Un anno di pace e accoglienza - L'Osservatore Romano · la felice espressione “l’amico...

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L’Osservatore Romano il Settimanale Città del Vaticano, giovedì 4 gennaio 2018 anno LXXI, numero 1 (3.925) Un anno di pace e accoglienza In allegato il mensile «donne chiesa mondo»

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L’Osservatore Romanoil SettimanaleCittà del Vaticano, giovedì 4 gennaio 2018anno LXXI, numero 1 (3.925)

Un anno di pacee accoglienza

In allegato il mensile «donne chiesa mondo»

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L’Osservatore Romanogiovedì 4 gennaio 2018il Settimanale

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L’OS S E R VAT O R E ROMANO

Unicuique suum Non praevalebunt

Edizione settimanale in lingua italiana

Città del Vaticanoo r n e t @ o s s ro m .v a

w w w. o s s e r v a t o re ro m a n o .v a

GI O VA N N I MARIA VIAND irettore

GIANLUCA BICCINICo ordinatore

PIERO DI DOMENICANTONIOProgetto grafico

Redazionevia del Pellegrino, 00120 Città del Vaticano

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di LU C E T TA SCARAFFIA

NDopo il relativismola post-verità

ei decenni passati il cattolicesimo, ma più ingenerale il cristianesimo, si è dovuto confron-tare con un fenomeno nuovo, il relativismo,che metteva in dubbio l’esistenza stessa di unaverità. Non è stato facile, ma almeno si tratta-va di una contrapposizione chiara tra chi cre-deva alla verità e chi ne negava anche solo lapossibilità. Oggi al relativismo si è sostituita lacosiddetta post-verità, sua parente stretta, mache è più difficile da affrontare perché sfug-gente e pervasiva. Soprattutto poi perché lapost-verità — che secondo il filosofo franceseMarcel Gauchet è la figlia adulterina del poli-ticamente corretto — ha la pretesa di essereuna verità più autentica proprio perché si pre-senta come discorso alternativo a quello uffi-ciale.

Anche la Chiesa è coinvolta in questa spira-le di falsificazione che pretende di essere veri-tà, in molti modi. Alcuni propalatori di post-verità, seguendo una prassi che certo non è

nuova nel mondo dei media, si limitano peresempio a diffondere e a enfatizzare di PapaFrancesco soltanto le frasi che a loro sembranoin linea con la personalità mediatica che è sta-ta costruita intorno al Pontefice. Per dirla conparole più semplici, costoro passano sotto si-lenzio tutto ciò che potrebbe sembrare provadi un pensiero coerente con la tradizione cri-stiana, per ingigantire invece le affermazioni —magari estraendole dal loro contesto — che si

addicono all’immagine di Pontefice progressi-sta che hanno in mente e vogliono accreditarea tutti i costi, anche forzando la realtà. Il loroeffetto non deve essere sottovalutato: anche seoggi è molto facile per chiunque recuperarel’originale delle parole del Papa, alla prova deifatti ben pochi lo fanno, perché la maggioran-za si fida ciecamente dei media, e soprattuttodei titoli strillati.

Ma se questo processo di selezione consape-vole delle parole del Pontefice non si può con-siderare del tutto nuovo — anche se mai è sta-to utilizzato con tanta frequenza e intensità —è in corso un meccanismo informativo, tipicodella post-verità, davvero senza precedenti: ladiffusione di falsi discorsi papali, grazie so-prattutto ai nuovi media. Discorsi che circola-no spesso in spagnolo, nel tentativo di farlisembrare più verosimili, e che pretendono diriportare le vere parole di Francesco, semprepiù rivoluzionarie e imprevedibili di quelle che

#editoriale

la Curia, ovviamente demo-nizzata, gli attribuirebbe conuna continua operazione cen-soria. La costruzione dell’im-magine di un Papa progressi-sta e permissivo raggiungequi livelli molto più elevati,ma in fondo non fa che ri-proporre, rafforzandolo, il so-lito modello caro ai media.

Questi falsi discorsi natu-ralmente circolano sui cosid-detti social e si diffondonoper vie che si presentano co-me private, ma proprio per

questo sembrano più affidabili dei testi chevengono diffusi dagli organi della Santa Sede.Questo tipo di distorsione della verità fa capi-re come conti poco capire la linea programma-tica del pontificato, leggerne i documenti fon-dativi e i provvedimenti più importanti. Nellapost-verità quello che conta infatti è solo lapersonalità del leader, e quindi tutto ciò checontribuisce a definirla funziona, anche se noncorrisponde alla realtà. Il resto non interessa.

I falsi testidel Papa

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di ANTONIOZANARDI LANDI

Il libro L’amico ritrovato di Fred Uhlman, am-bientato in una Germania dove si sta affer-mando il nazismo e nel dopoguerra, mi hatoccato profondamente e vi ripenso spesso. Lasua trama, l’amicizia interrotta e ripresa solodopo la morte di uno dei due protagonisti traun ragazzino ebreo e un compagno di classedi famiglia di orientamenti antisemiti, non sicollega con quanto sto scrivendo, se non perla felice espressione “l’amico ritrovato”.

È questa la sensazione che ho avuto in que-sti giorni leggendo un libretto di Martin Hir-sch, noto in Francia per essere stato presidentedi Emmaus France e alto commissario per lemisure di solidarietà contro la povertà e per ilsuo impegno sociale ed europeo. Una figuraimportante quella di Martin, nipote di EtienneHirsch, presidente di Euratom e del Movimen-to federalista europeo, nonché uno dei padrifondatori a Fiesole dell’Istituto universitarioeurop eo.

Nel libro di Martin Hirsch ho ritrovato in-fatti alcune pagine che corrispondono perfetta-mente al disagio che provo quando ormai siparla di Europa. Se l’appartenenza alla mone-ta unica sta riguadagnando favore nei sondag-gi nella maggior parte dei paesi dell’area euro,lo si deve ormai alla preoccupazione dei citta-dini, più che giustificata, per le conseguenzedisastrose che l’abbandono della moneta unicapotrebbe causare, ma certo non per sincereconvinzioni europeiste.

L’Europa è oggi percepita come un cetaceoarenato su una spiaggia o come un anzianoelefante rimasto a metà del guado e incapacedi raggiungere una dimensione federale o al-meno di reale messa in comune delle politichenei settori vitali per la sopravvivenza e il suc-cesso dell’Unione. Sembrano evaporate le mo-

tivazioni ideali dell’integrazione, la passioneper la ricerca e la valorizzazione delle radiciculturali e morali comuni, la volontà di rende-re impossibile un nuovo conflitto europeo. Esembra svanito soprattutto quel sentimento disolidarietà che dell’integrazione è l’indisp ensa-bile lubrificante e carburante.

Ma sono affermazioni assai difficili da ripe-tere senza annoiare. E sono sentimenti difficilida esprimere e da comunicare, soprattutto là

dove inevitabilmente si toccano temi di unapolitica estera che vede l’Unione divisa sugliargomenti più delicati e impegnativi per il fu-turo: il rapporto con la Russia e quello con laCina, la crisi libica e gli equilibri africani, l’at-teggiamento da tenere con l’Iran e, soprattut-to, con gli Stati Uniti, che rimangono il “mag-giore alleato” ma le cui politiche oggi portanonel cuore dell’Europa le divisioni che esistonotra gli americani stessi.

Ecco, Hirsch per esprimere queste idee, chein realtà sono piuttosto sentimenti, utilizza pa-role molto chiare: nella costruzione dell’E u ro -pa «tutto quello che appariva irreversibile ap-pare ormai reversibile». E cioè il ritorno allemonete nazionali, alla chiusura delle frontiere,a governi che includano forze di estrema de-stra nostalgiche del fascismo, addirittura aconflitti, se non nel cuore dell’Europa, almenoalla sua periferia, a trattamenti indegni riserva-ti alle minoranze etniche, a violazioni delleconvenzioni europee dei diritti dell’uomo, auna messa tra parentesi di istituzioni comuni.Insomma, «tutto questo diviene, se non proba-bile, almeno possibile e plausibile» scrive l’au-tore. «Evitare la reversibilità, ecco una buonaragione per impegnarsi attivamente. Una ra-gione evidente, pressante, difficile. Ma esisteun impegnarsi facile?» si domanda MartinHirsch. Con parole su cui occorre riflettereall’inizio di un anno che si preannuncia comeimp egnativo.

E v i t a rela reversibilità

Timoteo Frammartino, «L’amicor i t ro v a t o »

#ilpunto

Nei paesidell’Unioneeuropea sembranoe v a p o ra t ele motivazioniidealidell’i n t e g ra z i o n e

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di GIANPAOLO DOTTO

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Tr a s m e t t e resignifica portarealla luce

l monte Olimpo o il Sinai, le Ziqqurat babilo-nesi o il tempio di Gerusalemme sono ben no-ti esempi di luoghi o monumenti sacri dell’an-tichità. Parafrasando Mircea Eliade, essi sonopunti di emergenza dell’essere che in qualchemodo si rivela nella sua forza misteriosa chesostiene l’esistere. Con il cristianesimo, il po-sto del monte o tempio sacro è stato presodalla persona umana in tutta la sua concretez-za: sono la donna o l’uomo particolari, il vec-chio o il bambino a essere diventati luogo delsacro, centri privilegiati dell’incontro amorosotra essere ed esistere. Ogni persona in carne eossa è però in equilibrio instabile e da solaviene presto inghiottita. È solo come parte diuna «sacra famiglia in cammino» che essa tro-va un proprio solido posto nella vita per pote-re agire ed andare più là.

Ogni famiglia umana ha due compiti fonda-mentali, quello di “g e n e r a re ” e di “e d u c a re ”.Questi due compiti alla fine si riconducono auno solo: «portare alla luce». Come è scrittonella Genesi, la luce è nata dalle tenebre gra-zie alla decisione e l’intervento di Dio. Primadel Dio biblico, è questa la luce proclamata daAkhenaton, il faraone rivoluzionario che perun brevissimo periodo di tempo ha cercato diimporre un solo Dio ai tanti che guidavano lavita degli antichi egizi.

La luce del sole nasce dal buio della notte edistrugge i fantasmi. Tuttavia nella notte essaalla fine scompare. Da tempi immemorabilil’uomo — che forse era una donna discendentedi “Lucy” — ha imparato ad accendere il fuocoper illuminare la notte. Attorno al fuoco l’uo-mo ha raccolto la propria famiglia e ha inse-gnato come accenderlo ai propri figli, e cosìvia per centinaia di migliaia di anni. La sacra-lità del fuoco delle antiche vestali si rivive an-che adesso nelle chiese, con le candele sull’al-tare o in quelle davanti a un’immagine votiva.

Compito di ogni famiglia è di portare i figlialla luce. Questo è lo stesso compito di ognieducatore, come avevano ben capito Socrate ePlatone che hanno visto nell’educazione la for-

ma più alta dell’amore. Il senso etimologico dieducare è “condurre fuori”, far venire alla su-perficie quello che di bello e di buono è giànel cuore di ognuno. Il modo migliore di inse-gnare non è quello di parlare ascoltandosi, madi esprimere quello che di meglio portiamo innoi stessi, facendo attenzione a chi ci ascolta.Più che parlare, bisogna “aiutare a parlare”,suscitare la viva partecipazione di coloro a cuisi insegna in modo che siano essi stessi a farsi

Per le nuoveg e n e ra z i o n i

Leon Zernitsky«Educazione» (2014)

#cultura

“insegnanti”. È così che tutti quanti possiamocontinuare a imparare.

Condizione necessaria per l’insegnare è ispi-rare l’attenzione e il rispetto che vengonoquando uno parla con tutta la propria perso-na, piuttosto che con parole prese in prestitoda altri. È anche partecipando con tutto ilproprio essere che chi ascolta può davvero im-parare e cominciare lui stesso a insegnare.

Perché questa dinamica dell’educazione pos-sa instaurarsi e durare c’è bisogno di “autori-tà”. L’autorità tradizionale su cui si è retta lafamiglia umana nei secoli è stata quella del pa-ter familiae. Tuttavia, anche nel passato, il pa-dre di una famiglia non avrebbe avuto nessunaautorità se non gli fosse stata conferita dallamoglie e dai figli. Nella sacra famiglia di Na-zareth, l’autorità di Maria viene dal bambinoche le si affida tra le braccia. Ed è il bambinoe Maria che danno a Giuseppe il compito dimuoversi e guidarli in terra d’Egitto.

E per chi ha voluto seguire Gesù, Giuseppee Maria nei secoli, e fare parte della loro fami-glia? Ha scritto Sant’Agostino a proposito del-la sua fede: «Ego vero Evangelio non crede-rem, nise me Catholicae Ecclesiae commoveretauctoritas» (Contra epistolam Manichaei quamvocant fundamenti V, 6). È questa autorità cheha spinto Agostino a entrare nella Chiesa cri-stiana di cui si è fatto maestro e pilastro. Ilnesso misterioso di amore e autorità che lega ilmaestro al discepolo come il genitore al figliosi ritrova in quello tra il sacerdote e il fedele.Insegnare e imparare non sono attività acces-sorie, ma una questione di vita e di morte perla società e la Chiesa di cui facciamo parte,adesso come lo è stato nei secoli passati.

Come Cristo e mandata da lui, la Chiesa in-segna con l’autorità “sacrale” della famiglia,con radici ben solide che si perdono nella not-te dei tempi, quando l’uomo ha imparato adaccendere il fuoco, ha guardato al cielo e co-minciato a seppellire i propri morti. Quandola storia viene dimenticata, si rischia di perde-re la base di appoggio nei secoli, e caderenell’irrilevanza della chiacchiera a vuoto.

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di ROBERTORIGHETTO

Ècurioso come una piccola località situata a

pochi chilometri a sud di Parigi, Sceaux, si siaimposta come una delle piazze più importantiin Europa per il teatro. Dopo il successo otte-nuto da La Pitié dangereuse di Stefan Zweig,messa in scena al Théatre Les Gemeaux dalregista britannico Simon McBurney, nei giorniscorsi è toccato a Professor Bernhardi di ArthurSchnitzler nell’adattamento del tedesco Tho-mas Ostermeier. Opere destinate nelle prossi-me settimane a fare il tour della Francia, daRennes a Lione. Ed è curiosa la ripresa di duegrandi autori mitteleuropei che hanno assistitoal crollo dell’impero asburgico e contempora-neamente dell’Europa, con la prima guerramondiale e l’avvento delle dittature. Analogiecon i nostri tempi che vedono il vecchio conti-nente malato e avvolto in un’impasse totale,uscito forse dalla crisi economica ma semprepiù in preda del vento dei nazionalismi e deip opulismi?

Ne è un esempio appunto Professor Bernhar-di (magistralmente diretto al Piccolo Teatro diMilano da Luca Ronconi una decina d’annifa), opera tutta giocata sull’antisemitismo, al-lora questione drammatica pronta a esplodere.Scritta nel 1912, racconta la vicenda del diret-tore di una clinica che assiste una giovane mo-ribonda per setticemia. Convinta di essere sul-la via della guarigione, viene tenuta all’o s c u rodella prossima fine dal medico, che impedisceal sacerdote venuto per darle l’estrema unzio-ne di incontrarla. Sta per arrivare in ospedaleanche l’amante della donna e Bernhardi prefe-risce che l’accompagnamento alla morte avven-ga nella serenità e non nel terrore: perciò nondeve sapere cosa l’attende. L’episodio diventaun caso nazionale: il chirurgo è ebreo e vieneaccusato di aver impedito il sacramento permotivi religiosi. Inevitabili la sua rimozione ela condanna. Storia in qualche modo autobio-grafica — Schnitzler è ebreo e medico, oltreche scrittore — e attualissima, che ripresentaun secolo dopo il rapporto fra morte, scienzae religione, nonché i fantasmi del fanatismo edel fondamentalismo.

Nato a Vienna nel 1862 e morto nel 1931nella stessa città, Schnitzler è stato romanziere,drammaturgo e saggista, legato a Freud, vonHofmannstahl e Zweig. La sua opera più fa-mosa è Doppio sogno, da cui è stato trattoqualche anno fa un film di Stanley Kubrick. Ilsuo amico Zweig ha avuto sorte diversa: an-ch’egli nato a Vienna, nel 1881, è vissuto più alungo, ha avuto modo di conoscere la tragediadel nazismo, tanto da dover fuggire, prima inInghilterra, poi negli Stati Uniti e infine inBrasile, dove si è suicidato assieme alla secon-da moglie nel 1942, incapace di resistere altrauma dell’esilio e alla rovina dell’Europa. Èfamoso soprattutto come autore di racconti(celebre La novella degli scacchi) e biografie.

L’opera teatrale rappresentata a Sceaux è ri-cavata da un romanzo scritto nel 1939, in Italia

pubblicato da Elliot con il titolo L’impazienzadel cuore. Descrive l’imprevisto trasporto amo-roso di un ufficiale austro-ungarico, alla vigiliadella Grande guerra, per una ragazza bellissi-ma ma paralitica, figlia di un aristocratico.Spinto dalla compassione, il giovane Antoncomincia a frequentare la casa di Edith e le favisita sempre più assiduamente. Non sa nem-meno lui perché, confuso fra vergogna, rispet-to e pietà. Tutti finiscono per pensare, e la ra-gazza per prima, che si sia innamorato: cadutoin questo vortice, accetta di chiederla in sposa.

È il trionfo di un malinteso, da cui a poco apoco uscirà rendendo però inevitabile la trage-dia. Dietro la sua pietà c’è forse anche il desi-derio di arricchirsi facilmente: in ogni caso, unsenso di turbamento e di confusione prevale.Cosa ci vuole raccontare Zweig? Che la nottedell’Europa e la comparsa del nazismo (le sueopere furono bruciate nel famoso falò del1933) hanno significato la catastrofe non solodella ragione ma anche del sentimento.

Analogiecoi nostri tempi

In due operet e a t ra l i

di Stefan Zweige Arthur Schnitzler

La copertina di un’edizioneitaliana del romanzo di Zweig

#catalogo

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In questi giorni siamo immersi nella contempla-zione gioiosa del mistero del nostro Dio, chesi è a tal punto coinvolto e compromesso conla nostra povera umanità da inviare il suo Fi-glio e da prendere, in Lui, la nostra fragilecarne. Ogni pensiero teologico cristiano nonpuò che cominciare sempre e incessantementeda qui, in una riflessione che non esaurirà maila sorgente viva dell’Amore divino, che si è la-sciato t o c c a re , g u a rd a re e a s s a p o ra re nella grep-pia di Betlemme.

Nel 2017 l’Associazione Teologica Italianaha compiuto mezzo secolo. Mi è gradito unir-mi a voi nel rendere grazie al Signore perquanti hanno avuto il coraggio, cinquant’annifa, di prendere l’iniziativa di dare vita all’Asso-ciazione Teologica Italiana; per quanti vi han-no aderito in questo tempo, offrendo la loropresenza, la loro intelligenza e lo sforzo di unariflessione libera e responsabile; e soprattuttoper l’apporto che la vostra Associazione ha da-to allo sviluppo teologico e alla vita dellaChiesa, con una ricerca che si è sempre propo-sta — con lo sforzo critico che le compete — diessere in sintonia con le tappe fondamentali ele sfide della vita ecclesiale italiana.

È degno di nota il fatto che l’Asso ciazioneTeologica Italiana sia nata, come recita il pri-mo articolo del vostro Statuto, «nello spiritodi servizio e di comunione indicato dal Conci-lio Ecumenico Vaticano II». La Chiesa devesempre riferirsi a quell’evento, con il quale haavuto inizio «una nuova tappa dell’evangeliz-zazione» (Bolla Misericordiae vultus, 4) e concui essa si è assunta la responsabilità di an-nunciare il Vangelo in un modo nuovo, piùconsono a un mondo e a una cultura profon-damente mutati. È evidente come quello sfor-zo chieda alla Chiesa tutta, e ai teologi in par-ticolare, di essere recepito all’insegna di una

“fedeltà creativa”: nella consapevolezza che inquesti 50 anni sono avvenuti ulteriori muta-menti e nella fiducia che il Vangelo possa con-tinuare a toccare anche le donne e gli uominidi oggi. Perciò vi chiedo di continuare a rima-nere fedeli e ancorati, nel vostro lavoro teolo-gico, al Concilio e alla capacità che lì la Chie-sa ha mostrato di lasciarsi fecondare dalla pe-renne novità del Vangelo di Cristo; così comeavete fatto, peraltro, in questi decenni, come

attestano i temi da voi scelti e trattati nei Con-gressi e nei Corsi di aggiornamento, oltre cheil recente poderoso lavoro di commento a tuttii Documenti del Vaticano II.

In particolare, è un chiaro frutto del Conci-lio e una ricchezza da non disperdere il fattoche abbiate avvertito e continuiate a sentirel’esigenza di “fare teologia insieme”, come As-sociazione, che annovera oggi oltre 330 teolo-gi. Questo aspetto è un fatto di stile, che espri-me già qualcosa di essenziale della Verità alcui servizio si pone la teologia. Non si puòpensare, infatti, di servire la Verità di un Dioche è Amore, eterna comunione del Padre, delFiglio e dello Spirito Santo e il cui disegnosalvifico è quello della comunione degli uomi-ni con Lui e tra loro, facendolo in modo indi-vidualistico, particolaristico o, peggio ancora,in una logica competitiva. Quella dei teologinon può che essere una ricerca personale; madi persone che sono immerse in una comunitàteologica la più ampia possibile, di cui si sen-tono e fanno realmente parte, coinvolte in le-gami di solidarietà e anche di amicizia autenti-ca. Questo non è un aspetto accessorio del mi-nistero teologico!

Un ministero di cui oggi continua a esserciun grande bisogno nella Chiesa. È infatti veroche per essere autenticamente credenti non ènecessario aver svolto dei corsi accademici diteologia. C’è un senso delle realtà della fedeche appartiene a tutto il popolo di Dio, anchedi quanti non hanno particolari mezzi intellet-tuali per esprimerlo, e che chiede di essere in-tercettato e ascoltato — penso al famoso infalli-bile in credendo: dobbiamo andare spesso lì — eci sono persone anche molto semplici che san-no aguzzare gli “occhi della fede”. È in questafede viva del santo popolo fedele di Dio cheogni teologo deve sentirsi immerso e da cuideve sapersi anche sostenuto, trasportato e ab-bracciato. Ciò non toglie, però, che vi sia sem-pre la necessità di quello specifico lavoro teo-logico per mezzo del quale, come diceva ilsanto dottore Bonaventura, si possa pervenireal credibile ut intelligibile, a ciò che si crede in

Il compitodella teologia

Ivo Dulčić, «Piazza con persone— Concilio» (1962-1965)

Dal Ponteficela richiestadi ripensarei grandi temidella fede

#francesco

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quanto viene compreso. È un’esigenza dellapiena umanità degli stessi credenti, anzitutto,perché il nostro credere sia pienamente umanoe non sfugga alla sete di coscienza e di com-prensione, la più profonda e ampia possibile,di ciò che crediamo. Ed è un’esigenza dellacomunicazione della fede, perché appaia sem-pre e dovunque che essa non solo non mutilaciò che è umano, ma si presenta sempre qualeappello alla libertà delle persone.

È soprattutto nel desiderio e nella prospetti-va di una Chiesa in uscita missionaria che ilministero teologico risulta, in questo frangentestorico, particolarmente importante e urgente.Infatti, una Chiesa che si ripensa così si preoc-cupa, come ho detto nella Evangelii gaudium,di rendere evidente alle donne e agli uominiquale sia il centro e il nucleo fondamentale delVangelo, ovvero «la bellezza dell’amore salvifi-co di Dio manifestato in Gesù Cristo morto erisorto» (n. 36). Un tale compito di essenziali-tà, nell’epoca della complessità e di uno svi-luppo scientifico e tecnico senza precedenti ein una cultura che è stata permeata, nel passa-to, dal cristianesimo ma nella quale possonooggi serpeggiare visioni distorte del cuore stes-so del Vangelo, rende infatti indispensabile ungrande lavoro teologico. Perché la Chiesa pos-sa continuare a fare udire il centro del Vangeloalle donne e agli uomini di oggi, perché ilVangelo raggiunga davvero le persone nella lo-ro singolarità e affinché permei la società intutte le sue dimensioni, è imprescindibile ilcompito della teologia, con il suo sforzo di ri-pensare i grandi temi della fede cristianaall’interno di una cultura profondamente mu-tata.

C’è bisogno di una teologia che aiuti tutti icristiani ad annunciare e mostrare, soprattutto,il volto salvifico di Dio, il Dio misericordioso,specie al cospetto di alcune inedite sfide checoinvolgono oggi l’umano: come quella dellacrisi ecologica, dello sviluppo delle neuroscien-ze o delle tecniche che possono modificarel’uomo; come quella delle sempre più grandidisuguaglianze sociali o delle migrazioni di in-

teri popoli; come quella del relativismo teoricoma anche di quello pratico. E c’è bisogno, perquesto, di una teologia che, come è nella mi-gliore tradizione dell’Associazione TeologicaItaliana, sia fatta da cristiane e cristiani chenon pensino di parlare solo tra loro, ma sap-piano di essere a servizio delle diverse Chiesee della Chiesa; e che si assumano anche ilcompito di ripensare la Chiesa perché sia con-forme al Vangelo che deve annunciare.

Mi fa piacere sapere che tante volte e in di-versi modi, anche di recente, lo avete già fatto:affrontando esplicitamente il tema dell’annun-cio del Vangelo e della forma Ecclesiae, della si-nodalità, della presenza ecclesiale in contestodi laicità e democrazia, del potere nella Chie-sa. Mi auguro perciò che le vostre ricerchepossano fecondare e arricchire tutto il popolodi Dio. E vorrei aggiungere qualche pensieroche mi è venuto mentre tu parlavi. Non perde-re la capacità di stupirsi; fare teologia nellostupore. Lo stupore che ci porta Cristo, l’in-contro con Cristo. È come l’aria nella quale lanostra riflessione sarà più feconda. E ripetoanche un’altra cosa che ho detto: il teologo èquello che studia, pensa, riflette, ma lo fa inginocchio. Fare teologia in ginocchio, come igrandi Padri. I grandi Padri che pensavano,pregavano, adoravano, lodavano: la teologiaforte, che è fondamento di tutto lo sviluppoteologico cristiano. E anche ripetere una terzacosa che ho detto qui, ma voglio ripeterla per-ché è importante: fare teologia nella Chiesa,cioè nel santo popolo fedele di Dio, che ha —lo dirò con una parola non teologica — che hail “fiuto” della fede. Ricordo, una volta, in unaconfessione, il dialogo che ho avuto conun’anziana portoghese che si accusava di pec-cati che non esistevano, ma era così tanto cre-dente! E io le ho fatto qualche domanda e leirispondeva bene; e alla fine mi è venuta vogliadi dirle: “Ma, mi dica, signora: lei ha studiatoalla Gregoriana?”. Era proprio una donnasemplice, semplice, ma aveva il “fiuto”, avevail sensus fidei, quello che nella fede non puòsbagliare. Lo riprende il Vaticano II, questo.

Sopra: Jean Guitton«Discepoli di Emmaus» (1958)Sotto: l’udienzadel 29 novembrenella sala Clementinaall’Associazione teologica italiana

#francesco

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L’S

Nella festadella santaFamiglia di Nazaret

Il ricordo degli attentati chehanno colpito i coptiortodossi in Egittoe delle famiglie ferite e indifficoltà ha caratterizzatol’Angelus recitato dal Papail 31 dicembre con i fedeliconvenuti in piazza SanPietro. Prima dellapreghiera mariana Francescoha commentato il vangelodomenicale della festa dellasanta Famiglia di Nazaret.«I genitori di Gesù vannoal tempio — ha esordito —per attestare che il figlioappartiene a Dio e che lorosono i custodi della sua vitae non i proprietari. E questoci fa riflettere. Tutti igenitori sono custodi dellavita dei figli, nonproprietari, e devono aiutarlia crescere, a maturare».Questo gesto, ha proseguitoil Pontefice, «sottolinea chesoltanto Dio è il Signoredella storia individuale efamiliare». E diconseguenza «non c’èsituazione familiare che siapreclusa» al «camminonuovo di rinascita e dirisurrezione. E ogni voltache le famiglie, anche quelleferite e segnate da fragilità,fallimenti e difficoltà,tornano alla fontedell’esperienza cristiana, siaprono strade nuove epossibilità impensate».Dopo la recita dellapreghiera mariana Francescoha espresso la propriavicinanza ai fratelli coptiortodossi d’Egitto, colpitidue giorni prima da dueattentati a una chiesa e a unnegozio nella periferia delCairo. «Il Signore — haauspicato — accolga leanime dei defunti, sostengai feriti, i familiari e l’interacomunità, e converta i cuoridei violenti».

ulla prima pagina del calendario del nuovo annoche il Signore ci dona, la Chiesa pone, come unastupenda miniatura, la solennità liturgica di MariaSantissima Madre di Dio. In questo primo giornodell’anno solare, fissiamo lo sguardo su di lei, per ri-prendere, sotto la sua materna protezione, il cammi-no lungo i sentieri del tempo.

Il Vangelo di oggi (cfr. Lc 2, 16-21) ci riconducealla stalla di Betlemme. I pastori arrivano in fretta etrovano Maria, Giuseppe e il Bambino; e riferisconol’annuncio dato loro dagli angeli, cioè che quelNeonato è il Salvatore. Tutti si stupiscono, mentre«Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose,meditandole nel suo cuore» (v. 19). La Vergine ci facapire come va accolto l’evento del Natale: non su-perficialmente ma nel cuore. Ci indica il vero mododi ricevere il dono di Dio: conservarlo nel cuore emeditarlo. È un invito rivolto a ciascuno di noi apregare contemplando e gustando questo dono cheè Gesù stesso.

È mediante Maria che il Figlio di Dio assume lacorporeità. Ma la maternità di Maria non si riduce aquesto: grazie alla sua fede, Lei è anche la prima di-scepola di Gesù e questo “dilata” la sua maternità.Sarà la fede di Maria a provocare a Cana il primo“segno” miracoloso, che contribuisce a suscitare lafede dei discepoli. Con la stessa fede, Maria è pre-sente ai piedi della croce e riceve come figlio l’ap o-stolo Giovanni; e infine, dopo la Risurrezione, di-venta madre orante della Chiesa su cui scende conpotenza lo Spirito Santo nel giorno di Pentecoste.

Come madre, Maria svolge una funzione moltospeciale: si pone tra suo Figlio Gesù e gli uomininella realtà delle loro privazioni, nella realtà delleloro indigenze e sofferenze. Maria intercede, come aCana, consapevole che in quanto madre può, anzi,deve far presente al Figlio i bisogni degli uomini,specialmente i più deboli e disagiati. E proprio aqueste persone è dedicato il tema della GiornataMondiale della Pace che oggi celebriamo: “Migrantie rifugiati: uomini e donne in cerca di pace”, così èil motto di questa Giornata. Desidero, ancora unavolta, farmi voce di questi nostri fratelli e sorelle cheinvocano per il loro futuro un orizzonte di pace. Perquesta pace, che è diritto di tutti, molti di loro sonodisposti a rischiare la vita in un viaggio che in granparte dei casi è lungo e pericoloso; sono disposti adaffrontare fatiche e sofferenze (cfr. Messaggio per laGiornata Mondiale della Pace 2018, 1).

Per favore, non spegniamo la speranza nel lorocuore; non soffochiamo le loro aspettative di pace!È importante che da parte di tutti, istituzioni civili,realtà educative, assistenziali ed ecclesiali, ci sia l’im-pegno per assicurare ai rifugiati, ai migranti, a tuttiun avvenire di pace. Ci conceda il Signore di opera-re in questo nuovo anno con generosità, con genero-sità, per realizzare un mondo più solidale e acco-gliente. Vi invito a pregare per questo, mentre insie-me con voi affido a Maria, Madre di Dio e Madrenostra, il 2018 appena iniziato. I vecchi monaci rus-si, mistici, dicevano che in tempo di turbolenze spi-rituali era necessario raccogliersi sotto il manto dellaSanta Madre di Dio. Pensando a tante turbolenzedi oggi, e soprattutto ai migranti e ai rifugiati, pre-ghiamo come loro ci hanno insegnato a pregare:«Sotto la tua protezione cerchiamo rifugio, SantaMadre di Dio: non disprezzare le suppliche di noiche siamo nella prova, ma liberaci da ogni pericolo,o Vergine gloriosa e benedetta».

Non soffocarele aspettative dei migranti

Nella giornatamondiale

della paceil Papa chiede

g e n e ro s i t ànell’accoglienza

#copertina

C’è bisognodi silenzio

Contro il dilagare di parole vuote, delle chiacchiere e del clamore

anno si apre nel nome della Madre di Dio.[...] Nella sua Madre, il Dio del cielo, il Dioinfinito si è fatto piccolo, si è fatto materia,per essere non solo con noi, ma anche come noi.Ecco il miracolo, ecco la novità: l’uomo non èpiù solo; mai più orfano, è per sempre figlio.L’anno si apre con questa novità. E noi la pro-clamiamo così, dicendo: Madre di Dio! È lagioia di sapere che la nostra solitudine è vinta.È la bellezza di saperci figli amati, di sapereche questa nostra infanzia non ci potrà mai es-sere tolta. È specchiarci nel Dio fragile e bam-bino in braccio alla Madre e vedere che l’uma-nità è cara e sacra al Signore. Perciò, servire lavita umana è servire Dio e ogni vita, da quellanel grembo della madre a quella anziana, sof-ferente e malata, a quella scomoda e persinoripugnante, va accolta, amata e aiutata.

Lasciamoci ora guidare dal Vangelo di oggi.Della Madre di Dio si dice una sola frase:«Custodiva tutte queste cose, meditandole nelsuo cuore» (Lc 2, 19). Custodiva. Semplicemen-te custodiva. Maria non parla: il Vangelo nonriporta neanche una sua parola in tutto il rac-conto del Natale. Anche in questo la Madre èunita al Figlio: Gesù è infante, cioè “senza pa-ro l a ”... è muto. Il Dio davanti a cui si tace èun bimbo che non parla. La sua maestà è sen-za parole, il suo mistero di amore si svela nellapiccolezza. Questa piccolezza silenziosa è illinguaggio della sua regalità. La Madre si as-socia al Figlio e custodisce nel silenzio. E il si-lenzio ci dice che anche noi, se vogliamo cu-stodirci, abbiamo bisogno... di rimanere in si-lenzio guardando il presepe. Perché davanti alpresepe ci riscopriamo amati, assaporiamo ilsenso genuino della vita. E guardando in si-lenzio, lasciamo che Gesù parli al nostro cuo-re: che la sua piccolezza smonti la nostra su-perbia, che la sua povertà disturbi le nostre fa-

stosità, che la sua tenerezza smuova il nostrocuore insensibile. Ritagliare ogni giorno unmomento di silenzio con Dio è custodire lanostra anima; è custodire la nostra libertà dal-le banalità corrosive del consumo e dagli stor-dimenti della pubblicità, dal dilagare di parolevuote e dalle onde travolgenti delle chiacchieree del clamore.

Maria custodiva, prosegue il Vangelo, tuttequeste cose, meditandole. Quali erano queste cose?Erano gioie e dolori: da una parte la nascita diGesù, l’amore di Giuseppe, la visita dei pasto-ri, quella notte di luce. Ma dall’altra: un futu-ro incerto, la mancanza di una casa... la deso-lazione del rifiuto; la delusione di aver dovutofar nascere Gesù in una stalla. Speranze e an-gosce, luce e tenebra: tutte queste cose p op ola-vano il cuore di Maria. E lei, che cosa ha fat-to? Le ha meditate, cioè le ha passate in rasse-gna con Dio nel suo cuore. Niente ha tenutoper sé, niente ha rinchiuso nella solitudine oaffogato nell’amarezza, tutto ha portato a Dio.Così ha custodito. Affidando si custodisce:non lasciando la vita in preda alla paura, allosconforto o alla superstizione, non chiudendo-si o cercando di dimenticare, ma facendo ditutto un dialogo con Dio. [...]

La devozione a Maria non è galateo spiri-tuale, è un’esigenza della vita cristiana. Guar-dando alla Madre siamo incoraggiati a lasciaretante zavorre inutili e a ritrovare ciò che conta.Il dono della Madre, il dono di ogni madre edi ogni donna è tanto prezioso per la Chiesa,che è madre e donna. E mentre l’uomo spessoastrae, afferma e impone idee, la donna, lamadre, sa custodire, collegare nel cuore, vivifi-care. Perché la fede non si riduca solo a idea oa dottrina, abbiamo bisogno, tutti, di un cuoredi madre. [...] (omelia del 1° gennaio)

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L’Osservatore Romanogiovedì 4 gennaio 2018il Settimanale

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«Quando venne la pienezza del tempo, Dio man-dò il suo Figlio» (Gal 4, 4). Questa celebra-zione vespertina respira l’atmosfera della pie-nezza del tempo. Non perché siamo all’ultimasera dell’anno solare, tutt’altro, ma perché lafede ci fa contemplare e sentire che Gesù Cri-sto, Verbo fatto carne, ha dato pienezza altempo del mondo e alla storia umana.

«Nato da donna» (v. 4). La prima a speri-mentare questo senso della pienezza donatadalla presenza di Gesù è stata proprio la«donna» da cui Egli è «nato». La Madre delFiglio incarnato, Th e o t o k o s , Madre di Dio. At-traverso di lei, per così dire, è sgorgata la pie-nezza del tempo: attraverso il suo cuore umilee pieno di fede, attraverso la sua carne tuttaimpregnata di Spirito Santo.

Da lei la Chiesa ha ereditato e continua-mente eredita questa percezione interiore dellapienezza, che alimenta un senso di gratitudine,come unica risposta umana degna del donoimmenso di Dio. Una gratitudine struggente,che, partendo dalla contemplazione di quelBambino avvolto in fasce e deposto in unamangiatoia, si estende a tutto e a tutti, almondo intero. È un “grazie” che riflette laGrazia; non viene da noi, ma da Lui; non vie-ne dall’io, ma da Dio, e coinvolge l’io e il noi.

In questa atmosfera creata dallo SpiritoSanto, noi eleviamo a Dio il rendimento di gra-zie per l’anno che volge al termine, riconoscendoche tutto il bene è dono suo.

Anche questo tempo dell’anno 2017, cheDio ci aveva donato integro e sano, noi umanil’abbiamo in tanti modi sciupato e ferito conopere di morte, con menzogne e ingiustizie.Le guerre sono il segno flagrante di questo or-goglio recidivo e assurdo. Ma lo sono anchetutte le piccole e grandi offese alla vita, allaverità, alla fraternità, che causano moltepliciforme di degrado umano, sociale e ambientale.Di tutto vogliamo e dobbiamo assumerci, da-vanti a Dio, ai fratelli e al creato, la nostra re-sp onsabilità.

Ma questa sera prevale la grazia di Gesù e ilsuo riflesso in Maria. E prevale perciò la grati-tudine, che, come Vescovo di Roma, sentonell’animo pensando alla gente che vive concuore aperto in questa città.

Provo un senso di simpatia e di gratitudineper tutte quelle persone che ogni giorno con-tribuiscono con piccoli ma preziosi gesti concreti albene di Roma: cercano di compiere al meglio illoro dovere, si muovono nel traffico con crite-

rio e prudenza, rispettano i luoghi pubblici esegnalano le cose che non vanno, stanno at-tenti alle persone anziane o in difficoltà, e cosìvia. Questi a mille altri comportamenti espri-mono concretamente l’amore per la città. Senzadiscorsi, senza pubblicità, ma con uno stile dieducazione civica praticata nel quotidiano. E cosìcooperano silenziosamente al bene comune.

Ugualmente sento in me una grande stimaper i genitori, gli insegnanti e tutti gli educa-tori che, con questo medesimo stile, cercano diformare i bambini e i ragazzi al senso civico, aun’etica della responsabilità, educandoli a sen-tirsi parte, a prendersi cura, a i n t e re s s a rs i dellarealtà che li circonda.

Queste persone, anche se non fanno notizia,sono la maggior parte della gente che vive aRoma. E tra di loro non poche si trovano incondizioni di strettezze economiche; eppurenon si piangono addosso, né covano risenti-menti e rancori, ma si sforzano di fare ognigiorno la loro parte per migliorare un po’ lecose.

Oggi, nel rendimento di grazie a Dio, vi in-vito ad esprimere anche la riconoscenza pertutti questi artigiani del bene comune, che ama-no la loro città non a parole ma con i fatti.

Il cuore apertodella gentedi Roma

Ai primi vespridella solennità

di Mariasantissima

Madre di Dioe il Te Deum

di fine anno

#francesco

Al termine del Te Deum il Papasi è recato a pregare davanti

al presepe di piazza San Pietro

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Riprendendo le catechesi sulla celebrazione eu-caristica, consideriamo oggi, nel contesto deiriti di introduzione, l’atto penitenziale. Nellasua sobrietà, esso favorisce l’atteggiamento concui disporsi a celebrare degnamente i santi mi-steri, ossia riconoscendo davanti a Dio e aifratelli i nostri peccati, riconoscendo che siamopeccatori. L’invito del sacerdote infatti è rivol-to a tutta la comunità in preghiera, perché tut-ti siamo peccatori. Che cosa può donare il Si-gnore a chi ha già il cuore pieno di sé, delproprio successo? Nulla, perché il presuntuosoè incapace di ricevere perdono, sazio com’èdella sua presunta giustizia. Pensiamo alla pa-rabola del fariseo e del pubblicano, dove sol-tanto il secondo — il pubblicano — torna a ca-sa giustificato, cioè perdonato (cfr. Lc 18, 9-14). Chi è consapevole delle proprie miserie eabbassa gli occhi con umiltà, sente posarsi sudi sé lo sguardo misericordioso di Dio. Sap-piamo per esperienza che solo chi sa ricono-scere gli sbagli e chiedere scusa riceve la com-prensione e il perdono degli altri.

Ascoltare in silenzio la voce della coscienzapermette di riconoscere che i nostri pensierisono distanti dai pensieri divini, che le nostreparole e le nostre azioni sono spesso mondane,guidate cioè da scelte contrarie al Vangelo.Perciò, all’inizio della Messa, compiamo co-munitariamente l’atto penitenziale medianteuna formula di confessione generale, pronunciataalla prima persona singolare. Ciascuno confessaa Dio e ai fratelli “di avere molto peccato inpensieri, parole, opere e omissioni”. Sì, anchein omissioni, ossia di aver tralasciato di fare ilbene che avrei potuto fare. Spesso ci sentiamobravi perché — diciamo — “non ho fatto malea nessuno”. In realtà, non basta non fare delmale al prossimo, occorre scegliere di fare ilbene cogliendo le occasioni per dare buona te-stimonianza che siamo discepoli di Gesù. Èbene sottolineare che confessiamo sia a Dioche ai fratelli di essere peccatori: questo ci aiutaa comprendere la dimensione del peccato che,mentre ci separa da Dio, ci divide anche dainostri fratelli, e viceversa. Il peccato taglia: ta-

glia il rapporto con Dio e taglia il rapportocon i fratelli, il rapporto nella famiglia, nellasocietà, nella comunità: il peccato taglia sem-pre, separa, divide.

Le parole che diciamo con la bocca sono ac-compagnate dal gesto di battersi il petto, ricono-scendo che ho peccato proprio per colpa mia,e non di altri. Capita spesso infatti che, perpaura o vergogna, puntiamo il dito per accu-sare altri. Costa ammettere di essere colpevoli,ma ci fa bene confessarlo con sincerità. Con-fessare i propri peccati. Io ricordo un aneddo-to, che raccontava un vecchio missionario, diuna donna che è andata a confessarsi e inco-minciò a dire gli sbagli del marito; poi è pas-sata a raccontare gli sbagli della suocera e poii peccati dei vicini. A un certo punto, il con-fessore le ha detto: “Ma, signora, mi dica: hafinito? — Benissimo: lei ha finito con i peccatidegli altri. Adesso incominci a dire i suoi”. Di-re i propri peccati!

Dopo la confessione del peccato, suppli-chiamo la Beata Vergine Maria, gli Angeli e iSanti di pregare il Signore per noi. Anche inquesto è preziosa la comunione dei Santi: cioè,l’intercessione di questi «amici e modelli di vi-ta» (Prefazio del 1° novembre) ci sostiene nelcammino verso la piena comunione con Dio,quando il peccato sarà definitivamente annien-tato.

Il peccatosepara

Papa Francescoparla dell’atto

penitenzialeche introduce

la messa

Eduardo Kingman«Mundo sin respuestas»

#catechesi

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Fotografie di «Chiesa in uscita verso le periferieesistenziali»: nella prima udienza generale del 2018,nell’aula Paolo VI, il Papa ha accolto a bracciaaperte donne e uomini che vivono nella quotidianitàle opere di misericordia. A partire dall’«esp erienzanell’ospedale da campo dell’Amazzonia» delmissionario Hernanni Silva, dell’istitutodell’Immacolata di San Massimiliano Kolbe. «Cercodi testimoniare Gesù tra i bambini ammalati ditumore e tra i detenuti nel carcere di massimasicurezza» ha spiegato. Padre Hernanni, che svolgela sua missione a Vinhas, nell’arcidiocesi brasilianadi São Luís do Maranhão, ha dato voce anche alle«speranze per l’assemblea speciale del Sinodo deivescovi», convocata per l’ottobre 2019 dal Papaespressamente per la regione panamazzonica.Di un’altra assemblea sinodale, quella per i giovaniche si terrà a ottobre in Vaticano, è venuto a parlareal Papa il religioso passionista Maurizio De Sanctis,conosciuto come padre Nike per la sua originaleopera di evangelizzazione attraverso la musica e ladanza. Queste «esperienze di arte spirituale con igiovani e per i giovani» le ha appena raccolte nellibro Dio c’è... per davvero!, pubblicato dalle Paoline,con la prefazione del cardinale Lorenzo Baldisseri,segretario generale del Sinodo dei vescovi.Sempre nell’ambito della preparazioneall’appuntamento sinodale sono venuti a Roma

Nella prima udienza del 2018

Oltre al “Confesso”, si può fare l’atto peni-tenziale con altre formule, ad esempio: «Pietàdi noi, Signore / Contro di te abbiamo pecca-to. / Mostraci, Signore, la tua misericordia. /E donaci la tua salvezza» (cfr. Sal 123, 3; 85, 8;Ger 14, 20). Specialmente la domenica si puòcompiere la benedizione e l’aspersione dell’ac-qua in memoria del Battesimo (cfr. OGMR, 51),che cancella tutti i peccati. È anche possibile,come parte dell’atto penitenziale, cantare ilKyrie eléison: con antica espressione greca, ac-clamiamo il Signore — Kyrios — e imploriamola sua misericordia (ibid., 52).

La Sacra Scrittura ci offre luminosi esempidi figure “p enitenti” che, rientrando in sé stes-si dopo aver commesso il peccato, trovano il

coraggio di togliere la maschera e aprirsi allagrazia che rinnova il cuore. Pensiamo al re Da-vide e alle parole a lui attribuite nel Salmo:«Pietà di me, o Dio, nel tuo amore; nella tuagrande misericordia cancella la mia iniquità»(51, 3). Pensiamo al figlio prodigo che ritornadal padre; o all’invocazione del pubblicano:«O Dio, abbi pietà di me, peccatore» (Lc 18,13). Pensiamo anche a San Pietro, a Zaccheo,alla donna samaritana. Misurarsi con la fragili-tà dell’argilla di cui siamo impastati è un’esp e-rienza che ci fortifica: mentre ci fa fare i conticon la nostra debolezza, ci apre il cuore a in-vocare la misericordia divina che trasforma econverte. E questo è quello che facciamonell’atto penitenziale all’inizio della Messa.

anche centotrenta giovani della comunità cattolica“Palavra viva”, nata in Brasile nel 1995 e oggidiffusa anche in tutta Europa, seguita direttamentedal Dicastero per i laici, la famiglia e la vita. «Ilnostro carisma — spiegano — è annunciare Gesù almondo, particolarmente ai giovani e alle famiglie».Ci sono «tutte le quattordici opere di misericordianel carisma essenziale» della congregazione delleFiglie della misericordia e della croce, fondata inSicilia nel 1892. Le religiose stanno dando vita inquesti giorni a Roma al loro ventesimo capitologenerale, sul tema: «Dov’è tua sorella?». Il puntocentrale dell’attività della congregazione, spiegamonsignor Gianfranco Poli, «sono le missioni».Il gruppo folkloristico Santa Maria di Arzachena havoluto far ascoltare a Papa Francesco «i suoni e levoci» della tradizione culturale della sua terra «LaSardegna non è solo mare — ha spiegato il vicesindaco Cristina Usai — ma ha anche una storiagrande e importante che vogliamo custodire,rilanciare e far conoscere».Particolarmente significativo, infine, l’abbraccio delPapa ai giovanissimi calciatori della selezionecanadese under 14, in Italia per una serie di partite,sotto la guida di Dwayne De Rosario, una delle stardi questo sport nel Paese nordamericano.

#catechesi

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di GUA LT I E R OBASSETTI

Quando ho sentito il presidente Sergio Mattarel-la, nel discorso di fine anno, fare un parallelotra i giovani nati nel 1999, che tra poco an-dranno a votare per la prima volta, e “i ragazzidel ’99” che più di cent’anni fa partirono perla guerra — molti senza tornare — ho avuto unsussulto. Il mio primo pensiero è andato subi-to a un grande sacerdote italiano che, con lasua preziosa eredità, tiene assieme questo com-plesso secolo di storia. Mi riferisco a don Giu-lio Facibeni, di cui il 2 giugno ricorreranno isessant’anni della morte.

Don Facibeni era solito definirsi un “p overofacchino della Provvidenza” ma fu un vero eproprio gigante della carità. E i giovani li co-nobbe realmente in guerra come cappellanomilitare: ne vide gli strazi, il sangue e la mor-te. Altri incontrò nel periodo convulso dei pri-mi anni venti: ne conobbe gli odi, il rancore ele divisioni ideologiche. E infine conobbe ibambini e i ragazzi abbandonati dal sanguino-so conflitto che non solo aveva portato allamorte milioni di combattenti ma aveva distrut-to anche milioni di famiglie senza più padri.Nel 1924, nella Pieve di Rifredi, a Firenze, rea-lizzò la sua missione più importante, viva tut-tora: l’Opera madonnina del Grappa. Nel no-me riecheggia, ovviamente, l’esperienza tragicadella guerra. E infatti l’Opera fu, prima di tut-to, un rifugio per gli orfani e i bambini soli.Ma poi anche un luogo di «educazione cristia-na della gioventù con asilo, dopo scuola, scuo-le serali, ricovero di bambini abbandonati e as-sistenza ai poveri», luce in tutto il territorio.Anzi, un’autentica scuola di vita, il cui motto,Et nos credidimus caritati, ne sintetizza il signi-ficato e la missione storica, con una “fede in-c ro l l a b i l e ” nella Provvidenza. Scrive Facibeni:«La carità che Gesù vuole da noi è quella delpastore buono, quella del samaritano, quella

che allarga le braccia e il cuore ai piccoli bim-bi speranza del domani, agli infelici, membralanguenti di Gesù».

L’eredità di Facibeni è vasta, e la sua espe-rienza di fede si pone alla base di una lungastagione del cattolicesimo fiorentino. «DonFacibeni e il cardinale Dalla Costa — scriveGiorgio La Pira nel 1964 — sono stati le com-ponenti più determinanti della storia fiorenti-na degli ultimi trent’anni». E aggiunge:

«Noialtri, il signor La Pira e tutti gli altri, sa-pete da dove si viene? Si viene da don GiulioFacibeni. Siamo tutti quanti figli suoi, vera-mente siamo alimentati dalla sua carità, dallasua speranza, dalla sua fede». E questa tradi-zione vive ancora oggi.

Ispirandosi poi al fondatore, l’Opera ma-donnina del Grappa s’incarna nelle realtà at-tuali di sofferenza dei minori e fa sì che tuttigli operatori siano samaritani dei poveri e deigiovani, portando loro un po’ di consolazionee di speranza. Sono apparentemente molto di-versi i giovani di oggi — che hanno quasi tuttoper possibilità, ma vivono in un deserto di va-lori — e quelli di ieri, chiamati a bagnare conil proprio sangue la loro maggiore età.

In realtà, questi giovani di due diverse epo-che storiche hanno alcuni importanti elementiin comune. Hanno la stessa voglia di futuro,come evidenziava il presidente della Repubbli-ca italiana, e hanno quell’identica sete d’infini-to che caratterizza le giovani generazioni diogni epoca. Una sete d’infinito che viene spes-so corrotta da falsi idoli — ieri la nazione sa-cralizzata, oggi un benessere nichilista — chepuò essere saziata solo da una fonte antica: lasorgente della fede. E don Facibeni è stato untestimone autentico di questa sorgente.

Alla sorgentedella fede

Una tenera immaginedel sacerdote con i “suoi” orfani

#dialoghi

Don GiulioFa c i b e n ie l’O p e ramadonninadel Grappa

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di ENZOBIANCHI

I

«Che cosac e rc a t e ? »

14 gennaioseconda domenica

del tempoo rd i n a r i o

Giovanni 1, 35-42

«Gesù chiama Andrea e Pietro»vetrata, abbazia di Bath( I n g h i l t e r ra )

n questa domenica che segue la festa del bat-tesimo del Signore, l’o rd o liturgico ci proponel’incontro dei primi discepoli con Gesù, secon-do il racconto del quarto vangelo.

Siamo nella settimana inaugurale della vitapubblica di Gesù (cfr. Giovanni 1, 19 - 2, 12).Due giorni dopo l’interrogatorio di Giovanniil Battista da parte delle autorità sacerdotalivenute da Gerusalemme, Gesù passa e cammi-na davanti a Giovanni e a due suoi discepoli.E fissando lo sguardo su Gesù, il Battista af-ferma: «Ecco, guardate l’agnello di Dio!». Èuna vera e propria presentazione di Gesù, l’in-dicazione che proprio lui è il servo di Dio,l’agnello pasquale che porta la liberazione alsuo popolo (il termine aramaico talja contieneinfatti entrambi questi significati). Giovanni,da vero rabbi e maestro, in-segna, fa segno aidiscepoli e così dà un orientamento alla lororicerca: non li aveva se-dotti (portati a sé), nonli trattiene presso di sé, ma li e-duca, li condu-ce fuori, verso il Messia. Ascoltate le paroledel Battista, subito i due si mettono a seguireGesù, si pongono sulle sue tracce, vanno doveegli va.

Ed ecco che improvvisamente Gesù si voltaindietro, li osserva con uno sguardo penetran-te e chiede loro: «Che cosa cercate?». Doman-da, questa, ineludibile per chiunque vogliamettersi alla sequela di Gesù, dunque doman-da rivolta ancora oggi a noi che tentiamo diseguirlo. «Che cosa cerchi veramente? Qual èil tuo desiderio più profondo?». Queste sonole prime parole pronunciate da Gesù secondoil quarto vangelo; non un’affermazione, nonuna dichiarazione, come magari ci attenderem-mo, ma una domanda: «Che cosa cerchi?». Intal modo Gesù mostra che la sua sequela nonpuò avvenire per incanto, per infatuazione,per una semplice scelta di appartenenza: il di-scepolo può imboccare un cammino sbagliato,se non sa riconoscere che cosa e chi veramentecerca — si revera Deum quaerit, «se veramentecerca Dio», dice la Regola di Benedetto (58, 7)— e se non è impegnato a cercare, disposto alasciare le sue sicurezze per aprirsi al dono di

Dio. Cercare è un’operazione e un atteggia-mento assolutamente necessari per ascoltare eaccogliere la propria verità presente nell’inti-mo, là dove il Signore parla.

A questa domanda i due discepoli rispondo-no con un’altra domanda: «Rabbi, dove dimo-ri (méneis)?». Gesù è da loro definito “rabbi”,maestro e guida, quindi vogliono conoscerlonella sua dimora, nel suo abitare, vogliono di-morare dove egli dimora: non solo ascoltareun insegnamento ma essere coinvolti nella suavita. Gesù risponde loro con molta semplicità:«Venite e vedrete», cioè venite e sperimentate,venite e vedrete con uno sguardo che potràaddirittura vedere la gloria di Gesù quale Fi-glio di Dio (cfr. Giovanni 1, 14; 2, 11). Così èavvenuto l’incontro con Gesù, un incontro cheha cambiato profondamente la loro vita, per-ché da quell’ora (definita con precisione l’oradecima, ossia le quattro del pomeriggio) co-minciano a vivere, a dimorare con lui.

Questi due primi discepoli di Gesù sonoAndrea e l’altro che non ha un nome ma che èstato identificato dalla tradizione nel discepoloanonimo, «quello che Gesù amava» (Giovanni13, 23; 19, 26, 20, 2; 21, 7.20), forse il figlio diZebedeo. I sinottici presentano questa chiama-ta dei primi discepoli con un racconto molto

#meditazione

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diverso: in Galilea, sulle rive del mare, Gesùpassa e vede due coppie di fratelli, li chiamadietro a sé (“seguitemi!”) e questi lo seguonoprontamente, senza dilazioni (cfr. Ma rc o 1, 16-20 e paralleli). Nel quarto vangelo, invece, lavocazione è mediata dal Battista, non è diret-ta. In entrambi i casi, però, la testimonianza èconcorde: prima di iniziare la sua predicazio-ne, Gesù forma attorno a sé una comunità, ichiamati a farne parte si mettono alla sua se-quela e a loro egli chiede di condividere la sua

Ma se il quarto vangelo ci fornisce questanarrazione “altra” della chiamata dei primi di-scepoli, subito dopo, nella chiamata di Filippoche avviene il giorno seguente, ricomparequella parola efficace rivolta da Gesù al disce-polo: “Seguimi!” (akoloúthei moi, 1, 43). Muo-vendosi dalle rive del Giordano verso la suaterra, la Galilea, Gesù incontra Filippo, un al-tro galileo di Betsaida (come Pietro e Andrea).Non ci viene detto né dove né in quale situa-zione Gesù gli rivolge tali parole, ma ciò che è

vita sempre, nella perseveranza, sino alla fine.Certo, il discepolo anonimo, «quello che Gesùamava», appare il modello di ogni discepoloche resta con il Signore anche durante la suapassione, anche sotto la croce, e rimane comesegno profetico fino alla sua venuta nella glo-ria (cfr. Giovanni 19, 26; 21, 22).

Ma ecco che Andrea, secondo la tradizionegreca il primo chiamato, incontra suo fratelloSimone e subito gli dice: «Abbiamo trovato ilMessia, il Cristo». Si sente spinto a comunica-re la buona notizia del Messia tanto atteso eora presente, operante in mezzo al suo popo-lo, innanzitutto a suo fratello. Lo conduce daGesù, perché Simone condivideva tale attesa,essendo anch’egli in ricerca di colui del qualeil Battista annunciava la venuta. L’attesa è fi-nita, la ricerca ha avuto un esito positivo.L’espressione «abbiamo trovato», al plurale,indica ormai il noi della comunità di Gesù,che da questo momento risuonerà in tutto ilvangelo per confessare la fede e rendere testi-monianza.

Secondo il quarto vangelo Simone non faalcuna azione, non prende alcuna iniziativa,ma sta di fronte a Gesù e ascolta le sue paroleinequivocabili. Gesù fissa lo sguardo su di lui,come il Battista lo aveva fissato su Gesù stes-so, e gli proclama la sua vera identità, vocazio-ne e missione: «Tu sei Simone, il figlio di Gio-vanni; sarai chiamato Kephas, che significaPietro». Non è semplice interpretare la primaparte di questa dichiarazione: cosa significa“figlio di Giovanni”, detto a colui che è fratel-lo di Andrea, mai chiamato con questo patro-nimico? Significa forse: «Tu sei Simone, il di-scepolo di Giovanni il Battista»?

La questione resta aperta, ma in ogni casole parole determinanti sono quelle che seguo-no: «Sarai chiamato Kephas, Pietro». Così Ge-sù rivela chi è veramente Simone all’internodella sua comunità: è una pietra, una rocciasubito messa in posizione di autorità, lui chesarà il portaparola dei Dodici (cfr. Giovanni 6,67), lui che sarà il pastore del gregge del Si-gnore (cfr. Giovanni 21, 15-18).

essenziale è che gli chieda di seguirlo. Filippoprontamente lo segue ed entra a fare parte del-la comunità dei discepoli, come testimonianoanche i sinottici che lo collocano tra i Dodici(cfr. Ma rc o 3, 18 e paralleli). Vocazione dunquesenza mediazioni, ma non per questo menocontagiosa. Non appena infatti Filippo incon-tra un altro galileo, Natanaele proveniente daCana, gli comunica la buona notizia del com-pimento delle sante Scritture, la Torah di Mo-sè e i profeti: «Abbiamo trovato colui del qua-le esse hanno scritto: Gesù, il figlio di Giusep-pe, da Nazaret» (Giovanni 1, 45).

Natanaele risponde con scetticismo e ironia:«Proprio da questa periferia, da questa terraimpura, da un villaggio sconosciuto della Ga-lilea delle genti può forse venire qualcosa dibuono?» (cfr. Giovanni 1, 46). Filippo ribatte:«Vieni e vedi! Vieni e sperimenta», eco delleparole rivolte da Gesù ai primi due discepoli.Questi infatti sono i passi costitutivi della fe-de: venire a Gesù, sperimentare e conoscere lasua dimora e infine trovare dimora in lui.

E mentre Natanaele va da Gesù insieme aFilippo, ecco che Gesù stesso mostra in realtàdi precederlo nel suo itinerario. Egli non al-lontana chi si avvicina a lui (cfr. Giovanni 6,37), nonostante le sue perplessità, ma descriveNatanaele come un figlio d’Israele vero, senzafalsità, senza doppiezza (cfr. Giovanni 1, 47).Sorpreso da questa affermazione, Natanaelepone a Gesù una domanda: «Da dove (póthen)mi conosci?» (Giovanni 1, 48). Ovvero, da do-ve attingi la conoscenza della mia persona?Gesù non gli risponde direttamente ma gli as-sicura di averlo visto e scelto prima di ognisua decisione di andare a lui.

Segue infine una confessione di fede piena:«Maestro, tu sei il figlio di Dio, tu sei il red’Israele» (Giovanni 1, 49). Natanaele, espertodelle Scritture, figlio d’Israele autentico, con-fessa immediatamente la signoria di Gesù, ser-vendosi di titoli che esprimeranno la fede dellachiesa nella passione e nella resurrezione delS i g n o re .

#meditazione

Francis Hoyland«Ecco l’agnello di Dio»

Page 15: Un anno di pace e accoglienza - L'Osservatore Romano · la felice espressione “l’amico ritrovato”. È questa la sensazione che ho avuto in que-sti giorni leggendo un libretto

Nagasaki, 1945. Un ragazzo con in spallail fratellino morto nel bombardamento

atomico, attende il suo turno per far cremareil corpicino senza vita. L’obiettivo

del fotografo statunitense Joseph RogerO’Donnell fissò, nel vivido realismo

del bianco e nero, quel momento insiemedrammatico e composto. Un’immagine che,

a distanza di oltre settant’anni, scuote ancorale coscienze. E che ha colpito molto Papa

Francesco, il quale ha voluto farla riprodurresu un cartoncino, accompagnandola con un

commento eloquente, «...il frutto dellaguerra», seguito dalla sua firma autografa.

La breve didascalia in spagnolo stampatain calce suggerisce una chiave di lettura

essenziale della foto, sottolineandoin particolare la dignitosa sofferenzadel bambino che ha perso il fratello:

sofferenza che si percepisce appenadall’espressione delle labbra, che egli si morde

fino a farle trasudare sangue

#controcopertina