore realmente eccessivi. Inoltre a quei tempi in Italia era impossibile reperire materiale tanto resistente da sopportare le sollecitazioni di quel motore e pneumatici adatti a sopportare quel peso. La moto rimase inutilizzata fino al 1984. Nel 1968 Taglioni decise comunque di rivalutare questo suo progetto per realizzare il motore bicilindrico Gran Prix500cc. con distribuzione a coppie coniche nato per le competizioni nel momento in cui Ducati decise di
183
bicilindrica trialbero di Mike Hailwood. I monocilindrici
raggiungono il culmine della linea evolutiva nei modelli di serie a
carter larghi che costituiscono a loro volta lo sviluppo della
famiglia a carter stretti. Nel 1959 Taglioni lavorava al progetto
del motore 250 bicilindrico desmo commissionato da Stan
Hailwood per suo figlio Mike. La moto arrivò in Inghilterra nel
marzo del ’60, fu guidata da Mike nel circuito di Silverstone e fu
un trionfo. Visti i successi ottenuti sui circuiti, si attendeva
l’applicazione del sistema desmodromico alle moto di serie, e
così a partire dal 1968 la Ducati realizzò le monocilindriche da
strada, le wide case, ossia carter larghi detti così per il
basamento più largo e robusto. Gli scrambler 350 e 250 nel 1968
furono le prime moto di serie che montarono un motore di tipo
monocilindrico. A queste seguì a breve distanza il motore mark3
nella stessa cilindrata. Taglioni dagli ultimi mesi del 1967 stava
lavorando ad un progetto che avrebbe terminato nell’aprile
1968; l’ingegnere pensava di applicare su una monocilindrica di
serie a carter larghi il sistema di distribuzione desmodromica. Da
questa idea nacque la mark3d nelle cilindrate 250 e 350 ed entrò
in produzione nella primavera del 1968. La mark3d era la prima
ritornare al mondo delle corse. Penso che l’impegno profuso per recuperare Apollo e lo spazio espositivo dedicatogli siano una testimonianza concreta della mentalità Ducati: viene ricordato Apollo non solo per la sua rarità- ne furono prodotti solo due esemplari stando alle conoscenze Ducati- ma per l’importanza che riveste nei confronti delle moto più recenti, e quindi anche delle superbike. Apollo è il “fossile” del moderno motore bicilindrico, e in casa Ducati la storia delle moto è paragonabile alla storia delle persone.
184
moto di serie con sistema desmo che fino a quel momento era
stato appannaggio esclusivo delle moto da corsa. Fino al 1970 le
mark3d rimasero invariate.
fig9. stanza4 La quarta stanza è dedicata agli anni ’70 e alle vittorie Ducati,
come il successo della 200 miglia di Imola, ottenute con le
bicilindriche a coppie coniche. Fu sempre Taglioni che realizzò
l’innovativo progetto di un motore bicilindrico a L a 90° con
distribuzione a coppie coniche. Prima di questo progetto la
maggiore cilindrata per una moto monocilindrica Ducati era
450cc. Con i motori bicilindrici da 750cc Ducati ha realizzato
nuove innovazioni di carattere tecnico, ha segnato la sua
posizione nell’engineering delle sportive e ha consolidato la sua
reputazione come costruttore di moto di grossa cilindrata. Una
moto come la 750cc realizzata con motore desmodromico, con
due cilindri a L a 90° e con valvole a molle offriva una riduzione
delle vibrazioni grazie al perfetto bilanciamento.
185
fig10. stanza5. motore pantah e telaio 750 Con la quinta stanza arrivano gli anni ’80 e i trionfi delle pantah:
le nuove moto con motore a cinghia. «Non esiste niente al
mondo di più potente o di più veloce delle pantah »7: così una
delle maggiori riviste di motociclismo descrisse la pantah 500 al
suo ingresso sul mercato nel 1979, una moto veramente
moderna per quel tempo, capace di colpire al cuore molti
appassionati. Il motore pantah progettato da Taglioni, da
Mengoli, Bocchi e Martini e fu il programma Ducati sia per la
produzione che per la competizione degli anni ’80. Il suo nome
deriva dalla contrazione di pantera: doveva evocare agilità,
prontezza, ma soprattutto fu scelto per quella sorta di gusto per
l’esotico che, sulla scia del successo di serie televisive quali
Sandokan, imperversava nel nostro paese alla fine degli anni ’80.
La trasmissione, abbandonate le coppie coniche del precedente
decennio, avviene utilizzando un albero a camme a cinghia
dentata: questo sistema era già in uso in ambito automobilistico
e Taglioni, forse anche a causa del fallimento del bicilindrico
7 www.ducati.it/protagonisti /pag. 7
186
parallelo, pensò di utilizzarlo anche per le due ruote. Il motore
pantah aveva due valvole ad angolo di 60° che ottimizzavano
l’affidabilità. Il primo modello in produzione fu la 500sl, ma già
nel 1981 diventò un 581cc con il modello 600sl. Con questo
incremento di cilindrata fu possibile gareggiare al campionato
mondiale di formula 2tt dove il pilota inglese Tony Rutter trionfò
per quattro anni consecutivi, dal 1981 al 1984. Nel 1982 il
motore si era trasformato in un 597cc alloggiato in un telaio
specifico da corsa: era il classico tt2 con il quale Ducati vinse i
campionati italiani di Formula2 nel 1981 e nel 1982. Il pantah
continuò a crescere diventando una 650sl nel 1983, e poi una
750cctt1, e quando smise di rappresentare la base del
programma da corsa diede origine a tre famiglie complementari
di moto da strada: le belle monster,le st2 e le supersport. Nella
storia Ducati il pantah è stato uno dei design più riusciti e
longevi.
fig11. stanza6. moto e disegni tecnici
187
Anni ’90, motori quattro valvole, campionato superbike: è la
sesta stanza. La storia Ducati è fortemente legata con quella del
campionato del mondo superbike. La competizione prese il via
nel 1988 e l’azienda di Borgo Panigale, la cui passione per le
corse è scritta nel dna, vi partecipò con l’intenzione di vincere.
La moto 851 guidata da Marco Lucchinelli, l’ex campione del
mondo delle 500cc, era perfetta. Era un modello bicilindrico, in
lotta con le quadricilindriche, con testata desmodromica a
quattro valvole, il tutto era contenuto in un telaio tubolare di
ultima generazione. Questa scelta si opponeva al trend generale,
che vedeva l’uso di telai monotrave in alluminio, dimostrando
che un telaio tubolare correttamente disegnato poteva essere
altrettanto valido se non addirittura migliore. Il francese
Raymond Roche iniziò a correre per la Ducati nel 1989 e vinse
cinque gare tra cui quattro sui circuiti più veloci: le rosse di
Borgo Panigale si rivelarono affidabili e veloci tanto da meritare il
soprannome di bolidi bolognesi. Il 1990 vide l’inizio del dominio
Ducati. Roche e Ducati vinsero il titolo salendo sul podio per ben
sedici volte su ventisei, conseguendo ben otto primi posti. Nel
1991 e nel 1992 Ducati, con il modello 888 derivato dalla 851,
conquistò nuovamente il titolo mondiale di superbike. La 851 e la
888 costituiscono le pietre miliari del successo mondiale della
Ducati, ma esse va affiancato il modello del 1994 e cioè la 916.
188
In quegli anni fu definita come la moto più sexy del mondo, era
meravigliosa guardata da qualsiasi angolazione e diversa da
qualunque altra realizzata in passato. La 916 rappresentò la
personificazione assoluta di stile e di funzionamento. Ducati
vinse il titolo per tre anni consecutivi, era al moto da battere.
fig12. desmo16
La settima stanza è datata 2003. «2003: Ducati raccoglie il
guanto di sfida, e rientra nella classe regina dopo oltre
trent’anni. La desmosedici è il nuovo corso della Ducati nel
mondo delle competizioni motociclistiche, ma sempre legata alla
tradizione del sistema desmodromico e del telaio a traliccio »8. E’
stata una prova difficile e impegnativa che ha visto l’azienda
impegnata in un ritorno quasi leggendario dopo oltre trent’anni.
Non è ritornata affatto intimorita e nel giro di poco più di un
anno dall’annuncio di voler rientrare nella categoria regina, ha
saputo realizzare una delle moto più potenti che hanno mai
percorso i circuiti di tutto il mondo. La desmosedici si è
affiancata come moto più veloce con una punta massima di
8 Brochure Ducati
189
332km/h, ha conquistato il secondo posto nella classifica
costruttori con 225 punti e il quarto e il sesto posto piloti con
Loris Capirossi e Troy Bayliss. Il sito
www.100hp.com/desmo.htm dedica qualche riga anonima scritta
da chi percepisce il desmo come filosofia: « Una Ducati vuole
bene al suo compagno, non è il proprietario, parla con lui…»
«Come riconoscerlo? Il rumore di funzionamento è quello che va
in risonanza con il cuore….è difficile distinguerlo solo per chi non
può capire…» «…melodia, non rumore: le Ducati non fanno
rumore, ma producono una armoniosa melodia….».
IV. 2 Uno sguardo oltre la collezione
Il nome di un museo è un indicatore di diverse sue
caratteristiche; il museo Ducati è un museo di marca9,
appartiene cioè a quella categoria museale in cui il marchio è
ovviamente protagonista, è il valore portato in primo piano dal
museo, a cominciare appunto dal suo stesso nome. In questo
museo, come abbiamo visto, sono presentati esclusivamente i
9 M.Negri. Manuale di museologia per i musei aziendal ,Rubbettino Editore, Soveria Mannelli, 2003, pag. 21
190
prodotti riferibili alla marca in oggetto: una sorta di catalogo
storico dell’intera produzione dell’azienda. Il marchio e la sua
declinazione nei prodotti sono la vera trama del racconto.
Secondo Negri l’affermazione dell’identità del suo marchio è
l’essenza della missione 10 di questo particolare museo aziendale.
L’ingresso al museo è gratuito poiché non c’è bisogno degli
introiti dei biglietti e poiché, come ha affermato Livio Lodi 11, è
stato pensato come un incentivo sia per l’azienda, al fine di
ricevere più visitatori possibile, che per Bologna, che non è
soltanto la città delle due torri e delle università, ma anche un
indotto per Borgo Panigale, che altrimenti sarebbe stato ancora e
soltanto un quartiere sconosciuto. Il Museo Ducati non solo è
uno dei cinque musei più visitati a Bologna, ma è anche una
struttura che ha qualificato Borgo Panigale, che quasi si identifica
con questa azienda. Le visite avvengono con l’ausilio di una
guida e si tengono dal lunedì al venerdì per gruppi fino a 10
visitatori ;c’è un primo tour alle ore 11 e un secondo tour alle
ore 16. Per la sola giornata del sabato e per grandi gruppi fino a
40 persone ci sono visite continue a rotazione dalle 9:30 alle
13:00. La domenica è chiuso, come durante le altre festività del
nostro calendario e nel mese di agosto. Per una buona gestione
del servizio è richiesta una prenotazione inoltrabile o
10 cfr. ivi 11 cfr. intervista a Livio Lodi,vedi appendice pag.
191
telefonicamente, o via fax o via e-mail. Giuridicamente è un
museo privato, ed economicamente è una voce integrata nella
Community che comprende eventi in pista, club e stand per le
fiere « non è un’unità a sé stante, è una parte di una casa»12. Fu
voluto dall’amministratore delegato Federico Minoli che pensò di
valorizzare l’azienda e di donarle un valore aggiunto raccontando
in un museo la storia che le precedenti amministrazioni dal 1973
in poi avevano lasciato cadere nell’oblio liberandosi, o vendendo
o mandando al macero, di tutto ciò che era vecchio13. Minoli,
come ha detto Livio Lodi nell’intervista, pur essendo un uomo di
marketing aveva compreso che la storia poteva conferire
spessore all’azienda. Per la realizzazione del museo si recuperò
lo spazio di un vecchio deposito in cui c’erano documenti e poche
moto. L’impresa museale fu vissuta con entusiasmo all’interno
dell’azienda, e fu percepito non solo come il salotto buono
dell’azienda, ma come qualcosa che rendeva orgogliosi di ciò che
si era. La responsabilità della gestione dal 2001 è affidata solo a
Livio Lodi che cura anche l’archivio storico e che, come un
archeologo, recupera le tessere mancanti del mosaico Ducati
affinché il racconto possa essere il più possibile completo e
preciso. Inoltre Lodi, anche grazie all’esperienza maturata nel
12 Intervista a Livio Lodi 13 Non tutte le moto esposte, infatti, sono beni aziendali. Alcune sono esposte su concessione del proprietario e, ovviamente, anche in caso di prestito per mostre o eventi è necessario ottenere il suo consenso.
192
museo, è consapevole del fatto che la storia non piace a tutti e
che molte tradizioni si stanno perdendo, pertanto « una moto
non è soltanto un oggetto ludico per correre, ma anche un
oggetto di cultura e può essere uno strumento per avvicinare
anche i più giovani alla storia, affinché stimolati alla conoscenza
la trovino più interessante »14. L’attività del museo è rivolta ad
un pubblico che va dai bambini delle scuole elementari, ai
ragazzi che pur andando per ammirare la moto di Loris Capirossi
si appassionano alle moto vecchie e al modo in cui si correva un
tempo, a persone più anziane. Per i visitatori disabili non ci sono
strutture ufficiali deputate ad accogliere il loro ingresso, ma è
possibile utilizzare i montacarichi collocati alle spalle del museo
che accolgono anche 10 persone. Queste strutture sono sicure, e
là dove è stato necessario utilizzarle hanno reso possibile la
visita di persone disabili. Appena si arriva in Ducati ci si rivolge
ad un primo box di accoglienza, dove si attende l’arrivo della
guida. Senza il suo ausilio non è consentito entrare nello
stabilimento che costituisce la prima parte della visita, tipica di
un museo di marca, ma non offerta da tutti i musei di questo
genere. Anche per questo aspetto le parole di Lodi ci aiutano a
capire meglio « Ducati è un sogno che si realizza: anche questo
14 vedi appendice, pag.
193
è un messaggio del museo »15. Ducati nel campo motociclistico si
è creata una figura tanto legata alle competizioni da avvicinarsi a
Ferrari. Tuttavia sono molto diverse. Un visitatore, visitando il
museo e lo stabilimento, conosce una Ducati diversa rispetto a
quella trasmessa, per esempio, da un giornale di settore o dai
media in generale. Ferrari non consente la visita allo
stabilimento, e il suo tifoso resta un sognatore che nella Galleria
Ferrari visita un mondo che non potrà mai vedere e di cui non
può fare mai pienamente parte visti i proibitivi costi Ferrari.
L’appassionato Ducati invece entra nello stabilimento e inoltre
economicamente può realizzare l’acquisto di una moto: può
anche realizzare l’acquisto scegliendo la più economica Monster e
sentirsi pienamente parte della famiglia. Poco prima dello
stabilimento ci si ferma alla vera e propria area accoglienza: qui
è possibile usufruire dell’armadio, bisogna per regolamento
depositare borse e zaini e non è assolutamente consentito
scattare foto all’interno dello stabilimento. Prima di dare inizio
alla visita il visitatore risponde ad un questionario cartaceo a
risposta multipla nel quale si chiede se ha mai visitato un museo
prima, come ha conosciuto il museo Ducati, se ha una moto ed
eventualmente di che marca. Tale questionario serve a
conoscere meglio l’efficacia dei canali informativi come internet-
15 ibidem, o ivi, pag.
194
sul quale puntano molto- servizi turistici ed altro, ma serve
anche a sapere se i visitatori sono potenziali clienti oppure no.
Con la visita allo stabilimento si conoscono tutte le fasi della
lavorazione e si comincia proprio dalle lavorazioni meccaniche: in
questa area i materiali grezzi provenienti da fornitori esterni
vengono lavorati e rifiniti. I vari centri di lavoro, dotati di
computer a controllo numerico, eseguono le varie operazioni di
fresatura, tornitura e rettifica per permettere poi
l’accoppiamento con il resto dei componenti del motore. Segue la
zona Kaizen e montaggio motori: kaizen è una parola
giapponese e vuol dire “cambiamento” kai e “verso il meglio”
zen. Nel settore è una parola che identifica una nuova filosofia
produttiva i cui vantaggi sono la riduzione delle scorte, il
miglioramento della qualità e la maggiore reattività alle richieste
del mercato. Dopo il montaggio si effettua il rodaggio che è un
collaudo a freddo. I propulsori vengono testati in cinque cabine
dove un motore elettrico trascina il propulsore simulandone il
funzionamento. Si prosegue con l’assemblaggio veicoli: qui il
telaio si accoppia con il motore, e procedendo lungo la linea
azionata meccanicamente, i singoli componenti del veicolo
vengono aggiunti fino al completamento dello stesso. Infine c’è
la zona collaudo veicoli e spedizioni. Per il collaudo sono utilizzati
banchi a rulli che simulano il funzionamento su strada e sui
195
banchetti idraulici vengono controllati i valori di ammissibilità ed
i gas di scarico. Le moto, scese dalle linee di montaggio,
vengono controllate una ad una in modo da garantire massima
qualità. Vengono poi imballate e spedite in modo diverso a
seconda della distinzione ( in primo luogo Francia, GranBretagna,
Svizzera, California, Canada ), e del mezzo utilizzato. Durante la
mia visita allo stabilimento Ducati ho rivolto la mia attenzione
non soltanto alle parole della guida, ma anche ai volti di chi
lavorava. Esprimevano serenità e non hanno negato un sorriso a
noi visitatori curiosi. Il ritmo che scandisce le attività degli operai
è lento e attento, con cura si prendono i pezzi e si montano per
realizzare un prodotto finale che esprime qualcosa di
“artigianale” e di “manufatto”. Le moto Ducati, pur essendo
prodotte in serie, sembrano avere qualcosa di difficilmente
definibile che le contraddistingue da quelle degli altri marchi.
L’attenzione rivolta alle persone e alla qualità dei prodotti sono
caratteristiche dell’identità Ducati. Con attenzione intendo sia
quella nei confronti dei propri operai, che dei clienti, che infine
dei visitatori, specialmente se sono studenti come nel mio caso.
Quando ho visitato il museo Ducati al primo box di accoglienza,
essendo un visitatore singolo e per di più donna, mi hanno
chiesto la motivazione della mia visita: alla mia risposta è
seguito un loro caloroso:«Benvenuta. Si troverà bene oggi, qui,
196
da noi in Ducati ». Dopo la visita allo stabilimento si sale al
museo. Qui la prima cosa che colpisce è l’imponenza del
marchio, prima della sala centrale c’è una piccola vetrina con
prodotti radio ed elettrici che testimoniano la produzione che ha
realizzato Ducati prima di diventare un’azienda motociclistica.
Questa parte espositiva meriterebbe più spazio per poter
raccontare più approfonditamente l’origine dell’azienda. Un
museo non interagisce con il pubblico soltanto con l’esposizione
degli oggetti, ma anche con una serie di attività. Durante la
visita mi sono soffermata non solo sulla collezione, ma anche
sugli altri visitatori, che mi sembravano rapiti soprattutto dalle
caratteristiche tecniche delle moto e dal contatto con le moto dei
campioni, e infine sull’allestimento e, quindi, agli apparati
espositivi ed interpretativi. Secondo Negri è difficile stabilire una
linea di demarcazione tra questi due tipi di apparati poiché sono
due categorie che vengono a sovrapporsi. L’allestimento è il
disegno generale dell’esposizione e fornisce una determinata
interpretazione. Quest’ultima si focalizza sul rapporto diretto tra
l’oggetto e il visitatore. Il processo dell’interpretazione ha lo
scopo di liberare tutte le possibili storie che ogni oggetto esposto
contiene, e renderle comprensibili all’utente del museo.
L’interpretazione, pur comprendendola, è qualcosa di più della
semplice spiegazione di un oggetto, e richiama l’attenzione sulla
197
necessità di un approccio globale al processo espositivo in cui
siano presi in considerazione tutti gli elementi costitutivi
dell’esperienza museale dal punto di vista dell’utente. Il termine
interpretazione « è entrato da alcuni anni nel linguaggio museale
per indicare quell’insieme di operazioni che “traducono” i
significati di cui l’oggetto esposto è portatore in un linguaggio
comprensibile al visitatore»16. La pianificazione degli apparati
interpretativi, svolgendosi a ridosso dell’oggetto e riguardando i
suoi contenuti, compete al curatore; l’allestimento invece, che
scansiona gli spazi e la visone complessiva dell’ambiente
museale, compete l’architetto e talvolta anche un grafico o un
designer a seconda dell’impostazione che si vuol dare all’iter
progettuale. Va ribadito che tra queste due componenti, la
curatoriale e la gestionale, deve esserci un costante confronto
poiché il museo non è soltanto il prodotto del disegno
architettonico. Tra gli strumenti tecnici a disposizione del
programma di interpretazione ce ne sono alcuni statici come:
vetrine, supporti di vario tipo, pannelli con testi, disegni e
illustrazioni, stampe fotografiche, didascalie, fogli informativi e
altri dinamici come audiovisivi, dispositivi sonori, postazioni
informatiche, modelli in movimento. Questa distinzione oggi è
sempre meno netta poiché i diversi elementi hanno maggiore
16 M.Negri,op cit pag. 127
198
possibilità di integrazione. Nel museo Ducati le vetrine non
mancano, ma sono state utilizzate solo nelle stanze. La forma
esterna non presenta pericoli nemmeno per i visitatori più
piccoli, è facile vedere gli oggetti anche da diversi punti di vista,
ed è possibile leggere con faciltà i cartellini che ne riportano le
caratteristiche tecniche. Nella sala centrale invece non ci sono
vetrine e per ammirare le moto a 360° è necessario salire sulla
pedana infatti è possibile avvicinarsi anche molto alle moto,
scattare foto, ma è vietato salirci sopra. Alle spalle delle moto ci
sono pannelli che raccontano le vittorie conseguite, i quali sono
tradotti in inglese e presentano sequenze in corsivo per
evidenziare qualche data o qualche nome. Tali pannelli sono
poco funzionali alla lettura perché bisogna posizionarsi alle spalle
delle moto per leggere bene.
fig13. sala centrale Tuttavia le parole scritte su questi pannelli sembrano essere in
corsa con le moto lungo la pista virtuale; un senso di continuità
e coralità aleggia nel museo. La desmosedici collocata alla fine
della pista sembra rincorrere il “cucciolo” per conservare l’antica
199
tradizione Ducati e per farne un binomio unico con le nuove
tecnologie che, come nel gioco delle matrioscke russe,
conservano le prime e solo apparentemente piccole innovazioni.
L’illuminazione infine è di tipo artificiale e per la conservazione
delle moto è sufficiente un controllo generale due o tre volte
l’anno. La visita dura circa 90 minuti, è abbastanza impegnativa
anche dal punto di vista fisico, non ci sono soste e non è
ovviamente consigliabile allontanarsi dalla guida. Tuttavia per chi
vuole muoversi autonomamente, guidato dalla curiosità suscitata
da alcuni aspetti dell’esposizione piuttosto che dal bisogno di una
sequenza strutturata secondo le aspettative dei curatori, è
possibile trattenersi ancora nel museo anche dopo il congedo
della guida. Il bookshop infine è collocato prima dell’ingresso,
nonchè uscita, del museo. Ducati è anche una Fondazione no-
profit che progetta e sviluppa iniziative, attività pubbliche ed
eventi a carattere sociale, educativo e culturale attorno al mondo
della moto, grazie anche al contributo volontario di alcuni
dipendenti. Gli interessi primi di questa Fondazione sono: la
valorizzazione del patrimonio culturale, industriale, storico ed
artistico del motociclismo e della tecnica motoristica; iniziative di
carattere scientifico, tecnico, formativo, applicativo, culturale,
didattico e scolastico, nonché studi, corsi, seminari e
pubblicazioni; ogni forma e livello di sport, turismo,
200
intrattenimento aventi per fine quello di alimentare l’entusiasmo
e la passione per la motocicletta. Due i progetti messi già in atto
dalla Fondazione: la Fisica in Moto e la Scuola di Restauro Moto.
Il primo è un laboratorio didattico e di sperimentazione della
meccanica rivolto a studenti delle scuole medie superiori della
regione Emilia Romagna, e costituisce un esempio unico nel suo
genere, di ponte tra scuola-museo tecnologico-fabbrica. L’idea è
quella di sperimentare un laboratorio di meccanica presso la
fabbrica dove i ragazzi, guidati dai propri professori, possano
giocare con semplici macchine verificando alcuni principi appresi
a scuola per poi trasferirsi in linea a vedere, sotto la guida degli
operai, gli stessi principi applicati alla creazione del prodotto. La
Scuola di Restauro prevedi invece corsi sulla messa a punto,
montaggio, manutenzione e messa in strada di motocicli
d’epoca.
IV. 3 Dai radio-brevetti alle moto
Nel 1922 Adriano Ducati era un diciannovenne studente di fisica
che conduceva una serie di esperimenti sulla nascente scienza
della radio e sulle sue pratiche applicazioni. Il 15 gennaio era
201
riuscito, con le apparecchiature da lui costruite, a stabilire un
contatto radio con gli U.S.A dalla sua casa di Bologna: per
l’epoca era un fatto straordinario. Adriano, Bruno e Marcello
Cavalieri Ducati fondarono a Bologna nel luglio del 1926 la
“Società Scientifica Radio Brevetti Ducati”. Alla iniziale
produzione di condensatori e componenti elettronici fece seguito,
negli anni successivi, l’istituzione di un vasto settore di ricerche
per affiancare l’ottica e la meccanica all’elettronica, iniziando così
a produrre macchine fotografiche e lenti, oltre a registratori di
cassa e rasoi elettrici. Adriano era la mente tecnico-scientifica
dell’azienda, Bruno invece aveva assunto il ruolo di direttore
amministrativo e finanziario. Il 7 maggio 1934 in occasione del
I° congresso dei radiotecnici italiani tenutosi a Bologna,
Guglielmo Marconi volle visitare la “Società Scientifica Radio
Brevetti Ducati” e nel congedarsi lasciò in dono una fotografia
con dedica. Nel 1935, dato il veloce espandersi dell’azienda, fu
acquistato un terreno di 120.000 mq a Borgo Panigale. Il 1
giugno dello stesso anno alla presenza delle autorità cittadine
venne posata la prima pietra di quello che sarebbe divenuto
l’attuale stabilimento di via Cavalieri Ducati 3. La mentalità dei
fratelli Ducati era anche molto romantica e paternalistica:
l’azienda era per loro come un potente motore di benessere non
solo personale, ma anche collettivo, e credevano- in chiave
202
positivista- che essa potesse svilupparsi ulteriormente. L’azienda
si riteneva all’avanguardia tecnica e per mantenere tale livello si
era dotata di un importante centro di ricerche. Secondo tale
ottica enfatizzarono al massimo il concetto del dopolavoro
aziendale per cercare di dare a tutti un forte senso di
appartenenza. Intorno agli anni ’30 e ’40 si parlava di “stile
Ducati”, per indicare il modo di concepire la ditta da parte dei
fratelli Ducati. Tale stile prevedeva l’assistenza ai lavoratori e
molteplici attività di dopolavoro e di propaganda che finivano con
l’incontrare lo “spirito del regime fascista”, assimilato
dall’azienda bolognese e da quasi tutte le aziende di medie e
grandi dimensioni di quegli anni. Il dopolavoro aziendale fu
istituito nel 1932, e da allora andò crescendo in importanza e
numero di attività, mentre un grande valore veniva attribuito allo
sport. Tra le attività erano previste gite, conferenze, concerti e
spettacoli ricreativi. Esisteva una biblioteca con annessa una sala
di letture e due grandi mense. Nell’edificio riservato ai servizi
assistenziali c’era un asilo nido che ospitava i piccoli figli dei
dipendenti. Infine i fratelli Ducati avevano anche creato una
scuola tecnica per preparare i futuri dipendenti all’altezza delle
sempre più innovative attività dell’azienda. Lo “stile Ducati” era,
dunque, largamente integrato nel regime fascista; i Ducati,
beneficiati sul piano della pubblicità dal regime, non potevano
203
contravvenire alle direttive del Duce e durante il secondo
conflitto, come molte altre imprese italiane, dovette modificare
le proprie strategie industriali per stare al passo con le richieste
della produzione bellica. Ci furono molte commesse per le forze
armate e tutti i dipendenti furono dispensati dal servizio militare.
Dopo la liberazione del 25 aprile 1945 e la nascita dell’Italia
repubblicana questo filo fascismo della famiglia provocò
numerosi problemi, poiché i partigiani e le nuove forze politiche
diffidarono sempre dei Ducati. La fine della protezione dello
Stato provocò una serie di problemi economici alla famiglia che
comunque rimarrà sempre legata alla sua attività, anche nel
periodo dell’occupazione tedesca quando a costo della loro
stessa vita salvarono la fabbrica contro l’ordine del comando
supremo tedesco che imponeva di trasferire uomini e mezzi
dell’azienda in un apposito insediamento in Germania. Grazie al
coraggio dei propri operai riuscirono a trasferire di notte, in
magazzini segreti, per mezzo di camion, carri ed anche a mano,
molti macchinari e parte delle materie prime. Gli sforzi non
furono comunque premiati perché il 12 ottobre 1944 le
squadriglie di bombardieri alleati rasero al suolo gli stabilimenti.
Finita la guerra, come per tutte le altre industrie, anche sulla
Ducati vi furono indagini per verificare un’ipotetica
collaborazione con il nemico fascista. Dopo il processo per
204
collaborazionismo si arrivò alla prova ed alla dichiarazione della
piena e completa innocenza dei fratelli Ducati. Raffreddati gli
animi del dopoguerra la Ducati poteva riprendere la propria
attività in un’Italia distrutta, ma i tentativi di ricostruire l’azienda
furono frustrati anche da gravi problemi finanziari. Un aiuto
venne anche dal sindaco comunista di Bologna Giuseppe Dozza
che mise a disposizione dei fratelli Ducati 12 camion ricevuti in
dotazione dagli alleati per sgomberare tutte le macerie. In breve
tempo la fabbrica ricominciò a produrre e il 1945 fu l’anno del
“cucciolo”. Tuttavia negli anni seguenti non mancarono altri
problemi. Nel 1953 ci furono 900 licenziamenti e Ducati si divise
in due nuove società: Ducati Elettrotecnica e Ducati Meccanica.
Nel 1959 queste due società passarono in comodato alla
finanziaria Ernesto Breda che decise poi nel 1960 di cedere la
Ducati Elettrotecnica alla ditta francese C.S.F (Compagnia Sans
Fils). In questi anni aumentò il numero dei dipendenti, e nel
1966 la Ducati assorbì la Microfard divenendo Ducati
Elettrotecnica Microfard con sede a Bologna. Nel 1975 il gruppo
decide di disfarsi della Ducati che fu così affidata, dall’allora
Ministro delle Partecipazioni Statali Carlo Donat Cattin,
all’azienda Zanussi, che costruì a Borgo Panigale un nuovo
stabilimento per la costruzione di magneti e alternatori per moto.
Nel 1982 la Zanussi entrò a sua volta in crisi e fu rilevata dalla
205
svedese Electrolux che decise di disfarsi della Ducati Energia in
quanto ritenuta estranea al suo ciclo produttivo17. Nel 1984
nacquero due nuove società: Ducati Radiotelecomunicazioni
(settore apparecchi radio) e Ducati Energia ( settore
elettrotecnico). Sempre nel 1984 la Ducati Meccanica, per mano
dell’allora presidente dell’IRI Romano Prodi, fu venduta al gruppo
Cagiva Castiglioni di Varese, leader nel settore delle moto. La
Ducati Meccanica ritornò così alla sua vocazione originale dopo
che nel 1959, entrata a far parte del gruppo Breda, la
produzione dei motori per le motociclette era passata in secondo
piano rispetto alla realizzazione dei motori diesel e dei motori
marini. I fratelli Castiglioni decisero di riportare Ducati agli
antichi fasti e di produrre l’intera moto, carrozzeria compresa.
Nel 1970 l’industria delle due ruote andò in crisi poiché le più
confortevoli automobili erano maggiormente richieste dal
mercato. La Ducati tuttavia riuscì a difendere le proprie posizioni
sul mercato grazie anche ai motori diesel nella cui produzione
,come detto, si era andata specializzando. Negli anni ’90 le
Ducati tornarono a vincere dando così nuove soddisfazioni e
riscattando il grande e glorioso passato.
17 Dopo le difficoltà finanziarie la vendita da parte dell’Electrolux sembrò l’ultima e definitiva tragedia, ma non fu così. Un pool di brillanti industriali bolognesi rilevò la Ducati Energia che, grazie ad un accordo con la Bosch, divenne leader mondiale nel settore dei generatori e accensioni per moto. Dal luglio 1966 l’azienda ha ottenuto la certificazione di qualità CSQ secondo le norme europee UNI EN ISO 9001 e tra i clienti si annoverano nomi importanti a livello nazionale ed internazionale quali Ansaldo, Enel, Esso, Fina, Bosch, Siemens, Daewoo, Moulinex, Miele, Whirlpool.
206
Ducati sin dalla nascita ha avuto un logo:
fig14. il primo logo Questo è il primo, risale al 1927 ed è stato ripreso da un raro
documento di quegli anni. Raffigura due “esse” che si incrociano
sopra una saetta, simbolo dell’elettricità.
fig15. il logo negli anni '30 Negli anni ’30, in periodo fascista, il logo viene modificato
secondo lo stile grafico dell’epoca e rimarrà il simbolo ufficiale
fino a 1954, anno in cui l’azienda fu divisa per differenziare le
produzioni elettrotecniche da quelle motociclistiche e
meccaniche.
207
fig16. il primo logo con la cilindrata Nel 1949 l’azienda iniziò la produzione di motoveicoli completi e
divenne necessario indicare sul serbatoio della moto il nome del
produttore. Il simbolo SSR era troppo piccolo per essere visto e
così comparve la scritta “Ducati” insieme alla cilindrata della
moto. Lo stile di questo logo rimase inalterato fino al 1957.
fig17. due logo negli anni '50 Negli anni ’50 il genio Taglioni creò moto vincenti e Ducati
divenne famosa in tutto il mondo. Nacquero così i due emblemi
forse più conosciuti e amati da tutti gli appassionati. Il primo
simbolo raffigura una “D” affiancata da un serto di alloro, e
comparve appunto nel 1957 su tutte le moto di produzione e di
corsa; il secondo simbolo invece apparteneva alla sezione
“Meccanica” che produceva le moto ma veniva utilizzato su tutti i
208
tipi di materiale pubblicitario, gagliardetti inclusi. La scelta
stilistica di queste due marchi fu sicuramente felice, ma il loro
successo fu merito anche delle vittorie conseguite in quegli anni
e dal fatto che per la prima volta era possibile conoscere il luogo
di origine di queste motociclette.
fig18. l’aquilotto Ducati fig19. l'ala dello Scrambler Con gli anni ’60 arrivano le “ali”. Seguendo la tradizione di
marchi come Moto Guzzi comparve l’aquilotto sul serbatoio delle
moto. I primi esemplari si trovano sui piccoli ciclomotori e
scooter a 2 tempi, poi anche le 4 tempi utilizzeranno l’aquila
come simbolo. La seconda è l’ala nera con la scritta Ducati in
corsivo:divenne il simbolo del modello Scrambler, tanto che
ancora oggi è noto come l’ala dello scrambler, e delle moto dai
250 ai 450cc.
fig20. il primo logo di Giugiaro fig21. il logo Ducati in uso fino al 1985
209
Negli anni ’70 l’idea del nuovo simbolo fu affidato ad un grande
nome del design italiano di quel tempo, nonché disegnatore della
prima Volkswagen Golf: Giorgetto Giugiaro. La scritta è piatta e
la lettera “A” non è ancora squadrata. Non fu molto apprezzato e
fu necessario aggiornare il logo nel 1977 dandogli l’inconfondibile
sagoma che comparve in quegli anni anche sulle moto da corsa.
Quest’ultimo rimase in uso fino al 1985, anno in cui i fratelli
Castiglioni rilevata l’azienda decisero di modificare nuovamente il
logo per adattarlo allo stile delle moto di Varese.
fig22. il logo con i Cagiva Così negli anni ’80 ci fu il logo in stile Cagiva con l’elefantino che
resterà in uso fino al 1997.
fig23. l'attuale logo Ducati e il "chicco di caffè" Finalmente gli anni ’90, i giorni nostri e il nuovo simbolo.
Abbandonato l’arzigogolato stile Cagiva lo stile diviene razionale
210
per una scritta corsiva, affiancata da un simbolo circolare che
richiama la forma di una lettera “ D” stilizzata. Inizialmente gli
appassionati furono dubbiosi, ma poi tutto nel mondo cominciò a
richiamare il nuovo simbolo: tute, caschi, giornali di settore.
Questo marchio ha restituito alla Ducati un suo vero e proprio
stile come negli anni ’30. Infine l’iniziale difficoltà per cogliere la
“ D” stilizzata ha fatto ribattezzare amichevolmente il simbolo
come “ il chicco di caffè”!
211
V. La Galleria Ferrari.
V. 1 Entriamo a visitare la Galleria Ferrari Il nuovo shop, la confortevole caffetteria e due macchina da F1
adattate a simulatori a disposizione del pubblico, accolgono al
piano terra il visitatore-tifoso. « World Champion 1999-2000-
2001-2002-2003-2004 » sono le parole scritte su un parete nella
212
sala del piano terra, e di fronte a queste c’è la ricostruzione di un
box, pit-lane e pitwall.
fig. 24 ricostruzione di un box e particolare del pitwall.
Segue immediatamente dopo la fedele ricostruzione dell’ufficio di Enzo Ferrari18 in Via Trento Trieste e a Modena:
18 Il 29 gennaio 2003 si è costituita a Modena la Fondazione Casa Natale di Enzo Ferrari che ha come soci fondatori il Comune di Modena, la Provincia di Modena, la Camera di Commercio di Modena, l’Automobile Club d’Italia e la Ferrari S.p.A. Lo scopo principale della Fondazione è quello di realizzare un complesso museale, di circa seimila metri quadrati, che comprenda anche la casa in cui nacque Enzo Ferrari nel 1898 col fine di raccontare ai visitatori, con l’ausilio di supporti multimediali come immagini e filmati, la storia dell’uomo Ferrari, la sua giovinezza, la passione per le corse, il consolidamento della sua attività di costruttore, i rapporti umani che hanno significativamente segnato la sua vita e la sua attività. Il complesso museale prevede anche la costruzione di una Galleria espositiva che sarà costruita nell’area attualmente occupata da un capannone. L’intento è quello di comunicare la vocazione motoristica del territorio e la storia di due prestigiose case automobilistiche come Ferrari e Maserati. All’interno della Galleria ci sarà un’ampia sezione dedicata alle auto, un centro di documentazione in cui sarà fruibile un archivio informatico di fotografie e documenti storici, una sala cinematografica, uno spazio per mostre tematiche temporanee. Il Centro di documentazione avrà la funzione di raccolta, catalogazione e conservazione di materiale anche attraverso la costituzione di una biblioteca e di un archivio informatizzato nei quali sarà custodito il patrimonio documentale. Tale documentazione sarà costituita prevalentemente da volumi monografici, pubblicazioni periodiche specializzate, materiale fotografico, tesi di laurea, interviste, siti e risorse internet. La posa della prima pietra è prevista nell’aprile 2007, mentre l’inaugurazione del complesso per la primavera 2009. Il rapporto tra questo complesso e la Galleria Ferrari sarà di tipo complementare: opereranno in modo sinergico,si prevede addirittura l’emissione un ticket unico di ingresso che consentirà l’accesso ad entrambe le strutture, per valorizzare l’offerta turistica in tema di motori. Il presidente della Fondazione è Mauro Tedeschini, direttore di Quattroruote e il presidente onorario è l’ingegnere Piero Ferrari, vicepresidente della Ferrari.
213
fig. 25 studio Enzo Ferrari è chiuso in una vetrina e dall’esterno è possibile vedere coppe,
modellini di auto, cimeli della storia dell’azienda, il progetto per
la fabbrica di Maranello 19. Era il 16 novembre 1929 quando
Enzo Ferrari fondò la Scuderia Ferrari con lo scopo di far
partecipare alle competizioni automobilistiche i propri soci con
vetture Alfa Romeo. Tale attività agonistica continuò fino alla fine
del 1937 e all’inizio del 1938 Ferrari divenne Direttore dell’Alfa
Corse. Nel settembre 1939 si staccò dall’Alfa Romeo e fondò,
presso la vecchia sede della Scuderia, l’Auto Avio Costruzioni
Ferrari che aveva come principale attività la produzione di
rettificatrici oleodinamiche. Nonostante un impegno di non
concorrenza, che al momento del distacco dall’Alfa Romeo gli
precludeva per quattro anni la costruzione di automobili che
portassero il suo nome, l’azienda realizzò una vettura sportiva.
Era una spider 8, denominata 815, che partecipò alla Mille Miglia
del 1940. L’inizio della seconda guerra mondiale pose fine a ogni
19 Il primo insediamento Ferrari a Maranello risale al 1947 e l’edificio di ingresso è lo stesso di oggi.
214
attività sportiva. Alla fine del 1943 le officine furono trasferite da
Modena a Maranello, dove continuò la produzione delle
rettificatrici nonostante il bombardamento del 1944. Al termine
del conflitto ebbe inizio la progettazione e la costruzione della
prima vettura Ferrari; è la 125 Sport a 12 cilindri 20, ed è esposta
in questa parte della sala dedicata all’uomo Ferrari. Qualche
parola sulla nascita della 125: nel 1945 per i Gran Premi
automobilistici era in vigore una formula di gara basata sul peso
massimo delle vetture, esattamente kg. 750 a secco e senza
gomme. Questa formula consentiva la costruzione di veri e propri
“mostri” di eccezionale potenza come le Mercedes-Benz il cui
colore era quello dell’alluminio sverniciato poiché il geniale
direttore sportivo le aveva fatte raschiare per guadagnare anche
pochi chili di peso. Tuttavia questa formula era giunta al
massimo dello sfruttamento, e da molte parti, specie da parte
italiana, si chiedeva una nuova formula di gara che riportasse
l’accento più sulle soluzioni tecniche che sulla potenza bruta. Tra
coloro che più premevano in questa direzione c’era proprio Enzo
Ferrari, anche perché non era soddisfatto da una formula di gara
che era ormai dominata dalle macchine tedesche. « Colombo!
Voglio tornare a costruire automobili da corsa e non più delle
20 125ccx12 fa appunto 1500cc. La vettura fu, dunque, chiamata 125 per indicare la sua cilindrata ordinaria.
215
macchine utensili! Mi dica, come farebbe lei una millecinque?»21,
con queste parole Enzo Ferrari si rivolse al progettista Gioachino
Colombo per realizzare un nuovo motore. Colombo lesse nel
pensiero di Ferrari e propose una dodici cilindri che ai tempi
nessuno ancora aveva realizzato; seduto sotto un albero impostò
di getto il disegno della testata e continuò lo studio con un
tecnigrafo sistemato in camera da letto. L’esordio della 125 ebbe
luogo a Piacenza il giorno 11 maggio del 1947 pilotata da
Cortese, fu un «insuccesso promettente»22 come lo definì lo
stesso Ferrari, e dopo solo due settimane arrivò la prima vittoria
Ferrari al Gran Premio di Roma. Enzo Ferrari ha apposto la
seguente dedica sul testo di Colombo.
21 G.Colombo, Le origini del mito. Le memorie de progettista delle prime Ferrari, Sansoni, Firenze Roma, 1985, pag. 16 22 ivi. pag. 25
216
La 125 è stata infine anche la prima vettura che ebbe il marchio
del cavallino sul cofano, fu decisamente innovativa nella tecnica
e nel design ed armonizzò la prestazione sportiva con la grande
eleganza. Circa il cavallino rampante c’è una piccola storia da
raccontare. A Lugo Di Romagna23, un paese distante circa 35 km
da Bologna, il 9 maggio 1888 nacque il maggiore Francesco
23 A Lugo Di Romagna nacque anche l’ingegnere della Ducati Fabio Taglioni che intorno al 1956 chiese e ottenne di poter dipingere sulle moto il famoso cavallino. La prima moto con questo simbolo fu la 125 trialbero desmo, del 1956 appunto, che debuttò e vinse il Gran Premio di Svezia di quell’anno. Successivamente altre moto Ducati sfoggiarono il cavallino. Quando la direzione generale Ducati decise di ritirare per gli alti costi la squadra corse, sparì anche il cavallino dalle fiancate delle moto. Tra le rosse a due e a quattro ruote c’è un involontario trade union. Come ultima curiosità va detto che i cavallini adottati dalla Ferrari e dalla Ducati hanno la coda rivolta verso l’alto, mentre quello originale di Baracca aveva la coda rivolta verso il basso.
217
Baracca, un ufficiale di cavalleria che dopo lo scoppio del primo
conflitto mondiale decise di prendere il brevetto di pilota aereo.
Quando Baracca raggiunse la sua squadriglia, decise di
personalizzare il suo aeroplano dipingendo sulla fusoliera un
cavallo nero su una nuvola bianca.
fig. 26 F. Baracca con il suo aeroplano personalizzato Molti storici della prima guerra mondiale ritengono che Baracca
dipinse il cavallino non tanto per ricordare che era un ufficiale di
cavalleria, quanto per omaggiare il corpo di cavalleria alla quale
apparteneva, il 2° Piemonte Cavalleria. Infatti, lo stemma di
questa unità mostra un cavallino rampante argentato su campo
rosso.
fig. 27 lo stemma del 2° Piemonte Cavalleria a cui apparteneva F. Baracca
218
Nel 1923, cinque anni dopo la morte di Francesco Baracca, sua
madre, la contessa Paolina Biancoli, donò come portafortuna il
simbolo del figlio a Enzo Ferrari, che proprio nel 1923 corse il
Gran Premio di Lugo con la sua scuderia, allora equipaggiata da
vetture Alfa Romeo. A quell’epoca Ferrari non possedeva un
simbolo per la sua squadra, cosicché adottò il cavallino nero su
uno scudo giallo, sormontato da una striscia tricolore. Il colore
giallo rappresenta Modena, città natale di Ferrari. Il primo
dipendente della Ferrari, dunque, è stato lo stesso Enzo Ferrari.
Aveva la mentalità dello sperimentatore, del costruire pur
venendo dal niente, inoltre sapeva vendere, collocare, trovare
motivazioni finanziarie per ciò che aveva realizzato. E’ stato un
industriale che ha avuto il senso della partecipazione e del
legame, e proprio con le persone riusciva a far leva sulle
motivazioni profonde, intime, legate all’uomo e alle aspettative
personali. Ha avuto l’intelligenza di dare a ognuno uno stimolo,
una dimensione: insomma una propria collocazione. Nella sala
del piano terra sono esposte le automobili che hanno fatto la
storia della Ferrari sulle piste di tutto il mondo, dalla monoposto
con cui Froilan Gonzalez conquistò la prima vittoria nel
campionato del mondo del 1951 a Silverstone, fino alle ultime
auto plurivittoriose
219
fig. 28 M. Schumacher alla guida della F2004 di Michael Schumacher e Rubens Barrichello. Così la prima parte
della storia dell’azienda, strettamente legata al suo fondatore,
consegna il testimone a Luca Cordero di Montezemolo che,
continuando appunto il lavoro del fondatore e prendendo come
base i suoi principi come la continua innovazione e il coraggio di
affrontare le sfide apparentemente impossibili, ha saputo portare
la Ferrari a risultati mai conseguiti prima. Le monoposto
occupano una posizione di rilievo, dato che Ferrari è l’unico
costruttore che le produce autonomamente e inoltre le “rosse”
non hanno mai smesso di correre dal loro esordio nel 1947. Per
ogni auto c’è collocato di fianco un piccolo pannello di colore
rosso, con lo stemma del cavallino, sul quale è riportato il
modello, la cilindrata, la potenza massima e i giri realizzabili al
minuto. Altre auto esposte sono la 158 F1 pilotata da John
Surtees che vinse nella stagione 1963-1964; la f1 1989 pilotata
da Nigel Mansell; la Formula Indy del 1987 che non prese parte
ad alcuna competizione, ma rappresentò l’intenzione di Enzo
220
Ferrari di partecipare al campionato americano Indy 24.
L’esposizione della Galleria è dinamica e costantemente
rinnovata in alcune sue parti: ad esempio nell’autunno del 2005,
quando io ho visitato la Galleria, alla fine della sala del piano
terra su una sorta di tribuna c’era la mostra per Alberto Ascari, il
primo pilota che vinse un Campionato Mondiale con la Ferrari.
C’era la 815 Auto Avio Costruzioni, le monoposto 166 F2 e 500
F2, con cui Ascari vinse il titolo mondiale nel 1952 e nel 1953,
non mancavano i trofei più prestigiosi della sua carriera, alcuni
memorabilia quali il casco azzurro, gli occhiali, i guanti, la giacca
di pelle indossata durante la vittoriosa Mille Miglia. Attorno a
questa tribuna ci sono quattro rampe di scale che portano al
primo piano dedicato all’innovazione tecnologica, ossia alle
innovazioni tecniche e aerodinamiche trasferite dalle vetture di
F1 alle Granturismo. Tra le vetture esposte, di particolare
interesse sono la F50 (1995) e la 360 Modena (1999). Sono
esposti inoltre motori sperimentali,una rappresentazione della
Galleria del Vento con i modelli delle F1 utilizzati per gli studi
aerodinamici delle monoposto che hanno corso dal 1981 ad oggi,
nonché una selezione dei componenti che esemplificano il
trasferimento tecnologico dalle vetture di F1 alle vetture stradali.
Un altro pezzo rilevante di questa sala è la raccolta completa di
24 AA, VV, Turismo industriale in Italia,TCI, Milano, 2003, pag. 117
221
motori storici di F1 dal 1989 ad oggi e l’esposizione dei cambi di
velocità inventati da Ferrari nel 1989 e utilizzati oggi da tutte le
squadre. Un piccolo passo indietro, per chiederci che cos’è quel
“vento di Ferrari”? Cos’è la Galleria del Vento? Nel 1996
l’architetto Renzo Piano con la collaborazione del filosofo
Gianfranco Dioguardi, vinse il concorso per il progetto per la
Galleria del Vento. La gara era stata indetta dallo stesso Luca di
Montezemolo, consapevole che i quasi vent’anni di insuccesso
sportivo dovevano dipendere da una cronica carenza in campo
aerodinamico delle vetture di casa Ferrari. Diventava così
imprescindibile la costruzione di un nuovo impianto di ricerca
superiore a quelli della concorrenza. Montezemolo, in occasione
dell’inaugurazione del complesso disse: « …è la prima tessera di
una cittadella tecnologica che sorgerà a Maranello »25. Una
analisi, seppur breve, di questa galleria deve necessariamente
svilupparsi su due piani interpretativi: uno estetico -
ingegneristico, l’altro estetico - semantico. La pianura padana
storicamente è sempre stata palcoscenico di opere
ingegneristiche, talvolta suggerite solo dalla necessità, come i
grandi depositi per la raccolta di fieno o i caselli per la
stagionatura del grana, autentici gioielli di fisica ambientale, altre
invece sono nate in seguito ad una analisi progettuale come i
25 www.age.it
222
grandi ponti sul fiume Po, le opere di bonifica e di controllo delle
acque. Comune denominatore di tutta questa produzione era ed
è l’ostentata messa in scena delle forme, così che la valle del Po
si presenta come la terra dell’impatto ambientale e della
razionalità dell’uomo. Renzo Piano non ha abbandonato questa
tradizione padana, e nella Galleria del Vento ha esaltato la
tecnologia della stessa rendendola manifesta e visibile nel verde
della campagna.
fig. 29 esterno della Galleria del Vento Si presenta come un enorme tubo, rivestito di alluminio satinato,
che poggia su di una collina per creare un effetto ancora più
spettacolare; è lunga 80 metri e larga 70. L’ascensore interno è
in grado di trasportare una vettura intera per le prove in scala
1:1 e il flusso d’aria, sparato tramite un condotto verso la sala
prove, è generato da un ventilatore a otto pale del diametro di
cinque metri. L’Italia, grazie a Modena, possiede oggi il più
moderno e avveniristico impianto di ricerca aerodinamica al
mondo: non esiste nulla di simile in Giappone né in Europa,
mentre in America la General Motors si appresta ora a costruirne
uno simile a quello di Maranello. Dal punto di vista estetico-
223
semantico la galleria trascende, pur facendovi chiaro riferimento,
sia il cubismo, perché supera ogni descrizione tradizionale delle
cose e indaga le strutture aggiungendo a ciò che l’occhio
percepisce ciò che la mente intuisce, che il futurismo, «perché
non è …più un momento fermato del dinamismo universale…ma
decisamente la sensazione dinamica eternata come tale »26. La
Galleria del Vento, dunque, non nasce da una statica visione
prospettica dell’insieme, ma dalla dinamicità dei punti di vista.
Ritorniamo nella sala: c’è una sorta di grande occhio dal quale è
possibile vedere la scuderia del piano inferiore. Da questa sala,
che è direttamente sopra l’ingresso, si accede alla nuova sala
espositiva che comprende una grande vetrina con una serie di
volanti Ferrari che vanno da quelli in legno anni ’50 fino a quelli
attuali simili ad un computer al servizio del pilota. Qui è
finalmente possibile sedersi: ci sono divanetti rigorosamente
rossi. A questa nuova sala è annessa una seconda destinata a
mostre fotografiche o a proiezioni sui più bei film sulla Ferrari27 e
l’anfiteatro, il cui spazio è fortemente scenografico, che ospita
esposizioni a tema che vengono rinnovate ogni 6-8 mesi.
26 ibidem 27 Ai tempi della mia visita in questa sala proiettavano un lungometraggio sui momenti più emozionanti delle corse di Ascari.
224
fig. 29 parte dell’anfiteatro con la mostra sui 12 cilindri Nel 2002, in occasione del cinquantesimo anniversario della
produzione della 250MM, considerata una pietra miliare per la
casa di Maranello e primo modello della 250GT, la mostra è stata
dedicata a questa serie di vetture di grande rilievo storico,
stilistico e agonistico. Quando ho visitato la Galleria Ferrari
l’anfiteatro ospitava la mostra sui motori 12 cilindri. Scendendo
le scale si conclude la visita ritornando nell’area di ingresso.
Devo dire che alla fine della visita la stanchezza si fa sentire. Si
sale, si scende, si gira tra le auto, la temperatura inoltre, escluso
l’anfiteatro, è fin troppo alta. Il pubblico, merito anche
dell’architetto Massimo Iosa Ghini che ha pensato una struttura
fluida, leggera e dinamica, è libero di muoversi come vuole, di
soffermarsi quanto vuole e di ritornare su ciò che più gli è
piaciuto. Tuttavia a mio avviso c’è un limite: ”stordisce” sul piano
della comprensione del percorso. Sarebbe interessante, alla fine
della visita, chiedere ai visitatori di parlare di quello che hanno
visto; io credo che non si colga con chiarezza l’organizzazione
225
della Galleria. Credo insomma che l’apparato didattico sia esile:
niente ad esempio racconta la storia della 125, e se sono indicate
le caratteristiche per le singole auto, manca però un filo per
unificare tutto il racconto. Sull’anfiteatro, ad esempio, si
potrebbe scrivere un pannello per raccontare che è stato annesso
dal 2004 e che ospita mostre a tema, allo stesso modo per la
sala delle proiezioni, anche poche parole per introdurre
l’argomento dei filmati e per associare qualche parola alle
immagini.
V. 2 Ferrari e poi
La Galleria Ferrari è stata inaugurata nel febbraio del 1990 e fino
al 1995 è stata gestita dal Comune di Maranello che è anche
proprietario dell’immobile. Dal 1995, pur rimanendo di proprietà
del Comune, è gestita direttamente dall’azienda che l’ha resa il
luogo dove passato, presente, futuro, si fondono restituendo al
visitatore il fascino intatto del mito e della storia. Ad ottobre
2004 è stata inaugurata una nuova ala della Galleria (quella che
attualmente comprende l’anfiteatro) che ha portato la superficie
totale dai precedenti 1700 mq agli attuali 2500mq rendendo
possibile l’attuale divisione nelle quattro aree sopra descritte: la
226
sezione dedicata a Enzo Ferrari, con qualche auto storica, e al
mito creato dal fondatore; poi le monoposto di Formula Uno che
testimoniano i successi sportivi e commerciali ottenuti dal
presidente Luca Cordero di Montezemolo; infine l’innovazione
tecnologica e le mostre a tema. L’organizzazione dello spazio
espositivo rispecchia lo spirito dell’azienda: progredire,
migliorarsi e affrontare nuove sfide, consapevoli che la vettura
migliore è quella che deve essere ancora costruita, come
sosteneva Enzo Ferrari. La Galleria è aperta tutti i giorni dalle
9:30 alle 18:00, l’ingresso è a pagamento e costa € 12 come
biglietto intero, € 8 per i bambini da 6-10 anni,e €10 per i soci
Ferrari Club,studenti e over 65. Su richiesta e a pagamento è
possibile chiedere la visita guidata in inglese, francese, tedesco,
spagnolo. E’ situata a trecento metri dallo stabilimento Ferrari e
dalla pista di Fiorano che appartiene alla Ferrari ed è utilizzata
per testare le monoposto. L’impegno costante della Galleria, che
esercita un richiamo su circa 180.000 appassionati ogni anno e
alimenta il flusso turistico e il beneficio del territorio, è quello di
offrire una risposta sempre più completa alle aspettative del
proprio pubblico, attraverso un allestimento dinamico e curato,
con la creazione di nuovi servizi e la concretizzazione di idee
originali. Nell’arco dell’anno l’esposizione viene continuamente
aggiornata, attraverso la rotazione dei modelli che sono
227
patrimonio della Galleria e attingendo anche dalle collezioni
private, anche estere, per l’allestimento di mostre a tema
temporanee. Inoltre la visita in Galleria non è importante
esclusivamente per conoscere la storia dell’azienda, ma anche
per ripercorrere le tappe fondamentali dello sviluppo
dell’industria automobilistica per la quale Ferrari, nei suoi 58 anni
di attività, ha contribuito in maniera significativa in termini di
innovazione tecnologica, sicurezza e affidabilità. A Maranello
Ferrari è profondo motivo di orgoglio per tutti; gli uomini in rosso
camminano per strada, bandiere rosse ovunque, bar che si
chiamano pit stop in cui anche il barista, mentre ti prepara il
caffè, ti racconta con piacere quello che lui conosce della Ferrari.
Anche durante questa visita ho prestato attenzione ai visitatori e,
oltre ad essere l’unica italiana, mi sono accorta che nessuno,
come al Museo Ducati, era annoiato: forse per la tipologia
dell’oggetto esposto, forse perché i tradizionali lunghi pannelli da
leggere sono quasi assenti e visivamente è più piacevole vedere
foto, monitor con immagini oppure leggere breve cartellini con le
caratteristiche tecniche delle auto. Sono sicuramente visitatori
che palpitano per un rapporto empatico con la “rossa”, e si
curano meno della storia che c’è dietro. Il visitatore medio infatti
visita la Galleria perché il marchio è sinonimo di Gp e di vittoria,
e la storia che ha permesso all’azienda di affermarsi negli anni
228
non gioca sempre il ruolo di protagonista. Gianni Cicali, in un
articolo dal titolo L’oggetto fa il museo. La Galleria Ferrari a
Maranello, pubblicato il 07/01/2005 sul sito
www.drammaturgia.it, scrive che oggi ci sono musei, privi di una
struttura architettonica eclatante o geniale, che sono fatti dagli
oggetti esposti. E’ questo il caso della Galleria, che espone
meravigliose automobili che «associano la potenza, l’aggressività
a una gentile eleganza mai stucchevole, spia di un’origine
“agraria” che quasi coincide con il mito della velocità proposto
dai futuristi»28. Le Ferrari sono oggetti in cui le esigenze
strutturali e funzionali riescono a coniugarsi con un fine di
bellezza esteriore e tuttavia non suscitano mai invidia ma
ammirazione. « La Ferrari e le Ferrari sono eccezionali perché ci
lavorano persone eccezionali » queste sono le parole del
presidente Montezemolo in concomitanza della presentazione
della F2002, e in una intervista rilasciata il 7 febbraio 2003 a
Giancarlo Gioielli per Excalibur, il programma di Rai2, ha ribadito
che la capacità di lavoro, la creatività e l’ingegno sono le
maggiori risorse del popolo italiano. I successi Ferrari sono,
dunque, merito anche della strategia di Montezemolo, che ha
preso vita nel gennaio del 1992, e che è consistita nella radicale
riorganizzazione strutturale dell’azienda, assegnando precise
28 www.drammaturgia.it; G.Cicali, L’oggetto fa il museo. La Galleria Ferrari a Maranello, pubblicato il 7/01/2005
229
responsabilità e razionalizzando le mansioni di tutti i
collaboratori. Nel 1993 cominciò il profondo rinnovamento
organizzativo basato sul modello importato della lean production,
la cosiddetta produzione snella che consentiva di ridurre le scorte
e di creare le condizioni per la valorizzazione delle risorse
umane. Al centro di tutto il processo Montezemolo pone l’uomo,
insostituibile bagaglio di conoscenza, affinché siano pienamente
sfruttati i vantaggi dell’integrazione della tecnologia con il
sistema azienda. Ciascun componente della squadra formata da
Montezemolo deve godere di un adeguato spazio decisionale e
operativo, anche se il suo punto di riferimento è il gruppo, il
gioco di squadra. La “cura” imposta da Montezemolo mira a
definire in modo capillare la nuova politica aziendale, i cui
obiettivi sono legati alla qualità, all’attenzione per i dettagli, allo
spirito e all’armonia del team, al miglioramento continuativo.
Montezemolo volle conferire piena visibilità all’esterno di tutto il
lavoro svolto con successo assieme ai suoi validi collaboratori e
così nel 1996 il sistema qualità della Ferrari ottenne la
certificazione in conformità alla norma ISO 9002 29. Nel 1997
Montezemolo inaugurò il progetto in più fasi denominato Formula
Uomo, atto a rinnovare gli stabilimenti Ferrari per realizzare un
ambiente di lavoro in grado di porre i dipendenti nelle migliori
29 Nel 2001 la certificazione ISO incluse le attività di progettazione e la produzione di auto da corsa.
230
condizioni operative. L’obiettivo era quello di costruire un vero e
proprio Villaggio Ferrari nel quale ogni elemento fosse concepito
per rafforzare, anche architettonicamente, il rapporto tra attività
e risultato, all’interno del quale l’uomo fosse sempre al centro del
processo e attorno al quale far ruotare tutto il rinnovamento
strutturale. La prima tappa di questo percorso è stata la Galleria
del Vento, la seconda fase ha visto la costruzione di una nuova
officina meccanica e la realizzazione di una nuova logistica per la
movimentazione delle auto e delle attrezzature per la Formula 1.
Da sottolineare la costante attenzione rivolta agli aspetti
ambientali, alla sicurezza e al comfort dei luoghi di lavoro, molto
curati grazie all’integrazione dei fabbricati industriali realizzati
con la bioarchitettura. Le parole di Montezemolo al riguardo sono
sempre eloquenti «Per costruire prodotti eccezionali c’è bisogno
di persone eccezionali che siano messi in grado di operare in un
ambiente di lavoro eccellente. Questo accade in Ferrari, dove
tutti lavorano come parte dello stesso team e dove cultura e
tradizione si fondono con il futuro e con l’innovazione; questo è
ciò che rende la Ferrari una delle aziende più prestigiose del
mondo»30. Infine nel 1999 al progetto Formula Uomo si è
affiancato il progetto Formula Benessere per consentire a tutti i
dipendenti di sottoporsi gratuitamente a visite medico-sportive e
30 stajano.deis.unibo.it; pagg. 5-6
231
di frequentare centri fitness per praticare attività fisica. Il credo
di Montezemolo è presto riassunto in quattro aspetti
fondamentali: la creatività, l’innovazione, lo sguardo aperto sul
mondo in cui viviamo e l’umiltà necessaria per imparare
qualcosa. Tutto accompagnato dalla consapevolezza che il
successo non è mai opera di un solo uomo, ma dei suoi
collaboratori e di una perfetta organizzazione di lavoro.
Montezemolo ha conservato l’eredità di Enzo Ferrari, ma senza
lasciarsi opprimere da un passato così ingombrante lo ha
“tradito” nel senso che è andato oltre e ha superato i suoi
modelli organizzativi e soprattutto quei modelli di leadership.
Anche queste scelte hanno contribuito alla longevità dell’azienda.
La Ferrari ha superato crisi anche gravi, ma soprattutto è
sopravvissuta al suo fondatore. Il modello di Enzo Ferrari, detto
modello “drake”, non avrebbe consentito di superare la crisi dei
quaranta anni. Paul Sange afferma che « non è più possibile
calcolare dall’alto e obbligare tutti ad eseguire gli ordini di un
grande stratega. In futuro le organizzazioni che riusciranno
effettivamente ad eccellere saranno quelle che avranno scoperto
come utilizzare l’impegno dei singoli e la capacità di apprendere
a tutti i loro livelli »31. Il drake era uno stile fatto di gesti e di
parole, destinati a restare per sempre impressi nelle menti di chi
31 ivi. pag. 18
232
lo ha conosciuto e dei dipendenti della Ferrari. Montezemolo è
invece un uomo carismatico, intelligente e coinvolgente, in grado
di fare gruppo e di tenere alto il morale della sua squadra di
fidati collaboratori anche nei momenti più difficili. Ha saputo
creare una squadra perfetta e, come lui stesso ha dichiarato
all’inizio della stagione 2002, squadra vincente non si cambia.
Aveva dunque ben ragione Schumpeter quando osservava che «
ogni impresa che continui a essere semplicemente gestita e
amministrata, sia pure con la massima competenza, se non si
trasforma continuamente e non si adatta a nuovi compiti e a
nuove situazioni, perde col tempo qualsiasi significato e alla fine
è destinata scomparire »32, e così colui che introduce
innovazione si chiama imprenditore, ed è ancora Schumpeter a
proporre una distinzione chiarificatrice, « ma è particolarmente
importante distinguere l’imprenditore dall’«inventore». Molti
inventori sono diventati imprenditori e la relativa frequenza del
caso è senza dubbio un argomento d’indagine interessante, ma
non c’è alcun nesso tra le due funzioni. L’inventore produce idee,
l’imprenditore fa fare cose »33. Infine scrive sempre Schumpeter
« l’imprenditorialità, quale è definita, consiste essenzialmente nel
fare cose che non sono generalmente fatte nella normale routine
32 cit in G.Dioguardi, La natura dell’impresa fra organizzazione e cultura, Laterza, Bari, 1996, pag. 15 33 ibidem
233
economica, essa individua un fenomeno che cade sotto il più
ampio aspetto della leadership. Ma questa relazione tra
imprenditorialità e leadership generale è molto complessa e
provoca non pochi malintesi »34. L’imprenditore sviluppa il
processo di produzione come effetto di un fenomeno di
coordinamento dei fattori produttivi, organizzandolo sulla base
della divisione del lavoro. Tutto ciò implica il concetto di «
organizzazione »35 che diviene fondamentale per attuare in
pratica la concezione di impresa particolarmente quando questa
si sviluppa ingrandendosi. Tale organizzazione si manifesta come
conoscenza destinata a trasformarsi in cultura di impresa. Credo,
dunque, che Ferrari sia un’azienda con una “straordinaria vetrina
di F1”, un’azienda di fama mondiale, che è anche e soprattutto
un modello di organizzazione per le altre aziende italiane e
straniere. Infine, ma non meno importante, credo che sia
un’azienda consapevole del patrimonio di cui è portatrice, tanto
da sottrarlo all’oblio e da valorizzarlo in una Galleria che esalta “
l’evoluzione della specie “ dalle prime alle attuali vetture, e i podi
riconquistati dopo anni di sconfitte. Il patrimonio comprende
anche le storie di uomini che trasmettono valori e suggeriscono
modelli di azione in maniera molto persuasiva. Non a caso una
parola che lega spesso in binomio con Ferrari è mito: la
34 ibidem 35 ivi. pag. 23
234
mitologia, diceva Platone (Repubblica, 392a) è il «racconto
intorno a dèi, essere divini, eroi e discese nell’aldilà»36. Da
questo punto di vista i miti potrebbero essere proprio le storie di
cui le organizzazioni sono spesso intessute e che, se non parlano
di dèi, spesso narrano di uomini e delle loro imprese. Le storie
possono agire nel senso che comunicano presupposti o valori che
arricchiscono ciò che i partecipanti vedono, credono e pensano.
VI. Museo Lamborghini
36 B. Bolognini, Il mito come espressione dei valori organizzativi e come fattore strutturale, sta in, P. Gagliardi, Le imprese come culture, ISEDI, Torino, 1995, pag. 86.
235
fig. 30 ingresso
VI. 1 Il museo della casa del toro Fra Bologna e Modena, in quel minuscolo triangolo della pianura padana giustamente definito “Terra dei motori” 37, affacciato
sulla Via Modena come un vero e proprio biglietto da visita del
nuovo stabilimento della casa del toro a Sant’Agata Bolognese, il
Museo Lamborghini è la concreta testimonianza della grande
tradizione di questo marchio. Predisposto su due piani a vista,
avvolto da una grande superficie vetrata, lascia intravedere ciò
che vi è esposto sin dalla strada. Il museo collocato all’interno
37 www.lamborghini.com/museo
236
degli stabilimenti Lamborghini, espone a rotazione le automobili
che testimoniano le diverse stagioni che l’azienda ha vissuto
dagli anni sessanta ad oggi. Una storia che è illustrata anche da
numerose fotografie, pannelli e modellini provenienti da tutto il
mondo.
fig. 31 piano terra modellini delle auto prodotte
Al piano terra, infatti, una lunga sfilata di fotografie - aperta dal
profilo di Ferruccio Lamborghini - riassume al visitatore le fasi
più significative dell’azienda.
237
fig. 32 pannello con foto Ferruccio Lamborghini ( Renazzo di Cento, 28 aprile 1916 –
Perugia, 20 febbraio 1993 ), nato sotto il segno del toro 38, abile
e impetuoso è stato il vero protagonista della nascita
dell’azienda, delle sue fasi iniziali e della suo straordinario
successo. La sua passione per i motori e per le macchine lo portò
a Bologna per studiare ingegneria meccanica. Durante la seconda
guerra mondiale trovò l’opportunità di sperimentare le sue doti
meccaniche come tecnico riparatore presso l’Aeronautica Militare
Italiana. Negli anni quaranta la crescente domanda di trattori da
parte del mercato italiano spinse Ferruccio, vista l’esperienza
acquisita nelle riparazioni, ad intraprendere la carriera di
38 L’origine del logo aziendale con il toro in atto di caricare, che allude alla caratteristica aggressività delle vetture, è legata alla data di nascita di Ferruccio Lamborghini. Nel calendario zodiacale infatti il 28 aprile cade sotto questo segno. La storia imprenditoriale ed umana di Ferruccio è più ampiamente raccontata nel Museo “F. Lamborghini” situato a Dosso, in provincia di Ferrara, all’interno dell’omonimo centro polifunzionale. I materiali, foto, recensioni giornalistiche, modelli della produzione industriale, sono stati raccolti dal figlio Tonino per documentare l’esperienza paterna. Il museo è una testimonianza dell’influenza che il nome Lamborghini ha avuto e ha nel panorama industriale “made in Italy”.
238
imprenditore nella produzione di questi ultimi: comprava veicoli
militari avanzati dalla guerra e li trasformava in macchine
agricole. Nel 1948 a Pieve di Cento nacque la Lamborghini
trattori; soltanto tre anni dopo la guerra, questa azienda era
capace di progettare e costruire da sola i suoi trattori e già nel
corso degli anni cinquanta e sessanta divenne una delle più
importanti aziende costruttrici di macchine agricole in Italia.
Seguì la produzione di bruciatori a nafta e di condizionatori, fin
quando nel 1959 la passione e la competenza tecnica del
fondatore del nuovo marchio si spinsero fino a concepire la
produzione di elicotteri. Il governo però non concesse
l’autorizzazione a tale attività e Lamborghini ripiegò sulla
produzione di vetture sportive. La leggenda racconta che l’idea di
produrre macchine sportive maturò dopo una discussione con
Enzo Ferrari. Lamborghini si presentò a Ferrari, che come faceva
di consueto con i propri visitatori lo fece aspettare in sala
d’attesa per ore ed ore, per lamentarsi del funzionamento del
cambio sulla sua Ferrari appena acquistata e per dare consigli su
come migliorarlo. Le parole di risposta di Enzo Ferrari sarebbero
state « Tu continua a costruire trattori e a me lascia costruire le
mie macchine sportive »39. Ufficialmente la storia della
“Lamborghini Automobili” inizia nel 1963. Quando decise di
39 it.wikipedia.it
239
impegnarsi nella costruzione di automobili sportive di lusso
Ferruccio era un uomo molto ricco, la fabbrica di trattori e le
altre attività gli avevano permesso di raggiungere il successo
economico al momento giusto, e prima di raggiungere la soglia
dei cinquant’anni. All’inizio degli anni sessanta, quindi,
Lamborghini era un uomo di successo, forte e dalle idee chiare,
ma quando disse che avrebbe fabbricato un’automobile
supersportiva con cui fare concorrenza alla Ferrari, molti
pensarono che fosse impazzito. Costruire un’auto del genere era
vista come un’inspiegabile stravaganza, un pericoloso tuffo nel
buio, qualcosa che avrebbe mangiato denaro senza restituire
alcun profitto. In realtà Lamborghini aveva già fatto i suoi conti,
e come sempre, li aveva fatti molto bene: « aveva smontato le
sue automobili di prestigio, quelle che aveva acquistato per suo
uso personale e aveva scoperto che alcuni dei pezzi di ricambio
di queste auto erano esattamente quelli che lui utilizzava nei suoi
trattori, ma una volta montati su quelle auto costavano il triplo:
il ricarico dei fabbricanti era evidentemente enorme »40, « se
l’uomo Ferruccio poteva essere puntiglioso al punto di litigare
con Ferrari, l’industriale Lamborghini pensava già a enormi
margini di guadagno, a ciò che si poteva realizzare con questa
40 S.Pasini, The collection, Editrice Compositori, Bologna, 2003, pag. 8
240
impresa, al di là del puro e semplice prestigio »41. Messosi a
lavorare al progetto, alla fine del 1962 acquistò un grande
terreno a Sant’Agata Bolognese, a circa 25Km dal capoluogo
emiliano, per costruire ex novo una grande e modernissima
fabbrica. Nel maggio del 1963 costituiva la società “Automobili
Ferruccio Lamborghini”. Il primo modello nacque con tutta la
fretta del caso, dal momento che solo pochi mesi separavano la
decisione di costruire la fabbrica e la data fissata per la sua
presentazione ufficiale. L’appuntamento scelto era quello,
tradizionale all’epoca, del Salone dell’Automobile di Torino, in
programma all’inizio del mese di novembre del 1963. Avendo
Lamborghini idee molto chiare potè evitare di perdere tempo nel
cercare gli uomini giusti: affidò il motore a Giotto Bizzarrini che
aveva firmato alcuni degli ultimi motori della Ferrari, mentre per
il resto della vettura e per l’avviamento della produzione assunse
due giovani ingegneri molto promettenti: Gianpaolo Dallara e
Gianpaolo Stanzani. All’epoca avevano cinquant’anni in due, ma
erano bravi, appassionati e con un feeling istintivo per « le auto
di razza »42. Il tempo era poco ma l’impegno fu notevole e così la
350 Gtv, quando venne presentata, era già un capolavoro,
soprattutto per la parte meccanica. Risultò meno indovinata la
carrozzeria disegnata da Franco Scaglione: l’incredibile muso
41 ibidem 42 ivi, pag. 10
241
puntuto, il lunghissimo lunotto posteriore caratteristico della
matita dello stilista riduceva l’apertura del cofano del bagagliaio,
fig. 33 la 350gtv è esposta all’ingresso del museo mentre era evidente un trattamento complessivo delle superfici
e dei dettagli degno più di un prototipo da salone che di
un’automobile da mettere in produzione. L’arrivo della
Lamborghini in un mercato ristretto ma assolutamente
concorrenziale, fino ad allora diviso fra Ferrari, Maserati, Jaguar
e pochissimi altri, generò un certo clamore. La prima mossa del
nostro appena ebbe capito che le reazioni alla carrozzeria di
Scaglione erano state piuttosto fredde, fu di affidare una
completa revisione di questo disegno, per renderlo più appetibile
al pubblico, alla celebre carrozzeria Touring di Milano. Le
modifiche apportate da Felice Bianchi Anderloni al disegno
originale crearono una linea che è diventata un classico; era nata
la 350gt di cui il Museo Lamborghini conserva un esemplare
242
perfetto. Ai tempi tuttavia non molti avevano il coraggio di
abbandonare le marche più conosciute e affermate come Ferrari
o Maserati, ma alcuni giornalisti apprezzarono subito la nuova
auto, ed espressero senza troppe incertezze il loro entusiasmo.
Henry Manney III, uno dei migliori giornalisti americani, sulla
rivista “Care” del luglio 1965 scrisse che « questa automobile
avrebbe fatto venire mal di testa alla Ferrari »43 e che « la
Lamborghini è l’automobile sportiva più desiderabile che io abbia
mai guidato »44. Complimenti non di poco conto, considerato che
Manney all’epoca era corrispondente di numerosi e prestigiosi
giornali americani e inglesi, era cliente Ferrari e possedeva una
250 gto. Nel 1965 arrivò il primo vero capolavoro Lamborghini,
sinuosa, arrogante, alta 105 cm dal suolo, al punto che entrare e
uscire era quasi un esercizio ginnico, disegnata da Marcello
Gandino, realizzata dalla carrozzeria Bertone: è la Miura, ed è
43 ivi ,pag. 14 44 ibidem
243
ovviamente esposta al piano inferiore del museo. Il nostro non
fig. 34 miura
volle mai rivelare che cosa gli avesse suggerito l’analogia con
questa razza straordinaria e fortissima di tori, che è un mito della
tauromachia spagnola. Ma a lui, nato - come abbiamo appena
ricordato - sotto il segno del toro e che da questo segno aveva
ricavato l’orgoglioso blasone di tutte le sue attività industriali,
chiamare un’automobile con il nome di un esemplare da
combattimento doveva venire naturale. Quello che può
sorprendere è che, considerando il nome per la sua prima
automobile di grande impatto mondiale, egli ne scegliesse
istintivamente uno particolarmente indicato. I Miura, secondo gli
intenditori, sono i tori più forti, ma soprattutto i più intelligenti e
cattivi, fra tutti i tori da combattimento. La Miura fu presentata
al Salone di Ginevra nel 1966 e, malgrado il lavoro frenetico e
244
punteggiato da intoppi, « per quell’incrocio di forze positive che
ogni tanto benedice il lavoro degli uomini e lo eleva a un livello
superiore a quello della routine di tutti i giorni, tutto andò per il
verso giusto »45. A Ginevra la Miura fu la regina incontrastata del
Salone, e gli ordini iniziarono immediatamente a piovere sulla
scrivania di Ferruccio. Il 1967 fu l’anno di messa in produzione
del modello, diventato rapidamente un simbolo della voglia di
vivere e della libertà di viaggiare che caratterizzava quel
momento. Con i suoi 230 km all’ora era l’auto perfetta per quelle
autostrade appena costruite, diritte, vuote e prive di limiti di
velocità. In quegli anni esplose anche la moda della minigonna, e
la Miura con la sua personalità esplosiva e carnale si
accompagnava perfettamente a quella rivoluzione nel modo di
vestire e di pensare, diventando così parte di un’epoca come i
suoi colori senza pari. Il 16 febbraio 1968 ci fu la presentazione
ufficiale alla stampa della Jslero. Era una auto del tutto degna del
prestigioso marchio, con un interno sempre più confortevole e
rifinito. Tuttavia la clientela Lamborghini era abituata agli eccessi
stilistici della Miura, e così le vendite della Jslero risultarono
relativamente modeste. Diverso successo ottenne, sempre nel
1968, la Espada: una strabiliante automobile a due porte, con
motore anteriore e con quattro veri posti comodi. La formula
45 ivi, pag. 21
245
della Espada era decisamente convincente e gli ordini arrivarono
cospicui. Figlie degli anni settanta furono i modelli Jarama e
Urraco. Nel 1971 la Lamborghini era all’apice del successo. In
meno di otto anni Ferruccio aveva raggiunto il suo scopo: creare
una fabbrica di automobili non solo conosciuta in tutto il mondo,
ma anche capace di diventare una vera e propria leggenda. Le
sue automobili raggiunsero uno status tale da fare concorrenza
alle rosse di Maranello, pur non avendo egli mai voluto investire
nelle corse. Lamborghini infatti non credeva che le corse
aiutassero a migliorare le automobili sportive, né le vendite. Al
Salone di Ginevra nel 1971 fu presentata la LP 500 più nota
come Countach; un’auto spettacolare, straordinaria,
rivoluzionaria, il muso sottile e aggressivo, il parabrezza piatto
testimoniavano un concetto stilistico innovativo e completamente
inedito che ribaltava tutto ciò che si era fatto fino a quel
momento. In quegli anni tuttavia attorno a Lamborghini
cambiava in modo sfavorevole la situazione socio-economica, sia
nazionale che internazionale. Le grandi agitazioni sindacali
crearono una difficile situazione all’interno delle fabbriche, e
l’organizzazione del lavoro divenne sempre più difficile. Per
Lamborghini, abituato ad una gestione diretta, questa situazione
divenne intollerabile e così nel 1972 decise di uscire di scena,
vendendo il pacchetto di maggioranza delle sue azioni allo
246
svizzero Georges-Henry Rossetti, e l’anno dopo anche il restante
delle sue azioni. La crisi petrolifera del 1973, iniziata con la
guerra fra arabi e israeliani creò un alone di paura attorno ai
rifornimenti di carburante, e le grosse vetture supersportive
correvano il rischio di divenire oggetti fuori moda perché ritenute
espressione di un lusso ingiustificabile, e di uno sfruttamento non
più accettabile di troppe risorse naturali del nostro pianeta.
Inoltre furono introdotti i limiti di velocità e le domeniche senza
automobili, e l’effetto fu devastante per i costruttori di automobili
sportive; la Lamborghini in particolare, a causa della sua
collocazione nel segmento estremo delle superautomobili, venne
colpita in maniera dura e reagì come potè. La diminuzione delle
vendite portò per necessità la razionalizzazione della gamma di
produzione, e si cercò anche qualche collaborazione esterna per
utilizzare al meglio gli impianti che, a causa della crisi delle
vendite, rimanevano in larga parte inattivi. Tra le collaborazioni
esterne fu significativa quella del 1976 con la BMW Motorsport e
quella del 1980 con i fratelli Mimran, ricchissimi proprietari di un
impero dello zucchero in Senegal e appassionati di automobili
sportive. Decisero di insistere sulla linea fuoristrada ad alte
prestazioni che per l’epoca era sicuramente innovativa, e così
spostarono il motore davanti all’abitacolo e nacque il prototipo
LMA, una sigla che molto probabilmente stava ad indicare
247
Lamborghini Motore Anteriore. Al piano terra del museo,
ovviamente, è possibile vederlo. Salendo al primo piano
l’atmosfera cambia divenendo più moderna, infatti si tratta del «
piano diablo » 46. Nel 1987, come un fulmine a ciel sereno,
uscirono di scena i fratelli Mimran e arrivò l’americana Chrysler a
Sant’Agata per acquistare la Nuova Automobili Lamborghini
S.p.A. Fino a quel momento la storia della Lamborghini era stata
caratterizzata dalla costruzione di auto sportive che non avevano
bisogno di attingere all’esperienza suggestiva ma molto costosa
di un “reparto corse”; con l’arrivo della Chrysler tutto questo
cambiò. Quando nel 1987 il team francese di Formula 1
Larrousse propose all’ingegnere Forghieri, già progettista delle
migliori Ferrari negli anni sessanta e settanta, di realizzare un
nuovo motore, egli si rivolse proprio alla Lamborghini
proponendo di realizzare insieme il nuovo progetto. La Chrysler
concesse l’approvazione e l’arrivo di una nuova casa nel mondo
della Formula 1 rappresentò una novità importante: il motore
realizzato mostrava potenzialità elevate, e persino una squadra
blasonata come la Lotus richiese la fornitura di motori
Lamborghini per la stagione successiva. Nella stagione del 1990
le squadre con motore Lamborghini raggiunsero buoni risultati,
tanto che la casa modenese ricevette commissioni da un ricco
46 www.lamborghini.com/museo
248
uomo d’affari messicano per la produzione dell’intera automobile.
Il nuovo prototipo fu iscritto al campionato mondiale del 1991,
ma il finanziatore messicano scomparve misteriosamente, e non
se ne sono mai più avute notizie, e nacque il serio problema del
finanziamento della squadra. Un industriale italiano colmò la
lacuna e l’automobile partecipò come Team Modena al
campionato mondiale di quell’anno. Al primo piano del museo
fig. 35 modelli monoposto al primo piano. Dalla finestra grigia sulla parete è possibile vedere lo stabilimento è possibile ammirare queste belle monoposto. Fu tuttavia
un’occasione mancata, e la stagione di Formula 1 si chiuse con il
definitivo ritiro della casa di Sant’Agata dal campionato
mondiale; i problemi durante quella stagione non mancarono, i
finanziamenti non furono sufficienti alla loro risoluzione e la
Chrysler negò inspiegabilmente ogni forma di supporto. Con il
1992 la Lamborghini ritornò ad essere un fornitore di motore per
le squadre Larrousse e Minardi. Le interferenze americane
249
causarono ritardi nella presentazione di un modello che
celebrasse i venticinque anni di vita della casa del toro. Tale
celebrazione avvenne in ritardo con la presentazione nel 1990 di
un modello che fu l’erede della Countach; era la Diablo
fig. 36 la diablo è esposta sulla parete di fondo del primo piano Questa auto con il nome di un toro da combattimento
particolarmente feroce del XIX secolo si dimostrò all’altezza delle
aspettative. Era un modello eccessivo, e inconsueto, ma anche
dotato di solide basi tecniche poiché il suo progettista lo aveva
pensato come un’auto veramente attuale e moderna. Se la
decisione dei fratelli Mimran di vendere alla Chrysler fu inattesa
ma spiegabile, nel senso che era naturale che una grande
azienda di larga produzione - come la Chrysler - fosse
interessata ad acquisire un gioiello come la Lamborghini, del
250
tutto inspiegabile fu la successiva cessione a un gruppo di
sconosciuti investitori indonesiani. Tale passaggio di mano fu
ufficializzato il 21 gennaio 1994; per la direzione della casa del
toro fu una nuova destabilizzazione, e per i rapporti umani
all’interno dell’azienda un progressivo deterioramento. Ciò
nonostante la Diablo fu sviluppata e se ne ricavarono anche
molti modelli collaterali, soprattutto a partire dal 1996. La
Lamborghini decise di chiedere anche la collaborazione tecnica di
alcuni fabbricanti automobilistici di altissimo livello, fra i quali la
Audi. L’idea iniziale fu quella di chiedere il motore 8 cilindri per
poter realizzare la futura “piccola Lamborghini”, ma i tecnici Audi
riportarono alla sede centrale in Germania rapporti positivi sullo
stato dell’azienda e sulla ritrovata buona gestione. Ferdinand
Piëch, nipote del professore Porche, l’inventore del maggiolino, si
mostrò subito interessato. La Lamborghini lo aveva già
affascinato durante i suoi viaggi in Italia come giovane
ingegnere, e pertanto, dopo aver esaminato attentamente la
situazione, decise di procedere all’acquisto. I preliminari fra Audi
e Lamborghini furono firmati il 12 giugno 1998 e il contratto per
la cessione completa di tutte le azioni venne portato a termine in
meno di cinquanta giorni. La casa di Sant’Agata Bolognese si
avviava così verso il nuovo millennio con la sicurezza di essere
approdata finalmente in buone mani. Abbandonate le incertezze,
251
le ristrettezze economiche, i problemi di assetto societario,
comincia una nuova vita con l’Audi, casa dotata anche di un
altissimo profilo tecnologico che può mettere al servizio della
Lamborghini, rispettando contemporaneamente la sua
leggendaria personalità. La prima novità è datata 2001 e si
firma, certo non inaspettatamente, con il nome di un toro da
combattimento: Murciélago, che significa letteralmente
“pipistrello” ed accresce il fascino un po’ oscuro e notturno di
questa nuova automobile.
fig. 37 murciélago Rispetto agli ottimi risultati delle ultime Diablo è aumentata la
qualità complessiva dell’intera automobile e delle rifiniture. Nel
2003 al Salone dell’Automobile di Ginevra arrivò la Gallardo,
252
fig. 38 gallardo la nuova “piccola Lamborghini”. Piccola in verità è un aggettivo
che non si addice a quest’auto, ma a Sant’Agata si ritengono tali
le automobili con meno di 12 cilindri. La Murciélago e la Gallardo,
fianco a fianco come due sorelle, costituiscono l’ossatura ideale
per la casa del toro che è ritornata all’impegno di un tempo. Il
primo piano del museo è, a mio giudizio, decisamente
scenografico rispetto al piano terra. Benché lo stile dell’edificio
sia sobrio, con pavimento in parquet e pareti bianche, il primo
piano “fa scena” grazie al tipo di esposizione scelto per la Diablo.
Collocata com’è sul fondo della parete, attira prima di ogni altra
cosa l’attenzione del visitatore47, che dopo aver salito le scale
47 Un visitatore, e non diciamo nulla di nuovo, è attratto non solo dal contenuto di un’esposizione, ma anche dalla modalità che visivamente coglie la sua attenzione.
253
fig. 39 scala dal primo al secondo piano e Diablo in fondo si dirige dritto verso di lei che, pur non mostrandosi in tutte le
sue parti, svela l’anima dello stile Lamborghini che
fortunatamente non si è disperso nei diversi assetti societari. Le
monoposto, ovviamente, contribuiscono a questo tipo di
atmosfera, e anche quegli “occhi” – grandi finestre del primo
piano - dai quali è possibile vedere la concreta produzione.
Inoltre un tocco ben contestualizzato sono i tubi di scarico
collocati – con funzioni segnaletico - decorative - tra le travi in
254
legno del soffitto.
fig. 40 particolare del soffitto
VI. 2 Terra di motori
Il museo dunque espone automobili di serie a partire dagli anni
sessanta, alcune vetture di Formula 1, motori di auto, strumenti
da lavoro e centinaia di modellini per raccontare le diverse
stagioni che l’azienda ha vissuto dalla nascita ad oggi. Fu
inaugurato proprio nel 2001, quindi con la gestione Audi, per
dare il benvenuto alla Murciélago e per testimoniare la grande
tradizione del marchio. Per un’azienda, infatti, la tradizione è
molto importante perché, essendo sinonimo di longevità, rafforza
il suo valore e il suo prestigio. E’ aperto tutti i giorni dal lunedì al
venerdì, dalle ore 9 alle ore 12.30, e dalle 14.30 alle 17.00
secondo l’orario di stabilimento; l’ingresso è gratuito e per i
gruppi è necessario prenotare. Una guida poliglotta segue i
visitatori durante la visita rendendo esaustiva la conoscenza
255
della casa del toro, ed il suo aiuto è davvero prezioso poiché non
ci sono pannelli di sala. Considero negativa l’assenza di questi
ultimi perché ritengo che sia fondamentale organizzare un
percorso espositivo con adeguati supporti didattici, che
consentano al visitatore una buona comprensione del museo. Al
piano terreno c’è una intera parete con un lungo pannello che
riporta testimonianze fotografiche con le relative didascalie che
raccontano le diverse stagioni vissute dall’azienda. Le foto sono
belle, ma a mio avviso sono troppe ed è poco probabile che un
visitatore si soffermi così a lungo su una sola parete. Sarebbe
stato meglio “sezionare” le foto in più pannelli “distribuiti” lungo
l’intero percorso, creando così accostamenti tra auto e foto
relativi allo stesso periodo. Per ogni auto o motore sono poi
riportate le caratteristiche tecniche sui relativi cartellini. Ripeto
che è tuttavia fondamentale la presenza della guida che riesce a
“cucire” tra loro informazioni che altrimenti resterebbero fili
isolati. E’ possibile accedere allo stabilimento soltanto per i
visitatori singoli, mentre per i gruppi più numerosi ci sono le
finestre collocate al primo piano dalle quali è possibile osservare
la produzione: il museo48 infatti è adiacente alla linea di
montaggio. Il Museo Lamborghini, come il Museo Ducati e la
Galleria Ferrari, conta migliaia di visitatori l’anno. Questi tre
48 Malgrado numerosi tentativi non è stato possibile comunicare con la curatrice del museo e conoscere il nome dell’architetto che ha realizzato il museo.
256
marchi di eccellenza, pur essendo stati talvolta in concorrenza,
sono accomunati anche da altre caratteristiche tanto da
costituire quel milieu storico e culturale chiamato “Terra dei
Motori”, e che crea collaborazione e unione. “Terra dei Motori”
non è soltanto il nome che indica quel triangolo di terra a cui ho
già fatto cenno, ma è anche il titolo di un progetto culturale
voluto in occasione di un grande evento, ossia Bologna 2000-
Città Europea della Cultura. Con questa operazione si sono
scoperti e collegati i punti di contatto tra questi musei, creando
così una sorta di rete. Bisogna sottolineare che l’evento era di
tipo culturale, non aveva nessun richiamo di carattere economico
e fu curato in parte da Marco Montemaggi. Fu creata una
struttura di trasporti su prenotazione per facilitare gli
spostamenti da una collezione all’altra, dal momento che Ducati,
Ferrari e Lamborghini distano trenta chilometri circa l’una
dall’altra. L’aneddoto sul cavallino utilizzato sia da Ducati che da
Ferrari è il segno di una comunanza che c’è e che traspare anche
se le aziende hanno poi preso strade diverse. Altri elementi
possono testimoniare la coerenza di questo territorio: è una
regione con 43 aziende che hanno prodotto o producono auto o
moto, si possono identificare delle “capitali” come Bologna e
Modena, ma a Parma e a Rimini ci sono per esempio diversi
autodromi. Ci sono musei istituzionali come il Museo del
257
Patrimonio Industriale, derivato dalla scuola Aldini Valeriani, che
ha formato molti tecnici e ingegneri della Ferrari, della Ducati e
della Lamborghini. Anche questa istituzione è un simbolo di
coesione, ed è rappresentativa di tutte le esperienze del
patrimonio industriale della regione. Il progetto “Terra dei
motori” pur essendo nato da una spinta di tipo culturale, ha poi
di fatto avuto ripercussioni sul turismo spostandolo in parte dalla
riviera all’entroterra. E’ come se il mercato avesse compreso il
valore complessivo del progetto, chiedendo dei servizi che non
erano stati previsti. Così anche gli alberghi, i ristoranti, le
agenzie di viaggio si sono dotati di un pacchetto turistico dal
nome “Terra dei Motori”. Dopo aver visitato il Museo Ducati, la
Galleria Ferrari e il Museo Lamborghini mi è risultata più chiara
quale dovrebbe essere la dimensione culturale di un’impresa, e
soprattutto mi si è meglio precisata la differenza tra
sponsorizzazione, mecenatismo e donazione, termini utilizzati
spesso indifferentemente per indicare un qualsiasi intervento
delle aziende nell’ambito della preservazione, valorizzazione e
gestione del patrimonio culturale. La distinzione tra i tre concetti
è sottile: le sponsorizzazioni sono da considerare un mezzo di
comunicazione di marketing, uno strumento pubblicitario, un
investimento con fini commerciali. In America i primi esempi di
sponsorizzazioni culturali risalgono alla seconda metà degli anni
258
quaranta, ma il fenomeno diventa consistente in Italia a partire
dagli anni sessanta, con più di un ventennio di ritardo. La
sponsorizzazione consiste, quindi, nella promozione e nella
comunicazione del supporto che uno sponsor, generalmente
un’impresa, fornisce ad un’istituzione che può essere sportiva,
culturale, o sociale. La donazione e il mecenatismo invece sono
atti di filantropia privi di ogni velleità commerciale. Il donatore o
il mecenate avvia un’attività altruistica, con una bassa
aspettativa di ritorno in termini di benefici personali, ma alta sul
piano del ritorno d’immagine, nell’interesse del beneficiato o
della società in generale. Il mecenatismo e la donazione si
distinguono dalla sponsorizzazione perché sono più
disinteressate. Tra mecenatismo e donazione la differenza
consiste invece nel maggiore coinvolgimento del mecenate che
desidera prendere parte alle decisioni assunte dall’istituzione
culturale beneficiata pur mantenendo la sua posizione di
benefattore. Il donatore invece compie un atto filantropico senza
prendere parte alle decisioni e senza prevedere un orizzonte
temporale lungo dell’investimento. Infine un’ultima
considerazione: l’Istituto per i beni culturali, istituito dalla
Regione Emilia Romagna nel 1974, annovera il Museo Ducati, la
Galleria Ferrari e il Museo Lamborghini nella propria banca dati.
Sono individuabili per tipologia di oggetti alle voci motocicli e
259
autoveicoli, e la scheda li classifica come specializzati e la
collezione di tipo tematico - impresa. L’Istituto ha infatti come
principali interlocutori gli enti locali e i relativi musei, e destina
solo ad essi i sostegni finanziari, ma in qualità di Istituto per i
beni culturali considera il valore testimoniale di tutte le forme
museali e di tutti i beni culturali presenti sul territorio, siano essi
pubblici o privati.
260
Appendice I. Intervista a Livio Lodi, curatore del Museo Ducati. D: Ciao Livio, grazie da subito per la tua cordiale collaborazione. Per scrivere il capitolo sul museo Ducati ho letto il vostro sito e mi piacerebbe utilizzare qualche foto. E’ necessaria qualche concessione per riportare i contenuti e le immagini? R: Non ci sono problemi e posso anche inviarti anche altre foto. D: Grazie. Ti rivolgo la prima domanda. Perchè esiste questo museo? Da chi fu voluto e perché? R: Come prima cosa il museo non esiste come contenitore, ma è una macchina del tempo attraverso la quale le vecchie generazioni di appassionati rivivono i fasti di un’epoca che sembrava scomparsa, mentre le nuove generazioni scoprono quanto vasta, ricca e importante sia la storia della Ducati. E’ un trade union. Fu voluto da Federico Minoli, amministratore delegato, un uomo di marketing che pensò, grazie anche alle sue esperienze statunitensi, di realizzare un museo per dare un valore aggiunto alla Ducati. La storia dell’azienda non era mai stata valorizzata, pur trattandosi di un marchio leggendario, dalle precedenti amministrazioni. Recuperare la sua storia e raccontarla in museo avrebbe dato spessore all’azienda. Ducati, come Piaggio, è stata una delle prime aziende ad aver creato un museo aziendale. D: Il lancio di un progetto museale all’interno di un’azienda può essere accolto come un progetto coerente con le finalità complessive dell’organizzazione o come l’imposizione di un corpo esterno. Nel vostro caso come fu vissuta dalla comunità aziendale la nuova impresa museale? Quali conseguenze tecnico-organizzative portò l’avvio del progetto ( ridistribuzione di spazi e risorse umane, nuove voci di spesa,..)? Quali vantaggi e svantaggi furono percepiti? R: L’impresa museale fu vissuta con molto entusiasmo all’interno dell’azienda. Io stesso a quei tempi lavoravo in Ducati ma non al museo e non ero informato dell’esperienza. Ci trovammo di fronte una struttura che non era soltanto il salotto buono dell’azienda, ma qualcosa che ci rendeva di fatto orgogliosi: ci portammo amici, parenti e tutti coloro che avevano sentito parlare del museo. Il museo è la prima cosa che il
261
visitatore-appassionato- profano chiede di visitare. A livello organizzativo si recuperò lo spazio di un vecchio deposito, la cui superficie era di circa 1000mq, di documenti e carte. In una zona polverosa di questo deposito erano conservate anche alcune moto. Uno dei vantaggi del museo è sicuramente avere la possibilità di far conoscere l’azienda fuori dagli stereotipi dei media. E’ un grande ritorno per l’azienda, ma è anche uno dei cinque musei più visitati di Bologna. Venendo in Ducati, visitati lo stabilimento e il museo, scopri una azienda diversa rispetto a quello che hai conosciuto da un giornale di settore o da un programma televisivo. Ducati nel settore del motociclismo si è creata una figura tanto legata alle competizioni da avvicinarsi a Ferrari. Tuttavia Ducati, diversamente da Ferrari, è un sogno realizzabile sia perché, ripeto, puoi visitare lo stabilimento, cosa che in casa Ferrari non è possibile, sia perché è economicamente realizzabile l’acquisto di una Ducati e sentirsi così parte della famiglia. Il tifoso Ferrari resta un sognatore e nella Galleria visita un mondo che non potrà mai vedere. Ducati è un sogno che si realizza: anche questo è un messaggio del museo. Circa gli svantaggi io non ne vedo. E’ una struttura, come altre, soggetta comunque ad usura. D: La responsabilità della gestione del museo è affidata solo a te? R: Si, è affidata solo a me. Nel 1998 fui affiancato come assistente al primo curatore del museo, Marco Montemaggi, oggi vicedirettore di Museimpresa. Dal 2001 sono stato nominato nuovo curatore del museo in sostituzione del mio predecessore. Curo anche l’archivio storico e come un archeologo sono impegnato nel reperire le tessere mancanti del mosaico Ducati. Dal 1973 tutto ciò che riguardava la storia aziendale è stato mandato al macero. Ci si liberava delle cose “vecchie” anche vendendo. Io so cosa manca affinché la storia di questa azienda sia il più possibile chiara e completa. Mi sono accorto che non a tutti piace la storia e molte tradizioni si stanno perdendo; una moto non è soltanto un oggetto ludico per correre, ma è anche un oggetto di cultura e può essere un modo per avvicinare anche i più giovani alla storia, affinché stimolati alla conoscenza la trovino più interessante. D: Dal punto di vista economico come è considerato il museo? E’ una voce del vostro bilancio? Inoltre l’ingresso al museo è gratuito perché non avete bisogno degli introiti dei biglietti, ma avete escluso anche l’idea di far pagare un biglietto di valore simbolico. Per quale motivo?
262
R: Il museo è un centro di costo per tutte le sue spese ( energia, manutenzione…), ma non è una voce del bilancio. Quando si presenta un budget, il museo è una voce integrata nella Community che comprende diverse cose, come gli eventi in pista, il club,lo stand per le fiere. Il museo non è un’unità a sé stante, è una parte di una casa. Immagina il museo come la voce impianto termico nella ristrutturazione di una casa. Circa l’ingresso gratis dico che è stato pensato come un incentivo per l’azienda e anche per Bologna che non è solo la città delle due torri e delle università, e infine anche come un indotto per Borgo Panigale, che altrimenti sarebbe rimasta un quartiere sconosciuto di Bologna. Ducati ha pertanto qualificato anche questa zona che si riconosce in questa azienda che è stata tanto assidua negli anni nella realizzazione del suo progetto. Circa l’idea di far pagare un biglietto di valore simbolico è probabile che accada in futuro e il ricavato potrebbe andare alle opere della Fondazione Ducati. D: Che tipo di pubblico visita il museo? Qual è l’età minima di un vostro visitatore? R: Dalle scuole elementari a persone anziane. Tutti visitano il nostro museo. I ragazzi vengono per vedere la moto di Capirossi, ma poi si appassionano comunque anche alle moto vecchie e al modo in cui si correva un tempo. D: E’ possibile visitare il museo senza la vostra guida? R: Si è possibile, ma non si accede ovviamente allo stabilimento. D: Ci sono barriere architettoniche che possono impedire alle persone disabili di visitare il museo? R: Non abbiamo strutture deputate alla visita dei disabili. Tuttavia in questi casi abbiamo utilizzato i montacarichi aziendali che sono alle spalle del museo e abbiamo realizzato la visita. Sono strutture sicure e controllate dalla manutenzione ed è possibile far salire anche 10 persone alla volta. D: Prima di essere esposte nel museo dove erano le moto?
263
R: Le moto erano dappertutto, ovunque, tra collezioni private, stanzoni abbandonati. Come ti ho detto non c’era cura verso questi beni. D: Le moto sono catalogate? R: Si, sono ordinate per cronologia. D: Effettuate prestiti per mostre o altri eventi? R: Dipende. Valuto il livello qualitativo della mostra. Se parliamo della mostra sulla velocità che si tiene a Roma, sicuramente si. Inoltre, alcune moto sono beni aziendali, altre sono concessioni di collezionisti privati e in questo caso bisogna avvisare per tempo il proprietario, e solo in seguito al loro assenso è possibile spostare la moto. Come ti ho detto l’azienda si liberava del “vecchio”, o vendendo, o buttando documenti e moto, e così ci sono moto che sono recuperabili solo in collezioni private. D: C’è un magazzino- deposito in cui conservate altre moto? R: Si, c’è un magazzino con moto stradali e con qualche doppione. L’esposizione del museo si amplierà comunque con le moto che conseguiranno altre vittorie. D: Anche per le moto, in qualità di oggetti esposti nel museo, si pone il problema della conservazione. Tra prevenzione, restauro e manutenzione come si orientano le vostre scelte? R: Facciamo una manutenzione generale un paio di volte l’anno. Controlliamo i pneumatici, le parti meccaniche e lo stato generale. Per le moto è sufficiente. D: L’auditorium è utilizzato come sala per le conferenze e per le riunioni?
265
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Ringrazio la Prof. A.Bottone per avermi consigliato di frequentare il corso di museografia. Antonio, Claudia e Annalisa che con la loro ospitalità hanno reso possibile la realizzazione di questa tesi. Mio fratello Giacomo per la continua e insostituibile partecipazione, per l’ascolto attento e per la preziosa collaborazione in parte tecnica. Infine, ma non meno importanti, Imma, Livio e Giò.