Ulisse - BuonaCondotta · 2016. 9. 21. · Ulisse Giornale della Casa Circondariale di Modena - n°...

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Ulisse Giornale della Casa Circondariale di Modena - n° 11 - settembre 2016 Redazione interna di Buona condotta - www.buonacondotta.it Ulisse - Nel viaggio di ritorno a casa Ulisse incontrò Polifemo, il gigante con un solo occhio. Quando questi gli chiese il nome, l’eroe, dissimulando e storpiando il vero nome, rispose: “Nessuno è il mio nome. Nessuno mi chiamano mia madre e mio padre e tutti i compagni” La domanda A suscitare le riflessioni che compaiono in questo numero è stata una domanda che ci siamo posti molte volte e in forme tra loro di- verse. Ha a che fare però sempre con il rapporto tra autori e vittime di reato. Questa non è una cosa di cui si parla volentieri in carcere. Il de- tenuto riconosce normalmente di aver commesso un reato ed è convinto di “pagare il suo debito”; non si capisce bene però a chi. Difficilmente il ladro pensa alle persone che ha derubato e alle sofferenze che in questo modo ha causato, o lo spacciatore alle distruzioni morali e materiali che può aver provocato alla persona o alle famiglie dei suoi clienti. E poi tante volte i reati non hanno una vittima personale, facilmente identificabile e così risulta diffici- le anche porsi la domanda. Non l’abbiamo quindi formulata espli- citamente, attendendo magari un’occasione particolare, forte, che ci costringa a porla. Pensavamo per questo all’incontro con due signore, Claudia Francardi, la moglie di un carabiniere ucciso da un ragazzo a un posto di blocco e Irene Sisi, la madre di questo ragazzo, ma non siamo ancora riusciti a organizzarlo. C’è un altro problema quando si scrive in carcere. Lo possiamo chiamare, semplificando per capirci, il problema della dissimula- zione. Il linguaggio deve sempre essere cauto. Si può scegliere di pronunciare pubblicamente solo le parole che si sanno gradite alle autorità e tenere per momenti segreti parole più sincere e provocatorie. Oppure si sceglie l’aperta ribellione e allora la parola diventa secondaria, perché a parlare sono i gesti (l’autolesionismo ad esempio qui) o le urla. Ma c’è una strada intermedia, un pò tortuosa forse, che si presta come alternativa: quella che ho chiamato della dissimulazione, che prova a presentare in termini accettabili all’autorità un materia- le incandescente. Per farlo costruisce una sorta di codice segreto che vela e svela nello stesso momento a soggetti diversi o anche allo stesso soggetto quello che si desidera comunicare. Il codice segreto agisce in modo automatico, non è necessario conoscer - lo razionalmente, circola e basta e il volontario, anche quello che entra per fare il giornale del carcere, si sente ripetere: “Tu queste cose non le sai, non le puoi capire, c’è un livello di discorso nel quale non puoi entrare, non perché ti vogliamo escludere, ma per - ché sei esterno, non vivi qui con noi”. Pier

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U l i s s eGiornale della Casa Circondariale di Modena - n° 11 - settembre 2016

Redazione interna di Buona condotta - www.buonacondotta.it

Ulisse - Nel viaggio di ritorno a casa Ulisse incontrò Polifemo, il gigante con un solo occhio. Quando questi gli chiese il nome, l’eroe, dissimulando e storpiando il vero nome, rispose: “Nessuno è il mio nome. Nessuno mi chiamano mia madre e mio padre e tutti i compagni”

La domandaA suscitare le riflessioni che compaiono in questo numero è stata una domanda che ci siamo posti molte volte e in forme tra loro di-verse. Ha a che fare però sempre con il rapporto tra autori e vittime di reato. Questa non è una cosa di cui si parla volentieri in carcere. Il de-tenuto riconosce normalmente di aver commesso un reato ed è convinto di “pagare il suo debito”; non si capisce bene però a chi. Difficilmente il ladro pensa alle persone che ha derubato e alle sofferenze che in questo modo ha causato, o lo spacciatore alle distruzioni morali e materiali che può aver provocato alla persona o alle famiglie dei suoi clienti. E poi tante volte i reati non hanno una vittima personale, facilmente identificabile e così risulta diffici-le anche porsi la domanda. Non l’abbiamo quindi formulata espli-citamente, attendendo magari un’occasione particolare, forte, che ci costringa a porla. Pensavamo per questo all’incontro con due signore, Claudia Francardi, la moglie di un carabiniere ucciso da un ragazzo a un posto di blocco e Irene Sisi, la madre di questo ragazzo, ma non siamo ancora riusciti a organizzarlo. C’è un altro problema quando si scrive in carcere. Lo possiamo chiamare, semplificando per capirci, il problema della dissimula-zione. Il linguaggio deve sempre essere cauto. Si può scegliere di pronunciare pubblicamente solo le parole che si sanno gradite alle autorità e tenere per momenti segreti parole più sincere e provocatorie. Oppure si sceglie l’aperta ribellione e allora la parola diventa secondaria, perché a parlare sono i gesti (l’autolesionismo ad esempio qui) o le urla. Ma c’è una strada intermedia, un pò tortuosa forse, che si presta come alternativa: quella che ho chiamato della dissimulazione, che prova a presentare in termini accettabili all’autorità un materia-le incandescente. Per farlo costruisce una sorta di codice segreto che vela e svela nello stesso momento a soggetti diversi o anche allo stesso soggetto quello che si desidera comunicare. Il codice segreto agisce in modo automatico, non è necessario conoscer-lo razionalmente, circola e basta e il volontario, anche quello che entra per fare il giornale del carcere, si sente ripetere: “Tu queste cose non le sai, non le puoi capire, c’è un livello di discorso nel quale non puoi entrare, non perché ti vogliamo escludere, ma per-ché sei esterno, non vivi qui con noi”. Pier

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Incontro di redazione dell’8/8/2016(Pier - Maurizio - Valerio - Marco - Ivano - Leonardo)

La redazione di questo numero: Persone esterne:- Pier Giorgio Vincenzi- Maurizio MurruPersone interne:- Valerio Sereni- Marco Libietti- Leonardo Sangiorgi- Ivano Zironi- Fahir Cherki- Calogero Sciangula- Michele De Roma- Pretel Jeiman

Pier: Per me, nella mia sensibilità, reato e coscienza del male commesso si specchiano fino ad appa-rire come la stessa cosa, ma mi dite che per molte delle persone detenute questo legame non è così immediato. Vi chiedo di provare a scrivere una riflessione su come vi rapportate con le persone danneggiate.

Valerio: Ma vuoi uno scritto che parli della propria personale esperienza o una cosa più generale?Pier: Una cosa più generale.Marco: Così forse troverai qualcuno che scriva, altrimenti no, perché qui praticamente nessuno si è

mai interrogato sulla sofferenza inferta alle sue vittime. Non dico che è tempo perso, ma farai molta fatica a far passare qui un argomento del genere.

Maurizio: Si lavora con l’obiettivo asintotico: lavorare per un obiettivo sapendo che potrai non raggiun-gerlo, ma nonostante questo continuare ad impegnarsi.

Pier: Io personalmente vengo qui senza attendermi un risultato specifico e quindi non rimango deluso.

Marco: Ma tu il problema del risultato te lo devi porre.Pier: Io non me lo pongo, perché la mia motivazione fondamentale è l’umanizzazione, l’incontro

con l’altro che scopro così simile a me, al di là delle sue azioni.Maurizio: Se una cosa vale la pena farla, la faccio al di là del fatto di poter avere la certezza del risultato.Marco: Pier, io capisco il tuo discorso come individuo, ma come società non l’accetto. Tu devi lavorare

per avere un risultato, perché questi se no, usciti di qua, torneranno a fare reati, a fare del male, e il problema delle vittime nemmeno li sfiora.

Qui c’è gente che spaccia e che dà la colpa a chi viene a comprargliela. Ma di che cosa stiamo parlando? Qui c’è un problema molto serio su cui si scontrano tutti quelli che operano nel sociale: devo cercare il risultato, altrimenti lavoro per me stesso, per pulirmi la coscienza, e la mia opera scade in puro assistenzialismo. Prima si parte cercando di promuovere il cambia-mento, poi, dopo che mi hai dimostrato qualcosa, ti do, non prima. Il discorso va capovolto.

Pier: Questo del cambiamento è un compito dell’istituzione. Noi volontari portiamo un di più che questa non può dare, un di più di libertà, di umanità gratuita. Io sono convinto che questo nostro apporto lavora in qualche modo, nascostamente, secondo tempi che non conosco e che forse non vedrò compiersi, nell’animo delle persone. Io lavoro per aiutare l’altro a capire che lui stesso può essere l’aiuto migliore per se stesso, l’artefice principale del proprio cambiamento. Nell’altro c’è una scintilla che ha spesso bisogno dell’innesco per diventare fuoco; io provo a essere questo innesco.

Maurizio: I volontari sono in una posizione scomoda: i detenuti li vedono come vacche da mungere, l’istituzione come dei rompicoglioni.

Marco: Se io ho 100 euro da dare, 80 li posso anche regalare ai casi disperati, ma 20 almeno li do a quelli che possono dare qualcosa in cambio, anche solo come impegno a mettersi in gioco. E da questi però lo pretendo. Questo per me è educativo.

Pier: Dico questo come provocazione: 20 giorni fa abbiamo fatto quella festicciola in sezione. Sulla base dei discorsi fin qui fatti, ha avuto senso? Per noi volontari che l’abbiamo preparata l’ha avuto.

Ivano: Ma chi fa il volontario vuole aiutare o recuperare? Per me la prima cosa è aiutare e poi i mira-coli possono sempre accadere. Chi siamo noi per dire che quella persona non cambierà mai?

L’assistente dal di fuori interviene per interrompere il dialogo, è ora di salire nelle celle.Pier: Bene, allora aspetto che qualcuno porti un suo contributo scritto.

Sommario

- Incontro di redazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .p . 3- Marco Libietti, Otto mesi dopo p . 4- VaLerio Sereni, Di quale coscienza parliamo? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .p . 5- Maurizio Murru, I volontari e il recupero sociale p . 6- Leonardo Sangiorgi, Il carcere . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .p . 8- In diretta dal carcere di S Anna . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .p . 9- PreteL JeiMan, Tra sogno e realtà p . 10 - Fahir cherki, Cassius Clay - Mohamed Alì p . 11- aLex aLberici, In cella . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p . 12

Le illustrazioni di questo numero:

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- pagine 2 e 7: Michele De Roma

- pagine 4, 8, 9, 10: Calogero Sciangula

- La vignetta “In cella”: Alessio Alberici

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Otto mesi dopoUn riesame dello stato delle cose

Sono trascorsi poco più di otto mesi da quando sono stato convogliato in questo reparto… in que-sto progetto Ulisse, e penso sia giunto il momento di fare un esame della situazione e dello stato delle cose .Poco dopo il mio arrivo ho scritto un articolo “Per una rinascita” pubblicato nel n . 8 di Ulisse, uscito a febbraio . Ora la mia posizione è molto più pessi-mista di allora . In questo tempo ho lavorato e spin-to a lavorare per la stesura della bozza di progetto pubblicato nel numero 10 del nostro giornale . Il progetto ha avuto riscontri positivi sia come accet-tazione di buona parte delle proposte, sia in termi-ni di cose portate avanti .È stato proprio questo però che, come si è potuto ad oggi riscontrare, ha messo a nudo criticità con-genite un po’ ovunque e, per quanto mi riguarda, in particolar modo negli “utenti” del reparto .Mi riferisco in particolar modo al limite estrema-mente basso della capacità di sforzo e impegno mentale emerso dalla incapacità (o mancanza di volontà) di aprire la mente verso nuovi orizzonti… orizzonti che sono o dovrebbero essere la vera ani-ma di questo progetto . È vero che il periodo estivo non ha aiutato in questo senso, anzi si può dire che ci sia stato un regresso verso un’apatia quasi con-genita per uno sforzo alla ricerca dell’impegno, ma questo non può essere una scusante assoluta .Il fatto che tutto si sia fermato rappresenta e rap-presenterà anche in futuro un problema al quale tutti dovranno cercare di porre rimedio e anche se i primi dovrebbero essere i detenuti, questo, all’atto pratico, si è rivelato e temo si rivelerà impossibile quantomeno all’interno di una struttura circonda-riale (questa non è una scusante alla quale appi-gliarsi… anzi proprio l’opposto, in quanto mette in evidenza la qualità del materiale a disposizione ed è da questo dato di fatto che, se qualcuno vor-rà, dovrà partire per un vero progetto strutturato) . Ho usato il termine “progetto strutturato” a ragion veduta visto che mi è stata prospettata, senza ov-viamente entrare nello specifico, una prospettiva a breve di questo tipo . Personalmente, ad oggi, sono abbastanza pessimista sulla buona riuscita di un proposito di questo tipo . Ho visto troppe compo-nenti sotto il livello di “breack even”1 per poterci

1 n d r: punto di pareggio, il fatturato minimo che consente di pareggiare i costi di produzione indusdtriale nell’analisi

scommettere sopra e anche il pensiero e la volontà di proseguire fattivamente su questa strada vacilla notevolmente . Credevo, a torto, che l’esperienza molto costruttiva di un penale potesse ripetersi, almeno in parte, anche in un circondariale . Ad oggi devo purtroppo dire che mi sono sbagliato . Ho sbagliato a vedere (e poco) senza osservare, a sentire (e poco) senza ascoltare… In questi mesi ho potuto farlo e questo purtroppo mi ha fatto ri-vedere, almeno per ora, in negativo la mia visione iniziale .Devo dire che l’intento di questo scritto non era inizialmente solo quello di esprimere una opinione di tale natura e di mettere tutti davanti a questo stato di cose alquanto “grigio”, ma anche quello di tirare un’ultima riga e ritirarmi in disparte (meglio leggere e sviluppare idee su altri fronti che darsi da fare nel mare del nulla cosmico…) Questo è stato il mio pensiero prevalente nell’ultimo periodo .Poi qualcuno ti spinge a non mollare, tu comunque anche davanti allo sfacelo continui a lottare per tua natura, perché abbandonare ti dà molto fastidio e alla fine dici: “Va beh, facciamo ancora un altro passo e forse qualcosa migliorerà” .Ci credo davvero a quest’ultimo pensiero? Non lo so, sinceramente ancora ora direi di no, ma poi mi dico: “Domani è un altro giorno… domani qualco-sa di meglio accadrà… forse, spero” .

Marco Libietti

aziendale

Qual è il legame tra reato commesso e coscienza del male inferto?Partiamo da due dati di fatto: primo, nel nostro ordinamento sono previste migliaia di fattispecie di reato; secondo: ogni reato è la conseguenza di una coscienza individuale, chiamiamola, per es-sere benevoli, un po’ rattrappita su se stessa. Tra-lasciando ogni considerazione sulle ossessioni del nostro legislatore, è indubbio che in ogni caso una tale proliferazione normativa indichi quantomeno una piccola sfiducia verso il corpo sociale, certo suffragata da molteplici comportamenti individuali non manifestanti un elevato grado di consapevo-lezza dell’altro e di coesione sociale. Ritengo che questo sia il presupposto necessario per addentrar-ci in qualsiasi tipo di considerazione sulla capacità da parte di un detenuto di avere reale coscienza del male commesso. Il punto è: il carcere favorisce una riflessione sulle conseguenze che il proprio reato ha avuto sulla carne viva della persona offesa?

Finché la carcerazione rappresenterà la principale modalità di esecuzione della pena è questa la do-manda da porsi in via prioritaria, prima di interro-garsi in astratto se nel detenuto vi sia o meno e in che misura la capacità empatica di immedesimar-si nella persona offesa. Perché, alla fine, di questo si tratta, riuscire a vedere il fatto con gli occhi dell’altro. Cosa di per sé estremamente difficile, perché già si fa molta fatica e si fa resistenza a ve-dere se stessi in sincerità, nelle nostre piccolezze, bassezze, mancanze, povertà d’animo. Non amia-mo scrutare dentro di noi con i nostri stessi occhi, figurarsi sentirsi addossi lo sguardo dolente, rab-bioso, di condanna di chi ha sofferto a causa nostra. Meglio rimuovere e non pensarci. Il carcere riesce perfettamente a realizzare entrambi gli obiettivi: opera nel soggetto ristretto una rimo-zione della colpa ed è strutturato quale macchina impersonale atta a ridurre la capacità di pensiero autonomo. In sostanza, il mezzo utilizzato è in con-traddizione intrinseca con il fine che si vuole perse-guire: la fantomatica rieducazione. Perché, qui non mi dilungo, qualcuno la vuole veramente? C’è da chiederselo, se solo si constati come sono costru-iti questi luoghi: pensati in modo da essere tenu-ti lontani e inaccessibili allo sguardo di tutti. E tra questi tutti, anche quelli della nostra vittima. Come

ci si può immedesimare con chi non si può mai in-contrare? C’è inoltre da considerare il fatto che per alcuni reati il danneggiato non è di immediata e fa-cile individuazione, sfumando in una sorta di enti-tà indefinita e astratta: le banche, i consumatori di droga, lo stato… una genericità che non favorisce certo il senso di colpa. Il carcere è un luogo di grande sofferenza, è inne-gabile, ma ciò che ho riscontrato in questi sette anni di detenzione, periodo certamente limitato eppure indicativo, è che solo in rari casi questo dolore era dovuto alla consapevolezza che da qualche parte, là fuori, in quello stesso momento, un altro essere umano soffrisse per ciò che gli avevamo causato. La capacità di empatia, tutt’al più, era allargata alla propria cerchia familiare. Non è un giudizio, è una constatazione che chiunque potrebbe fare stando qui dentro, ma purtroppo, o per fortuna, non a tutti è concesso. Stiamo assistendo a un progressivo co-stituirsi di un sistema sociale basato sulla diffidenza reciproca, sulla necessità di controllare e difender-si; già nel mondo per noi “di fuori” le persone, pur libere di relazionarsi, non riescono più a guardar-si negli occhi, se non attraverso un mezzo di me-diazione, è allora ragionevole pretendere che lo facciano gli abitatori di questo mondo “di dentro”, il cui sguardo può vedere solo mura di cemento? Quando la consapevolezza non esiste, non si può acquisire con discorsi ipotetici in incontri saltuari fatti lontano dallo sguardo da chi avrebbe tutto il diritto di essere presente, ma che invece viene te-nuto lontano. La cosiddetta vittima, anche quando nominata e invocata, è un convitato di pietra, ci può essere in teoria, ma nella realtà, per il detenuto, è come se non ci fosse, e quindi non lo ferisce. Solo la realtà di una persona viva e concreta che ti guarda negli occhi, di cui ascolti la voce, anche il grido contro di te, sul cui volto puoi vedere i segni delle tue azioni, ferendoti, può darti quella coscienza che non ave-vi e ancora non hai compiutamente. Una struttura che non favorisce, anzi esclude tale incontro è un inganno venduto ai cittadini coperto sotto la ban-diera strappata della sicurezza, mistifica sotto belle parole quella che, almeno finora, è la sua vera fina-lità: il contenimento e l’allontanamento di soggetti nocivi per il sistema sociale.

Valerio Sereni

Di quale coscienza parliamo?Vittima e autore di reato

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Ulisse n. 11 pag. 7pag. 6 Ulisse n. 11

Alcune settimane fa, nella Sezione Ulisse del carcere Sant’Anna, si è tenuta una accesa discussione fra due volontari (uno era chi scrive) e alcuni detenuti . La foga ha portato ad affermazioni estreme che, probabilmente, non rispecchiano le reali opinioni di chi le ha pronun-ciate . Almeno, questa è stata la nostra impressione . Si sono toccati temi importanti e complessi: dal recupe-ro sociale dei detenuti all’efficacia delle pene, dalla na-tura del carcere in Italia al concetto di “responsabilità” . Si è parlato anche delle attività dei volontari . I detenuti le hanno definite “inutili” in quanto niente fanno per promuovere il “recupero sociale” . In rispo-sta, uno dei volontari, ha affermato che tale “recupero”, “non lo interessa”, “non è il suo obiettivo” . “Che senso ha”, hanno affermato i detenuti, “dare 10 euro a chi ne ha bisogno, comprare un paio di scarpe, un bagno schiuma, una saponetta a chi, palesemente, non ha alcuna consapevolezza del reato commesso e del danno da lui arrecato alla società? Ben pochi detenuti pensano di avere causato un danno alla società . Peggio, se anche lo pensano, la cosa non li interessa . Non vie-ne vista come un problema . Dunque, dal momento che, in base alla Costituzione Italiana, lo scopo della pena consiste nel recupero sociale, le attività dei volontari, a vantaggio di delinquenti inconsapevoli sono inutili . In certi casi, addirittura dannose” .Sono temi complessi che non possono essere analizzati e discussi in un paio d’ore scarse o in poche righe . Tuttavia, forse, vale la pena di fare poche brevi consi-derazioni . E’ vero che le attività dei volontari (i 10 euro, le scarpe, il bagno schiuma, la telefonata alla famiglia, alla com-pagna, i giornali, e molto altro) non servono al recupero sociale dei detenuti?Nella gran maggioranza dei casi, è innegabilmente vero . Se i volontari che compiono queste attività pensassero di giocare un ruolo significativo nel “recupero sociale”, sarebbero non solo presuntuosi ma anche sciocchi . Nel suo bel libro “Fine pena ora”, il giudice in pensione Elvio Fassone afferma che i volontari sono visti, dalla maggior parte dei detenuti, come “vacche da mungere” e dalla maggior parte delle guardie carcerarie come fa-stidiosi rompiscatole1 . Vero. Il “recupero”, auspicato dall’Articolo 27 della nostra Costituzione, è un obiettivo ambizioso che può essere conseguito solo dal “sistema” nel suo complesso . Un “sistema” è un insieme di componenti che funzio-nano (o dovrebbero funzionare) in sinergia, per il con-seguimento di obiettivi chiari e condivisi . Perché gli obiettivi vengano raggiunti, tutte le componenti devono funzionare adeguatamente . Quantità e qualità dei risultati dipendono, per lo più, 1 Fassone e, Fine pena ora, 2015, Sellerio Editore, Palermo

dal lavoro delle componenti più deboli, quelle che fun-zionano peggio e che, inevitabilmente, frenano tutte le altre .Una catena è forte come il suo anello più debole . Il sistema carcerario è costituito da numerose compo-nenti: guardie carcerarie, amministrazione, educatori, magistrati di sorveglianza, avvocati, volontari e, ovvia-mente, i detenuti stessi . Ma le cose sono più complesse . In realtà, quello car-cerario è un “sottosistema” . Fa parte di un altro e più complesso sottosistema, quello della giustizia . Un sot-tosistema che, nel nostro paese, è notoriamente piagato da enormi e annosi problemi: lentezza dei procedimenti (in media, 8 anni per arrivare ad una sentenza nel civile e 5 nel penale)2 ; numerose ingiuste detenzioni (circa 25 .000 dal 1992 ad oggi, con 630 milioni di euro pa-gati in indennizzi – 36 milioni nel 2015 e 11 nei primi tre mesi di quest’anno)3 ; numerosissime fattispecie di reato (circa 37 .000)4 ; 3 .467 .896 cause penali pendenti al 30 giugno 20155 e 67 .000 andate in prescrizione nel solo primo semestre del 20154,5; circa 4 .800 .000 cause civili pendenti4 e altro ancora . Non basta . Le cose sono ancora più complesse . I sottosi-stemi carcerario e della giustizia fanno parte del ben più ampio e complesso “sistema paese”: con una economia zoppicante (quante probabilità ha un ex detenuto di tro-vare lavoro in un paese con tasso di disoccupazione al 11,4%6 ?); un sistema scolastico lacunoso (quanto san-no e quanto capiscono, i nostri studenti, dei problemi della giustizia e del carcere?); una informazione spesso becera e faziosa che, in troppi casi, non cerca la verità fingendo, o illudendosi, di averla già in tasca. Manca lo spazio, ma si potrebbe continuare a lungo . Nell’ambito di un sottosistema malato, che interagisce con altri sottosistemi anch’essi malati, quante speranze ci sono per un effettivo “recupero sociale” dei detenuti? Obiettivamente, poche . E le statistiche lo confermano: in Italia, circa il 70% dei detenuti, una volta usciti dal

2. Organismo Unitario Avvocatura (OUA), Processi lumaca: la sentenza civile arriva dopo 8 anni (La Repubblica), http://www.oua.it/tempi-processi-processi-lumaca-la-sentenza-nel-civile-arriva-dopo-8-anni-la-repubblica/3. CeCCarelli V, Ingiusta detenzione, per l’Italia un errore che costa caro, 28 aprile 2016, http://www.cittadinanzattiva.it/component/tags/tag/36-tempi-e-costi-dei-processi.html4. Articolo 21, 37.000 fattispecie di reati. E la chiamano giustizia, http://www.articolo21.org/2015/07/37mila-fatti-specie-di-reati-e-la-chiamano-giustizia/5. Corte Suprema di Cassazione, Giovanni Canzio, Relazio-ne sull’andamento della giustizia nell’anno 2015, Roma, 28 gennaio 2016.6. Istituto Nazionale di Statistica (ISTAT), Disoccupati, 31 agosto 2016, http://www.istat.it/it/archivio/disoccupati

carcere, commette nuovi reati . In alcuni paesi del Nord Europa, che funzionano meglio del nostro, questo tasso di recidiva scende al 16%7 . Dunque, le attività dei volontari sono inutili? A nostro parere, nonostante tutto, no . Se si pensa al “recupero sociale” hanno, nel migliore dei casi, un peso molto marginale . Ma non sono inutili . Hanno un valore umano intrinseco che le rende degne di essere compiute, indipendentemente dal loro scarso peso nel conseguimento di un obiettivo (il recupero so-ciale) che dipende da ben altri fattori . Il recupero sociale è un obiettivo non solo “convenien-te” per la società nel suo complesso (sia in termini etici che in termini economici e di sicurezza) ma ha una sua valenza alta che ne rende degna la ricerca pur nella con-sapevolezza che, in molti casi, non verrà raggiunto . Si torna al motto di Guglielmo il Taciturno, che guidò la rivolta delle minuscole Province Unite contro l’Im-pero di Filippo II, quell’impero esteso dall’Europa alle Americhe su cui “non tramontava mai il sole” . Quando qualcuno gli fece notare l’enorme disparità delle for-

7. Emergenza Italia: tasso di recidiva e misure alternative, 7 marzo 2016, http://www.agoravox.it/Emergenza-Italia-tasso-di-recidiva.html

ze in campo, il Taciturno, che parlava poco e lo faceva solo a proposito, rispose “Non ho mai avuto bisogno di essere sicuro della vittoria per combattere con onore una battaglia onorevole”. Vale a dire, “se vale la pena di farlo, lo faccio, indipendentemente dal risultato che riuscirò ad ottenere” . In parallelo, si tengano a mente i gramsciani “pessi-mismo della ragione”, inevitabile quando si analizzi la realtà, e “ottimismo della volontà”, necessario per non soffocare nell’immobilismo sterile di un nichilismo che nega valore ad ogni azione . Questo è, a parere di chi scrive, l’essenza del lavoro dei volontari . E non solo in ambito carcerario . Post Scriptum: L’indipendenza delle Province Unite (corrispondenti, più o meno, all’attuale Olanda) venne unilateralmente proclamata nel 1581 . Fu confermata con la Pace di Westfalia del 1648, 64 anni dopo la mor-te di Guglielmo . Le idee e le società maturano lentamente . Ci sono obiet-tivi il cui conseguimento richiede non anni ma molti decenni . Tempi molto più lunghi di quelli concessi ai singoli individui .

Maurizio Murru

I volontari e il recupero socialeUn riesame dello stato delle cose

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Ulisse n. 11 pag. 9pag. 8 Ulisse n. 11

L’odore della polvere, di chiuso, un forte senso di op-pressione e la mancanza di luce: il carcere. Quando si dice: “nella vita ne ho avute di esperienze!”, ma questa è molto alternativa, oserei dire devastante. Devastante per chi nella propria esistenza mai e poi mai avrebbe immaginato questo, devastante perché nel momento in cui stai per varcare la soglia o me-glio il portone che si apre davanti a te, un insieme di passioni, emozioni, turbamenti, preoccupazio-ni e tutto quello che può passare per il cervello, ti avvolge, ti stringe e ti lascia inebetito. Attimo dopo attimo ti accorgi che ciò che hai avuto come diritto alla nascita, per la quale a volte ti sei arrabbiato e hai lottato, perché ti consentiva di esprimere le tue idee, esternare il tuo amore, non l’hai più: la libertà.Tutto in pochi minuti ti viene tolto, anche la cintura dei pantaloni e resti solo in una cella con il tuo dolo-re e i tuoi pensieri. Dopo poco cominci a chiederti: perché? … per i tuoi sbagli, per il male che amici e colleghi di una vita hanno potuto fare distruggendo il tuo lavoro per il quale eri uno stimato professioni-sta e sei diventato nello spazio tempo di un niente un delinquente.Poi passano i giorni e cerchi di organizzare la nuova vita, dove a volte ti sembra di essere in un film dram-matico, ma a volte per certi versi in una commedia e perché no anche in un film comico.Passano i giorni. Persiste il vuoto che hai, cerchi di colmare la mancanza del lavoro, degli affetti con le opportunità che hai a disposizione, gli incontri con l’educatrice. i volontari, poi hai l’opportunità di ali-mentare la cultura personale con letture varie e quella di conoscere e socializzare con gli altri carce-rati.Carcerato!?! Il significato di questa parola è “per-sona detenuta in carcere, forzatamente isolata”. Questa parola tante volte nell’arco della giornata ti sovviene, ti riempie la testa di pensieri, i pensieri si attorcigliano e pensi a tante cose tutte insieme, tan-to che la testa sembra ti scoppi. Pensi agli errori, alle persone che ti vogliono bene, a tutto quello che ti ha circondato e che adesso non hai più. Ascolti le storie degli altri detenuti e ti rendi conto di quante vite, drammi, situazioni familiari dolorose che commuo-vono, sono presenti nella tua sezione.Poi ti chiedi che senso ha la pena che devi soppor-tare, quanto è utile passare mesi ed anni recluso perdendo il contatto con la realtà, con il lavoro, con

i propri interessi. Ti chiedi se e quanto è giusto es-sere un peso per la società, un costo inutile, men-tre potresti attendere al tuo lavoro. Sicuramente si potrebbe trovare una soluzione diversa per scontare una condanna che magari hai meritato, risarcendo nella società, anche con il tuo lavoro, il danno che hai procurato. In carcere ovviamente questo è sem-pre un tema molto discusso; vedi i progetti di rifor-ma dell’esecuzione penale che vengono proposti e rimani scoraggiato perché di fatto ti rendi conto man mano che passano i giorni che le parole rimangono parole e i fatti sono lunghi da addivenire.Capisco, non è facile: innanzitutto le leggi, i giudici, il tempo, ecc. sono tutti ingredienti che mescolandoli insieme dovrebbero amalgamarsi per dare un risul-tato positivo, nei fatti sembra tutto scollegato.Immedesimarsi nei panni di un carcerato e nella vita del carcere per chi vive la propria quotidianità fatta di tanti impegni, dal lavoro alla famiglia al sociale, è molto difficile, ma a volte bisognerebbe soffermarsi e ascoltare o quanto meno fare un azzardo: quello di leggere le parole di chi dal carcere vuole fare co-noscere al mondo esterno le proprie sensazioni, le emozioni, i ragionamenti. Il dott. Rino Scuccato, un medico che lavora nel car-cere di Vicenza, scrive in un suo articolo: “Siamo sicuri che l’opinione pubblica abbia nozione dei di-ritti umani e della loro universalità? Che l’opinione pubblica conosca le pene accessorie che i carcera-ti si trovano a dover sopportare oltre alla pena da espiare?” E ancora: “Ma un’istituzione chiamata a ri-scattare chi ha commesso una colpa e che consegna quasi regolarmente alla società un ”prodotto” più deteriorato di quello che aveva ricevuto non deve essere oggetto di dibattito?”

Leonardo Sangiorgi

Il carcereEmozioni e ragionamenti

In diretta dal carcere di S. AnnaLeonardo si rivolge a Ivano in modo apparentemente ironico e scherzoso

Leonardo “Sig. Zironi ci dica le sue impressioni sulle possibilità di futuro che le restano”. Ivano: Si mostra perplesso, cerca di sfuggire e cambia argomento. “Anzitutto una sorpresa: anche qui

le persone sono uguali a me…”Leonardo: dandogli corda: “Della cucina che cosa pensa?”Ivano: “Ah, ci passa una dieta equilibrata: da una parte cibi che favoriscono la crescita del colestero-

lo (uova 4 o 5 volte la settimana…), ma poi ci danno la pastiglia che lo abbassa. L’equilibrio è perfetto.

Leonardo: “E alla prima domanda, quella sul futuro, non vuole proprio rispondere?”Ivano: Cerca le parole, lo si vede bene dai movimenti rotatori delle mani e degli avambracci: “Sin-

ceramente, se sarò tra i fortunati che ce la faranno a uscire vivi, vista la gente con cui sono a contatto tutti i giorni, cercherò di commettere subito qualche altro reato per tornare a vivere in quest’ambiente che ormai mi appartiene! Perché ho capito che una volta entrati ci viene rovesciato addosso un liquido indelebile, apparentemente invisibile, ma che appare alla vista degli altri e così rimaniamo macchiati tutta la vita…”

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Cassius Clay - Mohamed Ali Un ricordo di Fahir Cherki

La notizia ha fatto il giro del mondo intero, la tri-ste notizia che abbiamo appreso al mattino presto di sabato 4/6/2016. Nel mese sacro del ramadan, quando le porte del paradiso sono aperte, noi ab-biamo perso un simbolo importante che sul ring non perdonava mai, una leggenda che rimarrà nel nostro cuore per sempre: la persona che ha scelto come suo nome Mohamed che per il mondo isla-mico è la guida spirituale, l’uomo profeta che prese la torcia per illuminare la giusta via, la strada che il nostro Dio voleva per le sue creature, per far sì che al di là di questa vita potessero entrare nel suo paradiso ed evitare le differenti sofferenze dell’in-ferno.Addio Mohamed Ali Clay, tu rimani una leggenda e una storia che nonni e nonne racconteranno di generazione in generazione per le tue belle imprese.

Tu hai combattuto il razzismo, buttando via la vo-stra medaglia olimpica d’oro di Roma 1960 nel fiu-me Mississipi, un gesto indimenticabile, protestan-do contro la politica americana che ti aveva chiuso la porta della Casa Bianca in faccia perché di pelle nera.Addio campione. Tu hai abbracciato la religio-ne islamica dove hai trovato la condanna totale del razzismo ed il grande simbolo che testimonia questo è “Bilal”, lo schiavo che è stato liberato dal primo Califfo Abou Bakr Saddik amico vicino al profeta Mohamed. Questo schiavo Bilal sarà il pri-mo uomo libero a fare l’appello alla preghiera per mondo islamico.Addio Mohamed Ali Klay ina lilahi naina ilayai la rajioun.

Anche in araboper capirci meglio

Tra sogno e realtàVittima e autore di reato

Che futuro e prospettiva vedo tra sogno e realtà?Io sono Pretel Jeiman detenuto al S. Anna. Se devo trovare un futuro o una prospettiva dietro le sbarre e mostrarvi la mia opinione personale tra sogno e realtà, devo chiudere gli occhi per poter sognare e, visto che sognare non costa nulla, posso dire di avere tutto quello che mi serve per essere felice: una famiglia che mi aspet-ta a casa, amici che si ricordano di me, una moglie che mi ama e i miei figli che non hanno bisogno di nulla.

Ma quando apro gli occhi il sogno svanisce e mi rendo conto che la realtà fa veramente paura. La cosa più semplice, che sembra normale, svanisce nel nulla; non vedo un futuro prosperoso, sento ogni giorno solo brutte notizie alla TV, inizio a perdere i contatti con la mia famiglia, quelli che io credevo che fossero amici oggi non ci sono più. Mia moglie ogni giorno la sento più lontana, mi rendo conto che ai miei figli manca tutto, soprat-tutto la mia presenza. È una realtà che fa paura. La mia vita si è fermata, non solo il tempo che trascorro dietro le sbarre, e tutto quello che ho creato si distrugge e torna indietro.Perché quello che io sogno è il mio presente e anche il futuro che io desidero e la mia vita senza chiudere gli occhi.

Pretel Jeiman

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in cella di Alex Alberici