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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA
DIPARTIMENTO DI SCIENZE ECONOMICHE ED AZIENDALI
“M. FANNO”
CORSO DI LAUREA IN ECONOMIA
PROVA FINALE
“ANALISI E CONTESTI DI APPLICAZIONE
DELLA FLAT RATE TAX”
RELATORE:
CH.MO PROF. LUCIANO GIOVANNI GRECO
LAUREANDO: CARLO PAVANELLO
MATRICOLA N. 1113100
ANNO ACCADEMICO 2017 – 2018
1
Sommario
INTRODUZIONE ................................................................................................................................... 3
1. L’IMPOSTA PERSONALE SUL REDDITO .................................................................................... 5
ELEMENTI COSTITUTIVI E PROGRESSIVITÀ DELLE IMPOSTE ............................................................ 5
Definizioni di base .......................................................................................................................... 5
La progressività ............................................................................................................................... 6
LA BASE IMPONIBILE .................................................................................................................................... 8
Reddito prodotto .............................................................................................................................. 9
Reddito entrata .............................................................................................................................. 10
Reddito spesa ................................................................................................................................ 11
Reddito monetario o reale ............................................................................................................. 13
Reddito effettivo o normale ........................................................................................................... 14
L’UNITÀ IMPOSITIVA .................................................................................................................................. 15
Il nucleo familiare ......................................................................................................................... 15
L’individuo .................................................................................................................................... 17
L’IRPEF ............................................................................................................................................................ 17
2. IL SUCCESSO DELLA FLAT RATE TAX NELL’EUROPA DELL’EST .................................... 20
DEFINIZIONE ................................................................................................................................................. 20
DIFFUSIONE NELL’EUROPA DELL’EST ................................................................................................... 22
Le ondate riformiste ...................................................................................................................... 23
Gli attori della diffusione .............................................................................................................. 24
PRO E CONTRO .............................................................................................................................................. 25
Aspetti positivi .............................................................................................................................. 26
Aspetti negativi ............................................................................................................................. 26
LA RIFORMA IN RUSSIA .............................................................................................................................. 27
I dettagli delle riforme ................................................................................................................... 27
Previsioni teoriche ......................................................................................................................... 28
Le componenti della crescita delle entrate fiscali ......................................................................... 30
Analisi dei microdati ..................................................................................................................... 31
3. LA FLAT TAX IN ITALIA E NELL’EUROPA OCCIDENTALE ................................................. 34
EROSIONE ED ERRATICITÀ ........................................................................................................................ 34
Erosione ......................................................................................................................................... 34
Erraticità ........................................................................................................................................ 35
La flat tax come antidoto ............................................................................................................... 38
L’EVASIONE DELL’IRPEF............................................................................................................................ 39
La teoria del prospetto ................................................................................................................... 39
2
La scelta di evasione ..................................................................................................................... 41
EFFETTI REDISTRIBUTIVI NELL’EUROPA DELL’OVEST ..................................................................... 43
Disuguaglianze nella distribuzione dei redditi .............................................................................. 44
Polarizzazione dei redditi .............................................................................................................. 45
Vincitori e vinti ............................................................................................................................. 46
CONCLUSIONI .................................................................................................................................... 47
BIBLIOGRAFIA ................................................................................................................................... 49
3
INTRODUZIONE
Al centro della campagna elettorale di alcuni partiti, per le recenti elezioni politiche italiane,
c’è stata la proposta di riformare completamente il sistema di imposizione fiscale sul reddito
delle persone fisiche. Nello specifico, è stata avanzata l’idea di introdurre la cosiddetta “Flat
rate tax” o, più semplicemente, “Flat tax”1. Questa imposta deve il suo nome a ciò che più la
contraddistingue, ovvero, l’aliquota unica per tutte le fasce di reddito. In estrema sintesi, la
riforma proposta, mira a sostituire l’attuale sistema ad aliquote crescenti con uno caratterizzato
da un’aliquota unica accompagnata da una deduzione, anch’essa comune a tutti i contribuenti,
che esenti dall’onere fiscale i redditi al di sotto di una certa soglia.
La possibilità di introdurre un tale cambiamento, ha suscitato attorno a sé un ampio dibattito
che si è articolato su più fronti. Il principale problema, è l’elevato impatto sui conti pubblici
che tale proposta comporterebbe: secondo le stime di Baldini e Rizzo (2018) i costi variano tra
circa 58 e 90 miliardi di euro a seconda della proposta avanzata. Su questo aspetto, i partiti a
favore, asseriscono che gran parte dei costi verrebbero compensati dagli effetti positivi, che si
genererebbero in termini di crescita economica e di riduzione dell’evasione. Anche
considerando scenari molto rosei sotto il secondo aspetto la stima dei due autori sopra citati non
scende al di sotto dei 23 miliardi. Altri aspetti cruciali, sono la presunta proporzionalità
dell’imposta, che la renderebbe incostituzionale, e gli effetti di redistribuzione del reddito, che
favorirebbero in maniera largamente superiore i contribuenti più abbienti rispetto a quelli delle
fasce di reddito inferiori.
Data la complessità dell’argomento introdotto, il proposito del presente elaborato è quello di
inserire il concetto di flat tax all’interno di un contesto teorico ed empirico, che ne permetta
un’analisi il più possibile imparziale. Non verranno quindi trattate nel dettaglio le singole
proposte politiche ma si proverà a dotare il lettore degli strumenti idonei a valutare una riforma
del genere da diversi angoli visuali
Nel primo capitolo si passeranno in rassegna diversi temi legati all’imposta personale sul
reddito: dopo una parte iniziale sul concetto di progressività si tratterà la scelta della base
imponibile e dell’unità impositiva. Nel secondo, invece, a partire dalla definizione di flat tax
elaborata da Hall e Rabushka (1985), si vedrà come questo regime d’imposizione si sia diffuso
nei paesi dell’Europa dell’est e, più nello specifico, come si sia articolata la riforma applicata
in Russia nel 2001. Infine, nel terzo e ultimo capitolo, si proveranno ad analizzare gli effetti che
1 La traduzione in italiano è, rispettivamente: “imposta ad aliquota piatta” o “imposta piatta”. Data la valenza
internazionale, nel resto del testo verrà utilizzato il nome inglese.
4
l’introduzione di una tale riforma potrebbe avere nei paesi dell’Europa occidentale. Si
considereranno, in particolare, tre aspetti critici del sistema d’imposizione italiano e le stime
dei potenziali effetti redistributivi in altri dieci paesi dell’Europa occidentale.
Quanto emerge dallo studio effettuato è la difficoltà intrinseca che si rileva nel provare ad
isolare gli effetti comportamentali della riforma, rispetto a quelli meccanici. La teoria
economica, pur offrendo solide basi per un ragionamento critico sul tema, di fatto non prescrive,
in maniera univoca, quali siano gli effetti che, da tali cambiamenti, possano conseguire.
Nell’implementare una riforma del genere, dunque, la prudenza e la perizia analitica sono gli
strumenti più raccomandati.
5
1. L’IMPOSTA PERSONALE SUL REDDITO
Il presente capitolo mira a fornire al lettore un’analisi delle tematiche principali che devono
essere tenute in considerazione dal legislatore nel determinare l’imposizione personale sul
reddito.
A partire da alcune definizioni di base, necessarie per trattare dell’argomento, si descriveranno
le diverse metodologie per implementare la progressività delle imposte. Successivamente, verrà
trattata la scelta relativa alla base imponibile, considerando come alternative quelle di reddito
prodotto, entrata e spesa. Dunque, l’analisi si approfondirà passando in rassegna i pro e i contro
dell’utilizzo del reddito effettivo e di quello normale, per concludere, prima di analizzare la
delicata scelta dell’unità impositiva, trattando brevemente dell’alternativa tra reddito monetario
e reddito normale. A chiusura del capitolo, verrà proposta una panoramica di quali sono state
le decisioni del policy maker per quanto riguarda l’imposta sul reddito delle persone fisiche
(Irpef) in Italia.
Quanto descritto sopra verrà trattato ponendo l’attenzione su due principi fondamentali, che
guidano (o per lo meno dovrebbero guidare) il legislatore: equità ed efficienza. Il primo riguarda
sostanzialmente l’attività redistributiva dello Stato e la sua conformità ai principi di equità
orizzontale e verticale2. Il secondo concentra l’attenzione sulle inevitabili distorsioni generate
dall’imposizione fiscale, che allontanano dalle condizioni di ottimo paretiano.
ELEMENTI COSTITUTIVI E PROGRESSIVITÀ DELLE IMPOSTE
Definizioni di base
Come anticipato, alcune definizioni di base sono necessarie per trattare l’argomento della
progressività.
Presupposto dell’imposta: fatto economico o situazione giuridica il cui verificarsi fa sorgere
obblighi tributari. Esempi possono essere: la produzione di reddito, lo scambio od il possesso
di un bene.
Base imponibile: è la traduzione quantitativa del presupposto dell’imposta. A seconda dei casi
essa può essere definita in termini monetari (imposta ad valorem) od in termini fisici (imposta
specifica). Un esempio del primo caso è il salario corrisposto o ricevuto, del secondo le accise
pagate sulla benzina.
2 Equità orizzontale: individui che percepiscono lo stesso reddito devono sopportare lo stesso carico tributario.
Equità verticale: al crescere del reddito del contribuente deve aumentare anche la percentuale di imposte
dovute.
6
Aliquota d’imposta: è la quota d’imposta che deve essere pagata per ogni unità di base
imponibile. Viene definita in termini percentuali nel caso di un’imposta ad valorem, in termini
monetari nel caso di un’imposta specifica.
Debito d’imposta: è il prodotto tra aliquota e base imponibile.
Di seguito alcune distinzioni tra diverse tipologie di imposta.
Imposte dirette od indirette: le prime vanno a colpire direttamente la capacità contributiva
del cittadino. L’imposta sul reddito delle persone fisiche ne è un chiaro esempio. Le seconde,
invece, colpiscono manifestazioni indirette della capacità contributiva, quali l’acquisto di
determinati beni o il trasferimento di certe attività.
Imposte reali o personali: le prime prescindono dalla situazione personale dell’individuo
mentre, le seconde, includono appunto elementi che legano il presupposto dell’imposta allo
specifico contribuente. Elementi personalizzanti tipici possono essere: la composizione e la
numerosità del nucleo familiare o che un immobile posseduto sia la prima casa o una residenza
secondaria.
La progressività3
Un’imposta diretta viene definita progressiva se, all’aumentare della base imponibile, anche
l’aliquota media aumenta. Definendo l’aliquota media come il rapporto tra debito d’imposta (T)
e base imponibile (Y), perché un’imposta sia effettivamente progressiva è necessario che T
cresca più rapidamente di Y. Di seguito la rappresentazione algebrica di quanto detto.
Definiamo il debito d’imposta in funzione della base imponibile:
𝑇 = 𝑡(𝑌)
L’aliquota media è:
𝑡𝑚 =𝑡(𝑌)
𝑌
L’aliquota marginale, che misura come varia il debito d’imposta alla variazione unitaria o
infinitesimale del reddito, è:
𝑡’(𝑌) =𝑑𝑡(𝑌)
𝑑𝑌
3 Questa parte è tratta, nei contenuti, dal manuale: “Elementi di scienza delle finanze”. Scritto da Roberto Artoni
(2005).
7
Vediamo ora come varia l’aliquota media al variare della base imponibile:
𝑑𝑡𝑚
𝑑𝑌=
𝑑 [𝑡(𝑌)
𝑌 ]
𝑑𝑌=
𝑌𝑡’(𝑌)– 𝑡(𝑌)
𝑌2=
𝑡’(𝑌)– 𝑡𝑚(𝑌)
𝑌
Per rispettare la definizione di progressività è necessario che la derivata appena calcolata risulti
maggiore di zero. Perché ciò avvenga l’aliquota marginale dev’essere maggiore dell’aliquota
media. Tale condizione risulta quindi necessaria e sufficiente affinché un’imposta possa essere
considerata progressiva.
Al fine di implementare la progressività dell’imposta sul reddito possono essere utilizzati
quattro metodi: per scaglioni, per deduzione, per detrazione, per classi. Quest’ultimo definisce
delle classi di imponibile e a ciascuna assegna aliquote crescenti, poi, per calcolare il debito
d’imposta, moltiplica l’aliquota per l’intera base imponibile. Dato lo scarso utilizzo e i forti
inconvenienti di natura equitativa che genera, non verrà ulteriormente analizzato.
La progressività per scaglioni vede la definizione di un certo numero di intervalli successivi
di reddito (detti appunto “scaglioni”) ai quali vengono applicate aliquote via via crescenti. Il
reddito dell’individuo sarà quindi suddiviso in ciascuno di tali intervalli e ad ognuno di essi
verrà applicata un’aliquota differente.
La progressività per deduzione prevede invece un’aliquota costante. Tale aliquota viene però
applicata alla differenza tra reddito imponibile ed un certo ammontare “d” uguale per tutti i
contribuenti. Così facendo il debito d’imposta è definito come:
𝑇 = 𝑡(𝑌 − 𝑑)
Dividendo ambo i membri dell’equazione per Y:
𝑡𝑚 = 𝑡 −𝑡𝑑
𝑌
Si noti, quindi, che l’aliquota marginale, in questo caso “t”, è maggiore di quella media e,
pertanto, l’imposta è progressiva.
Anche nel caso della progressività per detrazione l’aliquota viene mantenuta costate. Essa, a
differenza del caso precedente, viene applicata all’imponibile e da tale risultato viene sottratto
un ammontare, uguale per ciascun contribuente, detto appunto detrazione (f). In questo caso, il
debito d’imposta è definito come:
𝑇 = 𝑡𝑌 − 𝑓
8
Dividendo ambo i membri dell’equazione per Y:
𝑡𝑚 = 𝑡 −𝑓
𝑌
Anche in questo caso l’aliquota marginale risulta essere maggiore di quella media e, pertanto,
l’imposta è progressiva. Si noti che nel caso in cui si avesse “td” equivalente ad “f” l’effetto
della deduzione e quello della detrazione sarebbero lo stesso.
LA BASE IMPONIBILE4
Storicamente il reddito è la grandezza più spesso assunta per definire la base imponibile
dell’imposta personale. Ciò nonostante la definizione stessa di reddito non è univoca e può
dipendere dall’angolo visuale che si intende prendere nei confronti di questo valore. È utile
quindi introdurre una prima distinzione tra fonti ed usi del reddito, la tabella di seguito mira a
fornirne una rapida sintesi.
Tabella 1: Fonti e usi del reddito.
Fonti Usi
• Redditi di lavoro
• Redditi di capitale
• Plusvalenze (e minusvalenze)
• Entrate straordinarie ed occasionali
• Consumo o spesa
• Risparmio
Fonte della tabella: Bosi, Guerra, 2015. Pagina 50.
Nella parte sinistra della tabella sono riportate le fonti del reddito: il lavoro (sia autonomo sia
dipendente), il capitale (includendo redditi legati agli investimenti in immobili, in attività
produttive o in attività finanziarie), le plusvalenze (minusvalenze) ottenute attraverso
l’incremento (decremento) di valore di immobili o attività finanziarie e, infine, le entrate
straordinarie od occasionali come donazioni ricevute, vincite al gioco e lasciti ereditari. Nella
parte sinistra vi sono gli usi: il consumo o il risparmio.
A seconda che si guardi al concetto di reddito dal punto di vista delle fonti o degli usi si perviene
ad accezioni differenti tra loro. La dottrina finanziaria, inizialmente, si è rifatta a definizioni di
reddito che richiamassero il criterio delle fonti elaborando i concetti di reddito prodotto e di
reddito entrata. Considerando invece gli usi, si è dato vita al concetto di reddito consumato (o
spesa).
4 La fonte principale del resto del capitolo è: “I tributi nell’economia italiana” di Bosi e Guerra (2015).
9
Reddito prodotto
Il reddito prodotto viene calcolato come somma dei proventi ottenuti in un certo lasso di tempo
dalla partecipazione ad attività produttive. I fattori produttivi utilizzati saranno quindi il lavoro
autonomo, quello dipendente, il capitale fisico o finanziario e fattori non riproducibili quali i
terreni agricoli, i giacimenti minerari e le aree urbanizzate.
In formula il reddito prodotto viene indicato come:
𝑅𝑃 = 𝛴𝑌𝑖
Dove “Y” indica il reddito prodotto e “i” le diverse fonti, e.g. lavoro, terra, capitale.
A questo concetto si sono ispirati i modelli di imposizione diretta dal diciannovesimo fino alla
prima metà del ventesimo secolo. A offrire supporto teorico all’utilizzo di questa accezione di
reddito è stato, in particolare, De Viti de Marco uno dei più importanti studiosi di scienza delle
finanze del secolo scorso. Egli afferma infatti che, intendendo lo Stato come fattore di
produzione, quella di tassare direttamente l’attività produttiva è la maniera più efficace di
riconoscere tale valore all’attività finanziaria. Cintando le sue stesse parole: “Ogni particella di
reddito nasce gravata di imposta”.
L’applicazione di reddito prodotto non è però esente da problematiche, di natura sia tecnica sia
equitativa. Alle prime afferisce la scelta tra prendere in considerazione il reddito al netto o meno
dei costi affrontati per produrlo. Risulta chiaro come la definizione più corretta sia quella di
reddito netto. Ciò nonostante non è sempre facile stabilire in maniera univoca l’inerenza di tali
costi: l’ammortamento del capitale utilizzato, ad esempio, può essere una delle fonti di
incertezza. Le seconde, riguardanti quindi l’aspetto dell’equità, derivano principalmente dal
fatto che non tutte le fonti di produzione del reddito vengono incluse nell’accezione di reddito
prodotto. Tornando alla tabella 1 si può notare, infatti, come tra le fonti di reddito, oltre a
capitale e lavoro, considerate nella definizione di reddito prodotto, vi siano anche plusvalenze
ed entrate straordinarie. Lasciando al di fuori della base imponibile queste ultime si corre il
rischio che il contribuente venga incentivato, quando possibile, a trasformare redditi imponibili
in plusvalenze (elusione fiscale). Tale comportamento è particolarmente rilevante nel caso di
redditi da attività finanziarie dove un’entrata per interessi può essere convertita in una
plusvalenza attraverso l’utilizzo di obbligazioni prive di cedole che legano il ritorno economico
alla differenza tra il prezzo iniziale e quello finale dell’obbligazione stessa.
10
Reddito entrata
La nozione di reddito entrata nasce al fine di ovviare alle criticità presentate dal reddito
prodotto. Per reddito entrata si intende l’ammontare massimo di risorse che possono essere
potenzialmente consumate in un determinato periodo di tempo senza intaccare il patrimonio
iniziale dell’individuo. Attraverso questa definizione è possibile inquadrare in maniera chiara
la relazione che incorre, all’interno del vincolo di bilancio del cittadino, tra componenti
patrimoniali (stock) e componenti reddituali (flussi). Un breve esempio numerico può essere
d’aiuto per comprendere meglio quanto appena esplicato. Venga assunto che il reddito sia
calcolato su base annua e che un generico cittadino (A) all’inizio dell’anno disponga di un
patrimonio (Wt-1) del valore di 100€, detenuto, ad esempio in beni immobili ed azioni. Si
supponga ora che, nell’ arco dell’anno, tale patrimonio generi una plusvalenza del 5% (CGt),
che A riceva un’eredità (ESt) del valore di 30€ e guadagni redditi netti da lavoro per 10€. Data
tale situazione la nozione di reddito prodotto andrebbe ad individuare come base imponibile
solamente i redditi netti da lavoro (10€) mentre, utilizzando quella di reddito entrata, la base
imponibile per l’imposta personale sul reddito ammonterebbe alla somma tra plusvalenza del
patrimonio iniziale (Wt - Wt-1), eredità e redditi netti da lavoro (i. e. 5€ + 30€ + 10€ = 45€).
Formalmente il reddito entrata potrà quindi essere individuato equivalentemente con una delle
seguenti scritture:
𝑅𝐸𝑡 = 𝑊𝑡 − 𝑊𝑡−1 + 𝐶𝑡 = 𝛴𝑌𝑖 + 𝐶𝐺𝑡 + 𝐸𝑆𝑡
dove le sigle “CGt” ed “ESt” stanno rispettivamente per “capital gains” ed “entrate
straordinarie” e “Ct” indica il consumo nel periodo “t”.
Ad ogni modo la nozione di reddito entrata non è esente da problematiche. La prima riguarda
la tassazione delle plusvalenze. In linea teorica, infatti, sarebbe opportuno tassare le stesse al
momento della maturazione, in quanto, risultando potenzialmente disponibili per il consumo
dell’individuo influenzano la sua capacità contributiva. Ciò nonostante, in assenza di un
effettivo realizzo o di una rigorosa tenuta contabile, la valutazione di tali plusvalenze risulta
essere una pratica molto complessa e, anche qualora il suddetto problema venga superato, resta
il fatto che il semplice aumento di patrimonio non comporta, in assenza di realizzo, un’effettiva
entrata di cassa per il contribuente. Dunque, al momento del pagamento dell’imposta, si
potrebbe incorrere in problemi legati alla mancanza di liquidità. Al fine di superare tali criticità,
il legislatore ha spesso optato per andare a tassare le plusvalenze solo una volta che siano state
realizzate. Questa decisone, d’altra parte, introduce delle distorsioni dal punto di vista
dell’efficienza. Vi è, infatti, incentivo a posticipare sempre più il momento del realizzo al fine
di differire il pagamento dell’imposta. Per altro, nel caso in cui vengano introdotte delle
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detrazioni fiscali atte a compensare eventuali minusvalenze, tali effetti distorsivi sarebbero
ancora maggiori. Tanto da indurre a preferire criteri di valutazione del patrimonio che agevolino
la realizzazione delle minusvalenze e posticipino quella delle plusvalenze.
Prima di passare a trattare della nozione di reddito spesa si vuole evidenziare come l’adozione
del reddito entrata sottoponga a tassazione tutte le fonti di reddito. Dalla prospettiva del
consumo, ciò comporta, che anche le risorse solo potenzialmente consumabili vengano
sottoposte a tassazione. Nessuna esenzione è quindi prevista per quanto viene accantonato,
volontariamente od obbligatoriamente, sotto forma di risparmio. Nemmeno, dunque, per i
contributi previdenziali.
Reddito spesa
La nozione di reddito spesa si differenzia dalle prime due, principalmente, per il fatto di
considerare il reddito non più dal punto di vista delle fonti bensì da quello degli usi. Essa
individua come base imponibile il reddito consumato in un certo intervallo di tempo di
riferimento, escludendo, quindi, quello accantonato come risparmio. Il fondamento equitativo
sta nel vedere nell’atto della produzione del reddito il generare valore per la società mentre, nel
consumo, un’azione che, inevitabilmente, tale valore va a ridurlo, una sorta di appropriazione
da parte del singolo delle risorse appartenenti alla collettività. L’imposizione fiscale si sposta,
dunque, dal momento della produzione di valore per la collettività (produzione di reddito) a
quello di depauperamento di tale valore da parte del contribuente (consumo del reddito).
Efficaci quanto attuali, le parole del filosofo britannico Hobbes, a sostegno di tale tipologia di
imposizione fiscale:
“che ragione c’è perché colui il quale lavora molto e, risparmiando i frutti del suo lavoro,
consuma poco, debba essere più gravato di colui il quale vivendo oziosamente guadagna
poco e spende tutto quel che guadagna… Quando le imposizioni sono sopra le cose che
gli uomini consumano, ogni uomo paga ugualmente per quello che egli usa: né la
collettività è depauperata dallo spreco fastoso dei privati.”
La prima criticità presentata da tale nozione di reddito è di natura applicativa. Risulta, infatti,
impensabile richiedere, o comunque imporre, ai contribuenti, di tenere una fedele
rendicontazione di tutte le spese di consumo effettuate in un dato periodo di tempo. Sotto certe
condizioni, per ovviare a tale difficoltà, si può partire dalla nozione di reddito prodotto e
considerare le variazioni che avvengono al patrimonio del contribuente. Per fare ciò è
necessario che il risparmio di ciascuno sia conservato in un sistema di gestione patrimoniale
che garantisca possibilità di monitoraggio da parte delle autorità ovvero una sorta di “conto
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registrato”. Si consideri un individuo il quale, nell’anno, produce una certa quantità di reddito
(RPt), quest’ultimo potrà essere utilizzato in due principali modalità: consumo o risparmio. Nel
caso in cui, anche solo parte di esso, venga risparmiato, il patrimonio iniziale dell’individuo
verrà incrementato, al contrario, se si decidesse di consumare più di quanto prodotto, questo
verrà intaccato. Una volta che le variazioni di valore dei “conti registrati” siano accessibili da
parte dell’autorità, il reddito spesa potrà essere definito nella seguente maniera:
𝑅𝑆𝑡 = 𝑅𝑃𝑡 + (𝑝𝑟𝑒𝑙𝑖𝑒𝑣𝑖– 𝑣𝑒𝑟𝑠𝑎𝑚𝑒𝑛𝑡𝑖)
Si noti che tale modalità di misurazione del reddito spesa può trovare migliore applicazione se
la maggior parte del risparmio viene indirizzata verso intermediari finanziari (essi possono dare
forma concreta al concetto di “conto registrato”). Risulterà invece più complessa nel caso di
impiego di tale risparmio con modalità differenti, quali, ad esempio, l’acquisto di beni
immobili.
Oltre alle problematiche di natura applicativa, si ritiene opportuno guardare al reddito spesa
anche dal punto di vista di equità ed efficienza. Per farlo bisogna definire se si intenda valutare
la capacità contributiva del cittadino nell’arco di un singolo periodo o dell’intera vita. La
prospettiva uniperiodale prevede l’individuazione di un intervallo di tempo, solitamente l’anno,
nel quale si ritiene sorgano obblighi fiscali e, a partire da questa assunzione, la definizione della
base imponibile nella maniera che più si ritiene appropriata. Assumendo, invece, una
prospettiva pluriperiodale si fa riferimento al patto equitativo tra cittadino e stato il quale
abbraccia un lasso di tempo individuabile nell’intera vita del primo. In quest’ottica va introdotta
la problematica della doppia tassazione del risparmio che emerge dall’utilizzo della nozione di
reddito entrata. Per farlo, si utilizzerà un esempio tratto dal libro “I tributi nell’economia
italiana” di Bosi e Guerra (2015). Si assuma che due individui vivano in due soli periodi,
producano nel primo periodo un reddito pari a 1000, siano sottoposti ad un’aliquota d’imposta
pari al 10%, i tassi di interesse siano del 5% ed infine che il primo individuo (A) decida di
risparmiare tutto il reddito prodotto mentre l’altro (B) opti per consumarlo integralmente. Per
B sia che si adotti il reddito entrata sia che si adotti il reddito spesa l’ammontare del debito
d’imposta sarà di 100. Per A, invece, la situazione varia. Nel caso la capacità contributiva si
stabilisca sulla base del reddito entrata dovrà versare 100 nel primo periodo e 4.5 nel secondo
(i 900 risparmiati nel primo periodo renderanno 45 nel secondo e, questi interessi, saranno
sottoposti ad un’aliquota del 10%). Adottando invece il concetto di reddito spesa, A non verserà
alcuna imposta nel primo periodo, i 1000 accantonati renderanno 50 e nel secondo periodo
verserà 105. Dovendo considerare più periodi, per confrontare il carico fiscale dei due soggetti
bisogna rifarsi al valore attuale dei tributi da essi versati: per B il valore attuale sarà 100 in
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entrambi i casi, per A, invece, sarà di 104.3 nel primo caso e di 100 nel secondo. Risulta chiaro
quindi come l’utilizzo del reddito entrata penalizzi l’individuo risparmiatore mentre quello del
reddito spesa risulti invece equo. Si noti, in aggiunta, che dall’esempio sopra riportato si
otterrebbe lo stesso risultato del reddito spesa utilizzando la nozione di reddito prodotto ma
senza sottoporre a tassazione i redditi di capitale.
Sebbene quanto appena riportato possa indurre a pensare che l’adozione del reddito spesa sia
preferibile dal punto di vista equitativo, il profilo intertemporale dell’onere fiscale prodotto
dalla tassazione della spesa risulta poco soddisfacente (Bosi, Guerra, 2015). In presenza di
mercati finanziari imperfetti che non garantiscano pari accesso al credito a ciascun individuo,
la tassazione potrebbe risultare relativamente più onerosa in momenti della vita quali la
giovinezza o la vecchiaia. In tali periodi, dati redditi tendenzialmente inferiori rispetto all’età
lavorativa, il consumo e quindi l’onere fiscale risulterebbero, infatti, occupare una porzione
relativamente maggiore del reddito. Per finire, sotto il profilo dell’efficienza c’è da sottolineare
che l’applicazione del reddito spesa come base imponibile permetterebbe di ridurre, se non di
annullare, alcuni effetti distorsivi introdotti dall’imposizione fiscale e legati alla scelta se
consumare adesso o in futuro.
Reddito monetario o reale
Una volta effettuata la scelta tra reddito prodotto, entrata o spesa, il legislatore è chiamato a
decidere tra altre caratteristiche della base imponibile. Si tratta di decretare se definire la stessa
in termini monetari o reali. I sistemi tributari, infatti, possono subire serie distorsioni in presenza
di inflazione, tra queste, ad esempio, il fenomeno del fiscal drag. Per fare in modo che solamente
la componente reale del reddito venga sottoposta ad imposizione si può pensare di indicizzare
il sistema fiscale. Tornando alla definizione di reddito entrata bisognerebbe quindi specificare
che ad essere tassato non sia il consumo potenziale in generale ma solamente la componente
reale di quest’ultimo. Considerando, quindi, che in presenza di inflazione, i contribuenti
vedrebbero diminuire in termini reali il valore del proprio patrimonio e si troverebbero nella
condizione di dover accantonare parte di quanto prodotto al solo fine di reintegrare tale perdita.
Allo stesso modo dovrebbe essere considerata solo la componente reale degli interessi, al fine
di evitare di ammettere in deduzione, per i debitori, o in aumento sull’imponibile, per i creditori,
la componente nominale di tali interessi, passivi o attivi che siano.
La principale problematica relativa all’indicizzazione o comunque alla definizione della base
imponibile in termini reali è che dal punto di vista pratico non risulta agevole. Per farlo, infatti,
si introducono alcune variabili che vanno ad aumentare la discrezionalità al momento del
calcolo stesso di tale base. Si pensi, ad esempio, alla scelta dell’indice d’inflazione più adatto
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per tradurre in termini reali gli interessi e le plusvalenze o, per quanto riguarda il reddito
d’impresa, alla valutazione più consona delle quote di ammortamento e del valore dei
macchinari. Tali elementi introdurrebbero quindi ambiguità e, di conseguenza, difficoltà di
accertamento del valore reale del reddito imponibile.
Reddito effettivo o normale
Per concludere questo paragrafo si intende analizzare la scelta relativa a come misurare la base
imponibile, se in termini effettivi o normali. Per reddito effettivo si indica quello nella
disponibilità del contribuente nel periodo d’imposta stabilito. Esso può essere calcolato
attraverso due noti principi contabili, quello di competenza o quello di cassa. Il primo considera
le entrate economicamente maturate nel periodo anche qualora queste abbiano manifestazione
finanziaria in un momento differente. Il secondo, invece, considera semplicemente i flussi di
cassa nel periodo. Il reddito misurato in termini normali si presenta, invece, non come una
misura puntuale ma come una media, calcolata sui redditi dello stesso soggetto in periodi
differenti o su quelli di più soggetti accomunati da una stessa attività, oppure, più in generale,
da caratteristiche comuni. In tale seconda accezione di reddito l’intervallo di tempo che si
considera assume rilevanza fondamentale e mira a discostarsi dall’ utilizzo dell’anno vedendo,
invece, in un periodo di tempo più ampio (e.g. il ciclo vitale) il riferimento corretto per valutare
le potenzialità reddituali dell’individuo.
Sotto il punto di vista dell’accuratezza il reddito effettivo risulta essere una misura migliore
della capacità contributiva dell’individuo, ciò nonostante esistono motivazioni sia di carattere
pratico sia teorico a favore del reddito normale. Tra le prime annoveriamo diversi fattori che
rendono il calcolo del reddito di competenza piuttosto difficoltoso, in primis l’impossibilità per
gran parte dei contribuenti di avvalersi di formali strutture contabili e, anche qualora questo
fosse possibile, la fisiologica complessità nello stabilire il valore di alcune voci di ricavo e costo
(e.g. l’ammortamento). Per altro, il reddito effettivo, assumendo solitamente come riferimento
temporale l’anno, non appare in grado di sottoporre ad equa imposizione fiscale redditi che
subiscano ampie variazioni tra un periodo e l’altro. È il caso dell’attività agricola, che risente
molto delle peculiarità di ciascuna stagione e rischia di essere assoggettata ad aliquote
complessivamente maggiori rispetto ad una situazione che veda la produzione del medesimo
reddito totale ma in maniera costante di anno in anno. A supporto del reddito normale
incontriamo anche motivazioni di carattere teorico e ancora il focus è sull’aspetto temporale.
Modigliani, in particolare, nel volume “il risparmio e l’imposta” parla del reddito normale come
un incentivo nei confronti dell’imprenditore attivo rispetto a quello ozioso. È chiaro, infatti, che
qualora l’imposta venga calcolata rispetto ad un reddito medio, afferente a soggetti operanti
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nello stesso campo, colui il quale riesca a sovraperformare, rispetto agli altri, ne otterrà
indirettamente un beneficio fiscale. Infine, l’utilizzo del reddito normale si è rivelato utile anche
al fine dell’accertamento fiscale, permettendo di individuare contribuenti o classi di
contribuenti risultanti troppo al di sotto della media e quindi, in assenza di valide giustificazioni,
probabilmente classificabili come evasori.
L’UNITÀ IMPOSITIVA
La scelta dell’unità impositiva riveste un ruolo di primaria importanza nel definire le principali
caratteristiche dell’imposta personale sul reddito. Agli estremi di un continuum di possibili
soluzioni troviamo: il singolo individuo ed il nucleo familiare. Data la grande rilevanza di
questo tema e la validità delle argomentazioni a supporto dell’una o dell’altra alternativa, nel
tempo, il dibattito è stato acceso e, di volta in volta, al dipendere del contesto storico e politico,
ha portato a soluzioni diverse.
Alla base del concetto di equità dell’imposta vi è l’idea che questa debba essere commisurata
alla capacità contributiva dell’individuo sul quale essa grava. Sotto questo punto di vista, optare
per il nucleo familiare come unità impositiva risulta ragionevole. È innegabile, infatti, che la
generale condizione economica della famiglia sia, nel bene e nel male, un ottimo indicatore del
benessere del cittadino (Bosi, Guerra, 2015).
La principale controindicazione del calcolare l’imposizione sulla base del reddito familiare e
non su quello del singolo, si ritrova nelle distorsioni che si possono generare. In primis, si corre
il rischio che le scelte del legislatore influenzino la decisione di formare un vincolo coniugale
o, per lo meno, di convivenza. A ben vedere, questo effetto collaterale, sarebbe già di per sé
un’ottima ragione per preferire come unità impositiva l’individuo. Cambiando angolo visuale e
concentrandosi sull’aspetto dell’efficienza, si nota come anche la scelta di partecipazione al
mercato del lavoro, da parte dei familiari diversi dal principale percettore di reddito, possano
risentire della scelta dell’unità impositiva. Risulta chiaro, infatti, come il vedere assoggettato
ad aliquote marginali maggiori l’eventuale nuovo reddito, possa agire come deterrente rispetto
alla decisione, da parte di un elemento non lavoratore del nucleo, di intraprendere un’attività
lavorativa diversa da quella domestica.
Viste le principali argomentazione a favore di ciascuna soluzione, di seguito, si analizzano quali
sono gli aspetti da considerare al fine di rendere l’imposizione equa.
Il nucleo familiare
Nell’utilizzare il nucleo familiare come unità impositiva gli aspetti da considerare sono
principalmente due: numerosità e composizione da un lato, struttura economica dall’altro. Per
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quanto riguarda i primi, si parta da una soluzione piuttosto rozza ma che ha trovato applicazione
in contesti reali di imposizione progressiva. Si sta parlando dello “splitting”, esso consiste nel
sommare i redditi prodotti dai due coniugi e dividerli per due. Così facendo, ai fini della
determinazione dell’aliquota, risulterà che entrambi percepiscano lo stesso reddito e, dunque,
rispetto alla situazione di un solo percettore con medesimo reddito totale, vi sarà un
abbassamento dell’aliquota media. Tale metodo, per quanto intuitivo, risulta inadeguato. Non
si tiene, infatti, conto né della numerosità né della composizione della famiglia stessa.
L’aumento della numerosità, in particolare, genera due effetti parzialmente contrastanti. Se da
un lato porta chiaramente ad un aumento dei costi da affrontare, dall’altro introduce la
possibilità di sfruttare una sorta di economia di scala per far fronte ai consumi della famiglia.
Entro certi limiti, all’aumentare del numero dei membri, alcuni costi fissi, come quelli legati
alla casa, restano invariati, questo comporta, che ciascun nuovo individuo, all’interno del nucleo
familiare, andrà ad incrementare i costi meno di quanto non abbiano fatto i precedenti. Alla luce
di ciò, anche calcolare l’aliquota fiscale basandola sul reddito medio pro capite (reddito totale
diviso il numero dei familiari), risulterebbe inadeguato e andrebbe a risolvere solo parzialmente
le problematiche legate alla pratica dello splitting. Un metodo alternativo, che mira a tener conto
delle economie di scala di cui si è parlato, è quello di introdurre dei pesi da attribuire a ciascun
familiare per determinare un reddito medio pro capite corretto proprio per tale effetto. Il
coefficiente attribuito al primo membro è sempre 1, in presenza di un unico individuo non
possono esservi economie di scala, quelli attribuiti agli altri familiari andranno, invece, via via
decrescendo. Assegnati i coefficienti a ciascun membro questi vengono sommati tra di loro e,
il risultato, utilizzato per dividere il reddito cumulato della famiglia. Ciò significa, che quanto
ottenuto da tale operazione, avrà valore maggiore rispetto al reddito medio pro capite
tradizionale poiché i familiari diversi dal primo incidono minormente. A partire dal reddito
medio pro capite corretto verrà dunque calcolata l’aliquota media che sarà conseguentemente
applicata al reddito complessivo del nucleo familiare. Tale metodo è definito come: “quoziente
familiare”.
Fino ad ora si è guardato al nucleo familiare solamente dal punto di vista del consumo.
Cambiando prospettiva bisogna considerare anche l’attività, per così dire, “produttiva” della
famiglia ovvero quella legata all’assistenza dei figli o degli anziani. Tali servizi necessitano di
tempo ed energie per essere portati avanti e questo implica inevitabilmente che tali risorse
vengano sottratte ad altre attività. Alla luce di ciò, consideriamo due famiglie che abbiano lo
stesso reddito cumulato. Nella prima, ad ottenerne la totalità, attraverso un’attività lavorativa,
è la madre mentre il padre può dedicarsi alle faccende domestiche e alla cura dei figli. Nella
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seconda, invece, entrambi i genitori lavorano e, per prendersi cura della prole, pagano una baby-
sitter. Viene da chiedersi se sia corretto assoggettare alla medesima imposizione fiscale queste
due famiglie. A rigore questa scelta non dovrebbe essere affrontata nel trattare dell’unità
impositiva ma nel farlo riguardo alla base imponibile. Ciò nonostante, non risulta agevole e
soluzioni equivalenti si potrebbero ritrovare o nel tener conto dei costi affrontati per la
produzione di reddito (asili nido, baby-sitter) o assoggettando a tassazione anche il reddito da
lavoro domestico. Alternativamente, per risolvere il problema, invece che apportare modifiche
al sistema fiscale lo stato potrebbe avvalersi di altri strumenti, quali le politiche di assistenza
alle famiglie, offrendo supporto economico per attività come l’assistenza agli anziani o la cura
dei bambini negli asili nido. Per concludere, prima di trattare della scelta dell’individuo come
unità impositiva, bisogna sottolineare come si debba evitare, nell’applicare l’imposizione
fiscale ai nuclei familiari, di provocare ingiuste discriminazioni tra famiglie legalmente
costituite e altre forme di convivenza.
L’individuo
Il fatto di assumere come unità impositiva l’individuo non implica che venga fatta passare
completamente in secondo piano la dimensione familiare. Esistono, infatti, elementi di
personalizzazione dell’imposta che operano esattamente in questo senso. In particolare, si tende
ad agevolare le famiglie monoreddito poiché a parità di reddito familiare se questo è concentrato
tutto sullo stesso individuo, in regime di imposizione individuale e progressiva, l’aliquota media
sarà più elevata. Gli strumenti più utilizzati dal legislatore sono deduzioni per il coniuge o per
altri familiari a carico, in quanto il mantenimento di questi intacca la capacità contributiva del
soggetto interessato.
Di frequente, detrazioni e deduzioni riguardanti l’ambito familiare non vengono utilizzate per
dare coerenza al sistema fiscale quanto per implementare politiche a sostegno dei nuclei
familiari più bisognosi. Allo stesso tempo però, non dal lato del prelievo fiscale ma da quello
della spesa pubblica, operano altri meccanismi, quali, ad esempio, servizi sociali ed assegni
familiari. Oltre all’importanza di una gestione coerente dei due strumenti, si può affermare
come l’utilizzo del secondo possa risultare persino migliore in quanto ha la possibilità di essere
rivolto direttamente verso le famiglie senza dover agire, indirettamente, per mezzo
dell’imposizione individuale. Ciò nonostante, molti moderni regimi di imposizione fiscale
preferiscono far percepire tali aiuti come sgravi fiscali piuttosto che come sussidi.
L’IRPEF
L’articolo 53 della Costituzione italiana recita:
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1. Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità
contributiva.
2. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività.
Tale progressività, in concreto, viene realizzata attraverso l’Irpef. Di seguito si inquadrerà, per
quanto possibile, tale imposta all’interno degli aspetti teorici trattati lungo tutto questo capitolo.
L’Irpef è un’imposta progressiva, personale e ha come base imponibile il reddito complessivo
delle persone fisiche. La definizione di reddito che viene adottata in questo contesto presenta
caratteristiche intermedie tra la nozione di reddito prodotto, entrata e spesa. Quanto affermato
trova giustificazione nel fatto che le plusvalenze e le entrate di carattere occasionale o
straordinario rientrano solo parzialmente nella base imponibile e che, allo stesso tempo, il
risparmio previdenziale viene di fatto escluso, generando quindi una certa tensione verso la
nozione di reddito spesa. I redditi di capitale delle persone fisiche e gran parte dei redditi
fondiari sono poi sottoposti a regimi di imposizione sostitutivi facendola così divergere sia dalla
definizione di reddito prodotto sia da quella di reddito entrata.
L’imponibile è fondamentalmente espresso in termini monetari anche se nel calcolo dei redditi
di impresa elementi come le rimanenze vengono valutati in termini reali. La misurazione,
sempre dell’imponibile, viene effettuata seguendo un criterio di tipo effettivo, sebbene,
soprattutto in fase di accertamento, metodologie quali gli studi di settore, allineate alla nozione
di reddito normale, conoscono ampio utilizzo. L’unità impositiva è di tipo individuale ma
detrazioni e deduzioni vengono ampiamente utilizzate per personalizzare l’imposizione e tenere
conto degli aspetti legati al nucleo familiare dell’individuo. Il presupposto dell’imposta è la
produzione di un reddito ricadente entro una delle categorie previste per legge: redditi fondiari,
da capitale, da lavoro dipendente o autonomo, di impresa o diversi. I soggetti passivi sono le
persone fisiche residenti e non su suolo italiano, le prime, per i redditi posseduti in Italia o
all’estero, le seconde, solamente per redditi prodotti all’interno dello Stato. Sono, infine, esclusi
dall’imponibile: i redditi ricondotti a regimi sostitutivi di tale imposta (e.g. redditi delle attività
finanziarie), i redditi assoggettati a tassazione separata (e.g. Tfr) ed i redditi esenti (e.g. borse
di studio).
Come si è visto ad inizio capitolo, gli strumenti a disposizione del legislatore per implementare
la progressività sono: l’utilizzo di scaglioni di reddito ai quali vengono applicate aliquote
crescenti, le deduzioni dall’imponibile e le detrazioni dall’imposta. Al fine di poter disegnare
nella maniera più accurata possibile il profilo d’imposta e, allo stesso tempo, di non tralasciare
tutti quegli aspetti relativi ad equità ed efficienza, di cui si è discusso in precedenza, il
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legislatore si avvale contemporaneamente di tutti questi strumenti. L’Irpef viene dunque
definita come segue. A partire dal reddito complessivo si sottraggono le deduzioni tradizionali
(e.g. i contributi previdenziali e assistenziali) ottenendo così il reddito imponibile. A questo
viene applicata la scala delle aliquote (definita sulla base di scaglioni crescenti di reddito), è
quindi ottenuta l’imposta lorda. Si opera poi una sottrazione tra quest’ultima e le detrazioni
(e.g. detrazioni per il coniuge a carico) e da ciò si ottiene l’imposta netta, dalla quale, dopo
averla diminuita delle ritenute alla fonte a titolo d’acconto, si ricava l’imposta da versare (Bosi,
Guerra, 2015).
Come si nota da quanto appena esposto, la realtà dei fatti, risulta essere difficilmente
inquadrabile in singoli modelli teorici. Il più delle volte il legislatore, per far fronte alla
complessità che si trova d’innanzi, opta per l’utilizzo di soluzioni ibride. Ciò, rende lo studio di
quanto già applicato in concreto, una necessaria integrazione della teoria ed è per tale motivo,
che nel prossimo capitolo, si andranno ad affrontare situazioni reali di applicazione della flat
rate tax utilizzando, come filtro di analisi, lo schema teorico appena strutturato.
20
2. IL SUCCESSO DELLA FLAT RATE TAX NELL’EUROPA
DELL’EST
Nel presente capitolo, dopo lo studio della definizione di flat tax elaborata da Hall e Rabushka,
verrà analizzata la genesi delle iniziative politiche che hanno portato alla sua diffusione
nell’Europa dell’est. Si esporranno le posizioni di sostenitori e contrari, provando a mettere in
luce i punti di forza e le criticità che sono stati causa di accesi dibattiti in ambito sia accademico
sia politico. Successivamente, si proporrà un approfondimento degli effetti che l’applicazione
dell’imposta ad aliquota unica ha portato in Russia, discutendo se gli incredibili risultati ottenuti
siano esclusivamente frutto di tale riforma o debbano imputarsi anche ad altri fattori.
DEFINIZIONE
Introdotto inizialmente dall’economista statunitense Milton Friedman nel 1956 il concetto di
flat tax vede nel libro dal titolo “The Flat Tax” scritto da Robert Hall e Alvin Rabushka (1985)
un importante punto di riferimento. In quest’opera, i due autori definiscono in maniera
scrupolosa un sistema fiscale radicalmente diverso da quelli attualmente in uso nei paesi
economicamente più sviluppati. Il loro fine è quello di ottenere una modalità di imposizione
fiscale sul reddito che risulti più semplice, trasparente ed efficiente, che sia in grado di ovviare
al problema della doppia tassazione di alcune fonti di reddito (come nel caso dei dividendi) e
alla completa o parziale esenzione di altre (come avviene per i cosiddetti “fringe benefits5”).
Per risolvere tali criticità Hall e Rabushka propongono che l’imposizione avvenga, quanto più
possibile vicina alla fonte, attraverso un’aliquota marginale unica e uguale sia per i redditi delle
persone fisiche sia per quelli delle società. L’unico elemento di progressività viene introdotto
attraverso una deduzione dall’imponibile, concessa alle famiglie e ai singoli contribuenti,
uguale per tutte le fasce di reddito, che sostituisce tutte le detrazioni e deduzioni
precedentemente esistenti. Così facendo, le famiglie il cui reddito è minore della deduzione
saranno completamente esentate dall’imposizione, mentre, chi supera tale soglia, dovrà versare
l’imposta solamente sulla parte eccedente. Sebbene l’aliquota marginale risulti quindi uguale
per tutti, quella media, risulta invece via via crescente, poiché la deduzione pesa in maniera
sempre minore al crescere del reddito del contribuente, fino ad arrivare a non avere pressoché
alcun peso se applicata a redditi particolarmente elevati. Dunque la progressività risulta essere
più pronunciata per le fasce di reddito nelle quali la deduzione ha peso relativamente rilevante,
mentre si passa ad un regime sostanzialmente proporzionale per quei redditi la cui elevatezza
5 In italiano vengono chiamati “benefici accessori” e individuano quelle forme di retribuzione che non hanno
manifestazione monetaria diretta ma si concretizzano sotto forma di agevolazioni a favore dei lavoratori. Esempi
concreti possono essere la concessione di buoni pasto o dell’auto aziendale.
21
rende ininfluente (per lo meno in termini di differenza tra aliquota media e marginale) la
suddetta deduzione.
Per calcolare l’imposta sul reddito delle persone fisiche nell’accezione propria di Hall e
Rabushka si tiene conto, solamente, dei redditi da lavoro e delle pensioni lasciando invece da
parte i dividendi, gli interessi e i benefici accessori, che vengono invece sottoposti a tassazione
a livello societario. Una volta sommati gli importi sopra descritti si procede sottraendo la
deduzione unica e, dunque, applicando l’aliquota marginale.
In linea con l’idea di esercitare l’attività impositiva il più vicino possibile alla fonte, l’imposta
sulle società include tutti i redditi diversi da quelli derivanti da lavoro o pensione. Non è
ammessa nessuna esenzione per pagamenti di interessi, dividendi o qualunque altro tipo di
trasferimento monetario in favore dei proprietari (Grecu, 2004). Ciò comporta, che una volta
usciti dall’azienda, tutti i redditi legati all’attività d’impresa, qualunque forma assumano, non
necessitano di ulteriore attenzione da parte del sistema fiscale perché, appunto, già tassati. Il
reddito imponibile delle società viene quindi definito dalla differenza tra i ricavi e tre ordini di
costi: quelli legati agli stipendi e ai contributi pensionistici, quelli relativi a materie prime,
semilavorati e prodotti finiti acquistati da altre società (le imposte su tali beni sono già state
versate dal venditore) ed infine quelli relativi agli investimenti in macchinari ed attrezzature
che possono essere dedotti integralmente nell’anno dell’acquisto. Quest’ultimo elemento
rappresenta una chiara rottura rispetto al tradizionale principio di competenza dei costi ma,
nell’ottica degli autori, mira ad incentivare gli investimenti e ad annullare tutte le difficoltà
legate al calcolo dell’ammortamento. Al reddito imponibile, infine, viene applicata l’aliquota
marginale unica.
Da quanto esposto, emerge come le novità introdotte mirino all’incentivazione del risparmio e
dell’investimento. Ciò risulta, soprattutto, dall’utilizzo come base imponibile di un’accezione
di reddito, vicina a quella di reddito spesa, che rende gli investimenti completamente deducibili
e i frutti del risparmio (interessi e dividendi) altresì esenti da imposta.
Nonostante la grande attenzione destata sia a livello accademico sia politico dalle idee di Hall
e Rabushka la loro concezione di flat tax non è mai stata applicata in contesti reali. Ciò
nonostante, diversi paesi, in particolare dell’Europa dell’est, hanno aderito a modelli di
imposizione fiscale chiaramente ispirati a quelli propugnati dagli autori sopra citati. Nel resto
del capitolo si parlerà dunque di “flat tax” in un’accezione se vogliamo più annacquata ma
comunque profondamente innovativa rispetto ai sistemi impositivi tradizionali.
22
Sebbene, nell’applicazione concreta, i dettagli applicativi siano stati molo vari, è possibile
ritrovare perlomeno due caratteristiche comuni a tutte le riforme, finora portate a termine:
un’aliquota marginale unica sui redditi di lavoro ed una deduzione dall’imponibile volta, come
sopra esplicato, ad esentare i nuclei familiari indigenti e a dare una certa progressività al sistema
fiscale.
DIFFUSIONE NELL’EUROPA DELL’EST
A partire dall’inizio degli anni ’90, i paesi dell’Europa dell’est ed in particolare quelli
appartenenti all’ex Unione Sovietica, furono teatro di una grande spinta riformista, finalizzata
a rilanciare l’economia e ad attrarre investitori dall’estero. I governi postcomunisti, dunque, si
fecero interpreti di diverse iniziative che manifestassero, oltre i confini nazionali,
l’orientamento liberista del processo di rinnovamento in atto. Oltre a soddisfare le direttive del
“Washington consensus”6, diversi paesi implementarono profondi cambiamenti sia al sistema
pensionistico sia al sistema di imposizione fiscale, introducendo rispettivamente, programmi di
privatizzazione delle pensioni e regimi fiscali ad aliquota unica (i.e. flat tax). Sebbene
accomunati dal medesimo fine questi diversi percorsi di riforma conobbero genesi differenti.
La privatizzazione del sistema pensionistico, in particolare, venne ampiamente caldeggiata da
istituzioni finanziarie internazionali tra le quali l’Organizzazione per la cooperazione e lo
sviluppo economico (OCSE), l’Agenzia degli Stati Uniti per lo sviluppo internazionale
(USAID7), il Dipartimento del Tesoro americano, il Fondo Monetario Internazionale (FMI) e
la Banca Mondiale (BM) che devolsero enormi risorse finanziarie per supportarne la diffusione
(Appel, Orenstein, 2013). Al contrario, le riforme inerenti l’introduzione della flat tax non
conobbero un così diffuso sostegno ma vennero anzi osteggiate. Lo stesso FMI la definì
un’iniziativa controindicata ed eccessivamente esosa per i conti pubblici. A dare quindi
propulsione ad un così profondo cambiamento del sistema di imposizione personale sul reddito
furono gruppi locali di esperti, che si coalizzarono, uniti da idee comuni, e trovarono sostegno
in altri studiosi ed accademici provenienti sia dall’Europa dell’ovest sia dagli Stati Uniti.
Il grafico seguente trasmette in maniera inequivocabile la portata del fenomeno che è appena
stato introdotto.
6 Espressione coniata dall’economista britannico John Williamson per indicare 10 direttive di politica economica
ideate per paesi in via di sviluppo che si fossero trovati in crisi economica. 7 Sigla in lingua inglese: United States Agency for International Development.
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Figura 1: Numero totale di stati postcomunisti che hanno introdotto la flat tax o la privatizzazione delle pensioni
tra il 1994 e il 2011.
Fonte della figura: Appel, Orenstein, 2013. Pagina 124.
Le ondate riformiste
Tra i maggiori driver della diffusione dell’introduzione della flat tax vi fu, a detta di diversi
studiosi tra i quali Keen Kim e Varsano (2006), la competizione tra i paesi est europei per
attirare capitali esteri. Questo fatto risulta in maniera evidente anche dalle dichiarazioni
dell’epoca di diversi ministri e alti funzionari dello stato, che vedevano l’intraprendere la
suddetta riforma come una scelta quasi obbligata, emblematica la frase dell’allora Primo
Ministro ungherese Viktor Orbán: “La stiamo prendendo in considerazione, la flat tax. Stiamo
perdendo il nostro vantaggio competitivo rispetto ai paesi con la flat tax.” e allo stesso modo
quella dell’allora Premier della Repubblica Ceca Mirek Topolánek: “Non abbiamo altra scelta
perché la Slovacchia è già andata avanti” (Appel, Orenstein, 2013). Si instaurò, quindi, una
sorta di processo imitativo tra i diversi stati, che portò alla diffusione di questo sistema
impositivo attraverso un meccanismo moltiplicativo: più stati applicavano la flat tax e maggiori
erano le probabilità che anche altre nazioni lo facessero. Come conseguenza, la riforma si
affermò attraverso ondate successive. La prima fu innescata dall’Estonia, primo paese
postcomunista ad applicare la flat tax nel 1994, seguita dalle altre Repubbliche Baltiche entro i
tre anni successivi. Lettonia e Lituania decisero entrambe di porre l’aliquota marginale pari alla
massima tra quelle presenti prima della riforma (l’Estonia aveva invece optato per un’aliquota
del 26%, compresa tra la più elevata del 33% e quella subito inferiore del 24%). La Lettonia, in
particolare, utilizzava, un sistema ad aliquote decrescenti e fu l’unico paese nel quale il
passaggio al nuovo regime di imposizione sfavorì i ceti più abbienti, lasciando sostanzialmente
invariata la condizione degli altri (Keen, Kim, Varsano, 2006). La seconda ondata ottenne la
propulsione iniziale dalla Russia, che abbandonò il sistema precedente composto da tre aliquote,
rispettivamente del 12, 20 e 30%, per uno ad aliquota unica pari al 13%. Nell’ordine seguirono
24
Slovacchia (2004), Ucraina (2004), Georgia (2005) e Romania (2005) con aliquote marginali
rispettivamente del 19, 13, 12 e 16%. Questi paesi optarono per aliquote ben più basse rispetto
a quelle delle Repubbliche Baltiche e lanciarono, così, un forte segnale agli investitori esteri.
La terza e ultima ondata viene identificata a partire dal 2007 e i paesi coinvolti sono8:
Macedonia (12%), Albania (20% ridotta poi al 10% l’anno seguente), Montenegro (9%)
Bulgaria (10%), Repubblica Ceca (23,1%) e Ungheria (16%).
Tabella 2: I principali stati che hanno attuato la riforma.
Fonte della tabella: Appel, Orenstein, 2013. Pagina 136. Riformattata dall’autore.
Gli attori della diffusione
Come già anticipato la riforma di cui si sta trattando non ha conosciuto il sostegno delle
maggiori istituzioni finanziarie internazionali. Queste, infatti, non hanno esitato a manifestare
la loro preoccupazione sia per quanto riguarda gli effetti sui conti pubblici sia in merito alle
conseguenze di natura redistributiva. Emerge, quindi, come i paesi riformatori non solo non
abbiano agito perché incoraggiati da istituzioni esterne, ma per altro abbiano ideato ed
implementato la riforma senza rifarsi all’esempio di alcun paese più economicamente avanzato
come potrebbero essere quelli dell’Europa dell’ovest. A dare linfa alla diffusione di questa
riforma furono soprattutto gruppi di esperti locali, partiti politici ed ONG, tutti accomunati da
idee affini. Ciò, diede vita ad una rete, formale e informale, di scambio di informazioni e
competenze, che si estendeva non solo all’interno dei confini delle singole nazioni ma,
soprattutto, tra stati diversi.
Sul piano politico, leader e ministri dei diversi paesi si incontrarono per discutere e confrontarsi
sulle riforme già in atto e quelle invece da sviluppare. Emblematico, a questo proposito, il caso
8 Tra parentesi è indicata l’aliquota marginale unica introdotta.
Paese AnnoAliquote prima
della riforma
Aliquota dopo
la riforma
Estonia 1994 16-24-33 26
Lituania 1994 10-18-24-28-33 33
Lettonia 1997 10-250 25
Russia 2001 12-20-30 13
Slovacchia 2004 10-20-28-35-38 19
Ucraina 2004 10-15-20-30-40 13
Georgia 2005 12-15-17-20 12
Romania 2005 18-23-28-34-40 16
Bulgaria 2008 20-22-24 10
Repubblica Ceca 2008 12-19- 25-32 23,1
Ungheria 2011 17-32 16
25
dell’incontro organizzato dall’allora Primo Ministro ceco Topolánek tra lui e i leader dei partiti
conservatori di Ungheria, Slovacchia e Polonia proprio per discutere riguardo i programmi
politici inerenti alla flat tax e apprendere come questi fossero già stati implementati in
Slovacchia (Appel, Orenstein, 2013). Inoltre, non furono rari i casi di ministri o ex-ministri, di
paesi già riformati, che andassero ad operare come consulenti per altri governi, che invece la
riforma dovevano ancora metterla in atto. Ad esempio Mart Laar, l’ex Primo Ministro estone,
divenne un consulente economico per il Presidente della Georgia Mikhail Saakashvili (Appel,
Orenstein, 2013).
Sul piano tecnico, in contemporanea, si ebbero numerosi incontri e conferenze promossi da
centri di ricerca nazionali tra i quali: il Centro per l’Economia e la Politica nella Repubblica
Ceca e l’Istituto per un’Economia di Mercato in Bulgaria. Una così ampia spinta riformista
attrasse, inoltre, sostenitori della flat tax anche dall’Europa dell’ovest e da oltre oceano (Stati
Uniti). Gruppi di esperti Americani, infatti, promossero il diffondersi della riforma attraverso
conferenze e pubblicazioni e, parallelamente, organizzazioni come il CATO Institute, l’IRI
Institute e l’Heritage Fundation fornirono finanziamenti ai centri di ricerca nazionali. Gli stessi
Friedman, Hall e Rabushka attraverso le loro opere fornirono legittimazione, per lo meno dal
punto di vista teorico, alle riforme in atto. Vennero più volte citati dai leader politici del tempo
e, in particolare, il Primo Ministro estone (l’Estonia fu il primo paese postcomunista ad
intraprendere la riforma nel 1994) dichiarò come il libro di Friedman “Free to choose” fosse
l’unico libro di economia che lui avesse letto prima di diventare Primo Ministro (Appel,
Orenstein, 2013).
Da quanto detto si evince che un elemento fondamentale per la diffusione della flat tax fu la
forte necessità dei paesi postcomunisti di attrarre capitali dall’estero per rilanciare il loro
sviluppo economico. Su questa base i partiti di centro destra trovarono terreno fertile per
promuovere politiche che destassero l’attenzione degli investitori stranieri. Inneggiando al
libero mercato, quindi, furono intraprese una serie di riforme delle quali si esposero con
convinzione i vantaggi relegando in secondo piano, se non addirittura tralasciando, i pesanti
effetti redistributivi ed il loro impatto, tutt’altro che insignificante, sui conti pubblici. È
senz’altro di interesse, quindi, provare a fare chiarezza su quali siano i possibili effetti di questo
regime di imposizione fiscale sull’economia di un paese, senza pretendere, però, di poter
ottenere risultati univoci e di universale validità.
PRO E CONTRO
Come ogni provvedimento politico, anche quello riguardante la flat tax è caratterizzato dalla
necessità di un’attenta valutazione dei costi e dei benefichi che da esso possono originare.
26
All’interno dell’ampio dibattito che si è sviluppato e si sta sviluppando tutt’ora, attorno a questo
argomento, è possibile individuare alcuni temi ricorrenti, che permettono di avere un’idea
macroscopica delle argomentazioni a favore e contro la suddetta riforma.
Aspetti positivi
Il fronte dei sostenitori ha spesso fatto leva sulla teoria dell’economista statunitense Arthur
Laffer, egli sostiene infatti che aumentando la pressione fiscale, oltre un certo livello, le entrate
dello stato subiscano, non un aumento, bensì una diminuzione. L’aliquota ottimale, ovvero
quella in grado di massimizzare le entrate statali, si troverebbe quindi ben al di sotto del 100%
(con una tale aliquota non vi sarebbe alcun incentivo alla produzione di reddito e quindi entrate
statali nulle). Quanto detto implica, che in presenza di una già elevata pressione fiscale, si possa,
attraverso una riduzione della stessa, ottenere un aumento di gettito in forza di una reazione
positiva dal lato dell’offerta. A questa idea si accompagnano un'altra serie di effetti che sono
stati più volte citati a favore della flat tax: un’aliquota marginale minore ridurrebbe l’evasione
fiscale, parallelamente fornirebbe incentivi per aumentare l’attività economica e accrescerebbe
l’afflusso di capitali esteri. Infine, con un’aliquota marginale unica, i costi di amministrazione
subirebbero una notevole diminuzione, rendendo più agevole, per il governo, l’esazione e, per
il cittadino, il versamento dell’imposta.
Aspetti negativi
Nonostante gli effetti appena elencati risultino quantomeno interessanti, ciò che emerge dallo
studio empirico porta a conclusioni spesso contradditorie. Tra i paesi che l’hanno introdotta,
secondo i calcoli del 2006 del FMI, solamente in Russia, Lettonia e Lituania9, nell’anno
successivo alla riforma, le entrate relative all’imposta personale sul reddito in rapporto al PIL
aumentarono (Appel, Orenstein, 2013). In Russia, per altro, è difficile attribuire con certezza
questo effetto alla flat tax in sé, poiché, nello stesso periodo, fu introdotta anche un’ampia
riforma del sistema amministrativo atta a contrastare gli elevati tassi di evasione fiscale. Data
l’ambigua evidenza empirica della risposta dal lato dell’offerta, è di fondamentale importanza
valutare con attenzione le conseguenze della riforma sui conti pubblici, potendo, queste, essere
fortemente negative. Ad aggravare il bilancio in sfavore della riforma trattata, va considerato
che, tendenzialmente, dalla sua introduzione, possono derivare effetti redistributivi fortemente
a favore della parte più ricca della popolazione. Essi, però, dipendono ampiamente dallo schema
di imposizione che si decide di implementare: una flat tax con un’elevata deduzione
dall’imponibile e un’alta aliquota marginale risulterà avere effetti redistributivi molto più
9 Si ricordi che sia la Lettonia sia la Lituania hanno selezionato come aliquota marginale unica quella pari alla
più elevata prima della riforma.
27
contenuti rispetto ad una caratterizzata da ridotta deduzione e bassa aliquota, riducendo, però,
anche gli effetti positivi dal lato dell’offerta (Paulus, Peichl, 2009).
LA RIFORMA IN RUSSIA
Storicamente, quello della Russia, viene considerato come uno dei più virtuosi esempi di
applicazione della flat rate tax. Dopo che le tre aliquote marginali dell’imposta sul reddito delle
persone fisiche (PIT10) rispettivamente del 12, 20 e 30% vennero sostituite da un’aliquota unica
del 13% (ben vicina quindi all’aliquota minore) le entrate statali legate proprio a tale imposta
crebbero in termini reali del 26%. Sulla base di questo risultato sorprendente, come già visto,
molti altri paesi est europei misero in pratica riforme simili.
I dettagli delle riforme
Nel 2001, la Russia, oltre all’introduzione della flat tax, riformò il sistema di contribuzione per
la previdenza sociale e rinforzò i controlli sull’evasione fiscale. Di seguito vengono esposti i
principali tratti delle riforme attuate.
Insieme all’aliquota unica del 13%, si introdusse un’area esente da tassazione pari ai primi 4800
rubli di reddito. Questa deduzione dall’imponibile non è stata una completa novità per il sistema
fiscale russo, infatti, già precedentemente, era previsto che il primo scaglione di reddito (fino
ai 3168 rubli) fosse sottoposto ad aliquota nulla. Sotto questo aspetto, la riforma, ha quindi di
fatto innalzato la soglia del reddito esente da imposta per dare leggermente maggior
progressività al sistema. A rigore, l’aliquota del 13%, non può definirsi “unica” a tutti gli effetti.
Alcune fonti di reddito, come ad esempio le vincite al gioco e le indennità assicurative, vennero
sottoposte ad un regime impositivo differente con un’aliquota del 35%, mentre i dividenti
vennero tassati al 30%, tenendo conto, tramite l’introduzione di un credito d’imposta, di quanto
già versato a livello societario (Ivanova, Keen, Klemm, 2006). In aggiunta, al fine di ampliare
la base imponibile venne semplificato il precedente sistema di deduzioni e detrazioni
rimuovendo alcune agevolazioni per militari ed espatriati.
Oltre all’imposta sul reddito un altro radicale cambiamento venne introdotto nello stesso
periodo nell’ambito dei contributi per la previdenza sociale. Prima della riforma essi venivano
versati ad un’aliquota unica del 38,5% dal datore di lavoro, indipendentemente dal reddito del
lavoratore, e ad un tasso dell’1% da quest’ultimo in un fondo pensione. Con la riforma l’imposta
venne fatta gravare unicamente sul datore di lavoro, da questo deriva il nome inglese “unified
social tax” (UST), e si modificò radicalmente lo schema delle aliquote. Se ne adottò uno
regressivo, che andava da un massimo del 35,6% ad un minimo del 5%, rispettivamente per
10 Acronimo inglese per: “Personal Income Tax”
28
stipendi al di sotto dei 100.000 rubli ed al di sopra dei 600.000. L’effetto congiunto di queste
due riforme su un individuo che antecedentemente versava un’aliquota marginale sul reddito
del 12% fu una riduzione del 1,3% sull’aliquota combinata delle due (Ivanova, Keen, Klemm,
2006). Altre modifiche di minor rilievo vennero introdotte anche per quanto riguarda l’imposta
sul reddito delle società e l’imposta sul valore aggiunto. La prima infatti subì un aumento
dell’aliquota massima combinata dal 30 al 35% mentre la seconda, pur mantenendo invariata
l’aliquota, venne resa di più facile adempimento per i piccoli commercianti e vennero introdotte
alcune modifiche riguardo il commercio con gli stati appartenenti alla CSI11(Ivanova, Keen,
Klemm, 2006).
Infine, questa riforma mirò a migliorare il sistema di riscossione delle imposte per
incrementarne l’efficacia ed aumentare l’osservanza degli obblighi fiscali da parte dei cittadini.
Negli anni precedenti, infatti, il fenomeno dell’evasione aveva rappresentato, per la Russia, una
vera e propria piaga. Ciò veniva per altro alimentato dalla debolezza delle istituzioni, che
favoriva la corruzione e non creava il corretto sistema di incentivi all’adempimento. Per dare
un’idea tangibile di quale fosse la situazione in Russia, Brooks nel 2001 ha stimato che nel 1996
solamente il 10% del reddito del settore privato fosse noto alle autorità e che, su questa esigua
porzione, risultasse complesso procedere all’esazione: nello stesso anno 26 esattori fiscali
vennero uccisi, altri 74 feriti durante l’esercizio delle loro funzioni, 6 furono rapiti e a 41 venne
bruciata la casa. Al fine di porre rimedio a queste problematiche venne quindi introdotto un
numero che identificasse ciascun contribuente e, in certi casi, fu consentito di stabilire in
maniera indiretta quale fosse l’ammontare dovuto. Inoltre, fu rimosso il tetto massimo di
interessi da dover corrispondere sulle imposte non pagate. Allo stesso tempo, però, anche un
provvedimento che agiva in senso opposto venne implementato. Si dispose, infatti, che il debito
d’imposta si considerasse soluto nel momento in cui il debitore ne avesse ordinato il pagamento
tramite banca e non quando la transazione si fosse effettivamente verificata.
Previsioni teoriche
Due dei potenziali vantaggi apportati dall’introduzione della flat tax, sono: la stimolazione
dell’offerta di lavoro e la riduzione dell’evasione fiscale. Prima di valutare empiricamente se
tali effetti si siano di fatto riscontrati, si propone di analizzare quali siano le previsioni derivanti
dalla teoria economica.
11Acronimo per: “Comunità degli Stati Indipendenti”.
29
Figura 2: Modello base di scelta di allocazione del tempo.
Fonte della figura: disegno dell’autore.
Partendo dalla reazione dell’offerta di lavoro si può fare riferimento al modello base di scelta
di allocazione delle ore giornaliere tra lavoro e tempo libero (Figura 2). Si consideri una
situazione semplificata12 nella quale prima della riforma vi siano solamente due aliquote
marginali, una maggiore (D) e una minore (E). Si assuma poi che, lavorando fino a 6 ore al
giorno, l’individuo ottenga un reddito tale da ricadere nella prima fascia ed essere soggetto
all’aliquota E. Lavorando da 6 ore in su ogni giorno, invece, il reddito in eccesso verrebbe
sottoposto all’aliquota D. In questa situazione è come se il soggetto recepisse un salario orario
maggiore durante le prime sei ore di lavoro e minore nelle seconde sei a causa del maggior
onere fiscale. Come conseguenza, si ottiene un vincolo di bilancio rappresentato da una linea
spezzata (linea blu): inclinazione maggiore fino a 6 ore lavorative e minore da 6 ore in poi.
Dopo la riforma, l’aliquota viene uniformata e uguagliata ad E per qualunque fascia di reddito,
rendendo il vicolo di bilancio una linea retta (linea rossa). Di fatto, quindi, l’effetto su chi in
precedenza aveva deciso di lavorare più di 6 ore è un aumento del salario orario, mentre, la
situazione di chi già era soggetto ad aliquota marginale E resta stabile. Detto ciò, per
determinare come varierà il numero di ore di lavoro dei primi, bisogna tenere in considerazione
sia l’effetto reddito (dal punto A al punto B) sia quello di sostituzione (dal punto B al punto C).
In questo caso, i due tenderanno a compensarsi rendendo complesso (in assenza di informazioni
12 Quanto segue vale, al margine, solo al di fuori della no-tax area.
30
precise sulla funzione di utilità del soggetto) stabilire se l’offerta di lavoro conoscerà
effettivamente un aumento, come affermato dai sostenitori della riforma.
Anche riguardo agli effetti sull’evasione, quanto emerge dallo studio della teoria, non fornisce
un risultato univoco. Allingham e Sadmo nel 1972 e poi Yitzhaki nel 1974 hanno elaborato
quelli che sono considerati i modelli tradizionali di scelta di evasione fiscale. Il cardine di
entrambi è la teoria dell’utilità attesa. Quando un individuo decide di evadere si sta assumendo
il rischio di subire un accertamento: qualora questo avvenga dovrà pagare una sanzione,
altrimenti, otterrà un guadagno. La sua utilità attesa è data da:
𝐸𝑈 = (1 − 𝑝)𝑢(𝑌 − 𝑡𝑑) + 𝑝𝑢(𝑌 − 𝑡𝑌 − 𝑠(𝑌 − 𝑑))
Dove “p” è la probabilità di subire un accertamento, “u(·)” è la funzione di utilità dell’individuo
(si assume che egli sia avverso al rischio e che al crescere del reddito la sua avversione
decresca13), “Y” è il reddito lordo, “d” è l’ammontare che decide di dichiarare, “s” è la sanzione
in caso di evasione accertata e “t” è l’aliquota fiscale. Il primo dei due addendi a destra
dell’uguale, “(1 − 𝑝)𝑢(𝑌 − 𝑡𝑑)” , indica l’utilità dell’individuo quando non è sottoposto ad
accertamento. Il secondo, “𝑝𝑢(𝑌 − 𝑡𝑌 − 𝑠(𝑌 − 𝑑))”, definisce, invece, l’utilità nel caso di
accertamento. Si noti come questa dipenda dalla sanzione “𝑠(𝑌– 𝑑)” che qui viene calcolata
sulla base del reddito occultato alle autorità. Infine, entrambe le utilità risultano pesate per la
probabilità, rispettivamente, di non subire o di subire l’accertamento. L’individuo, dunque,
sceglierà “d” in modo tale da massimizzare la sua utilità attesa.
Definire come vari “EU” in funzione di “t” non è semplice ed è collegato al fatto che la sanzione
dipenda dall’ammontare di reddito occultato o dalle imposte evase. Nel primo caso, una
riduzione dell’aliquota genererà un effetto reddito che rende l’individuo più ricco e, quindi, più
incline al rischio. Ciò lo spinge ad evadere di più. Allo stesso tempo, ad agire in senso opposto,
vi è anche un effetto sostituzione, poiché ogni unità di reddito evaso, con la nuova aliquota,
rende di meno. Il compensarsi di questi due effetti, porta all’ambiguità del risultato finale. Nel
secondo caso, invece, l’effetto sostituzione viene meno e, dunque, al ridursi dell’aliquota, il
contribuente è univocamente portato ad una maggiore evasione (Corazzini, 2013).
Le componenti della crescita delle entrate fiscali
La maggior parte delle entrate legate alla PIT, in Russia, come nella stragrande maggioranza
degli altri paesi, derivano da salari e stipendi. A partire dai dati ufficiali che trattano queste
variabili, è possibile osservare alcuni fenomeni interessanti. In primis, l’aliquota media effettiva
13 Funzione di utilità del tipo DARA: Decreasing Absolute Risk Aversion.
31
dell’imposta personale sul reddito, dopo la riforma, ha subito un aumento, passando da 11,2%
a 11,8%, ciò significa che il leggero incremento d’aliquota per le fasce di reddito più basse,
insieme alla riduzione delle varie agevolazioni fiscali, ha più che compensato la drastica
riduzione dell’aliquota marginale per le classi più abbienti. La UST ha registrato, invece, una
diminuzione dell’aliquota media effettiva dal 35,8 al 30%, riflettendo la riduzione di aliquota
marginale per tutti i redditi. L’effetto combinato delle due (PIT e UST), determina un
decremento dell’aliquota media effettiva del 2,5%, variazione piuttosto esigua se comparata
alle ingenti decurtazioni ottenute dai contribuenti più benestanti (Ivanova, Keen, Klemm,
2006).
Dagli stessi dati si ottiene che l’aumento delle entrate legate all’imposta personale sul reddito
è così composto: il 13% è dovuto all’aumento dell’aliquota media effettiva, il 10%
all’introduzione della UST (attraverso l’effetto di aumentare la base imponibile della PIT per
ogni livello di reddito lodo), il 5% ad una riduzione dell’evasione e ben il 70% ad un aumento
dei redditi lordi. La crescita in termini reali degli stipendi lordi e di quelli netti infatti si attestò
rispettivamente all’11,6 e al 18,5%. Nonostante la crescita appena evidenziata appaia
sorprendente, se si considera l’andamento delle stesse variabili in un arco di tempo più lungo
essa si configura come un ritorno ai livelli precrisi. Si può infatti affermare che il mercato del
lavoro risentì in maniera maggiore degli effetti della crisi economica del 1998 e che la sua
ripresa fu successivamente più accentuata. A conti fatti, dunque, l’aumento delle entrate legate
alla PIT si deve principalmente all’aumento dei redditi lordi mentre altri fattori, come la
riduzione dell’evasione, hanno avuto un ruolo solamente marginale14 (Ivanova, Keen, Klemm,
2006).
Analisi dei microdati
Per comprendere con più precisione quali siano stati gli effetti positivi direttamente imputabili
alla riforma analizzata, è necessario lo studio del fenomeno a partire da microdati raccolti in
Russia prima e dopo l’avvento della stessa. A questo proposito, si presenta una rassegna dei
principali risultati ottenuti da Ivanova Keen e Klemm nel 2006 e pubblicati in un articolo dal
titolo “The Russian ‘flat tax’ reform”15. Tale studio, si basa sui dati del Russian Longitudinal
Monitoring Survey (RLMS), il quale contiene informazioni su 3500 individui adulti raccolte
tra il 1994 e il 2002. Il metodo utilizzato dai tre autori è quello di mettere a confronto due gruppi
di contribuenti, a seconda che siano stati influenzati o meno dalla riforma dell’imposta
14 Stando alle stime di Ivanova, Keen e Klemm si è registrata una riduzione dell’evasione sui salari di appena il
2,2%. 15 Nel presente elaborato si mira a fornire un quadro generale dei risultati esposti dai tre autori, per maggiori
dettagli su come questi siano stati ottenuti, si invita alla lettura integrale della pubblicazione.
32
personale sul reddito. Al gruppo di controllo appartengono, quindi, i cittadini che prima del
2001 rientravano nella fascia di reddito soggetta ad aliquota marginale del 12%. Essi, infatti,
hanno risentito solo in maniera ridotta dei cambiamenti apportati dalla flat tax. Al gruppo per
così dire “trattato” appartengono, invece, coloro i quali prima della riforma versavano le
imposte sulla base di aliquote marginali più elevate.
La principale domanda alla quale si cerca risposta è se tale riforma abbia di fatto aumentato le
entrate per il governo e se vi siano stati effetti positivi sull’offerta di lavoro e sull’emersione
dell’evasione. Per quanto riguarda le imposte versate, risulta che, per il gruppo “trattato”, non
solo non vi sia stato un aumento ma che queste siano addirittura calate. L’opposto, accade
invece, per il gruppo di controllo, che mostra una crescita dei versamenti. Considerando, oltre
ai pagamenti relativi alla PIT, anche quelli legati alla previdenza sociale, ciò viene
riconfermato. Parallelamente, emerge che i redditi lordi degli appartenenti al gruppo “trattato”,
crescano in maniera relativamente minore rispetto agli altri. Gli autori, identificano il motivo
di tale fenomeno nella riduzione (relativamente all’altro gruppo) sia delle ore lavorate sia dei
salari lordi.
I risultati appena esposti sono calcolati assumendo evasione nulla, togliendo questa restrizione
essi vengono poi riconfermati. L’unica differenza, si ritrova nell’analisi della riduzione
(relativamente all’gruppo di controllo) del reddito lordo del gruppo “trattato”. Questa, infatti,
sembra essere legata non tanto alla diminuzione relativa delle ore lavorate, le quali si
manterrebbero pressoché stabili, bensì, a quella del salario lordo.
Di particolare interesse i risultati legati all’emersione dell’evasione. Prima dell’introduzione
della flat tax, secondo le stime degli autori, gli individui appartenenti al gruppo di controllo
erano soliti dichiarare il 74% del loro reddito, mentre, quelli del gruppo “trattato”, solamente il
52%. A seguito della riforma, emerge, che se da un lato l’evasione si è mantenuta stabile per il
gruppo di controllo, dall’altro, il reddito dichiarato di quello “trattato” è aumentato di circa il
18%, raggiungendo quota 70%. Il più grosso limite di questo risultato deriva dalla difficoltà di
individuare quanto sia effettivamente dovuto all’introduzione della flat tax e quanto al
potenziamento delle misure di controllo sull’evasione. Sebbene impressionante, va quindi
interpretato con una certa cautela.
Alla luce di quanto visto, si può concludere che, l’aumento delle entrate legate solamente
all’imposta personale sul reddito, derivi per la maggior parte dagli effetti verificatisi nel gruppo
di controllo. Quest’ultimo presenta infatti una crescita del reddito dichiarato del 27,5% dovuta
per la maggior parte all’aumento del reddito lordo e non tanto alla leggera riduzione
33
dell’evasione. Questo secondo aspetto, presenta, d’altra parte, un miglioramento deciso (+18%)
nel gruppo “trattato”. A conti fatti, dunqua, a giocare un ruolo di primaria importanza, è il peso,
che la totalità degli individui nel gruppo di controllo, riveste sulle entrate fiscali complessive.
Essi, infatti, si presentano in netta maggioranza numerica rispetto al gruppo “trattato”.
A partire da quanto esposto in questo capitolo, non è facile trarre conclusioni univoche sul tema
dell’introduzione della flat tax nel sistema fiscale di un paese. Se da un lato questo fenomeno
si è espanso prepotentemente nell’Europa dell’est, allo stesso tempo, non ha conosciuto
applicazione pratica nei paesi europei più economicamente avanzati. Ad un’analisi più
approfondita, inoltre, i suoi effetti positivi si sono rivelati deboli o perlomeno ambigui. Ciò
nonostante, l’idea che ad essa sia associata la possibilità di attrarre investimenti dall’estero e di
stimolare l’attività economica, continua a destare l’attenzione dei politici e degli elettori, come
avvenuto nelle recenti elezioni politiche italiane.
34
3. LA FLAT TAX IN ITALIA E NELL’EUROPA
OCCIDENTALE
L’obiettivo del presente capitolo, è quello guardare agli effetti di una potenziale introduzione
della flat tax in paesi europei economicamente avanzati. Una maggior enfasi verrà posta
sull’Italia, data la recente attenzione rivolta al tema, per poi valutare, in termini di effetti
redistributivi, l’impatto di una tale riforma in altri paesi.
Nella prima parte, quindi, si propone un’analisi di tre criticità del sistema italiano di
imposizione sul reddito delle persone fisiche: erosione, erraticità dell’aliquota marginale ed
evasione. L’obiettivo è quello di discutere se tali problematiche possano effettivamente
legittimare l’introduzione di un sistema ad aliquota marginale unica nel nostro paese. Nella
seconda, invece, si studierà come, al variare dei parametri associati alla flat tax (i.e. l’aliquota
marginale e la no-tax area), varino gli effetti di redistribuzione del reddito e come essi siano
differenti tra i diversi paesi analizzati.
EROSIONE ED ERRATICITÀ
L’Irpef, come già visto nel primo capitolo, è stata strutturata al fine di dare una certa
progressività al sistema d’imposizione sul reddito delle persone fisiche. Per ottenere questo
risultato e allo stesso tempo garantire il rispetto dei principi di equità orizzontale e verticale16,
l’imposta in esame dovrebbe gravare sul reddito complessivo del cittadino. Sebbene questo
aspetto sia sottolineato anche nell’articolo 3 del Testo Unico delle Imposte sui Redditi (Tuir)
l’attuale sistema tributario italiano prevede numerose esenzioni che vanno ad erodere la base
imponibile di questa imposta.
Erosione
Prima di provare a dare una spiegazione a questo fenomeno si tratteranno le principali modalità
attraverso cui lo stesso prende forma. In primis, a sfuggire alla progressività dell’Irpef, sono i
redditi sottoposti a trattenuta d’imposta17. Tale meccanismo fa sì, che prima di essere messe
nelle disponibilità del ricevente, determinate categorie di reddito subiscano una trattenuta da
parte dell’erogante. Tale ammontare, viene determinato sulla base di un’aliquota proporzionale
e viene versato come imposta. Dopo che ciò avviene, ogni obbligo impositivo su dati redditi si
ritiene esaurito. Funzionamento analogo hanno le “cedolari secche”18, con l’unica differenza
16 Per la definizione vedere nota n. 2. 17 È il caso della Withholding tax che si applica ai redditi del capitale finanziario, come gli interessi pagati a
privati su depositi e conti bancari, finanziamenti e obbligazioni. 18 Un esempio viene dato dai redditi derivanti dalla locazione di certe categorie di immobili che permettono al
locatore di versare un’aliquota fissa del 21% invece che quelle progressive dell’Irpef.
35
che è il contribuente stesso a versare quanto dovuto. Oltre a questi due casi, ad erodere la base
imponibile Irpef, concorrono anche quei redditi che vengono esplicitamente esentati dal
legislatore, per motivi spesso di carattere sociale, come per le pensioni di invalidità o le borse
di studio universitarie. Infine, l’erosione, viene alimentata indirettamente anche da quei redditi
legati a cespiti il cui valore è determinato in maniera forfettaria o catastale. Tale discostamento
da una valutazione di tipo effettivo dei redditi, causa necessariamente una sottovalutazione
degli stessi e, di conseguenza, l’assoggettamento ad aliquote inferiori non solo di quella quota
ma anche del restante ammontare.
Il motivo del verificarsi di tale fenomeno non è ravvisabile in una causa univoca, fa capo,
piuttosto, ad una molteplicità di fattori. In estrema sintesi, tra questi ne troviamo: certi di natura
strutturale, legati alla difficoltà di determinare alcuni tipi di redditi, alla necessità di
semplificazione o alla concorrenza internazionale; altri, che mirano ad ottenere l’emersione di
redditi di categorie di contribuenti molto inclini all’evasione; infine, alcuni finalizzati ad
agevolare l’attività economica e a supportare classi di individui socialmente svantaggiate
(Stevanato, 2017).
Erraticità
Prima di parlare dell’erraticità delle aliquote marginali effettive (AME) dell’Irpef è necessario
esplicare la differenza tra queste e le aliquote marginali nominali: le seconde sono quelle
relative ai vari scaglioni di reddito e definite nel Tuir19, le prime, invece, originano dalla
combinazione di imposte crescenti e benefici decrescenti all’aumentare del reddito e “indicano
la percentuale di ogni incremento di reddito guadagnato che deve essere versata come imposta
o che viene compensata da una diminuzione di benefici incassati” (Di Nicola, Boschi, Mongelli
2017, p. 6).
Per esporre la problematica si è deciso di mettere a confronto due contribuenti tipo: un
lavoratore dipendente con coniuge e due figli a carico ed un commerciante autonomo nella
stessa situazione familiare. Nei grafici che vengono presentati di seguito si vede, in rosso,
l’andamento dell’aliquota media e, in blu, quello dell’AME globale. Le seconde vengono
calcolate su di un aumento del reddito lordo di 500 euro.
19“Le aliquote nominali e gli scaglioni Irpef in vigore sono pari al 23 % da zero a 15000 euro annui di reddito
imponibile, al 27 % sull’eccedenza fino a 28000, al 38% (un salto di 11 punti) fino a 55000, al 41% fino a
75000, al 43 % oltre” (Di Nicola, Boschi, Mongelli, 2017, p. 15).
36
Figura 3: Aliquote marginali e medie da contributi, imposte dirette e assegni familiari: Lavoratore dipendente
con coniuge e due figli a carico.
Fonte della figura: Di Nicola, Boschi, Mongelli, 2017. Pagina 21.
Dalla Figura 3, che si riferisce ad un lavoratore dipendente con coniuge e due figli a carico,
emerge in maniera chiara come fino ai 30000 euro l’andamento dell’AME risulti tutt’altro che
regolare. Fino a circa 16000 euro di reddito, l’individuo si trova, per l’Irpef, in una no-tax area
ed è chiamato a versare solo il 9,2% sotto forma di contributi obbligatori. Questa zona esente,
è dovuta, in particolare, ad una detrazione da lavoro20 di 1880 euro e ad un bonus di 80 euro
mensili (960 annui) che scatta a partire dagli 8150 euro (soglia oltre la quale i 1880 euro non
sono più sufficienti ad esentare dall’Irpef). Il versamento da parte dello stato del bonus degli 80
euro determina un primo picco negativo dell’AME al momento della sua introduzione, mentre,
quando viene ridotto ed annullato tra i 24000 e i 26000 euro, genera un’impennata dell’AME
che raggiunge circa il 96%. Queste due variazioni anomale hanno anche ripercussioni
sull’aliquota media: nel primo caso, infatti, essa conosce un rapido calo, conseguenza sempre
poco raccomandabile poiché sembra lasciar intuire che lo stato riconosca maggiori trasferimenti
ad individui con redditi più elevati, nel secondo caso, invece, si nota un aumento della
pendenza. Un terzo picco si trova, poi, a circa 16000 euro di imponibile ed è imputabile alle
addizionali comunali e regionali. Queste imposte, che si attivano solo se l’Irpef netta è positiva,
applicano la progressività per classi, ovvero fanno gravare l’aliquota marginale non sul reddito
20 Tale detrazione decresce dopo gli 8000 euro di reddito imponibile: più rapidamente fino ai 24000 euro e più
lentamente poi, fino ad annullarsi al raggiungimento dei 55000.
37
in eccesso rispetto alla soglia di inizio, ma su quello totale. È proprio a causa di questo
meccanismo che l’AME ne risente in così larga misura. Infine, altro aspetto da sottolineare, è
il decrescere dell’AME una volta raggiunti i 100000 euro, esso deriva dall’esenzione dal
versamento dei tributi obbligatori oltre tale livello di reddito. Dando uno sguardo d’insieme al
grafico si nota, quindi, che oltre i 75000 euro l’aliquota media si mantiene grossomodo costante
e che l’AME addirittura decresce dai 30000 euro in poi. Vi è quindi una concentrazione della
progressività nei primi 30000 euro di reddito imponibile.
Figura 4: Aliquote marginali e medie da contributi, imposte dirette e assegni familiari: Commerciante con
coniuge e due figli a carico.
Fonte della figura: Di Nicola, Boschi, Mongelli, 2017. Pagina 27.
La figura 4 si riferisce ad un commerciante con coniuge e due figli a carico. Per quanto riguarda
l’AME, l’andamento è più regolare. Rispetto al caso precedente, infatti, la detrazione per tipo
di reddito non è elevata in termini assoluti e decresce, poi, in maniera regolare. A causare il
picco, ancora attorni ai 16000 euro, sono le addizionali comunali, mentre, la rapida diminuzione
a 101000 euro, è dovuta al fatto che oltre quella soglia non sono più dovuti i contributi
obbligatori. La differenza più eclatante rispetto al lavoratore dipendente è data dall’aliquota
media che, per livelli modesti di reddito, risulta essere superiore al 100%. Ciò è dovuto
all’effetto dell’obbligo di versare un contributo sociale minimo di 3700 euro annui qualunque
sia il reddito ottenuto. Questa misura mira ad evitare che, per effetto della sottodichiarazione
dei redditi (fenomeno molto diffuso per questa categoria di contribuenti), i commercianti non
riescano ad avere accesso ad una pensione che sia al di sopra della soglia di povertà assoluta.
38
La flat tax come antidoto
La principale conseguenza derivante dall’erosione della base imponibile Irpef è legata alla
difficoltà di garantire un livello adeguato di equità orizzontale e verticale al sistema. Per effetto
di questo fenomeno, i redditi da lavoro sono quelli che più di altri subiscono il maggior onere
fiscale legato alla progressività, mentre, quelli ad esempio derivanti da capitali finanziari, sono
soggetti ad aliquote proporzionali e meno gravose. A conseguenza di ciò, individui che
percepiscono il medesimo reddito, ma da fonti diverse, sopporteranno un onere fiscale
differente, violando il principio di equità orizzontale. Se si considera poi, che, solitamente, i
redditi di capitale finanziario sono in proporzione maggiori per individui benestanti, anche
l’equità verticale ne risulta intaccata. È in questo contesto che si inserisce la proposta di una
flat tax. Un’imposta ad aliquota unica, che includa tutti i redditi a prescindere dalla fonte e che
lasci universalmente esenti quelli al di sotto di una certa soglia, potrebbe ristabilire equità
orizzontale e verticale. Pur assumendo che effettivamente si riesca ad ottenere un
miglioramento dal punto di vista dell’equità orizzontale, la maggiore critica a tale proposta si
riferisce all’equità verticale. Si è fatto riferimento, spesso, addirittura alla presunta
incostituzionalità della stessa, asserendo che vada contro l’articolo 53 comma 2 della
Costituzione Italiana: “Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”. Tale
obiezione, però, si basa su una valutazione poco approfondita di come funzioni la flat tax. Essa,
infatti, è un’imposta progressiva a tutti gli effetti21, la differenza rispetto al sistema attuale sta
nell’implementare tale progressività, non attraverso l’utilizzo di scaglioni di reddito, ma per
deduzione22. Al di là della presunta incostituzionalità resta l’obiezione che una flat tax non sia
in grado di riprodurre lo stesso livello di progressività del corrente sistema impositivo per
scaglioni. Questo aspetto, in realtà, dipende dai parametri attraverso i quali si struttura la flat
tax ovvero il livello di reddito esente, l’aliquota marginale e, se previste, eventuali altre
detrazioni.
Per quanto riguarda il fenomeno delle aliquote marginali erratiche, la principale conseguenza
che possono avere è quella di disincentivare il lavoro. Un lavoratore, di fronte ad un’AME
particolarmente elevata (come abbiamo visto talvolta supera il 100%), non avrebbe infatti alcun
incentivo ad aumentare il proprio reddito e le ore lavorate sapendo che gran parte
dell’incremento, o nei casi limite, la totalità o più, andrebbe prelevato sotto forma d’imposta.
Assunto che la reale entità del problema andrebbe ampiamente valutata, l’introduzione della
flat tax mirerebbe a risolverlo attraverso una drastica semplificazione di deduzioni e detrazioni
21 Questa affermazione è valida qualora si ammetta una no-tax area per i redditi al di sotto di una certa soglia,
altrimenti la flat tax diventerebbe un’imposta proporzionale. 22 Fare riferimento al primo capitolo per maggiori delucidazioni su come si attui la progressività per deduzione.
39
sostituendole con quella unica, prevista per tutti i redditi. Se si può dire con certezza che
un’operazione di semplificazione del sistema tributario italiano vada effettivamente presa in
considerazione, allo stesso tempo, bisogna anche riconoscere, che per farlo, è richiesta
un’analisi molto approfondita dell’argomento. Ogni singola detrazione e deduzione Irpef
andrebbe infatti valutata singolarmente poiché alcune di esse ricoprono un ruolo fondamentale
di assicurazione contro eventi avversi (Perotti, 2018). Si pensi ad esempio a quelle per le spese
mediche per figli portatori di handicap, alle spese sanitarie o alle spese per assistenti domestici,
come le badanti.
L’EVASIONE DELL’IRPEF
L’evasione fiscale, in Italia, rappresenta un fenomeno molto diffuso e, allo stesso tempo, risulta
complesso ottenere stime accurate di quale sia la sua effettiva portata. Ciò nonostante da alcuni
studi emerge che: “le stime di evasione da parte dei lavoratori dipendenti variano tra lo zero e
il 9 per cento della base imponibile, mentre per i lavoratori indipendenti la stessa grandezza
stimata varia tra il 28 e il 68 per cento. Analogamente, la stima dell'imposta evasa varia tra il
13 per cento per i lavoratori dipendenti e il 69 per cento per i lavoratori indipendenti” (Di
Nicola, Boschi, Mongelli, 2017, p. 12).
Come già visto nel secondo capitolo, tra i sostenitori della flat tax, vi è la convinzione che, ad
una riduzione dell’aliquota, possa corrispondere un aumento delle entrate per lo stato.
L’ammanco generato, infatti, verrebbe più che bilanciato dalla riduzione dell’evasione e
dall’incremento dell’attività economica. Questa previsione non può essere al momento testata
empiricamente per l’Italia ma si vuole comunque approfondire l’analisi teorica dei modelli
tradizionali di scelta di evasione fiscale visti nel secondo capitolo, attraverso lo studio della
teoria del prospetto elaborata da Kahneman e Tversky (1979).
La teoria del prospetto
Il principale limite dei modelli tradizionali di scelta di evasione fiscale è che, nonostante la
correttezza formale, non includono tra le variabili decisionali alcun aspetto di natura morale o
psicologica. Questi risvolti vengono invece integrati dal modello decisionale di Kahneman e
Tversky. L’elaborazione del modello parte da quattro assunti fondamentali:
1) Il decisore, per valutare un qualunque risultato economico, si basa su un valore di
riferimento da lui liberamente definito.
2) Il decisore ha diversa propensione al rischio a seconda che l’esito della scelta economica
sia di perdita o di guadagno. Nel primo caso risulta propenso al rischio mentre, nel
secondo, risulta avverso.
40
3) A parità di ammontare perso o guadagnato, l’utilità del decisore subisce una variazione,
in valore assoluto, maggiore nel caso di perdita. Il decisore è, quindi, avverso alle
perdite.
4) Il decisore non è oggettivo nel valutare la probabilità di eventi rischiosi, tende a
sottostimare quella di eventi molto probabili e a sovrastimare quella di eventi rari.
A partire da queste quattro assunzioni, i due autori, hanno ricavato la funzione valore e la
funzione di ponderazione delle probabilità. La prima descrive come varia l’utilità dell’individuo
al variare dell’esito monetario della scelta, la seconda identifica la probabilità soggettiva
percepita dal decisore per ogni data probabilità oggettiva. Il grafico riportato in figura 5
permette di vedere come l’andamento della funzione valore sia coerente con i primi tre assunti.
Il dominio delle perdite e quello dei guadagni è definito rispetto al valore di riferimento posto
all’intersezione degli assi (assunto 1). La curva è convessa nel dominio delle perdite mentre è
concava in quello dei guadagni e questo indica la diversa predisposizione al rischio (assunto 2).
Infine, la pendenza è maggiore nel dominio delle perdite e minore in quello dei guadagni,
indicando l’avversione alle perdite (assunto 3). Infine, il grafico in figura 6, mostra chiaramente
che la funzione di ponderazione w(p) è maggiore della probabilità oggettiva per eventi remoti
e minore per quelli molto probabili.
Figura 5: La funzione valore nella teoria del prospetto.
Fonte della figura: Corazzini, 2013. Pagina 65.
41
Figura 6: La funzione di ponderazione nella teoria del prospetto.
Fonte della figura: Corazzini, 2013. Pagina 65.
La scelta di evasione
Alcuni economisti, dopo aver appreso quanto teorizzato dagli autori della teoria del prospetto,
hanno utilizzato tali nozioni per aggiornare il modello tradizionale di scelta dell’evasione
fiscale. La formula dell’utilità attesa già vista nel secondo capitolo diventa quindi:
𝐸𝑈 = (1 − 𝑤(𝑝))𝑣(𝑌 − 𝑡𝑑 − 𝑟) + 𝑤(𝑝)𝑣(𝑌 − 𝑡𝑌 − 𝑠𝑡(𝑌 − 𝑑) − 𝑟)23
Dove w(p), la funzione di ponderazione, ha sostituito “p” ovvero la probabilità oggettiva, e la
funzione valore “v(·)” ha sostituito la precedente funzione di utilità, “u(·)”, del tipo Von
Neumann-Morgenstern. Infine “r” indica il valore di riferimento. È proprio la modalità con la
quale questo valore si debba determinare ad essere stata oggetto di ampia discussione
accademica.
Bernasconi e Zanardi nel 2004 assumono che il valore di riferimento venga definito in maniera
del tutto soggettiva dal decisore e sia compreso tra zero ed il suo reddito lordo (Y). La decisione
se aumentare o ridurre l’evasione, dopo una riduzione del prelievo fiscale, dipenderà dal fatto
che il reddito al netto della totalità delle imposte dovute (reddito netto legale) sia maggiore o
minore del valore di riferimento. Nel primo caso, per prendere la decisione, l’individuo si
riferisce alla curva di utilità nel dominio dei guadagni. Tale curva, come nel caso del modello
tradizionale di Yitzhaki, è concava, crescente e si assume decreasing absolute risk aversion
(DARA). Detto ciò, una riduzione dell’aliquota porta un maggiore reddito netto, quindi più
23 Si noti che, per semplicità, è stata utilizzata l’assunzione presente nel contributo di Yitzhaki (1974), secondo
cui la sanzione varia al variare dell’imposta evasa e non della base imponibile occultata.
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propensione al rischio e, dunque, maggiore evasione. Nel secondo caso (reddito netto legale
minore del riferimento) l’individuo, trovandosi nel dominio delle perdite, risulterà essere
propenso al rischio. Ad un aumento del reddito netto per effetto di una riduzione della pressione
fiscale conseguiranno scelte meno rischiose e, dunque, una riduzione dell’ammontare di reddito
evaso24. In questo modello, quindi, l’effetto di una minore pressione fiscale sull’evasione varia
al variare di come viene definito il valore di riferimento da parte del decisore.
Nel 2007 Dhami e al-Nowaihi hanno proposto una modalità alternativa di definizione del valore
di riferimento. Essi assumono che questo coincida con l’attuale reddito netto legale
dell’individuo. Ciò comporta, che se il contribuente sta evadendo e non viene sottoposto ad
accertamento allora ricadrà nel dominio dei guadagni, altrimenti, nel caso in cui venga scoperto
colpevole di evasione, si troverà nel dominio delle perdite. In questo secondo caso l’individuo
è incline al rischio, una diminuzione della pressione fiscale, quindi, rendendolo più ricco,
ridurrà la sua propensione a comportamenti rischiosi e di conseguenza il livello di evasione.
I due modelli appena presentati non sono esenti da critiche. Il primo, infatti, non aiuta a trovare
un criterio chiaro per definire il valore di riferimento. Il secondo, invece, tale valore lo definisce
in maniera troppo deterministica, facendolo dipendere da un fattore esogeno rispetto
all’individuo, ovvero, l’aliquota fiscale. Ciò nonostante, l’introduzione di variabili
comportamentali all’interno dei modelli tradizionali appare fondamentale per poter predire con
accuratezza quanto avviene nella realtà. Realisticamente un contribuente sarà maggiormente
propenso all’evasione qualora ritenga sistema fiscale iniquo e penalizzante. Al contrario, sarà
disposto a dichiarare una percentuale maggiore di redditi qualora percepisca il prelievo fiscale
come commisurato ai servizi pubblici ricevuti.
In Italia, quello dell’evasione, si caratterizza come un fenomeno radicato e pervasivo. L’assenza
di meccanismi di stigmatizzazione sociale, prima ancora che legale, complica, e non di poco,
l’affrontare con efficacia la suddetta piaga, rendendo pressoché impossibile farlo in tempi
contenuti. Una riduzione dell’aliquota potrebbe essere un primo passo per stimolare
l’emersione. È opportuno, però, valutare con attenzione quali possano essere i reali effetti di
questa manovra, prima di affermare che siano tali da compensare, già nel breve periodo, la
riduzione delle entrate pubbliche legata alla minore aliquota fiscale.
24 Data l’assunzione nella nota numero 19, un aumento o una riduzione delle imposte dovute genera solamente
un effetto reddito e non quello di sostituzione.
43
EFFETTI REDISTRIBUTIVI NELL’EUROPA DELL’OVEST
Il motivo principale per cui la flat tax non si è diffusa anche nell’Europa dell’ovest è
probabilmente dato dagli effetti redistributivi che essa può causare. Visto che la classe media
risentirebbe maggiormente delle conseguenze negative di questa riforma, in stati in cui tale ceto
è ben sviluppato è improbabile che la proposta di introduzione della flat tax conosca
l’approvazione della maggioranza degli elettori.
In questo paragrafo si vedrà come tali effetti redistributivi non solo varino di paese in paese ma
anche come dipendano fortemente dalle caratteristiche della flat tax implementata:
tendenzialmente, una flat tax con elevata aliquota ed elevata soglia di esenzione, genera effetti
redistributivi molto più contenuti di una con ridotta aliquota e ridotta soglia di esenzione. Per
analizzare questi effetti si fa riferimento al lavoro di Paulus e Peichl (2009) dal titolo: “Effects
of flat tax reforms in Western Europe”.
Gli autori usano il modello di microsimulazione EUROMOD25 per mettere a confronto diversi
parametri di dieci paesi europei: Austria (AT), Belgio (BE), Finlandia (FI), Germania (GE),
Grecia (GR), Lussemburgo (LU), Olanda (NL), Portogallo (PT), Spagna (SP) e Regno Unito
(UK). Gli stati vengono poi raggruppati, in base alle caratteristiche del loro Stato sociale, in:
continentali (AT, BE, GE, LU, NL), nordici (FI), anglo-sassoni (UK) e meridionali (GR, PT,
SP).
Attraverso la simulazione, il sistema impositivo delle nazioni in esame viene rimpiazzato dalla
flat tax, le deduzioni e detrazioni dei sistemi correnti sono rimosse e sostituite da quella unica,
vengono lasciati invariati solamente i crediti d’imposta rimborsabili poiché considerati come
trasferimenti da parte dello stato.
I tre possibili scenari di flat tax saranno così definiti:
S1: una no-tax area pari a quella già esistente nel sistema tributario reale del paese, un’aliquota
unica tale da garantire che le entrate fiscali si mantengano inalterate.
S2: un’aliquota aumentata di 10 punti percentuali rispetto a S1, un aumento nella no-tax area
tale da garantire che le entrate fiscali si mantengano inalterate.
S3: un’aliquota aumentata di 20 punti percentuali rispetto a S1, un aumento nella no-tax area
tale da garantire che le entrate fiscali si mantengano inalterate.
25 Dati aggiornati al 2003.
44
Si noti, infine, che per calcolare gli esiti delle tre possibili riforme, viene considerato solamente
l’effetto meccanico delle stesse lasciando escluso quello comportamentale.
La figura 7 mostra le aliquote uniche simulate, in relazione all’aliquota massima e a quella
minima presenti nel sistema fiscale esistente del paese.
Figura 7: Aliquote uniche simulate ed aliquote massime e minime esistenti.
Fonte della figura: Paulus, Peichl, 2009. Pagina 626.
Disuguaglianze nella distribuzione dei redditi
Figura 8: Misurazione delle disuguaglianze di reddito con l’indice di Gini.
Fonte della figura: Paulus, Peichl, 2009. Pagina 627.
45
In figura 8 è mostrato l’indice di Gini calcolato per ciascun paese sulla base della situazione
corrente (in nero) e delle tre flat tax simulate (S1 in azzurro, S2 in verde, S3 in giallo). Gli
stati sono ordinati, da sinistra a destra, per indice di Gini crescente nello scenario di base. La
disuguaglianza tra i redditi, in S1, aumenta in maniera generalizzata per tutti i paesi, in S2,
risulta essere minore per la Finlandia e il Regno Unito, in S3, è maggiore solo per Austria e
Lussemburgo, sempre rispetto allo scenario di base. Le differenze tra i vari stati sono
attribuibili, probabilmente, ai diversi sistemi fiscali vigenti. In particolare in Finlandia e
Regno Unito, dove le disuguaglianze si riducono maggiormente, l’aliquota media effettiva
varia meno tra i vari decili di reddito.
Polarizzazione dei redditi
Figura 9: Misura della polarizzazione dei redditi con l’indice di Schmidt.
Fonte della figura: Paulus, Peichl, 2009. Pagina 628.
Per misurare la polarizzazione dei redditi è stato utilizzato l’indice di Schmidt. In figura 9,
come per il grafico precedente, i paesi sono stati ordinati per livelli crescenti di polarizzazione
nello scenario di base. Tale misura ci permette di vedere quanto sia rilevante, in termini di
reddito, la classe media. Più i redditi sono concentrati nella fascia più ricca e in quella più
povera della popolazione e più la polarizzazione sarà elevata, evidenziando un ceto medio più
debole.
Dal grafico si riscontra che, a grandi linee, la polarizzazione tende a rimanere piuttosto stabile
in paesi dove, già precedentemente, appariva elevata. In una nazione con classe media più
sviluppata, la flat tax tende a ridurre i redditi di questo ceto in favore di quelli agli estremi
della distribuzione. Ciò rende più omogenea la metà inferiore dei redditi e aumenta il distacco
46
rispetto a quelli molto elevati, incrementando nel complesso la polarizzazione. Dove, invece,
la classe media è meno rilevante in termini di reddito, questa dinamica si verifica in maniera
più blanda e la polarizzazione resta sostanzialmente invariata.
Vincitori e vinti
Figura 10: Percentuali di vincitori (parte alta) e vinti (parte bassa).
Fonte della figura: Paulus, Peichl, 2009. Pagina 629.
Per finire, in figura 8, sono mostrate le percentuali di individui che guadagnano o perdono
dall’introduzione della flat tax. Lo scenario 1 presenta in tutti i paesi un maggior numero di
vinti. Nello scenario 2, invece, in Belgio, Finlandia, Germania e Regno Unito chi guadagna è
pari a chi perde, mentre, negli altri stati, ci sono ancora più perdenti che vincitori. Per lo scenario
3, infine, solo Austria e Lussemburgo continuano ad avere un bilancio negativo. In generale,
dallo scenario 1 allo scenario 3 si nota un trend di crescita dei vincitori.
Da questa analisi si può concludere che, dall’introduzione della flat rate tax, derivano,
tendenzialmente, degli effetti negativi di redistribuzione del reddito. Allo stesso tempo però,
tali effetti e soprattutto la loro entità, non sono una caratteristica generale di questo sistema
impositivo. Essi dipendono largamente da come vengono definiti i parametri della riforma in
questione e, contemporaneamente, dalle caratteristiche del sistema impositivo che questa va a
sostituire.
47
CONCLUSIONI
Nell’arco dei tre capitoli che compongono questo lavoro, si è cercato di analizzare con
accuratezza la maggior parte degli aspetti necessari a valutare l’introduzione di una flat rate tax
nel sistema fiscale di un paese. A partire dal concetto di progressività e dalle scelte che
caratterizzano lo sviluppo di un’imposta personale sul reddito, si è passati a studiare gli aspetti
peculiari della diffusione di tale riforma nei paesi dell’Europa orientale, per finire con un
approfondimento su alcune problematiche del sistema impositivo italiano e con l’osservazione
dei potenziali effetti redistributivi che verrebbero generati, dall’ introduzione della flat tax, in
dieci paesi dell’’Europa occidentale.
Dallo studio di una riforma così radicale e pervasiva, emerge un’intrinseca difficoltà di
valutazione delle conseguenze che ne possano derivare. Queste ultime, possono essere
suddivise in due macrocategorie, quelle legate agli effetti meccanici della riforma e quelle
afferenti, invece, agli effetti comportamentali della stessa. Per la stima dei primi, si assume che
il comportamento dei contribuenti resti invariato e, dunque, al di là delle difficoltà tecniche, il
calcolo dei mutamenti delle grandezze di interesse (e.g. entrate fiscali, redistribuzione del
reddito), risulta relativamente agevole. I secondi, invece, sono quelli che conseguono dalle
modifiche che gli individui apportano alle loro scelte. La capacità della riforma di stimolare
l’offerta di lavoro e ridurre i livelli di evasione dipende direttamente da queste variazioni. Dato
l’elevato grado di incertezza, risulta chiara la maggiore complessità inerente al calcolo di questo
tipo di grandezze. È per tale motivo, che per sopperire alla scarsità delle fonti letterarie su questi
temi, è stato proposto lo studio di alcuni modelli teorici che potessero per lo meno dare
un’inquadratura formale all’analisi delle stesse. Sebbene non risolutivi, si ritiene che i modelli
di scelta di evasione fiscale e di allocazione del tempo tra riposo e lavoro, possano fornire,
quantomeno, una base di partenza per l’analisi critica del fenomeno. Infine, nemmeno
dall’analisi empirica, come visto nel caso della Russia, emergono in maniera preponderante
delle conclusioni di carattere generale.
Da quanto osservato per l’Italia nel terzo capitolo, risulta che vi sia effettivamente una certa
necessità di riformare il sistema fiscale del nostro paese, al fine di renderlo più equo e
comprensibile. Allo stesso tempo, però, non è assolutamente scontato che l’introduzione della
flat tax possa difatti risolvere le problematiche attuali e, anche qualora lo facesse, è da valutare
in che misura i potenziali scompensi redistributivi vadano a controbilanciare i benefici ottenuti.
Infine, l’elevato costo della riforma proposta, sembra rappresentare, comunque, l’ostacolo di
maggior portata. Anche ammettendo degli effetti positivi in termini di occupazione, crescita
economica e riduzione dell’evasione, determinarne il quantum, come si è visto, risulta
48
estremamente complesso. A questo proposito è utile ricordare ciò che Ivanova, Keen e Klemm
(2005, p. 433) concludono per la Russia: “the Russian tax cuts did not pay for themselves
through their effects on work effort or compliance”.
L’insegnamento principale che emerge dallo studio condotto, è quello di guardare ad una
riforma del genere con grande cautela e prudenza. Gli esiti della stessa hanno, infatti, un elevato
grado di incertezza, che può essere parzialmente arginato solo attraverso un’analisi, quanto più
accurata possibile, delle diverse dinamiche in gioco26.
26 Numero di parole: 15690 note escluse, 16224 note incluse.
49
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