Ugo Gregoretti

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STRA PAR LANDO R CULT 48 DOMENICA 10 FEBBRAIO 2013 LA VITA Ugo Gregoretti, nato a Roma il 28 settembre 1930, è un ironico osservatore di costume in televisione e regista di film e documentari Nel 2006 ha pubblicato la sua autobiografia: Finale aperto (Aliberti) LA TIVÙ Gregoretti è tra l’altro l’autore di Controfagotto e Il Circolo Pickwick, delle serie parodistiche Romanzo popolar italiano e Uova fatali, di una inchiesta sull’Italia minore dal titolo Sottotraccia IL CINEMA Gregoretti ha girato negli anni Sessanta I nuovi angeli, un film-inchiesta sui giovani, l’apologo fantascientifico Omicron, i documentari Apollon, una fabbrica occupata e Contratto, e nel 1990 l’autobiografico Maggio musicale La Rai, le stroncature, i Caroselli Il regista racconta la sua vita go Gregoretti è il signor perbene. Lo ascolti parlare e hai l’impressione di un uomo accarezzato da una strana compattezza. Da una solidità che non confisca, non pe- nalizza, non incute paura né provoca ansia. Qualcosa, per intenderci, che sfugge alle regole della pesantezza. È va- ga, problematica, mite. E penso che l’ossimoro — ossia quella condizione un po’ paradossale per cui si è preda di una palese ma feconda contraddizione — abbia segnato la vita di quest’uomo del quale ho appena finito di legge- re un intrigante zibaldone: Scritti scostumati (appena ap- parso da Guida editore). Gregoretti è stato la televisione intelligente e ironica. Dice di non esserne pienamente convinto. E che quella nomea di garbo e finezza che si è trascinato appresso non l’abbia poi così aiutato: «Avrei dovuto essere più cattivo, più truce, non trova?». E non è un rimpianto, ma una leg- gera e divertita constatazione. Che fa rigetta l’immagine di buono e ironico dello spettacolo? «Buono, non direi proprio. Ironico, lascerei che siano gli altri a dirlo». Come si definirebbe? «Sono uno che non ha mai preso troppo sul serio quello che ha fatto. Che ha evitato, a differenza di tanti colleghi, il rischio del- l’autocelebrazione. Anche se la cosa che riesco a fare meglio è parlare di me». Anni di introspezione? «Anni di parole inseguite e pronunciate. Ma la psicoanalisi non è la mia tazzina da tè, come dicono gli inglesi». Non crede nell’inconscio? «Non ci credo. E mi comporto come con Dio. Se lui c’è, faccia il suo corso. Nessun bi- sogno che lo preghi o lo adori». Un moderato ateismo. «Ho frequentato per 13 anni le scuole dei gesuiti e qualche scheggia della morale cat- tolica si è conficcata nelle mie carni. Le con- fesso che non mi dispiace». Quando è nato? «Nel 1930. Fino a 14 anni a Roma. Poi, con la famiglia, ci trasferimmo a Napoli. Città affascinante, misteriosa, corrotta». Anche agli occhi di un ragazzo? «Soprattutto. Ero sedotto dagli aspetti loschi, dalla cultura del basso, umanissima e truffaldina, da quei cappotti confezionati con le coperte americane, ma tagliati da grandi sarti. Era la “Napoli milionaria”, rac- contata da Eduardo. Comunque, qui finii il liceo e poi an- dai all’università». Laureandosi in cosa? «Mai arrivato alla laurea. Ho cambiato tre facoltà — ar- chitettura, giurisprudenza, lettere — e alla fine mio padre, ingegnere ed ex ufficiale di marina, una persona seria, co- me può immaginare, verificò la mia inconsistenza agli studi e decise che avrei dovuto trovarmi un lavoro». Fu preso dallo sconforto, suppongo. «Ero pigro e infingardo, ma anche lucidamente con- creto. Dissi che se lavoro doveva essere che fosse almeno un’occupazione intellettuale. Papà parlò con il Coman- “Ero pigro e pluriraccomandato ma ho cambiato la storia della tv” UGO U ANTONIO GNOLI «Di segreteria. Poi riuscii a passare ai servizi giornalisti- ci. E qui avvenne la svolta. Giro un documentario sulla Si- cilia del Gattopardo e vinco il Premio Italia». Sotto la scorza molle del raccomandato c’era il lette- rato sensibile. «Molto più onestamente c’era una persona che non si vergognava più di quello che faceva. Anche se, devo con- fessare, di “marchette” ne ho fatte». Un’affermazione rara. A quali pensa? «Alludo principalmente alla pubblicità, ai Caroselli, di cui tutti i registi si vergognavano. Credo di essere stato tra i pochi a metterci la faccia. Del resto, la famiglia cresceva, occorrevano soldi e a quel tempo mi ero dedicato al cine- ma con risultati incerti». Non era quel regista che avrebbe voluto essere? dante Lauro, allora sindaco di Napoli e proprietario del quotidiano il Roma». E che accadde? «Mi spedì a Milano, dove aveva fondato un giornaletto analogo — La Patria — con un biglietto che sembrava quello scritto da Richelieu per Milady: “Assumete il la- tore della presente”. Per tutto l’inverno fui occupato come correttore di bozze. Poi, con l’arrivo dell’e- state, il richiamo di Capri fu forte. Mollai tutto e tra un tuffo e l’altro cominciai a vagheggiare sulla mia vera vocazione: un posto in tele- visione». Non ho mai visto uno più spudo- ratamente candido di lei. «Sono stato il prodotto di irre- sistibili raccomandazioni. An- che in Rai, nel lontano 1953, quando ancora la televisione era nella fase sperimentale e avevano chiuso le assunzioni, fui — grazie sempre a mio padre — messo al servizio del direttore generale di allora». Lavoro intellettuale? Vorrei sentirmi dire: su di te sbagliavamo La morte e Dio facciano il loro corso GREGORETTI

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Il regista racconta la sua vita

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STRAPARLANDO

R CULT■ 48DOMENICA 10 FEBBRAIO 2013

la Repubblica

LA VITAUgo Gregoretti, natoa Roma il 28 settembre1930, è un ironicoosservatore di costumein televisione e registadi film e documentariNel 2006 ha pubblicatola sua autobiografia:Finale aperto (Aliberti)

LA TIVÙGregoretti ètra l’altro l’autoredi Controfagottoe Il CircoloPickwick, delleserie parodisticheRomanzo popolaritaliano e Uovafatali, di unainchiesta sull’Italiaminore dal titoloSottotraccia

IL CINEMAGregoretti ha giratonegli anni SessantaI nuovi angeli,un film-inchiestasui giovani, l’apologofantascientificoOmicron, i documentariApollon, una fabbricaoccupata e Contratto,e nel 1990l’autobiograficoMaggio musicale

La Rai, le stroncature, i CaroselliIl regista racconta la sua vita

go Gregoretti è il signor perbene. Lo ascolti parlare e hail’impressione di un uomo accarezzato da una stranacompattezza. Da una solidità che non confisca, non pe-nalizza, non incute paura né provoca ansia. Qualcosa, perintenderci, che sfugge alle regole della pesantezza. È va-ga, problematica, mite. E penso che l’ossimoro — ossiaquella condizione un po’ paradossale per cui si è preda diuna palese ma feconda contraddizione — abbia segnatola vita di quest’uomo del quale ho appena finito di legge-re un intrigante zibaldone: Scritti scostumati(appena ap-parso da Guida editore).

Gregoretti è stato la televisione intelligente e ironica.Dice di non esserne pienamente convinto. E che quellanomea di garbo e finezza che si è trascinato appresso nonl’abbia poi così aiutato: «Avrei dovuto essere più cattivo,più truce, non trova?». E non è un rimpianto, ma una leg-gera e divertita constatazione.

Che fa rigetta l’immagine di buono e ironico dellospettacolo?

«Buono, non direi proprio. Ironico, lascerei che sianogli altri a dirlo».

Come si definirebbe?«Sono uno che non ha mai preso troppo

sul serio quello che ha fatto. Che ha evitato,a differenza di tanti colleghi, il rischio del-l’autocelebrazione. Anche se la cosa cheriesco a fare meglio è parlare di me».

Anni di introspezione?«Anni di parole inseguite e pronunciate.

Ma la psicoanalisi non è la mia tazzina datè, come dicono gli inglesi».

Non crede nell’inconscio?«Non ci credo. E mi comporto come con

Dio. Se lui c’è, faccia il suo corso. Nessun bi-sogno che lo preghi o lo adori».

Un moderato ateismo.«Ho frequentato per 13 anni le scuole dei

gesuiti e qualche scheggia della morale cat-tolica si è conficcata nelle mie carni. Le con-fesso che non mi dispiace».

Quando è nato?«Nel 1930. Fino a 14 anni a Roma. Poi, con

la famiglia, ci trasferimmo a Napoli. Cittàaffascinante, misteriosa, corrotta».

Anche agli occhi di un ragazzo?«Soprattutto. Ero sedotto dagli aspetti

loschi, dalla cultura del basso, umanissima e truffaldina,da quei cappotti confezionati con le coperte americane,ma tagliati da grandi sarti. Era la “Napoli milionaria”, rac-contata da Eduardo. Comunque, qui finii il liceo e poi an-dai all’università».

Laureandosi in cosa?«Mai arrivato alla laurea. Ho cambiato tre facoltà — ar-

chitettura, giurisprudenza, lettere — e alla fine mio padre,ingegnere ed ex ufficiale di marina, una persona seria, co-me può immaginare, verificò la mia inconsistenza aglistudi e decise che avrei dovuto trovarmi un lavoro».

Fu preso dallo sconforto, suppongo.«Ero pigro e infingardo, ma anche lucidamente con-

creto. Dissi che se lavoro doveva essere che fosse almenoun’occupazione intellettuale. Papà parlò con il Coman-

“Ero pigro e pluriraccomandatoma ho cambiato la storia della tv”

UGO

UANTONIO GNOLI

«Di segreteria. Poi riuscii a passare ai servizi giornalisti-ci. E qui avvenne la svolta. Giro un documentario sulla Si-cilia del Gattopardo e vinco il Premio Italia».

Sotto la scorza molle del raccomandato c’era il lette-rato sensibile.

«Molto più onestamente c’era una persona che non sivergognava più di quello che faceva. Anche se, devo con-fessare, di “marchette” ne ho fatte».

Un’affermazione rara. A quali pensa?«Alludo principalmente alla pubblicità, ai Caroselli, di

cui tutti i registi si vergognavano. Credo di essere stato trai pochi a metterci la faccia. Del resto, la famiglia cresceva,occorrevano soldi e a quel tempo mi ero dedicato al cine-ma con risultati incerti».

Non era quel regista che avrebbe voluto essere?

dante Lauro, allora sindaco di Napoli e proprietario delquotidiano il Roma».

E che accadde?«Mi spedì a Milano, dove aveva fondato un giornaletto

analogo — La Patria — con un biglietto che sembravaquello scritto da Richelieu per Milady: “Assumete il la-tore della presente”. Per tutto l’inverno fui occupatocome correttore di bozze. Poi, con l’arrivo dell’e-state, il richiamo di Capri fu forte. Mollai tutto etra un tuffo e l’altro cominciai a vagheggiaresulla mia vera vocazione: un posto in tele-visione».

Non ho mai visto uno più spudo-ratamente candido di lei.

«Sono stato il prodotto di irre-sistibili raccomandazioni. An-che in Rai, nel lontano 1953,quando ancora la televisioneera nella fase sperimentale eavevano chiuso le assunzioni,fui — grazie sempre a mio padre— messo al servizio del direttoregenerale di allora».

Lavoro intellettuale?

Vorrei sentirmidire: su di tesbagliavamo

La morte e Diofaccianoil loro corso

GREGORETTI

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la Repubblica

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I LIBRIGregorettisi è raccontatoin un libro uscitonel 2009con il titoloFinale aperto(“L’autobiografiabuffa di un granderegista”). Guandaha appenapubblicato i suoiScritti scostumati

IL TEATRONella secondametà degli anniOttanta Gregorettiha diretto il TeatroStabile di TorinoÈ stato ancheregista liricomettendo in scenauna memorabileedizione deL’italiana in Algeriper la Rai

DOMENICA 10 FEBBRAIO 2013

«L’esordio fu incoraggiante. Girai I nuovi angeli. Il filmpiacque a Rossellini che volle presentarlo a Cannes. Ro-berto era adorato dalla Nouvelle Vague. E in quel lontano1961 beneficiai del clima positivo che si era creato attor-no a noi. Pensi che un giorno arrivò a pranzo, invitato daRossellini, un ometto vestito di nero, gli occhiali scuri e labarba mal rasata. Che si mostrò deferentissimo alle ri-chieste di Roberto. Era Jean-Luc Godard».

Fu un battesimo sotto i migliori auspici.«Ben presto cominciarono le difficoltà. La più grossa

era dovuta alla mia origine televisiva. Tutti, o quasi, glispocchiosi cineasti di allora consideravano la televisioneun marchio infamante».

Chi non la riteneva degno?«Mi vengono in mente Valerio Zurlini, Florestano Van-

cini, Citto Maselli. Per anni mi hanno considerato un in-truso, un abusivo. Una volta, pensi, ero al Rosati di via Ve-neto. Entra una comitiva e a un certo punto sento una fra-se che mi gela: “Ora fanno fare i film perfino a Gregoret-ti!”».

Chi la pronunciò?«Fu Elio Petri».Come reagì?«Mi ferì moltissimo, ma feci finta di niente».Con quale suo film se la prendevano?«Con Omicron. La critica lo fece a pezzi. Il film tra l’al-

tro era andato a Venezia. Per l’occasione il critico Gio-vanni Grazzini scrisse che erano 2.400 metri di pellicolada gettare nella laguna. L’altra fonte di sofferenza era ilmercato. Al botteghino i miei film giacevano agli ultimi

DISEGNODI RICCARDO MANNELLI

posti».Ha mai dubitato del suo talento di regista?«Nel mio animo ho sempre pensato di averlo e lo pen-

so tuttora. Ma mi sono anche chiesto se non sbagliavo. Al-la fine ho smesso di fare cinema perché stoltamente hocreduto a critici e colleghi che, con maggiore o minoreeducazione, mi invitavano a tornare in televisione».

E lei tornò?«Sì, e vissi questa scelta come una sconfitta. Una volta

dissi scherzando a Corbucci, che era l’erede di un dinastiadi salumieri, allora sbertucciato dalla critica e oggi risco-perto da Tarantino: Sergio, ma è possibile che nessuno tidica ti tornare in pizzicheria?».

I suoi “spaghetti western” erano di grande successo.«È vero, però la critica picchiò duro. Ad ogni modo

torno in televisione e mi offrono di girare Il circoloPickwick. E realizzo una cosa in netta controtenden-za con gli sceneggiati di allora».

Di nuovo lo spettro della stroncatura?«In questo caso ci furono pareri contrastanti. Il

più divertente, ma anche il più cattivo, fu quelloespresso da Achille Campanile che svolgeva le suecritiche televisive su L’Europeo».

E cosa scrisse?«Che aveva sognato Dickens che mi inseguiva

con un randello nei corridoi della Rai, mentre io mirifugiavo nel bagno dei dirigenti. Al contempo il Ti-mededicò allo sceneggiato un’intera pagina di elo-gi. Ettore Bernabei, il vero padrone della televisio-ne italiana di allora, decretò che per cinque anninon avrei più dovuto mettere piede nell’azienda.Ecco, perché cominciai a fare marchette con lapubblicità».

E poi cercò protezione nel Pci.«Perché protezione?».Lei era un liberale che non si era mai occu-

pato di politica.«Ero un liberale di sinistra in pieno Sessantot-

to, con il Pci in grande trasformazione. In quelperiodo realizzo un lungo documentario su unafabbrica occupata: l’Apollon. Il mio diventa unodei rari esempi di cinema operaista. Insommaprendo coscienza che esiste un mondo diversoda quello al quale mi ero sempre rivolto».

E si iscrive al partito con una lettera di ade-sione che a rileggerla oggi è piena dei luoghi co-muni di allora.

«Me ne ricordi qualcuno».L’intellettuale borghese che abbraccia la no-

bile causa operaia. L’autocritica per certi suoiinterventi “qualunquistici”. Mi chiedo dov’erafinita la sua ironia.

«Era il 1970, scrissi una lettera molto ideologi-ca, me ne rendo conto. Oggi è facile vederne il la-

to ingenuo. Allora, ci sembrava di partecipare a ungrande progetto di trasformazione sociale. Si può

dire tranquillamente o amaramente, dipende daipunti di vista, che non ce l’abbiamo fatta».Come vive questi anni recenti?

«Sono entrato nell’ottantatreesimo anno e mi chiedo,con stupore, è possibile che ci si sia ridotti in questo sta-to? Ecco, qui ci vorrebbe l’ironia di Nanni».

Intende Nanni Loy?«Sì, dietro un certo disincanto c’era in lui una vera pas-

sione civile. Quella dello scugnizzo un po’ attempato».Viene da pensare che per molti versi eravate simili.«C’era una grande intesa, anche professionale. En-

trambi esplorammo le potenzialità di una televisione, co-me si dice in modo un po’ banale, “intelligente”. Il suoSpecchio segreto e il mio Controfagotto ne furono la provapiù evidente».

Come vorrà essere ricordato?«Come uno al quale dire: c’eravamo sbagliati sul tuo ci-

nema. E poi sarei curioso di leggere qualche necrologio.Ho una debolezza puerile per quel genere di retorica».

Come vive il rapporto con la morte?«Come quello con il Padreterno. Facciano il loro corso.

Ci penso spesso, è vero, ma senza pathos. Ogni tanto fac-cio ipotesi su come dividere le mie cose tra i quattro figli.E poi le malattie da rintuzzare. Ho un’infiammazione alnervo sciatico che mi costringe in questo momento a spo-starmi in carrozzella. Il corridoio di casa sembra il set diShining».

La franchezza con cui si racconta è molto rara. Cos’èun modo di espiare le colpe?

«La colpa è un retaggio dei gesuiti. È il nostro modo dipiegarci a volontà misteriose».

Dove è finito il razionalista?«Lo sono meno di quanto sembri. Fin da bambino il mio

punto di vista privilegiato era sotto il tavolo».Sentirsi protetti è importante?«Per me è fondamentale. Amo starmene a casa. Esco

sempre più di rado. La pena che gradirei maggiormentesono gli arresti domiciliari».