Una ragazza

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Mauro Mattiolo, mainstream young adults

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MAURO MATTIOLO

UNA RAGAZZA

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UNA RAGAZZA Copyright © 2011 Zerounoundici Edizioni

Copyright © 2012 Mauro Mattiolo ISBN: 978-88-6307-414-7

In copertina: Immagine Shutterstock.com

Finito di stampare nel mese di Febbraio 2012 da Logo srl

Borgoricco - Padova       

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A Elena

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Il fatto è che io sono straordinaria, su questo non si discute. Tra le in-finite combinazioni che i miei genitori potevano ottenere lanciando i loro dadi genetici, io sono di sicuro la migliore possibile. Lo so, ci vuo-le una bella fortuna perché capiti una cosa simile, diciamo pure che si è trattato di una botta di culo fenomenale ma, grazie al cielo, è successo. Avrebbero dovuto sapere che dopo un simile capolavoro era meglio la-sciar perdere e invece i due imbecilli hanno deciso di riprovarci… Così hanno messo al mondo anche mia sorella. Peggio per loro, peggio per lei, ma peggio anche per me che la devo sopportare. Che palle! Co-munque, appurato che io sono eccezionale, nel momento stesso in cui ho deciso di scrivere un diario, le conseguenze sono diventate inevitabi-li: questo libro non potrà che essere considerato geniale. Sì, va bene, mentre verrò ricoperta di elogi, per farvi contenti reciterò la parte della modesta rimirandomi le unghie smaltate in cerca di imperfezioni inesi-stenti. Sorriderò, simulando candore, come se non mi rendessi conto della mia grandezza ma, se state bene attenti, mi vedrete perlustrare la stanza con la coda dell’occhio in cerca di ragazzi carini. Non intendo aspettare molto per ottenere quel che mi spetta, no, proprio non mi vedo guardar giù dalla mia nuvoletta in attesa che qualcuno si accorga di quanto ero in gamba. Quel genere di storia strappalacrime non mi si addice, io sarò, tanto per cambiare, un genio compreso. Ce ne sarà ogni tanto qualcuno, no? E allora perché non potrei essere io? L’adolescente più in gamba del mondo, l’unica capace di farvi ridere, riflettere, sognare e chi più ne ha più ne metta. E allora, se quello che io sto per scrivere, e voi state per leggere, è un best-seller internazionale, mi ritrovo immediatamente con un problema importante da risolvere: a chi dedicare la mia sconvolgente opera pri-ma? Omnibus? Che squallore! Scordatevi di essere tutti uguali per me, tutti alla stessa altezza, non esiste proprio. E scordatevi pure che io sia tanto magnanima da dimenticare i torti che qualcuno di voi mi ha fatto e

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quindi da estendere la dedica anche a questi esseri indegni. Manco per sbaglio che farò così, al massimo potrei considerare una dedica tipo: “A tutti, meno che a... ” E giù una bella lista di tutti i rompicoglioni che ho incontrato nel corso della mia breve ma intensa esistenza, magari con accanto la motivazione per cui rifiuto di accettarli tra i miei ammiratori. Ma anche così non va, se ci pensate, perché questi mostri avrebbero l’onore di veder scritto il loro nome sul mio libro, e poi la lista sarebbe un po’ lunghetta e finirebbe con l’occupare troppo spazio. A mia madre? Ai miei genitori? Alla mia famiglia? A mia sorella? Siamo completamente fuori strada, potrò anche avere qualche micro-scopico difetto ma di sicuro non sono ipocrita. I miei genitori sono due palle al piede, per non dir di peggio, e mia sorella, cazzo, mia sorella, lei starebbe in cima alla lista degli esclusi, quella di cui dicevo prima, perciò piuttosto che dedicarlo a lei rinuncerei alla pubblicazione. Cosa resta? Alla mia migliore amica? No, non si merita tanto, poi ini-zierebbe a tirarsela in modo insopportabile e immediatamente dopo mi starebbe sul culo e mi pentirei amaramente di averle fatto questo onore immenso ma sarebbe troppo tardi per tornare indietro. Al mio ragazzo? Sorry, non ce l’ho in questo momento. Al mio amore segreto? Curiosoni: vi piacerebbe sapere chi è, non è vero? Ma va’, sa-rebbe patetico. E allora, cosa rimane? Che scema sono, come ho fatto a non pensarci prima? La soluzione l’ho avuta sotto gli occhi fin dall’inizio. Lui se ne sta lì tranquillo, spaparanzato sul mio letto, non finge di amarmi tranne quando gli servo a qualcosa, non gliene importa niente di quello che sto scrivendo, non potrebbe comprenderlo neanche se volesse, ma quando mi avvicino e gli accarezzo il naso, questo immenso bastardo inizia a far le fusa, sa che mi sciolgo quando lo fa. Lui riesce sempre a ottenere da me quello che vuole, è l’unico essere vivente che considero più fur-bo di me e quindi l’unico degno di ricevere la mia dedica. Questo libro è dedicato a Parsifal, il mio gatto.

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1 Quelli più attenti tra voi se ne saranno già accorti leggendo la mia dedi-ca, a proposito, dite la verità: non ve l’aspettavate. Sono o non sono una tipa simpatica e originale? E pensate, non ho ancora iniziato davvero. Comunque, dicevo, non farò finta di niente riguardo al linguaggio che ho intenzione di usare. Sia ben chiaro: non farò sconti, le parole che scriverò sono esattamente le stesse che dico nelle conversazioni di ogni giorno. Alcuni esempi. Troverete spesso quella parola che definisce l’aggeggio, sì, insomma, il coso, quello di cui i maschietti vanno tanto orgogliosi, chissà poi per-ché. Sì, avete capito bene, quella parola lì. E non venitemi a dire che non dovrei scriverla, ma per piacere! Sono sicura che la maggior parte di voi non finisce una frase senza averla detta almeno una volta e persi-no le anime candide che riescono, chissà come, a trattenersi dal pronun-ciarla, sanno benissimo di cosa si tratta, o sbaglio? Oh già ma io, gio-vane e pura, dovrei essere all’oscuro di tutto e fingere di cadere dalle nuvole, ma in che mondo vivete? Vi siete mai collegati a internet? An-diamo. E poi, diciamocela tutta, il giorno in cui mi venisse il capriccio di vedere uno di quegli affari dal vero, il tempo necessario per convin-cere qualcuno a mostrarmelo sarebbe talmente breve da non essere nemmeno misurabile. Insieme alla parola d’origine è probabile che compaiano qua e là anche i suoi derivati. Già, pensateci, può essere un caso se tutte le espressioni che contengono o derivano da quel termine hanno un’accezione negativa? No che non è un caso, secondo me. Quel coso lì il più delle volte è un cattivo consigliere, diciamo che tende a curare molto più i propri interessi rispetto a quelli degli altri e perciò mi sembra quanto mai appropriato che quando lo si nomina di solito sia per esprimere un vivace disappunto. Già che siamo in tema, ci sono altri due oggetti innominabili che abita-no nei paraggi di quello di prima e ogni giorno popolano i nostri discor-si. Anche in questo caso non stiamo parlando di complimenti. Normal-

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mente, quando i due gemelli viaggiano in coppia finiscono dentro a e-spressioni che richiamano la noia e il fastidio nella loro versione più acuminata. Se invece, dei due affari, ne viene considerato uno per volta, allora è probabile che il destinatario dell’epiteto non brilli per intelli-genza o almeno non lo abbia fatto nella particolare circostanza in cui si è meritato quell’appellativo. Spostandosi di poco, sempre nello stesso quartiere, si trova qual-cos’altro che, pensandoci bene, sarebbe proprio meglio evitare, e inve-ce, quando parliamo a ruota libera, in quel buco finiamo per cadere tut-ti, presto o tardi. Nella versione più innocente si usa quella parola per evocare la fortuna, a volte bonariamente, altre volte con stizza, quando proprio non riusciamo a nascondere l’invidia per chi ha appena usufrui-to della buona sorte in misura che giudichiamo troppo abbondante. Molto diffusa è anche la forma augurale, con la quale si può invitare ad andare, ovvero mandare, un interlocutore esattamente in quel luogo bu-io di cui stiamo parlando senza mai nominarlo. Un grande valore evocativo lo possiamo riconoscere anche a ciò che normalmente proviene da quel punto nascosto della nostra persona. Ba-sta accostare quel vocabolo, o uno dei suoi sinonimi, a un concetto qualsiasi, per qualificarlo inequivocabilmente, e certo non in positivo. Se dite che non l’avete mai fatto non ci credo. Se nominata da sola e con una certa convinzione quella roba lì può diventare anche un modo efficace per esprimere sorpresa e disappunto. Grazie a un generale fran-cese questo modo di dire è addirittura passato alla storia, lo sanno tutti. Cos’altro? Ah sì, c’è un mestiere, secondo fonti molto accreditate pare sia il più antico del mondo, che costituisce un’inesauribile fonte d’ispirazione per il discorso colorito. Le professioniste dedite a questa attività si sono guadagnate nel tempo tutta una serie di simpatici so-prannomi che spesso viene spontaneo accostare anche ad altre ragazze di cui non abbiamo particolare stima. E infine, inutile negarlo, c’è lei, la parola magica che si è nobilitata gra-zie a una figura retorica di cui ho scordato il nome, insomma, avete ca-pito: la parte per il tutto. Si può declinare anche al maschile, volendo, o utilizzare come semplice aggettivo, in quel caso non è nemmeno più obbligatorio riferirsi a un essere umano tipo George Clooney, si è liberi di spaziare a trecentosessanta gradi nel creato perché, da un telefonino a un tramonto sul mare, ogni cosa può essere gratificata da quella paroli-na. Invece l’originale, la versione femminile, quella della figura retori-ca, è un modo di essere, lo sei o non lo sei e, credetemi, se non lo sei almeno un po’, allora sono guai. Chi sostiene il contrario è un ipocrita.

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Ecco cosa troverete, di tanto in tanto, dentro le pagine del mio diario e scordatevi che io continui a fare tutta questa fatica per girarci intorno senza mai arrivare al dunque, è stato un bel gioco ma finisce qui. E per-ché poi dovrei evitare quelle parole? Già vi sento, almeno alcuni di voi, anzi, vi leggo nel pensiero mentre formulate questo concetto: una brava ragazza non dice parolacce, tanto meno le scrive. Ammesso e non con-cesso che abbiate ragione, chi ha mai detto di voler essere una brava ra-gazza? Non so ancora quale aggettivo vorrei fosse usato per definirmi ma certamente non è brava. Brava equivale quasi certamente a noiosa. Mia sorella è brava, e questo titolo glielo cedo volentieri. Detto tra noi non voglio nemmeno essere considerata una ragazza scema, una che si fa fregare da qualche tizio idiota che non la rispetta, o una che non leg-ge mai un libro solo per il gusto di farlo. A parte brava, e scema, non mi sento di scartare nessun altro aggettivo ma, per ora, lasciatemi essere soltanto quello che sono: una ragazza.

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2 Andiamo a incominciare. Questa mattina è suonata la sveglia e, non a-vendo la forza di pronunciarle ad alta voce, ho composto accuratamente nella mia mente le parole che avrei voluto urlare: che palle! Diciamo pure che ho abbondato con i punti esclamativi, sbattendomene allegra-mente di ogni regola, li ho disposti mentalmente come i birilli del bo-wling e ci ho lanciato contro tutto il mio disgusto facendoli carambolare ovunque nel mio cervello. Speravo che la scarica di adrenalina causata da quell’urlo compresso mi riconnettesse definitivamente con il mondo. Niente da fare, se la sveglia non fosse stata una di quelle subdole, te-starde creature dell’elettronica che ricominciano a suonare dopo pochi istanti quando non ti ricordi di spegnerle, io sarei ancora lì. Nuove ere sarebbero trascorse, presidenti degli Stati Uniti gialli, rossi e arancioni sarebbero stati eletti, l’Inter avrebbe vinto minimo altri venti scudetti e dodici Champions League e io sarei ancora lì, addormentata. Ma la ba-starda elettronica non ha coscienza, ha solo un’arida memoria che io stessa ho programmato e le ci vuole davvero poco per ricominciare a rompere i coglioni devastando il silenzio con la crudeltà metodica di un serial killer. «E va bene, cazzo» ho detto «adesso mi sveglio seriamen-te.» E mi sono alzata a sedere sul letto. L’ho fatto solo per un motivo: prendere la mira e sbattere con forza il palmo della mano sul pulsante per spegnere la maledetta troia. In realtà avrei voluto lanciarla contro il muro e guardare con gusto i mille pezzi in cui si sarebbe fracassata che rimbalzavano per la stanza, ma non potevo. L’anno scorso ne ho fatte cadere un paio quasi accidentalmente, alla seconda sveglia rotta mio padre si è incazzato di brutto. C’è un limite a tutto, piuttosto che sop-portare un’altra menata come quella ho saggiamente deciso di lasciare in pace gli oggetti dotati di suoneria. Dopo aver fatto tacere la sveglia mi sono ritrovata lì seduta in cerca di un buon motivo per tornare a dormire. Sfogliavo vorticosamente, un po’ come si fa con l’iPhone, l’album delle scuse plausibili da propinare a mia madre e, a dire la veri-tà, ce n’era qualcuna che avrebbe potuto anche funzionare; poi però ho

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sentito lo sciacquone in bagno e ho capito che ero perduta. Quella stor-dita di mia sorella, l’irritante modello della perfezione, si stava già pre-parando. Mi sembrava di vederla scattare dal letto come una molla e proiettarsi in bagno per farsi bella ed essere pronta prima di me. Lo fa apposta, lo so, per farmi fare la figura di quella che è sempre in ritardo. Povera rincoglionita, non ha capito niente della vita, ammesso che ci sia qualcosa da capire, ma se davvero ci fosse, lei non lo capirebbe, garan-tito. Il destino però non si comporta sempre da schifoso bastardo, biso-gna ammetterlo, a volte è capace di squisite gentilezze, è così che cerca di fregarti, facendoti abbassare la guardia. Ed eccolo lì, il mio Parsifal, che sguscia dalla porta socchiusa e con un balzo elegante atterra sul let-to. Non è una sorpresa fantastica? Non è una ricompensa più che ade-guata per la levataccia che mi tocca fare? E allora lo invito ad avvici-narsi piegando il dito indice in un gesto ammiccante. Non so se lo capi-sce davvero, sta di fatto che risale camminando cauto sopra le mie gambe e si ferma in attesa, allora mi chino e ci guardiamo negli occhi per un po’. Che meravigliosa, distante serenità c’è dentro i suoi occhi azzurri, come vorrei poter riprodurre quello sguardo a comando ogni volta che mi serve. Io, al massimo, riesco a lanciare un’occhiata sprez-zate del tipo non me ne può fregà de meno ma non è niente in confronto a quel vuoto nobile e assoluto che Parsifal ha naturalmente dipinto sul volto. Chi siete voi tutti? Sembra chiedere, e non c’è altro da aggiunge-re. È implicito che non siamo niente per lui e per questo ogni sua atten-zione è preziosa come il più puro dei diamanti. Questa mattina mi è ve-nuto a trovare in camera, è sfuggito alla sorveglianza di mia madre per essere qui. Quale onore! Sua maestà struscia la testolina contro il mio petto e la giornata diventa un tappeto di velluto rosso che mi si stende davanti. Va bene, è il primo giorno di scuola, il rompimento di coglioni, quello serio, ricomincia proprio oggi, ma dopo questo momento mi sen-to pronta. Mondo, non sai cosa ti aspetta, Ginevra sta arrivando. Non vi sarete mica aspettati una cosa tipo: “Caro Diario, oggi 13 set-tembre mi sono recata a scuola...” Oh, ma per chi mi avete preso! Non ero così neanche in terza elementare. Questo è il contratto: io scriverò solo quando ne avrò voglia e solo di ciò che mi sembrerà importante, starà a voi unire i puntini per capire cosa ne viene fuori.

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3 Quando ero piccola, molto piccola, il mio nome mi piaceva, anche se qualcosa, già allora, mi diceva che non era adatto a me. Poi, studiando geografia alle elementari, ho avuto una rivelazione che mi ha un po’ confusa e sono corsa da mia madre in cerca di spiegazioni. «Perché, mamma» ho chiesto con l’innocenza che allora riuscivo a esprimere senza bisogno di fingere «mi avete dato il nome di una città della Sviz-zera?». Che tenera, non trovate anche voi? E la mamma, sorridendo, si è premurata di dirmi che non era a quella Ginevra che si riferiva il mio nome ma a una persona. Un personaggio letterario, in realtà, come ho purtroppo scoperto più tardi. Una zoccola, diciamocelo, che alla fin fine è ricordata soprattutto per una tragica storia di corna. Se poi vi prendete la briga di consultare Wikipedia scoprirete il signifi-cato meraviglioso di questo nome, del quale, ne sono sicura, i miei ge-nitori non sapevano un bel niente. Va bene, vi risparmio la fatica, ci sono andata io su internet per scoprire che Gwenhwyfar era una divinità celtica e l’entusiasmante traduzione letterale di questa parola pare sia Risplendente tra gli elfi. Da svenarsi, non vi pare? Quando l’ho scoperto non stavo nella pelle. Più sotto, nel-lo stesso paragrafo, si legge che al mio nome si attribuiscono un paio di altri significati, tipo tessitrice e onda bianca. Capirai. Beh, dai, pensan-doci bene, onda bianca non è così male, se fossi una che si accontenta potrei quasi farmelo andare bene questo Ginevra che mi hanno appicci-cato addosso senza chiedermi nulla. Ma, siccome le sfighe viaggiano sempre in comitiva, salta fuori che non esiste nessuna santa Ginevra e quindi nemmeno uno straccio di giorno in cui festeggiare l’onomastico; per metterci una pezza è stato necessario bussare alla porta di Santa Genoveffa e chiederle ospitalità. Insomma, mi ritrovo un nome da mor-ta in culo a cui tocca mendicare il giorno dell’onomastico nientedimeno che alle Genoveffe di questo mondo. Non lo trovate umiliante? Io sì, potete scommetterci. Per la cronaca, il giorno della vergogna è il 2 di Aprile.

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A parte questo, Ginevra evoca una persona fragile e dolce, una tipa pal-lida che sviene per niente. Dopo queste poche pagine che avete letto vi sembra che quella roba lì corrisponda al mio carattere? Ridete, ridete pure, l’ho scritto apposta per farvi ridere, almeno quello.

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4 L’appello, il primo di questo nuovo anno scolastico. La Malinverni è entrata in classe con il suo sorriso sadico intagliato nella parte inferiore del viso. Cazzo, tutte le maledizioni che le ho tirato metodicamente du-rante l’estate non sono servite a niente. E poi dicono che volere è pote-re; cazzate. L’ho vista, che pregustava le sue perfidie da troia malefica, ma per oggi aveva deciso di fare la simpatica e ciarlava con quelli dei primi banchi come se fosse una loro amica. Ve ne accorgerete, pensavo, poi non venite a chiedermi di estrarre il coltello che vi ritroverete pian-tato tra le scapole la prima volta che vi interrogherà senza preavviso e fingerà stupore per il fatto che non sapete un cazzo. Almeno sapesse qualcosa lei di quella cazzo di lingua che dovrebbe insegnarci. Parsifal, se potesse parlare, l’inglese lo insegnerebbe meglio di quella lì. Seconda ora: è entrato un tizio nuovo, mediamente sfigato, con le ma-niche della camicia appena un po’ troppo lise sui gomiti. Carlini, si chiama, Filosofia e Storia, sui quarant’anni, accento dell’Italia centrale e un patetico desiderio di piacerci. Mi fa già pena perché uno così, qua dentro, fa una brutta fine. Ha fatto l’appello un’altra volta, per conoscerci, e quando è arrivato al mio cognome si è fermato a squadrarmi come se da quell’indagine di-pendesse il destino della sua vita. Si vedeva che non riusciva proprio a farne a meno, stava classificando noi ragazze: carina, indifferente, coz-za. Non lo ammetterebbe neanche sotto tortura ma le cose stanno così. Mi sono resa conto subito che per questo emerito stronzo io ero un caso borderline, perciò ha avuto bisogno di un po’ più di tempo per decidere. Stavo scivolando tra le indifferenti ma, all’ultimo momento, il suo sor-riso si è allargato diventando quello riservato alle carine. Meglio così ma, sia chiaro, non ho mosso un muscolo per compiacerlo. L’appello era appena terminato, alleluia, ed ecco, dall’ala sinistra della classe, primo banco, Angela Di Pace ha alzato la mano. Il giorno del suo funerale si sentirà bussare dall’interno della bara e Angela, prima di rassegnarsi a passare dall’altra parte, avrà delle domande anche per il

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prete e, subito dopo, scommetto che interrogherà pure San Pietro in persona. Lei è fatta così e al resto del mondo tocca sopportarla. Una piaga biblica con una testa di assurdi riccioloni a mo’ di Mafalda, due gambe sempre infilate in un paio di jeans stinti, e due braccia, purtrop-po, una delle quali sta alzata metà del tempo per chiedere la parola e fa-re domande del cazzo. Perché lo fa? È uno dei più grandi misteri con-temporanei, forse verrà svelato in una delle prossime puntate di Voya-ger che io non guarderò perché quella sera avrò sicuramente di meglio da fare. Della lezione non ho capito un tubo, mi sono distratta guardando fuori dalla finestra, pensavo a quel tipo di quinta che avevo incrociato en-trando a scuola. L’estate gli ha giovato parecchio e mi sono ripromessa di indagare un po’ su di lui, merita di essere preso seriamente in consi-derazione. Quando è arrivato l’intervallo ne avevo già piene le palle, è dura riabi-tuarsi a questa vita. Entrare in carcere, al confronto, dev’essere una pas-seggiata. Si sono formati i soliti capannelli e sono iniziate subito le con-fidenze, cipicioppi e cipiciappi, tra quelli che non si erano visti durante l’estate. Già prima di entrare, ci scommetto, avevano iniziato a raccon-tarsi le loro meravigliose vacanze ma quella parte me l’ero schivata grazie a una strategica entrata in classe all’ultimo secondo utile. Le dive si fanno aspettare, o sbaglio? Arrivare in anticipo è da burini, lasciate-melo dire, e poi, volete mettere il gusto di far incazzare mia sorella che diventa matta al solo pensiero di entrare in ritardo. Come si fa? Ma è la cosa più semplice dell’universo, basta perdere tempo in bagno cazzeg-giando con se stesse davanti allo specchio, fare i capricci a colazione lamentandosi per il latte troppo caldo, i biscotti non abbastanza freschi e ogni altra minchiata che vi viene in mente, poi, quando state per salire in macchina e vostra sorella e vostra madre sospirano all’unisono guar-dando l’orologio, accorgervi che oops, avete dimenticato di mettere il diario nello zaino, allora potete dirigervi con sadica lentezza verso la vostra camera per recuperare ciò che avevate volontariamente abban-donato sulla scrivania, e, a quel punto, volete rinunciare a coccolare un pochino quel ruffiano di Parsifal, ancora beatamente stravaccato sul vo-stro letto, mentre urla inquiete vi chiamano da in fondo alle scale? Essere malvagi, è meraviglioso. L’intervallo, dicevo, sono corsa in bagno che neanche Usain Bolt, solo perché non mi andava proprio di entrare in uno di quei capannelli, non ancora. Ho chiuso la porta alle mie spalle e ho cercato di gustare le vir-tù nascoste della solitudine ma in un luogo tanto schifoso non era facile,

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devo ammetterlo. Ho riletto le scritte sulle piastrelle, alcune le ricorda-vo, ma là in mezzo non ho trovato alcun capolavoro letterario, e nem-meno qualcosa di particolarmente originale, se è per questo. Già, vi chiederete, perché starmene asserragliata dentro un cesso a far passare il tempo invece di rimanere in mezzo agli altri per riprendere confiden-za con la vita di classe, i pettegolezzi e tutto il resto. Posso nasconderlo a tutti loro, ancora per un po’, il motivo, ma con voi sono costretta a es-sere sincera, altrimenti che diario sarebbe? Curioso, non so se l’avete notato, sto scrivendo un diario segreto dando per scontato che milioni di persone lo leggeranno, strana sensazione. Comunque, il fatto è che la mia estate non è stata spettacolare, diciamo così, sono stata in bei posti, questo sì, ma non è successo nulla di quello che avevo sperato. Potrei raccontare un po’ di balle ma non è da me; mi piace tirarmela da morire per ciò che ho fatto davvero, inventare storie per darmi delle arie, inve-ce, lo trovo patetico. Sì, va bene, lo fanno un po’ tutti, anche io qualche volta ma, mettiamola così, non è il mio sport preferito. E poi c’è Manu, cazzo, lei c’era. Era con me in Inghilterra quando è successa quella co-sa e statene certi, anche se ha promesso di non dirlo a nessuno, alla prima occasione lo farà. Forse lo sta già facendo. E allora, capite, l’amaro calice dovrò berlo, prima o poi, ma almeno non mettetemi fret-ta.

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5 È sabato pomeriggio e mi torna la voglia di imbrattare qualche foglio bianco. Virtuale, s’intende. Non avrete mica pensato che l’originale di questo capolavoro sia stato scritto a penna stilo su carta colorata, maga-ri rosa? Oh, sì, qualcuno di voi l’ha pensato, si è immaginato uno di quei quadernetti a righe rilegati in finta pelle con una piccola serratura dorata chiusa da una microscopica chiave, anch’essa dorata, che io do-vrei tenere nascosta in qualche posto segretissimo o addirittura appesa alla catenina. Sì, ve lo concedo, è una visione molto romantica ma, do-vete concederlo voi a me, anche piuttosto antiquata. Pensandoci bene, il diario segreto di mia sorella probabilmente sarebbe così. Il mio, mi spiace deludervi, lo sto scrivendo sul Mac portatile. Se vi intriga l’idea della segretezza sappiate che la password necessaria per accedere ai fat-ti miei è praticamente impossibile da indovinare, quella parolina è mol-to più sicura della chiave dorata e la posso conservare semplicemente in un luogo inaccessibile del mio cervello. Per la cronaca quel giorno sono uscita dal bagno prima della fine dell’intervallo e da quel momento in avanti le cose non sono andate poi così male. Ho ascoltato le storie degli altri e riguardo a me stessa sono stata sul vago. Balle non ne ho raccontate, diciamo che nella mia ver-sione dei fatti c’è qualche omissis ma un po’ di mistero alla fine è intri-gante e quanto a Manu, che s’impicchi. Dovesse sputtanarmi, poco ma-le, sarebbe la sua parola contro la mia, e la parola di una zoccola non ha mai avuto molto valore. Sono uscita in giardino, poco fa, e dall’altra parte della strada c’era Gianluca che lavorava a torso nudo. È una giornata abbastanza calda oggi e lui stava scartavetrando metodicamente una persiana appoggiata su dei cavalletti. Gianluca abita nella casa di fronte, studia medicina ma è capace di fare anche quel genere di lavori manuali così meravigliosa-mente maschili. Morivo dalla voglia di trovare una scusa per salutarlo ma era così concentrato che non c’è stato verso di attirare la sua atten-zione. Questo ragazzo ha il fisico da pallavolista, il sorriso di uno che

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finge di non sapere di essere uno strafigo e, purtroppo, una fidanzata che sembra uscita da un film. Oltre a essere talmente bella da impedire, persino a me, di sollevare qualsiasi obiezione, quando me l’ha presenta-ta è stata pure abbastanza simpatica, come se si stesse sforzando di non lasciarmi alcun appiglio per odiarla, un po’ come fa a volte mia sorella, e allora io, per non dargliela vinta, ho deciso di odiarla ugualmente e nelle mie maledizioni quotidiane non mi dimentico mai di lei. Ho rimirato Gianluca e i suoi muscoli in azione per qualche minuto poi mi sono rassegnata e sono salita quassù nella mia camera a scrivere. I ragazzi, che razza meravigliosa e dannata. Il loro cervello è esattamente l’opposto di quello dei gatti, tanto è impenetrabile lo sguardo dei felini tanto trasparente è la fronte dei maschi umani. Mi sembra di vederlo quel meccanismo che gira nello spazio tra le loro orecchie, è una mac-china semplice, fatta di pochi pezzi che si muovono in modo prevedibi-le e producono più o meno sempre gli stessi risultati, anche perché l’antenna da cui il congegno riceve la maggior parte dei comandi sta da tutt’altra parte. Eppure queste inesauribili fonti di delusioni e incazzatu-re a volte ti guardano in un modo che è difficile da ignorare. Si sposta-no nel mondo con una noncuranza che noi femmine possiamo solo in-vidiare ma sono anche capaci di rinchiudersi dentro inspiegabili timi-dezze dalle quali ti illudi possa sbocciare da un momento all’altro qual-cosa di meraviglioso. Non accade quasi mai, ma l’attesa è sempre bel-lissima. E poi, i loro corpi, i loro volti, a volte possiedono una purezza tanto intensa da farti dimenticare tutto il resto. Bellezza, Intelligenza, Soldi, in ordine d’importanza, questa è la triade magica in base alla quale bisognerebbe scegliere i ragazzi con cui stare. Noi ragazze veneriamo in segreto queste tre divinità e ci illudiamo di poterle trovare incarnate in una sola persona, poi, se mi guardo intorno, devo supporre che la classifica col tempo tende un po’ a rimescolarsi e tutte le donne sono costrette ad accettare qualche compromesso. A se-dici anni ho ancora il diritto di mettere la Bellezza al primo posto, per-ciò lasciatemi sbavare dietro a Gianluca senza rimorsi. Con questo, sia ben chiaro, non vuol dire che io sia una zoccola, anzi sono molto selettiva e mi rifiuto di partecipare al Gran Premio. Quale Gran Premio? Ma dove vivete? Non lo so cosa sta succedendo ma sem-bra che affrettarsi al traguardo sia diventato un titolo di merito. Non che mi manchi la curiosità di sapere cosa succede quando si arriva al dun-que con un ragazzo, non so se mi spiego. I miei ormoni urlano a squar-ciagola come quelli di qualunque sedicenne ma c’è qualcosa che mi impedisce di considerare tutto questo con superficialità. Ma come? Di-

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rete voi, fai tanto la disinvolta con le parolacce e tutto il resto e poi salta fuori che sei una suora? Potreste anche farvi i cavoli vostri, tanto per cominciare, ma se proprio ci tenete a saperlo: no, non l’ho ancora fatto. Non intendo farlo così per sport o perché la mia migliore amica l’ha già fatto e metà delle ragazze che conosco l’hanno già fatto o per altri stu-pidi motivi legati alla competizione con le mie coetanee. Non provo al-cuna invidia per chi ha già attraversato il Rubicone, né tanto meno mi sento in qualche modo inferiore per questo motivo e, sia ben chiaro, non sto interpretando la parte della volpe incapace di raggiungere l’uva. Ve l’ho detto, al Gran Premio del chi la dà via più in fretta non ho in-tenzione di partecipare, chiaro? Il perché è presto detto, non è che io voglia mantenermi illibata per l’uomo della mia vita o cazzate simili, ma non voglio nemmeno incontrare per strada un tizio tra dieci anni e domandarmi come sia stato possibile averlo fatto proprio con un co-glione simile. Quando incontrerò il tizio che è stato il primo o anche uno di quelli che verranno dopo, detto tra noi spero non siano troppi ma nemmeno troppo pochi, sarà inevitabile provare una punta di imbarazzo ma, insieme a quella, vorrei ci fosse anche un po’ di rimpianto per qualcosa che avrebbe potuto funzionare o che, almeno per un breve pe-riodo, è stato davvero bello. Due estati fa ho limonato con un tizio al mare, era più grande di me e piuttosto figo ma dopo si è comportato talmente da coglione che mi so-no vergognata come una ladra per essere stata con lui. Il punto è che lo sapevo, avevo tutti gli indizi necessari per concludere che stavo facendo una cazzata ma in quel momento mi andava troppo di farla. Quell’esperienza però non è stata inutile, il suo sorriso idiota ogni volta che mi incontrava dopo avermi scaricata ce l’ho registrato in memoria e funziona come una specie di antivirus che entra in azione ogni volta che sto per fare una cazzata con un ragazzo solo per il gusto di farla. Fun-ziona sempre, beh diciamo quasi sempre.

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6 La nostra villa con giardino non è abbastanza vistosa da far pensare che ci abiti un nababbo ma non passa nemmeno inosservata. Sta lì, quasi in cima a una strada in salita, per ricordare a tutti gli abitanti del nostro paesotto di provincia che mio padre ce l’ha fatta. Quanto è orgoglioso di ogni singolo mattone e filo d’erba della sua benedetta casa lo capisci la domenica pomeriggio d’estate quando finalmente si rilassa sulla sdraio all’ombra degli alberi. Ogni tanto lascia penzolare una mano di lato fino a toccare terra e con un movimento lieve delle dita pettina il prato con dolcezza. Socchiude gli occhi e il suo sguardo compiaciuto somiglia un po’ troppo a quello che ha quando accarezza me e Sabrina, le sue principesse. Ma non ci voglio perdere troppo tempo, a parlare di mio padre. Luigino, come a volte lo chiamo per sfotterlo, vive di cer-tezze assolute e il mio compito di figlia devota, oltre che la miglior stra-tegia per ottenere quello che voglio, è lasciargli credere che abbia sem-pre ragione, anche se spesso penso esattamente il contrario.

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7 Sentite cosa mi capita, ieri è venuto a casa mia Giovanni per studiare algebra. Giovanni è un amico e quando dico amico intendo proprio a-mico, non mettetevi strane idee in testa. Ci conosciamo dalle elementari e siamo come fratello e sorella, magari lo fossimo davvero, comunque tra noi funziona così: ci aiutiamo quando serve e ci sfottiamo quando è il momento di farlo, ma, per qualche strano motivo, se io e lui siamo nella stessa stanza l’idea del sesso si allontana schifata sbattendo la por-ta. Vai a capire certe cose, anche perché, detto tra noi, Giova non è per niente da buttare. Insomma l’ho aiutato con certi teoremi che la sua prof aveva spiegato a culo, tanto per cambiare, e poi lui se n’è uscito con questa trovata tipo: «Cazzo, Gina ho lasciato il cellulare a casa e devo chiamare questa tizia con cui devo uscire stasera al cine.» En passant, faccio notare il diminutivo del cazzo che mi tocca digerire, ma il mio nome, l’ho già detto mi pare, è quello che è, perciò anche i diminutivi non sono il massimo: Gine o Gina o soltanto Gi. Se a qualcuno viene in mente qualcosa di meglio, fatemelo sapere. Tornando a Giova, è mai possibile dimenticarsi il cellulare, dico io? Ho fatto partire all’istante una sventagliata di battute fulminanti, così per divertirmi un po’ a sue spese ma alla fine come facevo a dirgli di no? Sta già in depre per un due di picche fresco di stampa e dargli una mano mi sembrava il mini-mo, anche se, da come ne parlava, ho capito subito che la tizia del cine non se lo fila mica tanto. Così gli ho dato l’iPhone e mi sono messa in pausa con l’espressione scettica tipo: adesso vediamo cosa combini, imbranato che non sei altro. Quello che ho visto e sentito mi ha fatto rizzare i capelli in testa. Il mio sprovveduto amico avrebbe bisogno di qualche consiglio anche in materia di donne e forse un giorno, con il tatto che mi contraddistingue, glielo darò. Lo scambio di sms è stato raccapricciante, guardavo Giova annaspare sulla tastiera e il suo volto assumere tonalità di rosso molto originali mentre, un messaggio dopo l’altro, la verità si faceva strada. Provate a visualizzare le innocenti fan-tasie di Giovanni come un’aiuola di fiori variopinti e delicati, che so,

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dei tulipani. In quest’oasi della sua immaginazione creata con l’aiuto di non so quale sostanza allucinogena, ma non è detto, ai maschi queste cose riescono facilmente anche da sobri, Giovanni era riuscito a coltiva-re l’idea che quella sera sarebbe andato al cinema con questa tizia, e poi chissà cos’altro. Ora visualizzate questa ragazza, per il suo aspetto fate come vi pare, l’importante è che riusciate a immaginarla alla guida di una rombante motofalciatrice. Fatto? Ora guardatela mentre preme l’acceleratore e con metodica determinazione avanza attraverso l’aiuola di tulipani. Lo vedete il sorriso soddisfatto, quasi sadico, che le si di-pinge sul viso mentre i fiori cadono sotto le lame affilate? Sì? Allora vi siete fatti un’idea della totale assenza di pietà con cui questa Roberta ha smontato le illusioni di Giovanni, facendogli capire che, se proprio ci teneva ad andare al cinema con lei e una sua amica, doveva trovarsi fuori dal multisala entro la tal ora e, sia chiaro, lei e la sua amica non l’avrebbero aspettato. Salutando Giovanni avevo una gran voglia di convincerlo a lasciar perdere, solo per evitargli un’umiliazione, poi ho pensato che, in fondo, prima impara quanto possono essere stronze cer-te ragazze meglio è per lui. Il bello, almeno per quanto mi riguarda, deve ancora arrivare. Qualche ora dopo aver abbandonato Giovanni al suo destino mi arriva un sms telegrafico da un numero sconosciuto: -Dove 6??? >_<- Lì per lì non ho capito e mi è venuto da rispondere in modo un po’ idio-ta: -Tu ki 6?? o_o- Dopo tre secondi di numero sul mio schermo è apparsa la seguente per-la -Ma 6 rincoglionito??? Ki vuoi che sia? x_x- La lampadina si è accesa, finalmente, Roberta pensava di essere in con-tatto con Giovanni; ho cercato di spiegarle la situazione educatamente. -Scusa sono Ginevra ☺ un’amica di Gio prima nn ti kiamava dal suo cell- Forse il senso implicito del mio messaggio è andato perso nell’etere perché la risposta che ne ho ricavato è stata: -Cosa ci fai con il cellulare di Giovanni? Lui dove cazzo è??? - Secondo voi come potevo rispondere se non così: -Uè calmina!!! Come ti ho già scritto sono solo un’amica di Giova stai inviando sms al MIO cellulare ke prima gli avevo prestato xché si era dimenticato il suo. Kia-ro???? >_<-

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Per me la questione poteva anche essere chiusa ma il silenzio non è du-rato a lungo: -Dì a Giova che se non arriva in fretta noi entriamo senza di lui- Riassumiamo: zoccola, stronza e dura di comprendonio; le cose sono due, ho pensato, o questa Roberta è una figa da svenimento oppure Giovanni è veramente un coglione a correre dietro a una così. Ho dovuto raccogliere tutta la mia riserva di pazienza giornaliera e chiedere un anticipo su quella della settimana successiva per risponder-le senza mandarla affanculo: -Giova nn è qui sarà x strada se vuoi ti do il suo nr- Anche se non te lo meriteresti, avrei voluto aggiungere, il dito fremeva per scrivere ma so-no riuscita a trattenerlo. -Ok capito mandami pure il nr grazie ☺- Si è degnata finalmente di scrivermi. Con grande sollievo, ho potuto concludere questa inutile conversazione postmoderna: -Alleluia! Ecco il numero...-

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8 Ieri era domenica e sono andata allo stadio con mio padre, abbiamo parcheggiato nel solito posto e fatto i soliti gesti scaramantici prima della partita, lui in queste cose è pazzesco e mi tocca accontentarlo; qualche volta può anche essere divertente, almeno fino a un certo pun-to. Due anni fa, alla seconda di campionato, mi ha comprato un gelato all’intervallo, nel secondo tempo la squadra ha giocato benissimo e ha rimontato due gol. Se fosse stato per lui avrei dovuto continuare a in-gozzarmi di cornetti all’amarena anche in pieno inverno, per darci un taglio ho aspettato prudentemente la partita contro l’ultima in classifica ma me la sono vista brutta comunque. Siamo rimasti sullo zero a zero fino a metà della ripresa e, da come mi guardava con la coda dell’occhio, era chiaro che se non avessimo segnato la colpa sarebbe ricaduta su di me a causa del mio rifiuto di mangiare il gelato tra il pri-mo e il secondo tempo. Seguo l’Inter con mio padre fin da quando facevo le elementari, allora mi portava di tanto in tanto, da tre anni facciamo l’abbonamento insie-me e non ci perdiamo un incontro. Mia madre e mia sorella non si de-gnano, credo abbiano paura di spettinarsi. Quelle rare volte che sono venute faceva sempre troppo caldo o troppo freddo oppure dovevano fare pipì al momento sbagliato o, peggio ancora, si mostravano distratte e annoiate quando avrebbero dovuto essere entusiaste. In poche parole di calcio non capiscono assolutamente una cippa, le guardi in faccia e ti rendi subito conto che si trattengono a stento dal ripetere ogni cinque minuti quella grandissima minchiata dei ventidue uomini in mutande che corrono dietro alla palla, il luogo comune più scontato e idiota mai coniato su questo sport e anche quello che fa più incazzare i veri appas-sionati. Cosa prova un tifoso quando la sua squadra vince non si può spiegare, lo puoi sentire oppure no e, nel secondo caso, non credo ci sia niente da fare, ti perdi un pezzo di vita e arrivederci. Se poi la tua squa-dra non ha vinto per tanto tempo, ha subito ogni genere di ingiustizie, ha dovuto lottare contro il resto del mondo per ottenere quello che me-

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ritava e, alla fine di un interminabile calvario, ha finalmente vinto e poi stravinto e continua a rivincere beh... Se l’editore me lo permettesse in-collerei in questo punto la foto che ho scattato con il cellulare un istante dopo il triplice fischio della finale. Mio padre aspettava quella Coppa da sempre e dentro quell’immagine in qualche modo si vede. Quante cose si possono aspettare per tanto tempo senza mai smettere di spera-re? A me è andata decisamente meglio, da quando ho iniziato a seguire davvero il calcio la mia squadra ha sempre vinto, ho sempre potuto sfottere senza pietà i tifosi delle altre squadre e poi assumere quella me-ravigliosa aria di superiorità che li fa rosicare fino a raggiungere le vet-te massime dell’incazzatura. Ah, che meraviglia, Grazie Inter! Ieri siamo arrivati ai nostri posti numerati, i soliti, manco a dirlo, se fosse costretto a cambiarli credo che mio padre cadrebbe istantanea-mente in depressione. Ad aspettarmi, in mezzo ai volti già noti degli al-tri abbonati c’era una piacevolissima sorpresa: un ragazzo veramente carino, era davvero impossibile non notarlo. Troppo grande per me, probabilmente, ma non si può mai dire, lasciate fare alla vecchia Gine-vra. Ieri non ero in vena ma se il figo dovesse rifarsi vivo farò in modo di non passare inosservata.

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9 La signorina Assunta è l’essere umano più in gamba che conosco, senza offesa per nessuno. Tanto per cominciare non si è mai sposata e già questo dimostra quanto fosse avanti per i suoi tempi. Ha un numero di anni imprecisato che probabilmente è più vicino a cento di quanto chi-unque, inclusa lei stessa, potrebbe mai sospettare. Ha vissuto in tempi così lontani che riesco a visualizzarli solo come scene del cinema muto, con la musica di accompagnamento al pianoforte e tutto quanto; da questo, forse, deriva buona parte del suo fascino inarrivabile. Assunta abita a metà della collina, in una villetta che sembra un po’ la casa della famiglia Addams, ma tenuta in perfetto ordine. Una processione discre-ta di domestiche, giardinieri, falegnami, imbianchini, muratori, idraulici e chissà cos’altro attraversa quasi quotidianamente il cancello e, ubbi-dendo agli ordini gentili ma perentori di Assunta, si adopera per far sì che quel fiore proveniente da un’altra era geologica mantenga intatta la sua bizzarra forma, i suoi colori pastello e il suo profumo di vecchia ca-sa rispettabile. Se foste ammessi tra quelle mura sareste stupiti anche voi, come è capitato a me, dalle vetrate colorate e dai mosaici sul pavi-mento, il vostro sguardo seguirebbe meravigliato le evoluzioni degli stucchi sulle pareti salvo poi abbassarsi colto dall’improvviso senso di rispetto che incutono i soffitti altissimi; salendo le scale di marmo, lie-vemente consumate, sentireste i gradini scivolare sotto i vostri passi e capireste che nessuno ha mai corso lungo quelle scale, né mai potrebbe farlo. Seduti al tavolo del tinello davanti a una tazza di tè fumante e a un vassoio di impeccabili biscotti fatti in casa, vi sentireste piccoli e i-nadeguati senza capire bene perché ma il sorriso sottile di Assunta vi rassicurerebbe, la perfezione dei suoi abiti e della sua acconciatura, me-ravigliosamente fuori moda, la sua voce debole ma piena di sicurezza, i suoi movimenti un poco tremanti eppure controllati, vi apparirebbero come un traguardo desiderabile: ciò che vorreste essere in un giorno molto lontano. Assunta mi ha accolta in casa sua che ero una bambina di tre anni, e anche se non è possibile, mi sembra di ricordare davvero il

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sapore delle caramelle che mi ha offerto quel giorno. È stata la mamma a raccontarci di quando si è presentata alla porta con una torta per dare il benvenuto ai nuovi arrivati nel quartiere, proprio come accade nei film. Io e, devo ammetterlo, anche Sabrina, abbiamo recitato senza sforzo la parte delle bambine educate e rispettose in presenza di Assun-ta e lei ci ha aperto le porte del suo regno con la grazia essenziale delle persone orgogliose di vivere sole. Che c’è? Vi stupite che possa scrivere frasi del genere? Gente di poca fede, ve l’avevo detto che sono speciale. In presenza di Assunta non ho mai detto una sola parolaccia, semplice-mente non ci riesco, e anche scrivendo di lei cerco di tirare fuori il me-glio, se lo merita. È un po’ che non vado a trovarla, dico a me stessa che non ne ho avuto il tempo ma, in realtà, è qualcos’altro che mi manca. Recentemente mi ha concesso di darle del tu, come a una zia, ha detto, e alla fine non è stato difficile come pensavo. L’ultima volta che sono stata da lei è stato all’inizio della scorsa estate, siamo rimaste sedute in veranda sorseg-giando una bibita fresca, si parlava delle vacanze e la più giovane ed entusiasta sembrava lei. Ogni anno alla fine di luglio Assunta chiude la casa, spedisce le valige e poi prende un treno che la porta dove vorreb-be stare per tutto il tempo. C’è un paese, da qualche parte in Alto Adige che meriterebbe di esistere solo perché lei possa parlarne, ci va da quando era ragazza e racconta delle gite fatte con i genitori come se fossero dell’anno scorso. Gli anni sono passati e Assunta continua a tornare lassù, fa le stesse passeggiate, ammira i panorami già visti cen-tinaia di volte, eppure è facile capire che è l’attesa di quei giorni a ri-schiarare tante delle sue serate. Di quelle montagne può descrivere ogni sentiero, ogni baita, ogni pietra come se li stesse guardando nel momen-to stesso in cui ne parla, ma non è solo la precisione dei suoi ricordi a stupire, c’è qualcosa di più, qualcosa che una ragazzina come me non può ancora comprendere ma credo che abbia a che fare con l’anima, qualunque cosa essa sia, e con la memoria dei momenti che abbiamo amato intensamente. Dopo che ci siamo salutate mi sono incamminata verso casa ma sapevo che, come sempre, lei sarebbe rimasta in piedi accanto alla porta e non sarebbe rientrata finché io non fossi scomparsa alla sua vista. Lo so perché, ogni volta che ho guardato indietro, lei era là, una figura sottile dai contorni incerti come quelli di una nuvola all’orizzonte.

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10 La scuola è iniziata da un mese e sono ampiamente sopra la linea di galleggiamento. Potrei fare ancora di più, lo so, e sono stufa marcia di sentirmelo dire dai prof e dai genitori ma quello che ottengo per ora mi basta. La mia filosofia scolastica è molto semplice: fare il minimo indi-spensabile per non rovinarmi le vacanze estive. Nel frattempo cerco di capire cosa mi piacerebbe davvero fare nella vita e forse una mezza i-dea ce l’ho già, voi cosa ne pensate? E allora basta non scivolare troppo in basso nelle materie che mi stanno proprio indigeste e prendere qual-che bel voto ogni tanto dove me la cavo meglio, giusto per far sorridere un po’ i miei vecchi e magari far rosicare mia sorella. A parte questi aspetti decisamente noiosi ieri c’è stata una novità del tutto inaspettata: è arrivato un nuovo compagno di classe. Ma che gioia! Ma che felicità! Ma che palle! Dovevano proprio appiopparlo a noi questo ufo arrivato da qualche luogo sperduto del sud. Vincenzo, si chiama, a prima vista mi è sembrato un imbranato senza speranza. Sotto una coltre di vestiti improbabili si porta in giro parecchi chili di troppo, e questo non è un buon inizio. In più, quelle poche parole che è riuscito a dire sono rimaste schiacciate sotto un accento meridionale del peso di una tonnellata. L’ha accompagnato in classe addirittura la preside, du-rante l’ora di mate, manco fosse un ospite di riguardo. Siamo stati sommersi di raccomandazioni riguardo all’accoglienza che avremmo dovuto riservare al nuovo arrivato e tutti abbiamo fatto di sì con la te-sta, da quei pecoroni che siamo, quando sappiamo benissimo che se è uno sfigato, come purtroppo sembra, rimarrà tale, e arrancherà ai mar-gini della classe cercando inutilmente di farsi accettare nei giri che con-tano. All’ultima ora c’era fisica, educazione fisica, a scanso di equivoci, e siamo uscite fuori a correre sulla pista di atletica. Un gruppo di ma-schi cazzeggiava con il pallone da calcio, se lo passavano e ogni tanto tiravano in porta. Vincenzo non si era cambiato e assisteva a bordo-campo. Lo stavo guardando proprio nel momento in cui un tiro alto e svirgolato è arrivato dalle sue parti. È stato un lampo, un movimento

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rapido e preciso che da uno come lui non mi sarei mai aspettata, il pal-lone gli è rimasto incollato al piede sinistro sollevato in aria e poi è sta-to depositato delicatamente a terra. L’ha fatto d’istinto, ne sono sicura, poi si è chinato a raccogliere la palla e l’ha rilanciata con le mani. È partito qualche fischio di approvazione da parte dei ragazzi ma credo che quasi nessuno, a parte me, abbia davvero compreso il valore di quel gesto. Modestamente, di calcio me ne intendo e sono sicura che quello stop perfetto non sia stato una botta di culo. Alla fine della lezione, prima di rientrare negli spogliatoi, mi sono avvicinata a lui con il pallo-ne in mano. «Giochi a calcio?» gli ho chiesto. Per la prima volta quella mattina dentro i suoi occhi scuri si è acceso qualcosa. «No» ha risposto, ma, a parte quella stupida sillaba che aveva deciso di usare per difendersi dalla mia intrusione, tutto il resto della sua persona diceva esattamente il contrario. Gli ho lanciato il pallone, una parabola lenta e alta che è piovuta nei pressi dei suoi piedi. Il sinistro è scattato di nuovo, come poco prima, ha accompagnato dolcemente la caduta della palla impedendole di toc-care terra. Vincenzo ha lasciato che ammirassi per un secondo l’abilità con cui teneva il pallone in equilibrio sul collo del piede, poi, con un movimento lieve, da prestigiatore, l’ha fatto saltare in alto di mezzo metro e l’ha raccolto con l’altro piede, da lì me l’ha rilanciato piano, esattamente tra le mani, poi si è voltato e se n’è andato via senza dire niente. Questo Vincenzo del cazzo, non so perché ma mi sta già sui co-glioni.

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11 Oggi Vincenzo è stato chiamato alla lavagna per risolvere un esercizio di mate. Tutti, inclusa la prof, eravamo convinti che avrebbe combinato un disastro, si capiva dagli sguardi crudeli dei non pochi bastardi che popolano la classe e dai colpi di tosse imbarazzati di quelli che, invece, non amano assistere alle figure di merda. Il fatto è che questo ragazzo non dà mai la sensazione di essere attento alle spiegazioni. Il giorno che è arrivato, approfittando dell’assenza di quella testa di cazzo di Cerci, si era sistemato verso il fondo della classe, dal lato delle finestre. Quando il legittimo proprietario è tornato a scuola e ha reclamato il suo posto Vincenzo si è alzato immediatamente per cederglielo, allora è interve-nuto il prof di scienze e ha convinto Cerci a lasciar perdere. Vincenzo ha insistito ma il prof non ha voluto rimangiarsi la parola. Così il nuovo arrivato si è guadagnato in un colpo solo il privilegio di un banco in pe-nultima fila e l’odio eterno di una iena come Cerci. Protetto dalla posi-zione defilata e da quella strana deferenza che tutti i prof sembrano ave-re nei suoi confronti, Vincenzo passa il tempo a sfogliare libri sotto il banco o a guardare fuori dalla finestra. È chiaro che non gli importa nulla di quello che succede in classe, pare sempre distratto e inquieto come se fosse occupato a spostare dei pensieri ingombranti dentro la testa, senza mai trovare la disposizione giusta in cui lasciarli. Persino quando chiamano il suo nome all’appello non risponde quasi mai al primo colpo, lo vedi esitare un attimo di troppo come se nulla di ciò che sta vivendo gli appartenesse. Quando si è incamminato verso la lavagna, mi sono preparata al peggio. Invece ha preso il gesso tra le dita della mano sinistra e ha scritto il te-sto dell’esercizio che gli veniva dettato poi, senza alcuna incertezza, ha iniziato a risolverlo. Numeri e lettere apparivano velocemente sulla la-vagna e subito dopo la manica sinistra della maglia di Vincenzo ci tran-sitava sopra impolverandosi sempre di più. È arrivato rapidamente al termine dello svolgimento e, con un ultimo svolazzo del gessetto, ha sottolineato il risultato. Nel silenzio generale ha iniziato maldestramen-

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te a spazzolarsi la polvere dal maglione e a ogni colpetto che dava sulla manica sporca una nuvoletta bianca si materializzava attorno al suo polso. «E bravo Vitali!» ha esclamato la prof Gagliardi, visibilmente sollevata. Guardando per terra con l’aria di chi si sta scusando, Vincen-zo ha detto: «Queste cose, le avevo già fatte l’anno scorso.» Cazzo, ho pensato, pure ripetente sei! Una sensazione indefinibile, parente di quella che avevo avvertito guardandolo fermare il pallone al volo, ha preso immediatamente il so-pravvento, e quello stupido pensiero è volato via.

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12 Cazzo, mia sorella è proprio una troia, no, non nel senso letterale del termine, Sabrina è una brava ragazza, persino troppo, è una troia nel senso che mi fa davvero incazzare. Dopo cena stavo scrivendo di quan-do Vincenzo è andato alla lavagna e lei è entrata nella mia camera sen-za bussare. Ma, dico io, avrò diritto alla mia privacy? In questa casa ci avranno assegnato una stanza a ciascuna per qualche motivo, o no? Co-sì, quando l’ho clamorosamente ignorata, lei ha iniziato a protestare che aveva bisogno di aiuto per un tema; non sapeva cosa scrivere, poverina! Mi ha fatto talmente pena che le ho dato immediatamente un consiglio preziosissimo: quello di togliersi dalle palle in modo da lasciarmi finire ciò che stavo facendo. Più tardi, se avesse fatto la brava, mi sarei de-gnata di darle una mano. «Ma cosa stai facendo di così importante adesso?» ha avuto il coraggio di chiedermi. «Perché non puoi aiutarmi subito?». Le ho ribadito, molto educatamente, che al momento ero molto occupa-ta e che, in ogni caso, quello che stavo facendo erano cazzi miei. «Scommetto che eri su Facebook» ha insistito. È o non è una rompicoglioni di primissima categoria? «E se anche fosse?» le ho risposto. «Sarebbero ugualmente cazzi miei. Adesso non ho tempo per i tuoi temi del cavolo. Chiaro?» È seguita una litigata all’ultimo sangue e se non arrivava mia madre mi sa che ci scappava anche qualche tirata di capelli. Qualche volta succe-de, una cosa tra sorelle, tipo molto rumore per nulla ma quando la pic-cola si ribella è necessario ricordarle quali sono le gerarchie in questa casa. Stavolta le è andata bene, l’ONU ci ha sentito urlare ed è entrata dalla porta prima che la guerra verbale subisse una pericolosa escala-tion. Mia madre, che santa! Non so come fa a sopportarci ma gliel’ho detto un milione di volte: la colpa è sua. Che cavolo le è venuto in men-te di andare a cercare un altro figlio? Scommetto che è stata la solita storia, voleva dare il maschio a quello stordito di mio padre, così, per farlo contento, come se i figli fossero bambole da tenere sul comò.

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L’avete voluta la seconda? E allora adesso cuccatevi le due bisbetiche e provate a domarle se ci riuscite. Io sarei stata perfetta come figlia unica. Ah, lasciatemi sognare. Dico io, ma ve lo immaginate? Tutto per me, senza discussioni, nessun motivo per negoziare compromessi del cazzo con un’altra bambina viziata. Il paradiso, praticamente, per me ma an-che per mia madre. E adesso invece le tocca sedersi sul mio letto e farci ragionare, mentre ognuna si chiude a riccio e non vuol cedere di un mil-limetro. Ma, dico io, dove la trova tutta questa pazienza? In quale serra lo coltiva quel sorriso sinceramente melenso e come riesce a dividerlo esattamente a metà per far capire che ci vuole bene allo stesso modo e non farà ingiustizie, neanche questa volta. Come fa a non darci sempli-cemente fuoco, a tutte e due? Lo penso sempre ma non lo dico mai: mio padre ha veramente avuto una botta di culo a sposare una così. A proposito, l’album di nozze dei miei è un reperto decisamente inte-ressante. La mamma è proprio carina in quelle foto, papà è già parec-chio stempiato ma anche lui ha un suo perché, posso quasi capire come faceva a piacerle abbastanza da sposarlo. Sorridono in modo un po’ forzato in certe immagini, si capisce che qualcuno gli diceva di farlo, ma ce ne sono altre in cui sono più spontanei e lì si vede che erano dav-vero felici. Felicità da giorno di nozze, voglio dire, roba da incoscienti ma sempre meglio di niente. Uno dei dettagli più teneri è il modo in cui mia madre guarda di lato, dalla parte dove c’è lui, a volte lo fa ancora e quando becco quel genere di occhiata mi viene uno strano brivido lungo la schiena, mi dà fastidio e mi fa piacere allo stesso tempo, come dire, è una cosa bella ma io non avrei il diritto di accorgermene. Invece lui nel-le foto dell’album non la guarda mai, le ho viste mille volte e le ho stu-diate attentamente tutte quelle pose e sono arrivata alla seguente con-clusione: non la guarda perché non ci riesce, quasi non ci crede che lei sia lì davvero, forse gli sembra troppo bella per essere vera o qualcosa del genere. Ho troppa fantasia? Mi piace pensare che i miei si volevano e si vogliono ancora bene? Può darsi ma, ditemi voi, che male c’è? Non sono così scema, lo so che non sono più i due ganzi delle foto, che qualche volta litigano di brutto e seguono un paio di giorni in cui la temperatura tra loro è ampiamente sottozero. E con questo? Mica sono perfetti, anzi, sono due palle al piede terrificanti ma, sapete com’è, non posso tornare al negozio e chiedere la sostituzione della merce difetto-sa, questi ho di genitori e questi mi devo tenere, tanto vale vedere i lati positivi. Bene, adesso è l’una di notte e sarà meglio far finta di dormire almeno un po’, domani verifica di latino, grandissima rottura di cabasisi; sì, ok,

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l’ho letto, ho letto Montalbano. Ah, per la cronaca, ho dovuto aiutare quel disastro ambulante di mia sorella a fare il suo stramaledetto tema. Non è venuto neanche tanto male, considerate le premesse.

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13 Ieri pomeriggio, mentre tornavo in motorino dalla lezione di chitarra, ho visto un tizio che arrancava correndo lungo un viale alberato. Aveva qualcosa di familiare e quando l’ho sorpassato mi sono voltata a guar-dare per vedere se lo riconoscevo: era Vincenzo. Ho rallentato e ho fat-to ciao con la mano, lui ha risposto con un cenno del capo, non ero nemmeno sicura che mi avesse riconosciuta ma in ogni caso non avrei potuto fargliene una colpa, io portavo il casco, tanto per cominciare, e lui aveva la faccia rossa come la polpa di un’anguria matura, stava pra-ticamente scoppiando. Questa mattina all’intervallo sono andata da lui e ho provato a sfotterlo un po’. «Fatica correre eh?» Ha sorriso, senza mostrare alcuna sorpresa, sapeva che ero stata io a sa-lutarlo. «No, per niente» ha risposto, ma il suo viso accentuava abilmente la consapevolezza della cazzata che stava dicendo. Autoironia, chi se lo sarebbe aspettato? «Come no, ciccio, guarda che ti ho visto in faccia quando ti ho supera-to, scommetto che un minuto dopo hai dovuto smettere di correre e ini-ziare a camminare» ho insistito. «Anzi, ho aumentato l’andatura» ha continuato a bleffare, ma ancora una volta non era sgradevole. «Come mai corri?» ho azzardato. «Ti alleni per qualcosa in particola-re?» «La maratona di New York.» Ha provato a rimanere serio mentre lo diceva ma questa volta la cazzata era davvero troppo grossa e ha dovuto girare la testa per nascondere la risatina che gli era sbocciata nell’angolo della bocca. Ho deciso di essere magnanima e prima di abbandonarlo al suo destino di sfiga eterna gli ho dato un’altra possibilità di continuare la conversa-zione. «Dai, seriamente, che cazzo ci facevi in giro ad ammazzarti di fatica?»

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«Seriamente?» ha chiesto, spalancando all’eccesso tutte le vocali di quella parola, e, ci potete scommettere, si è gustato fino in fondo il mezzo sorriso che è riuscito a strapparmi in quel momento. Poi se n’è meritato uno intero di sorriso quando ha spinto ancora più in fuori la pancia già evidente sotto la camicia e ci ha battuto sopra le ma-ni come se fosse un tamburo. Nello stesso istante la pelle tesa dello suo stomaco ha suonato in modo buffo, la bocca gli si è piegata in una smorfia di rassegnazione e le sopracciglia hanno disegnato di nuovo un po’ d’ironia sulla sua fronte. Dopo aver illuminato la stanza con la parata dei miei denti smaglianti al completo me ne sono andata scuotendo la testa. Questo cazzo di Vin-cenzo, mi sta un po’ meno sui coglioni.

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14 Ieri era domenica, prima di andare alla partita siamo stati a pranzo dai miei nonni materni che abitano a Milano in un bel palazzo non lontano dal centro. Nonna Alba ci ha accolto con la sua voce acuta e la sua dose di smancerie eccessive che fa subito innervosire mio padre. Lei ci vuole bene, per carità, ma sullo sfondo delle sue accoglienze festose e della sua ospitalità impeccabile rimane sempre un residuo di insoddisfazione che non le riesce proprio di scopare sotto il tappeto prima del nostro ar-rivo. Anni fa, quando il mondo degli adulti ha iniziato a sembrarmi più inte-ressante di quello delle bambole mi sono subito resa conto che nelle conversazioni tra i miei genitori e i nonni c’era qualcosa che non anda-va. Dopo un po’, se uno stava bene attento, tra le parole s’iniziava a sentire un rumore insopportabile, come di gesso strisciato sulla lavagna, e anche se le facce di tutti cercavano di far finta di nulla i sorrisi diven-tavano più tirati e le mascelle più serrate. Non c’è voluto molto a capire qual era la causa scatenante: la rugiada diventava brina quando nonna Alba iniziava a parlare di zio Angelo. Il fratello maggiore di mia madre è una specie di genio capace di trasformare in oro tutto ciò che tocca. Bravissimo a scuola fin da bambino, si è laureato in ingegneria con il massimo dei voti, è diventato un brillante ricercatore universitario fin-ché non è stato rapito da una multinazionale in cui ha fatto istantanea-mente carriera fino ai massimi livelli, poi si è messo in proprio e ha fondato un’azienda sua che gli ha fatto guadagnare soldi a palate, ora vive da qualche parte in Sudamerica e, stando a quello che dicono i nonni, nel giardino della sua villa ci sono due piscine, un campo da ten-nis e probabilmente, per la prossima volta che verremo a trovarli sarà stato aggiunto anche un piccolo zoo. A mia madre, che si chiama Marina, mancavano pochi esami alla suda-tissima laurea in lingue quando ha sposato mio padre, poi si è, per così dire, dimenticata di terminare gli studi. Per colpa mia, qualcuno potreb-be sostenere, ma è appena il caso di ricordare che non sono arrivata da

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sola. La mamma era una bellissima ragazza e parecchi tizi le correvano dietro; ognuno di loro, manco a dirlo, è diventato come minimo un av-vocato di successo quando non un medico in predicato per il Nobel. Tutte queste storie, quelle dello zio e degli spasimanti di mia madre, saltano casualmente fuori ogni volta che siamo in compagnia dei nonni. Devo aggiungere altro? Da certi sguardi si capisce che nonno Gianni, se potesse, chiuderebbe volentieri la bocca di sua moglie con del nastro adesivo molto robusto; anche lui però s’intenerisce per la sua Marina, quella biondina bella e sfortunata che, non lo dice ma si capisce benissimo quando lo sta pen-sando, è finita chissà come tra le braccia di uno zoticone provinciale. Così va a finire che il silenzio rassegnato del nonno e i suoi occhioni pieni di comprensione per la mamma diventano quasi più offensivi del-le sorridenti insinuazioni che sibilano dalla boccuccia della nonna. Luigino prende e porta a casa, non reagisce ma si vede anche da molto lontano quanto vorrebbe non essere lì, negli occhi gli si allarga il desi-derio di tornare al più presto nel suo piccolo mondo, dove la sua casa è una reggia, sua moglie una regina e le sue figlie due principessine. For-se, certe volte, pensa anche ai suoi di genitori, la Ida e il Federico, come li chiama lui quando si ricorda di loro. Li descrive come due taccagni bestiali, e non si fa fatica a credergli, però, a suo dire, hanno avuto il grande merito di insegnargli a fare sacrifici. Sono schiattati entrambi prima che io avessi cinque anni; non mi ero ancora affezionata a loro e, sinceramente, temo che non sarebbe mai accaduto. Mio padre era l’unico figlio, arrivato quando ormai pensavano che la cicogna si fosse dimenticata di loro, è così che lui stesso descrive le circostanze che l’hanno portato in questo mondo. Avrei voluto essere una mosca sul muro, anzi no, che schifo, potendo scegliere avrei voluto essere una far-falla posata su un lampadario o, meglio ancora, un gatto stravaccato sul divano, quando la Ida e il Federico sono venuti qui a Milano a conosce-re i consuoceri. Mi sarebbe piaciuto vederli camminare sui tappeti per-siani, aggirarsi in mezzo ai mobili antichi e poi sfoderare il loro italiano con venature dialettali - o forse era dialetto con tracce d’italiano? Mah, fate voi - per conversare con i due fighetti di Milano. Forse anche la Ida e il Federico si sono domandati cosa ci facevano lì e, soprattutto, com’era riuscito il loro Luigi a trovare quella biondina così fine ma loro non potevano sapere né immaginare cos’era successo davvero su quel treno fatale dove i due si erano incontrati per caso. Purtroppo, porca zozza, non lo posso sapere neanche io e per essere stata lì avrei accetta-to anche di essere la famosa mosca, per quanto il solo pensiero continui

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a farmi veramente schifo. Ma, insomma, anche stare dentro al corpo di uno scarafaggio o di un pidocchio mi sarebbe andato bene, pur di ascol-tare le parole esatte con cui Luigino ha abbordato quello schianto della mia mamma, una studentessa dieci anni più giovane di lui. Gliel’abbiamo chiesto un milione di volte io e Sabrina ma lei ogni volta si rifiuta di dircelo e si mette a ridere, si è inventata che ce lo racconterà quando la prima di noi due si sposerà, così la curiosità non fa che au-mentare di anno in anno e se Sabrina non toglierà le castagne dal fuoco mi sa che potrei decidere di sposarmi col primo venuto solo per scopri-re questo segreto. Ah, sì, l’abbiamo chiesto anche a Luigino ma pure lui tergiversa, forse è già tanto se si ricorda che era successo su un treno. Dopo pranzo nonno Gianni vuole giocare a carte, in un’altra era geolo-gica ci ha insegnato tutti i giochi che conosce. Quando eravamo bambi-ne era bello sentirsi un po’ più grandi per il solo fatto di riuscire a tene-re in mano le tredici carte della scala quaranta, adesso stare incatenati al tavolo della sala è di una pallosità micidiale e non si fa che guardare l’orologio per tutto il tempo. Dovreste sentire la gioia che tintinna nella voce di mio padre quando annuncia che è ora di andare e vedere il mio sguardo sadico quando auguro buon divertimento a Sabrina. Mentre noi saremo allo stadio gli altri faranno una passeggiata in centro, li conosco bene i pomeriggi come quello e preferirei cospargermi di benzina e darmi fuoco piuttosto che viverne un altro. Bel quadretto vi ho fatto della mia famiglia, non trovate? Ma non az-zardatevi a criticare, guardate in casa vostra piuttosto.

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15 Mike mi dà il tormento praticamente dal primo giorno di scuola della prima liceo. Che palle! Per la cronaca Mike è il diminutivo di Michele e anche se è scritto all’americana, si pronuncia all’italiana. Se lo trovate un diminutivo idiota siete in buonissima compagnia, la mia. Credo sia andata più o meno così: entrato in classe quel fatidico giorno Mike si è guardato attorno e ha deciso nel giro di tre secondi per chi doveva prendersi una cotta. Il primo secondo l’ha impiegato per capire che con Allegra non era proprio il caso. Allegra è un’entità aliena dotata natu-ralmente di tutte le qualità che intimidiscono i ragazzi e fanno rosicare le ragazze. I suoi occhi limpidi trasmettono ai maschi un messaggio i-nequivocabile: non te la darò mai. Il fortunato possessore del biglietto vincente credo si trovi attualmente a bordo di qualche yacht ormeggiato a Portofino o in un posto simile, del tutto ignaro del radioso destino che lo attende. Allegra potrebbe facilmente diventare una modella, se ne avesse voglia, ma probabilmente non ne avrà voglia e dopo essersi lau-reata con lode in qualcosa di astruso, la bastarda possiede anche un cer-vello appuntito come una matita appena temperata, si limiterà a stazio-nare sul bordo di qualche piscina in attesa del principe azzurrissimo, quello azzurro non sarebbe abbastanza per lei. Così, quella tenia con sembianze umane che risponde al ridicolo soprannome di Mike non ha avuto il coraggio di pensare per più di un secondo a miss puoi toccarmi al massimo con un cottonfioc lungo tre metri e nei due secondi rima-nenti, purtroppo, ha rimesso in funzione il radar. Non che fossero ne-cessari strumenti particolarmente sofisticati per accorgersi che, a parte l’inarrivabile Allegra, in classe c’erano altre tre ragazze carine, una del-le quali, immodestamente, sono io. Avevo due possibilità su tre di sfuggire a una maledizione destinata a durare cinque anni ma la sfiga ha steso la sua ala sopra di me, quel giorno, e il ragazzo più noioso dell’universo ha scelto di specchiarsi negli occhioni color nocciola che ho ereditato da mio padre. Uno, due, tre e la frittata era fatta. Mike è uno di quei tipi ipercompetitivi che vivono per tagliare traguardi impos-

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sibili o almeno molto difficili. Secondo me non lo fanno perché deside-rano davvero essere il primo della classe, il più bravo nello sport o ave-re una ragazza carina, no io credo che a caricare la loro molla sia la smania irrefrenabile di mostrare a se stessi e al resto del mondo che ce la possono fare. Se, magari solo per stanchezza, dovessi un giorno usci-re con lui, so che sarei soltanto un’altra tacca sul suo fucile, l’ennesima scommessa vinta da sbandierare. Diciamo che, in questo caso, lo sto fa-cendo per il suo bene: deve capire che non sempre si può vincere. Scherzi a parte Mike non è proprio da buttare via, più il tempo passa e più mi ritrovo a pensare che se soltanto il suo atteggiamento si modifi-casse un pochino... Niente paura, sono certa che le cose andranno avanti così fino alla fine, lui continuerà a comportarsi come se fosse inevitabi-le che io, prima o poi, caschi ai suoi piedi e io, con il sorriso sulle lab-bra, continuerò a giocare la partita usando un mazzo truccato fatto di carte tutte uguali: una lunghissima, interminabile serie di due di picche.

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16 Se si escludono i bigliettini passati sotto il banco alle elementari, sono sentimentalmente attiva dall’età di undici anni. Si chiamava, anzi, si chiama, Andrea e ci siamo tolti il pensiero del primo bacio durante una gita scolastica a Verona, la suggestione di Romeo e Giulietta funziona sempre. Lui era di seconda, io di prima media e non è stato così male. È durata fino alla fine dell’anno scolastico, poi siamo andati in vacanza e quando siamo tornati tutto era diverso; avevo incontrato Luca, nel frat-tempo, e Andrea non mi sembrava più tanto figo, poi c’è stato... Va beh, mi rendo conto, raccontata così è di una noia mortale e in più fac-cio la figura della zoccola. Il punto è: ho voluto bene almeno un po’ a tutti questi tizi oppure è stata solo una raccolta di figurine? Quando prendiamo una cotta per qualcuno cosa succede veramente? Perché ci sono ragazzi che quasi tutte noi vogliamo e altri che non si fila nessu-no? Ok, se uno è figo, si tende sempre a pensare che sia anche in gamba ma è poi così vero? A volte mi sembra che facciamo quasi tutte la coda allo stesso sportello solo perché abbiamo visto che lì c’è un po’ di mo-vimento. Non so come spiegarlo, se un tipo è molto ambito ti viene una gran voglia di essere la prescelta, puoi arrivare a desiderarlo così tanto che ti sembra di non poter più respirare. Magari, poi, se le cose vanno come hai sperato, dopo mezza giornata ti rendi conto che ti sei messa con un emerito cretino e che stando con lui ti annoierai a morte. Pren-dete Carlo, per esempio. L’ho conosciuto alla festa di carnevale dell’anno scorso, era vestito da D’Artagnan, una cosa deprimente a prima vista. Costumi del genere li mettevano ai bambini delle elementa-ri nella preistoria ma, nel caso di Carlo, le cose erano un po’ diverse. Intanto dentro quell’orgia di supereroi, vampiri, lupi mannari e trave-stimenti forzatamente spiritosi, il suo personaggio finiva con l’essere dannatamente originale e poi, ogni dettaglio, dal cappello, ai baffi e pizzetto finti, al mantello, era curatissimo. Fatto sta che quando mi ave-va puntato ero rimasta colpita; certo, non guastava il fatto che dietro la maschera ci fossero un paio di occhi azzurri da paura e sotto il cappello

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un’adorabile zazzera color sabbia. Carlo è un ragazzo in gamba e quan-do abbiamo iniziato a uscire insieme mi riempiva di attenzioni, trovava sempre il modo di scoprire le cose che preferivo e cercava di acconten-tarmi, nei limiti del possibile. Non era affatto male stare con lui, i locali che si frequentavano erano sempre quelli giusti, i film che si andavano a vedere i migliori ed era bello starlo ad ascoltare. Solo che, non so, fin dal principio c’era una nota stonata, qualcosa che non tornava. Un gior-no, usciti dal cinema, aveva trovato un graffio sulla moto e ne aveva fatto un dramma, aveva imprecato a denti stretti come se avesse subito dal destino un torto irreparabile. Quando mi ero avvicinata per conso-larlo mi aveva respinto, rimanendo teso come un baccalà, lasciandomi così intendere che, per lui, la mia presenza era infinitamente meno im-portante di uno stupido graffio sulla vernice. Poi, una domenica, mentre ero da lui, siamo andati nella sua stanza per collegarci a internet dal suo pc e Carlo si è assentato un attimo. Non avrei dovuto, lo so, ma ho ini-ziato a ficcare il naso dappertutto. I libri erano riposti sopra delle men-sole in perfetto ordine, divisi per materia quelli di scuola e per autore quelli da leggere. Matite, penne e quaderni stavano in parata militare sul piano della scrivania rispettando misteriose regole di simmetria che ho trovato subito insopportabili, così, istintivamente, ho spostato un pa-io di oggetti a caso. Dentro gli armadi ho scoperto, con grande tristezza, la tomba della fantasia. Pantaloni e giacche appesi in modo equidistante l’uno dall’altro, camicie e maglioni perfettamente piegati e disposti nei cassetti secondo una ferrea sequenza cromatica. La madre di questo ra-gazzo dev’essere una maniaca dell’ordine e della pulizia, ho pensato, e guardandomi attorno ho trovato conferma della mia ipotesi nell’assoluta assenza di pieghe sulla superficie del letto; se questo non bastasse mi sono subito resa conto che qualsiasi traccia di polvere era stata bandita da quella camera e ogni singola superficie luccicava di perfezione. Rientrando, Carlo mi ha trovata davanti all’armadio aperto con l’espressione preoccupata: stavo paragonando la sua inappuntabile residenza con il puttanaio ingovernabile che regna perennemente nella mia camera. La bocca gli si è aperta per la sorpresa e ignorandomi completamente ha iniziato a scannerizzare l’intera stanza, stava cercan-do le tracce della mia invasione. Mi è passato accanto solo per raggiun-gere l’armadio e risistemare dei maglioni che mi ero permessa di spo-stare leggermente, poi si è precipitato alla scrivania per ricomporre la geometria delle sue preziose matite. Un’assordante sirena d’allarme ha iniziato a suonarmi nel cervello. Mio Dio, ricordo di aver pensato, il maniaco dell’ordine è lui! Sto con un

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terribile cagacazzo! Se dovessimo anche solo fare una vacanza insieme, questo qui mi romperebbe i coglioni per ogni minima cosa dovessi la-sciare fuori posto. In quello stesso istante il mio destino e quello di Car-lo hanno preso direzioni opposte.

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17 Quanto siamo diverse io e mia sorella? Non è una cosa che si possa quantificare con un numero o definire precisamente a parole. Alcuni in-dizi ve li ho già dati e altri ancora, ne sono certa, salteranno fuori presto senza nemmeno che io me ne accorga. A volte mi domando insistente-mente perché siamo tanto differenti anche se arriviamo dallo stesso po-sto e siamo state, per così dire, fabbricate con gli stessi attrezzi. Il frul-latore genetico, lo so, mescola gli ingredienti e quel che capita capita ma, per la miseria, qui non stiamo parlando di due nuance dello stesso colore o di due gusti differenti di gelato alla frutta, no, qui abbiamo due concezioni del mondo talmente distanti da non poter far altro che allon-tanarsi ulteriormente, tipo due pianeti in fuga dallo stesso sistema solare in direzioni opposte. Ecco, pensandoci bene, forse c’è un modo che può farvi afferrare almeno vagamente il concetto della diversità tra me e Sabrina, vi sembrerà ardito come paragone ma se vi date il tempo per digerirlo credo che lo troverete illuminante: io sono un iPhone e lei è un Blackberry. Come mi è venuta in mente? Vorrei poter barare e scrivere che la mia mente geniale ha partorito tutta da sola questa metafora tecnologica ma ho promesso di essere sincera in questo diario perciò mi sento in dovere di riferirvi che mentre batto sulla tastiera per comporre questo paragra-fo sono seduta al tavolo della cucina e sto guardando il telefono di Sa-brina, appoggiato accanto al mio. Tra poco si accorgerà di averlo di-menticato qui, evento rarissimo tra l’altro, e verrà a reclamarlo. Non voglio offendere la vostra intelligenza sottolineando ciò che a que-sto punto è diventato ovvio.

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18 «Sei su Facebook?» ho chiesto oggi a Vincenzo, soltanto per essere cortese. «No» ha risposto, abbassando la testa. «Usi Twitter?» ho insi-stito speranzosa, solo per ritrovarmi a guardare la sua testa corvina che dondolava sconsolata. «Ok» gli ho detto, maledicendo me stessa per la situazione imbarazzante in cui mi ero cacciata; devo ringraziare Manu per avermi chiamata proprio in quel momento. Da dove cazzo arriva questo? Uno che si ostina a esistere soltanto nel mondo reale ancora non lo avevo incontrato, pensavo allontanandomi, ma nello stesso tem-po mi sentivo a disagio, cosa che mi capita molto raramente. Nel pomeriggio, quando ho iniziato a fare i compiti, dentro l’astuccio ho trovato un bigliettino ripiegato. L’ho aperto e c’era scritto un nume-ro di cellulare, non è stato difficile capire di chi fosse. L’ho strappato in pezzettini molto piccoli e con grande gusto ho gettato i coriandoli nel cestino sotto la scrivania. Dieci minuti fa ho creato un nuovo contatto nella rubrica, il numero mi sono resa conto di saperlo a memoria. È stato un impulso improvviso, una cosa del tipo: non si sa mai.

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19 Questa mattina, molto presto, ho sentito dei rumori al piano terra e mi sono girata dall’altra parte per ricominciare a dormire. Quello stordito di mio padre, ho pensato, sarà inciampato da qualche parte. Di solito, dopo una cosa del genere mi riaddormento quasi subito ma questa volta no. Ho preso tra le mani la maledetta sveglia e ho guardato l’ora: 5 e 33. Non so perché ma mi è passato un brivido lungo la schiena e mi so-no ritrovata seduta sul letto, mi sentivo come se avessi appena preso un secchio d’acqua gelata in faccia. Sono uscita dalla camera facendo pia-no e ho imboccato le scale. Arrivata a metà della prima rampa mi sono accovacciata sui gradini e ho iniziato a spiare tra le colonnine della rin-ghiera. Sentivo mio padre che camminava per la cucina, il suono dell’acqua che risaliva nella caffettiera. Abbiamo una bellissima mac-china per fare il caffè espresso ma lui continua a usare la moka da due, mamma scuote la testa quasi ogni mattino quando la trova appoggiata sul fornello. La luce della cucina non era accesa ma si sentiva la tv a volume molto basso, un telegiornale, credo. A un certo punto papà ha starnutito ed esattamente in quell’istante qualcuno mi ha toccato sulla spalla, non so proprio come ho fatto a non urlare per lo spavento. «Cosa succede?» ha sussurrato Sabrina. Ho provato l’impulso di buttarla giù dalle scale e ancora una volta sono riuscita miracolosamente a tratte-nermi. Mentre ancora cercavo di convincere il mio cuore a non uscire dal petto le ho fatto segno di stare zitta portando il dito indice davanti alla bocca, lo stesso dito, un attimo dopo, l’ho puntato verso la porta della cucina. Sabrina si è seduta lì accanto e mi è venuto spontaneo pas-sarle un braccio attorno alla vita, lei ha fatto lo stesso con me. Siamo rimaste lì nell’ombra ad aspettare non si sa bene cosa. Papà è u-scito dalla cucina e si è diretto verso l’ingresso, aveva il soprabito pie-gato sul braccio e le chiavi di casa in mano. Prima di avvicinarsi alla porta ha acceso la luce, sulla stessa parete dove si trova l’interruttore è appeso un ritratto di me e Sabrina, la cornice è sempre la stessa ma la foto viene sostituita ogni anno, una piccola tradizione di famiglia. Ci

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siamo strette più forte come se questo potesse renderci invisibili e ab-biamo ascoltato il tintinnio delle chiavi mescolato agli scatti secchi del-la serratura. Quando papà è tornato sui suoi passi per spegnere la luce ero certa che ci avrebbe viste e invece il suo sguardo era diretto da tutt’altra parte. Prima di premere l’interruttore ha esitato per qualche secondo, fissava l’immagine di noi due. È tornato il buio, papà se n’è andato e noi siamo rimaste lì, paralizzate. Risalendo le scale, nessuna ha parlato, arrivate ognuna davanti alla porta della propria stanza ci siamo salutate facendo ciao con la manina, come quando eravamo pic-cole. FINE ANTEPRIMA.CONTINUA...