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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI NAPOLI FEDERICO II FACOLTA’ DI LETTERE E FILOSOFIA Corso di Laurea in Lettere Moderne TESI DI LAUREA IN MUSEOGRAFIA MUSEI AZIENDALI: TRE ESEMPI IN EMILIA ROMAGNA. Relatore: Candidata: Prof. Vincenza Sansone Arturo Fittipaldi matr. 02/22105 ANNO ACCADEMICO 2006/2007

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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI NAPOLI FEDERICO II

FACOLTA’ DI LETTERE E FILOSOFIA

Corso di Laurea in Lettere Moderne

TESI DI LAUREA

IN

MUSEOGRAFIA

MUSEI AZIENDALI: TRE ESEMPI IN EMILIA ROMAGNA.

Relatore: Candidata: Prof. Vincenza Sansone Arturo Fittipaldi matr. 02/22105

ANNO ACCADEMICO 2006/2007

A mia madre, energia vitale

INDICE

I. Storia di una rivoluzione I. 1 La rivoluzione industriale p.1 I. 2 Perché l’Inghilterra? p.10 I. 3 L’Italia p.15

II. Musei nell’Ottocento II. 1 Nascita dei musei p.26 II. 2 Musei industriali e artistico – industriali p.37 II. 3 Il Regio Museo Industriale Italiano p.53 II. 4 Un museo dell’industria legato al territorio nell’età della globalizzazione p.81

III. Musei e aziende III. 1 Dal tempio delle Muse ai musei delle aziende p.95 III. 2 Musei d’impresa p.117 III. 3 Il Museo Alessi e la Fondazione Piaggio p.133 III. 4 La parola all’oggetto e l’industrial design p.143

IV. Museo Ducati IV. 1 Dal “cucciolo” alla “desmo” attraverso le stanze del museo p.172 IV. 2 Uno sguardo oltre la collezione p.188 IV. 3 Dai radio-brevetti alle moto p.199

V. La Galleria Ferrari V. 1 Entriamo a visitare la Galleria Ferrari p.210 V. 2 Ferrari e poi p.223

VI. Il Museo Lamborghini VI. 1 Il museo della casa del toro p.233 VI. 2 Terra di motori p.252

Appendice I. Intervista a Livio Lodi curatore del Museo Ducati p.258 Bibliografia p.263

1

I. Storia di una rivoluzione

I.1 La rivoluzione industriale 1851. Londra aveva riunito 17.000 espositori al “Palazzo di

Vetro”, alla Esposizione Universale, la prima rassegna delle

realizzazioni industriali dell’epoca delle macchine e del vapore di

recente inaugurata.

Il primato inglese era schiacciante: il suo prodotto interno era

arrivato a 580 milioni di sterline, cioè al doppio di quello

registrato cinquanta anni prima.1

Il Chrystal Palace segnò, all’aprirsi del secolo, l’apogeo

dell’Inghilterra come “officina del mondo”.2

Cosa era accaduto? L’Inghilterra aveva dato avvio al processo di

industrializzazione nel settecento, quello che è generalmente

indicato col termine di rivoluzione industriale.

1cfr. V.Castronovo, La rivoluzione industriale, Sansoni, Firenze, 1973, pagg. 80-81 2 D.Landes, Prometeo liberato. Trasformazioni tecnologiche e sviluppo industriale nell’Europa occidentale dal 1750 ai giorni nostri. Einaudi,Torino,1978, pag. 164

2

<<Quando J.Wyatt, nel 1735, annunciò la sua macchina per

filare - scrive Marx nel Capitale –ebbe inizio la rivoluzione

industriale del diciottesimo secolo[…]

E’ la macchina-utensile che inaugura nel decimottavo secolo la

rivoluzione industriale>>3

In sede storiografica non tutti accettano questa denominazione

come la più appropriata.

Rivoluzione industriale o evoluzione?

Rottura radicale col passato nei modi di produzione e

nell’organizzazione sociale o maturazione senza apparenti

cesure?

<<La parola rivoluzione - ha scritto Ashton – implica una

subitaneità di cambiamento che, in realtà, non è tipica dei

processi economici>>4

Nel 1778 A. Joung aveva intravisto una <<rivoluzione in atto>>.

I primi a parlare di <<rivoluzione industriale>> furono, tra il

1844 e il 1848, F. Engels e l’economista J. Stuart Mill. Con la

pubblicazione nel 1884 delle Lectures on the Industrial

Revolution of the 18th Century in England di Arnold Toynbee

l’espressione entrò nell’uso comune. Per più di trent’anni, a

partire dalla metà dell’ottocento, il termine di rivoluzione

industriale non fu contestato. Tale problema storiografico oggi ha

3 cit.in.V.Castronovo, op. cit, pag. 2 4 cit. in ivi,pag. 7

3

acquistato un rilievo diverso per il venir meno della prospettiva

storico-politica entro cui le interpretazioni che insistevano più

sull’evoluzione che sulla rivoluzione erano state assunte. Nella

rivoluzione industriale, come in ciascun evento storico, sono

presenti molti elementi di continuità caratteristici dei periodi

precedenti, e una complessa connessione di fattori di origine

diversa. Tuttavia oggi si tende, sia pure con molte differenze e

sfumature, ad accettare la nozione di rivoluzione industriale,

come un’irrevocabile, e forse la maggiore, frattura verificatasi nel

corso della storia: se non altro perché la continuità del processo

economico e l’equilibrio dei precedenti rapporti di produzione e

delle forze sociali vennero allora spezzati nel giro di tre sole

generazioni. Mantoux, in un’opera classica del 1905 5, osservava

che l’invenzione delle macchine non era stata prerogativa del

diciottesimo secolo. In effetti la sfera vuota di Erone è stato il

principio della macchina a vapore. Tuttavia non ne era venuto

niente fuori. Dai tempi della Grecia erano stati numerosi i

cambiamenti e i progressi tecnici, ma non avevano portato alla

nascita dell’industria. Lo sviluppo tecnologico che si è avuto in

2000 anni è stato certamente importante, ma va distinto da

quello che è accaduto nel XVIII secolo. La storia delle

parole,delle definizioni, ci consente di cogliere –almeno come

5 P.Mantoux, La rivoluzione industriale. Saggio sulle origini della grande industria moderna in Inghilterra.Editori Riuniti, Roma, 1971, pagg. 55-113

4

prima approssimazione – il momento in cui taluni fenomeni

assumono dimensioni talmente nuove che, nel far ricorso a

termini preesistenti, imprimono loro nuovo significato. Industria

–prima della rivoluzione industriale – era il nome di un

particolare attributo dell’uomo,nome che potrebbe essere

parafrasato con “abilità, assiduità, diligenza ingegnosa” come

indica l’etimologia latina. Dovrà essere nostro compito cercare di

determinare, storicamente, i vari momenti in cui l’industria –

come fatto moderno- si è affermata e cosa abbia significato

questa affermazione: se cioè essa si sia risolta in un semplice

processo di industrializzazione o se sia giunta a creare una civiltà

industriale. Secondo Ruggiero Romano5 l’industria in senso

moderno presenta caratteri sconosciuti a tutti i fenomeni che

l’avevano preceduta: industria significa rapporto uomo-natura

mediato dal lavoro svolto attraverso la macchina e che coinvolge

a fondo i concetti di quantità e di qualità,mentre infine il più

grande cambiamento è quello che si riferisce al mondo del

lavoro. Romano invita a non confondere natura e ruralità. Il

mondo rurale ha già sconvolto la natura non meno di quanto lo

abbia fatto l’industria. Le attuali giuste proteste per gli squilibri

indotti dal processo di industrializzazione non debbono farci

dimenticare altre più antiche proteste che sono state indotte

5 R.Romano, Industria: storia e problemi. Einaudi,Torino,1976

5

dagli squilibri apportati dall’agricoltura. Caino, l’agricoltore, non

uccide Abele,il pastore?E per risalire più vicino a noi, non si

protesterà contro l’introduzione in Europa del mais,del riso e

delle patate? L’agricoltura rappresenta la prima stabilizzazione

dell’uomo, che modifica l’ambiente ai suoi fini. L’agricoltura è la

più antica delle arti: razionalizza, precisa il limite, il mio e il tuo,

produce per sopravvivere. E’ il primo segno di produttività e di

proprietà privata. Ad essa si lega in maniera particolare il valore

del tempo,che diviene prezioso,diventa sinonimo di denaro e

pertanto non va sprecato. Lo stesso Marx vide il punto cruciale

del processo nella sostituzione degli strumenti tradizionali con

macchine di lavorazione azionate da energia termomeccanica. Le

attrezzature mosse dall’uomo appaiono come un prolungamento

dei suoi organi. L’organo trasmette e amplifica la forza umana,

non agisce per virtù della sua struttura interna. L’attrezzo sposa

il ritmo del corpo: agisce nel tempo umano in quanto non ha un

tempo proprio. Soltanto un mezzo naturale come il fuoco fa

eccezione. Secondo Marx gli strumenti e gli apparecchi coi quali

lavora l’artigiano diventano strumenti di un meccanismo, e

riappaiono in questo in dimensione ciclopica. La piallatrice

meccanica è così un falegname di ferro che lavora sul legno con

gli stessi strumenti del falegname in carne ed ossa.

6

Cambiano i luoghi del lavoro e nasce la fabbrica che

rappresenta un altro punto di arrivo di una complessa

evoluzione. La stessa architettura degli edifici ne esce

modificata: non più bassi fabbricati che si sviluppano in

lunghezza, come potevano essere “le manifatture reali” fatte

installare da Colbert attraverso tutta la Francia, ma imponenti

edifici a più piani. La bottega e il laboratorio casalingo cedettero

il posto allo stabilimento e alla fabbrica. Quest’ultima fu qualcosa

di più che una grande unità lavorativa. Fu infatti un sistema di

produzione basato su due nuovi protagonisti del processo

produttivo: l’imprenditore che anticipa il capitale tecnico, ne

sorveglia l’uso e vende il prodotto finito e l’operaio ridotto al

rango di manodopera. A legare l’uno all’altro è il nesso salariale.

Attraverso la macchina e la fabbrica si è fatto un primo passo

verso l’identificazione di quello che costituisce certamente

l’aspetto più originale della rivoluzione industriale: la divisione

del lavoro.

<< Un uomo trafila il metallo,un altro raddrizza il filo,un terzo lo taglia, un quarto gli fa la punta,un quinto lo schiaccia all’estremità dove deve inserirsi la capocchia;fare la capocchia richiede due o tre operazioni distinte; inserirla è un’attività distinta,pulire gli spilli è un’altra, e persino il metterli nella carta è un’operazione a sé stante; sicchè l’importante attività di fabbricare uno spillo viene divisa in tal modo in circa diciotto distinte operazioni….>>7

7 cit. in P. L. Bassignana, Dalla manifattura alla fabbrica,sta in, AA.VV,IL sogno della città industriale tra ottocento e novecento, catalogo della mostra, Fabbri,Milano,1994,pag. 77

7

Adam Smith ,in una celebre pagina della Ricchezza delle nazioni,

così descrive la produzione di spilli per illustrare i vantaggi

economici derivanti dalla divisione del lavoro. E’ l’affermazione

del principio della razionalità economica: massimo risultato con

risparmio dei mezzi e del tempo. La suddivisione in decine di

mansioni diverse riduce i tempi morti tra un’operazione e l’altra.

La disciplina di fabbrica è scandita dall’inesorabile tirannia

dell’orologio. Il tessitore che lavorava a casa, o l’artigiano, erano

padroni del proprio tempo, staccavano e riattaccavano quando

volevano. Nel capitolo XIII del I libro del Capitale Marx osserva:

<<…non solo i particolari lavori parziali vengono suddivisi fra

diversi individui, ma l’individuo stesso viene diviso, viene

trasformato in motore automatico di un lavoro parziale>>8

Nella “fabbrica automatica” Marx individua <<l’annessione di un

uomo intero ad una operazione parziale e la trasformazione

dell’operaio in accessorio consapevole e coerente di una

macchina parziale>>.9 Nell’attività artigianale tutte, o quasi, le

differenti operazioni necessarie alla confezione di un determinato

manufatto erano attribuite a una sola persona, alla sua

padronanza dell’intero processo lavorativo. In verità di questi

processi di frammentazione del lavoro è dato ritrovare dei

8 cit. in,V.Castronovo, Fabbrica ,sta in AA.VV, Enciclopedia, Torino, Einaudi, 1978, vol. 5, pag. 1057 9 cit. in ivi, pag. 1059

8

precedenti: così, già dal medioevo è dato riscontrare

nell’industria tessile una specializzazione tra i filatori, tessitori e

stiratori. Quel che ora muta è la generalizzazione ed il suo essere

spinta fino ad una vera e propria atomizzazione, che non

significa solo una semplice divisione del lavoro dovuta ad

innovazioni tecniche. L’operaio come strumento di una catena di

montaggio è ”alienato”rispetto al prodotto finito. Con la divisione

del lavoro si afferma cioè una nuova struttura sociale

caratterizzata dalla trasformazione della forza lavoro in merce.

In definitiva, la rivoluzione industriale è stata simile, nei suoi

effetti, al gesto compiuto da Eva allorché gustò il frutto

dell’albero della conoscenza: il mondo non è stato mai più lo

stesso. Adamo ed Eva furono cacciati dal paradiso terrestre e

puniti, ma conservarono il sapere.

Landes10 invece è assunto Prometeo come simbolo della

maggiore trasformazione che l’uomo abbia mai conosciuto: la

rivoluzione industriale. Le innovazioni tecnologiche hanno dato

origine e continuità al processo di industrializzazione e al tempo

tesso a una serie di mutamenti nella struttura del potere, nei

modi di governo, negli ordinamenti sociali e negli atteggiamenti

culturali. La tecnologia moderna non soltanto produce di più e

più velocemente, ma crea oggetti che non si sarebbero mai

10 cfr.D. Landes, op.cit, pagg.731-733

9

potuti produrre con i metodi artigianali del passato. La tecnologia

moderna, ciò che più conta, ha creato cose inconcepibili nell’era

pre-industriale: citando a caso, la macchina fotografica,

l’automobile, l’intera gamma dei congegni elettronici dalla radio

ai reattori nucleari. Con la macchina fotografica sarà possibile,

tra l’altro, riprodurre opere d’arte e ognuno potrà entrare in

contatto con esse e fruirne. La riproducibilità è democratica sul

piano culturale perché le opere perdono il loro carattere elitario.

Tuttavia c’è un limite di fondo, ed è quello indicato da

W.Benjamin in L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità

tecnica11: la riproducibilità pur essendo positiva presenta

appunto come limite la perdita dell’aura dell’opera d’arte e cioè

la perdita dell’unicum. La riproducibilità tradisce le dimensioni, la

materia, le tecniche, il linguaggio. Usata bene però può essere

ancella della conoscenza. A questa gamma di prodotti nuovi o

perfezionati occorre aggiungere lo sfruttamento intensivo

dell’enorme varietà delle merci esotiche considerate rarità-

perché provenienti da un tempo o da un luogo lontano- o beni di

lusso, e poi disponibili a prezzi contenuti grazie al miglioramento

dei mezzi di trasporto. Ci volle la rivoluzione industriale per fare

del té e del caffè, delle banane dell’America centrale e degli

ananas delle Hawaii, dei cibi di ogni giorno. Ne è risultato un

11 W.Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Torino, Einaudi, 1966

10

aumento enorme, sia quantitativo che qualitativo, dei beni e dei

servizi, e ciò di per sé ha modificato il modo di vita dell’uomo più

di qualunque altra cosa fin dalla scoperta del fuoco.

In conclusione la rivoluzione industriale e il conseguente

matrimonio di scienza e tecnica rappresentano l’apice di millenni

di progresso intellettuale. I miti di Eva e Prometeo sono la

conferma dell’antichità e della continuità nella cultura occidentale

dello spirito di innovazione e di dominio. L’uomo deve e vuole

conoscere, e una volta impadronitosi della conoscenza non la

dimenticherà più.

I.2 Perché l’Inghilterra?

E perché l’Inghilterra del XVIII secolo? Hobsbawm osserva che

<< le origini della rivoluzione industriale in Gran Bretagna non si possono esaminare come un problema di storia britannica>> <<L’albero del moderno sviluppo capitalistico – continua lo stesso autore – si è sviluppato in una particolare regione d’Europa, ma le sue radici hanno tratto alimento da un’area più ampia di scambio e di accumulazione primitiva che comprendeva tanto le colonie d’oltremare legate da vincoli formali quanto le economie dipendenti dell’Europa orientale>>12 L’ascesa della Gran Bretagna a grande potenza marittima e

commerciale aveva finito per procurare non solo ingenti

12 cit in V.Castronovo, op. cit, pag48

11

occasioni di lucro e di speculazione alle grandi compagnie

privilegiate, ma più ampie fonti di materie prime e nuovi accessi

di mercato. Le sue mercanzie dominavano in tutti i mercati del

mondo; i suoi manufatti non temevano concorrenza. Uno dei suoi

punti forti era questo: la capacità di fabbricare a buon mercato

proprio gli articoli nei confronti dei quali la domanda estera era

più elastica. Di certo fu anche la natura generosa a renderla

pioniera del capitalismo industriale. Il clima umido era adatto

all’industria del cotone, le regioni settentrionali e nord-occidentali

erano ricche di forza idraulica. E soprattutto vi era grande

abbondanza di carbone e di ferro, facilmente trasportabili per via

d’acqua. Favorevole fu anche la mentalità puritana degli inglesi

che consideravano il lavoro quasi un sacramento, e la ricchezza

un segno tangibile del favore celeste. Di certo anche il

tradizionale empirismo fu di aiuto: da quando Bacone aveva

proclamato il valore del metodo induttivo, la scienza si era

diffusa sempre più. L’ingegnere James Watt permise alla forza

del vapore di rivoluzionare l’industria, ma non inventò l’uso del

vapore come forza agente, né creò la macchina a vapore.

Meditando sui difetti di una macchina inventata cinquatotto anni

prima, permise alla forza del vapore di rivoluzionare l’industria.

Una cosa è inventare, un’altra è tradurre un’invenzione in

successo commerciale. L’impiego del vapore libera l’industria

12

dagli ostacoli che ne attardavano il progresso. Una macchina a

vapore può essere installata dovunque è possibile procurarsi

carbon fossile a un prezzo ragionevole. In Inghilterra

quest’ultimo abbondava ed era diffusamente impiegato dalla fine

del XVIII secolo. Il vapore dà tutta la sua potenza alla grande

industria e ne rende irresistibile lo sviluppo. Ma soprattutto

l’industria assume la sua caratteristica unità. L’interdipendenza

delle diverse industrie era molto meno stretta che ai giorni

nostri; infatti dal punto di vista tecnico avevano poco in comune

e il loro sviluppo seguiva strade del tutto indipendenti. Al nome

di Watt devono essere associati quelli di coloro che lo

incoraggiarono e finanziarono: Roebuck e Boulton. Mantoux dice

che la politica delle recinzioni (enclosures)13 e l’ascesa della

grande industria sono fenomeni strettamente connessi. I

progressi agricoli permisero l’incremento della produzione

industriale mettendo a disposizione di questa un’aliquota di

accumulo, originariamente agricola, che era diventata eccedente.

Seguirà l’incremento della domanda di beni di consumo e

soprattutto tessili da parte della popolazione contadina, e

l’aumento della produzione di prodotti siderurgici per vari attrezzi

del fabbisogno agricolo. Il movimento degli enclosures, iniziato

fin dal XIV secolo, si sviluppa nel corso del XVIII secolo.

13 enclosures acts erano decreti del Parlamento che legittimavano le recinzioni eseguite sugli open fields-campi aperti

13

L’agricoltura inglese alla metà di quest’ultimo era esente dal

peso dell’autorità feudale. Le campagne subiscono un processo di

privatizzazione per iniziativa dei più grossi proprietari terrieri

decisi ad imboccare le strade già battute dai ceti capitalistici al

fine di valorizzare le loro terre introducendo nuovi metodi di

coltivazione, o riducendole a pascolo di pecore per la produzione

della lana. Sopprimono pertanto il sistema dei campi aperti e

aboliscono i pascoli comuni. I piccoli proprietari finirono per

vendere ai più fortunati e ai più ricchi le loro proprietà. La

comunità tradizionale si sfascia e al suo posto si costituiscono

grandi fattorie, affidate a imprenditori che accrescono la

produzione grazie ai nuovi metodi di conduzione. Non tutti i

vecchi proprietari, rimasti privi dei loro campi, trovarono lavoro

come salariati nelle nuove aziende capitalistiche. I più

abbandonarono le campagne e si ritirarono a vivere nelle città

industriali. La modernizzazione dell’agricoltura rese possibile

l’accumulazione dei capitali che saranno utilizzati dalla nascente

industria. Le recinzioni misero a disposizione dell’industria una

grande quantità di forza lavoro che rese possibile lo sviluppo. Gli

yeomen14 –piccoli proprietari non nobili – avendo ricavato una

somma ragionevole dalla vendita del proprio fondo, possedevano

un piccolo capitale e tentavano la sorte avviando e guidando il

14 La yeonmanry era costituita dai piccoli proprietari terrieri non nobili. I proprietari nobili costituivano invece la gentry.

14

movimento industriale. Infine vanno considerati tre fattori quali;

mercato interno, mercato d’esportazione e governo che diedero

al paese la possibilità di far denaro. La domanda interna era

aumentata, quella esterna moltiplicata e poi il governo orientava

la sua politica estera e militare soprattutto a fini economici, o

meglio non genericamente commerciali ma industriali. Contro

tale concorrenza inglese gli unici paesi che poterono difendere la

loro industria nascente furono quelli che avevano una forza

politica e militare ben consolidata: Francia e Germania.

Fin dall’inizio il processo di industrializzazione rivelò una

disuguale capacità di sviluppo. Non solo nei diversi paesi, ma

anche all’interno di ciascuno di essi l’industrializzazione si diffuse

a macchia di leopardo. La Francia aveva conosciuto l’avvio e la

prima fase dell’industrializzazione nel periodo 1815-1848, ma

ancora nella metà del secolo rimaneva un paese soprattutto

agricolo. Soltanto durante il secondo impero la Francia si sarebbe

data una struttura industriale moderna con il definitivo passaggio

all’impiego del carbon fossile. In Germania erano state

sopravvivenze strutturali e politiche di natura feudale a

ostacolare l’avvio della rivoluzione industriale. Anche lo

spostamento della popolazione dalle campagne alla città - la

formazione di un mercato di forza lavoro per l’industria- verrà

ostacolato fino al quarto decennio dell’800. Di fatto, il processo

15

di industrializzazione in Germania sarebbe iniziato assai tardi,

intorno al 1850-1860. In compenso, sarebbe giunto a

maturazione in un breve volgere di anni tanto da superare già

nel 1880 in determinati settori, dalla siderurgia alla chimica, i

traguardi produttivi raggiunti dalla Francia.

I.3 L’Italia

1861. L’Italia al momento della sua costituzione in stato unitario si trova nella condizione di un paese in forte ritardo economico

rispetto a una parte dell’Europa occidentale già molto più

avanzata, e attenta a sbarrare la strada ad altri concorrenti. La

situazione in cui si trova ad agire l’Italia all’indomani dell’unità

non è quella di prolungata assenza di rivali che aveva

caratterizzato la rivoluzione industriale inglese. Il paese si

affaccia sulla scena internazionale con una struttura e una

vocazione essenzialmente agricola. Il sottosuolo godeva di scarse

quantità di minerali e di combustibili, e le risorse agricole

comunque non soddisfacevano il fabbisogno di una popolazione

di 26 milioni di abitanti. L’agricoltura non aveva svolto quel ruolo

fondamentale nell’accumulazione originaria del capitale che era

16

stato decisivo a suo tempo per l’Inghilterra. A questo si aggiunge

l’assenza di un mercato nazionale, la povertà di risorse

energetiche, la carenza di manodopera specializzata e la scarsa

esperienza degli imprenditori. Tutto questo spiega in parte il

ritardo economico accumulato dalla penisola nel corso della

prima metà dell’800.I moti sociali susseguitesi tra il 1847 e il

1849 avevano contribuito a scuotere le classi dirigenti, e a far

emergere fra le forze più consapevoli e attive della società

l’esigenza di porre mano ad un ammodernamento del sistema

economico. Alla progressiva integrazione della penisola nel

movimento economico in corso su scala europea concorse

soprattutto l’aumento delle esportazioni agricole. La domanda di

generi alimentari e di prodotti della terra da parte delle nazioni

più progredite, dovuta anche all’incremento della popolazione,

aveva ravvivato il mondo rurale. Le zone che meglio si

affrancavano dal vecchio immobilismo erano Piemonte,

Lombardia e Veneto. Il Piemonte e la Lombardia incentivavano lo

sviluppo degli scambi con l’esportazione di seta greggia, e

agevolavano così l’ascesa di un ceto borghese intraprendente.

L’Italia era un paese fortemente distanziato dalle nazioni

dell’Europa occidentale molto più avanzate sotto il profilo

economico, ma non per questo emarginato del tutto. C’erano

nella penisola slanci verso un processo di integrazione economica

17

che avvenne gradualmente e per singole aree. L’azione dello

stato si rivelò essenziale per l’ammodernamento delle principali

infrastrutture, caratteristica fondamentale dei periodi di

preindustrializzazione. Ma ciò nonostante le due principali sezioni

del paese, nord e sud, procedevano ognuna per proprio conto,

quasi si trattasse di due entità distinte. Dopo il 1861 la classe

dirigente mutuò l’indirizzo liberista di cui Cavour era stato

massimo assertore. La politica di libero scambio rafforzò i

rapporti politici e diplomatici con Francia e Inghilterra per il

risanamento della finanza pubblica, tendendo comunque più a un

rilancio dell’agricoltura che a un autonomo potenziamento

dell’industria. Ma il rimedio a questo stato di cose, ossia il

passaggio al regime liberistico, fu in taluni casi troppo energico o

repentino. Negli esponenti della classe dirigente e negli

intellettuali fautori di una politica liberista si dava per scontato

che, nella divisione internazionale del lavoro, l’Italia non potesse

che perseguire lo sviluppo della produzione e delle risorse

cosiddette naturali. Il ruolo dell’industria appariva secondario o

marginale: per gli economisti liberisti l’agricoltura rimaneva più

vantaggiosa, la sola capace di generare ricchezza e occupazione,

di accrescere il reddito individuale e di alleviare i disagi delle

classi più povere. Solo Quintino Sella aveva compreso la

necessità di creare condizioni per l’espansione dell’attività

18

industriale. Senza una strategia industriale l’Italia non avrebbe

potuto allinearsi alle società più progredite. Sella era assertore

del rafforzamento dell’industria, e del progresso degli studi

tecnico scientifici. Con il protezionismo si aprì il mercato

nazionale e si posero le basi per una interconnessione fra le varie

aree della penisola per un progressivo ampliamento degli sbocchi

commerciali delle maggiori imprese. Dall’ultimo scorcio dell’800

prese a spirare il vento della ripresa, e l’inizio del nuovo secolo

diede vita a una fase intensa di sviluppo che produsse rilevanti

mutamenti di ordine strutturale. L’Italia ebbe la sua rivoluzione

industriale agli inizi del ‘900, e tale decollo giunse a compimento

alla fine della prima guerra mondiale, mentre primo ventennio

unitario aveva apportato vantaggi quasi esclusivamente

all’agricoltura.

Nel 1896 si scorgono in Italia i primi segni della ripresa

limitatamente al settore dell’industria e in particolare a quello

automobilistico. Maggiori importazioni di materie prime e

crescenti esportazioni di manufatti denunciano una

accentuazione dell’attività industriale. Migliorano le condizioni di

vita e aumenta il reddito pro capite.

Nel 1922-1923 si delinea una notevole ripresa in tutti i principali

settori dell’economia mondiale che doveva avere nei progressi

grandiosi del credito e dell’industria automobilistica le sue

19

maggiori forze propulsive. La prima guerra mondiale aveva certo

rappresentato una rottura nell’opera di progressivo sviluppo

dell’economia italiana, portando comunque a compimento altri

processi. Aumentarono i profitti siderurgici, quelli dell’industria

automobilistica crebbero dall’ 8,20% al 30,51%. Rapidissima fu

la diversificazione e l’espansione dell’industria meccanica. Si può

dire veramente che solo con la guerra l’Italia vide la nascita di

una nuova industria meccanica di dimensioni adeguate

all’apparato produttivo nazionale, e anzi eccedente in larga

misura i bisogni della produzione in tempo di pace. L’industria

degli armamenti produsse circa 12.000 pezzi di artiglieria,

37.000 mitragliatrici, oltre 79 milioni di proiettili. Le automobili

prodotte da 9.200 nel 1914 giunsero a 20.000 nel 1918, mentre

si iniziava la fabbricazione su grande scala di autocarri, e quella

di trattori di impiego militare, e si alimentava anche un’attiva

esportazione. In definitiva nel settore automobilistico non fu

necessario rincorrere le imprese straniere. La nostra industria

infatti si affermò fin dall’inizio, e in modo tale da acquisire

posizioni d’avanguardia. Come per altri paesi europei, il modello

a cui essa fece riferimento fu quello americano che già ai suoi

esordi si era imposto grazie all’opera e alle fortune di alcuni

pionieri (David Buick, il capostipite del grande impero della

General Motors ed Henry Ford, il padre del taylorismo). Sia pure

20

con un ritardo di una decina d’anni anche nel vecchio continente

l’industria automobilistica venne organizzandosi in funzione di

una produzione standardizzata, e i suoi sviluppi coinvolsero una

serie di altri settori (dal materiale elettrico alla gomma, dal vetro

all’alluminio, dai cuscinetti a sfere, alla carrozzeria), nonché le

fonderie di ghisa, di acciaio, di leghe leggere. E, se nel caso della

Francia e della Germania la nuova industria automobilistica

consentì di ridurre le distanze con l’Inghilterra, in Italia essa

contribuì non solo a creare nuovi posti di lavoro, ma ad

assecondare anche la formazione di un aggregato intermedio di

robuste fabbriche di macchine utensili,di componenti,di strumenti

di precisione e di servizi ausiliari. In Italia, dove il mondo

dell’automobile aveva esordito sull’onda più delle passioni

sportive e delle iniziative eccentriche di artigiani e carrozzieri di

lusso che sulla base di solide iniziative industriali e di sicure

prospettive di mercato, la fiammata d’interesse suscitata dai

primi successi dei colori italiani in alcune prestigiose gare

internazionali, indussero la FIAT (sorta nel 1899) e altre

fabbriche che s’erano affacciate alla ribalta (dall’Itala, all’Isotta-

Fraschini, alla Lancia) ad attrezzarsi in modo tale da concentrare

le operazioni di montaggio e quelle di carrozzeria, e da produrre

non soltanto veicoli di lusso e da diporto. L’ascesa travolgente

dei titoli delle principali case automobilistiche (che vide crescere

21

il capitale delle società anonime da 8 a 90 milioni) e il loro

brusco tracollo nella seconda metà del 1907, ai primi sintomi

della recessione manifestatasi su scala mondiale, provocarono

dissesti e fallimenti, ma non bloccarono lo slancio dell’industria

automobilistica. La FIAT, quantunque colpita duramente dalla

crisi, aveva approfittato delle supervalenze azionarie raggiunte

dai suoi titoli per rilevare una serie di stabilimenti meccanici e di

carrozzeria essenziali per avviare una produzione su basi

industriali e per realizzare adeguate economie di scala. Passata

la bufera che aveva travolto le aziende più deboli, le maggiori

imprese automobilistiche si erano così trovate nelle condizioni di

rafforzare il loro ruolo, cercando all’estero quei più ampi spazi di

mercato che l’alto prezzo delle vetture e il basso potere

d’acquisto del consumatore italiano non consentivano in patria.

Nel 1910 sorgeva a Milano una nuova impresa, l’ALFA, per

iniziativa di un gruppo di finanzieri appoggiati dalla Banca

Agricola Milanese che aveva rilevato lo stabilimento della società

francese Darraq; e due anni dopo la FIAT inaugurava la prima

linea di montaggio. A quel tempo il patrimonio della società

torinese s’era arricchito di nuovi complessi per lavorazioni iniziali

e terminali al ciclo dell’automobile: dalla RIV (fondata nel 1906)

per la fabbricazione di cuscinetti a sfera, all’Ansaldo specializzata

nella costruzione di grandi motori. Nel 1911 l’industria

22

automobilistica contava su di un saldo largamente attivo nel

movimento commerciale; e si era aperto, grazie alle commesse

di autocarri da parte del governo in occasione della guerra in

Libia, un nuovo campo d’espansione, come stava avvenendo in

paesi come la Germania,la Francia o l’Inghilterra, dove i comandi

militari avevano provveduto in quegli stessi anni a incrementare

il parco di veicoli e di camion a disposizione dell’esercito e dei

servizi ausiliari. E, accanto alle automobili, altri mezzi di

trasporto avevano cominciato a popolare sempre più le nostre

strade, grazie alla notevole produzione di tranvai e di biciclette.

Non bisogna dimenticare che lo sviluppo italiano nel suo

complesso –appunto perché era quello di un paese duale, in

bilico tra arretratezza e sviluppo-non poteva volgersi secondo gli

schemi 'classici’ di quello inglese a cui erano rivolti gli occhi degli

osservatori liberisti. Allo stesso modo lo sviluppo industriale

all’interno della penisola si svolse a macchia di leopardo.

Nell’Italia settentrionale infatti si concentrava alla fine del primo

decennio del secolo scorso tanto il maggior numero di aziende

industriali quanto la parte più rilevante degli stabilimenti di

imprese di medie-grandi dimensioni. Ancora più indicativa era la

concentrazione di impianti e di manodopera nelle regioni nord-

occidentali. Messe insieme, Lombardia, Piemonte e Liguria

avevano un peso specifico uguale a quello di tutto il resto della

23

penisola, per l’entità del personale occupato nell’industria, per il

numero di imprese che impiegavano più de dieci addetti e per la

quantità di energia consumata dalle industrie manifatturiere. Ma

soprattutto esse figuravano ai vertici della graduatoria nei settori

più moderni: dall’industria metalmeccanica alla chimica. Gli indici

di sviluppo non erano molto distanti da quelli del nord-est

francese, della Svizzera, del Belgio e della Germania. Né molto

dissimile era il grado di istruzione, dal momento che nel

“triangolo”nord-occidentale il numero degli analfabeti venne

abbassandosi intorno al 15 per cento della popolazione contro il

59 per cento delle regioni del mezzogiorno. Fu del resto questa

ristretta “isola” territoriale tra le Alpi, il Garda, e le due riviere

liguri a esprimere fin dai primi anni del secolo notevoli capacità

espansive. Di fondamentale importanza per il circondario

milanese era stata l’apertura nel 1882 della linea ferroviaria del

Gottardo che, ricalcando gli antichi tracciati stradali del traffico

internazionale fra l’Italia e il Mare del Nord, aveva rinverdito la

vocazione commerciale di Milano e accresciuto le sue potenzialità

industriali. Genova a sua volta aveva fatto leva sul crescente

sviluppo del commercio marittimo e sul regime protezionistico

per avviare la trasformazione economica della città e dare nuovo

impulso agli investimenti. Dopo il 1896 Genova era divenuta di

gran lunga il primo emporio italiano per volume di traffici, per

24

movimento di navi in entrata e in uscita, per densità di agenzie

commerciali e di compagnie di assicurazione. Nel 1913 il

capoluogo ligure era in testa alla graduatoria dei traffici

commerciali con l’estero. A completare il “triangolo industriale”

era poi sopraggiunta l’espansione dell’industria automobilistica e

metalmeccanica torinese. Diversi fattori avevano assecondato la

crescita economica in questa parte della penisola, ma anche in

alcune zone del nord-est con livelli intermedi di

industrializzazione. Particolare rilevanza ebbe in questo senso

l’apertura dell’industria italiana verso il mercato internazionale,

che favorì la localizzazione degli stabilimenti là dove essi

potevano disporre di un’intelaiatura di servizi collettivi e di

prestazioni sussidiarie. Anche le interdipendenze fra l’evoluzione

di un’agricoltura orientata verso più aggiornati sistemi di

conduzione, la crescita dei redditi della borghesia rurale, la

domanda di nuovi capitali da parte dell’industria e l’offerta di

beni e prodotti finiti indispensabili al rinnovamento delle

campagne, concorsero alla polarizzazione dello sviluppo

economico nelle regioni del nord. In queste zone era concentrata

inoltre la quota più considerevole di risorse finanziarie, da quelle

delle casse di risparmio a quelle delle grandi banche di credito

ordinario e di altri enti. Ciò significava una maggiore disponibilità

di mezzi per investimenti anche in esercizi commerciali. Questi e

25

altri requisiti resero possibile la formazione di un sistema

economico relativamente unitario, articolato intorno alle città di

Milano, Torino e Genova, ma sorretto anche da una ossatura

robusta in grossi centri urbani (da Bologna a Piacenza a Parma,

da Padova a Verona a Venezia. Per molti aspetti il “triangolo

industriale” aveva così assunto una fisionomia del tutto specifica.

Il dualismo fra le regioni settentrionali e quelle meridionali non fu

in realtà dovuto allo sfruttamento delle risorse del mezzogiorno

da parte del nord. E’ vero piuttosto che al ristagno del sud

concorsero sia le limitate possibilità di accumulazione del capitale

dell’agricoltura meridionale, sia le scarse opportunità di

investimenti offerte dall’economia locale a imprenditori stranieri

e di altre regioni.

26

II. Musei nell’Ottocento

II. 1 Nascita dei musei

Dopo la prima rivoluzione industriale inglese un altro

cambiamento epocale è stato la rivoluzione francese.

Alessandra Mottola Molfino in Il libro dei musei dedica un capitolo

ai <<Musei della Ragione>>6 per spiegare come i musei moderni

siano stati creati dall’illuminismo e aperti dalla rivoluzione.

Il 10 agosto 1793 la sede delle collezioni private dei re di

Francia, il Louvre, diventa <<Museè Révolutionnaire>> ed è

aperto al pubblico.

Cosa era accaduto?

Il museo è un messaggio complesso da decodificare, è un

segnale storico preciso, e la rivoluzione francese si esprime

6cfr. A.Mottola Molfino, Il libro dei musei, Allemandi, Torino, 2000, pagg. 11-42

27

anche nei confronti dell’istituzione museale. Il Louvre, il prodotto

della nazionalizzazione del patrimonio reale e dei nobili di

Francia, subisce un cambio radicale di proprietà. L’ex palazzo

regale diventa pubblico: è la fine del regno e l’inizio della

repubblica. E’ aperto il sabato e la domenica dalle 9 alle 16 con

ingresso libero. E’ dotato di cartellini, di visite guidate e di

cataloghi a buon prezzo destinati a tutti. Aperto al pubblico vuol

dire che chiunque ha il diritto – se vuole - di entrare. Il

pagamento di un eventuale biglietto è una variabile non

secondaria. Non c’è più il “permesso” concesso da un’autorità

che, quantunque fosse generosamente elargito, conservava la

sua natura di un beneficio concesso, di un “piacere”. Pagare per

entrare è un un’operazione democratica. Ognuno può decidere di

accedervi, è aperto a tutti tecnicamente e culturalmente. Gli

ideali illuministici trovano la loro compiuta affermazione .Si crede

nella perfettibilità dell’uomo che può crescere e migliorare, e il

museo è finalizzato all’educazione di tutti i cittadini. Con la

rivoluzione il museo si afferma come un’istituzione di interesse

pubblico come la scuola, inserito nel sistema educativo statale.

Prima del Louvre solo i Musei Capitolini fondati con la donazione

di Sisto IV nel 1471 erano aperti a tutti, anche se solo in alcune

determinate ricorrenze annuali. Il papa, non avendo eredi, dona

al senato e al popolo romano i simboli dell’antica Roma: alcuni

28

bronzi – tra cui la lupa – ed alcuni marmi. Alessandra Mottola

Molfino afferma che l’illuminismo crea i musei e la rivoluzione li

apre. In effetti il museo illuministico è aperto a un pubblico

sempre più vasto, ma non a tutti.

Il Pio Clementino era aperto a molti ma non era giuridicamente

pubblico (pubblico come si intende dalla rivoluzione francese in

poi): è ancora solo un sintomo – anche particolarmente evidente

– di quell’elemento pubblicistico che esploderà dopo.

Ma perché nascono i grandi musei romani settecenteschi,

“pubblici” o privati che siano?

Le autrici de Il possesso della bellezza7 individuano l’Italia come

meta decisiva del Gran Tour europeo per i giovani europei, e

Roma come la tappa più importante per l’acquisto di opere d’arte

antica. Qui infatti c’erano le migliori opere perché il sottosuolo

era ricchissimo e i pontefici sono sempre stati grandi

collezionisti. Il viaggio era diventato un esercizio indispensabile

per una educazione nobiliare e culturale, e acquistare antichità

era segno distintivo di classe, di censo,di intelligenza e

raffinatezza. Il turismo del settecento aveva effetti positivi per

l’economia dello stato della Chiesa, ma incidenza negativa sul

patrimonio a causa dei furti di opere e del mercato selvaggio

organizzato intorno ad esse. Le opere che erano a Roma

7 Molfino, Il possesso della bellezza ,Allemandi, Torino,1997, pag. 103

29

finivano, spesso clandestinamente, nelle collezioni di tutta

Europa, e lo stato della Chiesa, conoscendo bene questa realtà,

emana editti per tutelare il patrimonio. L’illuminismo è stato

anche il secolo delle leggi sui beni culturali. Che arrivino turisti e

collezionisti va benissimo, che ci sia un mercato legale intorno

alle opere va bene,ma se vengono ed esportano

clandestinamente non va più bene. Come è ovvio, niente di

nuovo sotto il sole!Basta ricordare le orazioni di Cicerone contro

Verre: le spoglie dei vinti a spasso sul carro dei vincitori ci

ricordano che da sempre l’arte è bottino di guerra 8.

Al riguardo l’Editto Pacca del 1802 è esaustivo. Bisogna bloccare

le esportazioni perché le opere d’arte sono decoro dell’alma città

di Roma; decontestualizzate, non parlano più, oppure dicono

poco e male: infatti esse parlano la lingua del luogo; sono

documenti per antiquari e storici;sono modelli per i nuovi artisti

che si formano nell’Accademia di San Luca;attraggono altri

turisti. Sia l’Editto del cardinale Valente Gonzaga del 1750, che

l’Editto Pacca del 1802, sono leggi vincolistiche. Dicono cosa è

possibile esportare e secondo quale burocrazia, e le eventuali

pene in caso di inadempienza. La nascita del museo ha pertanto

come scopo meno ufficiale quello di sistematizzare e di dare un

crisma inattaccabile ai valori del mercato antiquario, ma anche e

8 cfr.K.Pomian, Collezione,sta in AA.VV.,Enciclopedia,Einaudi,Torino,1978,vol.III,pagg. 336-338

30

soprattutto quello di fermare le esportazioni illegali. Il museo Pio

Clementino9 voluto dai pontefici Clemente XIV e Pio VI partire

dagli anni settanta del XVIII secolo, e Villa Albani già nel 1746,

furono tra i primi a porsi il problema di uno spazio architettonico

per l’allestimento e l’ordinamento delle collezioni archeologiche.

Il primo è il seguito illuminato, la consacrazione, la

valorizzazione dell’esperienza dei Musei Capitolini. E’ sistematico

ed è organizzato per tipologie e sale tematiche, è un museo

illuministico. Villa Albani invece, pur essendo di fatto aperto a

selezionati visitatori, è privata. Il cardinale Alessandro Albani,

collezionista, conoscitore e antiquario,fa costruire una villa-

museo sulla via Salaria per esporre una delle sue collezioni. E’

un’idea moderna. Fa costruire un edificio ex novo,

un‘’contenitore’’ che deve esporre in modo museografico e

museologico corretto il “contenuto’’, la raccolta. L’architetto è

Carlo Marchionni e sceglie per la villa uno stile difficile da

definire, uno stile di transizione tra rococò e primissimo

neoclassicismo. Il museologo che cura i percorsi espositivi è

Winckelmann, il più grande e innovativo degli archeologi del

9 A.Mottola Molfino, op cit, pagg. 8-9.L’autrice ne Il libro dei musei annovera il museo Pio Clementino tra i suoi <<musei del cuore>>, dedicandogli un gruppo di immagini a colori fuori testo. Comunica così la sua predilezione per i musei “auratici”, caldi, caratterizzati dalla più stretta coerenza tra “contenitore e contenuto”. Come direttrice dal 1973 del Museo Poldi Pezzoli preferisce le esposizioni di tipo ambientalistico, come in una casa-museo, perché gli oggetti richiamano anche la loro funzione di uso. La scelta di questi musei conferma la tesi del libro: i musei che hanno rispettato nel tempo gli allestimenti originali hanno curato non solo la lettura delle singole opere, ma anche quella dell’opera –museo complessiva. Quest’ultimo infatti è un documento globale della storia della cultura e del gusto:una vera <<gesamtkunstwerk>>.

31

tempo. A questi due musei mancava quindi solo l’ultimo passo,

aprire al pubblico,che sarà compiuto dal Louvre (non a caso

finiranno qui tutte le opere che saranno razziate da Napoleone)

In conclusione il museo moderno nasce come male necessario,

come luogo della memoria e della storia. E’ il prodotto della

decontestualizzazione, è il luogo atto alla conservazione, fa fruire

a un pubblico sempre più ampio una serie di oggetti che

altrimenti andrebbero persi. Le opere vengono sottratte ai loro

contesti originari, smarriscono la loro funzione originaria (un

quadro per esempio non ha più la funzione di arredamento), e

trovano un nuovo contesto. Questo è quello che accade nei

musei ottocenteschi, nei <<Musei della Colpa>> 10.

Qual è la colpa? Quella – innanzitutto - di essere depositi di

opere asportate dai contesti originari. Nell’epoca della

restaurazione i vecchi sovrani spodestati torneranno pure sui loro

troni, ed anche questa è una “colpa” di cui farsi perdonare, ma le

opere uscite dal “chiuso’’ dei privati palazzi del potere non vi

ritorneranno più. Nella chiesa, o nel palazzo per cui erano stati

dipinti, i quadri avevano avuto precise relazioni ambientali e

avevano il compito di trasmettere messaggi selezionati

all’origine; in una pinacoteca erano ora accostati e confrontati

con altri quadri e sollecitati a comunicare soprattutto i percorsi

10cfr. A.Mottola Molfino, op cit, pagg. 43-62

32

storico-artistici individuati da chi li studia: dagli storici dell’arte,

dai conoscitori,dai direttori dei musei. D’ora in poi rifletteranno

nella loro disposizione lo stato degli studi specialistici.

Contro la forma museo protesterà nel 1796 Quatremère de

Quincy con le sue Lettre al generale Francisco de Miranda 11 che

danno voce alle preoccupazioni degli studiosi per lo

smembramento dei contesti e per l’impossibilità di studiare le

opere antiche nella loro sede naturale. L’intellettuale francese

odia i musei e difende i contesti originali in cui le opere si

trovano perché corrispondono alla loro collocazione morale,

religiosa, estetica, collezionistica.Tuttavia la sua tesi, benché

convincente, subirà una flagrante contraddizione nel 1818

davanti ai marmi del Partenone.Nelle sale del British Museum

ammira i marmi tolti dall’Acropoli nel 1812 dal console inglese

Thomas Bruce Lord Elgin, e acquistati nel 1816 dal parlamento

inglese. Nelle lettere da Londra a Canova del giugno 1818 sui

marmi fidaci, Quatremère cerca di giustificare la propria

approvazione con ragioni politiche e morali (il governo greco-

turco aveva spontaneamente concesso le sculture che non erano

quindi prede di guerra), con ragioni di gusto (sul Partenone

erano invisibili, collocate così in alto), e di conservazione (ad

Atene tutto deperisce e nessuno va a visitare quei luoghi).

11cfr. F.Molfino-A.Mottola Molfino, op cit, pagg. 122-131

33

Gennaro Matacena sul n.6 di Museologia pubblica un articolo dal

titolo Museo come<< Istituzione Totale>> 12.Sul piano dei ruoli

e dell’utilità sociale – dice Matacena – non c’è alcuna differenza

tra il museo, lo zoo, l’ospedale psichiatrico o il carcere. Sono

tutte istituzioni che servono il potere. Non v’è alcuna

disomogeneità tra la <<Gioconda>>, una tigre in gabbia, un

<<pazzo>>, un recluso. Sono tutti accomunati dall’alienazione,

frutto della divisione capitalistica dei ruoli. Il pazzo è alienato nei

confronti della società a causa dei rapporti di produzione che

tendono alla emarginazione del più debole. Privato dei rapporti

sociali, escluso dal mercato del lavoro, viene terapeuticamente

rinchiuso tra quattro mura. Allo stesso modo il museo e

l’ospedale psichiatrico rendono alienato ciò che in essi entra. A

dispetto di chi vuole considerare il museo come un luogo eletto e

perciò inviolabile, è emblematico proprio il gesto del folle che, a

volte, finisce per scagliarsi sul capolavoro custodito nel tempio

dell’arte. Per Matacena è un gesto di rivalsa ideologica secondo il

meccanismo della “proiezione”. La realizzazione del desiderio di

vendetta viene spostato da un bersaglio irraggiungibile ad uno

possibile: dalla istituzione “totale” ospedale, di cui il folle è

succube, verso l’istituzione museo, più facile da aggredire e più

soddisfacente sul piano psicologico. La Gioconda, la Pietà, come

12 G.Matacena, Museo come <<Istituzione Totale>>, sta in “Museologia”, 1977, n°6, pagg. 29-56

34

il <<matto>> sono vittime di un sistema discriminatorio.

Sembrerebbe, quindi, logico che l’ira del folle le risparmiasse.

Scegliendo il capolavoro, al di là del gesto eclatante che

certamente serve almeno una volta a richiamare l’attenzione

della società su di sé, il folle punisce la stesa società colpendola

nei suoi feticci, nel cuore stesso delle istituzioni <<sacre ai riti

del bene>>13. Lo stesso discorso vale per lo zoo e per gli animali

che vi sono esposti. Le prime “raccolte’’ di animali cominciarono

con gli stessi presupposti di quelle d’arte: prima il desiderio di

manifestare la propria potenza con l’esibizione di animali feroci e

selvaggi e poi in epoca illuminista la divulgazione della

conoscenza del regno animale. Questo secondo fine non fu

comunque esente dal compiacimento di mostrare il potere della

scienza – soggiogare la natura anche se per fini superiori come

quello divulgativo – e quindi della classe borghese. Il nodo su cui

ruotano le osservazioni di Gennaro Matacena e che investe

questo tipo di istituzione è quello della ridefinizione del loro

ruolo. Il museo si è adoperato all’affermazione del Bene ed ha

fornito una interpretazione della storia e dei suoi prodotti. Ha

esaltato valori ideologicamente finalizzabili; ha tradito perciò il

suo fine dichiarato – quello cioè di servire oggettivamente la

conoscenza – e si è chiuso su sé stesso alla stregua di ogni altra

13 ivi,pag. 46

35

istituzione totale14.Queste istituzioni possono svolgere un

compito prezioso, purchè riescano realmente ad elevare il livello

della conoscenza, in una visione democratica, problematica e

costantemente riferita alla realtà storica e non più chiusa nei

limiti di uno specifico asservito ad una logica15. Alberto Boralevi

sul n.7 di Museologia nell’articolo dal titolo Museo come

comunicazione totale16 definisce suggestivo l’articolo di Gennaro

Matacena e scrive che la proposta di lettura del museo in quanto

istituzione totale <<richiama alla mente altre posizioni

antimuseali che hanno spesso caratterizzato le dichiarazioni

programmatiche di certa cultura d’avanguardia>>17.

Così i futuristi, nel loro Manifesto (Parigi 1909), dichiaravano i

musei luoghi ammissibili solo per i moribondi, non certo per i

<<giovani e forti Futuristi>>. Con questo non si può certo dire

che questi Futuristi<<della prima ora>> mancassero di coerenza

perché, essendo il <<Passato>>, e cioè la storia, il<<nemico

numero uno>>, vedevano proprio nei musei -contenitori di

storia- gli obiettivi strategici e più significativi contro cui sparare

le loro roboanti cannonate. Tuttavia i musei esistono ancora e

anzi hanno avuto un vertiginoso sviluppo dopo l’ultimo

14 ibidem. Una istituzione totale -secondo Matacena- si fonda sul funzionamento separato e passivo delle sue parti, sotto l’egida di un controllo superiore che, a sua volta, è funzionale agli obiettivi del sistema. 15 ivi,pag. 48 16 A.Boralevi, Museo come comunicazione totale, sta in “Museologia’’, 1980, n°7, pagg.51-60 17 ivi,pag. 51

36

dopoguerra. Il museo però non è solo un <<contenitore di

storia>>, ma anche e soprattutto un <<promotore di cultura>>.

La più moderna ed efficace definizione è quella elaborata

dall’americano Duncan Cameron, che definisce il museo

come<<unico mezzo di comunicazione basato sul linguaggio non

verbale degli oggetti e dei fenomeni naturali>> 18.Con questa

definizione cadono le critiche rivolte al museo in quanto

istituzione per la conservazione. Tuttavia una volta riconosciuto

in teoria come “medium” più che come istituzione, occorre che

diventi tale anche sul piano operativo. Nel museo moderno la

funzione della comunicazione è in contrasto con quella della

conservazione. Considerando la realtà dei musei italiani, afferma

l’autore, bisogna riuscire a trovare il giusto equilibrio tra

comunicazione e conservazione. Questo infine è il compito della

museologia e della museografia: individuare le tecniche e le

strategie operative affinché il museo diventi sempre più

comunicante senza però recare danno agli oggetti e alla loro

conservazione.

Andrea Emiliani, nel saggio Il museo laboratorio della storia, 19

traccia il percorso dell’evoluzione del museo da luogo di raccolta

di reperti a moderno strumento di conservazione, di scienza e di

18 cit in ivi,pag. 53 19cfr. A.Emiliani, Il museo laboratorio della storia, sta in AA.VV., I musei,Touring Club Italiano, Milano, 1980, pagg. 19-46

37

didattica. E’ un modello di cultura e un laboratorio di istruzione,

nel quale il fine conservativo e di tutela fisica degli oggetti si

associa senza fatica, ma anzi con spontaneità, al fine educativo.

I musei storico-artistici “giocano’’ con le Accademie, i musei

scientifici “giocano’’ con l’Università. Musei didattici, pedagogici,

utili, luoghi di formazione come aule universitarie. Tali obiettivi

sono rintracciabili anche in altre tipologie museali dell’Ottocento.

II.2 Musei industriali e artistico-industriali

Prototipo del museo industriale e antesignano degli attuali musei

aziendali è il Conservatoire des arts et mètier fondato a Parigi,

nel 1794 20. <<Vero museo industriale sotto il punto di vista

precipuo della scienza applicata all’industria>>, così osservò nel

1873 Codazza, poiché

<<sullo scorcio del passato secolo dovette riconoscere la Francia che se poteva tenere il primato per i lavori che richiedono gusto e abilità manuale, per gli oggetti di lusso e ornamentazione, tuttavia sotto il punto di vista industriale non poteva gareggiare con l’Inghilterra, sussidiata com’era dalle potenti sue macchine

20cfr. M.Amari, I musei delle aziende. La cultura della tecnica tra arte e storia. Franco Angeli, Milano, 2001, pag. 22

38

motrici, e dalle meravigliose macchine operatrici, diffuse in ogni parte del regno, non meno che dagli assidui perfezionamenti che i suoi ingegneri sapevano introdurre in tutti i dettagli di esse e dalla educazione pratica de’suoi operai nel loro uso>>21.

Società che vai museo che trovi: il Conservatoire, segnale storico

preciso, rivela la condizione della Francia del tempo. Il paese sa

di essere arretrato sul piano della produzione rispetto

all’Inghilterra e pensa ad una soluzione illuministica, concreta

compiendo un’operazione funzionale. Crea un museo dove

espone macchine, modelli, brevetti, descrizioni e libri di tutti i

generi di arti e mestieri, <<un dépot public de machines,

modèles, outils, dessins, descriptions et livres de tous les genres

et mètiers >>22. Risponde alla situazione economica francese del

XVIII secolo, ma riflette il recupero in chiave umanistica del

pensiero e della stessa pratica tecnica e scientifica operato dalla

cultura illuminista. Presso il museo, anche se soltanto a partire

dal 1819, furono istituiti corsi di scienze applicate: chimica,

meccanica, costruzioni e agraria. E’ un museo attivo e didattico:

vuole dare modelli per stimolare la manifattura e farla diventare

industria. A tal fine ha bisogno di “ informare per formare "sia gli

operai che gli industriali. Lo stesso movente indusse Giuseppe De

Vincenzi ad istituire, a Torino, il Regio Museo Industriale che,

21 cit in A.Buzzoni, Musei dell’Ottocento,sta in, AA.VV., I musei,Touring Club Italiano, Milano, 1980, pag. 160 22 ibidem

39

negli intenti del suo fondatore, avrebbe dovuto concorrere ad

elaborare e a promuovere una diversa strategia dello sviluppo

economico nazionale. Il modello francese di museo industriale

ebbe scarso seguito in Europa, se si esclude, appunto, il caso di

Torino. Maggiore fortuna ebbe invece la tipologia del londinese

South Kensington, il prototipo dei musei d’arte e industria.

Fondato nel 1852, è la prima istituzione museale di questo

genere. Venne concepito <<propriamente sotto il punto di vista

dell’arte applicata all’industria>>, e nacque dalla constatazione

fatta <<dallo spirito eminentemente pratico degli inglesi>> in

occasione della celebre Esposizione Universale tenutasi a Londra,

nel Palazzo di Cristallo, nel 1851, allorquando ci si rese conto

<<della superiorità dei prodotti francesi sotto il punto di vista del

gusto e dell’arte, ciò che li rendeva più ricercati ed accetti>>.

Una constatazione che li convinse, appunto, <<della necessità di

educare il gusto non solo dei fabbricanti e degli operai, ma altresì

del pubblico>> 23.

Il primo maggio 1851 si inaugura sotto la volta trasparente in

ferro e vetro, costruita da Joseph Paxton, la prima Esposizione

Universale. Gli espositori provenivano da tutto il mondo

industrializzato del tempo e gli oggetti esposti costituivano il

meglio della produzione industriale dell’epoca. L’Esposizione non

23 ibidem

40

seguiva nessun ordinamento estetico, l’unica differenziazione era

la divisione per paesi, e l’impressione era quella di una moderna

“wunderkammer’’. L’uso della scienza era finalizzato alla

meraviglia. Questa Esposizione era tipica espressione dello

spirito di emulazione ottocentesco, secondo cui i momenti

espositivi sono necessari per educare non solo il gusto dei

fabbricanti e degli operai, ma anche quello del pubblico.

<<Esse sono le sole che ci possano agevolmente far conoscere

le attitudini e le capacità delle varie nazioni e quali siano le

industrie destinate a divenire grandi presso i diversi popoli. Sono

inoltre queste esposizioni mezzi adattissimi per convertire a

vantaggio generale gli studi e i trovati di ciascuna nazione.

Un’Esposizione Universale è una gran scuola di mutuo

insegnamento dell’universalità del genere umano>>24.

Dal confronto con gli altri paesi la Gran Bretagna si accorse di

avere poca qualità nella sua produzione in serie. La riunione degli

oggetti – manifatturieri e industriali - di tanti paesi, il loro

immediato confronto e la faciltà grandissima di avere notizie ed

informazioni di tutte le parti del mondo, offrono tale e tanta

opportunità per fare analisi ed indagini, che in pochi giorni si può

giungere a considerazioni che in altri tempi avrebbe richiesto 24 G.Benso di Cavour-G.De Vincenzi, Relazione al ministro d’Agricoltura, Industria e Commercio dei Regii Commissari generali del Regno d’Italia presso l’Esposizione Internazionale del 1862, W.Trounce, Londra 1862, pag. 4

41

lunghi viaggi e tempi lunghi. La produzione manifatturiera

francese creava oggetti fatti a mano, ciascuno dei quali è in

fondo un unicum, mentre la produzione industriale inglese

produceva in serie e a buon prezzo, ma con poco gusto. Le due

nemiche storiche si rincorrevano anche su questo piano. Gli

stessi organizzatori dell’esposizione londinese non disperderanno

gli esempi commerciali e tecnici più significativi del nuovo

sviluppo industriale. Il South Kensington sarà infatti costituito in

gran parte con gli oggetti esposti all’Esposizione Universale, e nel

1899 fu ribattezzato, diventando Victoria and Albert Museum25.

Era il più grande museo al mondo di arti decorative, e applicate,

pertanto molto diverso da quelli delle “arti maggiori’’, conservava

l’anima dell’Esposizione Universale, esponeva ogni genere di

oggetti e il pubblico accorre molto numeroso. Il primo museo a

ispirarsi al South Kensington fu l’Österreichisches Museum für

Kunst und Industrie, fondato a Vienna nel 1863; poi nel 1867 il

KunstGewerbe Museum di Berlino. In Italia invece fu fondato a

Roma nel 1873 il Regio Museo Artistico Industriale, intitolato nel

1876 <<Museo del Medioevo e del Rinascimento per lo studio

dell’arte applicata all’industria>>, che beneficiò degli oggetti

d’arte dell’Esposizione di arte decorativa e industriale allestita a

Roma nel 1881. Nel 1954, dopo settant’anni di continui traslochi

25 Il principe Alberto con gli utili dell’Esposizione acquistò i terreni sui quali sorsero gli edifici

42

in scuole ed ex conventi, fu soppresso, smontato e disperso tra i

musei comunali, Palazzo Venezia, Palazzo Barberini, Castel

Sant’Angelo. La storia della nascita del M.A.I di Roma fino alla

diaspora delle sue collezioni è analizzata in un libro pubblicato

nel 2005 dal Ministero per i Beni e le Attività culturali e

dall’Istituto centrale per il catalogo e la documentazione26.Uno

dei saggi contenuti, in questo testo di recente pubblicazione, è

quello di Michela Cesarini27 e ha come titolo Il M.A.I.di Roma.

Una istituzione in linea con le esperienze museali più avanzate

dell’epoca28. L’autrice scrive che l’apertura del Museo d’arte

applicata all’industria, il I marzo del 1874 nei locali dell’ex

convento di San Lorenzo in Lucina, costituì il primo passo verso

l’attuazione di un ambizioso progetto discusso da lungo tempo in

consiglio comunale: fondare a Roma un museo ispirato al South

Kensington di Londra. Il regolamento, stilato e dibattuto in seno

alla giunta municipale nella primavera dell’anno precedente,

stabilì sia lo scopo che la struttura. Sebbene al municipio spetti il

merito di aver reso possibile la creazione del museo, questa

istituzione rappresentò il concretizzarsi di un progetto che da

26 G.Borghini (a cura di ), Storia del museo artistico industriale di Roma, Ministero per i beni e le attività culturali-ICCD, Roma, 2005 27 Michela Cesarini si è laureata presso l’Università degli Studi di Firenze nel luglio del 1996, nell’ambito della cattedra di Museologia,con una tesi di laurea dal titolo ‘’Il museo d’arte industriale: il dibattito in Italia attraverso le vicende del Museo romano’’. Il suo intervento nel testo pubblicato dal Ministero costituisce una sintesi della sua tesi di laurea. 28 M.Cesarini, Il M.A.I. di Roma. Una istituzione in linea con le esperienze più avanzate dell’epoca,sta in AA.VV,op cit,pagg.53-71

43

diversi anni stava a cuore ad una figura estremamente

importante e significativa nel panorama culturale e politico

italiano: il principe Baldassarre Odescalchi. Già dal 1871 il

principe aveva espresso precise e dettagliate direttive sulla

tipologia delle opere da raccogliere nell’istituto romano:

<<cristalli di Venezia fatti ad imitazione delle antiche fabbriche

di Murano, alle porcellane di Ginori, agli intarsi ed intagli in legno

di Bologna, Pisa e Siena, alla mobilia fatta ad imitazione antica a

Milano, all’oreficeria della scuola di Castellani di Roma e Napoli,

ai lavori di corallo e di intarsiatura in tartaruga di detta città, ai

mosaici di Venezia,Roma e Firenze >>29, tutto ciò avrebbe

dovuto affiancarsi agli analoghi prodotti d’arte creati nei secoli

passati dai nostri antichi maestri. Nel 1880 Odescalchi ricevette

dal Ministero dell’agricoltura, industria e commercio, l’importante

compito di recarsi in Inghilterra,Francia e Belgio, al fine di

studiare l’ordinamento dei musei d’arte industriale ivi presenti e

delle istituzioni scolastiche annesse, nonché analizzare l’influsso

che tali organismi esercitavano sulla produzione manifatturiera.

Odescalchi individuò nel rinnovamento delle tradizionali

produzioni artistiche nazionali –intagli e oreficeria, arte vetraria,

ceramica, tessuti – lo sviluppo industriale più consono alle

caratteristiche dell’economia italiana e alle attitudini dei nostri

29 cit. in ivi ,pag. 53

44

lavoratori. <<…L’italiano non sembra nato pel lavoro delle

macchine; le sue stesse forze non ve lo spingono. Secco e

nervoso, sobrio, impaziente, attivo e laborioso a tratti, ma

spesso scoraggiato, dominato da una immaginazione che lo

innalza alle nuvole per gettarlo poi al più basso della terra,egli

non ha nulla dell’operaio modello>>30. Odescalchi pur essendo

consapevole della diversa situazione economica su cui agirono i

musei d’arte industriale nei paesi europei, fu ugualmente

convinto della loro utilità in Italia, in quanto rivolti ad una

produzione in sintonia con le attitudini innate dell’operaio

italiano. Occorreva a suo avviso fondare musei d’arte industriale,

<<vere università del lavoro>>, depositari di modelli storici dalle

corrette forme artistiche da riutilizzare nella moderna produzione

manifatturiera. Il rifiorire delle antiche attività artigianali avrebbe

consentito all’Italia di inserirsi nel moderno sistema economico

europeo, con il vantaggio di evitare il notevole degrado sociale

connesso alla produzione meccanizzata. Nelle scuole annesse agli

istituti, infatti, si sarebbe insegnato un mestiere decoroso e

richiesto dai manifattori che volevano migliorare la loro

produzione, adeguandola ai desideri della clientela

europea.’’Risvegliare’’ le tradizionali manifatture italiane è un fine

che fraintende lo scopo degli analoghi musei stranieri. La

30cit. in ivi, pag. 67

45

Cesarini spiega bene questo punto cruciale. Il South Kensington

si presentava come <<una vera enciclopedia >>nella quale.

<< gli studiosi si trovano schierati sotto gli occhi gli oggetti o i

disegni riferibili a pressoché tutto lo scibile umano>>31. Lo scopo

di questa istituzione era quello di correggere lo scadente design

della produzione industriale britannica di oggetti d’arte

ornamentale. Alla base del sistema didattico-espositivo del South

Kensington c’erano le riflessioni di sir Henry Cole, personaggio di

primo piano nella direzione dell’istituto. Egli impegnò l’azione

metodologica e pedagogica del museo sul concetto di

<<imparare a vedere>>. In Inghilterra la prima rivoluzione

industriale apportò una sostanziale modifica del sistema

lavorativo e separò la fase progettuale da quella esecutiva. L’atto

creativo divenne appannaggio esclusivo del designer, con la

conseguente perdita dell’abilità disegnativa e del buon gusto

degli operai, dovuta alla loro condizione di esecutori materiali di

singole sezioni di produzione. Cole ideò l’espressione art

manufacturer <<intendendo le belle arti o la bellezza applicati

alla produzione industriale >>32. Nel secolo scorso gli oggetti

dotati di una forma armoniosa erano denominati opere di arte

industriale, e venivano distinti dagli oggetti appartenenti alle

31 ivi, pag. 54. 32 ibidem

46

belle arti in base al concetto di utile. Lo stesso Gaetano Filangieri

dirà <<l’arte e l’industria comprendono tutta l’umana attività:

l’una e l’altra hanno modo lor proprio. L’industria si prefigge

l’utile; l’arte la ricerca del bello.Donde l’arte addirizzata

all’industria è l’utile nel bello. E’ questo l’enunziato del problema,

che a’ nostri giorni intende risolversi, a mezzo dei Musei Artistici

Industriali’’33. L’Italia, diversamente dall’Inghilterra, ebbe tempi

e modi propri per realizzare l’avvio all’industrializzazione.

Pertanto, ed è questo un elemento imprescindibile nell’analisi, il

dibattito sulla necessità di fondare musei d’arte industriale

avvenne in un momento delicato della storia italiana, ovvero<<in

coincidenza con le trasformazioni economiche, culturali ed

amministrative tese ad integrare la rapida unificazione politica

>>34. Coloro che proposero per il “bel paese” uno sviluppo

industriale incentrato sulle manifatture artistiche non si resero

conto di incentivare uno sviluppo economico regressivo. Nel

nostro Paese, inoltre, le arti applicate non sono state considerate

tipologie artistiche alle quali dedicare numerose e forti entità

museali. I pochi musei d’arte industriale italiani, a causa del

modesto sussidio dello stato, della generale indifferenza

dell’opinione pubblica ed in particolare degli imprenditori, ai quali

esplicitamente si indirizzavano, si differenziarono, dunque,

33cit.in ivi,pag.66 34 ivi, pag. 55

47

profondamente da quelli europei per il debole influsso esercitato

sulle manifatture e per gli esigui mezzi economici a disposizione.

Attraverso le collezioni degli istituti d’arte, continua la Cesarini,

non fu possibile incentivare l’industria e modernizzare il sistema

produttivo italiano. L’industria continuò inesorabile il suo

cammino e tali istituti si trasformarono in musei di tipo

tradizionale. La storia del Museo d’Arte Industriale di Roma, ad

esempio, fu costellata da continui traslochi in locali di ex-

conventi, inadeguati, nel ristretto spazio concesso e nella

struttura architettonica ereditata, all’esercizio di funzioni e

prerogative di un museo d’arte industriale. La ricerca di un

edificio adatto all’esposizione ottimale delle raccolte e dotato di

spazi in cui impartire l’istruzione artistico-industriale rappresentò

la principale preoccupazione dei curatori del museo, i quali

cercarono invano di sensibilizzare sia gli organi governativi che

quelli municipali a concedere locali più adeguati, insieme a

contributi economici più cospicui. Nonostante le contraddizioni e

le traversie a cui si è accennato, il Museo d’Arte Industriale di

Roma fu l’istituto italiano più simile al celebre South Kensington

di Londra. Nell’istituto romano coesistettero infatti tutti gli

elementi considerati indispensabili all’attività di un museo d’arte

industriale: collezioni d’arte decorativa, scuole, biblioteca,

laboratorio di riproduzione in gesso ed esposizioni temporanee.

48

Nell’ultimo ventennio dell’Ottocento Roma non fu l’unica città che

ebbe un museo artistico industriale. A Milano nel 1878 al Museo

Artistico Municipale fu affiancata una scuola d’arte. A Napoli il

Museo Artistico Industriale (M.A.I), fondato nel 1878, fu

inaugurato nel 1889. Il 25 novembre 1878 F. De Sanctis, allora

ministro della Pubblica Istruzione, <<per l’utilità che verrebbe

agli insegnamenti della seconda sezione dl Real Istituto di Belle

Arti, quando le si aggiungesse un museo industriale>>35 nomina

una commissione per l’istituzione di un simile museo. Tra i

membri della commissione c’era Gaetano Filangieri (presidente),

Filippo Palizzi, Domenico Morelli, Demetrio Salazaro (segretario).

Nell’articolo 1 dello statuto del Museo si legge: <<al fine di

concorrere all’istruzione di artisti ed artigiani e di promuovere

l’operosità delle arti e delle industrie, nonché nobilitarne il

gusto..>>36. L’articolo 2 riguarda il contenuto del museo; fanno

parte della collezione oggetti d’arte applicata antichi o moderni

(copie o originali), relativi sia alle industrie già esistenti nel

paese, sia a quelle che si sarebbero potuto sviluppare. Corredo

indispensabile al museo erano quattro officine nelle quali l’allievo

poteva perfezionarsi non solo teoricamente ma anche

praticamente, avendo a sua completa disposizione sia le materia

prime da lavorare che le macchine. <<Noi abbiamo creduto fin

35 cit. in N. Barrella, Il museo Filangieri,Guida Editori, Napoli, 1988,pag. 72 36 cit. in ivi, pag. 75

49

da principio di dover creare noi stessi per noi le officine del

museo…>>37, così scrive Filangieri nello statuto per distinguere

le officine del M.A.I napoletano da quelle di <<parecchie

istituzioni consimili alla nostra che hanno aggregate a sé delle

private officine già esistenti nel paese…>>38. Tali officine fanno

del M.A.I napoletano un’istituzione diversa dalle altre industriali e

artistico-industriali nate nell’Ottocento in Europa. Era infatti un

Museo Artistico Industriale Scuola Officina, affiancato alla scuola

politecnica di arti e mestieri istituita dallo stesso Filangieri nel

1878. La particolare attenzione riservata dal principe al compito

delle Officine è testimoniata anche dalle parole scritte da

Filangieri a Marco Minghetti: << Io credo che un museo artistico

industriale come conviene a noi nel nostro stato presente debba

costare di tre parti:di una raccolta di modelli antichi e moderni;

di una scuola ove si insegni disegno e plastica propria delle

industrie; e soprattutto delle scuole–officine ove si apprende la

tecnica delle diverse lavorazioni >>39. L’attenzione del principe è

peraltro rivolta in modo particolare al compito riservato alle

officine, e prosegue <<Quest’ultimo insegnamento mi pare di

tanta importanza, che senza di esso i primi due non approdano a

nulla: e per esperienza ho visto che qualunque più diligente

37 cit. in ivi,pag. 76 38 ibidem 39cit in E.Alamaro, Il sogno del principe, Centro Di, Firenze, pag. 18

50

studio di disegno fallisce all’opera,se manca il corrispondente ed

armonico studio della tecnica; mediante cui sarà solo possibile

avere in Italia abili operai e valenti artisti industriali >>40.

Filangieri vuole evitare il formarsi di sacche di “spostati”. Con

questo termine, usato diffusamente all’epoca, si indicava la

molteplicità di soggetti esterni al processo produttivo in

espansione e collocati in un’area difficilmente definibile a livello

di classi sociali. Il M.A.I di Napoli non è pertanto un semplice

contenitore di oggetti d’arte, ma è un vero strumento di crescita,

non solo artistica, ma anche tecnico-industriale, rispondente alle

necessità di allora. Accanto alla necessità di una crescita

industriale nel campo delle arti applicate, non mancò la

consapevolezza della decadenza dei loro linguaggi e la volontà di

fornire mezzi atti a riqualificarli. Il M.A.I napoletano ha

caratteristiche proprie: non è il Conservatorio parigino perché

l’educazione del gusto è importante, tuttavia non è paragonabile

nemmeno al museo di Kensington perché il momento tecnico,

inteso come legame con la macchina da conoscere, è

fondamentale. A Napoli nella seconda metà dell’Ottocento si

viene a creare un interessante “ibrido” in grado di riunire in sé le

due diverse necessità del tempo: l’istruzione industriale

(propagandata in Italia dal Museo industriale di Torino ) ed il

40 cit in N. Barrella, Il museo Filangieri op cit,pag. 82

51

design (ricercato dal M.A.I di Roma). Per Nadia Barrella l’uomo in

grado di far raggiungere l’equilibrio tra le due tendenze fu

proprio Filangieri. Al M.A.I si aggiunge, facendo sistema, il Museo

Civico “G.Filangieri”, inaugurato nel 1888. Nadia Barrella 41

osserva che è un museo inserito nell’ambito di quel periodo che

vide, in Italia, il fiorire di molte istituzioni civiche. Queste ultime

nacquero in seguito alla liquidazione nel 1866 dell’asse

ecclesiastico (che comportò una devoluzione ai musei degli enti

locali di una notevole massa di materiali artistici e storici), ma

anche grazie all’orgoglio municipalistico di singoli collezionisti che

alimentò i lasciti alle città per offrire strumenti di conoscenza e di

formazioni efficaci. Durante la fase iniziale della vita del Museo

Artistico Industriale, in un momento in cui le collezioni di

quest’ultimo erano ancora scarse per quantità e, soprattutto,

prive di particolare pregio artistico, Filangieri dona alla città la

sua collezione, fondando nel quattrocentesco Palazzo Como un

ricchissimo museo. Scopo della donazione: lo studio e

l’educazione di artisti ed operai tanto nelle arti maggiori che nelle

minori. Il museo civico si veniva a porre nella città come un

ulteriore momento espositivo che, ricco di oggetti d’arte

applicata, sosteneva con le sue collezioni le finalità del M.A.I. Il

museo civico <<era una festa dell’arte antica, dico antica e non

41Cfr. N.Barrella, Il museo civico <<Gaetano Filangieri>> di Napoli tra il 1882 e il 1892: dalla politica di un principe una lezione per il presente ,sta in “Museologia”, 1985, n°18, pagg. 27-45

52

arte morta, poiché l’arte nella sua manifestazione del bello

visibile si trasforma nel cammino progressivo della civiltà, ma

non muore mai >>42, il M.A.I <<è la festa del lavoro vivente,

produttivo, fecondo, sorgente di lucro all’operaio >>43.

Filangieri, dunque, dona la propria collezione in vita, e non post

mortem, perché non è animato solo da uno spirito encomiastico.

Come collezionista egli trattiene non tanto le cose, ma il tempo

stesso. Tuttavia la sua esperienza ha trasformato la finalità del

suo collezionare, e l’amore egoistico ha ceduto il passo al sogno

di poter offrire alla massa popolare uno strumento di crescita. Il

comune denominatore, comunque, di questi musei delle arti

industriali era – assieme all’importanza che attribuivano

all’istruzione pubblica - quello di educare il gusto degli artigiani e

degli studenti delle scuole d’arte, utilizzando i “begli esempi’’

delle manifatture del passato. Queste tipologie museali ebbero

grande successo. La seconda metà dell’Ottocento è anche il

secolo delle arti minori. Le arti applicate hanno un valore di uso,

sono oggetti belli e funzionali. Il pubblico non è spaventato,

ammira cose che magari possiede anche a casa. In questi musei

non va in “estasi’’, non c’è un rapporto empatico e selettivo tra il

pubblico e le opere come nei musei romantici della Germania

hegeliana, in cui si esalta la soggettività, l’individualità, il genio,

42 cit in N.Barrella, op cit, pag. 88 43 ibidem

53

attraverso la scelta di capolavori. Questi ultimi sono templi di

bellezza, luoghi di contemplazione; sono aperti al pubblico, ma di

fatto non democratici. Il museo romantico non ha spesso finalità

pedagogiche, non tende ad una comunicazione educativa col suo

pubblico e, quindi, non dà importanza al buon supporto didattico.

Esalta piuttosto il linguaggio specifico e le particolari

caratteristiche di ogni singolo artista: nasce la connoisseurship,

la scienza dell’arte, la figura del conoscitore.

II.3 Il Regio Museo Industriale Italiano

Il Museo Industriale di Torino viene istituito <<affin di

promuovere l’istruzione industriale e il progresso delle industrie e

del commercio>>44 con Regio decreto 1001 del 23 novembre

1862, per iniziativa dei commissari generali del Regno d’Italia

all’Esposizione Universale di Londra del 1862, Gustavo Benso di

Cavour e Giuseppe De Vincenzi 45. Gli scopi erano analoghi a

quelli del Conservatoire francese, ma la struttura organizzativa

era mutuata dal South Kensington. De Vincenzi, che già

44 G.De Vincenzi.Del museo industriale italiano e del progetto di legge pel suo ordinamento.Osservazioni di G.De Vincenzi, Enrico Dalmazzo, Torino, 1865, pag. 17 45 cfr. C. Olmo, Il museo industriale di Torino fra crisi urbana ed innovazione tecnologica, sta in “Le culture della tecnica”, n°1, 1994, pag.45

54

nell’Esposizione londinese del 1851 era stato direttore della

sezione del Regno di Sardegna, partecipa all’Esposizione del

1862 con Gustavo Benso di Cavour46 in qualità di commissario

generale per l’Italia, e scrive nella Relazione 47 che la

manifestazione internazionale non era stata sorprendente come

quella del 1851 né sul piano dell’evento, né per la novità

dell’architettura, anche perché veniva dopo appena dieci anni.

Quella del 1851 aveva fatto il punto sullo svolgimento economico

dell’umanità fino a quel tempo. De Vincenzi osserva come le

Esposizioni Universali soddisfino un bisogno principalissimo dei

tempi moderni: grazie alla facilitazione dei commerci tutte le

nazioni del mondo tendono a costituirsi come in una sola famiglia

in cui ciascuno dei componenti concorre con la sua opera

all’utilità di tutti e al suo massimo benessere.Tra i maggiori

vantaggi di un’Esposizione c’è la fondazione di un museo per

provvedere al <<progresso delle industrie>> e all’<<istruzione

industriale della nazione>>, e pensa di istituirne uno per il

Regno di Italia, animato da un movente squisitamente

economico. Così come non sarebbe possibile avere scuole di

scienze naturali senza i musei di storia naturale, allo steso modo

non possono esistere scuole industriali senza i musei industriali.

46 Gustavo Benso di Cavour (1806-1864).Il marchese,fratello del conte Camillo,è stato deputato ed editore. 47 cfr.G.Benso di Cavour-G.De Vincenzi,op cit,pagg.3-4

55

Nel progetto di legge, presentato alla camera dall’onorevole

Ministro dell’Agricoltura, Industria e Commercio c’è un articolo

così redatto <<Il Museo Industriale farà parte dell’Istituto

Tecnico di Torino, il quale avrà sede in uno degli edifici pubblici

che rinarrano disponibili>> 48. De Vincenzi nelle Osservazioni a

questo progetto ammonisce dicendo che bisogna fare il contrario

e annettere al museo l’Istituto Tecnico. Altrimenti significherebbe

ridurre quel museo, che deve essere rivolto alla nazione,

all’utilità dei pochi allievi dell’Istituto.In tal caso chi seguiterebbe

a far doni per conseguire un proprio utile? E che diviene un

museo industriale che non progredisce? L’Istituto tecnico cosa

farebbe della completa collezione di aratri, delle rotaie, delle

migliaia di specie di cotone e di lana? Il museo di Torino

proponeva un modello di industria moderna in un paese non

ancora industrializzato, e non riuscirà a mediare tra una realtà

tecnico-industriale ancora in embrione e in posizione di

arretratezza rispetto al resto dell’Europa, e un’antica tradizione

manifatturiera nel cui ambito non era ancora iniziata una

riflessione sui possibili rapporti con la cultura industriale.La storia

del Regio Museo è anche una traccia per capire come era

rappresentata l’innovazione, che concezione c’era della scienza e

della ricerca in una città che viveva la crisi originata dal cambio

48G.De Vincenzi, op cit, pag. 17

56

di status: da città capitale a città industriale49. Scienza come

processo o come sapere separato: questo per esempio un

conflitto tra le èlites intellettuali.De Vincenzi è nominato direttore

del museo. I primi tre anni, a partire dal 1862, furono dedicati

alla ricerca di una sede in cui collocare le collezioni in arrivo da

Londra e alla definizione del progetto istituzionale.Tale

definizione porta alla luce profondi conflitti tra le èlites che

congeleranno il museo fino al 1879. Per De Vincenzi la tecnologia

è un processo sociale e non solo tecnico. Per lui il museo deve

valorizzare il sapere scientifico come capacità di una società di

trasferire l’innovazione. L’innovazione tecnologica è garanzia di

progresso e fonte di legittimazione sociale, e richiede uno stato

garante per le regole di scambio e in grado di entrare nella

formazione della ricerca e della cultura industriale. Per il primo

direttore, il Regio Museo Industriale è nel novero delle istituzioni

preposte alla formazione di insegnanti per le scuole tecniche, dei

direttori di industrie e capi officina, di ingegneri industriali50.

Proprio sul carattere “sperimentale” della scuola si apre il

conflitto, formalmente con la Scuola di Applicazione, in realtà con

alcune élites intellettuali e imprenditoriali. Nella iniziale bozza di

accordo tra Museo e Scuola di Applicazione, stesa da Giovanni

49 cfr.C.Olmo,op cit,pag. 45 50 cfr.C.Olmo,op cit,pag.46

57

Codazza il 9 ottobre 1867, 51 si prospetta una divisione per la

quale la Scuola avrà la gestione unica dei corsi di ingegnere per

le industrie agricole, per le industrie meccaniche, per le industrie

chimiche, per le industrie di metallo. Per le figure di ingegnere

civile e per una non meglio definita figura di ingegnere

industriale si prevede la collaborazione tra le due istituzioni.

Questo compromesso avrà breve durata. Il Regio decreto del 31

ottobre 1869 e il successivo decreto ministeriale del 16

novembre 1869 escludevano i professori del museo dalla

formazione degli ingegneri. Il Museo doveva <<dedicare tutta la

sua opera a quanto richiedevano i bisogni industriali e scientifici

del Museo>>52, mentre l’insegnamento che vi si svolgeva doveva

assumere i caratteri dell’insegnamento libero. Il 29 agosto 1874

si costituì una commissione per la riorganizzazione del Museo

Industriale Italiano presieduta da Federico Sclopis di Salerno.Il

Ministero di agricoltura, industria e commercio fu costretto a

riprendere in mano una discussione sulle funzioni del museo che

avevano ormai investito gli enti locali, gli intellettuali, oltre che i

responsabili delle istituzioni scientifiche torinesi. I lavori della

commissione sono introdotti da De Vincenzi che propone alla

commissione di discutere attorno all’istituzione di tre figure: un

ingegnere industriale, - in grado di trasferire l’innovazione tra

51 ibidem 52 cit. in. ivi. pag. 48

58

settori e comparti dell’industria e dell’agricoltura, dovendo

operare in un sistema di imprese non ancora differenziato

tecnologicamente –un direttore delle industrie e un capofficina.

Queste due ultime figure, sempre secondo De Vincenzi, devono

essere legittimate non solo gerarchicamente ma anche

scientificamente. Infine invita a riflettere sul ruolo di una

burocrazia pubblica (i professori di materie tecniche come i capi

delle dogane) che completi l’opera di trasferimento tecnologico e

che garantisca la trasparenza delle regole di mercato. A

rappresentare, nella commissione, un’immagine diversa

dell’innovazione è Luigi Luzzati53: il museo <<deve educare al

buon gusto nelle produzioni industriali>>, << sorvegliare le arti

e i mestieri>>, <<esprimere l’arte applicata all’industria>> 54.

In sintesi gli scontri riguardano <<cosa sia un museo industriale,

quale sia il suo ufficio, quali siano le sue attribuzioni, il carattere

degli insegnamenti da ripartire, - generali o specializzati -

l’importanza come misura reale del progresso tecnologico dei

brevetti d’invenzione, quali dovevano essere i settori industriali

da privilegiare nella definizione di corsi e laboratori, il ruolo e i

contenuti del disegno nei processi di trasferimento tecnologico

53 La commissione viene formata con R.D. 29 agosto 1874 ed è composta, oltre che dal presidente,da Domenico Berti,vicepresidente, Luigi Arcozzi Masino, Giacinto Berruti, Enrico Betti,Giovanni Codazza, Giuseppe De Vincenzi, Giovanni Andrea Gregori,Luigi Luzzati,Paolo Masa, Amedeo Peyron, Giuseppe Venanzio,Piero Spurgazzi, Aldo Bonino in veste di segretario. 54cit.in.C.Olmo, op cit., pag.50

59

>> 55. Il definitivo decreto del 1879 vede il museo come

<<istituto direttamente inteso a promuovere il progresso

dell’industria>>, con finalità di ricerca per il governo e per i

privati.Con la scuola di applicazione concorre inoltre alla

definizione dei curricula degli ingegneri industriali e civili, dei

direttori delle industrie, oltre che di insegnanti di fisica, di

chimica, di meccanica, di disegno ornamentale e industriale. La

diffusione all’interno del paese di una cultura industriale è

fondamentale, e in sua assenza sarebbe rimasto sterile ogni

stimolo. La forma assunta dal Regio Museo Industriale Italiano

alla fine di questo percorso sembra riprendere molte ipotesi

inizialmente formulate da De Vincenzi, e che nel 1862 si

contrapponevano come <<una metafora viva a credenze

consolidate, l’irrompere di nuovi paradigmi ad una scienza

consolidata >>56. A giudizio di Carlo Olmo, Torino nel 1862 è una

città ancora sotto choc per la perdita dello status di capitale. A

questa città la proposta di De Vincenzi appare una metafora, una

definita strategia dell’innovazione. Il Museo torinese lega crisi

urbana e progresso tecnologico. Nel Museo, laboratori e brevetti,

esposizioni permanenti e proposte formative, archivio industriale

e biblioteca, cercano di anticipare le tendenze dei mercati non

solo locali e di favorire la produttività di un sistema, non della

55 ivi,pagg. 52-53 56 ivi. pag. 56

60

singola impresa. Carlo Olmo conclude il suo articolo osservando

che a G.De Vincenzi già nel 1862 appariva illusorio pensare ad

una concorrenza armata unicamente di vetrine e ornamenti.La

commissione che stende il definitivo ordinamento del Museo

maturerà quella comprensione dopo 17 anni, nel 1879. Gli

oppositori del De Vincenzi e del suo istituto erano interessati

all’artigianato artistico-industriale, ovvero ad un processo

produttivo basato sull’ingegno, sulla cultura e sulle capacità

manuali dell’artefice. Baldassarre Odescalchi sosteneva che

l’istituto torinese <<tendeva al miglioramento nelle materie

quanto al modo di manifatturarle, senza curare ciò che si

riferisce all’Arte del disegno la quale con assai felice successo

viene applicata all’industria >> 57. Pertanto il museo avrebbe

dovuto offrire modelli per elevare qualità formali e non

macchinari come quelli che costituivano le raccolte del museo

torinese. Di industriale in senso proprio Odescalchi e gli altri

oppositori non avevano niente, tanto che nel 1873 fondarono a

Roma l’istituzione museale nella quale credevano: il Regio Museo

Artistico Industriale, dove l’aggiunta dell’aggettivo artistico è una

modifica sostanziale. Le relazioni tra industria, arte e scienze

sociali che vedono Torino come luogo di sperimentazione sono al

centro dei saggi –nati da ricerche autonome- di Cristina

57 Cit.in.A.Buzzoni, Musei industriali e artistico-industriali: realtà nazionale e realtà locale, sta in E. Borsellino, (a cura di ), Musei locali.Luoghi e musei, atti del convegno, Roma, 1987, pag.47

61

Accornero e Elena Dellapiana nel volume pubblicato da CRISIS

nel 200158. Delle due autrici, la prima si occupa di storia della

città e del territorio con particolare riferimento a Torino tra

ottocento e novecento, mentre la seconda, che insegna storia

dell’architettura contemporanea presso la I Facoltà del

Politecnico di Torino, si occupa della formazione professionale e

accademica di architetti e artisti sempre tra ottocento e

novecento. Il saggio della Accornero tratteggia le figure di tecnici

intellettuali impegnati a innalzare il livello della produzione

industriale; il saggio della Dellapiana è sui contatti tra il museo e

le istituzioni dell’istruzione artistica di base e superiore. Una

interpretazione dal punto di vista della storia delle scienze

sociali, e una dal fronte delle Belle Arti. La cultura tecnica ha un

ruolo chiave nelle trasformazioni sociali ed economiche nell’epoca

dell’industrializzazione. Uno scambio interdisciplinare tra cultura

tecnica e scienze sociali che contribuisce alla formazione di una

nuova figura di ingegnere. Il progresso dell’industria ha

aumentato la complessità dei rapporti fra il capitale ed il lavoro,

ha generato l’esigenza di fondare una legislazione in grado di

tutelare l’operaio, nella sua attività lavorativa, da infortuni e

malattie. La nuova figura di ingegnere sociale è intermediaria tra

gli operai e l’industriale. La sua preparazione deve essere anche

58 C.Accornero-E.Dellapiana, Il Regio museo industriale di Torino tra cultura tecnica e diffusione del buon gusto , CRISIS, Torino, 2001

62

in economia e legislazione industriale, per potere applicare le

leggi preventive sul lavoro e sulle malattie professionali. Da

questo punto di vista il Museo Industriale è importante non solo

in relazione all’istituzione didattica, ma anche per la sua attività

di sperimentazione scientifica e volontà di trasformazione

sociale. La storia del Regio Museo Industriale è di estrema utilità

perché rappresenta una fonte importante per le vicende della

Torino industriale di inizio secolo. Questa ipotesi si avvale non

degli aspetti più noti del Museo, come sede di istruzione tecnica

e di complemento della Scuola di Applicazione per gli ingegneri,

quanto della sua capacità d’interazione con altri enti accademici

e con il mondo imprenditoriale ed amministrativo. Il Museo è

stato una istituzione didattica partecipe dello sviluppo industriale

locale.Secondo Vittorio Marchis 59, il carattere di “frontiera’’ del

Museo costituisce la premessa alla costruzione della cultura

politecnica in grado <<diventare una nuova comunità scientifica,

indipendente, autonoma, di riferimento al di là dell’Accademia

delle Scienze, che già accusava segni di invecchiamento e

dell’Università che si proiettava su altre prospettive>>60. <<Il

museo materializza i concetti del metodo positivo

dell’osservazione e della classificazione attraverso il

59 cfr.C.Accornero, Positivismo e programmi riformatori, sta in, C.Accornero-E.Dellapiana, op cit, pag.10 60 ibidem

63

collezionismo ed è strumento di pedagogia nazionale e di

formazione di una nuova classe dirigente >>61.L’idea e la

realizzazione del Regio Museo Industriale nascono dalla

partecipazione italiana all’Esposizione londinese del 1862,

tuttavia alla Accornero sembra interessante fare alcune

considerazioni sul ruolo del positivismo e della politica post-

risorgimentale per comprendere il significato del Museo nella

storia culturale della città di Torino. Non a caso dopo il

trasferimento della capitale a Firenze il mondo accademico e

scientifico torinese riorganizza le proprie sedi di ricerca e di

discussione.Oltre a numerose esposizioni, si programmarono la

fondazione del Museo Risorgimentale, del Museo di Anatomia e di

Zoologia, la costituzione di un nuovo Museo Civico, che

comprende la sezione d’arte applicata all’industria, il

riordinamento dell’Accademia di Agraria che, per un certo

periodo (1865-1872), è annessa al Museo come Società Reale di

Agricoltura, Industria e Commercio. Nel contesto positivista,

dunque, una pratica diffusa è quella della creazione dei laboratori

annessi alle collezioni museali scientifiche e accademiche: il

laboratorio di fisiologia sperimentale dove si formeranno gli

igienisti, il laboratorio di Anatomia e di Zoologia, il Laboratorio di

Economia Politica di Salvatore Cognetti de Martiis, docente di

61cit in ivi.pag.12

64

Economia Industriale al Museo torinese negli anni ’80. Tra il

Museo Industriale e le istituzioni accademiche, gli enti

amministrativi e le imprese c’è una trama di rapporti

determinata dalla capacità di interazione del Museo.Tuttavia la

scelta di costituire il Politecnico (1906), come unico centro di

formazione tecnica, avvia un processo che tenderà a separare le

discipline e a superare le aspettative interdisciplinari della

scienza positiva. Anche in ambito degli studi politici e sociali

questa separazione è realizzata con la fondazione, nel 1908,

della Scuola di Economia e Commercio, ad opera di Secondo

Frola. La nascita di numerose sedi della sperimentazione pratica

delle differenti discipline coinvolge anche il Museo. Il Reale

Decreto del 31 ottobre 1869, imposto per il riordino della

struttura didattica, prevede di riformare gli insegnamenti con

l’introduzione di nuovi ordinamenti. La relazione di

accompagnamento del decreto, redatta dall’allora Ministro

dell’Agricoltura, Industria e Commercio, Marco Minghetti, coglie il

carattere dell’istituto, che pur mantenendo la sua caratteristica

originale, di esposizione permanente, storica e progressiva dei

prodotti della natura e dell’industria, assume la funzione di

centro nazionale delle informazioni, degli studi e delle ricerche

relative all’industria, con l’introduzione di nuovi laboratori di

meccanica, chimica, fisica industriale, di disegno e di archivi e

65

biblioteche industriali a disposizione del Governo e dei privati.

Per Minghetti il Museo deve essere <<il centro di tutta l’Italia,

quasi fuoco donde irraggia il calore e si diffonde per la

Penisola>>62. L’iniziativa della riforma didattica è nuovamente

oggetto della seduta del collegio degli insegnanti nel 1897, su

proposta del Prof. Tessari, riguardo alle necessità di istituire dei

laboratori di meccanica. Michele Ferrari nelle memorie del corpo

insegnante, pubblicate in occasione dell’Esposizione Generale

Italiana 1898 in Torino, sottolinea l’importanza

dell’insegnamento sperimentale dei laboratori, accanto agli studi

teorici: <<…Non solamente gli studi di scienze applicate, ma

anche gli studi economici, giuridici, storici richiedono,oggi, per

essere fatti in modo efficace, l’istituzione del laboratorio, nel

quale si completi l’insegnamento orale con esperienze e ricerche

lasciate all’iniziativa dell’allievo sotto la sorveglianza e la guida

del professore…>>63. Infine nel discorso di inaugurazione

dell’anno accademico del 1901 presso il Museo, Le scuole degli

ingegneri e la loro influenza nell’opera di incivilimento umano di

Domenico Tessari, ingegnere, professore di cinematica applicata

alle macchine, è ripreso l’ideale della funzione del tecnico anche

nei confronti della società in trasformazione: <<abbellisce e

risana le città con buone canalizzazioni, con acquedotti, colla

62cit. in ivi. pag. 52 63 cit. in ivi.pag.22

66

illuminazione a gas ed elettrica…..La scuola non ha solo da

preparare i futuri ingegneri, ma uomini che sappiano far

progredire le industrie, per la grandezza della Nazione, affinché

essa possa tenere degnamente il suo rango fra le altre

Nazioni>>64.La Accornero dopo aver individuato in Positivismo e

programmi riformatori la pratica diffusa della creazione dei

laboratori si pone una domanda precisa: quale esperienza

scientifica e culturale è in grado di rappresentare la sintesi tra

indagine positivista e i programmi riformatori?Per rispondere

focalizza il suo discorso sul Laboratorio di Economia Politica

all’interno del Museo Industriale. L’industrialismo provoca

questioni economiche e sociali; lo studio degli strumenti tecnici

capaci di migliorare le condizioni di lavoro dell’uomo fa parte di

un programma che non è strettamente scientifico, ma si propone

di riformare la nuova società industriale.Per comprendere i

rapporti tra scienza economica e sapere tecnico l’autrice

ricostruisce l’organizzazione dell’istruzione e la formazione della

nuova classe dirigente.Il Regio Decreto 25 marzo 1877, per il

Regolamento del Museo, comprendeva fra gli insegnamenti il

corso di Economia Politica ed Industriale.Fino a quel momento il

reclutamento dei docenti, a seguito di pubblico concorso, non

ottiene dei risultati positivi.Nel marzo 1878 il ministro della

64 cit.in ivi.pag.19

67

pubblica istruzione istituisce la commissione per la scelta del

professore per l’incarico di Economia Politica Industriale che non

produce nessun esito positivo 65. Per l’anno scolastico 1879-1880

l’incarico fu affidato ad Alessandro Garelli, della facoltà giuridica

torinese.Negli anni 1880-1881 la cattedra restò vacante fino

all’anno scolastico 1883-1884 in cui Cognetti de Martiis ricopre il

ruolo di professore incaricato fino al 1901.Durante il decennio

della presidenza di Domenico Berti (1888-1897) presso il Museo

Industriale, l’attività di Cognetti si rafforza.Berti era docente di

filosofia morale all’Università di Torino, tra i suoi programmi

politici vi era quello di favorire lo sviluppo delle scuole di arti e

mestieri e l’istruzione professionale secondaria.Fu il primo ad

introdurre in parlamento la legislazione sociale e ad occuparsi di

istruzione tecnica e ceto operaio. De Martiis è un sostenitore

convinto della teoria evoluzionista applicata all’ economia politica

e dell’uso dell’analogia organica tra fenomeni sociali e naturali.

Sostenitore del darwinismo sociale, applica le leggi

dell’evoluzione naturale al sistema della società umana: anche

l’economia e le sue azioni sono determinazione di fatti biologici

fondamentali. Per Cognetti i principi economici stanno alla base

del benessere e dello sviluppo della società.In un testo del 1869,

65 Il presidente della commissione è Luigi Luzzati e tra i membri c’è Minghetti .Entrambi parteciparono all’Esposizione Universale di Parigi del 1867 e furono in stretto contatto con l’organizzatore Frèdèric Le Play, ingegnere francese, ideatore dell’ingegneria sociale.

68

intitolato L’economia sociale e la famiglia, sostiene questa tesi

ponendo al centro di tutto la famiglia, perché <<è il nocciolo

l’embrione d’ogni umano consorzio, di qui la necessità di tutelare

lo sviluppo, di impedire ogni turbamento>>66. Per Cognetti il

ruolo del Museo è fondamentale per il progresso industriale e per

la formazione di una dirigenza nazionale, in grado di gestire il

sistema delle fabbriche: <<…valenti giovani usciti appena dal

Museo Industriale di Torino, sono chiamati a dirigere miniere,

fabbriche industriali,.. sicchè elementi nazionali adatti

subentrano via ai più costosi elementi stranieri nella direzione

della nostra produzione manifatturiera>>67. I suoi studi compiuti

sulle questioni del lavoro e della legislazione sociale non

rimangono semplici dottrine ma sono resi praticabili dalle

iniziative che Cognetti intraprende. Durante l’Esposizione Operai

del 1898, Cognetti è membro della commissione operaia e

presiede la III divisione di assistenza e previdenza, e cerca di

organizzare un congresso internazionale di legislazione sociale,

sulla tutela del lavoro. Intende realizzare un “atto di giustizia

sociale’’ che comprende i diversi rami dell’attività lavorativa, dal

commercio, ai trasporti, all’igiene, alla proprietà industriale.

Purtroppo il convegno non trova nessun sostegno e consenso da

66 cit.in C.Accornero,Il Regio Museo Industriale ed il laboratorio di economica politica. Il corso di economia industriale al museo e il sapere tecnico, sta in C.Accornero-E.Dellapiana,op cit, pag. 30 67 cit. in ivi. pag. 33

69

parte del Comitato esecutivo dell’esposizione. Cognetti non si

arrende e queste esperienze trovano finalmente una sede pratica

di realizzazione di studio e di ricerca. La fondazione del

Laboratorio di Economia Politica segna un momento importante

per Torino. <<Strumento per la conoscenza di più vivi problemi

economici e sociali>>68, sede per la diffusione della cultura

scientifica positiva e di propaganda di legislazione sociale. Nel

novembre 1893 la Facoltà di Giurisprudenza approva la proposta

di costituire un istituto autonomo, in sostituzione dell’istituto di

esercitazione nelle scienze giuridico-politiche, con

un’organizzazione molto simile al Museo Sociale di Parigi. Nel

contesto torinese, il Laboratorio è un punto di riferimento e la

sede della sperimentazione della ricerca positivista nell’ambito

delle scienze sociali. Sono ammessi al Laboratorio in qualità di

allievi gli studenti universitari e gli allievi ingegneri del Museo

Industriale. Il Laboratorio fornisce il materiale scientifico per

buona parte dei saggi che appaiono sulla rivista torinese “La

riforma sociale”, fondata nel 1894, la cui redazione è costituita

dagli stessi membri e soci dell’istituto di Cognetti. La rivista

costituisce, anche per l’apertura ai dibattiti internazionali, una

sede di ricerca ad elevato livello scientifico in campo di studio

differenti,come sociologia, economia, politica, materie giuridiche.

68 ivi. pag. 34

70

Tra la schiera di coloro che contribuiscono a tale cenacolo di

idee, vi sono delle personalità che fanno parte della struttura

amministrativa e accademica del Museo Industriale, come

Cognetti De Martiis, Luigi Einaudi, Effren Magrini.Nel novembre

1898, su iniziativa del ministro della Pubblica Istruzione Guido

Bacelli, e del ministro dell’Agricoltura, industria e commercio

Alessandro Fortis, e del suo successore Antonio Calandra, del

presidente del Museo Secondo Frola e del rettore dell’Università

Cesare Nani, il Laboratorio è annesso ufficialmente all’Università

ed al Museo Industriale Italiano.Tale decisone è sanzionata con il

Reale Decreto del 17 marzo 1901.I rapporti tra il Museo ed il

Laboratorio risultano complessi, in particolare dopo la scomparsa

di Cognetti nel 1901. Einaudi nel memoriale del 16 giugno 1903,

rivolgendosi alla Giunta direttiva del Museo, presenta alcune

considerazioni sull’utilità del Laboratorio e ricorda gli scopi del

suo fondatore <<creare un centro di studi, ove i fenomeni

economici potessero essere studiati nel vivo, nei documenti,

rapporti, inchieste, statistiche, che di quei fenomeni fanno

testimonianza. Sovratutto voleva il suo fondatore che il

Laboratorio diventasse strumento di sussidio continuo

all’insegnamento orale…>>69. Einaudi ottiene l’incarico

dell’insegnamento di Economia e Legislazione Industriale in

69cit. in ivi.pagg.38-39

71

sostituzione di Cognetti, e per mantenere vivo l’insegnamento

del suo maestro cerca di dimostrare l’importanza didattica del

dell’istituto. Nell’anno scolastico 1901-1902, sotto la direzione di

Einaudi e insieme all’ingegnere Magrini, gli studenti avviano

un’inchiesta sulle condizioni dell’emigrazione in Piemonte.

Nell’anno successivo Einaudi invita gli studenti a seguire il

Laboratorio per un’indagine <<attorno ai mezzi tecnici di

prevenire gli infortuni sul lavoro…>>70. Lo scopo di Einaudi è

quello di sensibilizzare la Giunta direttiva a sostenere il

Laboratorio come istituto annesso al Museo. L’interesse di

Einaudi non trova riscontro: la Giunta direttiva infatti prima di

esprimere un parere si rivolge al Collegio dei Professori sulla

convenienza di tali proposte e quest’ultimo risponde così<<…per

la libertà lasciata agli studenti di seguire le esercitazioni…con

raccomandazione che siano compiute in un orario speciale, senza

incaglio delle altre esercitazioni>>71. Nel 1926 il Laboratorio è

trasformato in Seminario e successivamente in Istituto di

Giurisprudenza. Malgrado le difficoltà di coordinamento tra

Laboratorio e Museo –scrive la Accornero- la collaborazione

dell’ingegnere Magrini risulta essere una figura chiave per

l’esperienza didattica del Museo. Nell’ambito della storia urbana

torinese la figura di Effren Magrini permette comprendere la

70cit. in ivi.pag.39 71 cit. in ivi pag. 40

72

funzione dell’ingegnere sociale.Il 5 giugno 1900 assunse

l’incarico di assistente per i corsi di Economia e Legislazione

Industriale, Tecnologia Tessile, Tecnologia Meccanica, Disegno di

macchine a mano libera.Con il progresso dell’industria si avverte

l’esigenza di fondare una legislazione sociale per tutelare

l’operaio nella sua attività da infortuni e malattie.Magrini in Lo

studio dell’economia e della legislazione industriale nelle Scuole

industriali scrive <<è utile che il Laboratorio di economia politica

S.Cognetti De Martiis, annesso al Museo Industriale Italiano, sia

in parte trasformato in Laboratorio di economia e legislazione

sociale e che così trasformato sia il centro di simili laboratori

istituiti nelle scuole industriali inferiori>>72.L’introduzione

nell’ambito del Museo del tema dell’ingegneria sociale è un

contributo scientifico del tutto nuovo. L’assicurazione e la

previdenza, la classe di risparmio, l’igiene e l’abitazione, la

protezione delle donne e dell’infanzia costituiscono degli

strumenti di tutela e controllo sociale. Magrini vuole che il

Laboratorio diventi centro di studio sulle questioni di economia e

legislazione sociale, e considera come modello di riferimento

l’industria di soda e prodotti chimici di Solvay. Le opere di

previdenza dimostrano l’attenzione dell’industriale alla questione

sociale: <<queste officine impiegano più di 1600 operai; le

72 cit. in ivi. pag. 48

73

principali opere di previdenza nello stabilimento centrale

sono:servizio medico e farmaceutico, servizio di soccorso agli

operai bisognosi, cassa di risparmio per operai e impiegati, ….La

ditta oltre a ciò, pensò pensò anche allo sviluppo intellettuale e

morale del suo personale ed ha fondate le seguenti

istituzioni:Società di musica, Società di ginnastica, Biblioteca

popolare e scuola d’arti e mestieri >>73.L’attività didattica e

scientifica di Magrini orienta e influenza una parte delle decisioni

del politica riformatrice di Secondo Frola, come presidente del

Museo dal 1897 al 1903 e come sindaco della città di Torino dal

1903 al 1908. La giunta comunale collabora con il Museo – come

istituzione didattica e come sede della sperimentazione e

innovazione tecnologica - per realizzare il risanamento del centro

cittadino. A sottolineare la crescita del Museo in concomitanza

con l’economia e l’industria del paese è il memoriale della Giunta

direttiva 5 gennaio 1906 del Ministero Pubblica Istruzione

<<…Ed invero, quando al primo sorgere del Regno d’Italia, la

industria di questa nuova nazione era incerta e quasi totalmente

tributaria dell’estero furono le collezioni, le raccolte di materie

prime e dei prodotti che se ne potevano trarre, a dimostrare

all’Italia quali fossero i tesori che essa possedeva, quale utile

73cit. in ivi. pag. 50

74

immenso che avrebbe potuto ricavarne seguendo l’esempio delle

Nazioni che l’avevano preceduta nel risveglio economico

industriale.Svolgendosi le industrie sorse il bisogno dei tecnici

che ne dirigessero gli sforzi, ed ecco il Museo aggiungere alle sue

collezioni le ricerche sperimentali, il servizio d’analisi ed

accingersi a impartire l’istruzione tecnica…>>74.Nel 1901 Frola

visita i politecnici e le scuole tecnico industriali di Monaco, di

Berlino, di Praga e di Vienna.Lo scopo della visita è quello di

approfondire la conoscenza degli studi di fisica, di chimica, di

meccanica, di elettrotecnica, e di apprendere l’organizzazione

didattica, tecnica e amministrativa. Questo confronto con i

politecnici stranieri è l’occasione per fare un bilancio della

condizione italiana, ancora indietro rispetto al modello

tedesco.Sebbene il Museo sia riconosciuto all’estero, l’assenza di

finanziamenti cospicui riduce le potenzialità degli stessi

laboratori.La crisi finanziaria degli anni ’90 aveva ridotto i fondi

statali per le spese di gestione del Museo. L’ambiente

amministrativo della città di Torino, per consolidare la propria

posizione di città industriale, si fece carico dei finanziamenti per

sostenere le spese per i nuovi laboratori e i lavori di ampliamento

del 1898. Le richieste di un’organizzazione didattica più

efficiente, e l’inadeguatezza dell’istituto a rispondere a tali

74cit. in ivi. pag. 63

75

bisogni, fa emergere la conflittualità tra il Museo Industriale e la

Scuola di Applicazione.Tale contrasto si trascina già dai tempi

della fondazione dell’Istituto. All’inizio del 1903, durante il

dibattito consiliare sul bilancio comunale, la presa di posizione di

due scienziati di fama internazionale, Angelo Mosso e Cesare

Lombroso, segna la demarcazione tra il mondo scientifico e

quello amministrativo e politico.Per Mosso l’industria deve essere

scientifica, ovvero deve essere sostenuta dall’attività di ricerca

dei laboratori universitari, che contribuiscono al progresso degli

studi conformi ai bisogni della scienza e dell’industria. Per Mosso

l’istituto, a causa della sua disorganizzazione, non segue

l’evoluzione dell’industria nel momento in cui la chimica organica

e l’elettrochimica sono gli insegnamenti di grande utilità per il

mondo produttivo dell’epoca. Mosso concilia il “trionfo della

scienza con l’industria” con la soluzione della “questione sociale’’,

<<poiché migliorando le industrie chimiche si migliorano pure le

condizioni degli operai >>75.In realtà ciò che emerge dal

dibattito è l’interesse alla costituzione di “un’università

esclusivamente scientifica’’ ed “un’università essenzialmente

tecnica”, e a superare l’incompatibilità tra Museo e Scuola di

applicazione. Non è un caso che a seguito delle dichiarazioni di

Mosso si crea un movimento di opinioni sull’opportunità di

75cit. in ivi. pag. 69

76

formare un ente autonomo ed unico, che corrisponda al

Politecnico. Sul piano dell’organizzazione didattica emergono,

nella costituzione del Politecnico, alcune necessità come

l’introduzione dell’insegnamento sull’esercizio ferroviario, di un

ordinamento della scuola di architettura e di una scuola di

miniere; sul piano della formazione professionale,

l’organizzazione prevede la creazione di specializzazioni come la

sezione di chimica industriale e l’insegnamento di agraria e

d’igiene. Il dibattito sul Politecnico si arricchisce dell’intervento di

Luigi Pagliani, medico, consigliere comunale e docente di Igiene

all’Università.Il discorso di Pagliani non scinde la scienza dalla

questione sociale e rimarca il ruolo dello scienziato positivista

che risana i malesseri sociali.In questo senso anche l’ingegneria

moderna deve adeguarsi ai mutamenti della società con la

scienza dell’igiene.La Accornero, in conclusione, non ha proposto

un modello interpretativo univoco, ha preferito tracciare linee

interpretative che si accavallano per affrontare un universo

tutt’altro che omogeneo e dai contorni indefiniti. Questa

impostazione è dovuta principalmente alle caratteristiche

dell’epoca, che rappresentano un mondo scientifico, intellettuale

e tecnico in continua evoluzione e, soprattutto, aperto allo

scambio e alla creazione di reti di contatto.

Elena Dellapiana tenta invece una interpretazione delle Belle

77

Arti.Sebbene in Italia non fossero ancora maturi i tempi per la

produzione seriale, era invece vivace e allineato a livello europeo

quello dell’arte per tutti, e quindi della qualità del prodotto

industriale.Anche quest’ultimo è vettore del buon gusto, in

quanto bisogna che si trovi qualità anche in un oggetto di uso

comune. L’istruzione artistica, con particolare attenzione al

disegno, è lo strumento atto a sanare lo iato tra arte e

produzione seriale. Nel 1861 il ministro dell’istruzione Francesco

De Sanctis invita i professori dell’Accademia torinese di Belle Arti

a fornire un sostanziale contributo al fine di <<sviluppare ed

estendere a più ampie proporzioni l’istruzione primaria

elementare dell’ornato, atta a diffondere il buon gusto ad ogni

ramo di industria>> 76. L’Albertina, come tutte le istituzioni

analoghe del paese, era stata affidata fin dall’anno precedente

alla gestione del Ministero dell’Istruzione, a sancirne un ruolo

pedagogico di ampia diffusione, non necessariamente esclusivo

appannaggio di èlite toccate dall’ispirazione artistica.

Contemporaneamente, nel 1862, viene istituito a Torino il Regio

Museo Industriale con lo scopo di promuovere l’istruzione

industriale e il progresso delle industrie e del commercio. I temi

della decorazione, delle arti applicate e più in generale dell’opera

seriale avendo già subito un forte impulso con la riforma

76E.Dellapiana, La diffusione del buon gusto nelle masse, sta in C.Accornero-E.Dellapiana, op cit, pag. 124

78

dell’insegnamento accademico del 1856. Dal compimento

dell’Unità di Italia la funzione dell’ornato diviene centrale nei

programmi e nelle preoccupazioni non solo dell’Albertina, ma di

tutte le Accademie italiane. In periodo pre-unitario ci si spronava

per raggiungere l’eccellenza rispetto alla altre istituzioni, ora

l’indirizzo è il raggiungimento di un obiettivo comune nell’ottica

dell’utilità. L’invito del Ministro De Sanctis nel 1861 è ripreso

l’anno seguente dal segretario Biscarra:

<<Molto si debbe altresì al riordinamento ed all’ampliazione

recente nelle scuole d’ornato e di plastica ornamentale, che

….arreca somma utilità ad ogni ramo dell’industria, la quale,

elemento vitale del commercio, ha parte tanto attiva negli agi

migliori, nel buon gusto e benessere, nella civiltà e nello

splendore di un popolo >>77.Nella Relazione accademica

pronunciata il 6 dicembre 1863 precisa: <<La scuola d’Ornato

…dirozza la mente dell’operaio, e addomesticandone la mano ne

ingentilisce lo spirito>>Il disegno dell’ornato è applicato anche a

mobili e a oggetti di manifattura.La disciplina diventa fondante

per l’identità stessa dell’Accademia.Il presidente della Reale

Accademia di Belle Arti, Michele Panissera, nel Discorso

inaugurale del 1869 dice: <<Il bello che un dì ornava i palazzi

del Re e dei potenti ora è fatto tale che entra liberamente nella

77 ivi. pagg. 130-131

79

modesta abitazione di ogni cittadino…mascherandosi colla

modesta foggia dell’industria>>78. Presso il Museo Industriale di

Torino l’anima dell’insegnamento dell’ornato è rappresentata da

Pietro Giusti79. La sua presenza a Torino coincide con una

consistente attività di pubblicista soprattutto sui temi

dell’insegnamento. La sua principale attività dovette consistere

nelle raccolte di disegni da proporre ai suoi studenti; Codazza ne

ricorda 1136 raccolti in 5 libri. La tesi di Giusti parte dalla

considerazione della necessità di utilizzare l’arte come mezzo di

diffusione del buon gusto in tutte le fasce della popolazione.Egli

propone una fondamentale distinzione nell’insegnamento tra due

filoni consequenziali ma virtualmente indipendenti l’uno

dall’altro: il “disegno di Ornato’’ e “l’Ornamentazione’’. Il disegno

di ornato consiste nel principio tecnico e preparatorio

all’ornamentazione ed è materia di insegnamento nelle scuole

tecniche e nei ginnasi. Altro è l’ornamentazione, discernimento

tra il gusto buono o meno buono, insegnata negli istituti tecnici o

all’università. Giusti sostiene che anche in mancanza di una

particolare competenza tecnica, l’abitudine alla composizione e

l’esercizio alla naturale inclinazione al disegno presente in ogni

fanciullo, opportunamente assecondate, costituiscono il miglior

78 ivi.pag.133 79 Scultore in legno e intagliatore in avorio, insegna all’Accademia di Belle Arti di Siena dal 1855 al 1865, anno del suo trasferimento alla gestione del corso di Ornato al Museo Industriale di Torino.

80

viatico per l’educazione al buon gusto.Il proposito di Giusti è

quello di trovare uno spazio nel sistema formativo da occupare

con i corsi e le collezioni del Museo. Codazza, nella sua opera

storica sul Regio Museo Industriale, sottolinea i caratteri di

indipendenza, rispetto ai principi adottati nella maggior parte

delle scuole ufficiali, del programma di Giusti. Tuttavia, tra i corsi

all’interno del Museo, la parte del leone è affidata al corso per

ingegnere industriale istituito nel 1879.Gli scritti al corso sono 38

nell’anno 1888-1889, gli abilitati all’insegnamento negli Istituti

tecnici e nelle Scuole di arti e mestieri vanno da quattro a sei. A

partire dall’anno 1898 il corso di Ornato diventa Scuola Normale

per gli aspiranti all’insegnamento dell’ornato superiore negli

Istituti tecnici e nelle Scuole professionali d’arti e mestieri. I

diplomati del Museo sono destinati alle scuole afferenti il

Ministero del Commercio, Agricoltura e Industria, mentre quelli

dell’Albertina ai corsi di studi alle dipendenze del Ministero

dell’Istruzione.La scuola nell’Italia liberale si era trovata di fronte

alla doppia emergenza di un tasso di analfabetismo di

proporzioni enormi e della necessità di configurarsi come un

sistema a larga base professionale; quest’ultima caratteristica

era all’origine di un sistema di professionalizzazione precoce,

misero e riduttivo nel suo complesso, dove qualsiasi

insegnamento artistico, sia a livello storico, sia a livello pratico,

81

era assente.Le scuole tecniche si configuravano come una

risposta immediata alle necessità del mercato, con una miriade

di specializzazioni, sostanzialmente inadeguate a costituire un

momento propedeutico alla vera professionalità anche da un

punto di vista culturale. E’ sufficiente scorrere gli atti

parlamentari sui temi dell’istruzione per constatare la prevalenza

di interessi della classe politica sugli ordini di scuole finalizzate

alla formazione di una classe dirigente, piuttosto che su quelle

ormai dirette ad indirizzare le classi subalterne a un rapido

inserimento nel mondo del lavoro, nonché all’uso strumentale del

sistema di istruzione in chiave anticattolica. Le due letture si

incontrano sulle cause di un “ insuccesso’’: la specializzazione

produce frammentazione dei saperi, ridimensiona il ruolo

dell’istruzione di base nelle classi subalterne e si focalizza sulla

preparazione delle sole classi dirigenti.Il museo nato dal giusto

credo di De Vincenzi non riscuote grande approvazione perché gli

industriali richiedono quello strumento di miglioramento del

design che fu creato a Roma nel 1873, col Regio Museo Artistico

Industriale. In un paese che doveva evolversi industrialmente si

preferì lo studio della forma.Prevalse una politica conservatrice

che ebbe come conseguenza il decadere della vitalità dei musei

artistici industriali che andranno sempre più emarginandosi dalle

82

modificazioni culturali, sociali, politiche, economiche che hanno

determinato la fisionomia dell’Italia moderna.

II.4 Un museo dell’industria legato al territorio

nell’età della globalizzazione

E’ possibile fare qualche considerazione: a Torino nel 1862

venne creato il Regio Museo Industriale Italiano; a Roma nel

1873 il Reale Museo Artistico Industriale; a Milano nel 1878 il

Museo Artistico Municipale;a Napoli nel 1878 viene fondato, e nel

1889 inaugurato ufficialmente il Museo Artistico Industriale di

Filangieri e Salazaro. Altri musei, come il Bargello di Firenze e il

Correr di Venezia, nacquero come musei artistico-industriali.In

quegli anni di primissima, germinale industrializzazione italiana,

si capì quanto fosse importante collegare l’attività economica-

industriale a una attività di conservazione della memoria. Poi

cosa è accaduto? Successivamente è avvenuto qualcosa di

strano: mentre negli altri paesi europei queste istituzioni

crebbero, in Italia con gli anni vennero smantellate, impedendo

così una presa di coscienza e una diffusione di quella che è stata

giustamente definita “la cultura industriale’’. Ci fu dunque una

83

cesura, una sorta di oblio. Perché da noi si è spenta questa

tradizione che pure aveva avuto una nascita così fertile? Fu solo

disattenzione, è stata carenza di risorse o c’è qualcosa di più

profondo? Paolo Mazzanti, relatore di Confindustria, al convegno,

“Un patrimonio culturale. I Musei dell’industria”, realizzato dalla

Fondazione Luigi Micheletti 80 di Brescia, il 19 Aprile 1993, nel

suo intervento che ha per titolo Valorizzare la cultura

industriale,81 individua gli elementi che sono intervenuti nel

nostro Paese determinando questo risultato. La cultura

industriale, altrove, si è innestata quasi naturalmente con

continuità nella cultura generale del paese, secondo un rapporto

di non-contraddizione fra “rami alti” e “rami bassi” della cultura,

fra cultura concettualizzata, teorica, e cultura applicativa, fra

valori estetici e valori utilitaristici.Non a caso una corrente della

filosofia anglosassone si chiama “utilitarismo”. Da noi invece si

determinò quasi subito un conflitto tra cultura ‘’alta’’ e

cultura’’bassa’’; anche le correnti culturali come il “futurismo” nei

primi anni di questo secolo, che spingevano a favore di una

cultura industriale, lo facevano con una valenza quasi ideologica,

di conflitto, di contrapposizione rispetto alla cultura del passato.

80 La fondazione Luigi Micheletti è un istituto specializzato nella ricerca storica sul XX secolo e conosciuto a livello internazionale. Nel 1981 Luigi Micheletti, imprenditore e organizzatore di cultura, raggiungeva il primo importante obiettivo della sua appassionata attività. La biblioteca e l’archivio a cui aveva dato vita, con l’aiuto di pochi amici e appassionati, si costituivano in Fondazione ottenendo l’anno successivo il riconoscimento giuridico della regione Lombardia. 81 P.Mazzanti, Valorizzare la cultura industriale, sta in, AA. VV, Un patrimonio culturale. I musei dell’industria, Atti del convegno internazionale di studi di Brescia, 19 aprile 1993, pagg. 29-33

84

Marinetti, nel Manifesto dei futuristi, glorificò il nuovo e la

bellezza delle invenzioni meccaniche augurandosi però di

distruggere l’eredità del passato. Quindi la cultura

contemporanea, industriale, nella letteratura futurista nacque

come contraddizione, volontà di distruzione della vecchia cultura,

con conseguente reazione da parte dell’idealismo. Nel 1912, nel

suo Breviario di estetica, Benedetto Croce scrisse che il

riconoscimento del bello è l’unica legge, è l’unico valore

costitutivo di ogni arte, affermando la preminenza dei valori

estetici su ogni altro tipo di valore, mentre quasi dieci anni prima

Paul Sorian aveva affermato:<<Non ci può essere conflitto fra

bello e utile>>. Quindi negli altri paesi europei, dove la cultura

industriale venne assimilata più profondamente, questo rapporto

venne compreso, mentre da noi la cultura tardo-idealistica di

matrice crociana contestò tale continuità e affermò la prevalenza

assoluta dei valori estetici sui valori dell’utile. Nel secondo

dopoguerra questa sorta di schizofrenia si è addirittura

accentuata. E’ vero che l’Italia ha vissuto la grande esplosione

dell’industria diffusa, ma è anche vero che non è riuscita a

collegare questa grande, vitalissima attività economica con una

autocoscienza culturale diffusa, perché si è determinata una

radicale contraddizione fra l’attività pratica degli italiani e i loro

valori culturali di riferimento. Tutto ciò ha reso difficile per gli

85

italiani assimilare i valori della cultura industriale, e quindi

mentre essi facevano praticamente industria, producevano,

esportavano, erano delle formiche indefesse che continuavano a

dar vita ad innovazioni e invadevano i mercati, avevano però

difficoltà a fare della cultura industriale una loro cultura di

riferimento intimo, personale, profondo, a interiorizzare i valori

industriali. Non parliamo poi della tradizionale cultura della

separatezza del mondo accademico, che in molte sue parti ha

visto la commistione con l’attività pratica, dell’impresa, come una

sorta di degradazione morale; ad esempio, di fronte alla legge

sull’autonomia universitaria, che consentiva maggiore spazio al

rapporto fra università e impresa, nelle università ci sono stati

persino degli scioperi per contestare questo principio, che in

tutte le università del mondo costituisce una delle basi

dell’attività accademica. All’interno di questa riflessione si colloca

il progetto più importante della Fondazione, il Museo Industria e

Lavoro82 intitolato a Eugenio Battisti, storico dell’arte e studioso

di archeologia industriale. Tale progetto costituisce anche una

parte significativa della vicenda dell’archeologia industriale che

da oltre un ventennio va consolidandosi anche in Italia. Dagli

inizi degli anni ’90, su impulso di Micheletti è iniziato il lavoro di

82 Nel maggio 2004 si è concluso il concorso internazionale di progettazione a procedura ristretta, con pre qualificazione dei concorrenti, per la realizzazione della sede centrale del museo. Il progetto vincitore è degli architetti Klaus Schunwerk e Jan Kleihues. A tutt’oggi la sede centrale è ancora in fase di allestimento.

86

raccolta delle collezioni, confluite poi nel museo, insieme a tutta

la documentazione di corredo, come fonti della storia del nostro

secolo e fotografie. La collezione è costituita di 2000 macchine

ed utensili di vari settori industriali – tipografico, tessile,

meccano-tessile con macchine da stampa per cotone e velluto

degli anni ’20, oltre ad un’originale sezione dedicata al cinema e

alla televisione, per molti versi legata alla storia dell’industria -

dal 1800 a oggi. Il museo comprenderà quattro sezioni

permanenti, un auditorium e una grande hall di ingresso con uno

show-case dell’innovazione tecnica. Una seconda parte ospiterà

sale per esposizioni permanenti e temporanee, un grande

magazzino visitabile, strutture per la ricerca e formazione.

L’obiettivo è conservare, attraverso reperti concreti, la memoria

dell’età dell’industrializzazione e far conoscere il bene storico

industriale nella sua dimensione tecnica, economica, sociale e

come uno dei protagonisti principali del nostro modo di vivere e

produrre. Il rinnovamento operato da questa tipologia museale

non è tanto l’uso di tecnologia informatica, ma l’avere immesso

la tecnica nel suo contesto. Le macchine sono collocate nei luoghi

in cui sono nate e in cui hanno operato; i contenitori sono

strutture produttive dismesse –la sede centrale è una fabbrica

metallurgica sorta nella prima periferia industriale della città tra

otto e novecento. La struttura ha mantenuto la sua fisionomia

87

originaria, e il suo riuso arricchisce il grande progetto di

riqualificazione dell’area ex industriale a ridosso della città

storica. Pier Paolo Poggio, in un articolo del 1996 dal titolo Un

museo dell’industria legato al territorio nell’età della

globalizzazione 83, dice che questo tipo di allestimento ha

permesso un racconto più “vero”, e un recupero forte del il

territorio e delle risorse che hanno caratterizzato tutto il primo

ciclo dell’industrializzazione antecedente alla grande fabbrica

fordista. In questo particolare caso l’obiettivo perseguito è il

modello italiano di industrializzazione, individuando la città di

Brescia e il suo territorio come collocazione ottimale, sia per la

lunga e solida vocazione industriale che per la posizione di snodo

tra il vecchio “triangolo industriale” e le aree di più recente

sviluppo industriale. Altra testimonianza del legame con il

territorio è l’avere creato una rete –o un sistema museale diffuso

-con altre realtà museali già avviate: museo del ferro,

dell’energia idroelettrica, la città delle macchine. In questo

fondamentale binomio il territorio è anche il luogo in cui si è

formato il capitale sociale che consente di competere

nell’economia globale. Nel momento in cui l’industria e il lavoro

cambiano significato e sono in atto profonde dinamiche di

trasformazione, il territorio deve essere indagato col fine di una

83 P.P.Poggio, Un museo dell’industria legato al territorio nell’età della globalizzazione, sta in ‘’Rassegna’’, rivista della Banca Regionale Europea, 1996, n°4, pagg. 76-81

88

comprensione riflessiva del bisogno di identità e significato.

Valerio Castronovo84 scrive che oggi, a distanza di un secolo dai

primi esordi della nostra industrializzazione, esistono le

condizioni per un grande recupero della “memoria storica

dell’impresa”. Definisce un autentico “giacimento culturale” tutto

ciò che è emerso dalla sistemazione di archivi aziendali e dalle

ricognizioni dell’archeologia industriale. C’è una gran massa di

documenti e di materiali di ogni genere, rimasta finora in gran

parte inesplorata, che costituisce un patrimonio di notevole

importanza e interesse scientifico. Sono proprio questi i motivi

che hanno indotto la Fondazione Micheletti a concepire il

progetto del Museo. Sebbene ben cinque generazioni di italiani si

siano avvicendate dall’Ottocento a oggi nel mondo della fabbrica,

non esiste tutt’ora un’istituzione museale di rilevanza nazionale

che abbia per fine precipuo la raccolta e la valorizzazione delle

testimonianze documentarie della nostra storia industriale. Tra

gli interventi al convegno ci sono due confronti con i musei

all’estero: il Museo della Scienza e della Tecnica di Catalogna, e il

Museo statale della tecnologia e del lavoro di Mannheim. Per il

primo museo è intervenuto Eusebi Casanelles, ingegnere

industriale, direttore del museo e presidente del Comitato

internazionale per la conservazione del patrimonio industriale

84V.Castronovo, L’industria italiana e la valorizzazione del patrimonio industriale, sta in,AA.VV,Un patrimonio…cit, pagg. 24-29

89

(ICCIH). La Catalogna iniziò la sua industrializzazione agli esordi

dell’Ottocento e fu il frutto dello sviluppo manifatturiero del

secolo XVIII, quando Barcellona era uno dei centri più importanti

d’Europa per la fabbricazione delle stoffe indiane (tessuti

stampati)85. Assieme al nord Italia fu una delle poche regioni

dell’Europa meridionale che riuscirono ad industrializzarsi.

All’inizio degli anni ottanta del secolo scorso con la riconquista

dell’autogoverno catalano si tracciarono le grandi linee della

politica museale. Uno dei musei che venne creato fu il Museo

della Scienza e della Tecnica che, con la legge del 1990, divenne

uno dei tre musei nazionali esistenti. Per la struttura del museo

si optò per un modello decentralizzato, vale a dire per un museo

centrale avente il compito di coordinare i programmi che man

mano si sviluppavano. Tale organizzazione non deve essere

scambiata per una associazione di musei tecnici, ma riconosciuta

come un sistema che illustra l’industrializzazione catalana.

Ognuno dei centri museali affronta l’argomento da un punto di

vista tematico e territoriale specifico. Si ha come una delega

tematica del Museo centrale ad un determinato museo locale.

Ogni museo è parte costituente del “grande museo” di Terrassa,

che costituisce il centro del coordinamento, e pertanto deve

avere una sua specificità rispetto agli altri. I musei legati al

85 cfr.E.Casanelles, La base concettuale di un museo:Il Museo della Scienza e della Tecnica di Catalogna, sta in AA.VV,Un patrimonio culturale…op cit, pag.41

90

sistema possono essere costituiti da una collezione di oggetti

tecnici, oppure possono essere antichi siti produttivi, scientifici o

tecnici. Il museo che fa parte del sistema deve possedere una

collezione con un discorso museale su un determinato filone

tecnologico, che viene trattato solo in quella realtà. Per esempio,

il tema della fabbricazione della carta viene affrontato in

Catalogna singolarmente, in uno specifico museo. Tra i musei

collegati, sia pubblici che privati, c’è il museo conceria e museo

dell’acqua, il museo del sughero e il museo del legno. Tra i siti di

interesse archeologico c’è una centrale idroelettrica e una

miniera di piombo. Le regole che sovrintendono alla gestione

sono sancite dai programmi approvati dal Comitato Direttivo.

Alcuni programmi sono ineludibili come la conservazione, la

divulgazione, il restauro; altri sono facoltativi, come gli aspetti

turistici ambientali. Ciascun museo gode di indipendenza

statutaria e, dopo aver accettato i programmi generali, deve

formulare una richiesta per aderire al sistema. Gli obiettivi

principali coprendono due grandi blocchi: quello tecnologico e

quello storico-sociale. Casanelles scrive che è essenziale che la

tecnica e la scienza entrino a far parte delle conoscenze che

costituiscono il mondo della cultura. Siamo circondati dalla

tecnologia e per comprendere la nostra società dobbiamo

conoscere il funzionamento delle macchine e le forme della

91

produzione di energia, così come il rapporto tra la tecnica,

l’uomo e la natura. Al tempo stesso è fondamentale conoscere

anche la storia dell’industrializzazione e il suo impatto sulla

società. Per questo motivo il Museo della Catalogna mette in luce

non solo gli aspetti della rivoluzione industriale, ma sottolinea

anche gli aspetti del processo di industrializzazione catalano. E’

un museo che presenta l’evoluzione delle innovazioni

tecnologiche e la relazione tra scienza e tecnica, con lo scopo di

rendere manifesta la capacità creativa dell’uomo. Diversamente

del museo della Catalogna, il museo statale della tecnologia e del

lavoro di Mannheim non può avere musei ad esso collegati. Al

convegno di Brescia, Lothar Suhling86 ha dedicato il suo

intervento a questo museo. L’intervento di Suhling è una breve

sintesi della storia del museo, un tentativo di tour guidato al suo

interno. Suhling dice che il governo del Land, il parlamento e

l’opinione pubblica del Baden-Wurttemberg cominciarono a

formulare l’idea di fondare un museo centrale verso la metà degli

anni ’70. In quegli anni ci fu un rifiorire di mostre e di esposizioni

storiche, un crescente interesse per le origini della società

industriale e per il cambiamento delle condizioni di lavoro e di

vita provocato dalle innovazioni tecniche. Questo interesse diede

origine a un dibattito serrato che alla fine portò il governo a

86 L.Suhling, Il museo statale della tecnologia e del lavoro di Mannheim, sta in, AA.VV, Un patrimonio culturale…op cit, pagg. 37-41

92

decidere, nel 1978, di costruire un museo di stato della

tecnologia e del lavoro di Mannheim. Il parlamento di Stoccarda

lo approvò nel febbraio 1980. Il governo pagò tutte le spese

dell’edificio, degli impianti e delle collezioni. Visitare il museo,

continua Suhling, vuol dire percorrere sedici stadi dello sviluppo

tecnico, sociale e politico degli ultimi 250 anni, a partire

dall’epoca dell’assolutismo illuminato e del cameralismo,

fenomeno tipico del Palatinato sotto il regno del principe elettore

Carl Theodor (1743-1799), il quale ebbe la sua capitale a

Mannheim fino al 1778. Suhling usa l’espressione “spirale dello

spazio e del tempo”per definire il concetto espositivo che sta alla

base del museo. Vuol dire che il visitatore viaggia attraverso uno

spazio storico da una città o regione della Germania sud-

occidentale all’altra;ad esempio dalla Mannheim della fine

settecento alla Heilbronn degli inizi ottocento. In questo modo si

procede passo dopo passo dall’epoca preindustriale e dall’era

napoleonica alla prima fase dell’industrializzazione, e da qui al

periodo della grande industrializzazione e alla prima guerra

mondiale, fino alla rivoluzione industriale del presente. I

visitatori possono ammirare una cartiera, costruita nel 1870

circa, azionata da una grande ruota ad acqua. Tutto questo ebbe

inizio grazie a un trasferimento di tecnologia dall’Inghilterra a

Heilbronn nel 1820, quando due imprenditori di quella città

93

acquistarono una macchina inglese per la produzione della carta

e la installarono a Heilbronn. Un’altra unità espositiva

interessante è quella che mostra il processo della sintesi

dell’ammoniaca inventato da Fritz Haber a Karlsruhe, e applicato

su scala industriale da Robert Bosch ei pressi di Mannheim.

Infine non poteva essere dimenticata la produzione delle auto.

Grazie a Carl Benz la Germania sud-occidentale può vantare di

essere la culla dell’industria automobilistica moderna. Gli

interventi presenti al convegno dimostrano la rilevanza a livello

internazionale della Fondazione Micheletti e i due assi portanti su

cui fa perno il Museo E.Battisti, e vale a dire il rapporto con il

territorio e il rapporto museo-fondazione. Nella proiezione del

museo nel territorio, la fondazione è a contatto con esperienze

ormai consolidate in altri paesi. Gli interventi rivelano anche la

maniera di intendere la cultura all’interno della fondazione: la

cultura non è uno strumento di potere e di separazione dagli

altri, ma è uno strumento d crescita e di emancipazione

dell’uomo, di tutti gli uomini. La fondazione vuole realizzare il

ricongiungimento della cultura scientifica e della cultura

umanistica separatesi nell’evoluzione storica dal ‘500 in poi.

Ricongiungerle vuol dire affidare alla ricerca senza più

separazioni uno stesso obiettivo di crescita complessiva della

nostra società. Gian Primo Cella afferma: <<La cultura da noi

94

viene ancor concepita separata dal resto della vita. Si lavora

tutta la settimana, poi ci si mette il vestito della festa e si fa

cultura >>87. Micheletti tuttavia non ha mai avuto il “vestito della

festa” dell’uomo di cultura. E’ un operatore, un industriale, uno

che ha usato più le mani che la penna e che ha sentito la

necessità di diventare grande organizzatore di cultura. Ha intuito

per tempo il rischio di disperdere, di non sapere valorizzare sul

piano della cultura, quell’enorme accumulo di intelligenza, di

lavoro, di sacrificio che ha consentito al nostro Paese, facendo

leva sull’unica materia prima che avevamo e che abbiamo, il

capitale umano, di compiere progressi impensabili in ogni settore

di attività.

87 cit.in.S.Fontana,Iniziative e strutture per la diffusione della cultura scientifica e tecnologica,sta in AA.VV. Un patrimonio culturale…op cit, pag. 16

95

III Musei e aziende

96

III. 1 Dal tempio delle Muse ai musei delle aziende. Tolomeo II di Filadelfo fonda nel 284 a.c ad Alessandria d’Egitto

il mouseion, un complesso dedicato alle Muse, le nove figlie di

Zeus e Mnemosyne, il quale - incentrato sulla famosa biblioteca e

sulle raccolte di opere d’arte e di oggetti di varia curiosità -

rappresentava una istituzione culturale che oggi potrebbe essere

definita polifunzionale.

La parola greca mouseion racchiude una radice indogermanica,

ma(n), il cui significato è pensare, conoscere. Il museo, già alle

origini linguistiche, è testimonianza della mente umana, ed è un

termine che fa riferimento al sapere dell’uomo. E’ il luogo pronto

ad accogliere tutti i prodotti creati con l’apporto della mente

umana, e non a caso è consacrato alle divinità protettrici delle

arti e delle scienze, delle attività intellettive e creatrici dell’uomo.

Il museo, come l’archivio, corrisponde a un archetipo della

comunicazione umana. In una prospettiva socio-antropologica

legata al tempo e allo spazio lo spirito dell’uomo si è sempre

espresso attraverso questi luoghi della memoria. Sin

dall’antichità l’archivio o la biblioteca e il museo-tempio delle

Muse hanno sviluppato una summa di pratiche costanti, che

hanno caratterizzato queste strutture come spazi a parte, spesso

97

costituiti con l’ambizione di rappresentare un compendio

universale delle conoscenze dell’uomo.

Sebbene la sua origine sia tanto antica, è possibile definire un

museo prendendo in prestito dall’attuale linguaggio informatico

vocaboli come hardware e software. Un museo può essere

definito come un contenitore immutabile, un hardware, un

edificio-casa secondo la concezione anglosassone e, nello stesso

tempo, un software, capace di essere flessibile e di trasformare

la casualità degli oggetti che si accumulano in un percorso

logico88. L’universo degli oggetti si può dividere in tre classi:

quelli che hanno un valore perché sono utili, quelli che hanno un

valore perché hanno un significato, quelli che non hanno né

utilità, né significato. Un museo, secondo la definizione di

Pomian, è un <<insieme di oggetti naturali o artificiali,

mantenuti temporaneamente o definitivamente fuori dal circuito

di attività economiche, soggetti a una protezione speciale in un

luogo chiuso sistemato a tale scopo, ed esposti allo sguardo

pubblico>>89. In definitiva gli oggetti del museo hanno un

significato e un valore ma non hanno un’utilità. Pomian illustra la

sua tesi principale, ovvero della finalità non utilitaria, con alcuni

esempi: << Le locomotive e i vagoni riuniti in un museo non

88 cfr.M.Amari, I musei delle aziende. La cultura della tecnica tra arte e storia, Franco Angeli, Milano, 2001, pag.72 89 K.Pomian, Collezione, sta in AA.VV, Enciclopedia, Einaudi, Torino, 1978, vol.III, pag.332

98

trasportano né viaggiatori, né merci….Gli utensili, gli attrezzi e i

costumi raccolti in una collezione o in un museo d’etnografia non

partecipano alle opere e ai giorni delle popolazioni contadine o

urbane…..Anche se nella loro vita precedente avevano un uso

determinato, i pezzi da museo o da collezione non ne hanno più.

Si assimilano così a opere d’arte che non hanno una finalità

utilitaria…>>90. Tuttavia la funzione di questi oggetti non è meno

importante: essi ci mettono in comunicazione con il passato, con

ciò che per noi, nella nostra esperienza, è diventato invisibile, e

ancor più lo sarà per le generazioni future. Pomian definisce

questi oggetti semiofori: sono oggetti privi di valore d’uso, ma

dotati di significato91. Infine la qualità e le tipologie delle

collezioni dipendono dall’attenzione della collettività verso la

conservazione e soprattutto dal livello e dalle priorità nel campo

dell’istruzione. Tuttavia la cultura museale italiana, figlia di una

tradizione in cui l’approccio tecnico-scientifico continua a soffrire

di un ruolo subalterno nei confronti di quella umanista, rimane su

posizioni ambigue. Non ha offerto in misura sufficiente i dovuti

riconoscimenti e gli spazi espositivi alle arti decorative e alle

testimonianze della vita materiale, e continua a non accorgersi

dei grandi cambiamenti che in questo secolo hanno modificato la

nostra civiltà. La nostra cultura è rimasta sorda e cieca davanti

90 ivi, pag.330 91 cfr.ivi , pag. 350

99

alla possibilità di lasciare testimonianza delle trasformazioni del

nostro modo di vivere tramite, ad esempio, i prodotti

dell’industria, grande protagonista della nostra epoca. Tale

resistenza ad una rappresentazione e storicizzazione del

processo di sviluppo industriale si è verificata, in Italia, perché

per troppi anni per mera casualità la cultura è stata scissa

dall’industria e il museo è stato lo scrigno dei pretiosa, di oggetti

unici ed originali frutto dell’irripetibile esperienza estetica. E’

soltanto a partire dagli anni sessanta del secolo scorso che si

sono costituiti i primi musei e le prime collezioni aziendali, in

maggioranza con sede nel nord Italia, non a caso dove sono

localizzate le rispettive aziende proprietarie. La localizzazione per

aree geografiche è il primo dato da proporre per un’analisi sui

musei d’impresa in Italia: queste strutture hanno sede per il

70% al nord, per il 25% al centro e solo pochi esempi si

ritrovano al sud. Le percentuali, risultato della ricerca compiuta

da Monica Amari, sono un indicatore della geografia industriale

italiana e della nostra attività imprenditoriale: quest’ultima infatti

si è consolidata innanzitutto in quella aggregazione di territori

definita “triangolo industriale”, con la conseguente

concentrazione industriale nell’Italia settentrionale,e con la

minore presenza di grandi e medie aziende nel centro e nel sud

del paese. Nel 1958 apre al pubblico il Museo Civico della

100

calzatura realizzato grazie alla donazione di Pietro Bartolini,

titolare di un noto calzaturificio. Due anni dopo, nel 1960, a

Torino nasce - con il supporto della Fiat,dell’Alfa Romeo, di

Lancia92 - il Museo Carlo Biscaretti di Ruffia, più noto come

Museo dell’Automobile, unico museo nazionale dedicato

all’industria automobilistica. La collezione presenta oltre

centosessanta vetture italiane e straniere ed esempi di telai e

motori, insieme a stampe, quadri e trofei che si riferiscono

all’avventura automobilistica. Tra le macchine più rare sono da

ricordare le prime Benz con il cambio di velocità a “cinghie”, la

prima Fiat del 1889 senza retromarcia. Le vetture di prestigio

sono rappresentate dalla Lancia K del 1919, dalla Mercedes 500,

dalla Rolls-Royce <<Silver Ghost>>. Fra le utilitarie è esposta la

Fiat Balilla. Il museo, cui si affianca una biblioteca e un centro

documentazione, si è arricchito nel 1992 di una dozzina di

vetture che aggiornano la raccolta fino agli anni ’80. Nel 1961

viene inaugurato il Museo Martini di Storia dell’Enologia. Sempre

negli anni sessanta viene istituito a Sesto Fiorentino il Museo

delle Porcellane di Doccia, per conto della Società Ceramica

Italiana Richard Ginori. Nel 1976 ad Arese viene aperto il Museo

92 Contribuirono anche varie industrie italiane come Agip, Esso, Magneti Marelli, Michelin Italiana, Pirelli, insieme a enti quali l’A.C.I, il C.N.R e l’Unione Italiana Giornalisti dell’Automobile. E’ pertanto ovvio che si tratta di un museo privato.

101

Storico Alfa Romeo93. Il museo è situato in una palazzina del

complesso industriale di Arese; lo spazio espositivo si articola in

sezioni dedicate, oltre all’esposizione delle vetture storiche dal

1910 al 1977, alla progettazione e al settore aeronautico

dell’azienda, e alla collezione di modellini Alfa Romeo. Negli anni

ottanta vengono fondati: a Montebelluna, il Museo dello

Scarpone e della Calzatura Sportiva da un gruppo di aziende del

trevigiano; a Cassina dè Pecchi il Museo della Telecomunicazione

Sirti; a Roma Il Museo Montemartini94 dell’energia elettrica.

Dal 1990 in poi i musei di nuova costituzione sono numerosi: il

Museo dell’Occhiale a Pieve di Cadore, Il Museo dell’Olivo Fratelli

Carli ad Imperia, il Museo Lamborghini a S.Agata Bolognese, la

Galleria Ferrari a Maranello. I musei delle aziende. Il già ricordato

volume La cultura della tecnica tra arte e storia di Monica Amari,

93 A.L.F.A, Anonima Lombarda Fabbrica di Automobili, è stata fondata nel 1910. Verso il 1915 l’imprenditore napoletano Nicola Romeo prende le redini della società e lega il proprio nome all’azienda milanese. Da qui ALFA ROMEO. 94 La prima centrale elettrica di Roma, realizzata nel 1911 su progetto dell’Ingegnere Piccioni, porta il nome di Giovanni Montemartini, economista pavese che fu assessore ai lavori pubblici nella giunta capitolina guidata da Ernesto Nathan. Nel 1970 la Centrale chiuse a causa degli alti costi di manutenzione degli impianti. L’ACEA, società proprietaria della Centrale Montemartini, decide di utilizzare l’edificio per ospitare mostre, convegni e spettacoli. La Centrale, restaurata nel 1989, accanto ai vecchi macchinari produttivi, accoglie nelle tre sale(Sala Colonne, Sala Macchine, Sala Caldaie) un’importante selezione di sculture antiche soprattutto romane, dei Musei Capitolini, in buona parte rinvenute alla fine dell’Ottocento. In questo caso, dunque, pur essendoci un’azienda di riferimento, quale l’ACEA, il museo è civico. Questo museo è anche, come il castello di Rivoli e come la mostra permanente Terrae-Motus esposta nelle sale della Reggia di Caserta, uno dei pochi esempi italiani di dissociazione tra contenitore e contenuto. Il percorso della memoria industriale riesce a integrarsi con altri momenti espositivi totalmente diversi in un processo che può essere definito di “simbiosi culturale”. Tale museo coniuga due percorsi espositivi diversi: uno di matrice archeologica e l’altro scientifica, permettendo così di fruire del patrimonio industriale in spazi originari.

102

apparso nel 199795, è il risultato di dieci anni di ricerche e di studio

cominciate nel 1987 con una serie di articoli pubblicati sulle pagine

culturali de “Il Sole 24 ORE”. La scommessa era quella di dare

unità, identità e, perciò, anche un nome a una realtà frammentaria,

composta da situazioni all’apparenza disomogenee. In quegli anni si

parlava genericamente di “Museo del Lavoro” per indicare situazioni

espositive che avrebbero dovuto raccontare la storia della nostra

industria. Nel 2001l’autrice pubblica la seconda edizione del

volume96, dopo aver effettuato una analisi quali-quantitativa. Tra i

risultati il primo dato che balza all’attenzione è come il numero delle

imprese che dichiarano di possedere un museo o una collezione è

aumentato tra le due edizioni di circa il 30%, passando da 129

situazioni a 167. L’indice di “mortalità” di queste realtà si aggira

intorno all’8%: in questo dato sono comprese strutture espositive

chiuse definitivamente o trasferite ad altri clienti o assorbite da

altre collezioni aziendali. E’ stato chiuso il Museo Enel dell’energia

95 Monica Amari, specializzata in scienze economiche e sociali a Ginevra, alterna alla ricerca e alla formazione un’attività professionale progettando mostre, eventi e convegni. Svolge inoltre attività di consulenza, ricerca e formazione nell’ambito della politica, progettazione e marketing culturale. 96 Il volume è articolato in due parti: la prima esamina l’origine del museo di impresa con paragrafi dedicati alla nascita dei musei industriali e artistici industriali. La seconda si riferisce specificamente ai musei aziendali, alle sue articolazioni, all’individuazione dei contenuti museali. L’ultima parte, appunto quella che ha ampliato l’edizione del 2001 rendendola anche la prima banca dati e una sorta di guida ragionata dei musei aziendali, comprende schede sui singoli musei e i risultati di una ricerca realizzata attraverso questionari inviati alle aziende. In questi ultimi è stato chiesto all’impresa di specificare:la denominazione della struttura espositiva; la sua tipologia; il contenuto espositivo; la descrizione dell’allestimento; i cenni storici; la presenza di un curatore; il numero annuo di visitatori; le modalità di visita; il supporto didattico; i servizi accessori presenti fino ai canali promozionali utilizzati. Il questionario è stato sottoposto al soggetto che si identificava come responsabile della struttura espositiva. La Amari usa indifferentemente le definizioni “Musei delle aziende” e “Musei dell’impresa”. Utilizza la prima denominazione nel titolo perché è più accattivante e di maggiore presa sul pubblico.

103

elettrica di Roma, mentre è confluito nel Museo del Patrimonio

Industriale di Bologna il Museo Aldini Valeriani. L’Archivio Storico

Ansaldo ha ceduto tutti i suoi manufatti e i suoi cimeli al Museo

dell’Industria e del Lavoro di Brescia. Infine una struttura non

fruibile dal pubblico, in quanto in attesa di essere ristrutturata, è la

collezione Candy. L’incremento registrato è sicuramente indice di

una maggiore attenzione delle aziende italiane nei confronti della

conservazione della propria memoria storica e dell’uso che della

stessa si può fare in termini di comunicazione, per rafforzare la

propria immagine e la notorietà presso il pubblico, i propri clienti e

gli studiosi del settore. Il problema affrontato dalla Amari non è

stato soltanto quello di identificare e reperire i singoli musei, bensì

di individuare e provare a definire l’oggetto specifico del discorso, e

cioè cosa si debba intendere per museo aziendale. La studiosa

opera prima di tutto una distinzione tra due situazioni con alcuni

punti in comune ma che sostanzialmente sono molto differenti: la

collezione aziendale e la collezione d’arte di proprietà dell’azienda o

dell’impresa. In genere sono le banche e le casse di risparmio che

hanno collezioni d’arte realizzate grazie a un programma

continuativo di acquisizioni, espressione di una scelta di politica

culturale e di un certo tipo di investimento. Un esempio importante

in Italia è la collezione d’arte moderna e contemporanea della

Banca Commerciale italiana. La collezione aziendale è un insieme di

104

oggetti relativi all’attività e alla produzione di una o più aziende

appartenenti ad uno stesso settore merceologico. In essa vi è la

esplicita volontà di conservare materiali che possono essere

testimonianza della produzione e della vita dell’impresa. La

collezione aziendale è fruibile normalmente da estranei, insomma

ha un pubblico più o meno ampio, può essere visitata da studiosi

del settore o essere utilizzata come supporto didattico per i corsi di

formazione. E’ il caso della Fondazione Arte della Seta Lisio che

produce tessuti pregiati a Firenze e si avvale della propria raccolta

di stoffe antiche per svolgere le esercitazioni dei corsi di restauro e

schedatura della scuola annessa. Precisa l’autrice che la collezione

rimane il punto di partenza per una futura struttura museale e non

è assolutamente da confondere con l’archivio che per definizione

raccoglie documenti ufficiali97. Le raccolte aziendali invece mettono

insieme soprattutto quegli oggetti e quel materiale attinente

all’azienda, privi dell’ufficialità dell’archivio e pertanto più soggetti

all’oblio. Il museo aziendale, a differenza della collezione, non si

caratterizza solo con l’esistenza di un percorso espositivo. A

identificarlo concorrono diversi elementi quali:

1. il rapporto dichiarato con il pubblico98

97 L’etimo della parola archivio è di derivazione greca, archè, e significa comando. L’archeion greca era la dimora dei magistrati supremi, gli arconti, che detenevano il potere politico. Tenuto conto dell’autorità così pubblicamente riconosciuta, è presso di loro, nella loro casa privata, di famiglia o di funzione, che venivano depositati i documenti ufficiali. 98 Il costante aumento del numero dei visitatori verso i musei d’impresa è un segnale del crescente interesse da parte dell’opinione pubblica sollecitata da una politica di comunicazione che le

105

2. la definizione di obiettivi specifici:rappresentazione

storica dell’azienda, trasmissione della cultura industriale

3. uno stanziamento adeguato alla copertura dei costi d

gestione

4. uno spazio fisico adatto all’esposizione della raccolta

5. personale qualificato: direttori, restauratori, custodi,

guide

6. la definizione delle modalità di apertura al pubblico

7. l’organizzazione di alcune attività comunicazionali e

didattiche:pubblicazioni, ricerche, conferenze.

Caratteristica del museo aziendale, capace di

contraddistinguersi da gran parte di quelli storico-artistici, è

la capacità e la necessità di essere un museo in progress. E’

un museo dinamico che per la sua stessa natura è costretto

ad aggiornarsi di pari passo con l’evolversi delle attività

aziendali e pertanto costringe l’azienda a una riflessione

sulla propria storia. Seguendo alcuni criteri di classificazione

è possibile individuare le diverse tipologie di musei

aziendali. Il primo criterio può essere definito in base al

soggetto giuridico titolare del museo o della collezione.

Esistono:

imprese hanno cominciato ad attivare con l’ausilio di istituti di formazione. Il 31.5%dei musei d’impresa ha infatti la consapevolezza di essere uno strumento didattico, il 22% valorizza il momento promozionale e informativo partecipando a mostre ed eventi e il 37% utilizza internet per promuovere la propria struttura espositiva.

106

1. musei di proprietà di Enti Territoriali (stato, regioni,

province, comuni), fondati da un’azienda e poi ceduti

all’Ente Pubblico (es. il Museo Borsalino di

Alessandria)o creati dallo stesso ente pubblico per

testimoniare un’attività produttiva della zona (es. il

Museo Civico del Marmo)

2. musei aziendali di imprese pubbliche (es. il Museo

Nazionale Ferroviario di Pietrarsa e il Museo Storico

delle Poste e delle Telecomunicazioni)

3. musei aziendali privati. In questa categoria vengono

comprese, per maggiore semplicità, le Fondazioni.

Un’ulteriore distinzione si può tentare in base

all’oggetto della collezione aziendale, tenendo conto

della tipologia del bene prodotto dall’azienda. Tali beni

possono essere principalmente distinti in:

• beni semidurevoli

• beni durevoli

• beni strumentali

Per i primi due casi la collezione del museo

concerne innanzitutto il prodotto aziendale, nelle

sue molteplici versioni (automobili, motocicli,

abbigliamento, accessori,…)(Museo moto Guzzi,

Museo Ferragamo). Le imprese che realizzano beni

107

strumentali documentano l’intero settore in cui

operano con un’attenzione agli oggetti che esse

producono (Museo Sirti delle telecomunicazioni).

Considerando queste variabili si può definire un

museo aziendale come un museo:

1. generico di settore, che documenta la

storia e l’evoluzione di un intero settore

industriale e non solo l’attività

dell’azienda di riferimento.

2. generico del prodotto, che ripercorre

l’evoluzione tecnica di un particolare

prodotto industriale (es. Museo della

Bilancia e della Pipa).

3. storico aziendale, che rappresenta la

storia e lo sviluppo dell’azienda. Espone

prodotti, macchinari, segue l’evoluzione

del marchio e del logotipo (es,Galleria

Ferrari).

4. territoriale. Testimonia l’evoluzione di un

settore che ha avuto particolare

rilevanza economica in un territorio

delimitato.

108

5. complementare. Si tratta di imprese che

producono beni di largo consumo, o di

aziende che forniscono servizi. La

collezione è in genere composta da

oggetti necessari per consumare il bene

prodotto dall’azienda. (es. Museo della

Radio e della Televisione RAI a Torino).

Il testo di Monica Amari è stato oggetto di una

recensione99 di Giulio Pane in cui si sottolinea

positivamente l’impegno dell’autrice nel ricercare e

nell’illustrare le caratteristiche peculiari dei musei

aziendali e le loro singolarità culturali. Queste ultime

sono così affrancate dalla demonizzazione e dalla

emarginazione di cui sono destinatarie le iniziative

culturali che si misurano con l’uso del capitale. Non vi è

museo aziendale che non esalti l’apporto manuale e la

tradizione operaia come parti integranti e significative

della storia stessa delle aziende. La struttura stessa del

museo aziendale si configura come un microcosmo non

immediatamente riconducibile ad altre simile esperienze

museali tradizionali. Il museo aziendale non mostra solo

ciò che è stato fatto, ma anche come è stato fatto e

99 G. Pane, I musei aziendali, sta in “Napoli Nobilissima”, 5 serie, vol. III, fascicoli III-IV, maggio-agosto 2002, pagg. 153-155.

109

come si fa, rivestendo un ruolo didattico che è di gran

lunga più rilevante di quanto avvenga nelle strutture

tradizionali. Monica Amari ha anche dato il suo

contributo per il Manuale di museologia per i musei

aziendali di Massimo Negri100. Quest’ultimo specializzato

nel campo dell’archeologia industriale con studi negli

Stati Uniti, è socio fondatore della Società Italiana per

l’archeologia industriale e dell’Associazione italiana per

il patrimonio archeologico industriale. Dagli anni ottanta

svolge un’intensa attività di consulenza a livello

internazionale sulle problematiche museali,

collaborando con aziende e associazioni imprenditoriali

private oltre che con istituzioni pubbliche. Dal 1983 è

presente nella Giuria del Premio europeo museo

dell’anno promosso dal Consiglio d’Europa, di cui è

attualmente direttore. Ha rappresentato l’Italia in seno

a The International Commitee for the Conservation of

the Industrial Heritage. Il testo di Negri si rivolge agli

operatori museali o paramuseali, ai ricercatori, agli

operatori culturali, agli amministratori pubblici, ma

anche a uomini d’azienda che si trovano ad affrontare

100 M. Amari, Un mondo in trasformazione: lo scenario dei musei aziendali in Italia e in Europa, sta in, M. Negri, Manuale di museologia per i musei aziendali,Rubbettino Editore, Soveria Mannelli 2003, pagg. 159-171.

110

problemi complessi e diversificati. Il libro fornisce

informazioni, suggerimenti, spunti di riflessione e tracce

per ulteriori approfondimenti, oltre a un corredo teorico

e critico e una più precisa formulazione dei progetti per

aiutare il processo di formazione del personale operante

nel settore. Negri, nel primo capitolo dal titolo I molti

perché di un museo aziendale, parla della missione di

un museo di questo tipo. L’abitudine di esplicitare la

“mission” è fondamentalmente esterna alla tradizione

dei musei: deriva infatti dalle moderne teorie della

gestione di organizzazioni. Nel mondo dell’impresa, la

definizione della “mission” sta al vertice della piramide

in cui si articola qualunque piano strategico. La

missione è la cellula fondamentale dell’identità di

un’organizzazione. Ne esplicita le finalità e la ragione di

essere. Per restare nel settore specifico dei musei

aziendali, l’autore distingue tra missione dell’azienda e

missione del suo museo. Il museo aziendale è uno

strumento dell’azienda, è servito o serve in qualche

modo all’impresa. Ci sono ovviamente diverse modalità

di conduzione e diverse finalità per l’uno e per l’altra,

ma tra l’azienda e il suo museo esiste un legame forte e

strumentale. Le due missioni sono quindi distinte, ma il

111

grado di dipendenza dell’una dall’altra e di integrazione

degli obiettivi dipende dal legame in essere al momento

in cui il museo esplicita le proprie finalità. La

dichiarazione della propria missione deve ispirarsi ad

alcune caratteristiche formali e rispondere a queste

domande: perché il museo esiste, come è nato, a chi è

affidata la responsabilità della gestione, quale è la

natura delle collezioni e del suo patrimonio complessivo,

a chi è rivolta la sua attività. Le motivazioni che stanno

all’origine della realizzazione di un museo aziendale

sono molteplici, e Negri ne ha individuate almeno

quattordici:

• conservare una collezione

• raccontare una storia imprenditoriale

• soddisfare un’ esigenza di gratificazione

dell’imprenditore rispetto alla sua storia

familiare o personale

• risolvere un problema

immobiliare(riutilizzo di un edificio)

• dotare l’azienda di un luogo e di uno

strumento per attività culturali

• creare uno strumento di trasmissione

del “saper fare” per il personale

112

• evidenziare e comunicare i valori base

dell’azienda con gli strumenti specifici

dell’ambiente museale

• dare maggiore visibilità all’azienda

anche in senso fisico

• pubblicizzare ed esporre prodotti

• dotarsi di uno strumento di internal

marketing101

• accrescere l’impatto dell’azienda sul

contesto sociale

• dotarsi di uno strumento di marketing

del territorio e della comunità in cui

l’azienda opera

• riposizionare un marchio sul mercato

• reinvestire una quota dell’utile prima

delle tasse

A seconda del mix tra alcuni dei fattori sopra elencati nasce

una diversa collocazione del museo nel panorama

genericamente definito dei musei d’impresa. Negri opera

una distinzione tra museo dell’impresa e museo generato

101 L’internal marketing è quel complesso di azioni rivolte al personale, e in generale alla comunità aziendale, per motivarlo e coinvolgerlo nelle strategie e nel perseguimento degli obiettivi da queste indicati

113

dall’impresa. Alla prima categoria appartiene il museo

aziendale classico, realizzato da un’impresa attiva,

preferibilmente all’interno di una sua sede. Alla seconda

appartengono molti altri musei la cui storia è

indissolubilmente legata a una vicenda aziendale e che da

questa sono generati102. Per richiamare l’attenzione sulle

diverse caratterizzazioni dei musei aziendali, Negri li

suddivide nelle seguenti categorie103:

1. museo di storia aziendale. Qui l’oggetto è lo sviluppo

dell’impresa e la crescita dell’imprenditore

2. museo di marca. Sono i musei che portano in primo

piano il valore del marchio aziendale e presentano il

catalogo storico dell’intera produzione di un’azienda.

L’affermazione dell’identità del marchio è l’essenza della

missione (Museo Ducati, Museo Piaggio)

3. museo di prodotto o di categoria merceologica (Museo

dell’occhiale).

4. museo di distretto produttivo. Un caso tipico è il

Museo della Bilancia di Campogalliano: non nasce

102 E’ il caso del museo municipale tedesco Schreiber. Presenta la storia della ditta Schreiber che svolse un ruolo leader nella produzione di libri cartonati per bambini. L’ultimo membro della famiglia donò la propria collezione al comune di Esslingen con il vincolo della realizzazione di un museo. Si tratta quindi di un museo civico originato da una collezione aziendale. 103 Negri come Amari non comprende in questo ordinamento le collezioni d’arte realizzate grazie a un programma continuativo di acquisizioni.

114

dall’apporto di una singola azienda, ma dall’insieme delle

realtà produttive del settore.

5. museo archivio. In alcuni casi il pezzo forte della

collezione è costituito dall’archivio aziendale. E’ il caso del

Museo Piaggio di Pontedera dove il percorso prevede

l’accesso libero ad alcune parti dell’archivio.

6. museo a tema. Il Museo della comunicazione di

Lisbona non racconta univocamente la storia

aziendale, bensì l’evoluzione della comunicazione.

Ancora qualche parola sulla tipologia museo di marca.

Perché la motivazione alla base di numerose istituzioni di

questo tipo consiste nella comunicazione e valorizzazione del

marchio e/o del prodotto o di una gamma di prodotti? Nel

marchio si riassumono tutti i valori simbolici di una impresa.

Il marchio è quel segno preposto a comunicare i significati

linguistici - il nome - e iconici - l’immagine - del simbolo

che l’azienda assume come suo strumento di identificazione

sul mercato. La “forza” del marchio è data da diverse

componenti, quali la sua capacità di essere identificato nella

moltitudine,di essere ricordato , di comunicare in estrema

sintesi i contenuti dell’attività aziendale e il suo stile. Infine

deve essere interprete della personalità dell’azienda. Inoltre

non è inusuale la migrazione di un marchio leader dal

115

settore merceologico originario a campi del tutto diversi. Il

marchio Ferrari, come quello di altre case automobilistiche,

si applica a capi di abbigliamento, accessori, cura del corpo

e altro ancora. Anche le istituzioni culturali sono

contraddistinte da marchi che si dimostrano, alla lunga, più

o meno efficaci, secondo criteri diversi, ma non antitetici

rispetto alle logiche delle imprese. Nel mondo dei musei la

forza di determinati marchi è sempre esistita: Louvre,

MOMA, l’elenco potrebbe essere davvero lungo. Tale forza

però è sempre coincisa con una specifica sede museale, un

singolo luogo. Il marchio Guggenheim - legato alla fama del

museo realizzato a New YorK da Frank Lloyd Wright a

partire dal 1946- si va oggi estendendo in Europa, in Asia,

negli Stati Uniti, non con la semplice apertura di succursali,

ma con la diffusione di un modello che – semplificando - è

riassumibile secondo una formula: architettura-collezione-

organizzazione-marchio.

Il Guggenheim è il primo museo dell’era della

globalizzazione. Cosa c’entra tutto questo con il museo

aziendale?C’entra, perché riguarda il rapporto tra il marchio

del museo e il marchio dell’impresa che lo genera. Agli

estremi della scala delle possibili scelte stanno due

opzioni:l’adozione della marca aziendale per nominare il

116

museo oppure la formulazione di un marchio autonomo. Due

esempi rappresentativi sono il Museo dell’Olivo, realizzato

dai fratelli Carli ma il cui nome non compare nella

denominazione della struttura museale, e il Museo Ducati

che segue invece la tradizione della denominazione di

marca. Negri individua inoltre sei risorse fondamentali del

museo di impresa: la collezione, il personale, l’edificio, la

dotazione finanziaria, il rapporto sinergico con l’impresa, le

risorse immateriali(diritti, brevetti, immagine). La prima

risorsa è la collezione, perché senza di essa non esiste un

museo; può esserci un centro visitatori, uno spazio

espositivo, un centro di cultura, ma non un museo. Per

comprendere la varietà degli elementi costitutivi della

collezione di un museo aziendale viene richiamato il

concetto di patrimonio industriale. Quest’ultimo è maturato

a seguito della necessità di ampliare la nozione di

archeologia industriale – di matrice tipicamente britannica- a

favore di un’idea più dinamica di “patrimonio” in continuo

divenire. Per rispondere a questa nuova esigenza di

definizione, è possibile raggruppare per grandi categorie gli

elementi costitutivi di una collezione aziendale:

monumenti industriali come edifici o infrastrutture, oggetti

mobili propri della vita aziendale (macchinari, utensili,

117

arredi, campioni di materia prime), documenti di archivio

cartacei di varia natura, documenti cinematografici e

comunque visivi. L’interesse da parte delle imprese italiane

per la conservazione degli elementi in grado di testimoniare

la propria storia imprenditoriale nasce intorno agli anni

sessanta quando si assiste al “miracolo economico”. Negli

anni successivi gli imprenditori hanno cominciato ad

acquisire un orgoglio di impresa. Tale orgoglio non è limitato

al compiacimento per i successi economici ottenuti, ma si è

aperto verso orizzonti più ampi, dando avvio a un lento

processo di identificazione in grado di prendere in

considerazione più elementi. L’impresa ha cominciato a

leggersi, oltre che come soggetto economico e sociale,

anche come soggetto culturale capace di esprimere valori.

In quest’ottica non solo il prodotto finale ma tutti gli

elementi del processo produttivo cominciano a essere

considerati, in primis dallo stesso imprenditore, come il

risultato di un processo innovativo ricco di rimandi

funzionali, storici ed estetici. Nel nord Italia questo

atteggiamento è il frutto di una mentalità comune a molti

industriali e associazioni di categoria. Al sud, invece, i casi di

musei di impresa, come il Museo della liquirizia Amarelli o il

Lanificio Leo, ambedue in Calabria, o i Musei delle saline in

118

Sicilia, sono l’espressione di una scelta individuale dove

l’atteggiamento culturale personale dell’imprenditore prevale

su decisioni strategiche azienda.

III. 2 Musei d’impresa

Il 18 giugno 1998 il Palazzo Ducale di Genova ha ospitato il

primo convegno regionale, I musei d’impresa. La Regione

Liguria tra comunicazione e politica culturale104, organizzato

dalla Regione Liguria e ideato e coordinato da Linda Kaiser

in collaborazione con la Fondazione Novaro 105. I musei

d’impresa sono un’importante realtà anche del territorio

ligure, in quanto sono testimonianza di attività non solo

104 Linda Kaiser (a cura di), I musei d’impresa. La Regione Liguria tra comunicazione e politica culturale, Atti del convegno Genova, Palazzo Ducale, 18 giugno 1998, Regione Liguria, Genova, 2000 105 Mario Novaro (1868-1944) compie studi universitari a Vienna e a Berlino laureandosi i filosofia nel 1893. Due anni dopo consegue la laurea anche all’Università di Torino e pubblica i suoi primi scritti. Stabilitosi nella attuale Imperia diventa assessore comunale per il giovane partito socialista e, dopo un breve periodo di insegnamento nel locale liceo, si inserisce con i fratelli nell’industria olearia di famiglia intestata alla madre Paolina Sasso. Questa attività non gli impedisce tuttavia di continuare a coltivare interessi letterari e culturali attraverso la direzione della rivista “La riviera ligure”. La Fondazione, riconosciuta dal ministro per i Beni e le attività culturali e dalla Regione Liguria, è nata per volontà degli eredi e di un gruppo di docenti dell’Università genovese allo scopo di valorizzare il lascito intellettuale di Mario Novaro e di proseguire le iniziative a favore della cultura ligure del Novecento. La Fondazione attua il proprio compito istituzionale attraverso la realizzazione di incontri, mostre, convegni e l’edizione di testi. Nello svolgimento di tali attività c’è occasione di collaborare con enti locali, atenei e varie istituzioni nazionali ed internazionali. Di questo lavoro culturale la Fondazione dà rendiconto attraverso i “notiziari” regolarmente pubblicati in appendice ai quaderni trimestrali.

119

economiche ma anche sociali e culturali106. Nei musei

d’impresa sono conservate le tracce dell’evoluzione di una

società, sia dal punto di vista tecnologico che della storia del

lavoro, degli usi e dei costumi di una regione o di un paese.

La Liguria infatti è parte di quel “triangolo industriale” che

ha caratterizzato lo sviluppo economico del nostro paese, e

non è stata soltanto la terra dei grandi porti industriali o

quella del turismo delle riviere, ma anche il luogo della

manifattura di grandi prodotti industriali, senza pari, sia sul

territorio nazionale, che all’estero (la produzione della carta,

le costruzioni aeronautiche, la cantieristica navale). Tutto ciò

che ha consentito alla gente della Liguria di lavorare sulla

propria terra è frutto di un grande ingegno diffuso, rivolto a

convertire le ostilità orografiche in vantaggi per la

trasformazione. Il convegno genovese è stato un mezzo per

far conoscere alcune realtà culturali della regione e per

accendere il dibattito tra studiosi e conservatori, ma è stato

soprattutto un incentivo per qualsiasi impresa a conservare

il proprio patrimonio storico e ad assumere quindi un ruolo

attivo in campo culturale. La Regione Liguria ormai da

tempo ha indirizzato la propria attenzione ai musei,

concependoli come mezzi di trasmissione e di conoscenza,

106 Tra i maggiori musei d’impresa in Liguria va ricordato il Museo del Merletto, Ecomuseo dell’Ardesia, Museo dell’Olivo –F.lli Carli, Museo del Vetro, Museo Nazionale dei Trasporti.

120

come sistemi di sviluppo legati al territorio di cui

geograficamente e culturalmente fanno parte. Per assolvere

questo compito il museo non deve essere mero contenitore,

ma deve sviluppare compiti di divulgazione e di didattica,

favorire il dialogo e lo scambio tra realtà produttive,

mettersi in relazione con altre collezioni, costituire uno

spazio di ricerca per studiosi e specialisti. Linda Kaiser,

Dottore di ricerca in Storia e Critica dei Beni artistici e

ambientali e ideatrice e coordinatrice del convegno, nel suo

intervento scrive107 che l’idea di patrimonio culturale e di

memoria collettiva insita nei musei d’impresa si è evoluta a

partire dalle Esposizioni Universali di metà Ottocento e dalle

strutture in ferro e vetro costruite per ospitare i prodotti

industriali di nazioni diverse. Il South Kensington e il

Conservatoire des arts et métiers hanno in comune il

modello enciclopedico e le finalità didattiche, celebrative,

scientifiche e progressiste degli exempla conservati, sotto

forma di macchinari, disegni tecnici, attrezzi, volumi di uso e

manutenzione. Questo clima culturale, continua la Kaiser,

rese propizio uno sviluppo puntiforme di singoli musei

specializzati. Questi ultimi si diffusero nelle aree

maggiormente industrializzate d’Europa, soprattutto nel

107 L.Kaiser, Archivi e musei d’impresa: comunicazione e politica culturale in Liguria, sta in. L. Kaiser (a cura di), I musei d’impresa… op cit, pagg. 13-18.

121

secondo dopoguerra, quando la ricostruzione per i diversi

paesi significava non solo ripresa economica ma anche

consapevolezza storica delle proprie tipicità.

Assolombarda108 si è fatta portatrice di questi ultimi valori

organizzando ricerche scientifiche, convegni, curando

pubblicazioni e costruendo il sito

www.museidimpresa.com.Quest’ultimo costituisce la banca

dati nazionale degli archivi e dei musei d’impresa con i quali

Assolombarda sollecita e tiene vivo il dibattito su un tema

che a sua volta ne tocca molti altri di interesse più ampio: il

rapporto pubblico-privato, la metodologia espositiva,

l’ordinamento giuridico, la funzione di curatori specifici. La

Kaiser definisce le realtà in oggetto “archivi e musei

d’impresa”109, piuttosto che d’azienda. Impresa deriva dal

verbo latino imprehendere e «richiama più direttamente al

concetto di opera o di azione che si incomincia, attività,

iniziativa, che mette in relazione e coordina, da una parte, il

lavoro e, dall’altra, gli strumenti opportuni per conseguire

finalità economiche»110. Azienda trova invece «la propria

origine nello spagnolo hacienda, si riferisce più

108 Assolombarda è l’associazione delle imprese industriali e del terziario dell’area milanese. E’ una delle più antiche organizzazioni imprenditoriali d’Italia e, per dimensioni, la più rappresentativa nel sistema Confindustria. La sua base è costituita da imprese nazionali e internazionali piccole, medie e grandi, produttrici di beni e servizi in tutti i settori merceologici. Scopo di Assolombarda è lo sviluppo dell’industria e dell’imprenditoria sul territorio. 109 L.Kaiser, op cit, pag.14 110 ivi. pag. 14

122

genericamente a un “fare” – l’etimologia è la stessa di

faccenda - come complesso di beni organizzati per la

produzione di altri beni o servizi»111. Un’impresa è una

società, una ditta connessa in qualche modo con un

progetto, un’iniziativa, un’attività: è qualcosa –scrive la

Kaiser - « che sia in rapporto con il reale, che vi si inserisca

modificandolo, che faccia sentire una presenza positiva,

abbia una finalità per esistere, crei lavoro, produca »112. Un

museo – continua la Kaiser – « è qualcosa che deve esistere

come parte della cultura. Deve produrre reddito? No, nessun

museo tradizionale – e quindi neppure il museo d’impresa,

che si regge su meccanismi simili - può autofinanziarsi »113,

anzi l’organizzazione di un museo prevede spese elevate per

la gestione, per le nuove acquisizioni e per la didattica.

Infine pone la domanda: cos’è un museo d’impresa? Un

museo d’impresa è un sistema espositivo permanente

attraverso il quale un’azienda rende leggibile al pubblico la

propria filosofia e comunica la qualità del prodotto. Se

comunicare significa che si lavora bene, allestire un buon

museo d’impresa significa non una spesa, ma un

investimento, che conviene all’azienda per l’immagine e per

111 ibidem 112 ivi. pag. 15 113 ibidem

123

le opportunità che offre. A questo primo convegno regionale

ne seguì un secondo a Milano in Assolombarda nel1998 e poi

ancora nel 1999 Assolombarda organizzò con Linda Kaiser,

in qualità di consulente scientifica, e con l’Università di Siena

il primo convegno nazionale dal titolo Musei d’impresa.

Identità e prospettive. Per questo convegno la Kaiser scrive

un intervento, dal titolo Il museo d’impresa come network

per la comunicazione di qualità114,in cui ricorda che già i

teorici della rivoluzione industriale, Morris e Ruskin,

interpretavano il museo come scuola per le accademie e

l’artigianato, come fonte di ispirazione e di emulazione per

la produzione contemporanea legata al sapere e al fare. I

musei d’impresa documentano, rispecchiano e rendono

leggibile un sistema complesso come quello delle tecniche,

dei processi, della produzione, del lavoro collettivo e

dell’economia imprenditoriale. La funzione di questi musei

costituisce al tempo stesso la difficoltà che devono superare,

e che può essere interpretata come la «contraddizione

logica” rappresentata nell’arte contemporanea dal

114 L.Kaiser, Il museo d’impresa come network per la comunicazione di qualità, sta in. L.Kaiser(a cura di) Musei d’impresa identità e prospettive, Atti del convegno Siena, Certosa di Pontignano, 12-13 giugno 1999, I Quaderni della Cultura di Assolombarda IV/99, pagg. 17-20

124

duchampiano ready-made in cui l’oggetto di uso comune

mantiene la propria identità diventando opera d’arte»115.

Omar Calabrese -docente di Comunicazione di massa e

Scienze della comunicazione all’Università di Siena, e

Rettore dell’Istituzione Santa Maria della Scala di Siena- con

il suo intervento che ha per titolo Musei d’impresa: storia o

feticcio?116contesta che questi musei rappresentino un

specie di “storia del contemporaneo” e anche la storia delle

tecniche e delle tecnologie. Anche Calabrese, con ragione,

scrive che i musei d’impresa sono figli di quella politica di

conservazione e di memoria dell’oggetto industriale nata

all’epoca delle Esposizioni Universali. Queste ultime infatti,

nate con l’ideologia del progresso, erano i luoghi deputati ad

“esporre” la modernità, con tutti i tipi delle produzioni più

avanzate, di tecniche scientifiche e di innovazione. Erano

funzionali allo spirito di conservazione e classificazione di

una memoria, di un sapere moderno. Tutto ciò avveniva per

iniziative del potere pubblico che metteva a confronto le

produzioni dei singoli privati. Oggi invece è lasciato tutto ai

privati medesimi e con uno spirito diverso. In un oggetto

individuale transitano molte storie che è necessario che

115 ivi.pagg. 17-18 116 O.Calabrese, Musei d’impresa: storia o feticcio?sta in. L.Kaiser(a cura di), Musei d’impresa...op cit, pagg. 21-26

125

restino nella nostra memoria collettiva. Pertanto possono

esserci musei che attestano una storia dei consumi, una

storia sociale, una storia della tecnica, una storia del gusto,

una storia del design.

Infine esiste anche il museo di impresa come storia della

comunicazione dell’impresa medesima. Il museo, dunque, è

soprattutto auto-valorizzazione e talvolta le conseguenze

non sono positive perché si tenta di dare all’impresa uno

spessore storico che non c’è. Calabrese vede in questo

fenomeno il tipico senso di colpa dell’industria italiana. Nella

nostra cultura c’è stata prima una penalizzazione dei

prodotti industriali, negando qualsiasi valore che non fosse

economico, e poi per compensazione è stato riversato su

questi ultimi un eccesso di estetizzazione, al punto che

spesso gli oggetti presentati dalla civiltà industriale ritornano

quasi ad una dimensione di artigianato, piuttosto che di

industria. Si cerca quasi di nascondere che ci sia stata

industria, questo è il punto. Secondo la definizione – di

origine romantica - il museo vede come suo elemento

essenziale la collezione di oggetti unici e irripetibili: nella

concezione dei musei d’impresa c’è pertanto una

contraddizione di fondo. La civiltà industriale produce in

serie e pertanto l’irripetibilità è negata dal valore stesso

126

degli oggetti-merce. Tuttavia, continua Calabresi, “oggetto

unico e originale” può essere anche tradotto nel senso di

unico/individuale: unico non è sinonimo di irripetibile. Si

passa così dalla concezione del singolare a quella

dell’individuale: «ogni oggetto è infatti la replica di un

prototipo che corrisponde a un’idea individuale di esistenza

nel mondo»117. Nei musei d’impresa come nei musei della

storia industriale sono esposti patrimoni relativi alle

conoscenze artigiane, al design, ai mezzi di produzione; la

differenza sta nel fatto che il patrimonio del museo

d’impresa è relativo a una specifica impresa e alla sua storia

produttive, mentre il museo di storia dell’industria riporta

testimonianze di un insieme di prodotti e di tecnologie di

diversa provenienza. Calabrese, per concludere, crede che i

musei di impresa siano non solo un fatto legittimo, ma

altamente positivo perché altrimenti avremmo disperso un

patrimonio. Vedere all’interno di un prodotto industriale il

trascorrere di testimonianze storiche e antropologiche è

un’opera corretta, ma non bisogna correre rischi. I singoli

prodotti - passi che al museo Coca Cola ci siano le opere di

Andy Warhol e al Museo Piaggio la Vespa di Dalì - non

devono diventare di carattere prettamente artistico. In tal

117 ivi, pag. 22

127

caso non produrremo l’ammirazione per l’oggetto singolo,

ma soltanto feticci. Tommaso Fanfani, preside della Facoltà

di Economia all’Università di Pisa, nel suo intervento dal

titolo Economia e Cultura. Un incontro possibile negli archivi

e nei musei d’impresa118, riprende e condivide quanto

asserito da Calabrese. Il museo d’impresa è un elemento

significativo e importante per ricostruire lo sviluppo

economico e produttivo di un’azienda e con essa di una

comunità che è parte di un’intera civiltà. Dietro l’esposizione

di un tornio c’è una società che si organizza e che cresce.

Dietro un pannello di una nave costruita nell’Ottocento c’è il

problema dell’immigrazione, con esso la tristezza della

miseria e la necessità della fuga alla ricerca della certezza di

reddito. L’obiettivo-funzione è far diventare il museo

d’impresa un elemento di ricostruzione della società civile in

tutti i suoi aspetti, evitando di creare una raccolta e di

allestire un’esposizione di pezzi che si proponga al pubblico

secondo una valenza “artistica”, mettendo in secondo piano

la portata reale e originaria di un bene nato in una bottega o

in una fabbrica, e funzionale al raggiungimento di obiettivi

produttivi. Ciò non significa che un tornio non possa essere

esposto in un contesto museograficamente ricercato dal

118 T. Fanfani, Un incontro possibile negli Archivi e nei Musei d’impresa, sta in. L.Kaiser (a cura di ), Musei d’impresa....op cit, pagg. 27-36

128

punto di vista estetico e architettonico, ma il modo di

esposizione non deve pregiudicare il senso ultimo del museo

d’impresa, dove quel tornio è esposto. Allo stesso modo le

raccolte di disegni o di oggetti derivati dall’inventiva dei

creatori di moda e degli stilisti, quando sono raccolte in un

museo d’impresa devono narrare la loro essenza nel divenire

produttivo; non devono essere oggetti di una galleria

artistica, ma testimonianza dell’ingegno creativo in un

percorso produttivo presentato in tutta la sua complessità

inventiva e tecnica. Non bisogna falsificare il messaggio

primario che il museo d’impresa deve avere.« Un’opera

d’arte racconta quello che è il significato di un mondo visibile

e non visibile che essa rappresenta, e può lasciarne in parte

l’interpretazione allo spettatore, il pezzo esposto nel museo

d’impresa racconta e ricostruisce vicende visibili e reali di

una collettività, fatte anche di creatività artistica, di

genialità, ma comunque esposte quali testimonianze della

produzione economica»119. Allora il museo d’impresa può

divenire un elemento di compattamento e di armonizzazione

tra due mondi che sono sempre stati, specialmente nel

nostro paese, distinti e dicotomici:la cultura e l’economia.

Assolombarda nel 2001 ha organizzato il convegno avente

119 ivi, pag. 29

129

come titolo Proprietà privata, pubblico dominio120. L’impresa

svolge una specifica funzione intellettuale: elabora un

progetto imprenditoriale, organizza i fattori produttivi,

mobilita e forma le risorse umane chiamate a cooperare alla

sua attenzione. Di questa avventura collettiva sono

testimonianza i documenti tecnici, commerciali e

amministrativi, le macchine, gli edifici, il prodotto e tutto ciò

che è in grado di illustrarne l’evoluzione. L’impresa è sede di

formazione continua di un insieme di segni materiali e di

valori che sono a pieno titolo beni culturali sia per la loro

capacità di esprimere valenze etiche ed estetiche, sia per la

loro utilità ai fini dello sviluppo sociale della conoscenza e

della formazione. E’ in virtù di questa funzione culturale che

la possibilità di una loro fruizione diventa di interesse

pubblico:questa grande ricchezza merita di essere

conosciuta. Bisogna valorizzare soprattutto due elementi del

patrimonio culturale di impresa: quello progettuale, estetico,

architettonico e quello storico-documentale per testimoniare

il percorso di vita dell’azienda. Quest’ultimo ha una

dimensione etica importante. Se un’impresa ha vita lunga,

significa che ha saputo stabilire legami duraturi tanto con i

120 A. Magistroni (a cura di), Proprietà privata, pubblico dominio: il museo, l’archivio, il territorio e la responsabilità culturale dell’impresa,Atti del convegno Milano, auditorium Assolombarda, 15 ottobre 2001, I Quaderni della Cultura di Assolombarda VI/2001.

130

suoi interlocutori diretti quanto con il contesto nel quale si

trova a operare. La longevità dell’impresa e la sua durata sul

mercato si fondano sulla volontà di ricercare vantaggi sia

per sé che per la collettività,di perseguire una crescita

diffusa ed equilibrata, non solo sul piano economico. Le

imprese hanno questo e molto altro da offrire alla collettività

sul piano culturale. Tuttavia non sempre se ne rendono

pienamente conto. Per questo, è necessario aiutarle ad

acquisire questa consapevolezza e incentivare l’apporto della

cultura imprenditoriale ed economica per la formazione di

una coscienza culturale nazionale. Assolombarda e

Confindustria, come soci promotori, hanno costituito il 15

ottobre 2001 l’Associazione Museimpresa, frutto del lavoro

di un qualificato gruppo di musei e archivi di impresa. Lo

scopo dell’Associazione, come si legge nell’articolo 2 del suo

statuto, è quello di individuare e promuovere le imprese

che hanno scelto di privilegiare la cultura nelle proprie

strategie di comunicazione e hanno concepito l’investimento

culturale come valore qualificante per l’azienda. Poiché in

Italia i musei e gli archivi di impresa costituiscono un

tessuto assai ricco, variegato e capillare, ma in larga parte

spontaneo, l’obiettivo di Museimpresa è di costituire una

vera e propria rete di musei e archivi di impresa eccellenti.

131

Poiché ogni rete si sviluppa in virtù dell’esistenza di un

sistema informatico che relaziona i diversi nodi, la soluzione

più opportuna è stata la creazione del sito web

www.museimpresa.com che ha sostituito il precedente

www.museidimpresa.com. Questa soluzione consente ai

singoli soggetti di mantenere la propria specificità, ma di

attivare le opportune sinergie per assicurare all’intero

settore visibilità e condivisione di valori e obiettivi121. Il sito

si pone più precisamente l’obiettivo di: costituire uno

strumento attivo dell’Associazione come organo di

comunicazione interno ed esterno, diffonderne la teoria e la

prassi, inserirsi in un sistema di rapporti e di interscambio

con analoghe strutture espositive e conservative nazionali e

internazionali, fornire agli utenti un accesso privilegiato e un

servizio reale sulla tematica dei musei e degli archivi

d’impresa. Il sito è rivolto: alle imprese e ai curatori delle

raccolte d’impresa, agli appassionati, agli studenti e alle

scuole, alla stampa e alle istituzioni. Fare rete significa,

dunque, anche costruire una capacità di connessione e di

collaborazione con analoghe iniziative per collocarsi in un

progetto condiviso di consolidamento dell’identità collettiva 121 L’associazione è aperta a imprese, associazioni e federazioni del sistema confindustriale, ad enti e istituzioni che ne condividono le finalità. I soci fondatori sono i seguenti: Museo Alessi, Archivio Storico Barilla, Museo dell’olivo Olivo Carli, Museo Kartell, Archivio Storico Olivetti, Archivio Birra Peroni, Museo Piaggio, Zucchi Collection, Museo Ducati, Archivio Storico Industrie Pirelli, Museo Rossimoda, Museo Alfa Romeo, Museo del vino.

132

di una comunità, collaborando anche con le istituzioni, con le

scuole e con il sistema universitario. Per fare un museo

d’impresa, quindi, non basta dedicare qualche sala dei propri

edifici industriali, magari altrimenti dismessi, o l’esibizione di

alcuni oggetti della propria storia. E’ importante perché

dimostra comunque una sensibilità,ma è soltanto il primo

passo rispetto al quale bisogna poi andare avanti. Serve

dotare i musei di un progetto scientifico serio da declinare in

molte attività collaterali come letture, conferenze,

collegamenti con altri musei per mostre e iniziative varie, e

non limitarsi alla semplice esposizione. Anche l’ausilio di

tecnologie d’avanguardia può essere utile: gli oggetti in sé

dicono poco se non sono supportati da una adeguata

capacità espositiva, divulgativa e rievocativa. Un progetto

così ambizioso di trasmissione di valori è positivo, ha le

gambe su cui camminare e soprattutto affranca l’impresa

dalla condizione di sponsor e la innalza a centro propulsore

di cultura. Su quest’ultimo tema, e cioè sulle

sponsorizzazioni delle imprese a sostegno di manifestazioni

culturali, accennato da Salvatore Carruba 122, assessore alla

Cultura e ai Musei del Comune di Milano, interviene con una

122cfr. S. Carruba, intervento alla tavola rotonda, sta in. A.Magistroni (a cura di), Proprietà privata…op cit, pag. 62

133

breve riflessione Giuseppe Paletta 123, direttore del Centro

per la cultura d’impresa. Il mecenatismo, secondo Paletta,

benché sia valido e importante, è spesso per l’impresario un

facile aggiramento di un problema che si ostina a non

risolvere: il problema del suo rapporto con la cultura e della

sua autorappresentazione frammentata per cui non riesce a

percepirsi in modo unitario e complessivo, « ma soltanto

come homo economicus, come uomo portatore di risorse

staccate e indipendenti»124. Il problema, secondo Paletta, è

ricomporre la propria identità all’interno della mente

dell’imprenditore. L’impresa è un soggetto economico, ma è

soprattutto un grande collettivo, una mescolanza di ingegni,

è capacità di costruzione di consenso, capacità di conquista

di fattori di natura più disparata intorno a un sogno, attorno

a un principio che è quello dell’intuizione dell’imprenditore.

Così è possibile vedere il patrimonio dell’impresa come

espressione e «sedimentazione di un processo faticoso

dell’imprenditore che è quello della condivisione del proprio

progetto intellettuale e quindi della capacità di unire altra

gente – collaboratori, operai, consulenti - intorno alla sua

123 G. Paletta, intervento alla tavola rotonda, sta in. A.Magistroni (a cura di ), Proprietà privata…op cit, pagg. 92-95 124 ivi. pag. 93

134

visione»125. L’imprenditore scrive, genera archivi, genera

prodotti, disegni tecnici per comunicare con altri soggetti e

per portarli nella costruzione di un proprio sogno.

Quest’ultimo è il completamento di un processo di

modernizzazione che a suo avviso gli consentirà di ricevere

un profitto, ma consentirà in parallelo alla qualità

complessiva di vita sul territorio, e non solo, di beneficiare di

un sostanziale miglioramento. Quando l’imprenditore riesce

a capire che il patrimonio di informazioni che ha costruito

può essere manifestato perché è qualcosa che ha consentito

alle persone e alla comunità di migliorare, assume su di sé

una responsabilità culturale che è un frammento della

responsabilità sociale dell’impresa.

III.3 Il Museo Alessi e la Fondazione Piaggio

Francesca Appiani, curatrice del Museo Alessi, articola il suo

intervento126 per il convegno Musei d’impresa. Identità e

prospettive come una risposta alla domanda a cosa serve un

125 ivi. pag. 94 126 F. Appiani, Museo Alessi, sta in. L.Kaiser ( a cura di ), Musei d’impresa.…op cit, pagg. 115-120

135

museo d’impresa? La risposta di getto è “dipende”. Dipende

dall’impresa, dalle sue intenzioni, dai motivi per cui decide di

aggiungere alla sua struttura un museo o un archivio. Ogni

museo ha una propria identità: possiamo trovare tratti

comuni nei musei di storia naturale piuttosto che nelle

pinacoteche, ma, esattamente come le persone, i musei

sono realtà individuali, con prerogative uniche e irripetibili.

Tale individualità si amplifica quando il museo è in rapporto

con l’impresa, ossia con un altro organismo dotato di

caratteristiche e bisogni peculiari. Per l’ICOM (International

Council of Museums)il museo, secondo uno statuto adottato

nel 1989 ed emendato nel 1995, è un’istituzione

permanente, senza scopo di lucro, al servizio della società e

del suo sviluppo, aperta al pubblico e che compie ricerche

riguardanti le testimonianze materiali dell’uomo e del suo

ambiente, le raccoglie, le conserva, le comunica e

soprattutto le espone con finalità educative e di diletto.

Queste sono le funzioni individuate, ma occorre intendersi

sulla loro definizione. Il punto è come interpretare la propria

“missione”. La Appiani prende come esempio la dimensione

“pubblica” dei musei o il fatto che queste strutture abbiano

delle ricadute sulla realtà locale. Il museo che ha sede in

un’azienda spesso non può aprire al pubblico come altre

136

istituzioni; ciò non toglie che esso possa offrire un servizio

pubblico. Chi entra nel Museo Alessi, ad esempio, è

accompagnato nel corso della visita, riceve spiegazioni sulla

collezione, su come è stata conservata e organizzata. La

mediazione personale, afferma a ragione la Appiani, è la

migliore interfaccia con la quale un visitatore può avvicinare

una collezione. Un’altra iniziativa che può dirsi pubblica è la

schedatura degli oggetti in un archivio informatico

accessibile attraverso internet. Questo database è stato

realizzato grazie al lavoro di due archiviste particolarmente

aggiornate,di un architetto specializzato nella progettazione

di nuovi strumenti di comunicazione dei beni culturali, e

ovviamente di due analisti che hanno tradotto le indicazioni

e bisogni del museo in un software progettato ad hoc. La

costruzione di questa banca dati ha richiesto anche la

creazione di una serie di strumenti ausiliari necessari al suo

svolgimento. Fra questi, un “lemmario controllato”, ossia un

sistema di termini univoci con i quali poter definire gli

oggetti da archiviare. Anche la promozione di mostre,di

seminari dedicati alla collezione ed eventuali collaborazioni

con qualsiasi istituzione per sviluppare progetti culturali

possono essere letti come servizi al pubblico. Il punto

cruciale è che, in molti casi, il grado di apertura al pubblico

137

dei musei d’impresa è solo quantitativamente diverso da

quello dei musei tradizionali. Il Museo Alessi, per esempio, è

un archivio operativo utilizzato quotidianamente da chi

lavora nell’azienda e per questo motivo è visitabile solo su

appuntamento. A questo punto è possibile riformulare la

domanda iniziale con più precisione: a cosa serve il Museo

Alessi? La Appiani risponde: è un archivio operativo127 per

tutte le persone coinvolte nello sviluppo dei nuovi prodotti. Il

museo occupa il secondo piano di uno degli edifici dello

stabilimento di Crusinallo. Un unico ambiente di circa 500

metri quadri raccoglie oggetti Alessi usciti di produzione,

prototipi e pezzi realizzati da altre aziende o da artigiani.

Tali materiali sono ordinati in base all’ambito di utilizzo, alla

funzione e alla tipologia. Un primo gruppo di vetrine

contiene prodotti utilizzati per preparare, conservare e

offrire alimenti e bevande; un secondo insieme riunisce

oggetti legati alle altre dimensioni dell’esistenza indagate

dall’Alessi: la cura del corpo, il viaggio, il sesso, il gioco.

Un’ultima sequenza di vetrine ospita l’archivio colore e

l’archivio materiali. Le vetrine consistono in 40 contenitori

aperti che scorrono su binari (sono gli stessi utilizzati dal

127 Va ribadito che essere un archivio costruito sulla base delle necessità operative dell’azienda è la prima funzione, ma con questo non si intende rinunciare alle attività proprie di un muso di arti applicate. La collezione Alessi rappresenta uno spaccato della storia del design ed è a disposizione di ricercatori, studenti universitari e operatori del settore.

138

MAK, Museum fϋr Angewandt Kunst di Vienna). Su una

scaffalatura che corre lungo uno dei muri perimetrali sono

disposti libri, riviste e cataloghi. In una serie di cassettiere

speciali sono conservati i disegni e gli schizzi. Ogni volta in

cui un nuovo progetto è completato, il museo archivia una

selezione dei materiali di sviluppo(prototipi, disegni, oggetti

di riferimento). Archivia inoltre i materiali dei progetti

“congelati”: su dieci progetti intrapresi, soltanto quattro o

cinque arrivano alla produzione, gli altri rimangono in

sospeso. Li definiscono “congelati” perché sanno che in

futuro potrebbero esserci le condizioni per riprenderli e

svilupparli fino alla produzione. Da questo punto di vista il

museo è, scherzosamente, il “congelatore” dell’Alessi. La

Appiani infine coglie il senso profondo del progetto di un

allestimento quando scrive che quest’ultimo è una riflessione

teorica utile per la conoscenza della storia dell’azienda:

allestire significa scegliere un criterio di classificazione,

“organizzare un mondo” 128, rappresentarlo. Infine per

“l’impresa di fare cultura” 129ci sono discipline sviluppate ed

efficaci dalle quali attingere in modo inedito e originale

(museologia, museografia, archivistica, biblioteconomia, …). 128 F. Appiani, Il museo d’impresa: l’impresa di fare cultura, sta in. L.Kaiser (a cura di), Musei d’impresa:professionalità emergenti per un nuovo marketing culturale, Atti del convegno Venezia, Marittima terminal passeggeri, 2 dicembre 2001, I Quaderni della Cultura di Assolombarda VII/2001, pag. 45 129 ivi. pag. 47

139

I musei delle imprese possono essere una nuova forma di

valorizzazione culturale, una forma che può e deve imparare

dalle discipline appena ricordate, ma che al tempo stesso

può offrire un contributo autonomo e originale dato dalla sua

natura peculiare. Un altro significativo intervento per i

convegni organizzati da Assolombarda è quello di Tommaso

Fanfani 130. Come presidente della Fondazione Piaggio di

Pontedera (Pisa), collegandosi al tema di impresa e cultura,

tratteggia la figura di un imprenditore illuminato, Giovanni

Alberto Agnelli131. Quando Agnelli volle costituire l’archivio e

il museo dell’azienda li concepì come il centro proprio di un

territorio, in modo che si interfacciassero con tutta la società

del luogo e che rappresentassero allo stesso tempo il punto

di arrivo di un processo di sviluppo e un elemento che

provocasse in chi aveva lavorato alla Piaggio un forte senso

di appartenenza. Secondo Fanfani l’Italia, giunge in ritardo

alla business history, eppure è il paese europeo che vanta le

più antiche tradizioni nelle attività imprenditoriali,

nell’organizzazione della vita produttiva, nell’introduzione di

ardite forme di operazioni mercantili. E’ il paese dei primi

130 T. Fanfani, Le imprese, sta in. L.Kaiser (a cura di ), Musei e archivi d’impresa: il territorio, le imprese, gli oggetti, i documenti, Atti del convegno, Venezia, Giardini di Castello, 3 dicembre 2000, I Quaderni della Cultura di Assolombarda VII/2001, pagg. 19-25 131 Giovanni Alberto Agnelli (Milano 19 aprile 1964-Villar Perosa Torino 13 dicembre 1997), detto Giovannino, figlio di Umberto Agnelli e Antonella Bechi Piaggio, è stato presidente della Piaggio, dal 1993 fino alla sua morte per una rara forma di cancro allo stomaco, risollevando le sorti dell’azienda. Si avviava a diventare il successore di Gianni Agnelli alla guida della Fiat.

140

manuali di contabilità e ragioneria, il paese dei mercanti-

imprenditori di Venezia, di Prato, di Firenze, di Napoli, di

Milano e di ogni altra città di età medioevale e moderna. Per

assurdo, il paese che ha dato vita alle forme più avanzate di

imprenditorialità nei secolo passati è anche il paese che

giunge tra gli ultimi a comprendere l’importanza della storia

di impresa. Soltanto dalla fine degli anni ’80 del secolo

scorso si sono sviluppati studi e hanno preso forma iniziative

di valorizzazione del patrimonio storico delle imprese. In

questa nuova stagione degli studi di storia d’impresa un

ruolo sempre più significativo viene svolto dagli archivi

storici e dai musei dell’azienda. Come contagiati da una

piccola febbre che coinvolge a frequenza crescente, gli

imprenditori hanno cominciato a recuperare la memoria

storica della propria azienda: ne raccontano le origini,

l’evoluzione e l’affermazione attraverso la documentazione

cartacea, i beni, le macchine e gli oggetti. Anche Fanfani

pone qualche domanda:perché un’impresa investe nella

raccolta dei documenti e delle testimonianze della sua

storia? Perché impiegare preziose risorse per realizzare

l’archivio storico e il museo che non possono né

autofinanziarsi, né essere direttamente sorgente di profitto?

Perché un’impresa attenta all’ottimizzazione degli impieghi

141

dovrebbe investire in realizzazioni che sono

prevalentemente, se non esclusivamente, voci di costo?

Alcune di questa domande contengono elementi solo

apparentemente contraddittori: uno vale per tutti, e cioè il

fatto che l’investimento in cultura, in valori immateriali, non

è affatto inutile spreco di risorse sotto il profilo della

redditività degli investimenti. I fondi impiegati all’interno di

progetti tecnico-culturali seri, nel medio e breve periodo

avranno comunque un ritorno positivo per l’azienda. Fanfani,

come presidente della Fondazione Piaggio, per esemplificare

il suo pensiero espone come preciso caso aziendale la

realizzazione dell’archivio e del Museo Piaggio. Nel luglio

1993 furono analizzati i documenti raccolti dall’ingegnere

Lanzara negli anni trascorsi alla direzione dello stabilimento

di Pontedera. Giovanni Alberto Agnelli132, allora Presidente

della Piaggio, chiese allo stesso Tommaso Fanfani, allora

preside della Facoltà di Economia e ordinario di Storia

Economica all’Università degli studi di Pisa, di far svolgere

qualche tesi di laurea sulla storia dell’azienda da lui

presieduta. Dalla richiesta di tesi si passò ad immaginare

l’archivio storico dell’azienda, vale a dire di un’impresa che, 132 Giovanni Alberto Agnelli non era un ingegnere, né un aziendalista o un economista. Aveva conseguito alla Brown University un bachelor in Social Science e successivamente un master in Business Administration. Credeva moltissimo nel binomio impresa-cultura, e considerava la cultura, nelle sue forme non squisitamente tecnicistiche, un elemento indispensabile per l’imprenditore e per il manager.

142

in oltre un secolo di vita, aveva prodotto tipologie di tutti i

mezzi di trasporto per mare, via terra e in cielo. L’impresa

era decisamente rappresentativa per la capacità produttiva,

per la genialità del fondatore e dei suoi eredi, per la

creatività dei suoi manager. Poche persone, competenti ed

appassionate, realizzarono un archivio storico che oggi è

uno dei più ricchi archivi di impresa del nostro paese. Dopo

questo obiettivo il presidente della Piaggio chiese la stesura

di una relazione sulla storia dell’azienda:doveva essere la

narrazione di un secolo di vita e parlare agli amministratori.

Riteneva che soci e amministratori dovessero avere la

consapevolezza della loro azienda, anche sotto il profilo

storico. Maturò così l’idea di raccogliere le testimonianze

della produzione, le macchine e i prodotti usciti dagli

stabilimenti liguri e toscani della Piaggio. Giovanni Alberto

Agnelli individuò un’area dello stabilimento per accogliere il

museo e, nel 1995, dette inizio alla complessa realizzazione.

Inaugurato il 29 marzo 2000, il Museo Piaggio raccoglie

molte decine di pezzi, compresi i prototipi e i modelli più

preziosi della Vespa. Il giovane Presidente pensò di dare

ulteriore sostanza al progetto cultura dell’impresa e nacque

la Fondazione Piaggio:una realizzazione mista pubblico-

privato, voluta per raccordare in campo non economico i

143

rapporti tra azienda e territorio. All’origine di questo

complesso progetto ci sono alcuni elementi specifici, come la

curiosità sulle origini dell’azienda e in questo caso sulle

proprie origini. Giovanni Alberto era figlio della nipote del

fondatore dell’azienda, cioè era figlio di Antonella Piaggio, a

sua volta figlia di Enrico. Il capostipite, Senatore Rinaldo

Piaggio, era il padre di Enrico, per cui la curiosità di Giovanni

Alberto poteva ovviamente anche derivare dal desiderio di

ricostruire la dinastia di parte materna. La motivazione

tuttavia non era solo questa: era infatti solito ripetere che

un’impresa che ha oltre un secolo di vita suscita rispetto e

ammirazione da parte degli operatori economici,

specialmente stranieri, i quali identificano nella lunga durata

la somma di elementi di validità e vitalità operativa e

produttiva. Alla scomparsa di Giovanni Alberto Agnelli il suo

successore alla presidenza della società e il top management

della Piaggio non solo hanno condiviso quel progetto, ma ne

hanno raccolto le fila, portando felicemente a compimento la

realizzazione133 del Museo Piaggio Giovanni Alberto Agnelli e

dell’archivio Antonella Visconti, mantenendo attiva la

Fondazione Piaggio. Questo conferma che, oltre la

componente soggettiva ed emotiva, ci sono altre motivazioni

133 Il museo ha aperto quattro anni dopo la morte di Giovanni Alberto Agnelli.

144

aziendali che spiegano il bisogno di ricostruire la memoria

storica. Lo scopo principale dell’operazione cultura non deve

assolutamente essere di natura commerciale. Dove

l’operazione di recupero dei valori immateriali della cultura

diventasse di sfruttamento di tale assunto, essa sarebbe

destinata a fallire e a non avere durata nel tempo.

III.4 La parola all’oggetto e l’industrial

design

La parola all’oggetto è il titolo del workshop134 che si è

tenuto in Assolombarda durante la seconda giornata della

settimana della Cultura d’Impresa indetta da Confindustria

nel novembre 2002. Il seminario si è ispirato a esperienze

anglo-americane di tipo pragmatico in cui ogni relatore, che

è il curatore di un museo, ha a disposizione dieci minuti per

la presentazione di uno e uno solo oggetto esposto nel

museo che rappresenta. A partire da questo, lo scopo è

rendere chiara quale sia la finalità dei musei d’impresa,

verso l’interno e verso l’esterno, nell’esporre e nel

134 L.Kaiser (a cura di ), La parola all’oggetto,storie di musei e archivi d’impresa, Atti del workshop, Milano, Assolombarda, 19 novembre 2002, II Quaderno di Museimpresa, settembre 2003

145

conservare oggetti, documenti ed eventuali altri elementi. La

parola è data all’oggetto fisico, all’oggetto della discussione,

all’oggetto-soggetto. Una valvola, una forcella monobraccio

rivelano i particolari di atti rivoluzionari nella meccanica,

realizzati da Ducati, Alfa Romeo, Piaggio. L’oggetto, libero

dalla raccolta, dalla collezione, dalla musealizzazione, viene

messo in condizione di esistere per un momento come

forma, estetica, idea, funzione, ingranaggio; è la parte per il

tutto.

Tra i partecipanti c’è stato Marco Montemaggi135, Project

Manager del Museo Ducati, che per la presentazione ha

scelto alcune componenti del motore Ducati, tra cui una

valvola e la parte in cui il movimento della valvola si

trasmette per essere poi riprodotta dal motore. La valvola è

tipica di tutti i motori, tanto delle automobili quanto delle

moto. L’altro pezzo è meno tipico, perché la Ducati ha un

sistema rivoluzionario unico:il Desmo. Questo sistema è

diverso rispetto a quello tipico a molle applicato di solito su

una moto. Il sistema Desmo, nella sua applicazione

motociclistica, è stato inventato da Fabio Taglioni all’inizio

degli anni ’50 e ha differenziato da subito la Ducati rispetto

alle altre aziende permettendo ai suoi motori di non andare

135 M. Montemaggi, Museo Ducati, sta in L.Kaiser ( a cura di ), La parola...op cit, pagg. 13-14

146

mai fuori giri. Infatti per quanto il movimento della valvola

possa essere veloce lo è altrettanto il pistone, in quanto non

c’è la molla ad azionare le valvole bensì un congegno

meccanico. Questa innovazione ha permesso alla Ducati,

uscita distrutta dalla seconda guerra mondiale, di diventare

un’azienda vincente, nelle corse come nelle vendite. Nel

corso degli anni ’50 la Ducati ha vinto tutte le gare

motociclistiche italiane, così come numerose competizioni in

Spagna, in Inghilterra, in Francia e addirittura in America.

Un’azienda che aveva da poco iniziato la produzione delle

motociclette diventava il simbolo di un’Italia che si stava

rilanciando. Negli anni 1995-1996 l’amministratore delegato

Federico Minoli, che aveva a disposizione tanto il denaro

quanto le abilità per ristrutturare l’azienda, aveva bisogno di

un elemento che rappresentasse la rinascita dell’azienda.

Minoli capì – e molti altri imprenditori lo avrebbero capito in

seguito - che per rappresentare una rinascita e dare senso

al futuro, serviva dare senso alla storia dell’impresa. Fino ad

allora la Ducati aveva avuto una storia di successi

estemporanei, in cui venivano ricordati i singoli episodi, ma

non il continuum storico. La prima funzione del Museo

Ducati è stata quella della seconda rinascita, dopo la prima

operata da Fabio Taglioni, e non a caso la realizzazione del

147

museo fu gestita e seguita da un giovane di allora ventisei

anni136, con pochissima esperienza professionale. E il museo

fu un passo oltre tutti i processi che avevano segnato

l’azienda fino ad allora. La seconda funzione importante del

Museo Ducati è la rappresentatività, vale a dire la

congiunzione tra il mondo esterno e il mondo dell’azienda. Il

museo, non a caso, si trova all’entrata dell’azienda, dentro

l’azienda. E’ costruito nello spazio in cui si teneva la Messa

aziendale di Natale, ed è posizionato come un luogo di

passaggio obbligato, è un grande benvenuto alla concreta

produzione della Ducati. La terza funzione è esemplificata

dal caso “Mike Hailwood Evolution”: Mike Hailwood è stato

un pilota Ducati per dieci anni. Il capo designer, Pierre

Terblanche, voleva creare una moto in suo onore e

frequentava il museo osservando i diversi pezzi esposti. Da

quell’intento e da quel lavoro è nata una moto nuova: era la

sintesi delle moto usate da Mike Hailwood applicata alla

tecnologia moderna. E’ stata appunto chiamata “Mike

Hailwood Evolution”. Questo modello è nato proprio grazie

all’ispirazione generata dal museo, una struttura che

generalmente viene considerata come qualcosa di

sedimentato e statico, e che invece può essere lo spunto per

136 Quel giovane era proprio Marco Montemaggi

148

creare un significativo volano di economia, cultura e storia

aziendale. La storia di quella moto, che è stata anche un

grande successo economico, deriva da un mito del passato

che si è riusciti a far rivivere. Infine, così conclude Marco

Montemaggi, c’è una quarta funzione del museo, che non è

assolutamente percepibile se non dopo esserci stati molto e

averne vissuto l’avventura: è la funzione legata alle

persone. All’ingresso del museo è stata costruita una parete,

la “parete della memoria”, sulla quale compare un’enorme

foto con tutti gli operai della Ducati, scattata quando

l’azienda contava 3.000 dipendenti, negli anni ’40. La foto

mostra migliaia di facce, molte di queste persone tornano

per rivedersi. Questo dà forza all’azienda.

Un’altra “parola” interessante e quella della “scatola di

pasta” o meglio di “tortiglioni”. Il relatore Giancarlo

Gonizzi137, Curatore dell’Archivio Storico Barilla (Parma),

scrive che in quella scatola molto speciale non c’è pasta

bensì 125 anni di storia. Nel 1877 Pietro Barilla, discendente

da una famiglia di panettieri la cui storia è documentata già

a partire dal 1576, aprì il suo negozio di pane e pasta nella

strada maestra a Parma. La bottega era costituita da un

ambiente per la vendita e da un retro per il forno e il locale

137 G.Gonizzi, Archivio storico Barilla, sta in L.Kaiser (a cura di), La parola…op cit, pagg.23- 24

149

dove impastare. Nel 1910 la piccola attività artigianale

divenne un’azienda; a un centinaio di metri da quel negozio

fu affittato un edificio e installato il primo pastificio

industriale Barilla. Riccardo, uno dei figli di Pietro, resta alla

guida dell’azienda aiutato soltanto dalla moglie, animato da

una particolare passione per la tecnologia, che lo porterà a

compiere frequenti viaggi in Germania per acquistare

macchinari sempre più nuovi e sempre più potenti. Nel 1940

l’azienda contava 800 dipendenti e produceva

quotidianamente 800 quintali di pasta che venivano poi

venduti sfusi. La scatola non esisteva, nei negozi di generi

alimentari c’erano grandi mobili pieni di cassetti e dentro a

ogni cassetto un formato diverso di pasta:tortiglioni, rigatoni

e altri formati. La pasta veniva impacchettata in un foglio di

carta azzurra, questo infatti era il colore per gli alimenti

secchi. Come si faceva a sapere chi l’aveva

prodotta?All’epoca avevano risolto il problema in questo

modo: in ogni negozio veniva venduta solo una marca di

pasta. Nel 1950 Pietro, figlio di Riccardo e nipote del

fondatore, fece un viaggio negli Stati Uniti. In quel viaggio

vide quello che in Italia ancora non c’era: supermercati,

prodotti confezionati nelle scatole, pubblicità, televisione e

infine una grande distribuzione di merci in cui la qualità e il

150

giusto prezzo si avvicinavano e si affiancavano. Al suo

rientro in Italia Pietro Barilla decise di chiamare una persona

adatta per farle raccontare i tempi nuovi: era Erberto

Carboni, un architetto-designer che si era sempre dedicato

alla comunicazione e soprattutto alle architetture

pubblicitarie e a tutte quelle costruzioni che servivano a fare

immagine. Cosa fece Carboni per la Barilla? Prese il foglio di

carta azzurra, ci mise sopra la pasta, lo fotografò e gli diede

una forma di scatola. Poi prese un uovo, elemento

primordiale che rappresenta la pasta, lo tagliò in due e ne

ricavò il marchio che ancora oggi vediamo. Ma non si fermò

qui, realizzò gli stand fieristici e si occupò della

comunicazione a stampa e quella televisiva 138. Questa

scatola esiste ancora, è quella che vediamo sugli scaffali dei

supermercati, e conserva i colori della tradizione: l’azzurro

della carta originaria in cui si impacchettava la pasta sfusa e

il giallo, il colore della pasta. Di certo il colore è più intenso e

più forte, da colore tecnologico è diventato un colore

psicologico: oggi non si vende più un servizio, ma

un’immagine, un’idea. Negli ultimi 50 anni grandi

personaggi come Dario Fo e Mina hanno legato il loro volto

alla comunicazione di questa pasta, contribuendo così a

138 In Italia nel 1954 era nata la TV e nel 1958 con Carosello la prima trasmissione televisiva pubblicitaria.

151

crearne l’immagine. Giancarlo Gonizzi in dieci minuti ha

raccontato oltre cento anni di un’azienda che trasforma il

grano in pasta. Nella scatola, dunque, c’è l’Archivio Storico

Barilla che raccoglie i documenti, le testimonianze, le

pubblicità che hanno raccontato questo prodotto nel corso di

più di un secolo di vita.

Mentre i luoghi di produzione sono attinenti all’ambito

dell’architettura e dell’ingegneria industriale, il “prodotto”, al

pari della sua stessa comunicazione, è attinente a un ambito

sociologico, senza ovviamente dimenticare che il progetto di

un prodotto e della sua comunicazione concerne in primis

l’ambito del design. Come un architetto organizza lo spazio,

così un designer “dà forma all’ambiente, alle suppellettili,

agli oggetti”139. Si tratta di una questione molto importante

perché siamo ancora abituati a considerare troppo spesso

l’arte nelle sue eccellenze qualitative e “pure”.

Per Enrico Crispolti 140 – noto critico e storico dell’arte

contemporanea - il progetto di un oggetto, la metodologia

produttiva e la comunicazione ad esso collegate rientrano

nell’ambito di interesse della cultura materiale dell’arte, e

pertanto un museo d’impresa parla anche di industrial

139 E. Crispolti, Per un’identità dei musei d’impresa, sta in. L.Kaiser (a cura di ), Musei d’impresa. …op cit, pag. 11 140 ivi. pag. 13

152

design. Sull’onda di questo discorso lo studioso sottolinea

che nel museo d’impresa risulta forte la componente di

carattere storico-artistico, attinente cioè all’ambito della

cultura visiva. La comunicazione di un prodotto e l’utilizzo

dell’immaginazione artistica a tal fine ha una larga

complessità:non è affatto scandaloso che l’arte possa

mischiarsi con l’offerta del prodotto. Crispolti ricorda di

essersi occupato a lungo di futurismo e di condividere il suo

pensiero circa la pubblicità: per i futuristi la pubblicità era un

momento saliente in cui si realizzava la loro volontà di

fondere arte e vita. Il cartellone pubblicitario era considerato

arte nella strada, era un momento di fruizione diretta,

quotidiana e pubblica della proposizione artistica. L’arte

moderna non si limita ad una esclusività ideale, consiste

anche in una dimensione pragmatica della quale, per

esempio, ha sentito tutta l’intensità la pop art nei primi anni

’60. Pertanto anche il prodotto di impresa costituisce un

bene culturale, giacchè ha una valenza culturale per cui può

diventare appunto oggetto di un museo e quindi di tirocinio

formativo. Alberto Bassi, storico del design, docente alla

facoltà di design e all’Istituto Universitario di Architettura di

Venezia,ha partecipato al convegno di Venezia Musei

d’impresa:professionalità emergenti per un nuovo marketing

153

culturale con un intervento dal titolo Storia e cultura del

progetto dentro i musei d’impresa141. Le imprese producono

prodotti o servizi, beni materiali o immateriali, e pertanto

per ricostruire le vicende storiche di un’impresa bisogna

attribuire forte rilevanza all’indagine sui caratteri dei

prodotti. Questi ultimi si possono studiare in molti modi, in

quanto sono il punto di partenza per molte possibili storie:

della tecnologia, dei modi di produzione, della progettazione,

della comunicazione e del consumo. La Vespa, ad esempio,

è interessante dal punto di vista del design, perché

l’ingegnere che l’ha progettata ha pensato qualcosa di molto

innovativo sia dal punto di vista tecnico-funzionale ed

estetico, che dell’usabilità per il muoversi su due ruote. Una

moto su cui sedersi e non più da cavalcare ha consentito un

allargamento del pubblico e del mercato: dall’utenza

femminile a quella borghese o di impiegati e lavoratori.

Pertanto è possibile studiare la Vespa perché ha motorizzato

gli italiani, per la sua incidenza sociale sui consumi, per il

suo impatto sull’impresa Piaggio che su quel modello ha

costruito un quarantennio di dominio assoluto. Ancora, la

Vespa è stata comunicata attraverso campagne

pubblicitarie, manifesti, spot televisivi: è testimonianza

141 A. Bassi, Storia e cultura del progetto dentro i musei d’impresa, sta in. L.Kaiser (a cura di ), Musei d’impresa:professionalità…op cit, pagg. 49-50

154

dell’evoluzione dei modi progettuali del design, ma anche

dei costumi di una società. Un museo d’impresa, dunque, è

un luogo in cui esercitare una lettura multidisciplinare.

In Italia tra i primi a porsi i problemi culturali e storici sul

disegno industriale c’è Gillo Dorfles con la sua notissima

Introduzione al disegno industriale142.

L’autore fa coincidere l’inizio del disegno industriale con

l’avvento della macchina nella produzione di oggetti progettati

dall’uomo. Sin dall’antichità ci sono stati oggetti eseguiti con il

parziale intervento di macchinari primitivi come il tornio, il

trapano, la ruota dei vasai, ma non è possibile discorrere di

disegno industriale riferendosi ad epoche precedenti la

rivoluzione industriale.

Soltanto agli inizi dell’Ottocento è possibile porre l’inizio

dei primi oggetti industrialmente prodotti su disegno

appositamente studiato per una produzione di serie, e in

grado di adempiere, oltre ad una funzione pratica -

utilitaria, anche ad una estetica. Dorfles non considera

«come artistico soltanto il prodotto delle “arti belle “:

pittura, scultura e architettura, ma anche molti degli

oggetti, degli strumentari, di cui la attuale civiltà

142 G. Dorfles, Introduzione al disegno industriale. Linguaggio e storia della produzione di serie, Einaudi, Torino, 2001. La prima edizione è datata 1972, ma già nel 1963 Dorfles aveva pubblicato Il disegno industriale e la sua estetica, che anticipa molte delle analisi dell’Introduzione.

155

tecnologica si vale nelle sue diverse manifestazioni»143.

Lo studioso tuttavia ammonisce circa la componente

funzionale dell’oggetto industrialmente prodotto. «Si

può concepire l’esistenza e, si dà, l’esistenza di oggetti

inutili: soprammobili, oggetti decorativi, e anche oggetti

di arte pura, eseguiti in serie mediante l’esclusivo

intervento della macchina e che sono quindi, a buon

diritto, da considerarsi come facenti parti della categoria

che stiamo esaminando »144. In sintesi, la “seriabilità”,

la produzione meccanica, la presenza di un quoziente

estetico dovuto alla iniziale progettazione e non ad un

successivo intervento manuale, sono le caratteristiche

richieste ad un oggetto appartenente al disegno

industriale. Serie significa possibilità di riproduzione, di

iterazione di un determinato modello. Tale carattere è

alla base di ogni produzione industriale. La fase

lavorativa del prodotto deve essere organizzata in

maniera tale da consentire una resa che sia sempre

uguale e che non presenti la benché minima deviazione

dal prototipo. Nei precedenti tipi di produzione, come le

lavorazioni artigianali eseguite con mezzi parzialmente

meccanici, il controllo della produzione era relativo,

143 ivi. pag. 11 144 ivi. pag. 12

156

perché non interessava l’assoluta identità dei diversi

oggetti, e perché questi ultimi non avevano bisogno di

adeguarsi ad un prototipo iniziale e costante. Nella

produzione industriale, il concetto di serie riguarda il

metodo produttivo ancora più della quantità dei singoli

elementi. Si riproduce un modello che possiede –

secondo la definizione di G.Ciribini - «nella più larga

misura quell’insieme di caratteri ritenuti necessari al suo

uso a fine di campionatura o esemplativi di processi

operativi di serie e come impiego combinatorio o

compositivo di elementi standardizzati»145. E’ possibile

avere una piccolissima serie in cui gli esemplari

prodotti, poche decine di unità o addirittura pochissime

unità, conservano il loro identico carattere di serialità

che è alla base della loro produzione. Allo stesso modo è

possibile avere una grandissima serie, ad esempio gli

elettrodomestici, in cui la ripetizione del prodotto

raggiungerà le decine di migliaia di capi mantenendo

sempre costante la fedeltà del singolo oggetto al

prototipo iniziale. Nella produzione industriale viene a

cadere la presunzione di una particolare abilità manuale

da parte dell’artefice, giacchè ogni dato esecutivo è già

145cit in ivi. pag. 29

157

implicito nella progettazione da parte del designer e non

può essere aggiunto dall’eventuale tocco dell’artefice.

Per ogni prodotto artigianale invece c’è sempre un

«limite di compiutezza e un margine di azzardo»146 in

cui l’intervento personale, anziché essere inesattezza o

difetto, assurge a pregio estetico. Per un oggetto

industriale ogni difetto costituisce un ostacolo alla

produzione e alla vendita. L’oggetto industriale esiste

sin dal momento in cui è stato progettato ed è stato

ultimato il disegno esecutivo. Nel pezzo artigianale

l’opera dell’artista-artigiano si esplica alla fine della

lavorazione, nel pezzo industriale al principio. Infine

oggi esistono molti oggetti ibridi che talvolta vengono

compresi nella categoria del disegno industriale. I

mobili, prodotti solo parzialmente con un principio

seriale, ma rifiniti e lucidati a mano, non possono essere

considerati oggetto di tale discorso. Allo stesso modo

esula dal settore del disegno industriale la categoria dei

tessuti stampati a macchina: il motivo è presto

spiegato. Non si tratta di forme tridimensionali create in

base ad una progettazione, ma di semplici motivi

decorativi sovrimposti ad una superficie bidimensionale.

146 ibidem

158

Del tutto diverso è il caso del packaging-imballaggio.

Questo settore, pur avendo attinenze con la grafica e la

pubblicità, rientra nel vero e proprio disegno industriale.

L’imballaggio è l’esempio di una interessante ricerca per

una forma tridimensionale capace di contenere un

determinato prodotto in maniera opportuna conciliando

funzionalità, estetica e pubblicità.

Dorfles traccia una breve storia del disegno industriale

partendo dalla rivoluzione industriale. Uno dei primi a

voler introdurre l’elemento estetico nel campo della

produzione di serie fu William Morris, uno degli

animatori del movimento inglese delle Arts and Craft. La

posizione di Morris era però del tutto negativa rispetto

all’intervento della macchina nell’operare artistico e

artigianale. Per Morris una delle più alte qualità

dell’uomo era appunto la sua capacità di fabbricare

manualmente senza fare ricorso all’intervento

meccanico. Pertanto tutto quello che egli fece per

promuovere la comprensione di ogni forma d’arte fu

frutto di questa sua profonda convinzione che lo

impegnò a richiamare in vita vecchi procedimenti di

lavorazione artigianale e manifatturiera. Alcuni dei

principi morrisiani ispirarono numerosi movimenti e

159

personalità, tra le quali emerge, per i suoi influssi sul

disegno industriale, quella di Henry Van de

Velde,massimo esponente dell’Art Nouveau. Questo

nuovo indirizzo architettonico e artistico ebbe come

luogo di nascita Bruxelles e di lì si diffuse poi nel resto

d’Europa, quasi contemporaneamente all’affermarsi in

altri paesi di movimenti analoghi come il liberty in Italia,

e il modernismo in Catalogna. Tale movimento ebbe il

merito di proporre alla creazione architettonica e

disegnativa moduli e decorazioni che astraevano da ogni

ricordo stilistico precedente, ispirandosi ad elementi

naturalistici e a motivi dove era possibile avvertire

influssi estremo orientali. Inoltre si discostava dalle

posizioni morrisiane in quanto accettava l’intervento

della macchina. Van de Velde infatti scrive che ‹‹ il

gioco potente delle loro braccia di ferro creerà la

bellezza, purchè la bellezza la guidi››147. Uno dei periodi

decisivi nella storia del disegno industriale è il 1920: in

quell’anno Gropius iniziò la sua attività presso il

Bauhaus. «Gropius, infatti, mirava a creare un’arte

capace di raggiungere col minimo costo il più alto livello

artistico e mirava a creare degli oggetti che fossero

147 cit in ivi. pag. 21

160

destinati a tutte le categorie sociali e che non fossero

riservati a sparute élites; non solo ma credeva

che,abbinando l’insegnamento artigianale con quello

industriale e artistico, si potesse creare quell’artista

completo capace di dominare tutti quanti i settori della

produzione»148. Alcune realizzazioni di questa scuola, i

mobili in tubo di acciaio, lampade da tavolo, diffusori di

luce, rimangono tappe fondamentali per il disegno

industriale. Una riflessione fondamentale ed innovativa

sull’industrial design è stata quella di Ferdinando

Bologna149, che sceglie per l’introduzione del suo testo

una “voce” stesa da Diderot per l’Encyclopédie

« Mestiere. Si dà questo nome ad ogni professione che esiga l’impiego delle braccia, e che si limiti a un certo numero di operazioni meccaniche, il cui scopo è la produzione d’un oggetto che l’operaio produce di continuo. Non so perché questa parola abbia assunto un significato dispregiativo: dai mestieri ci vengono tutte le cose necessarie alla vita. Chi si darà la pena di visitare i laboratori artigiani vi troverà dappertutto l’utilità unita alle più grandi prove di sagacia. L’antichità fece di coloro che inventarono i mestieri altrettanti dei; i secoli seguenti gettarono fango su quelli che li perfezionarono. Lascio giudicare a chi ha un minimo senso di giustizia se siano la ragione o il pregiudizio a farci considerare con occhio così sdegnoso uomini d’importanza tanto essenziale. Il poeta, il filosofo, l’oratore, il ministro, il guerriero, l’eroe sarebbero nudi e mancherebbero di pane senza quell’artigiano che è l’oggetto del nostro crudele disprezzo »150 .

148 ivi. pag. 25 149 F. Bologna, Dalle arti minori all’industrial design. Storia di un’ideologia, Laterza, Bari, 1972 150cit in ivi. pag. 3

161

Bologna intende riconsiderare i problemi storico-estetici

che si sono stretti attorno a quelle arti definite o

applicate, o industriali, o perfino minori. Il problema

centrale della questione non è soltanto la considerazione

in cui tali arti sono state tenute nel tempo, quanto la

storia dell’apprezzamento che i secoli correnti dal

Rinascimento in poi hanno riservato sulla componente

operativa, «cioè tecnico – fabbrile, e perciò a quella

strettamente connessa della funzionalità, in tutti i

prodotti umani che denominiamo artistici »151. Lo

studioso precisa che è in questione la stima che la

società «ha accordato al lavoro umano nell’arte »152 e in

tal senso è legittimo parlare di « storia di

un’ideologia»153 più che di semplice teoria o di questione

estetica. Il testo di Dorfles –nell’edizione del 1972- pur

essendo contemporaneo a quello di Bologna è

considerato da quest’ultimo « di una singolare ingenuità

»154 circa la cognizione del problema. Bologna cita

Dorfles: « con l’avvento dell’era industriale, tali settori

erano andati vieppiù decadendo e questo poteva

151 ivi pag. 4 152 ibidem 153 ibidem 154 ivi. pag. 8

162

giustificare il fatto che si tendesse a considerare queste

forme artistiche come minori rispetto a pittura,

architettura, scultura »,155 e poi prosegue egli stesso: «

se non intendo male, si vorrebbe insomma sostenere

che il giudizio di minore nei confronti di tali prodotti

dipese sostanzialmente dal loro scadimento qualitativo

ad un certo punto della loro storia; e che per

conseguenza, se le cose andarono così, quel giudizio

svalutativo non era immeritato»156. Infine menziona

anche il compendio di Mario Rotili ed Antonella Putaturo

Murano157 in cui si afferma che le arti minori sarebbero

divenute tali durante il Rinascimento e che sarebbero

state poi restituite al rango dell’arte, tra la fine del XVIII

secolo e il principio del XIX secolo, grazie a Ruskin e

Morris che riscoprirono la bellezza dei prodotti artigianali

del Medio Evo. Secondo Bologna tale opinione

rappresenta solo una parte della verità storica in quanto

a suo avviso né il Rinascimento può essere caricato di

una così grave responsabilità, né Ruskin e Morris

pervennero ad una rivalutazione senza essere preceduti

da un processo di revisione. Nell’Inghilterra 155 cit in ivi. pag. 8 156 ibidem 157 M. Rotili – A. Putaturo Murano, Introduzione alla Storia della miniatura e delle arti minori in Italia, Napoli 1970 (dispense universitarie); cfr. specialmente M. Rotili, Le «Arti minori », ivi, pagg. 7 e sgg.

163

ottocentesca il punto cruciale attorno a cui ruotò il

problema della rivalutazione delle arti minori fu

costituito dallo sforzo di elaborare una teoria e una

razionalizzazione del design per superare

quell’atteggiamento che durante la prima rivoluzione

industriale aveva determinato l’isolamento del designer

nella pura dimensione dell’ideare. L’autore si sofferma

sul contributo di Morris: «seppe collegare valori generali

a una forza sociale vera e in via di espansione:quella

della classe lavoratrice organizzata »158.Per Morris non è

possibile una separazione fra ideazione ed esecuzione

poiché i due momenti si unificano di fatto nel processo

lavorativo o più precisamente nel gruppo di uomini che

lavorano. In arte l’ispirazione è inesistente come

momento privilegiato poiché prende figura nell’esercizio

pratico. Pertanto l’opera d’arte non è più concepibile

come puro elemento estetico, ma « accrescendo il

connotato di utilità ben oltre il fatto elementarmente

strumentale che essa serve a qualcosa, va intesa e

valorizzata nella dimensione del tutto sociale della sua

origine e della sua destinazione »159.Queste parole

spiegano anche in che modo Morris si documentò sul

158 ivi. pag. 230 159 ivi. pag. 233

164

Medio Evo e cioè « non per vedervi attuati in figura gli

ideali di purezza religiosa o di libertà di immaginazione,

bensì per individuare alla radice delle opere d’arte

d’allora i principi di una irripetuta solidarietà sociale,

specialmente per ciò che riguarda il lavoro collettivo

nella bottega artigianale o nei grandi cantieri delle

cattedrali »160. Secondo Morris l’intagliatore medievale,

che scolpisce le decorazioni di una chiesa, offre il

proprio contributo creativo allo sforzo unitario di una

comunità cooperante. La sua soddisfazione personale è

in relazione dinamica con le esperienze degli altri; c’è

inoltre consapevolezza di partecipare ad un’impresa

realmente collettiva. Il tema dell’unità delle arti è

presente anche nel Manifesto firmato da Gropius al

momento dell’istituzione del Bauhaus

« …Il mondo meramente disegnativo o pittorico del progettista di modelli e degli artigiani deve divenire un mondo che costruisce di nuovo. ….Architetti, scultori, pittori, dobbiamo tornare tutti al mestiere!L’arte non è una professione. Non v’è alcuna differenza qualitativa fra artista e artigiano. L’artista è solo un artigiano potenziato. In rari momenti d’ispirazione, che vanno al di là della sua volontà consapevole, la grazia del cielo può far si che il suo lavoro fiorisca nell’arte….»161. Il senso del richiamo all’artigianato e della riunificazione

didattica «di tutte le discipline di arte pratica – scultura,

160 ibidem 161 cit. in ivi. pag. 282

165

pittura, lavori manuali e mestieri …»162 sono il punto

focale della scuola. Gropius intendeva realizzare il

ricongiungimento dell’ideazione con i processi esecutivi:

l’esecuzione era considerata garante e fonte

dell’immaginazione creativa. Su questo nodo si erano

basati tutti i tentativi finalizzati a superare la gerarchia

accademicamente idealistica delle arti. Per Gropius –

sottolinea Bologna - «l’artigianato non era fine a se

stesso, sì da poter rappresentare tradizioni o ethos

genericamente popolari; né era posto solo come binario

di transito all’industria. Esso intendeva essere prima di

tutto una funzione, anzi una funzione squisitamente

sperimentale e prammatica, in cui tutte le arti

dovessero ritrovarsi »163. Il manifesto elimina «

l’arrogante barriera che ha determinato la distinzione di

classe fra artigianato e artista »164 e pareggia

quest’ultimo rispetto ad una società di uguali in cui il

lavoro collettivo realizza la dignità e il valore storico di

ciascuno. Lo spirito del manifesto è profondamente

democratico e riprende dalla visione marxiana per cui «

alla vecchia società borghese, con le sue classi e i suoi

162 ibidem 163ivi. pag. 285 164 ivi. pag. 286

166

antagonismi, subentra un’associazione in cui il libero

sviluppo di ciascuno è condizione del libero sviluppo di

tutti »165.Lo stesso Gropius a proposito del manifesto

precisa « Il manifesto della Bauhaus è opera

mia…Bisogna aver vissuto il clima di quel tempo per

poterlo comprendere…. Dalla Germania e dall’estero

giunsero dei giovani non per progettare lampade

efficienti, ma per entrare a far parte di una comunità

che intendeva formare l’uomo nuovo in un nuovo

ambiente»166.

Con la fine della seconda guerra mondiale167, si può

considerare chiusa l’epoca dominata dal Bauhaus. Tra le

tappe fondamentali del design nel dopoguerra non

bisogna sottovalutare l’influsso esercitato nel decennio

1950-60 dall’avvento del design italiano che apparve,

165 cit .in ivi. pag .287 166 cit. in ivi .pag. 288 167Dopo la seconda guerra mondiale c’è stata una nuova fase di rapporti tra il disegno industriale e la pittura o scultura. Nel periodo del Bauhaus, ad esempio, prese forza la convinzione secondo cui non solo l’oggetto industriale, ma anche i prodotti artistici tradizionali, dovessero essere sottomessi al binomio utilità-bellezza. In quel periodo, non a caso, si verificarono noti casi di analogie stilistiche tra alcune pitture di Mondrian o Malevič e gli oggetti industrialmente prodotti. Nel dopoguerra invece si è potuto assistere ad un progressivo ribellarsi di pittura e scultura alle frigide regole del costruttivismo, e sono così sorte nuove forme pittoriche assai più libere e sfociate addirittura nei modi estroversi e irrazionali della pittura informale, del tachisme e dell’action painting. Tra queste forme di arte e l’oggetto industriale non poteva sussistere che una scarsa affinità, poiché la pittura vuole mantenere intatti i suoi privilegi di assoluta libertà creativa e di assoluta indipendenza da ogni costruzione razionale. E’ d’altronde vero che non sono mancate le inclusioni nelle “arti pure” di elementi presi a prestito dal mondo del disegno industriale – vedi il caso di artisti pop come Rauschenberg - ma è vero anche che la land art e l’arte concettuale esprimono anche un forte impulso a ribellarsi ai dettami della macchina e dell’industria. Queste forme artistiche, basate più sull’enunciazione di un concetto che sulla realizzazione di veri e propri oggetti, stanno ad indicare anche un rifiuto del mondo meccanizzato e standardizzato della civiltà tecnologica di cui l’oggetto creato dal design è uno dei principali esponenti.

167

sia in Europa che oltreoceano, come un elemento

rivoluzionario per i suoi aspetti anticonformistici tra cui

l’introduzione dei primi motoscooter Vespa e Lambretta.

Un importante apporto alla diffusione del design italiano

fu dovuto alle Triennali del 1951 e del 1954 e all’attività

di alcune ditte come la Olivetti e la Necchi.

E’ diverso invece il caso dello styling168, termine che si impose

nel linguaggio parlato dopo la grande crisi economica del

1929 quando gli Stati Uniti furono obbligati a ricorrere, per

necessità di cose, a tutti i sistemi più efficaci per attirare

l’attenzione degli acquirenti sui prodotti di un mercato in crisi.

Il vero significato della parola può essere considerato quello di

una appropriata e cauta cosmesi del prodotto, tale da

conferire nuovo fascino e nuova eleganza all’oggetto,a

prescindere da ogni vera e propria ragione tecnica e

funzionale. Tornando a Dorfles, va detto che egli vede nel

disegno industriale il caso di una forma artistica che mira a

pubblicizzare se stessa nel prodotto e il prodotto in se stessa.

Tutta quanta l’arte ha in sé un elemento di auto-

pubblicizzazione, che mira a renderla visibile e fruibile, e

bisogna ammettere come nel disegno industriale vi sia, oltre

questo stesso aspetto, anche quello di un simbolismo

168 Con questa parola si intende una sorta di sottocategoria artistica il cui valore estetico è soltanto aleatorio e la cui importanza è nel rispondere alle esigenze delle masse.

168

presentativo, cioè di un elemento simbolico che mira a

mettere in rilievo le caratteristiche che rendono appetibile per

il consumatore l’oggetto in questione. La pubblicità fa parte di

un grande meccanismo comunicativo,nel quale rientra anche

l’arte,che ha ovviamente il compito di attirare l’attenzione del

pubblico verso il prodotto, il nome, la ditta che mira a

reclamizzare, e pertanto non può mai prescindere da un

quoziente altamente informativo che più facilmente di quello

estetico sottostà ad una rapida usura. Un messaggio offre il

massimo d’informazione quando per la sua imprevedibilità ci

procura il massimo di sorpresa. Ove tale messaggio venga più

volte ripetuto verrà man mano a perdere la sua efficacia; ecco

perché è indispensabile che la forma dell’oggetto venga

spesso mutata e subisca continui processi di rinnovamento.

L’elemento di novità, inaspettato, è fondamentale per il

rapido consumo a cui l’oggetto va incontro. Dorfles si

sofferma anche sull’importanza del fattore tecnologico nella

determinazione della forma, dell’aspetto esterno e del

funzionamento dell’oggetto. Il processo di fabbricazione porta

ad una modificazione sostanziale della forma, e determina

quindi non solo importanti trasformazioni funzionali, ma

anche decisive modifiche formali. Per molti oggetti meccanici,

ad esempio, prodotti con il sistema della saldatura, è possibile

169

ottenere l’unione di parti di lamiera e di acciaio, e saranno

pertanto necessarie nervature rinforzate per sostenere la

saldatura; l’aspetto esterno apparirà più spigoloso perché non

è consentita alcuna plasticità. Gli oggetti prodotti con il

metodo della fusione hanno invece una maggiore libertà

formale, spigoli arrotondati e necessitano di spessori maggiori

piuttosto che di nervature. Un oggetto subisce trasformazioni

in seguito all’avvento di nuovi tipi di lavorazione e di nuovi

materiali impiegati:si pensi alla differenza tra la classica sedia

in legno, quella metallica oppure quella in plastica. Tutti

questi elementi ci fanno riflettere sul fatto che il disegno

industriale è un lavoro di équipe. E’ possibile concepire un

oggetto artigianale creato da un singolo individuo, ma non si

può fare lo stesso per un prodotto industriale. Quest’ultimo

infatti esclude l’invenzione autonoma e incontrollata, appunto

per la necessità del convergere di elementi tecnici, economici

e meccanici. Il designer agisce sempre in vista di una

programmazione del prodotto per l’industria, e non è possibile

pensare ad un progettista libero da ingerenze esterne: nei

casi più favorevoli il gusto del designer non è coartato dal

produttore, ma finisce comunque con l’essere vincolato dal

gusto del pubblico al quale il suo prodotto è destinato. Nel

caso dell’oggetto industriale il lavoro di équipe è

170

determinante: un particolare prodotto può richiedere

conoscenze tecniche quanto mai particolareggiate, e solo la

collaborazione con gli operatori ed i tecnici di ogni singolo

settore potrà permettere al progettista di non incorrere in

gravi errori nel risolvere costruttivamente le sue intuizioni

plastiche e formali. Nell’équipe inoltre è fondamentale la

presenza di studiosi di tecnica del mercato, di ricerca

motivazionale e di altri metodi di indagine rivolti a studiare la

possibilità di assorbimento del prodotto. In conclusione

possiamo ripetere che il compito di un designer non è

stilizzare determinate forme rivestendole di panni acconci, ma

progettare un oggetto da produrre industrialmente e

pianificarne la stessa vicenda produttiva. A questo punto

Arthur Becvar scrive che « il design, nel suo stadio iniziale di

progettazione, consiste nel pensare al problema non nel

considerare la soluzione…cercando di individuare se il

problema è stato posto in maniera chiara….»169.

Per me che scrivo in qualità di studente è stato stimolante

aver messo a confronto le due strade, radicalmente diverse e

pertanto opposte, percorse da Dorfles e da Bologna per

discutere di industrial design. Entrambi sono stati utili per

considerare le diverse sfaccettature del design: la tecnica,

169 cit in G. Dorfles, Introduzione al disegno.. op cit,pag. 87

171

l’estetica, la progettuale e l’ideologica. Il testo di Dorfles è a

mio avviso monco dell’intera impalcatura storica che sottende

le varie discussioni sull’industrial design. Dorfles è stato

funzionale, efficace, “tecnico”, nel tracciare i margini di

competenza dell’industrial design: di cosa si occupa, in che

modo se ne occupa, chi è il designer, qual è il suo compito, da

che momento in poi è possibile usare questa espressione. Mi

ha dato le coordinate di riferimento per definire l’oggetto del

discorso. Leggendo Bologna ho capito poi che c’è qualcosa di

semplicistico in Dorfles; la citazione dall’Enciclopédie è stata

la chiave di volta per seguire il sentiero che l’autore traccia e

per capire che dietro la discriminazione di certe arti ci sono

motivi socio economici nonché il mantenimento di certi

privilegi di classe. Bologna, ad esempio, individua nelle

Accademie del Disegno uno strumento sociale di

discriminazione: il pittore è eccellente, produce opere di

significato ideale e trova agganci con i ceti alti. Il semplice

artigiano invece, svalutato il momento tecnico della sua

opera, è relegato al ceto servile ed è condannato ad una vita

di stenti. Dorfles non accenna minimante a queste complesse

dinamiche. Si sofferma sul Bauhaus e sull’Art Nouveau, è

stato uno dei primi testi di successo sull’industrial design, ma

172

è come se non scardinasse nulla, ha il merito di aver

compiuto il punto della situazione, ma non solleva problemi.

173

IV. MUSEO

fig1. sala centrale

IV. 1 Dal “cucciolo” alla “desmo” attraverso le stanze del Museo Ducati

fig2. moto desmo16 fig3.prima moto da gara con motore cucciolo “…un caloroso saluto a Fabio “Vieni con me, ti porterò sul dedicandogli la sinfonia più eccitante cucciolo, il motorino è piccolo che c’è:il rombo del desmo” 170 ma batte come il mio cuor “171

170 www.ducati.it/protagonisti/pag. 7 171 www.ducati.it/museo/stanza1

174

Il “cucciolo” è il primo esemplare di micromotore a quattro

tempi, la desmo 16 è la moto guidata da Loris Capirossi nel moto

GP del 2003. Queste due rosse di Borgo Panigale hanno alcuni

elementi base in comune, come l’appartenere al marchio Ducati

e l’essere esposte nel museo Ducati, ma sono tuttavia figlie di

tempi diversi perché scanditi da situazioni sociali, economiche e

tecnologiche differenti. Su ognuna di loro sono sedimentate

storie, e molte altre transitano tra l

’una e l’altra, di uomini che assurgono a testimoniare un saper

fare italiano, che ci identifica nel mondo con sinonimi quali stile,

qualità, competenza e passione. Come membri di una grande

famiglia il “cucciolo”, capostipite, e la desmo 16, la più giovane

discendente, si rincorrono e dialogano tra loro raccontandoci

queste storie all’interno del museo. Il museo è stato presentato il

12 giugno 1998 in occasione della prima edizione del WDW (

World Ducati Week ) ed è stato ufficialmente inaugurato il 16

ottobre dello stesso anno. L’esposizione permanente del museo

consiste in una trentina di veicoli da competizione Ducati, storici

e attuali, oggetti della produzione pre-motoristica, dépliant

pubblicitari, immagini d’archivio, video storici, abbigliamento da

corsa appartenuto ad alcuni piloti Ducati e infine disegni tecnici.

Si estende su un’area di circa 1000 mq, ed è strutturato in un

duplice itinerario di visita che consente di conoscere la storia

175

dell’azienda sia attraverso le moto da competizione, sia

attraverso un excursus storico. Nella grande sala centrale di

forma circolare sono esposte in sequenza cronologica, dal primo

micromotore del 1946 alle ultime moto vincitrici del mondiale

Superbike, 33 moto da corsa che si inseguono idealmente come

su una pista virtuale. Queste moto inoltre fanno da corona ad un

grande casco rosso con la visiera aperta posizionato al centro

della sala che è utilizzato come auditorium per le conferenze.

L’excursus storico invece è stato organizzato, da Marco

Montemaggi originale direttore del museo e da Livio Lodi attuale

curatore, in sette stanze tematiche e multimediali disposte

all’interno della grande sala centrale. Ognuna, a partire dagli

anni ’40, è dedicata ad un decennio. Tale percorso di visita è

preceduto dalla parete della memoria che espone radio,

macchine fotografiche, prodotti radio-elettrici che testimoniano

la produzione pre-motociclistica Ducati dal 1926 al 1946. « E’

una vera e propria macchina del tempo attraverso la quale le

vecchie generazioni di appassionati rivivono i fasti di un’epoca

che sembrava scomparsa, mentre le nuove generazioni scoprono

quanto vasta, ricca e importante sia la storia della Ducati »1, con

queste parole Livio Lodi parla del museo. Federico Minoli invece,

presidente e amministratore delegato di Ducati, considera il

1 Intervista a Livio Lodi, vedi appendice, pag.

176

museo « un passo importante per comunicare la nostra storia e

credo che l’obiettivo che ci eravamo posti sia stato raggiunto

esaudendo così anche il desiderio dell’Ingegnere Taglioni,

indiscusso genio della Ducati »2.

fig4. motore cucciolo applicato su u3na bici La prima stanza è dedicata agli anni ’40 e al “cucciolo”: è

possibile vedere filmati sulle competizioni di quell’epoca, poster e

brochure aziendali. Come è nato il cucciolo? Durante il secondo

conflitto mondiale viveva a Torino l’avvocato e scrittore Aldo

Farinelli, collaboratore della nota ditta SIATA ( Società Italiana

Applicazioni Tecniche Auto-Aviatorie). Nel 1943, dopo

l’armistizio, Farinelli e il ragioniere Ambrosiani, titolare

dell’azienda, incaricarono Aldo Leoni di progettare un motore a

due tempi simile a quello di Giuseppe Remondini, un tecnico

francese di origine italiana. La guerra era ancora in corso e il

lavoro iniziò in segreto, contro le direttive del Governo. Farinelli

pensava che con la fine del conflitto ci sarebbe stata una

maggiore necessità di mobilità e più voglia di spostarsi per

2 www.ducati.it/museo/introduzione 3

177

svago, ma le difficili condizioni economiche non avrebbero

permesso a molti l’acquisto di un mezzo costoso, non solo per il

prezzo, ma anche per la difficoltà di procurarsi il carburante.

L’intento era quello di realizzare un motore da applicare senza

particolari trasformazioni al telaio di una comune bicicletta. Leoni

propose di studiare un motore a quattro tempi con cambio a due

velocità: ottenuto il consenso disegnò a casa il nuovo progetto

ed ebbe inizio l’avventura cucciolo. Oltre ad essere a quattro

tempi, era un motore monocilindrico, 48cc, raffreddato ad aria,

realizzato in lega leggera per un peso di 7 kg e una capacità di

due litri per il serbatoio della benzina. Nel 1944 Farinelli

collaudava il prototipo sulle strade di Torino: percorreva 100 km

con un litro di benzina, non sporcava le candele, poteva portare

due persone e affrontare anche le salite più rapide.

fig5. motore cucciolo «A Torino è nato un cucciolo»4: con queste parole la rivista

Motociclismo titolò l’articolo scritto il 26 luglio 1945 per la

presentazione del micromotore alla Fiera di Torino. I primi

esemplari di “cucciolo” furono rapidamente assorbiti dal mercato

4 www.ducati.it

178

torinese, e nel 1946 la SIATA decise di fronteggiare la crescente

richiesta aprendo un proprio ufficio vendite in via Leonardo da

Vinci a Torino. Tale scelta comunque si rivelò inadeguata a

soddisfare le esigenze del mercato. La soluzione al problema

venne dall’accordo tra la SIATA e la Ducati; quest’ultima si

incaricò dapprima della produzione ed in seguito anche della

vendita del “cucciolo”, riconoscendo alla SIATA e a Farinelli una

quota per ogni motore venduto. «Vieni con me ti porterò sul

cucciolo…» sono le parole di una orecchiabile canzoncina diffusa

in quegli anni dalla pubblicità radiofonica che diede il suo

contributo alla motorizzazione. Fu un enorme successo popolare.

La produzione che nel 1946 aveva superato i 15000 motori,

raggiunse negli anni seguenti le 25000 unità. Nel 1949 oltre

60000 “cucciolo” circolavano sulle strade italiane rappresentando

circa la metà dell’intero mercato nazionale dei ciclomotori. Dal

1946 al 1958 il “cucciolo” fu prodotto in sei versioni

continuamente migliorate. Non mancarono consensi anche

all’estero dove venne esportato in alcune migliaia di esemplari. Il

“cucciolo” infine è entrato nella storia non soltanto come riuscito

mezzo utilitario. I suoi risultati sportivi dimostarono tutta la

qualità del progetto: i primati di velocità a Monza nel 1950, il

raid Parigi-Tokyo, le vittorie con Zitelli e Farnè evidenziarono

tutto il suo potenziale. Così il “cucciolo” lanciò la Ducati nel

179

firmamento motociclistico. Infine il 24 aprile 2002 Gianluigi

Mengoli, Direttore Ricerca e Sviluppo Ducati, ha voluto

commemorare Aldo Farinelli e Aldo Leoni apponendo sul libro

Year book Ducati 2001 portato in dono alla vedova Farinelli e a

Aldo Leoni la seguente dedica: « Per questo piccolo motore, si

sono uniti due grandi talenti, accompagnati da una perizia

tecnica, da una straordinaria serietà di studio e spirito

innovatore. Sono queste le qualità che hanno influenzato chi ha

avuto il compito di produrlo. Da tutto questo è nata l’industria

Motociclistica Ducati »5. Aver ricordato Farinelli e il progetto

“cucciolo” è stato un modo per riandare con la memoria agli anni

della grande crescita del successo Ducati nel mondo.

fig6. stanza2 La seconda stanza è dedicata agli anni ’50 e all’ingegnere Fabio

Taglioni che in quel periodo entrò in azienda. L’ingegnere imparò

i primi rudimenti della meccanica dal padre che aveva una

officina, dove tra l’altro conobbe Enzo Ferrari e Tazio Nuvolari.

Nel 1954 fu assunto in Ducati e vi lavorò per trenta anni:

l’amministratore delegato dei tempi, Giuseppe Montano, volle 5 www.ducati.it/moto-archeologia

180

creare un nuovo team per sviluppare moto esclusivamente da

gara, e la scelta cadde sull’ingegnere Fabio Taglioni. Montano

pensava che i successi sportivi, legati ad un conseguente

programma di ricerca e sviluppo, avrebbero portato benefici

anche alla produzione di linea, nonché effetti pubblicitari di

sicuro rilievo. L’ingegnere realizzò in sei mesi la prima vera moto

da corsa della Ducati, la Gran Sport, chiamata affettuosamente

“Marianna” in omaggio alla moglie di Montano, che avrebbe vinto

i motogiri di Italia e la Milano-Taranto nel 1955, 1956, 1957 e

progettò oltre 1000 motori diversissimi l’uno dall’altro: dalle

piccole cilindrate proprie dei motorini, agli scooter, ai

potentissimi bicilindrici dei campionati Superbike. Le moto

firmate Taglioni non erano soltanto tecnicamente avanzate, ma

dotate di un carisma e di un fascino rimasti per certi aspetti

insuperati. Taglioni è morto il 18 luglio 2001, ma il suo spirito

innovatore è ancora vivo e applicato anche sulla più avanzata

delle Ducati, la desmo 16. Taglioni ha realizzato il primo motore

con un sistema di distribuzione desmodromico per moto; tutta la

tradizione tecnologica della casa di Borgo Panigale poggia sulla

sua genialità. La parola desmodromico deriva dalle parole greche

“desmos” e “dromos” che significano rispettivamente

“costringere, obbligare”, e “ corsa, percorso”. In meccanica viene

usata per citare meccanismi che dispongono sia di un comando

181

per attivarli in un senso, sia di un apposito comando per attivarli

nell’altro; può essere una chiusura o un ritorno. In campo

motociclistico e automobilistico è conosciuto sin dall’inizio del

ventesimo secolo, ma fu Taglioni che seppe concretizzare questa

idea. Egli, va chiarito, non è stato l’ideatore di questo sistema di

distribuzione, ma fu in grado di interpretare ed applicare ai

motori motociclistici questo sistema come nessun altro. La

Mercedes, ad esempio, tentò l’applicazione sulle sue auto da

competizione ma gli esiti furono sconfortanti. Il fine di tale

sistema è quello di eliminare le limitazioni dovute all’azione

meccanica delle valvole, sostituendo le molle con un sistema di

chiusura meccanica. Pertanto con l’assenza delle molle non si

avranno mai valvole che sfarfallano in un motore desmo e sarà

possibile raggiungere regimi di rotazione più elevati.

fig7. motore desmo I pareri circa la sua efficacia sono contrastanti: c’è chi lo osanna

e chi lo critica per la sua complessità costruttiva. Ducati è

comunque l’unico costruttore a livello mondiale a proporre il

sistema desmo su tutta la produzione di serie. A Borgo Panigale

la prima moto ad avere questo sistema fu la 125 desmo che

182

debuttò sulla pista del circuito di Hedemora dove il 14 e il 15

Luglio si disputò il Gran Premio di Svezia. Ducati schierò sulla

griglia di partenza due 125 desmo guidate da Gianni Degli Antoni

e dallo svedese Ille Nygren che arrivarono al primo e al secondo

posto distanziati di tre secondi. Il sistema realizzato da Taglioni

funzionava con successo anche in un motore da corsa ed era in

grado di vincere una gara. L’intero anno 1957 fu dedicato allo

sviluppo della 125desmo. Nella seconda stanza, infine, è esposta

una vasta collezione fotografica sul leggendario moto giro

d’Italia, una delle rarissime Marianna Gran Sport e il famoso

Siluro vincitore di 44 record mondiali.

fig8. stanza3. tecnigrafo di Taglioni e moto di Mike Hailwood La terza stanza è dedicata agli anni ’60 e alle moto

monocilindriche derivate di serie e alle parallele bicilindriche

trialbero. E’ esposto il motore del prototipo Apollo6 e la 250cc

6 Apollo era una moto di 270 kg, 125cc, capace di raggiungere 200 km/h. Fu voluta da Joe Berliner che era l’unico importatore ufficiale Ducati negli U.S.A nonché un uomo dotato di enorme potenziale all’interno dell’azienda. Questa moto doveva essere dapprima la concorrente della Harley-Davidson utilizzata ai tempi dalla polizia americana e poi sarebbe dovuta diventare una proposta per i clienti. Il progetto non andò a buon fine a causa dei problemi dettati dal peso e dalla potenza del motore realmente eccessivi. Inoltre a quei tempi in Italia era impossibile reperire materiale tanto resistente da sopportare le sollecitazioni di quel motore e pneumatici adatti a sopportare quel peso. La moto rimase inutilizzata fino al 1984. Nel 1968 Taglioni decise comunque di rivalutare questo suo progetto per realizzare il motore bicilindrico Gran Prix500cc. con distribuzione a coppie coniche nato per le competizioni nel momento in cui Ducati decise di

183

bicilindrica trialbero di Mike Hailwood. I monocilindrici

raggiungono il culmine della linea evolutiva nei modelli di serie a

carter larghi che costituiscono a loro volta lo sviluppo della

famiglia a carter stretti. Nel 1959 Taglioni lavorava al progetto

del motore 250 bicilindrico desmo commissionato da Stan

Hailwood per suo figlio Mike. La moto arrivò in Inghilterra nel

marzo del ’60, fu guidata da Mike nel circuito di Silverstone e fu

un trionfo. Visti i successi ottenuti sui circuiti, si attendeva

l’applicazione del sistema desmodromico alle moto di serie, e

così a partire dal 1968 la Ducati realizzò le monocilindriche da

strada, le wide case, ossia carter larghi detti così per il

basamento più largo e robusto. Gli scrambler 350 e 250 nel 1968

furono le prime moto di serie che montarono un motore di tipo

monocilindrico. A queste seguì a breve distanza il motore mark3

nella stessa cilindrata. Taglioni dagli ultimi mesi del 1967 stava

lavorando ad un progetto che avrebbe terminato nell’aprile

1968; l’ingegnere pensava di applicare su una monocilindrica di

serie a carter larghi il sistema di distribuzione desmodromica. Da

questa idea nacque la mark3d nelle cilindrate 250 e 350 ed entrò

in produzione nella primavera del 1968. La mark3d era la prima

ritornare al mondo delle corse. Penso che l’impegno profuso per recuperare Apollo e lo spazio espositivo dedicatogli siano una testimonianza concreta della mentalità Ducati: viene ricordato Apollo non solo per la sua rarità- ne furono prodotti solo due esemplari stando alle conoscenze Ducati- ma per l’importanza che riveste nei confronti delle moto più recenti, e quindi anche delle superbike. Apollo è il “fossile” del moderno motore bicilindrico, e in casa Ducati la storia delle moto è paragonabile alla storia delle persone.

184

moto di serie con sistema desmo che fino a quel momento era

stato appannaggio esclusivo delle moto da corsa. Fino al 1970 le

mark3d rimasero invariate.

fig9. stanza4 La quarta stanza è dedicata agli anni ’70 e alle vittorie Ducati,

come il successo della 200 miglia di Imola, ottenute con le

bicilindriche a coppie coniche. Fu sempre Taglioni che realizzò

l’innovativo progetto di un motore bicilindrico a L a 90° con

distribuzione a coppie coniche. Prima di questo progetto la

maggiore cilindrata per una moto monocilindrica Ducati era

450cc. Con i motori bicilindrici da 750cc Ducati ha realizzato

nuove innovazioni di carattere tecnico, ha segnato la sua

posizione nell’engineering delle sportive e ha consolidato la sua

reputazione come costruttore di moto di grossa cilindrata. Una

moto come la 750cc realizzata con motore desmodromico, con

due cilindri a L a 90° e con valvole a molle offriva una riduzione

delle vibrazioni grazie al perfetto bilanciamento.

185

fig10. stanza5. motore pantah e telaio 750 Con la quinta stanza arrivano gli anni ’80 e i trionfi delle pantah:

le nuove moto con motore a cinghia. «Non esiste niente al

mondo di più potente o di più veloce delle pantah »7: così una

delle maggiori riviste di motociclismo descrisse la pantah 500 al

suo ingresso sul mercato nel 1979, una moto veramente

moderna per quel tempo, capace di colpire al cuore molti

appassionati. Il motore pantah progettato da Taglioni, da

Mengoli, Bocchi e Martini e fu il programma Ducati sia per la

produzione che per la competizione degli anni ’80. Il suo nome

deriva dalla contrazione di pantera: doveva evocare agilità,

prontezza, ma soprattutto fu scelto per quella sorta di gusto per

l’esotico che, sulla scia del successo di serie televisive quali

Sandokan, imperversava nel nostro paese alla fine degli anni ’80.

La trasmissione, abbandonate le coppie coniche del precedente

decennio, avviene utilizzando un albero a camme a cinghia

dentata: questo sistema era già in uso in ambito automobilistico

e Taglioni, forse anche a causa del fallimento del bicilindrico

7 www.ducati.it/protagonisti /pag. 7

186

parallelo, pensò di utilizzarlo anche per le due ruote. Il motore

pantah aveva due valvole ad angolo di 60° che ottimizzavano

l’affidabilità. Il primo modello in produzione fu la 500sl, ma già

nel 1981 diventò un 581cc con il modello 600sl. Con questo

incremento di cilindrata fu possibile gareggiare al campionato

mondiale di formula 2tt dove il pilota inglese Tony Rutter trionfò

per quattro anni consecutivi, dal 1981 al 1984. Nel 1982 il

motore si era trasformato in un 597cc alloggiato in un telaio

specifico da corsa: era il classico tt2 con il quale Ducati vinse i

campionati italiani di Formula2 nel 1981 e nel 1982. Il pantah

continuò a crescere diventando una 650sl nel 1983, e poi una

750cctt1, e quando smise di rappresentare la base del

programma da corsa diede origine a tre famiglie complementari

di moto da strada: le belle monster,le st2 e le supersport. Nella

storia Ducati il pantah è stato uno dei design più riusciti e

longevi.

fig11. stanza6. moto e disegni tecnici

187

Anni ’90, motori quattro valvole, campionato superbike: è la

sesta stanza. La storia Ducati è fortemente legata con quella del

campionato del mondo superbike. La competizione prese il via

nel 1988 e l’azienda di Borgo Panigale, la cui passione per le

corse è scritta nel dna, vi partecipò con l’intenzione di vincere.

La moto 851 guidata da Marco Lucchinelli, l’ex campione del

mondo delle 500cc, era perfetta. Era un modello bicilindrico, in

lotta con le quadricilindriche, con testata desmodromica a

quattro valvole, il tutto era contenuto in un telaio tubolare di

ultima generazione. Questa scelta si opponeva al trend generale,

che vedeva l’uso di telai monotrave in alluminio, dimostrando

che un telaio tubolare correttamente disegnato poteva essere

altrettanto valido se non addirittura migliore. Il francese

Raymond Roche iniziò a correre per la Ducati nel 1989 e vinse

cinque gare tra cui quattro sui circuiti più veloci: le rosse di

Borgo Panigale si rivelarono affidabili e veloci tanto da meritare il

soprannome di bolidi bolognesi. Il 1990 vide l’inizio del dominio

Ducati. Roche e Ducati vinsero il titolo salendo sul podio per ben

sedici volte su ventisei, conseguendo ben otto primi posti. Nel

1991 e nel 1992 Ducati, con il modello 888 derivato dalla 851,

conquistò nuovamente il titolo mondiale di superbike. La 851 e la

888 costituiscono le pietre miliari del successo mondiale della

Ducati, ma esse va affiancato il modello del 1994 e cioè la 916.

188

In quegli anni fu definita come la moto più sexy del mondo, era

meravigliosa guardata da qualsiasi angolazione e diversa da

qualunque altra realizzata in passato. La 916 rappresentò la

personificazione assoluta di stile e di funzionamento. Ducati

vinse il titolo per tre anni consecutivi, era al moto da battere.

fig12. desmo16

La settima stanza è datata 2003. «2003: Ducati raccoglie il

guanto di sfida, e rientra nella classe regina dopo oltre

trent’anni. La desmosedici è il nuovo corso della Ducati nel

mondo delle competizioni motociclistiche, ma sempre legata alla

tradizione del sistema desmodromico e del telaio a traliccio »8. E’

stata una prova difficile e impegnativa che ha visto l’azienda

impegnata in un ritorno quasi leggendario dopo oltre trent’anni.

Non è ritornata affatto intimorita e nel giro di poco più di un

anno dall’annuncio di voler rientrare nella categoria regina, ha

saputo realizzare una delle moto più potenti che hanno mai

percorso i circuiti di tutto il mondo. La desmosedici si è

affiancata come moto più veloce con una punta massima di

8 Brochure Ducati

189

332km/h, ha conquistato il secondo posto nella classifica

costruttori con 225 punti e il quarto e il sesto posto piloti con

Loris Capirossi e Troy Bayliss. Il sito

www.100hp.com/desmo.htm dedica qualche riga anonima scritta

da chi percepisce il desmo come filosofia: « Una Ducati vuole

bene al suo compagno, non è il proprietario, parla con lui…»

«Come riconoscerlo? Il rumore di funzionamento è quello che va

in risonanza con il cuore….è difficile distinguerlo solo per chi non

può capire…» «…melodia, non rumore: le Ducati non fanno

rumore, ma producono una armoniosa melodia….».

IV. 2 Uno sguardo oltre la collezione

Il nome di un museo è un indicatore di diverse sue

caratteristiche; il museo Ducati è un museo di marca9,

appartiene cioè a quella categoria museale in cui il marchio è

ovviamente protagonista, è il valore portato in primo piano dal

museo, a cominciare appunto dal suo stesso nome. In questo

museo, come abbiamo visto, sono presentati esclusivamente i

9 M.Negri. Manuale di museologia per i musei aziendal ,Rubbettino Editore, Soveria Mannelli, 2003, pag. 21

190

prodotti riferibili alla marca in oggetto: una sorta di catalogo

storico dell’intera produzione dell’azienda. Il marchio e la sua

declinazione nei prodotti sono la vera trama del racconto.

Secondo Negri l’affermazione dell’identità del suo marchio è

l’essenza della missione 10 di questo particolare museo aziendale.

L’ingresso al museo è gratuito poiché non c’è bisogno degli

introiti dei biglietti e poiché, come ha affermato Livio Lodi 11, è

stato pensato come un incentivo sia per l’azienda, al fine di

ricevere più visitatori possibile, che per Bologna, che non è

soltanto la città delle due torri e delle università, ma anche un

indotto per Borgo Panigale, che altrimenti sarebbe stato ancora e

soltanto un quartiere sconosciuto. Il Museo Ducati non solo è

uno dei cinque musei più visitati a Bologna, ma è anche una

struttura che ha qualificato Borgo Panigale, che quasi si identifica

con questa azienda. Le visite avvengono con l’ausilio di una

guida e si tengono dal lunedì al venerdì per gruppi fino a 10

visitatori ;c’è un primo tour alle ore 11 e un secondo tour alle

ore 16. Per la sola giornata del sabato e per grandi gruppi fino a

40 persone ci sono visite continue a rotazione dalle 9:30 alle

13:00. La domenica è chiuso, come durante le altre festività del

nostro calendario e nel mese di agosto. Per una buona gestione

del servizio è richiesta una prenotazione inoltrabile o

10 cfr. ivi 11 cfr. intervista a Livio Lodi,vedi appendice pag.

191

telefonicamente, o via fax o via e-mail. Giuridicamente è un

museo privato, ed economicamente è una voce integrata nella

Community che comprende eventi in pista, club e stand per le

fiere « non è un’unità a sé stante, è una parte di una casa»12. Fu

voluto dall’amministratore delegato Federico Minoli che pensò di

valorizzare l’azienda e di donarle un valore aggiunto raccontando

in un museo la storia che le precedenti amministrazioni dal 1973

in poi avevano lasciato cadere nell’oblio liberandosi, o vendendo

o mandando al macero, di tutto ciò che era vecchio13. Minoli,

come ha detto Livio Lodi nell’intervista, pur essendo un uomo di

marketing aveva compreso che la storia poteva conferire

spessore all’azienda. Per la realizzazione del museo si recuperò

lo spazio di un vecchio deposito in cui c’erano documenti e poche

moto. L’impresa museale fu vissuta con entusiasmo all’interno

dell’azienda, e fu percepito non solo come il salotto buono

dell’azienda, ma come qualcosa che rendeva orgogliosi di ciò che

si era. La responsabilità della gestione dal 2001 è affidata solo a

Livio Lodi che cura anche l’archivio storico e che, come un

archeologo, recupera le tessere mancanti del mosaico Ducati

affinché il racconto possa essere il più possibile completo e

preciso. Inoltre Lodi, anche grazie all’esperienza maturata nel

12 Intervista a Livio Lodi 13 Non tutte le moto esposte, infatti, sono beni aziendali. Alcune sono esposte su concessione del proprietario e, ovviamente, anche in caso di prestito per mostre o eventi è necessario ottenere il suo consenso.

192

museo, è consapevole del fatto che la storia non piace a tutti e

che molte tradizioni si stanno perdendo, pertanto « una moto

non è soltanto un oggetto ludico per correre, ma anche un

oggetto di cultura e può essere uno strumento per avvicinare

anche i più giovani alla storia, affinché stimolati alla conoscenza

la trovino più interessante »14. L’attività del museo è rivolta ad

un pubblico che va dai bambini delle scuole elementari, ai

ragazzi che pur andando per ammirare la moto di Loris Capirossi

si appassionano alle moto vecchie e al modo in cui si correva un

tempo, a persone più anziane. Per i visitatori disabili non ci sono

strutture ufficiali deputate ad accogliere il loro ingresso, ma è

possibile utilizzare i montacarichi collocati alle spalle del museo

che accolgono anche 10 persone. Queste strutture sono sicure, e

là dove è stato necessario utilizzarle hanno reso possibile la

visita di persone disabili. Appena si arriva in Ducati ci si rivolge

ad un primo box di accoglienza, dove si attende l’arrivo della

guida. Senza il suo ausilio non è consentito entrare nello

stabilimento che costituisce la prima parte della visita, tipica di

un museo di marca, ma non offerta da tutti i musei di questo

genere. Anche per questo aspetto le parole di Lodi ci aiutano a

capire meglio « Ducati è un sogno che si realizza: anche questo

14 vedi appendice, pag.

193

è un messaggio del museo »15. Ducati nel campo motociclistico si

è creata una figura tanto legata alle competizioni da avvicinarsi a

Ferrari. Tuttavia sono molto diverse. Un visitatore, visitando il

museo e lo stabilimento, conosce una Ducati diversa rispetto a

quella trasmessa, per esempio, da un giornale di settore o dai

media in generale. Ferrari non consente la visita allo

stabilimento, e il suo tifoso resta un sognatore che nella Galleria

Ferrari visita un mondo che non potrà mai vedere e di cui non

può fare mai pienamente parte visti i proibitivi costi Ferrari.

L’appassionato Ducati invece entra nello stabilimento e inoltre

economicamente può realizzare l’acquisto di una moto: può

anche realizzare l’acquisto scegliendo la più economica Monster e

sentirsi pienamente parte della famiglia. Poco prima dello

stabilimento ci si ferma alla vera e propria area accoglienza: qui

è possibile usufruire dell’armadio, bisogna per regolamento

depositare borse e zaini e non è assolutamente consentito

scattare foto all’interno dello stabilimento. Prima di dare inizio

alla visita il visitatore risponde ad un questionario cartaceo a

risposta multipla nel quale si chiede se ha mai visitato un museo

prima, come ha conosciuto il museo Ducati, se ha una moto ed

eventualmente di che marca. Tale questionario serve a

conoscere meglio l’efficacia dei canali informativi come internet-

15 ibidem, o ivi, pag.

194

sul quale puntano molto- servizi turistici ed altro, ma serve

anche a sapere se i visitatori sono potenziali clienti oppure no.

Con la visita allo stabilimento si conoscono tutte le fasi della

lavorazione e si comincia proprio dalle lavorazioni meccaniche: in

questa area i materiali grezzi provenienti da fornitori esterni

vengono lavorati e rifiniti. I vari centri di lavoro, dotati di

computer a controllo numerico, eseguono le varie operazioni di

fresatura, tornitura e rettifica per permettere poi

l’accoppiamento con il resto dei componenti del motore. Segue la

zona Kaizen e montaggio motori: kaizen è una parola

giapponese e vuol dire “cambiamento” kai e “verso il meglio”

zen. Nel settore è una parola che identifica una nuova filosofia

produttiva i cui vantaggi sono la riduzione delle scorte, il

miglioramento della qualità e la maggiore reattività alle richieste

del mercato. Dopo il montaggio si effettua il rodaggio che è un

collaudo a freddo. I propulsori vengono testati in cinque cabine

dove un motore elettrico trascina il propulsore simulandone il

funzionamento. Si prosegue con l’assemblaggio veicoli: qui il

telaio si accoppia con il motore, e procedendo lungo la linea

azionata meccanicamente, i singoli componenti del veicolo

vengono aggiunti fino al completamento dello stesso. Infine c’è

la zona collaudo veicoli e spedizioni. Per il collaudo sono utilizzati

banchi a rulli che simulano il funzionamento su strada e sui

195

banchetti idraulici vengono controllati i valori di ammissibilità ed

i gas di scarico. Le moto, scese dalle linee di montaggio,

vengono controllate una ad una in modo da garantire massima

qualità. Vengono poi imballate e spedite in modo diverso a

seconda della distinzione ( in primo luogo Francia, GranBretagna,

Svizzera, California, Canada ), e del mezzo utilizzato. Durante la

mia visita allo stabilimento Ducati ho rivolto la mia attenzione

non soltanto alle parole della guida, ma anche ai volti di chi

lavorava. Esprimevano serenità e non hanno negato un sorriso a

noi visitatori curiosi. Il ritmo che scandisce le attività degli operai

è lento e attento, con cura si prendono i pezzi e si montano per

realizzare un prodotto finale che esprime qualcosa di

“artigianale” e di “manufatto”. Le moto Ducati, pur essendo

prodotte in serie, sembrano avere qualcosa di difficilmente

definibile che le contraddistingue da quelle degli altri marchi.

L’attenzione rivolta alle persone e alla qualità dei prodotti sono

caratteristiche dell’identità Ducati. Con attenzione intendo sia

quella nei confronti dei propri operai, che dei clienti, che infine

dei visitatori, specialmente se sono studenti come nel mio caso.

Quando ho visitato il museo Ducati al primo box di accoglienza,

essendo un visitatore singolo e per di più donna, mi hanno

chiesto la motivazione della mia visita: alla mia risposta è

seguito un loro caloroso:«Benvenuta. Si troverà bene oggi, qui,

196

da noi in Ducati ». Dopo la visita allo stabilimento si sale al

museo. Qui la prima cosa che colpisce è l’imponenza del

marchio, prima della sala centrale c’è una piccola vetrina con

prodotti radio ed elettrici che testimoniano la produzione che ha

realizzato Ducati prima di diventare un’azienda motociclistica.

Questa parte espositiva meriterebbe più spazio per poter

raccontare più approfonditamente l’origine dell’azienda. Un

museo non interagisce con il pubblico soltanto con l’esposizione

degli oggetti, ma anche con una serie di attività. Durante la

visita mi sono soffermata non solo sulla collezione, ma anche

sugli altri visitatori, che mi sembravano rapiti soprattutto dalle

caratteristiche tecniche delle moto e dal contatto con le moto dei

campioni, e infine sull’allestimento e, quindi, agli apparati

espositivi ed interpretativi. Secondo Negri è difficile stabilire una

linea di demarcazione tra questi due tipi di apparati poiché sono

due categorie che vengono a sovrapporsi. L’allestimento è il

disegno generale dell’esposizione e fornisce una determinata

interpretazione. Quest’ultima si focalizza sul rapporto diretto tra

l’oggetto e il visitatore. Il processo dell’interpretazione ha lo

scopo di liberare tutte le possibili storie che ogni oggetto esposto

contiene, e renderle comprensibili all’utente del museo.

L’interpretazione, pur comprendendola, è qualcosa di più della

semplice spiegazione di un oggetto, e richiama l’attenzione sulla

197

necessità di un approccio globale al processo espositivo in cui

siano presi in considerazione tutti gli elementi costitutivi

dell’esperienza museale dal punto di vista dell’utente. Il termine

interpretazione « è entrato da alcuni anni nel linguaggio museale

per indicare quell’insieme di operazioni che “traducono” i

significati di cui l’oggetto esposto è portatore in un linguaggio

comprensibile al visitatore»16. La pianificazione degli apparati

interpretativi, svolgendosi a ridosso dell’oggetto e riguardando i

suoi contenuti, compete al curatore; l’allestimento invece, che

scansiona gli spazi e la visone complessiva dell’ambiente

museale, compete l’architetto e talvolta anche un grafico o un

designer a seconda dell’impostazione che si vuol dare all’iter

progettuale. Va ribadito che tra queste due componenti, la

curatoriale e la gestionale, deve esserci un costante confronto

poiché il museo non è soltanto il prodotto del disegno

architettonico. Tra gli strumenti tecnici a disposizione del

programma di interpretazione ce ne sono alcuni statici come:

vetrine, supporti di vario tipo, pannelli con testi, disegni e

illustrazioni, stampe fotografiche, didascalie, fogli informativi e

altri dinamici come audiovisivi, dispositivi sonori, postazioni

informatiche, modelli in movimento. Questa distinzione oggi è

sempre meno netta poiché i diversi elementi hanno maggiore

16 M.Negri,op cit pag. 127

198

possibilità di integrazione. Nel museo Ducati le vetrine non

mancano, ma sono state utilizzate solo nelle stanze. La forma

esterna non presenta pericoli nemmeno per i visitatori più

piccoli, è facile vedere gli oggetti anche da diversi punti di vista,

ed è possibile leggere con faciltà i cartellini che ne riportano le

caratteristiche tecniche. Nella sala centrale invece non ci sono

vetrine e per ammirare le moto a 360° è necessario salire sulla

pedana infatti è possibile avvicinarsi anche molto alle moto,

scattare foto, ma è vietato salirci sopra. Alle spalle delle moto ci

sono pannelli che raccontano le vittorie conseguite, i quali sono

tradotti in inglese e presentano sequenze in corsivo per

evidenziare qualche data o qualche nome. Tali pannelli sono

poco funzionali alla lettura perché bisogna posizionarsi alle spalle

delle moto per leggere bene.

fig13. sala centrale Tuttavia le parole scritte su questi pannelli sembrano essere in

corsa con le moto lungo la pista virtuale; un senso di continuità

e coralità aleggia nel museo. La desmosedici collocata alla fine

della pista sembra rincorrere il “cucciolo” per conservare l’antica

199

tradizione Ducati e per farne un binomio unico con le nuove

tecnologie che, come nel gioco delle matrioscke russe,

conservano le prime e solo apparentemente piccole innovazioni.

L’illuminazione infine è di tipo artificiale e per la conservazione

delle moto è sufficiente un controllo generale due o tre volte

l’anno. La visita dura circa 90 minuti, è abbastanza impegnativa

anche dal punto di vista fisico, non ci sono soste e non è

ovviamente consigliabile allontanarsi dalla guida. Tuttavia per chi

vuole muoversi autonomamente, guidato dalla curiosità suscitata

da alcuni aspetti dell’esposizione piuttosto che dal bisogno di una

sequenza strutturata secondo le aspettative dei curatori, è

possibile trattenersi ancora nel museo anche dopo il congedo

della guida. Il bookshop infine è collocato prima dell’ingresso,

nonchè uscita, del museo. Ducati è anche una Fondazione no-

profit che progetta e sviluppa iniziative, attività pubbliche ed

eventi a carattere sociale, educativo e culturale attorno al mondo

della moto, grazie anche al contributo volontario di alcuni

dipendenti. Gli interessi primi di questa Fondazione sono: la

valorizzazione del patrimonio culturale, industriale, storico ed

artistico del motociclismo e della tecnica motoristica; iniziative di

carattere scientifico, tecnico, formativo, applicativo, culturale,

didattico e scolastico, nonché studi, corsi, seminari e

pubblicazioni; ogni forma e livello di sport, turismo,

200

intrattenimento aventi per fine quello di alimentare l’entusiasmo

e la passione per la motocicletta. Due i progetti messi già in atto

dalla Fondazione: la Fisica in Moto e la Scuola di Restauro Moto.

Il primo è un laboratorio didattico e di sperimentazione della

meccanica rivolto a studenti delle scuole medie superiori della

regione Emilia Romagna, e costituisce un esempio unico nel suo

genere, di ponte tra scuola-museo tecnologico-fabbrica. L’idea è

quella di sperimentare un laboratorio di meccanica presso la

fabbrica dove i ragazzi, guidati dai propri professori, possano

giocare con semplici macchine verificando alcuni principi appresi

a scuola per poi trasferirsi in linea a vedere, sotto la guida degli

operai, gli stessi principi applicati alla creazione del prodotto. La

Scuola di Restauro prevedi invece corsi sulla messa a punto,

montaggio, manutenzione e messa in strada di motocicli

d’epoca.

IV. 3 Dai radio-brevetti alle moto

Nel 1922 Adriano Ducati era un diciannovenne studente di fisica

che conduceva una serie di esperimenti sulla nascente scienza

della radio e sulle sue pratiche applicazioni. Il 15 gennaio era

201

riuscito, con le apparecchiature da lui costruite, a stabilire un

contatto radio con gli U.S.A dalla sua casa di Bologna: per

l’epoca era un fatto straordinario. Adriano, Bruno e Marcello

Cavalieri Ducati fondarono a Bologna nel luglio del 1926 la

“Società Scientifica Radio Brevetti Ducati”. Alla iniziale

produzione di condensatori e componenti elettronici fece seguito,

negli anni successivi, l’istituzione di un vasto settore di ricerche

per affiancare l’ottica e la meccanica all’elettronica, iniziando così

a produrre macchine fotografiche e lenti, oltre a registratori di

cassa e rasoi elettrici. Adriano era la mente tecnico-scientifica

dell’azienda, Bruno invece aveva assunto il ruolo di direttore

amministrativo e finanziario. Il 7 maggio 1934 in occasione del

I° congresso dei radiotecnici italiani tenutosi a Bologna,

Guglielmo Marconi volle visitare la “Società Scientifica Radio

Brevetti Ducati” e nel congedarsi lasciò in dono una fotografia

con dedica. Nel 1935, dato il veloce espandersi dell’azienda, fu

acquistato un terreno di 120.000 mq a Borgo Panigale. Il 1

giugno dello stesso anno alla presenza delle autorità cittadine

venne posata la prima pietra di quello che sarebbe divenuto

l’attuale stabilimento di via Cavalieri Ducati 3. La mentalità dei

fratelli Ducati era anche molto romantica e paternalistica:

l’azienda era per loro come un potente motore di benessere non

solo personale, ma anche collettivo, e credevano- in chiave

202

positivista- che essa potesse svilupparsi ulteriormente. L’azienda

si riteneva all’avanguardia tecnica e per mantenere tale livello si

era dotata di un importante centro di ricerche. Secondo tale

ottica enfatizzarono al massimo il concetto del dopolavoro

aziendale per cercare di dare a tutti un forte senso di

appartenenza. Intorno agli anni ’30 e ’40 si parlava di “stile

Ducati”, per indicare il modo di concepire la ditta da parte dei

fratelli Ducati. Tale stile prevedeva l’assistenza ai lavoratori e

molteplici attività di dopolavoro e di propaganda che finivano con

l’incontrare lo “spirito del regime fascista”, assimilato

dall’azienda bolognese e da quasi tutte le aziende di medie e

grandi dimensioni di quegli anni. Il dopolavoro aziendale fu

istituito nel 1932, e da allora andò crescendo in importanza e

numero di attività, mentre un grande valore veniva attribuito allo

sport. Tra le attività erano previste gite, conferenze, concerti e

spettacoli ricreativi. Esisteva una biblioteca con annessa una sala

di letture e due grandi mense. Nell’edificio riservato ai servizi

assistenziali c’era un asilo nido che ospitava i piccoli figli dei

dipendenti. Infine i fratelli Ducati avevano anche creato una

scuola tecnica per preparare i futuri dipendenti all’altezza delle

sempre più innovative attività dell’azienda. Lo “stile Ducati” era,

dunque, largamente integrato nel regime fascista; i Ducati,

beneficiati sul piano della pubblicità dal regime, non potevano

203

contravvenire alle direttive del Duce e durante il secondo

conflitto, come molte altre imprese italiane, dovette modificare

le proprie strategie industriali per stare al passo con le richieste

della produzione bellica. Ci furono molte commesse per le forze

armate e tutti i dipendenti furono dispensati dal servizio militare.

Dopo la liberazione del 25 aprile 1945 e la nascita dell’Italia

repubblicana questo filo fascismo della famiglia provocò

numerosi problemi, poiché i partigiani e le nuove forze politiche

diffidarono sempre dei Ducati. La fine della protezione dello

Stato provocò una serie di problemi economici alla famiglia che

comunque rimarrà sempre legata alla sua attività, anche nel

periodo dell’occupazione tedesca quando a costo della loro

stessa vita salvarono la fabbrica contro l’ordine del comando

supremo tedesco che imponeva di trasferire uomini e mezzi

dell’azienda in un apposito insediamento in Germania. Grazie al

coraggio dei propri operai riuscirono a trasferire di notte, in

magazzini segreti, per mezzo di camion, carri ed anche a mano,

molti macchinari e parte delle materie prime. Gli sforzi non

furono comunque premiati perché il 12 ottobre 1944 le

squadriglie di bombardieri alleati rasero al suolo gli stabilimenti.

Finita la guerra, come per tutte le altre industrie, anche sulla

Ducati vi furono indagini per verificare un’ipotetica

collaborazione con il nemico fascista. Dopo il processo per

204

collaborazionismo si arrivò alla prova ed alla dichiarazione della

piena e completa innocenza dei fratelli Ducati. Raffreddati gli

animi del dopoguerra la Ducati poteva riprendere la propria

attività in un’Italia distrutta, ma i tentativi di ricostruire l’azienda

furono frustrati anche da gravi problemi finanziari. Un aiuto

venne anche dal sindaco comunista di Bologna Giuseppe Dozza

che mise a disposizione dei fratelli Ducati 12 camion ricevuti in

dotazione dagli alleati per sgomberare tutte le macerie. In breve

tempo la fabbrica ricominciò a produrre e il 1945 fu l’anno del

“cucciolo”. Tuttavia negli anni seguenti non mancarono altri

problemi. Nel 1953 ci furono 900 licenziamenti e Ducati si divise

in due nuove società: Ducati Elettrotecnica e Ducati Meccanica.

Nel 1959 queste due società passarono in comodato alla

finanziaria Ernesto Breda che decise poi nel 1960 di cedere la

Ducati Elettrotecnica alla ditta francese C.S.F (Compagnia Sans

Fils). In questi anni aumentò il numero dei dipendenti, e nel

1966 la Ducati assorbì la Microfard divenendo Ducati

Elettrotecnica Microfard con sede a Bologna. Nel 1975 il gruppo

decide di disfarsi della Ducati che fu così affidata, dall’allora

Ministro delle Partecipazioni Statali Carlo Donat Cattin,

all’azienda Zanussi, che costruì a Borgo Panigale un nuovo

stabilimento per la costruzione di magneti e alternatori per moto.

Nel 1982 la Zanussi entrò a sua volta in crisi e fu rilevata dalla

205

svedese Electrolux che decise di disfarsi della Ducati Energia in

quanto ritenuta estranea al suo ciclo produttivo17. Nel 1984

nacquero due nuove società: Ducati Radiotelecomunicazioni

(settore apparecchi radio) e Ducati Energia ( settore

elettrotecnico). Sempre nel 1984 la Ducati Meccanica, per mano

dell’allora presidente dell’IRI Romano Prodi, fu venduta al gruppo

Cagiva Castiglioni di Varese, leader nel settore delle moto. La

Ducati Meccanica ritornò così alla sua vocazione originale dopo

che nel 1959, entrata a far parte del gruppo Breda, la

produzione dei motori per le motociclette era passata in secondo

piano rispetto alla realizzazione dei motori diesel e dei motori

marini. I fratelli Castiglioni decisero di riportare Ducati agli

antichi fasti e di produrre l’intera moto, carrozzeria compresa.

Nel 1970 l’industria delle due ruote andò in crisi poiché le più

confortevoli automobili erano maggiormente richieste dal

mercato. La Ducati tuttavia riuscì a difendere le proprie posizioni

sul mercato grazie anche ai motori diesel nella cui produzione

,come detto, si era andata specializzando. Negli anni ’90 le

Ducati tornarono a vincere dando così nuove soddisfazioni e

riscattando il grande e glorioso passato.

17 Dopo le difficoltà finanziarie la vendita da parte dell’Electrolux sembrò l’ultima e definitiva tragedia, ma non fu così. Un pool di brillanti industriali bolognesi rilevò la Ducati Energia che, grazie ad un accordo con la Bosch, divenne leader mondiale nel settore dei generatori e accensioni per moto. Dal luglio 1966 l’azienda ha ottenuto la certificazione di qualità CSQ secondo le norme europee UNI EN ISO 9001 e tra i clienti si annoverano nomi importanti a livello nazionale ed internazionale quali Ansaldo, Enel, Esso, Fina, Bosch, Siemens, Daewoo, Moulinex, Miele, Whirlpool.

206

Ducati sin dalla nascita ha avuto un logo:

fig14. il primo logo Questo è il primo, risale al 1927 ed è stato ripreso da un raro

documento di quegli anni. Raffigura due “esse” che si incrociano

sopra una saetta, simbolo dell’elettricità.

fig15. il logo negli anni '30 Negli anni ’30, in periodo fascista, il logo viene modificato

secondo lo stile grafico dell’epoca e rimarrà il simbolo ufficiale

fino a 1954, anno in cui l’azienda fu divisa per differenziare le

produzioni elettrotecniche da quelle motociclistiche e

meccaniche.

207

fig16. il primo logo con la cilindrata Nel 1949 l’azienda iniziò la produzione di motoveicoli completi e

divenne necessario indicare sul serbatoio della moto il nome del

produttore. Il simbolo SSR era troppo piccolo per essere visto e

così comparve la scritta “Ducati” insieme alla cilindrata della

moto. Lo stile di questo logo rimase inalterato fino al 1957.

fig17. due logo negli anni '50 Negli anni ’50 il genio Taglioni creò moto vincenti e Ducati

divenne famosa in tutto il mondo. Nacquero così i due emblemi

forse più conosciuti e amati da tutti gli appassionati. Il primo

simbolo raffigura una “D” affiancata da un serto di alloro, e

comparve appunto nel 1957 su tutte le moto di produzione e di

corsa; il secondo simbolo invece apparteneva alla sezione

“Meccanica” che produceva le moto ma veniva utilizzato su tutti i

208

tipi di materiale pubblicitario, gagliardetti inclusi. La scelta

stilistica di queste due marchi fu sicuramente felice, ma il loro

successo fu merito anche delle vittorie conseguite in quegli anni

e dal fatto che per la prima volta era possibile conoscere il luogo

di origine di queste motociclette.

fig18. l’aquilotto Ducati fig19. l'ala dello Scrambler Con gli anni ’60 arrivano le “ali”. Seguendo la tradizione di

marchi come Moto Guzzi comparve l’aquilotto sul serbatoio delle

moto. I primi esemplari si trovano sui piccoli ciclomotori e

scooter a 2 tempi, poi anche le 4 tempi utilizzeranno l’aquila

come simbolo. La seconda è l’ala nera con la scritta Ducati in

corsivo:divenne il simbolo del modello Scrambler, tanto che

ancora oggi è noto come l’ala dello scrambler, e delle moto dai

250 ai 450cc.

fig20. il primo logo di Giugiaro fig21. il logo Ducati in uso fino al 1985

209

Negli anni ’70 l’idea del nuovo simbolo fu affidato ad un grande

nome del design italiano di quel tempo, nonché disegnatore della

prima Volkswagen Golf: Giorgetto Giugiaro. La scritta è piatta e

la lettera “A” non è ancora squadrata. Non fu molto apprezzato e

fu necessario aggiornare il logo nel 1977 dandogli l’inconfondibile

sagoma che comparve in quegli anni anche sulle moto da corsa.

Quest’ultimo rimase in uso fino al 1985, anno in cui i fratelli

Castiglioni rilevata l’azienda decisero di modificare nuovamente il

logo per adattarlo allo stile delle moto di Varese.

fig22. il logo con i Cagiva Così negli anni ’80 ci fu il logo in stile Cagiva con l’elefantino che

resterà in uso fino al 1997.

fig23. l'attuale logo Ducati e il "chicco di caffè" Finalmente gli anni ’90, i giorni nostri e il nuovo simbolo.

Abbandonato l’arzigogolato stile Cagiva lo stile diviene razionale

210

per una scritta corsiva, affiancata da un simbolo circolare che

richiama la forma di una lettera “ D” stilizzata. Inizialmente gli

appassionati furono dubbiosi, ma poi tutto nel mondo cominciò a

richiamare il nuovo simbolo: tute, caschi, giornali di settore.

Questo marchio ha restituito alla Ducati un suo vero e proprio

stile come negli anni ’30. Infine l’iniziale difficoltà per cogliere la

“ D” stilizzata ha fatto ribattezzare amichevolmente il simbolo

come “ il chicco di caffè”!

211

V. La Galleria Ferrari.

V. 1 Entriamo a visitare la Galleria Ferrari Il nuovo shop, la confortevole caffetteria e due macchina da F1

adattate a simulatori a disposizione del pubblico, accolgono al

piano terra il visitatore-tifoso. « World Champion 1999-2000-

2001-2002-2003-2004 » sono le parole scritte su un parete nella

212

sala del piano terra, e di fronte a queste c’è la ricostruzione di un

box, pit-lane e pitwall.

fig. 24 ricostruzione di un box e particolare del pitwall.

Segue immediatamente dopo la fedele ricostruzione dell’ufficio di Enzo Ferrari18 in Via Trento Trieste e a Modena:

18 Il 29 gennaio 2003 si è costituita a Modena la Fondazione Casa Natale di Enzo Ferrari che ha come soci fondatori il Comune di Modena, la Provincia di Modena, la Camera di Commercio di Modena, l’Automobile Club d’Italia e la Ferrari S.p.A. Lo scopo principale della Fondazione è quello di realizzare un complesso museale, di circa seimila metri quadrati, che comprenda anche la casa in cui nacque Enzo Ferrari nel 1898 col fine di raccontare ai visitatori, con l’ausilio di supporti multimediali come immagini e filmati, la storia dell’uomo Ferrari, la sua giovinezza, la passione per le corse, il consolidamento della sua attività di costruttore, i rapporti umani che hanno significativamente segnato la sua vita e la sua attività. Il complesso museale prevede anche la costruzione di una Galleria espositiva che sarà costruita nell’area attualmente occupata da un capannone. L’intento è quello di comunicare la vocazione motoristica del territorio e la storia di due prestigiose case automobilistiche come Ferrari e Maserati. All’interno della Galleria ci sarà un’ampia sezione dedicata alle auto, un centro di documentazione in cui sarà fruibile un archivio informatico di fotografie e documenti storici, una sala cinematografica, uno spazio per mostre tematiche temporanee. Il Centro di documentazione avrà la funzione di raccolta, catalogazione e conservazione di materiale anche attraverso la costituzione di una biblioteca e di un archivio informatizzato nei quali sarà custodito il patrimonio documentale. Tale documentazione sarà costituita prevalentemente da volumi monografici, pubblicazioni periodiche specializzate, materiale fotografico, tesi di laurea, interviste, siti e risorse internet. La posa della prima pietra è prevista nell’aprile 2007, mentre l’inaugurazione del complesso per la primavera 2009. Il rapporto tra questo complesso e la Galleria Ferrari sarà di tipo complementare: opereranno in modo sinergico,si prevede addirittura l’emissione un ticket unico di ingresso che consentirà l’accesso ad entrambe le strutture, per valorizzare l’offerta turistica in tema di motori. Il presidente della Fondazione è Mauro Tedeschini, direttore di Quattroruote e il presidente onorario è l’ingegnere Piero Ferrari, vicepresidente della Ferrari.

213

fig. 25 studio Enzo Ferrari è chiuso in una vetrina e dall’esterno è possibile vedere coppe,

modellini di auto, cimeli della storia dell’azienda, il progetto per

la fabbrica di Maranello 19. Era il 16 novembre 1929 quando

Enzo Ferrari fondò la Scuderia Ferrari con lo scopo di far

partecipare alle competizioni automobilistiche i propri soci con

vetture Alfa Romeo. Tale attività agonistica continuò fino alla fine

del 1937 e all’inizio del 1938 Ferrari divenne Direttore dell’Alfa

Corse. Nel settembre 1939 si staccò dall’Alfa Romeo e fondò,

presso la vecchia sede della Scuderia, l’Auto Avio Costruzioni

Ferrari che aveva come principale attività la produzione di

rettificatrici oleodinamiche. Nonostante un impegno di non

concorrenza, che al momento del distacco dall’Alfa Romeo gli

precludeva per quattro anni la costruzione di automobili che

portassero il suo nome, l’azienda realizzò una vettura sportiva.

Era una spider 8, denominata 815, che partecipò alla Mille Miglia

del 1940. L’inizio della seconda guerra mondiale pose fine a ogni

19 Il primo insediamento Ferrari a Maranello risale al 1947 e l’edificio di ingresso è lo stesso di oggi.

214

attività sportiva. Alla fine del 1943 le officine furono trasferite da

Modena a Maranello, dove continuò la produzione delle

rettificatrici nonostante il bombardamento del 1944. Al termine

del conflitto ebbe inizio la progettazione e la costruzione della

prima vettura Ferrari; è la 125 Sport a 12 cilindri 20, ed è esposta

in questa parte della sala dedicata all’uomo Ferrari. Qualche

parola sulla nascita della 125: nel 1945 per i Gran Premi

automobilistici era in vigore una formula di gara basata sul peso

massimo delle vetture, esattamente kg. 750 a secco e senza

gomme. Questa formula consentiva la costruzione di veri e propri

“mostri” di eccezionale potenza come le Mercedes-Benz il cui

colore era quello dell’alluminio sverniciato poiché il geniale

direttore sportivo le aveva fatte raschiare per guadagnare anche

pochi chili di peso. Tuttavia questa formula era giunta al

massimo dello sfruttamento, e da molte parti, specie da parte

italiana, si chiedeva una nuova formula di gara che riportasse

l’accento più sulle soluzioni tecniche che sulla potenza bruta. Tra

coloro che più premevano in questa direzione c’era proprio Enzo

Ferrari, anche perché non era soddisfatto da una formula di gara

che era ormai dominata dalle macchine tedesche. « Colombo!

Voglio tornare a costruire automobili da corsa e non più delle

20 125ccx12 fa appunto 1500cc. La vettura fu, dunque, chiamata 125 per indicare la sua cilindrata ordinaria.

215

macchine utensili! Mi dica, come farebbe lei una millecinque?»21,

con queste parole Enzo Ferrari si rivolse al progettista Gioachino

Colombo per realizzare un nuovo motore. Colombo lesse nel

pensiero di Ferrari e propose una dodici cilindri che ai tempi

nessuno ancora aveva realizzato; seduto sotto un albero impostò

di getto il disegno della testata e continuò lo studio con un

tecnigrafo sistemato in camera da letto. L’esordio della 125 ebbe

luogo a Piacenza il giorno 11 maggio del 1947 pilotata da

Cortese, fu un «insuccesso promettente»22 come lo definì lo

stesso Ferrari, e dopo solo due settimane arrivò la prima vittoria

Ferrari al Gran Premio di Roma. Enzo Ferrari ha apposto la

seguente dedica sul testo di Colombo.

21 G.Colombo, Le origini del mito. Le memorie de progettista delle prime Ferrari, Sansoni, Firenze Roma, 1985, pag. 16 22 ivi. pag. 25

216

La 125 è stata infine anche la prima vettura che ebbe il marchio

del cavallino sul cofano, fu decisamente innovativa nella tecnica

e nel design ed armonizzò la prestazione sportiva con la grande

eleganza. Circa il cavallino rampante c’è una piccola storia da

raccontare. A Lugo Di Romagna23, un paese distante circa 35 km

da Bologna, il 9 maggio 1888 nacque il maggiore Francesco

23 A Lugo Di Romagna nacque anche l’ingegnere della Ducati Fabio Taglioni che intorno al 1956 chiese e ottenne di poter dipingere sulle moto il famoso cavallino. La prima moto con questo simbolo fu la 125 trialbero desmo, del 1956 appunto, che debuttò e vinse il Gran Premio di Svezia di quell’anno. Successivamente altre moto Ducati sfoggiarono il cavallino. Quando la direzione generale Ducati decise di ritirare per gli alti costi la squadra corse, sparì anche il cavallino dalle fiancate delle moto. Tra le rosse a due e a quattro ruote c’è un involontario trade union. Come ultima curiosità va detto che i cavallini adottati dalla Ferrari e dalla Ducati hanno la coda rivolta verso l’alto, mentre quello originale di Baracca aveva la coda rivolta verso il basso.

217

Baracca, un ufficiale di cavalleria che dopo lo scoppio del primo

conflitto mondiale decise di prendere il brevetto di pilota aereo.

Quando Baracca raggiunse la sua squadriglia, decise di

personalizzare il suo aeroplano dipingendo sulla fusoliera un

cavallo nero su una nuvola bianca.

fig. 26 F. Baracca con il suo aeroplano personalizzato Molti storici della prima guerra mondiale ritengono che Baracca

dipinse il cavallino non tanto per ricordare che era un ufficiale di

cavalleria, quanto per omaggiare il corpo di cavalleria alla quale

apparteneva, il 2° Piemonte Cavalleria. Infatti, lo stemma di

questa unità mostra un cavallino rampante argentato su campo

rosso.

fig. 27 lo stemma del 2° Piemonte Cavalleria a cui apparteneva F. Baracca

218

Nel 1923, cinque anni dopo la morte di Francesco Baracca, sua

madre, la contessa Paolina Biancoli, donò come portafortuna il

simbolo del figlio a Enzo Ferrari, che proprio nel 1923 corse il

Gran Premio di Lugo con la sua scuderia, allora equipaggiata da

vetture Alfa Romeo. A quell’epoca Ferrari non possedeva un

simbolo per la sua squadra, cosicché adottò il cavallino nero su

uno scudo giallo, sormontato da una striscia tricolore. Il colore

giallo rappresenta Modena, città natale di Ferrari. Il primo

dipendente della Ferrari, dunque, è stato lo stesso Enzo Ferrari.

Aveva la mentalità dello sperimentatore, del costruire pur

venendo dal niente, inoltre sapeva vendere, collocare, trovare

motivazioni finanziarie per ciò che aveva realizzato. E’ stato un

industriale che ha avuto il senso della partecipazione e del

legame, e proprio con le persone riusciva a far leva sulle

motivazioni profonde, intime, legate all’uomo e alle aspettative

personali. Ha avuto l’intelligenza di dare a ognuno uno stimolo,

una dimensione: insomma una propria collocazione. Nella sala

del piano terra sono esposte le automobili che hanno fatto la

storia della Ferrari sulle piste di tutto il mondo, dalla monoposto

con cui Froilan Gonzalez conquistò la prima vittoria nel

campionato del mondo del 1951 a Silverstone, fino alle ultime

auto plurivittoriose

219

fig. 28 M. Schumacher alla guida della F2004 di Michael Schumacher e Rubens Barrichello. Così la prima parte

della storia dell’azienda, strettamente legata al suo fondatore,

consegna il testimone a Luca Cordero di Montezemolo che,

continuando appunto il lavoro del fondatore e prendendo come

base i suoi principi come la continua innovazione e il coraggio di

affrontare le sfide apparentemente impossibili, ha saputo portare

la Ferrari a risultati mai conseguiti prima. Le monoposto

occupano una posizione di rilievo, dato che Ferrari è l’unico

costruttore che le produce autonomamente e inoltre le “rosse”

non hanno mai smesso di correre dal loro esordio nel 1947. Per

ogni auto c’è collocato di fianco un piccolo pannello di colore

rosso, con lo stemma del cavallino, sul quale è riportato il

modello, la cilindrata, la potenza massima e i giri realizzabili al

minuto. Altre auto esposte sono la 158 F1 pilotata da John

Surtees che vinse nella stagione 1963-1964; la f1 1989 pilotata

da Nigel Mansell; la Formula Indy del 1987 che non prese parte

ad alcuna competizione, ma rappresentò l’intenzione di Enzo

220

Ferrari di partecipare al campionato americano Indy 24.

L’esposizione della Galleria è dinamica e costantemente

rinnovata in alcune sue parti: ad esempio nell’autunno del 2005,

quando io ho visitato la Galleria, alla fine della sala del piano

terra su una sorta di tribuna c’era la mostra per Alberto Ascari, il

primo pilota che vinse un Campionato Mondiale con la Ferrari.

C’era la 815 Auto Avio Costruzioni, le monoposto 166 F2 e 500

F2, con cui Ascari vinse il titolo mondiale nel 1952 e nel 1953,

non mancavano i trofei più prestigiosi della sua carriera, alcuni

memorabilia quali il casco azzurro, gli occhiali, i guanti, la giacca

di pelle indossata durante la vittoriosa Mille Miglia. Attorno a

questa tribuna ci sono quattro rampe di scale che portano al

primo piano dedicato all’innovazione tecnologica, ossia alle

innovazioni tecniche e aerodinamiche trasferite dalle vetture di

F1 alle Granturismo. Tra le vetture esposte, di particolare

interesse sono la F50 (1995) e la 360 Modena (1999). Sono

esposti inoltre motori sperimentali,una rappresentazione della

Galleria del Vento con i modelli delle F1 utilizzati per gli studi

aerodinamici delle monoposto che hanno corso dal 1981 ad oggi,

nonché una selezione dei componenti che esemplificano il

trasferimento tecnologico dalle vetture di F1 alle vetture stradali.

Un altro pezzo rilevante di questa sala è la raccolta completa di

24 AA, VV, Turismo industriale in Italia,TCI, Milano, 2003, pag. 117

221

motori storici di F1 dal 1989 ad oggi e l’esposizione dei cambi di

velocità inventati da Ferrari nel 1989 e utilizzati oggi da tutte le

squadre. Un piccolo passo indietro, per chiederci che cos’è quel

“vento di Ferrari”? Cos’è la Galleria del Vento? Nel 1996

l’architetto Renzo Piano con la collaborazione del filosofo

Gianfranco Dioguardi, vinse il concorso per il progetto per la

Galleria del Vento. La gara era stata indetta dallo stesso Luca di

Montezemolo, consapevole che i quasi vent’anni di insuccesso

sportivo dovevano dipendere da una cronica carenza in campo

aerodinamico delle vetture di casa Ferrari. Diventava così

imprescindibile la costruzione di un nuovo impianto di ricerca

superiore a quelli della concorrenza. Montezemolo, in occasione

dell’inaugurazione del complesso disse: « …è la prima tessera di

una cittadella tecnologica che sorgerà a Maranello »25. Una

analisi, seppur breve, di questa galleria deve necessariamente

svilupparsi su due piani interpretativi: uno estetico -

ingegneristico, l’altro estetico - semantico. La pianura padana

storicamente è sempre stata palcoscenico di opere

ingegneristiche, talvolta suggerite solo dalla necessità, come i

grandi depositi per la raccolta di fieno o i caselli per la

stagionatura del grana, autentici gioielli di fisica ambientale, altre

invece sono nate in seguito ad una analisi progettuale come i

25 www.age.it

222

grandi ponti sul fiume Po, le opere di bonifica e di controllo delle

acque. Comune denominatore di tutta questa produzione era ed

è l’ostentata messa in scena delle forme, così che la valle del Po

si presenta come la terra dell’impatto ambientale e della

razionalità dell’uomo. Renzo Piano non ha abbandonato questa

tradizione padana, e nella Galleria del Vento ha esaltato la

tecnologia della stessa rendendola manifesta e visibile nel verde

della campagna.

fig. 29 esterno della Galleria del Vento Si presenta come un enorme tubo, rivestito di alluminio satinato,

che poggia su di una collina per creare un effetto ancora più

spettacolare; è lunga 80 metri e larga 70. L’ascensore interno è

in grado di trasportare una vettura intera per le prove in scala

1:1 e il flusso d’aria, sparato tramite un condotto verso la sala

prove, è generato da un ventilatore a otto pale del diametro di

cinque metri. L’Italia, grazie a Modena, possiede oggi il più

moderno e avveniristico impianto di ricerca aerodinamica al

mondo: non esiste nulla di simile in Giappone né in Europa,

mentre in America la General Motors si appresta ora a costruirne

uno simile a quello di Maranello. Dal punto di vista estetico-

223

semantico la galleria trascende, pur facendovi chiaro riferimento,

sia il cubismo, perché supera ogni descrizione tradizionale delle

cose e indaga le strutture aggiungendo a ciò che l’occhio

percepisce ciò che la mente intuisce, che il futurismo, «perché

non è …più un momento fermato del dinamismo universale…ma

decisamente la sensazione dinamica eternata come tale »26. La

Galleria del Vento, dunque, non nasce da una statica visione

prospettica dell’insieme, ma dalla dinamicità dei punti di vista.

Ritorniamo nella sala: c’è una sorta di grande occhio dal quale è

possibile vedere la scuderia del piano inferiore. Da questa sala,

che è direttamente sopra l’ingresso, si accede alla nuova sala

espositiva che comprende una grande vetrina con una serie di

volanti Ferrari che vanno da quelli in legno anni ’50 fino a quelli

attuali simili ad un computer al servizio del pilota. Qui è

finalmente possibile sedersi: ci sono divanetti rigorosamente

rossi. A questa nuova sala è annessa una seconda destinata a

mostre fotografiche o a proiezioni sui più bei film sulla Ferrari27 e

l’anfiteatro, il cui spazio è fortemente scenografico, che ospita

esposizioni a tema che vengono rinnovate ogni 6-8 mesi.

26 ibidem 27 Ai tempi della mia visita in questa sala proiettavano un lungometraggio sui momenti più emozionanti delle corse di Ascari.

224

fig. 29 parte dell’anfiteatro con la mostra sui 12 cilindri Nel 2002, in occasione del cinquantesimo anniversario della

produzione della 250MM, considerata una pietra miliare per la

casa di Maranello e primo modello della 250GT, la mostra è stata

dedicata a questa serie di vetture di grande rilievo storico,

stilistico e agonistico. Quando ho visitato la Galleria Ferrari

l’anfiteatro ospitava la mostra sui motori 12 cilindri. Scendendo

le scale si conclude la visita ritornando nell’area di ingresso.

Devo dire che alla fine della visita la stanchezza si fa sentire. Si

sale, si scende, si gira tra le auto, la temperatura inoltre, escluso

l’anfiteatro, è fin troppo alta. Il pubblico, merito anche

dell’architetto Massimo Iosa Ghini che ha pensato una struttura

fluida, leggera e dinamica, è libero di muoversi come vuole, di

soffermarsi quanto vuole e di ritornare su ciò che più gli è

piaciuto. Tuttavia a mio avviso c’è un limite: ”stordisce” sul piano

della comprensione del percorso. Sarebbe interessante, alla fine

della visita, chiedere ai visitatori di parlare di quello che hanno

visto; io credo che non si colga con chiarezza l’organizzazione

225

della Galleria. Credo insomma che l’apparato didattico sia esile:

niente ad esempio racconta la storia della 125, e se sono indicate

le caratteristiche per le singole auto, manca però un filo per

unificare tutto il racconto. Sull’anfiteatro, ad esempio, si

potrebbe scrivere un pannello per raccontare che è stato annesso

dal 2004 e che ospita mostre a tema, allo stesso modo per la

sala delle proiezioni, anche poche parole per introdurre

l’argomento dei filmati e per associare qualche parola alle

immagini.

V. 2 Ferrari e poi

La Galleria Ferrari è stata inaugurata nel febbraio del 1990 e fino

al 1995 è stata gestita dal Comune di Maranello che è anche

proprietario dell’immobile. Dal 1995, pur rimanendo di proprietà

del Comune, è gestita direttamente dall’azienda che l’ha resa il

luogo dove passato, presente, futuro, si fondono restituendo al

visitatore il fascino intatto del mito e della storia. Ad ottobre

2004 è stata inaugurata una nuova ala della Galleria (quella che

attualmente comprende l’anfiteatro) che ha portato la superficie

totale dai precedenti 1700 mq agli attuali 2500mq rendendo

possibile l’attuale divisione nelle quattro aree sopra descritte: la

226

sezione dedicata a Enzo Ferrari, con qualche auto storica, e al

mito creato dal fondatore; poi le monoposto di Formula Uno che

testimoniano i successi sportivi e commerciali ottenuti dal

presidente Luca Cordero di Montezemolo; infine l’innovazione

tecnologica e le mostre a tema. L’organizzazione dello spazio

espositivo rispecchia lo spirito dell’azienda: progredire,

migliorarsi e affrontare nuove sfide, consapevoli che la vettura

migliore è quella che deve essere ancora costruita, come

sosteneva Enzo Ferrari. La Galleria è aperta tutti i giorni dalle

9:30 alle 18:00, l’ingresso è a pagamento e costa € 12 come

biglietto intero, € 8 per i bambini da 6-10 anni,e €10 per i soci

Ferrari Club,studenti e over 65. Su richiesta e a pagamento è

possibile chiedere la visita guidata in inglese, francese, tedesco,

spagnolo. E’ situata a trecento metri dallo stabilimento Ferrari e

dalla pista di Fiorano che appartiene alla Ferrari ed è utilizzata

per testare le monoposto. L’impegno costante della Galleria, che

esercita un richiamo su circa 180.000 appassionati ogni anno e

alimenta il flusso turistico e il beneficio del territorio, è quello di

offrire una risposta sempre più completa alle aspettative del

proprio pubblico, attraverso un allestimento dinamico e curato,

con la creazione di nuovi servizi e la concretizzazione di idee

originali. Nell’arco dell’anno l’esposizione viene continuamente

aggiornata, attraverso la rotazione dei modelli che sono

227

patrimonio della Galleria e attingendo anche dalle collezioni

private, anche estere, per l’allestimento di mostre a tema

temporanee. Inoltre la visita in Galleria non è importante

esclusivamente per conoscere la storia dell’azienda, ma anche

per ripercorrere le tappe fondamentali dello sviluppo

dell’industria automobilistica per la quale Ferrari, nei suoi 58 anni

di attività, ha contribuito in maniera significativa in termini di

innovazione tecnologica, sicurezza e affidabilità. A Maranello

Ferrari è profondo motivo di orgoglio per tutti; gli uomini in rosso

camminano per strada, bandiere rosse ovunque, bar che si

chiamano pit stop in cui anche il barista, mentre ti prepara il

caffè, ti racconta con piacere quello che lui conosce della Ferrari.

Anche durante questa visita ho prestato attenzione ai visitatori e,

oltre ad essere l’unica italiana, mi sono accorta che nessuno,

come al Museo Ducati, era annoiato: forse per la tipologia

dell’oggetto esposto, forse perché i tradizionali lunghi pannelli da

leggere sono quasi assenti e visivamente è più piacevole vedere

foto, monitor con immagini oppure leggere breve cartellini con le

caratteristiche tecniche delle auto. Sono sicuramente visitatori

che palpitano per un rapporto empatico con la “rossa”, e si

curano meno della storia che c’è dietro. Il visitatore medio infatti

visita la Galleria perché il marchio è sinonimo di Gp e di vittoria,

e la storia che ha permesso all’azienda di affermarsi negli anni

228

non gioca sempre il ruolo di protagonista. Gianni Cicali, in un

articolo dal titolo L’oggetto fa il museo. La Galleria Ferrari a

Maranello, pubblicato il 07/01/2005 sul sito

www.drammaturgia.it, scrive che oggi ci sono musei, privi di una

struttura architettonica eclatante o geniale, che sono fatti dagli

oggetti esposti. E’ questo il caso della Galleria, che espone

meravigliose automobili che «associano la potenza, l’aggressività

a una gentile eleganza mai stucchevole, spia di un’origine

“agraria” che quasi coincide con il mito della velocità proposto

dai futuristi»28. Le Ferrari sono oggetti in cui le esigenze

strutturali e funzionali riescono a coniugarsi con un fine di

bellezza esteriore e tuttavia non suscitano mai invidia ma

ammirazione. « La Ferrari e le Ferrari sono eccezionali perché ci

lavorano persone eccezionali » queste sono le parole del

presidente Montezemolo in concomitanza della presentazione

della F2002, e in una intervista rilasciata il 7 febbraio 2003 a

Giancarlo Gioielli per Excalibur, il programma di Rai2, ha ribadito

che la capacità di lavoro, la creatività e l’ingegno sono le

maggiori risorse del popolo italiano. I successi Ferrari sono,

dunque, merito anche della strategia di Montezemolo, che ha

preso vita nel gennaio del 1992, e che è consistita nella radicale

riorganizzazione strutturale dell’azienda, assegnando precise

28 www.drammaturgia.it; G.Cicali, L’oggetto fa il museo. La Galleria Ferrari a Maranello, pubblicato il 7/01/2005

229

responsabilità e razionalizzando le mansioni di tutti i

collaboratori. Nel 1993 cominciò il profondo rinnovamento

organizzativo basato sul modello importato della lean production,

la cosiddetta produzione snella che consentiva di ridurre le scorte

e di creare le condizioni per la valorizzazione delle risorse

umane. Al centro di tutto il processo Montezemolo pone l’uomo,

insostituibile bagaglio di conoscenza, affinché siano pienamente

sfruttati i vantaggi dell’integrazione della tecnologia con il

sistema azienda. Ciascun componente della squadra formata da

Montezemolo deve godere di un adeguato spazio decisionale e

operativo, anche se il suo punto di riferimento è il gruppo, il

gioco di squadra. La “cura” imposta da Montezemolo mira a

definire in modo capillare la nuova politica aziendale, i cui

obiettivi sono legati alla qualità, all’attenzione per i dettagli, allo

spirito e all’armonia del team, al miglioramento continuativo.

Montezemolo volle conferire piena visibilità all’esterno di tutto il

lavoro svolto con successo assieme ai suoi validi collaboratori e

così nel 1996 il sistema qualità della Ferrari ottenne la

certificazione in conformità alla norma ISO 9002 29. Nel 1997

Montezemolo inaugurò il progetto in più fasi denominato Formula

Uomo, atto a rinnovare gli stabilimenti Ferrari per realizzare un

ambiente di lavoro in grado di porre i dipendenti nelle migliori

29 Nel 2001 la certificazione ISO incluse le attività di progettazione e la produzione di auto da corsa.

230

condizioni operative. L’obiettivo era quello di costruire un vero e

proprio Villaggio Ferrari nel quale ogni elemento fosse concepito

per rafforzare, anche architettonicamente, il rapporto tra attività

e risultato, all’interno del quale l’uomo fosse sempre al centro del

processo e attorno al quale far ruotare tutto il rinnovamento

strutturale. La prima tappa di questo percorso è stata la Galleria

del Vento, la seconda fase ha visto la costruzione di una nuova

officina meccanica e la realizzazione di una nuova logistica per la

movimentazione delle auto e delle attrezzature per la Formula 1.

Da sottolineare la costante attenzione rivolta agli aspetti

ambientali, alla sicurezza e al comfort dei luoghi di lavoro, molto

curati grazie all’integrazione dei fabbricati industriali realizzati

con la bioarchitettura. Le parole di Montezemolo al riguardo sono

sempre eloquenti «Per costruire prodotti eccezionali c’è bisogno

di persone eccezionali che siano messi in grado di operare in un

ambiente di lavoro eccellente. Questo accade in Ferrari, dove

tutti lavorano come parte dello stesso team e dove cultura e

tradizione si fondono con il futuro e con l’innovazione; questo è

ciò che rende la Ferrari una delle aziende più prestigiose del

mondo»30. Infine nel 1999 al progetto Formula Uomo si è

affiancato il progetto Formula Benessere per consentire a tutti i

dipendenti di sottoporsi gratuitamente a visite medico-sportive e

30 stajano.deis.unibo.it; pagg. 5-6

231

di frequentare centri fitness per praticare attività fisica. Il credo

di Montezemolo è presto riassunto in quattro aspetti

fondamentali: la creatività, l’innovazione, lo sguardo aperto sul

mondo in cui viviamo e l’umiltà necessaria per imparare

qualcosa. Tutto accompagnato dalla consapevolezza che il

successo non è mai opera di un solo uomo, ma dei suoi

collaboratori e di una perfetta organizzazione di lavoro.

Montezemolo ha conservato l’eredità di Enzo Ferrari, ma senza

lasciarsi opprimere da un passato così ingombrante lo ha

“tradito” nel senso che è andato oltre e ha superato i suoi

modelli organizzativi e soprattutto quei modelli di leadership.

Anche queste scelte hanno contribuito alla longevità dell’azienda.

La Ferrari ha superato crisi anche gravi, ma soprattutto è

sopravvissuta al suo fondatore. Il modello di Enzo Ferrari, detto

modello “drake”, non avrebbe consentito di superare la crisi dei

quaranta anni. Paul Sange afferma che « non è più possibile

calcolare dall’alto e obbligare tutti ad eseguire gli ordini di un

grande stratega. In futuro le organizzazioni che riusciranno

effettivamente ad eccellere saranno quelle che avranno scoperto

come utilizzare l’impegno dei singoli e la capacità di apprendere

a tutti i loro livelli »31. Il drake era uno stile fatto di gesti e di

parole, destinati a restare per sempre impressi nelle menti di chi

31 ivi. pag. 18

232

lo ha conosciuto e dei dipendenti della Ferrari. Montezemolo è

invece un uomo carismatico, intelligente e coinvolgente, in grado

di fare gruppo e di tenere alto il morale della sua squadra di

fidati collaboratori anche nei momenti più difficili. Ha saputo

creare una squadra perfetta e, come lui stesso ha dichiarato

all’inizio della stagione 2002, squadra vincente non si cambia.

Aveva dunque ben ragione Schumpeter quando osservava che «

ogni impresa che continui a essere semplicemente gestita e

amministrata, sia pure con la massima competenza, se non si

trasforma continuamente e non si adatta a nuovi compiti e a

nuove situazioni, perde col tempo qualsiasi significato e alla fine

è destinata scomparire »32, e così colui che introduce

innovazione si chiama imprenditore, ed è ancora Schumpeter a

proporre una distinzione chiarificatrice, « ma è particolarmente

importante distinguere l’imprenditore dall’«inventore». Molti

inventori sono diventati imprenditori e la relativa frequenza del

caso è senza dubbio un argomento d’indagine interessante, ma

non c’è alcun nesso tra le due funzioni. L’inventore produce idee,

l’imprenditore fa fare cose »33. Infine scrive sempre Schumpeter

« l’imprenditorialità, quale è definita, consiste essenzialmente nel

fare cose che non sono generalmente fatte nella normale routine

32 cit in G.Dioguardi, La natura dell’impresa fra organizzazione e cultura, Laterza, Bari, 1996, pag. 15 33 ibidem

233

economica, essa individua un fenomeno che cade sotto il più

ampio aspetto della leadership. Ma questa relazione tra

imprenditorialità e leadership generale è molto complessa e

provoca non pochi malintesi »34. L’imprenditore sviluppa il

processo di produzione come effetto di un fenomeno di

coordinamento dei fattori produttivi, organizzandolo sulla base

della divisione del lavoro. Tutto ciò implica il concetto di «

organizzazione »35 che diviene fondamentale per attuare in

pratica la concezione di impresa particolarmente quando questa

si sviluppa ingrandendosi. Tale organizzazione si manifesta come

conoscenza destinata a trasformarsi in cultura di impresa. Credo,

dunque, che Ferrari sia un’azienda con una “straordinaria vetrina

di F1”, un’azienda di fama mondiale, che è anche e soprattutto

un modello di organizzazione per le altre aziende italiane e

straniere. Infine, ma non meno importante, credo che sia

un’azienda consapevole del patrimonio di cui è portatrice, tanto

da sottrarlo all’oblio e da valorizzarlo in una Galleria che esalta “

l’evoluzione della specie “ dalle prime alle attuali vetture, e i podi

riconquistati dopo anni di sconfitte. Il patrimonio comprende

anche le storie di uomini che trasmettono valori e suggeriscono

modelli di azione in maniera molto persuasiva. Non a caso una

parola che lega spesso in binomio con Ferrari è mito: la

34 ibidem 35 ivi. pag. 23

234

mitologia, diceva Platone (Repubblica, 392a) è il «racconto

intorno a dèi, essere divini, eroi e discese nell’aldilà»36. Da

questo punto di vista i miti potrebbero essere proprio le storie di

cui le organizzazioni sono spesso intessute e che, se non parlano

di dèi, spesso narrano di uomini e delle loro imprese. Le storie

possono agire nel senso che comunicano presupposti o valori che

arricchiscono ciò che i partecipanti vedono, credono e pensano.

VI. Museo Lamborghini

36 B. Bolognini, Il mito come espressione dei valori organizzativi e come fattore strutturale, sta in, P. Gagliardi, Le imprese come culture, ISEDI, Torino, 1995, pag. 86.

235

fig. 30 ingresso

VI. 1 Il museo della casa del toro Fra Bologna e Modena, in quel minuscolo triangolo della pianura padana giustamente definito “Terra dei motori” 37, affacciato

sulla Via Modena come un vero e proprio biglietto da visita del

nuovo stabilimento della casa del toro a Sant’Agata Bolognese, il

Museo Lamborghini è la concreta testimonianza della grande

tradizione di questo marchio. Predisposto su due piani a vista,

avvolto da una grande superficie vetrata, lascia intravedere ciò

che vi è esposto sin dalla strada. Il museo collocato all’interno

37 www.lamborghini.com/museo

236

degli stabilimenti Lamborghini, espone a rotazione le automobili

che testimoniano le diverse stagioni che l’azienda ha vissuto

dagli anni sessanta ad oggi. Una storia che è illustrata anche da

numerose fotografie, pannelli e modellini provenienti da tutto il

mondo.

fig. 31 piano terra modellini delle auto prodotte

Al piano terra, infatti, una lunga sfilata di fotografie - aperta dal

profilo di Ferruccio Lamborghini - riassume al visitatore le fasi

più significative dell’azienda.

237

fig. 32 pannello con foto Ferruccio Lamborghini ( Renazzo di Cento, 28 aprile 1916 –

Perugia, 20 febbraio 1993 ), nato sotto il segno del toro 38, abile

e impetuoso è stato il vero protagonista della nascita

dell’azienda, delle sue fasi iniziali e della suo straordinario

successo. La sua passione per i motori e per le macchine lo portò

a Bologna per studiare ingegneria meccanica. Durante la seconda

guerra mondiale trovò l’opportunità di sperimentare le sue doti

meccaniche come tecnico riparatore presso l’Aeronautica Militare

Italiana. Negli anni quaranta la crescente domanda di trattori da

parte del mercato italiano spinse Ferruccio, vista l’esperienza

acquisita nelle riparazioni, ad intraprendere la carriera di

38 L’origine del logo aziendale con il toro in atto di caricare, che allude alla caratteristica aggressività delle vetture, è legata alla data di nascita di Ferruccio Lamborghini. Nel calendario zodiacale infatti il 28 aprile cade sotto questo segno. La storia imprenditoriale ed umana di Ferruccio è più ampiamente raccontata nel Museo “F. Lamborghini” situato a Dosso, in provincia di Ferrara, all’interno dell’omonimo centro polifunzionale. I materiali, foto, recensioni giornalistiche, modelli della produzione industriale, sono stati raccolti dal figlio Tonino per documentare l’esperienza paterna. Il museo è una testimonianza dell’influenza che il nome Lamborghini ha avuto e ha nel panorama industriale “made in Italy”.

238

imprenditore nella produzione di questi ultimi: comprava veicoli

militari avanzati dalla guerra e li trasformava in macchine

agricole. Nel 1948 a Pieve di Cento nacque la Lamborghini

trattori; soltanto tre anni dopo la guerra, questa azienda era

capace di progettare e costruire da sola i suoi trattori e già nel

corso degli anni cinquanta e sessanta divenne una delle più

importanti aziende costruttrici di macchine agricole in Italia.

Seguì la produzione di bruciatori a nafta e di condizionatori, fin

quando nel 1959 la passione e la competenza tecnica del

fondatore del nuovo marchio si spinsero fino a concepire la

produzione di elicotteri. Il governo però non concesse

l’autorizzazione a tale attività e Lamborghini ripiegò sulla

produzione di vetture sportive. La leggenda racconta che l’idea di

produrre macchine sportive maturò dopo una discussione con

Enzo Ferrari. Lamborghini si presentò a Ferrari, che come faceva

di consueto con i propri visitatori lo fece aspettare in sala

d’attesa per ore ed ore, per lamentarsi del funzionamento del

cambio sulla sua Ferrari appena acquistata e per dare consigli su

come migliorarlo. Le parole di risposta di Enzo Ferrari sarebbero

state « Tu continua a costruire trattori e a me lascia costruire le

mie macchine sportive »39. Ufficialmente la storia della

“Lamborghini Automobili” inizia nel 1963. Quando decise di

39 it.wikipedia.it

239

impegnarsi nella costruzione di automobili sportive di lusso

Ferruccio era un uomo molto ricco, la fabbrica di trattori e le

altre attività gli avevano permesso di raggiungere il successo

economico al momento giusto, e prima di raggiungere la soglia

dei cinquant’anni. All’inizio degli anni sessanta, quindi,

Lamborghini era un uomo di successo, forte e dalle idee chiare,

ma quando disse che avrebbe fabbricato un’automobile

supersportiva con cui fare concorrenza alla Ferrari, molti

pensarono che fosse impazzito. Costruire un’auto del genere era

vista come un’inspiegabile stravaganza, un pericoloso tuffo nel

buio, qualcosa che avrebbe mangiato denaro senza restituire

alcun profitto. In realtà Lamborghini aveva già fatto i suoi conti,

e come sempre, li aveva fatti molto bene: « aveva smontato le

sue automobili di prestigio, quelle che aveva acquistato per suo

uso personale e aveva scoperto che alcuni dei pezzi di ricambio

di queste auto erano esattamente quelli che lui utilizzava nei suoi

trattori, ma una volta montati su quelle auto costavano il triplo:

il ricarico dei fabbricanti era evidentemente enorme »40, « se

l’uomo Ferruccio poteva essere puntiglioso al punto di litigare

con Ferrari, l’industriale Lamborghini pensava già a enormi

margini di guadagno, a ciò che si poteva realizzare con questa

40 S.Pasini, The collection, Editrice Compositori, Bologna, 2003, pag. 8

240

impresa, al di là del puro e semplice prestigio »41. Messosi a

lavorare al progetto, alla fine del 1962 acquistò un grande

terreno a Sant’Agata Bolognese, a circa 25Km dal capoluogo

emiliano, per costruire ex novo una grande e modernissima

fabbrica. Nel maggio del 1963 costituiva la società “Automobili

Ferruccio Lamborghini”. Il primo modello nacque con tutta la

fretta del caso, dal momento che solo pochi mesi separavano la

decisione di costruire la fabbrica e la data fissata per la sua

presentazione ufficiale. L’appuntamento scelto era quello,

tradizionale all’epoca, del Salone dell’Automobile di Torino, in

programma all’inizio del mese di novembre del 1963. Avendo

Lamborghini idee molto chiare potè evitare di perdere tempo nel

cercare gli uomini giusti: affidò il motore a Giotto Bizzarrini che

aveva firmato alcuni degli ultimi motori della Ferrari, mentre per

il resto della vettura e per l’avviamento della produzione assunse

due giovani ingegneri molto promettenti: Gianpaolo Dallara e

Gianpaolo Stanzani. All’epoca avevano cinquant’anni in due, ma

erano bravi, appassionati e con un feeling istintivo per « le auto

di razza »42. Il tempo era poco ma l’impegno fu notevole e così la

350 Gtv, quando venne presentata, era già un capolavoro,

soprattutto per la parte meccanica. Risultò meno indovinata la

carrozzeria disegnata da Franco Scaglione: l’incredibile muso

41 ibidem 42 ivi, pag. 10

241

puntuto, il lunghissimo lunotto posteriore caratteristico della

matita dello stilista riduceva l’apertura del cofano del bagagliaio,

fig. 33 la 350gtv è esposta all’ingresso del museo mentre era evidente un trattamento complessivo delle superfici

e dei dettagli degno più di un prototipo da salone che di

un’automobile da mettere in produzione. L’arrivo della

Lamborghini in un mercato ristretto ma assolutamente

concorrenziale, fino ad allora diviso fra Ferrari, Maserati, Jaguar

e pochissimi altri, generò un certo clamore. La prima mossa del

nostro appena ebbe capito che le reazioni alla carrozzeria di

Scaglione erano state piuttosto fredde, fu di affidare una

completa revisione di questo disegno, per renderlo più appetibile

al pubblico, alla celebre carrozzeria Touring di Milano. Le

modifiche apportate da Felice Bianchi Anderloni al disegno

originale crearono una linea che è diventata un classico; era nata

la 350gt di cui il Museo Lamborghini conserva un esemplare

242

perfetto. Ai tempi tuttavia non molti avevano il coraggio di

abbandonare le marche più conosciute e affermate come Ferrari

o Maserati, ma alcuni giornalisti apprezzarono subito la nuova

auto, ed espressero senza troppe incertezze il loro entusiasmo.

Henry Manney III, uno dei migliori giornalisti americani, sulla

rivista “Care” del luglio 1965 scrisse che « questa automobile

avrebbe fatto venire mal di testa alla Ferrari »43 e che « la

Lamborghini è l’automobile sportiva più desiderabile che io abbia

mai guidato »44. Complimenti non di poco conto, considerato che

Manney all’epoca era corrispondente di numerosi e prestigiosi

giornali americani e inglesi, era cliente Ferrari e possedeva una

250 gto. Nel 1965 arrivò il primo vero capolavoro Lamborghini,

sinuosa, arrogante, alta 105 cm dal suolo, al punto che entrare e

uscire era quasi un esercizio ginnico, disegnata da Marcello

Gandino, realizzata dalla carrozzeria Bertone: è la Miura, ed è

43 ivi ,pag. 14 44 ibidem

243

ovviamente esposta al piano inferiore del museo. Il nostro non

fig. 34 miura

volle mai rivelare che cosa gli avesse suggerito l’analogia con

questa razza straordinaria e fortissima di tori, che è un mito della

tauromachia spagnola. Ma a lui, nato - come abbiamo appena

ricordato - sotto il segno del toro e che da questo segno aveva

ricavato l’orgoglioso blasone di tutte le sue attività industriali,

chiamare un’automobile con il nome di un esemplare da

combattimento doveva venire naturale. Quello che può

sorprendere è che, considerando il nome per la sua prima

automobile di grande impatto mondiale, egli ne scegliesse

istintivamente uno particolarmente indicato. I Miura, secondo gli

intenditori, sono i tori più forti, ma soprattutto i più intelligenti e

cattivi, fra tutti i tori da combattimento. La Miura fu presentata

al Salone di Ginevra nel 1966 e, malgrado il lavoro frenetico e

244

punteggiato da intoppi, « per quell’incrocio di forze positive che

ogni tanto benedice il lavoro degli uomini e lo eleva a un livello

superiore a quello della routine di tutti i giorni, tutto andò per il

verso giusto »45. A Ginevra la Miura fu la regina incontrastata del

Salone, e gli ordini iniziarono immediatamente a piovere sulla

scrivania di Ferruccio. Il 1967 fu l’anno di messa in produzione

del modello, diventato rapidamente un simbolo della voglia di

vivere e della libertà di viaggiare che caratterizzava quel

momento. Con i suoi 230 km all’ora era l’auto perfetta per quelle

autostrade appena costruite, diritte, vuote e prive di limiti di

velocità. In quegli anni esplose anche la moda della minigonna, e

la Miura con la sua personalità esplosiva e carnale si

accompagnava perfettamente a quella rivoluzione nel modo di

vestire e di pensare, diventando così parte di un’epoca come i

suoi colori senza pari. Il 16 febbraio 1968 ci fu la presentazione

ufficiale alla stampa della Jslero. Era una auto del tutto degna del

prestigioso marchio, con un interno sempre più confortevole e

rifinito. Tuttavia la clientela Lamborghini era abituata agli eccessi

stilistici della Miura, e così le vendite della Jslero risultarono

relativamente modeste. Diverso successo ottenne, sempre nel

1968, la Espada: una strabiliante automobile a due porte, con

motore anteriore e con quattro veri posti comodi. La formula

45 ivi, pag. 21

245

della Espada era decisamente convincente e gli ordini arrivarono

cospicui. Figlie degli anni settanta furono i modelli Jarama e

Urraco. Nel 1971 la Lamborghini era all’apice del successo. In

meno di otto anni Ferruccio aveva raggiunto il suo scopo: creare

una fabbrica di automobili non solo conosciuta in tutto il mondo,

ma anche capace di diventare una vera e propria leggenda. Le

sue automobili raggiunsero uno status tale da fare concorrenza

alle rosse di Maranello, pur non avendo egli mai voluto investire

nelle corse. Lamborghini infatti non credeva che le corse

aiutassero a migliorare le automobili sportive, né le vendite. Al

Salone di Ginevra nel 1971 fu presentata la LP 500 più nota

come Countach; un’auto spettacolare, straordinaria,

rivoluzionaria, il muso sottile e aggressivo, il parabrezza piatto

testimoniavano un concetto stilistico innovativo e completamente

inedito che ribaltava tutto ciò che si era fatto fino a quel

momento. In quegli anni tuttavia attorno a Lamborghini

cambiava in modo sfavorevole la situazione socio-economica, sia

nazionale che internazionale. Le grandi agitazioni sindacali

crearono una difficile situazione all’interno delle fabbriche, e

l’organizzazione del lavoro divenne sempre più difficile. Per

Lamborghini, abituato ad una gestione diretta, questa situazione

divenne intollerabile e così nel 1972 decise di uscire di scena,

vendendo il pacchetto di maggioranza delle sue azioni allo

246

svizzero Georges-Henry Rossetti, e l’anno dopo anche il restante

delle sue azioni. La crisi petrolifera del 1973, iniziata con la

guerra fra arabi e israeliani creò un alone di paura attorno ai

rifornimenti di carburante, e le grosse vetture supersportive

correvano il rischio di divenire oggetti fuori moda perché ritenute

espressione di un lusso ingiustificabile, e di uno sfruttamento non

più accettabile di troppe risorse naturali del nostro pianeta.

Inoltre furono introdotti i limiti di velocità e le domeniche senza

automobili, e l’effetto fu devastante per i costruttori di automobili

sportive; la Lamborghini in particolare, a causa della sua

collocazione nel segmento estremo delle superautomobili, venne

colpita in maniera dura e reagì come potè. La diminuzione delle

vendite portò per necessità la razionalizzazione della gamma di

produzione, e si cercò anche qualche collaborazione esterna per

utilizzare al meglio gli impianti che, a causa della crisi delle

vendite, rimanevano in larga parte inattivi. Tra le collaborazioni

esterne fu significativa quella del 1976 con la BMW Motorsport e

quella del 1980 con i fratelli Mimran, ricchissimi proprietari di un

impero dello zucchero in Senegal e appassionati di automobili

sportive. Decisero di insistere sulla linea fuoristrada ad alte

prestazioni che per l’epoca era sicuramente innovativa, e così

spostarono il motore davanti all’abitacolo e nacque il prototipo

LMA, una sigla che molto probabilmente stava ad indicare

247

Lamborghini Motore Anteriore. Al piano terra del museo,

ovviamente, è possibile vederlo. Salendo al primo piano

l’atmosfera cambia divenendo più moderna, infatti si tratta del «

piano diablo » 46. Nel 1987, come un fulmine a ciel sereno,

uscirono di scena i fratelli Mimran e arrivò l’americana Chrysler a

Sant’Agata per acquistare la Nuova Automobili Lamborghini

S.p.A. Fino a quel momento la storia della Lamborghini era stata

caratterizzata dalla costruzione di auto sportive che non avevano

bisogno di attingere all’esperienza suggestiva ma molto costosa

di un “reparto corse”; con l’arrivo della Chrysler tutto questo

cambiò. Quando nel 1987 il team francese di Formula 1

Larrousse propose all’ingegnere Forghieri, già progettista delle

migliori Ferrari negli anni sessanta e settanta, di realizzare un

nuovo motore, egli si rivolse proprio alla Lamborghini

proponendo di realizzare insieme il nuovo progetto. La Chrysler

concesse l’approvazione e l’arrivo di una nuova casa nel mondo

della Formula 1 rappresentò una novità importante: il motore

realizzato mostrava potenzialità elevate, e persino una squadra

blasonata come la Lotus richiese la fornitura di motori

Lamborghini per la stagione successiva. Nella stagione del 1990

le squadre con motore Lamborghini raggiunsero buoni risultati,

tanto che la casa modenese ricevette commissioni da un ricco

46 www.lamborghini.com/museo

248

uomo d’affari messicano per la produzione dell’intera automobile.

Il nuovo prototipo fu iscritto al campionato mondiale del 1991,

ma il finanziatore messicano scomparve misteriosamente, e non

se ne sono mai più avute notizie, e nacque il serio problema del

finanziamento della squadra. Un industriale italiano colmò la

lacuna e l’automobile partecipò come Team Modena al

campionato mondiale di quell’anno. Al primo piano del museo

fig. 35 modelli monoposto al primo piano. Dalla finestra grigia sulla parete è possibile vedere lo stabilimento è possibile ammirare queste belle monoposto. Fu tuttavia

un’occasione mancata, e la stagione di Formula 1 si chiuse con il

definitivo ritiro della casa di Sant’Agata dal campionato

mondiale; i problemi durante quella stagione non mancarono, i

finanziamenti non furono sufficienti alla loro risoluzione e la

Chrysler negò inspiegabilmente ogni forma di supporto. Con il

1992 la Lamborghini ritornò ad essere un fornitore di motore per

le squadre Larrousse e Minardi. Le interferenze americane

249

causarono ritardi nella presentazione di un modello che

celebrasse i venticinque anni di vita della casa del toro. Tale

celebrazione avvenne in ritardo con la presentazione nel 1990 di

un modello che fu l’erede della Countach; era la Diablo

fig. 36 la diablo è esposta sulla parete di fondo del primo piano Questa auto con il nome di un toro da combattimento

particolarmente feroce del XIX secolo si dimostrò all’altezza delle

aspettative. Era un modello eccessivo, e inconsueto, ma anche

dotato di solide basi tecniche poiché il suo progettista lo aveva

pensato come un’auto veramente attuale e moderna. Se la

decisione dei fratelli Mimran di vendere alla Chrysler fu inattesa

ma spiegabile, nel senso che era naturale che una grande

azienda di larga produzione - come la Chrysler - fosse

interessata ad acquisire un gioiello come la Lamborghini, del

250

tutto inspiegabile fu la successiva cessione a un gruppo di

sconosciuti investitori indonesiani. Tale passaggio di mano fu

ufficializzato il 21 gennaio 1994; per la direzione della casa del

toro fu una nuova destabilizzazione, e per i rapporti umani

all’interno dell’azienda un progressivo deterioramento. Ciò

nonostante la Diablo fu sviluppata e se ne ricavarono anche

molti modelli collaterali, soprattutto a partire dal 1996. La

Lamborghini decise di chiedere anche la collaborazione tecnica di

alcuni fabbricanti automobilistici di altissimo livello, fra i quali la

Audi. L’idea iniziale fu quella di chiedere il motore 8 cilindri per

poter realizzare la futura “piccola Lamborghini”, ma i tecnici Audi

riportarono alla sede centrale in Germania rapporti positivi sullo

stato dell’azienda e sulla ritrovata buona gestione. Ferdinand

Piëch, nipote del professore Porche, l’inventore del maggiolino, si

mostrò subito interessato. La Lamborghini lo aveva già

affascinato durante i suoi viaggi in Italia come giovane

ingegnere, e pertanto, dopo aver esaminato attentamente la

situazione, decise di procedere all’acquisto. I preliminari fra Audi

e Lamborghini furono firmati il 12 giugno 1998 e il contratto per

la cessione completa di tutte le azioni venne portato a termine in

meno di cinquanta giorni. La casa di Sant’Agata Bolognese si

avviava così verso il nuovo millennio con la sicurezza di essere

approdata finalmente in buone mani. Abbandonate le incertezze,

251

le ristrettezze economiche, i problemi di assetto societario,

comincia una nuova vita con l’Audi, casa dotata anche di un

altissimo profilo tecnologico che può mettere al servizio della

Lamborghini, rispettando contemporaneamente la sua

leggendaria personalità. La prima novità è datata 2001 e si

firma, certo non inaspettatamente, con il nome di un toro da

combattimento: Murciélago, che significa letteralmente

“pipistrello” ed accresce il fascino un po’ oscuro e notturno di

questa nuova automobile.

fig. 37 murciélago Rispetto agli ottimi risultati delle ultime Diablo è aumentata la

qualità complessiva dell’intera automobile e delle rifiniture. Nel

2003 al Salone dell’Automobile di Ginevra arrivò la Gallardo,

252

fig. 38 gallardo la nuova “piccola Lamborghini”. Piccola in verità è un aggettivo

che non si addice a quest’auto, ma a Sant’Agata si ritengono tali

le automobili con meno di 12 cilindri. La Murciélago e la Gallardo,

fianco a fianco come due sorelle, costituiscono l’ossatura ideale

per la casa del toro che è ritornata all’impegno di un tempo. Il

primo piano del museo è, a mio giudizio, decisamente

scenografico rispetto al piano terra. Benché lo stile dell’edificio

sia sobrio, con pavimento in parquet e pareti bianche, il primo

piano “fa scena” grazie al tipo di esposizione scelto per la Diablo.

Collocata com’è sul fondo della parete, attira prima di ogni altra

cosa l’attenzione del visitatore47, che dopo aver salito le scale

47 Un visitatore, e non diciamo nulla di nuovo, è attratto non solo dal contenuto di un’esposizione, ma anche dalla modalità che visivamente coglie la sua attenzione.

253

fig. 39 scala dal primo al secondo piano e Diablo in fondo si dirige dritto verso di lei che, pur non mostrandosi in tutte le

sue parti, svela l’anima dello stile Lamborghini che

fortunatamente non si è disperso nei diversi assetti societari. Le

monoposto, ovviamente, contribuiscono a questo tipo di

atmosfera, e anche quegli “occhi” – grandi finestre del primo

piano - dai quali è possibile vedere la concreta produzione.

Inoltre un tocco ben contestualizzato sono i tubi di scarico

collocati – con funzioni segnaletico - decorative - tra le travi in

254

legno del soffitto.

fig. 40 particolare del soffitto

VI. 2 Terra di motori

Il museo dunque espone automobili di serie a partire dagli anni

sessanta, alcune vetture di Formula 1, motori di auto, strumenti

da lavoro e centinaia di modellini per raccontare le diverse

stagioni che l’azienda ha vissuto dalla nascita ad oggi. Fu

inaugurato proprio nel 2001, quindi con la gestione Audi, per

dare il benvenuto alla Murciélago e per testimoniare la grande

tradizione del marchio. Per un’azienda, infatti, la tradizione è

molto importante perché, essendo sinonimo di longevità, rafforza

il suo valore e il suo prestigio. E’ aperto tutti i giorni dal lunedì al

venerdì, dalle ore 9 alle ore 12.30, e dalle 14.30 alle 17.00

secondo l’orario di stabilimento; l’ingresso è gratuito e per i

gruppi è necessario prenotare. Una guida poliglotta segue i

visitatori durante la visita rendendo esaustiva la conoscenza

255

della casa del toro, ed il suo aiuto è davvero prezioso poiché non

ci sono pannelli di sala. Considero negativa l’assenza di questi

ultimi perché ritengo che sia fondamentale organizzare un

percorso espositivo con adeguati supporti didattici, che

consentano al visitatore una buona comprensione del museo. Al

piano terreno c’è una intera parete con un lungo pannello che

riporta testimonianze fotografiche con le relative didascalie che

raccontano le diverse stagioni vissute dall’azienda. Le foto sono

belle, ma a mio avviso sono troppe ed è poco probabile che un

visitatore si soffermi così a lungo su una sola parete. Sarebbe

stato meglio “sezionare” le foto in più pannelli “distribuiti” lungo

l’intero percorso, creando così accostamenti tra auto e foto

relativi allo stesso periodo. Per ogni auto o motore sono poi

riportate le caratteristiche tecniche sui relativi cartellini. Ripeto

che è tuttavia fondamentale la presenza della guida che riesce a

“cucire” tra loro informazioni che altrimenti resterebbero fili

isolati. E’ possibile accedere allo stabilimento soltanto per i

visitatori singoli, mentre per i gruppi più numerosi ci sono le

finestre collocate al primo piano dalle quali è possibile osservare

la produzione: il museo48 infatti è adiacente alla linea di

montaggio. Il Museo Lamborghini, come il Museo Ducati e la

Galleria Ferrari, conta migliaia di visitatori l’anno. Questi tre

48 Malgrado numerosi tentativi non è stato possibile comunicare con la curatrice del museo e conoscere il nome dell’architetto che ha realizzato il museo.

256

marchi di eccellenza, pur essendo stati talvolta in concorrenza,

sono accomunati anche da altre caratteristiche tanto da

costituire quel milieu storico e culturale chiamato “Terra dei

Motori”, e che crea collaborazione e unione. “Terra dei Motori”

non è soltanto il nome che indica quel triangolo di terra a cui ho

già fatto cenno, ma è anche il titolo di un progetto culturale

voluto in occasione di un grande evento, ossia Bologna 2000-

Città Europea della Cultura. Con questa operazione si sono

scoperti e collegati i punti di contatto tra questi musei, creando

così una sorta di rete. Bisogna sottolineare che l’evento era di

tipo culturale, non aveva nessun richiamo di carattere economico

e fu curato in parte da Marco Montemaggi. Fu creata una

struttura di trasporti su prenotazione per facilitare gli

spostamenti da una collezione all’altra, dal momento che Ducati,

Ferrari e Lamborghini distano trenta chilometri circa l’una

dall’altra. L’aneddoto sul cavallino utilizzato sia da Ducati che da

Ferrari è il segno di una comunanza che c’è e che traspare anche

se le aziende hanno poi preso strade diverse. Altri elementi

possono testimoniare la coerenza di questo territorio: è una

regione con 43 aziende che hanno prodotto o producono auto o

moto, si possono identificare delle “capitali” come Bologna e

Modena, ma a Parma e a Rimini ci sono per esempio diversi

autodromi. Ci sono musei istituzionali come il Museo del

257

Patrimonio Industriale, derivato dalla scuola Aldini Valeriani, che

ha formato molti tecnici e ingegneri della Ferrari, della Ducati e

della Lamborghini. Anche questa istituzione è un simbolo di

coesione, ed è rappresentativa di tutte le esperienze del

patrimonio industriale della regione. Il progetto “Terra dei

motori” pur essendo nato da una spinta di tipo culturale, ha poi

di fatto avuto ripercussioni sul turismo spostandolo in parte dalla

riviera all’entroterra. E’ come se il mercato avesse compreso il

valore complessivo del progetto, chiedendo dei servizi che non

erano stati previsti. Così anche gli alberghi, i ristoranti, le

agenzie di viaggio si sono dotati di un pacchetto turistico dal

nome “Terra dei Motori”. Dopo aver visitato il Museo Ducati, la

Galleria Ferrari e il Museo Lamborghini mi è risultata più chiara

quale dovrebbe essere la dimensione culturale di un’impresa, e

soprattutto mi si è meglio precisata la differenza tra

sponsorizzazione, mecenatismo e donazione, termini utilizzati

spesso indifferentemente per indicare un qualsiasi intervento

delle aziende nell’ambito della preservazione, valorizzazione e

gestione del patrimonio culturale. La distinzione tra i tre concetti

è sottile: le sponsorizzazioni sono da considerare un mezzo di

comunicazione di marketing, uno strumento pubblicitario, un

investimento con fini commerciali. In America i primi esempi di

sponsorizzazioni culturali risalgono alla seconda metà degli anni

258

quaranta, ma il fenomeno diventa consistente in Italia a partire

dagli anni sessanta, con più di un ventennio di ritardo. La

sponsorizzazione consiste, quindi, nella promozione e nella

comunicazione del supporto che uno sponsor, generalmente

un’impresa, fornisce ad un’istituzione che può essere sportiva,

culturale, o sociale. La donazione e il mecenatismo invece sono

atti di filantropia privi di ogni velleità commerciale. Il donatore o

il mecenate avvia un’attività altruistica, con una bassa

aspettativa di ritorno in termini di benefici personali, ma alta sul

piano del ritorno d’immagine, nell’interesse del beneficiato o

della società in generale. Il mecenatismo e la donazione si

distinguono dalla sponsorizzazione perché sono più

disinteressate. Tra mecenatismo e donazione la differenza

consiste invece nel maggiore coinvolgimento del mecenate che

desidera prendere parte alle decisioni assunte dall’istituzione

culturale beneficiata pur mantenendo la sua posizione di

benefattore. Il donatore invece compie un atto filantropico senza

prendere parte alle decisioni e senza prevedere un orizzonte

temporale lungo dell’investimento. Infine un’ultima

considerazione: l’Istituto per i beni culturali, istituito dalla

Regione Emilia Romagna nel 1974, annovera il Museo Ducati, la

Galleria Ferrari e il Museo Lamborghini nella propria banca dati.

Sono individuabili per tipologia di oggetti alle voci motocicli e

259

autoveicoli, e la scheda li classifica come specializzati e la

collezione di tipo tematico - impresa. L’Istituto ha infatti come

principali interlocutori gli enti locali e i relativi musei, e destina

solo ad essi i sostegni finanziari, ma in qualità di Istituto per i

beni culturali considera il valore testimoniale di tutte le forme

museali e di tutti i beni culturali presenti sul territorio, siano essi

pubblici o privati.

260

Appendice I. Intervista a Livio Lodi, curatore del Museo Ducati. D: Ciao Livio, grazie da subito per la tua cordiale collaborazione. Per scrivere il capitolo sul museo Ducati ho letto il vostro sito e mi piacerebbe utilizzare qualche foto. E’ necessaria qualche concessione per riportare i contenuti e le immagini? R: Non ci sono problemi e posso anche inviarti anche altre foto. D: Grazie. Ti rivolgo la prima domanda. Perchè esiste questo museo? Da chi fu voluto e perché? R: Come prima cosa il museo non esiste come contenitore, ma è una macchina del tempo attraverso la quale le vecchie generazioni di appassionati rivivono i fasti di un’epoca che sembrava scomparsa, mentre le nuove generazioni scoprono quanto vasta, ricca e importante sia la storia della Ducati. E’ un trade union. Fu voluto da Federico Minoli, amministratore delegato, un uomo di marketing che pensò, grazie anche alle sue esperienze statunitensi, di realizzare un museo per dare un valore aggiunto alla Ducati. La storia dell’azienda non era mai stata valorizzata, pur trattandosi di un marchio leggendario, dalle precedenti amministrazioni. Recuperare la sua storia e raccontarla in museo avrebbe dato spessore all’azienda. Ducati, come Piaggio, è stata una delle prime aziende ad aver creato un museo aziendale. D: Il lancio di un progetto museale all’interno di un’azienda può essere accolto come un progetto coerente con le finalità complessive dell’organizzazione o come l’imposizione di un corpo esterno. Nel vostro caso come fu vissuta dalla comunità aziendale la nuova impresa museale? Quali conseguenze tecnico-organizzative portò l’avvio del progetto ( ridistribuzione di spazi e risorse umane, nuove voci di spesa,..)? Quali vantaggi e svantaggi furono percepiti? R: L’impresa museale fu vissuta con molto entusiasmo all’interno dell’azienda. Io stesso a quei tempi lavoravo in Ducati ma non al museo e non ero informato dell’esperienza. Ci trovammo di fronte una struttura che non era soltanto il salotto buono dell’azienda, ma qualcosa che ci rendeva di fatto orgogliosi: ci portammo amici, parenti e tutti coloro che avevano sentito parlare del museo. Il museo è la prima cosa che il

261

visitatore-appassionato- profano chiede di visitare. A livello organizzativo si recuperò lo spazio di un vecchio deposito, la cui superficie era di circa 1000mq, di documenti e carte. In una zona polverosa di questo deposito erano conservate anche alcune moto. Uno dei vantaggi del museo è sicuramente avere la possibilità di far conoscere l’azienda fuori dagli stereotipi dei media. E’ un grande ritorno per l’azienda, ma è anche uno dei cinque musei più visitati di Bologna. Venendo in Ducati, visitati lo stabilimento e il museo, scopri una azienda diversa rispetto a quello che hai conosciuto da un giornale di settore o da un programma televisivo. Ducati nel settore del motociclismo si è creata una figura tanto legata alle competizioni da avvicinarsi a Ferrari. Tuttavia Ducati, diversamente da Ferrari, è un sogno realizzabile sia perché, ripeto, puoi visitare lo stabilimento, cosa che in casa Ferrari non è possibile, sia perché è economicamente realizzabile l’acquisto di una Ducati e sentirsi così parte della famiglia. Il tifoso Ferrari resta un sognatore e nella Galleria visita un mondo che non potrà mai vedere. Ducati è un sogno che si realizza: anche questo è un messaggio del museo. Circa gli svantaggi io non ne vedo. E’ una struttura, come altre, soggetta comunque ad usura. D: La responsabilità della gestione del museo è affidata solo a te? R: Si, è affidata solo a me. Nel 1998 fui affiancato come assistente al primo curatore del museo, Marco Montemaggi, oggi vicedirettore di Museimpresa. Dal 2001 sono stato nominato nuovo curatore del museo in sostituzione del mio predecessore. Curo anche l’archivio storico e come un archeologo sono impegnato nel reperire le tessere mancanti del mosaico Ducati. Dal 1973 tutto ciò che riguardava la storia aziendale è stato mandato al macero. Ci si liberava delle cose “vecchie” anche vendendo. Io so cosa manca affinché la storia di questa azienda sia il più possibile chiara e completa. Mi sono accorto che non a tutti piace la storia e molte tradizioni si stanno perdendo; una moto non è soltanto un oggetto ludico per correre, ma è anche un oggetto di cultura e può essere un modo per avvicinare anche i più giovani alla storia, affinché stimolati alla conoscenza la trovino più interessante. D: Dal punto di vista economico come è considerato il museo? E’ una voce del vostro bilancio? Inoltre l’ingresso al museo è gratuito perché non avete bisogno degli introiti dei biglietti, ma avete escluso anche l’idea di far pagare un biglietto di valore simbolico. Per quale motivo?

262

R: Il museo è un centro di costo per tutte le sue spese ( energia, manutenzione…), ma non è una voce del bilancio. Quando si presenta un budget, il museo è una voce integrata nella Community che comprende diverse cose, come gli eventi in pista, il club,lo stand per le fiere. Il museo non è un’unità a sé stante, è una parte di una casa. Immagina il museo come la voce impianto termico nella ristrutturazione di una casa. Circa l’ingresso gratis dico che è stato pensato come un incentivo per l’azienda e anche per Bologna che non è solo la città delle due torri e delle università, e infine anche come un indotto per Borgo Panigale, che altrimenti sarebbe rimasta un quartiere sconosciuto di Bologna. Ducati ha pertanto qualificato anche questa zona che si riconosce in questa azienda che è stata tanto assidua negli anni nella realizzazione del suo progetto. Circa l’idea di far pagare un biglietto di valore simbolico è probabile che accada in futuro e il ricavato potrebbe andare alle opere della Fondazione Ducati. D: Che tipo di pubblico visita il museo? Qual è l’età minima di un vostro visitatore? R: Dalle scuole elementari a persone anziane. Tutti visitano il nostro museo. I ragazzi vengono per vedere la moto di Capirossi, ma poi si appassionano comunque anche alle moto vecchie e al modo in cui si correva un tempo. D: E’ possibile visitare il museo senza la vostra guida? R: Si è possibile, ma non si accede ovviamente allo stabilimento. D: Ci sono barriere architettoniche che possono impedire alle persone disabili di visitare il museo? R: Non abbiamo strutture deputate alla visita dei disabili. Tuttavia in questi casi abbiamo utilizzato i montacarichi aziendali che sono alle spalle del museo e abbiamo realizzato la visita. Sono strutture sicure e controllate dalla manutenzione ed è possibile far salire anche 10 persone alla volta. D: Prima di essere esposte nel museo dove erano le moto?

263

R: Le moto erano dappertutto, ovunque, tra collezioni private, stanzoni abbandonati. Come ti ho detto non c’era cura verso questi beni. D: Le moto sono catalogate? R: Si, sono ordinate per cronologia. D: Effettuate prestiti per mostre o altri eventi? R: Dipende. Valuto il livello qualitativo della mostra. Se parliamo della mostra sulla velocità che si tiene a Roma, sicuramente si. Inoltre, alcune moto sono beni aziendali, altre sono concessioni di collezionisti privati e in questo caso bisogna avvisare per tempo il proprietario, e solo in seguito al loro assenso è possibile spostare la moto. Come ti ho detto l’azienda si liberava del “vecchio”, o vendendo, o buttando documenti e moto, e così ci sono moto che sono recuperabili solo in collezioni private. D: C’è un magazzino- deposito in cui conservate altre moto? R: Si, c’è un magazzino con moto stradali e con qualche doppione. L’esposizione del museo si amplierà comunque con le moto che conseguiranno altre vittorie. D: Anche per le moto, in qualità di oggetti esposti nel museo, si pone il problema della conservazione. Tra prevenzione, restauro e manutenzione come si orientano le vostre scelte? R: Facciamo una manutenzione generale un paio di volte l’anno. Controlliamo i pneumatici, le parti meccaniche e lo stato generale. Per le moto è sufficiente. D: L’auditorium è utilizzato come sala per le conferenze e per le riunioni?

264

R: Si, è un modo per avere la nostra storia sempre ben presente, anche in presenza di ospiti.

265

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Ringrazio la Prof. A.Bottone per avermi consigliato di frequentare il corso di museografia. Antonio, Claudia e Annalisa che con la loro ospitalità hanno reso possibile la realizzazione di questa tesi. Mio fratello Giacomo per la continua e insostituibile partecipazione, per l’ascolto attento e per la preziosa collaborazione in parte tecnica. Infine, ma non meno importanti, Imma, Livio e Giò.

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