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Pacem in terris hominibus bonae voluntatis Costo spese militari guerra Iraq – Afghanistan preventivate fino al 2017 ca. 1.500 MILIARDI DI DOLLARI fonte CBO Testimony Congressional Budget Office, 24 Ottobre 2007 RIVISTA QUADRIMESTRALE DELL’AUCI ASSOCIAZIONE UNIVERSITARIA PER LA COOPERAZIONE INTERNAZIONALE Quando rientri a casa la sera tardi, pregustando il letto, sappi che molti nella tua città non hanno una casa a cui tornare. Un dormitorio forse. Altrimenti, stanchi come te, girano per le strade cercando un angolo riparato dove passare la notte. E chiediamoci se abitiamo città umane. Enrico Peyretti Agenda “Giorni non violenti”, 3 settembre 2007, ed. Qualevita In questo numero: Editoriale pag. 2 Un “debito” di sangue pag. 3 Costruire su ciò che esiste pag. 4 di Alberto Aztori Vendiamo idee pag. 6 di Donata Frigerio L’Africa costruisce se stessa pag. 7 dell’abbé Jean Réné Singa Ritorno in Africa pag. 9 di Antonella Mirabelli e Domenico Porcelli Formazione per le emergenze pag. 10 di Vincenzo Costigliola La cooperazione in rete pag. 11 di Antonio Campanaro I 15 anni del pinguino pag. 12 e l’etica del software di Luigi Colacicco Un tratto di strada pag. 14 di Giovanni Manganiello Quale futuro? pag. 15 di Domenico Porcelli Anno 1 - N° 3 Settembre/Dicembre 2007 UBUNTU

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Pacem in terris hominibus bonae voluntatis

Costo spese militari

guerra Iraq – Afghanistan preventivate fino al 2017

ca. 1.500 MILIARDI DI DOLLARI

fonte CBO Testimony Congressional Budget Office, 24 Ottobre 2007

RIVISTA QUADRIMESTRALE DELL’AUCIASSOCIAZIONE UNIVERSITARIA PER LA COOPERAZIONE INTERNAZIONALE

Quando rientri a casa la sera tardi,

pregustando il letto,

sappi che molti nella tua città

non hanno una casa a cui tornare.

Un dormitorio forse.

Altrimenti, stanchi come te,

girano per le strade

cercando un angolo riparato

dove passare la notte.

E chiediamoci se abitiamo città umane.

Enrico PeyrettiAgenda “Giorni non violenti”, 3 settembre 2007,ed. Qualevita

In questo numero:

Editoriale pag. 2

Un “debito” di sangue pag. 3

Costruire su ciò che esiste pag. 4di Alberto Aztori

Vendiamo idee pag. 6di Donata Frigerio

L’Africa costruisce se stessa pag. 7dell’abbé Jean Réné Singa

Ritorno in Africa pag. 9di Antonella Mirabelli eDomenico Porcelli

Formazione per le emergenze pag. 10di Vincenzo Costigliola

La cooperazione in rete pag. 11di Antonio Campanaro

I 15 anni del pinguino pag. 12e l’etica del softwaredi Luigi Colacicco

Un tratto di strada pag. 14di Giovanni Manganiello

Quale futuro? pag. 15di Domenico Porcelli

Anno 1 - N° 3Settembre/Dicembre 2007

UBUNTU

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A quasi 20 anni da una memorabile lettera di don Tonino Bello, vescovo di Molfetta, scritta in occasione del Natale, i suoi “au-guri scomodi” rimangono, nella drammatica realtà del tempo che ci è dato di vivere, i soli auguri che ci possiamo fare per ilSanto Natale. Tanti auguri scomodi... quindi a nome personale e di tutto il Consiglio direttivo

“Non obbedirei al mio dovere di vescovo, se vi dicessi “Buon Natale” senza darvi disturbo.Io, invece, vi voglio infastidire.Non posso, infatti, sopportare l’idea di dover rivolgere auguri innocui, formali, imposti dalla routine di calendario. […]Tanti auguri scomodi, allora!Gesù che nasce per amore vi dia la nausea di una vita egoista, assurda, senza spinte verticali. E vi conceda la forza di inventar-vi un’esistenza carica di donazione, di preghiera, di silenzio, di coraggio.Il Bambino che dorme sulla paglia vi tolga il sonno e faccia sentire il guanciale del vostro letto duro come un macigno, finchénon avrete dato ospitalità a uno sfrattato, a un marocchino, a un povero di passaggio.Dio che diventa uomo vi faccia sentire dei vermi ogni volta che la carriera diventi idolo della vostra vita; il sorpasso, progettodei vostri giorni; la schiena del prossimo, strumento delle vostre scalate. […][…] Gli angeli che annunziano la pace portino guerra alla vostra sonnolenta tranquillità incapace di vedere che, poco più lonta-no di una spanna con l’aggravante del vostro complice silenzio, si consumano ingiustizie, si sfrutta la gente, si fabbricano armi,si militarizza la terra degli umili, si condannano i popoli allo sterminio per fame.I poveri che accorrono alla grotta, mentre i potenti tramano nell’oscurità e la città dorme nell’indifferenza, vi facciano capireche, se anche voi volete vedere una “gran luce”, dovete partire dagli ultimi. Che le elemosine di chi gioca sulla pelle della gen-te sono tranquillanti inutili. Che le pellicce comprate con le tredicesime di stipendi multipli fanno bella figura, ma non scalda-no. Che i ritardi dell’edilizia popolare sono atti di sacrilegio, se provocati da speculazioni corporative.I pastori che vegliano nella notte, “facendo la guardia al gregge” e scrutando l’aurora, vi diano il senso della storia, l’ebbrezzadelle attese, il gaudio dell’abbandono in Dio. E vi ispirino un desiderio profondo di vivere poveri: che poi è l’unico modo permorire ricchi. Sul nostro vecchio mondo che muore nasca la speranza”.

Fiorire e dar frutti in qualunque terreno si sia piantati, non potrebbe essere questa l’idea? E non dobbiamo forse collaborarealla sua realizzazione? (Etty Hillesum)

L’immagine della prima pagina di Ubuntu, oramai familiare ai lettori di questo quadrimestrale dell’Auci, è una rielaborazione alcomputer di due foto scattate in terra africana. È una immagine che costituisce il logo della nostra associazione e che vuole espri-mere, con la figura del ragazzo stagliata in primo piano sullo sfondo del suo villaggio ripreso contro il cielo di fuoco del tramontoafricano, l’impegno dell’Auci di porre in primo piano, all’attenzione di ognuno di noi, il continente africano da cui è partita la gran-de avventura del Homo sapiens. È la terra delle nostre origini, la madre terra, che dovremmo sempre avere davanti ai nostri occhie verso la quale dovremmo avere sentimenti di profondo e tenero attaccamento. È la terra dell’alba dell’umanità lanciata nella gran-de avventura che l’ha condotta fino ai nostri giorni. Ma si tratta di inizio o di fine? di alba o di tramonto?

Chi è stato in Africa, lungo la fascia equatoriale, sa bene che l’immagine fugace che, ad occidente , segna il tramonto delle in-fuocate giornate africane è la stessa che si ritrova ad oriente allorché veloce la terra esce dal buio della notte. È una immagineche nulla ci dice se la terra stia emergendo dalle tenebre alla luce del giorno o ad esse, abbandonando la luce, vi stia ritornan-do.Alba o tramonto quindi? Non lo sappiamo come non sappiamo se il mondo, che sta tutto nelle nostre piccole mani, camminaverso il giorno del pieno sviluppo in cui ogni uomo sarà accolto come fratello e, a sua volta, sarà capace di accogliere con lospirito e l’umiltà del poverello di Assisi ogni manifestazione del cosmo come parte di se stesso, oppure sta precipitando folle-mente verso il buco nero dell’autodistruzione! Il nostro più vivo desiderio è che questa immagine, logo dell’Auci, che ci auspi-chiamo arrivi con regolare frequenza ai nostri soci e simpatizzanti lettori di Ubuntu, susciti nell’animo di ognuno di noi senti-menti di saggia apprensione per il destino di questo piccolo mondo che costituisce la nostra fragile casa.

Pasquale De Sole

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TANTI AUGURI SCOMODI!

ALBA O TRAMONTO?

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Nei precedenti numeri di Ubuntu è stato trattato l’argomentodel debito estero dei Paesi in via di sviluppo con due articoli:“Paesi in perenne debito” di C. Frassineti e “Il Debito Este-ro e lo sviluppo dei Paesi poveri” di F. Marzano. Col presen-te articolo vogliamo dare voce a chi ha subito e subisce leconseguenze nefaste del debito. Lo facciamo riportando unintervento di Thomas Sankara, primo Presidente del BurkinaFaso, alla Conferenza dell’Organizzazione per l’Unità Afri-cana (OUA) nel 1987. Lo scorso 15 Ottobre è ricorso il ven-tennale del suo assassinio.

“Signor Presidente, Signori Capi di delegazioni Vorrei che ora parlassimo di questo altro problema che citormenta: la questione del debito, la questione economicadell’Africa. Come la pace, la questione del debito è una con-dizione importante della nostra sopravvivenza. Per questomotivo ho creduto dovervi imporre qualche minuto supple-mentare per parlarne […] Il problema del debito va analiz-zato prima di tutto partendo dalla sua origine. Le origini deldebito risalgono alle origini del colonialismo. Quelli che cihanno prestato il denaro sono gli stessi che ci hanno colo-nizzati, sono gli stessi che hanno per tanto tempo gestito inostri stati e le nostre economie. Sono i colonizzatori chehanno indebitato l’Africa presso i finanziatori, i loro fratellied i loro cugini. Noi siamo estranei a questo debito, dunquenon possiamo pagarlo. Il debito è anche legato al neocolo-nialismo dove i colonizzatori si sono trasformati in “assi-stenti tecnici”, o dovremmo dire assassini tecnici, e sono lo-ro che ci hanno proposto dei meccanismi di finanziamento,dei finanziatori; un termine che usiamo continuamente comese ci fossero uomini il cui sbadiglio bastasse a creare lo svi-luppo per altri.1 Questi finanziatori ci sono stati consigliati,raccomandati. Ci hanno presentato dei dossier e delle mon-tature finanziarie allettanti. Così ci siamo indebitati per cin-quanta, sessanta anni o forse più. Questo significa che perdecenni ci hanno indotto a compromettere i nostri popoli. Ildebito nella sua forma attuale è una riconquista saggiamen-te organizzata dell’Africa, affinché la sua crescita e il suosviluppo obbediscano a regole che ci sono del tutto estranee,facendo in modo che ciascuno di noi diventi finanziaria-mente schiavo, vale a dire schiavo tout court di coloro chehanno avuto l’opportunità, l’astuzia, la furbizia di piazzarecapitali da noi, con l’obbligo di rimborso. Ci viene detto dirimborsare il debito. Ma non si tratta di una questione mora-le: qui non è in gioco un preteso “onore” di rimborsare o dinon rimborsare. Signor Presidente, abbiamo ascoltato e ap-plaudito il primo ministro della Norvegia che ha parlato quiieri. Anche lei, che è europea, ha detto che il debito non puòessere interamente rimborsato. Io vorrei semplicementecompletarla e dire che il debito non può essere rimborsatoprima di tutto perché, se noi non paghiamo, i nostri finan-ziatori non moriranno. Possiamo esserne certi. Al contrario,se paghiamo saremo noi a morire, possiamo esserne altret-tanto certi. […] Non possiamo rimborsare il debito perchénon abbiamo di che pagare. Non possiamo rimborsare il de-

bito perché non ne siamo responsabili. Non possiamo rim-borsare il debito perché sono gli altri che hanno nei nostriconfronti un debito che le più grandi ricchezze non potreb-bero mai pagare, cioè il debito di sangue. É il nostro sangueche è stato versato.[…]”

Thomas Sankara, I discorsi e le idee, ed. Sankara, Roma 2003pagg. 98 – 105

1È un gioco di parole che Sankara fa tra bailleurs de fonds (finanziatori) e

baillement (sbadiglio). Parole che in francese hanno le stesse sillabe iniziali.

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UN “DEBITO” DI SANGUE

Thomas Sankara è statoun grande leader cari-smatico, per tutta l’Afri-ca Occidentale sub-sa-hariana. Primo Presiden-te del Burkina Faso si èfortemente impegnato afavore di riforme radica-li per eliminare la pover-tà. Nato in una famigliacattolica nel 1949, iniziòla carriera militare a 19anni e nel 1981 fu nomi-nato Segretario di Stato.Il 21 aprile 1982 - in op-posizione alla deriva an-ti-labour del regime -

rassegnò le dimissioni. Dopo un colpo di stato nel Novem-bre 1982, che portò al potere Jean-Baptiste Ouedraogo,Sankara divenne Primo Ministro. Venne presto destituitodal suo incarico e messo agli arresti domiciliari in seguitoalla visita di Jean-Christophe Mitterrand, figlio dell’allorapresidente francese François Mitterrand. L’arresto di San-kara e di altri suoi compagni causò una rivolta popolare; unsuccessivo colpo di stato nel 1983 portò Sankara alla pre-sidenza. Lottò contro la corruzione, promosse la riforesta-zione, l’accesso all’acqua potabile per tutti, e fece dell’e-ducazione e della salute le priorità del suo governo. Appli-cò con grande coerenza le sue idee e soppresse molti deiprivilegi detenuti sia dai capi tribali, sia dai politici. Guidòil primo governo africano a dichiarò che l’AIDS era la piúgrande minaccia per l’Africa; incluse nel suo governo ungrande numero di donne, condannò l’infibulazione e la po-ligamia, viaggiò con i suoi collaboratori sempre in classeeconomica e a ranghi ridotti nelle visite diplomatiche; ven-dette la maggior parte delle Mercedes in forza al governoe proclamò automobile ufficiale dei ministri, l’economicaRenault 5. Sankara venne ucciso il 15 ottobre 1987 insie-me a dodici ufficiali, in un colpo di stato organizzato da unsuo ex compagno d’armi (e poi suo braccio destro), l’at-tuale presidente del Burkina Faso, Blaise Compaoré.

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Costruire su ciò che esiste già: un pre-cetto semplice ma che non sempre –meglio dire, raramente – ha trovatoapplicazione nel campo della coope-razione internazionale allo sviluppo.Riuscirci è l’obiettivo della Strategiaaccelerata per la sopravvivenza e losviluppo dell’infanzia (AcceleratedStrategy for Child Survival and Deve-lopment – ACSD), un programma lan-ciato in questi anni dall’UNICEF inquattro paesi pilota dell’Africa cen-tro-occidentale: Benin, Ghana, Mali eSenegal. Alla base dell’iniziativa stala convinzione che il ritardo accumu-lato dalla comunità internazionale nelconseguimento del quarto Obiettivodi Sviluppo del Millennio – quelloche si ripromette di ridurre di 2/3 lamortalità infantile entro il 2015 – ren-da improcrastinabile creare una siner-gia tra le azioni già consolidate anzi-ché investire in nuove campagne fo-calizzate su singoli aspetti del proble-ma.La storia della ACSD è da molti puntidi vista esemplare. Nel 2001 l’Agen-zia Canadese per lo Sviluppo Interna-zionale (CIDA) proponeva all’UNI-CEF di finanziare un programma life-saving che rispettasse alcuni severiparametri di efficacia ed efficienza.Esso avrebbe dovuto garantire risulta-ti tangibili (riduzione del 15% dellamortalità infantile 0-5 anni) in tempistretti (3 anni di applicazione) e a co-sti relativamente bassi (meno di 1.000euro per vita salvata). A partire dal2002 l’ACSD venne applicata, all’in-terno dei 4 Paesi summenzionati, in 16distretti prescelti per il tasso di morta-lità infantile particolarmente elevato eper lo scarso accesso ai servizi sociosanitari di base. In questi distretti èstato implementato il cosiddetto “pac-chetto completo” della strategia, con-sistente in una serie di interventi mira-ti, accomunati dalla riconosciuta effi-cacia nella lotta alla malnutrizione ealla morbilità infantile. Il “pacchettocompleto” della ACSD include trecomponenti: zanzariere, antiparassita-ri, vitamina A• ANC + (Antenatal Care Plus): trat-

tamento preventivo della malaria eintegratori alimentari per le gestan-ti, antitetanica per madre e neona-to, prevenzione della trasmissionedell’HIV da madre a figlio

• IMCI + (Integrated Management ofChildhood Illness Plus): promozio-ne dell’allattamento al seno, usodel sale iodato, gestione familiare ecomunitaria di malaria, diarrea ealtre malattie dell’infanzia.

Alcuni di questi sono interventi chefanno parte del modus operandi con-solidato dell’UNICEF, mentre altri –come il trattamento “presuntivo” dellamalaria nella donna incinta o la ge-stione comunitaria delle affezioni re-spiratorie acute – sono stati messi apunto solo in anni recenti. Ciò che ac-comuna quasi tutte le attività del “pac-chetto” è la loro attitudine a incideresui comportamenti degli individui,messi in condizione di compiere sem-plici ma efficaci azioni di prevenzioneo cura di alcune tra le più diffuse cau-se di morbilità e mortalità infantile,come il trattamento della diarrea acutacon sali reidratanti, l’impiego di zan-zariere impregnate di insetticida perprevenire la malaria (tuttora causa di

un milione di decessi annui tra i bam-bini), o l’uso di sale da cucina arric-chito con iodio per prevenire il gozzoe altri gravi disturbi dello sviluppo. Lascommessa della ACSD è di ottenereprogressi misurabili riorganizzandol’esistente anziché investire in nuoveinfrastrutture o semplicemente au-mentando le forniture di beni. E i ri-sultati preliminari dicono che questascommessa è stata in buona parte vin-ta.

Una strategia comunitaria

Ogni anno nel mondo muoiono circa10,1 milioni di bambini sotto i 5 anni,in gran parte nei primissimi mesi divita. Oltre la metà di questi decessi so-no dovuti all’interazione negativa tramalnutrizione ed infezioni, e non afattori singolarmente individuabili. Laprevenzione deve dunque basarsi suun set di interventi che mirino allemolteplici cause di vulnerabilità e pro-ducano un innalzamento complessivodelle condizioni di vita materiale delbambino. Questo approccio integratoè il principale punto di forza dellastrategia ACSD.

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Benkene (Mali). Riunione di sensibilizzazione, guidata da un’ostetrica, sui vantaggi dellavaccinazione contro il tetano neonatale. Credit: ©UNICEF/HQ02-0264/Giacomo Dirozzi

COSTRUIRE SU CIÒ CHE ESISTEUna strategia UNICEF per ridurre la mortalità infantile in Africa

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Tale integrazione, come ben sa chiopera sul campo, è però tutt’altro chesemplice da ottenere. A livello politi-co-organizzativo, la ACSD richiede atutti i partner (governo nazionale, au-torità locali, ONG) di formulare e ade-rire a un Piano d’azione nazionale incui siano ben espliciti gli obiettivi daraggiungere, gli indicatori per monito-rare l’andamento della strategia e gliinevitabili “colli di bottiglia” da af-frontare. Gli Stati che beneficiano dei finanzia-menti e del supporto tecnico dell’U-NICEF nel quadro della ACSD devo-no cooperare fattivamente, inserendola strategia ACSD nei programmi na-zionali di lotta alla povertà e gestionedelle risorse economiche sui quali sisono impegnati con le potenti istitu-zioni finanziarie internazionali (BancaMondiale, FMI), garantendo le risorseumane necessarie e facilitando la par-tecipazione attiva delle comunità. Si-mili capacità di programmazione e al-locazione delle risorse non erano af-fatto scontate per i ministeri dei Paesicoinvolti, e hanno richiesto un consi-stente impegno di capacity buildingda parte dell’UNICEF.L’integrazione degli interventi ha pe-rò il suo aspetto più concreto nell’a-spetto logistico. Già nel 2003 l’auto-revolissima rivista medica “The Lan-cet” denunciava come spesso nei Pae-si in via di sviluppo gli interventi disanità pubblica, pur formalmente cor-retti, non portassero a una riduzionedella mortalità infantile per l’incapa-cità di raggiungere i destinatari finali.Zanzariere e vaccini, stoccati negliospedali o negli ambulatori, non han-no alcuna efficacia se le madri non visi recano con regolarità e soprattuttocon sufficiente consapevolezza. Ap-plicando la ACSD, l’UNICEF e i suoipartner hanno innanzitutto escogitatosoluzioni per colmare questo diafram-ma tra comunità ed infrastrutture. Unesempio illuminante è quello dellafornitura di zanzariere nelle zone delBenin coinvolte dal progetto. Qui si èintervenuto spingendo il governo a ri-durre il prezzo ufficiale della zanza-riera impregnata da 7 a 3 dollari per ledonne in gravidanza o con figli picco-li (e persino a 1 dollaro nei distrettipiù poveri). Dall’altro lato, le madri

sono state incoraggiate all’acquistotramite campagne di sensibilizzazionepromosse da associazioni femminili,volontarie e – nei centri urbani – contecniche di marketing sociale. Il suc-cesso è stato tale da provocare a fine2005 l’esaurimento delle scorte dizanzariere in quasi tutto il Benin, un“collo di bottiglia” che a questo pun-to trovava una facile soluzione nellafornitura di nuove zanzariere tramitel’efficiente canale di procurementglobale della UNICEF Supply Divi-sion, in grado di spuntare prezziquanto mai competitivi dai produttoricon gare d’acquisto internazionali.Nel solo biennio 2002-2003, l’UNI-CEF aveva immesso in questo modocirca 4,5 milioni di nuove zanzariereimpregnate di insetticida a lunga du-rata nei 4 paesi pilota. Sebbene deli-nei un quadro di riferimento unico, laACSD è una strategia molto flessibilequando si traduce in azioni sul campo.Mentre gli indicatori e gli obiettividevono rimanere omogenei per con-sentire una seria valutazione compa-rativa, gli interventi possono declinar-si in maniera peculiare a seconda del-le caratteristiche sociali e culturali diogni Paese. Nella regione dell’UpperEast, una delle più povere del Ghana,la ACSD ha “inventato” le “Settimanedella salute infantile”, occasioni perdistribuire zanzariere, vermifughi edosi di vitamina A. Qui la zanzarieraviene offerta a prezzo sociale (55 cen-tesimi di dollaro) alle donne che si re-cano ad effettuare le visite prenatali, eun’altra viene consegnata alla nascitadel bambino, in modo da assicurare aentrambi la copertura dalla malaria.Ogni anno apposite campagne con-dotte nei villaggi da volontari localimostrano alle famiglie come re-im-pregnare correttamente le zanzarierenel liquido insetticida, al costo di 22centesimi l’una. Agli operatori sanita-ri volontari, formati con corsi intensi-vi di 5 giorni, è consegnata una bici-cletta per spostarsi e un contenitorefrigorifero per trasportare vaccini ealtri farmaci.

Risultati preliminari

La valutazione, sovente “l’anellomancante” nel ciclo di programma, è

qui garantita da un organismo esterno,indipendente e autorevole: la JohnHopkins University. Nel rapporto pre-liminare (gennaio 2007) gli espertidella J̌HU traggono un primo bilanciosulla strategia, di cui è confermato ilsuccesso sul fronte organizzativo edelle politiche sanitarie. In attesa del-l’analisi quantitativa, prevista per fine2007, alcuni dati lasciano intravederepromettenti sviluppi. Nell’Upper East(la regione del Ghana sopra citata), trail 1998 e il 2003, i neonati allattati alseno entro un’ora dalla nascita sonosaliti dal 7 all’88%, l’uso effettivodelle zanzariere tra i bambini è cre-sciuto dal 4,6 al 22% e il tasso di mor-talità infantile si è ridotto della metà.La ACSD nel frattempo è stata estesaa 7 altri Paesi (Burkina Faso, Came-run, Ciad, Gambia, Guinea Conakry,Guinea Bissau e Niger), per una popo-lazione-target quintuplicata (16 milio-ni di persone rispetto ai 3 milioni del2002). Secondo un calcolo approssi-mativo, il numero di morti evitate (omeglio, di vite salvate) ogni anno, gra-zie alla ACSD, è di 5.500 nei 4 paesipilota e oltre 18.000 in tutti gli 11 iPaesi coinvolti. Il cosiddetto “costoper vita salvata”, indicatore di saporecinico ma di indubbia utilità per i va-lutatori e per i finanziatori internazio-nali dell’iniziativa, è di poco superio-re ai 400 dollari, dunque ben al di sot-to del requisito (1.000 dollari/unità)posto dal donatore originario, l’Agen-zia Canadese per lo Sviluppo Interna-zionale (CIDA). La ACSD non ha ildono della perfezione, ed ha anzi am-pi margini di miglioramento. Da essaperò ci giunge un messaggio inequi-vocabile: per garantire la sopravviven-za e la salute dei bambini, al pari dimolti altri obiettivi di sviluppo uma-no, molte cose possono essere utili masoltanto il coinvolgimento delle co-munità è indispensabile.

Alberto Aztori

A. Aztori lavora presso l’UNICEF dal1992 ed è redattore della rivista perdonatori dell’UNICEF “Dalla partedei bambini”. È autore di articoli epubblicazioni sui problemi e sui dirit-ti dell’infanzia nei Paesi in via di svi-luppo.

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Il commercio equo e solidale è in parteascrivibile alla cooperazione internazio-nale ed in parte alla critica alla correnteglobalizzazione economica e alla relazio-ne politica tra Stati. Il commercio equo,infatti, crea cooperazione tra pari: enti delPrimo mondo economico cooperano conenti del Terzo mondo economico, eserci-tando insieme il commercio nel suo valo-re più puro di scambio. Gli importatori, leBotteghe del Mondo (ormai quasi 500 inItalia) in Europa, America del Nord, Au-stralia, Giappone... non acquistano sem-plicemente un prodotto da gruppi, coope-rative, associazioni di produttori delle zo-ne più disagiate di Africa, Asia, AmericaLatina, ma intessono con il produttore econ il consumatore una relazione che in-duce a riflettere sugli odierni meccanismidi scambio monetario e sulla possibilità dicollaborare anche in termini culturali, le-gislativi, umani. Lo scambio commercia-le porta, oltre alla ricchezza monetaria aiproduttori, anche una crescita in cono-scenza, una riflessione politica sul sensodelle proprie azioni di scelta commercia-le. Commerciamo alimentari “coloniali”,caffè, the, spezie, ma anche riso, miele,prodotti trasformati come biscotti, meren-dine (in cui la materia prima proviene ingran parte da progetti di commercioequo), artigianato locale africano, asiati-co, americano, ma anche strumenti musi-cali, libri su temi quali cooperazione, glo-balizzazione, economia, commercio, svi-luppo… e proponiamo corsi, conferenze,percorsi educativi per i ragazzi per diffon-dere una cultura equosolidale. Siamo unluogo di unione e di scambio.In una qualunque Bottega del Mondo siriflette sul prezzo giusto di un prodotto,che soddisfi tutti, commercianti, acqui-renti e produttori, si propongono campa-gne, si approfondiscono i meccanismieconomico-commerciali della globalizza-zione e le relazioni politiche tra gli Stati,per poter fare azione di lobby e tentare,insieme ai partners del Sud, di modificarele relazioni scorrette, quelle che danneg-giano le fasce deboli della popolazione.Ecco allora il perché del titolo di questoscritto, “vendiamo idee”. In realtà il pro-dotto è un pretesto che ci permette di af-frontare i grandi temi delle cause dellamiseria, della cura del pianeta su cui vi-

viamo, del rispetto dei diritti dell’uomo,della donna, dei bambini, dei lavoratori,delle teorie economiche e di alcune lorodeleterie applicazioni, insomma della po-litica, intesa non in senso partitico ma co-me “polis”, come cura della cosa pubbli-ca e dei cittadini del mondo. Il progetto èambizioso. Il commercio equo è nato nel-l’immediato dopoguerra in Olanda e si èdiffuso nei Paesi del Nord Europa fino adarrivare in Italia, circa 20 anni fa, e ulti-mamente anche in Grecia e Spagna. Oggiè diffuso in tutto il mondo, organizzato suscala locale, nazionale, continentale emondiale da parte dei produttori e deiconsumatori (la nostra parte). Il Paese chedetiene la maggior diffusione del com-mercio equo è l’Olanda, dove il consumodi caffè equosolidale ha superato la sogliasignificativa commercialmente del 5%del consumo totale. Per quanto riguarda iprodotti, ora gli acquisti provengono so-prattutto da Asia ed America del Sud, chesoddisfano meglio il nostro gusto e la cuiimportazione non si scontra con le diffi-coltà oggettive di una importazione afri-cana (difficoltà di comunicazione, insta-bilità politica, costi di trasporto alti), manon abbiamo intenzione di abbandonare ilContinente nero. Difficile quantificarel’impatto economico e sociale del com-mercio equo in una popolazione del Suddel mondo; certo usiamo alcuni accorgi-menti, come un bonus di produzione perla riconversione, la coltivazione di pro-

dotti biologici e la proposta di cassa-ma-lattia per i lavoratori ed i loro familiari.Sicuramente far parte del circuito delcommercio equo permette ai produttori diaccedere a relazioni altrimenti inimmagi-nabili, paritarie, faticose e stimolanti, con-sente loro di poter scegliere aumentandoil loro potere di acquisto e di poter dire illoro punto di vista rispetto agli accordi in-ternazionali di commercio (e non solo).Non sappiamo se il nostro modello com-merciale è riproducibile su vasta scala, ul-timamente subiamo le attenzioni dellemultinazionali e molte università ci scel-gono come modello di studio. In diversiStati, anche in Italia, si studiano leggi adhoc per la tutela del commercio equo ri-spetto agli “equofurbi”, che vorrebberoappropriarsi dell’idea per ridurla solo agliaspetti commerciali. La strada verso il ri-spetto dell’uomo ed un’equa ridistribu-zione delle risorse è ancora lunga, spessoci scontriamo purtroppo con la culturadella nostra crescita economica a tutti icosti, incompatibile con le limitate risorsedel pianeta.Per maggior informazioni sull’argomentoconsultare il sito www.assobdm.it

Donata Frigerio

Donata Frigerio, laureata in medicinaveterinaria, è socia fondatrice della Co-operativa Equo Mercato. Attualmente la-vora alla Segreteria Nazionale dell’Asso-ciazione Botteghe del Mondo.

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VENDIAMO IDEE

Grand Marchè di Cotonou (Benin).Bambini organizzati in sindacato per il riconoscimento dei loro diritti

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In due località della provincia di Ban-dundu (RD Congo) Kenge e PontKwango, è iniziata nell’Agosto scorsoun’interessante iniziativa di microcre-dito sostenuta dall’Auci.Ce ne parla l’abbé Jean René Singa co-ordinatore del progetto di Kenge.

Kenge, capoluogo del distretto diKwango (provincia di Bandundu, RDCongo), è una cittadina di 124000 abi-tanti situata a circa 280 km ad Est diKinshasa. Dal punto di vista economicola città di Kenge versa in condizioni ve-ramente deplorevoli: mancanza di ac-qua corrente, di elettricità, difficoltà dicollegamenti per la quasi completa di-struzione della statale n. 2 nella secon-da parte del tratto Kinshasa-Kenge, ero-sione del suolo, deforestazione... In talicondizioni gli abitanti di Kenge, in par-ticolare le donne, sono costretti a farequotidianamente molti km (12-15) apiedi su un terreno fortemente acciden-tato e sabbioso, sia per procurarsi l’ac-qua per gli usi domestici, sia per recar-si alla coltivazione di terreni sempremeno accessibili per ottenere i prodottiche costituiscono il fondamento dellaloro alimentazione: la manioca che for-ma l’alimento base, le leguminose e learachidi. La disponibilità di proteineanimali è fortemente ridotta e basata supesci importati da Kinshasa in condi-zioni igieniche pietose a causa dei lun-ghi tempi necessari per il trasporto (3-4giorni per effettuare meno di 300 km!).Di fronte a questi problemi, su iniziati-va di un sacerdote diocesano, si è for-mato un gruppo che ha iniziato a riflet-tere su come venire incontro ai tanti bi-sogni della popolazione di Kenge inve-ce di lasciarsi andare a sterili lamentele.È nato così il gruppo “Telema” che inlingua kikongo significa “sveglia! alza-ti!” che, rivolto alla popolazione diKenge, è insieme un grido ed una sfida.Come era da attendersi, la buona volon-tà di unire le proprie forze creando ungruppo non è sufficiente: chi è a terra habisogno di un punto di appoggio persollevarsi e decollare! Naturalmente ilprimo punto di appoggio è endogeno ecosì il gruppo si è impegnato a costitui-re un capitale iniziale versando ciascu-no 10.000 Franchi Congolosi (circa 20euro) con quote mensili di 2000 FC (4

euro). Tuttavia, nonostante la modestiadella somma, per la maggior parte deimembri del gruppo, non avendo alcunaentrata o disponendo di entrate da mise-ria, rispettare questo impegno minimodiventava una impresa titanica. Inizial-mente il gruppo si cullava nell’illusioneche fosse scesa la manna dal cielo mapoi, presi dalla sfiducia, molti hannoabbandonato il progetto. A questo pun-to, allorché l’iniziativa sembrava mise-ramente destinata a morire, è intervenu-ta provvidenzialmente la collaborazio-ne con l’Auci che ha proposto una ini-ziativa di microcredito dell’ammontaretotale di 5000 euro (circa 200 euro apersona) da rimborsare a tasso zero intre anni. Con tale appoggio si è riuscitia dare il via ad una serie di iniziativeche finalmente hanno permesso di “sol-levarsi” da terra. In particolare si èprovveduto all’acquisto di: un terreno acirca 12 km da Kenge, in parte a savanae in parte a foresta, ove è possibile col-tivare manioca, mais e sviluppare la pi-scicultura; una piantagione di alberi dafrutta; due campi di mais da due ettariciascuno; due biciclette; una ventina dipecore per allevamento, momentanea-mente tenute nel terreno del Seminariominore di Katende; un lotto di farina difrumento al fine di permettere alle don-ne di Kenge di acquistare ad un buonprezzo la farina con cui fare ciambelle esviluppare un processo economico subase familiare; un lotto di quaderni ven-duti a un prezzo molto basso a tutte lefamiglie in modo tale che esse possano

preparare facilmente il ritorno a scuoladei loro ragazzi. I benefici attesi da que-sta iniziativa non sono pochi soprattuttose si considera la sfiducia di fondo chesi è stratificata nella popolazione a se-guito delle esperienze negative vissutelungo tutto il XX secolo. Oltre la messain moto di un processo economico allaportata del gruppo e della popolazionelocale, con questo progetto basato sulmicrocredito i giovani di Telema hannol’occasione di confrontarsi con se stes-si. Il rimborso del debito secondo tempiliberamente concordati va letto in que-sta ottica. Dice un proverbio congolese:“chi paga i suoi debiti, si arricchisce” el’arricchimento di cui qui si parla è si-tuato principalmente su piano etico inquanto insieme al proprio lavoro si ac-quisisce la consapevolezza della pro-pria dignità e la bellezza di collaborareinsieme per raggiungere un nobile ob-biettivo. Lokwa Kanza così canta: “sipuò cambiare il proprio destino, ma bi-sogna volerlo”! Questo è il banco diprova per i giovani congolesi dell’asso-ciazione Telema: cambiare con il pro-prio lavoro e con i tempi alla loro por-tata il proprio destino! Nello spirito di“ubuntu”, poi, questo primo gruppo èconsapevole che l’impegno congiuntodi Telema e dell’Auci può diventarecontagioso nella realtà locale stimolan-do così la nascita di altri gruppi capacidi costruire se stessi nel servizio reci-proco.

Abbé Jean Réné Singa

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Kenge (RD Congo). Il prof. Pasquale De Sole con il gruppo TELEMA

L’AFRICA COSTRUISCE SE STESSAUn’esperinza di microcredito a Kenge (RD Congo)

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Nato in Togo, Paese dell’Africa occi-dentale tra il Ghana e il Benin, il dr.Jean Kossi Assimadi, professore emeri-to di pediatria all’Università di Lomè,ha conseguito la laurea in medicina echirurgia all’Università Cattolica diRoma nel 1969 e la specializzazione inpediatria al Gaslini di Genova nel 1973.Nel 1974, dopo una serie di esperienzein ospedali europei ed americani, hafatto definitivamente ritorno in Togo.

Dopo un incontro con gli studenti dellafacoltà di medicina e chirurgia del-l’UCSC di Roma nell’Aprile scorso, ildr. Assimadi ha concesso all’Auci unaintervista.

Durante il suo intervento in Cattolicalei ha parlato di “inadeguatezza” diun medico che studia in Europa nel-l’affrontare le malattie in contesto to-talmente diverso come quello africa-no. Potrebbe chiarirci meglio questosuo pensiero e dire cosa cambierebbedella formazione europea?Penso che le inadeguatezze possono es-sere sentite, non solo o specificatamen-te, dallo studente africano che studia esi forma nei Paesi sviluppati, ma ancheda uno studente europeo. A volta si pos-sono riscontrare delle differenze tra laformazione e le realtà del territorio do-ve poi ci si trova ad operare. Nel casodell’Africa questa differenza è sicura-mente più marcata poiché ci troviamodi fronte ad un contesto diverso sia dalpunto di vista socio-politico, sia dalpunto di vista climatico, sia dalla pre-senza o frequenza di certe patologie. InItalia, per esempio, un dermatologo in-dividua i melanomi seguendo determi-nati criteri che spesso non sono ugual-mente validi per la pelle nera. Prendia-mo una malattia banale come il morbil-lo: sulla pelle di un bambino italianol’arrossamento (ovvero la prima mani-festazione evidente della patologia) sinota immediatamente, sulla pelle nerainvece bisogna basarsi su altri accorgi-menti. Per questo, a mio avviso, la for-mazione dovrebbe avere una fisionomiavariabile e tenere conto di alcune parti-colarità, ma spesso l’insegnamento è

stereotipato come se fossimo effettiva-mente tutti uguali.

Questa situazione si riscontra anchenell’insegnamento della medicinanelle università africane?Purtroppo sì, ed è per questo che l’u-nione tra la pratica e la teoria è impor-tantissima. Uno dei vantaggi della for-mazione dei medici africani è il contat-to col paziente già al secondo anno dimedicina. Quando studiavo in Europanon era così ma forse adesso le cose so-no cambiate.

Qual è il rapporto di un medico cheha studiato in Europa con la medici-na tradizionale? Come si vive questorapporto, considerando che la medi-cina tradizionale in molte parti del-l’Africa è parte integrante del tessutosociale?I casi sono due. Alcuni medici che si so-no formati in Europa, in America maanche nella stessa Africa rifiutano lamedicina tradizionale, preferiscono nonparlarne né col malato né con coloroche la praticano. Un’altra categoria dimedici, di cui io faccio parte, preferisceinvece conoscerne i benefici. In Africamolti (che si tratti di un intellettuale o diun grande professore), ricorrono, primadi arrivare nelle nostre strutture, allamedicina tradizionale intesa non comestregoneria bensì come fitoterapia, ov-vero come utilizzo di mezzi tradiziona-li (piante o estratti di piante) per curar-si.

Quanto la medicina ufficiale nega lamedicina tradizionale? E quanto in-vece la riconosce?Ci sono alcuni Paesi quali il Mali o ilMozambico che contemplano nel loroordinamento socio-politico la medicinatradizionale che è, a mio avviso, un be-ne. Noi impariamo molto da questi Pae-si. Il problema è distinguere tra i bravipraticanti dai “commercianti”, cioèquelli che dai villaggi arrivano in cittàperché hanno sentito dallo zio o dalnonno che tale pianta o tale erba puòcurare una certa malattia…Conoscereveramente le proprietà curative delle

piante, delle erbe, delle radici è una vir-tù. La medicina tradizionale non si puòe non si deve combattere, al contrariobisogna fare in modo che ci sia una sor-ta di complementarietà; alcune malattiebanalissime come la diarrea, la tosse, lafebbre sono facilmente guaribili con ri-medi naturali. Per esempio il principaleprodotto antimalarico è una pianta cine-se conosciuta con il nome di artemisia.Il grosso problema è che chi conosce lamedicina tradizionale non accetta dicondividere con un medico la sua cono-scenza poiché questa ultima rappresen-ta il suo lavoro, ciò che gli permette divivere.

Lei ha detto che molti pazienti, primadi accedere agli ospedali, si rivolgonoalla medicina tradizionale. A questoproposito com’è l’acceso della popo-lazione alla sanità pubblica?In Africa, in Togo, come in tutti in Pae-si in Via di Sviluppo, questa situazioneè simile. Tutti devono pagare prima divedere l’agente sanitario. Quindi se sihanno i soldi si può andare nelle strut-ture sanitarie, altrimenti ci si deve ac-contentare del terapeuta tradizionale. E’previsto dal governo la presa in caricodelle persone indigenti, questo però ri-mane spesso solo sulla carta. Non esisteun sistema sanitario pubblico reale.Forse c’è in alcuni Paesi che hanno ilpetrolio come la Libia o la Nigeria, an-che se poi molti nigeriani vengono afarsi curare da noi. Infatti, nonostante lericchezze di questi Paesi, la gente co-mune è di fatto poverissima. L’itinera-rio che il paziente si trova a fare è il se-guente: la prima struttura che incontra èl’ambulatorio, il cosiddetto “dispensa-rio”. Quando l’infermiere del dispensa-rio non può curare quel paziente lo in-dirizza ad una struttura superiore che sichiama “centro medico sociale”, i co-siddetti “assistant medical”, dove lavo-ra personale più qualificato che ha con-seguito una laurea breve. Al di sopra delcentro medico sociale c’è poi l’ ospeda-le. Oggi, in Togo, solo il 30% della po-polazione utilizza le strutture sanitarie.Le cause dei nostri mali sono ben notecosì come oramai se ne conoscono le

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RITORNO IN AFRICA:un medico missionario tra la sua gente

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soluzioni; ci sono anche delle strategieben codificate ma rimaniamo a contem-plarle!

Quali sono le malattie presenti in To-go?Le malattie classiche sono sempre pre-senti: la malaria, così come tutte le ma-lattie legate all’acqua. La mortalità con-nessa alle forme gravi di malaria è ri-dotta, però la malattia continua ad esi-stere. Alle cosiddette vecchie malattie,si devono aggiungere le cosiddette nuo-ve malattie, come l’Aids, che ha ungrande impatto negativo sullo sviluppodel Paese. Esso rappresenta un graveflagello per la società perché è una del-le principali cause dei numerosi orfani.Poi c’è l’Ulcera di Burulì che non è unamalattia nuova (è la terza malattia mi-crobatterica dopo la lebbra e la tuberco-losi), ma i Paesi che ne sono colpitihanno anche altri problemi e quindi nonla considerano molto; per questo moti-vo si vedono molti bambini amputati acausa di una piccola ulcera che, se noncurata, causa disastri. L’inserimento diquesti orfani o dei giovani guariti dal-l’Ulcera (spesso senza famiglia) rappre-senta un altro grande problema. A que-sto proposito la formazione continuadel personale medico e paramedicononché il sostegno alle strutture sanita-rie (spesso carenti di infrastrutture) è divitale importanza. Questo sarebbe an-che uno stimolo per i giovani laureati arestare nel proprio Paese.

Molti ragazzi africani decidono distudiare all’estero. Quanti di questirientrano dopo il percorso di studi? Eperché lei ha deciso di ritornare inTogo piuttosto che restare ad eserci-tare in Europa?La risposta a questa domanda non èsemplice. C’è chi si sente di fare l’an-data ed il ritorno e c’è chi non se la sen-te. Ci sono molte cose che devono esse-re tenute in considerazione. Molti ra-gazzi che dopo gli studi sono rientratihanno rifatto i bagagli per ripartire. Cisono tante ragioni, alcune delle qualisono qui altre sono in Africa. Quandonel 1974 sono rientrato in Togo, non hoavuto esitazioni, anche se in quel mo-mento avevo molte proposte di lavoroin Europa. Per i giovani di adesso è di-verso, perché quando si torna in Togo

bisogna cercarsi un lavoro; anche se cisono tanti malati che necessitano di cu-re mediche lo Stato non ha soldi per pa-gare gli stipendi e spesso le condizionidelle strutture sanitarie non consentonodi svolgere a pieno il proprio lavoro.Per questo si preferisce lavorare in pro-vincia di Cuneo e mandare aiuti allapropria famiglia in Africa. Questa fugadi cervelli è una realtà ma non si posso-no accusare i medici, bisognerebbepiuttosto preparare le condizioni per illoro rientro, condizioni che al momentoattuale non esistono, e chi resta è unasorta di missionario. Tutto ciò è dovutoall’assenza di volontà politica, perchéquando un Paese dà delle borse di stu-dio ai suoi cittadini per la formazioneall’estero dovrebbe poi preparare allostesso modo un programma di rientro.Io, per esempio, potrei essere mandatodal mio governo nelle varie universitàitaliane per valutare la situazione deglistudenti africani, per conoscerli e capi-re le motivazioni che li portano a resta-re in Italia.

Il legame con la famiglia che ruologioca in questo rientro?Il legame familiare è molto forte. La fa-miglia auspica sempre il ritorno ma leaspettative sono molto alte. Chi studia ècomunque un privilegiato, che lo facciain Africa o altrove, questo è un onoreper la famiglia ma le aspettative sul pia-

no del benessere familiare possono es-sere molte. Se l’ingegnere o il medico,quando ritorna, deve ancora pesare sul-le spalle della famiglia, si preferisce chetrovi lavoro dove ha studiato.

L’università in Togo è di facile acces-so, è costosa?L’università è aperta a tutti, la selezioneè di natura economica e non tutti posso-no permettersela. Chi ha la maturitàscientifica, secondo il modello scolasti-co francese, può accedere alla facoltà dimedicina. Ogni anno gli iscritti sono400, un numero molto elevato rispettoalle nostre strutture di accoglienza; diquesti 400 superano il primo anno solo30/40 studenti, e fra questi ci sono ra-gazzi in gamba ma non sempre…

Ma cosa bisogna fare perché gli afri-cani raggiungano l’obiettivo del mil-lennio?Molte dichiarazioni restano soltantoslogan, purtroppo non si può curare unlinfoma con un augurio. Io credo cheogni nostro sogno, anche se su piccolascala, bisogna rapidamente tradurlo inatto. E’ per questo che io preferisco icontatti con le associazioni come l’Au-ci piuttosto che ipotizzare grandi pro-getti.

Antonella MirabelliDomenico Porcelli

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Aprile 2007. Il prof. Jean Kossi Assimadi durante l’incontro nella sede di Romadell’Università Cattolica in occasione dei “Mercoledì della Cattolica”

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Queste poche righe, anche sulla base diesperienze personali, vogliono sensibi-lizzare tutti coloro che per attività pro-fessionale o su base volontaristica sonoimpegnati in azioni di intervento nelleemergenze, ad affrontarle con cognizio-ne di causa, con professionalità e con ladovuta preparazione tecnica necessariache, sole, consentono di essere all’al-tezza dell’impegno assunto.

Con il termine emergenze intendiamotutte quelle situazioni non previste cheimprovvisamente investono un gruppo,un luogo, una regione causando distru-zione e richiedendo un aiuto esterno. Accanto a queste, sempre più si fa stra-da il concetto di “emergenza perma-nente” che si riferisce alle situazioni didisagio sociale a cui siamo quotidiana-mente confrontati.Ai nostri giorni le situazioni di emer-genza per catastofi naturali e non, fannorapidamente il giro del mondo e noi tut-ti siamo informati in tempo reale. Chetrattasi di fenomeni tettonici quali terre-moti, tsunami ed eruzioni vulcaniche;fenomeni meteorologici come gli uraga-ni, la desertificazione, le inondazioni, letrombe d’aria; fenomeni topologici qua-li valanghe, smottamenti del terreno,inondazioni o incendi, l’informazionerapidamente arriva sui nostri posti radioo televisivi. Normalmente, al verificarsidi una emergenza, li dove esistono, leinfrastrutture di protezione civile sonoallertate e, nei casi più gravi, un sistemadi allerta nazionale ed internazionale simette in moto. Una volta lanciato l’al-larme, le organizzazioni come la CroceRossa Internazionale attivano il loro si-stema di allerta e in primo luogo cerca-no di fare il bilancio delle necessità.Una prima equipe é mandata sul postoe, sulla base dei rapporti e delle richie-ste delle autorità locali, vengono solle-citati gli interventi di gruppi specializ-zati. Con gli aiuti istituzionali si muo-vono anche gli aiuti spontanei.

Gruppi più o meno organizzati, armatidella più grande disponibilità e genero-sità ma non sempre qualificati, si met-tono in moto e si recano sul posto perdare il loro aiuto. Si tratta per lo più di

gruppi non sempre inquadrati nellestrutture di cooperazione e che talvolta,sul terreno, si trovano in difficoltà e so-no nell’incapacità di portare un aiutoefficace. Perché si interviene ? Qualisono le motivazioni? Si potrebbe dis-sertare a lungo su queste questioni emettere in risalto le emozioni, la dispo-nibilità e la generosità che sono certo lespinte iniziali, ma che da sole, oggi, nonsono più sufficienti per ottenere risulta-ti validi, che si ottengono solo coniu-gando emozioni e competenza. I medicied il personale sanitario che con grandeslancio umanitario sono in prima lineanelle situazioni di emergenza, moltevolte non hanno la preparazione speci-fica adeguata. Le situazioni di emergen-za possono portare ad agire in ambientiostili e sconosciuti, senza quelle infra-strutture indispensabili che vanno dallafonte di energia all’acqua potabile. Agi-re in ambiente marino é certamente di-verso dall’ambiente lacustre e operarein zone terremotate é diverso da zoneinondate. Le esigenze delle popolazionivittime di situazioni di emergenza van-no dalla protezione personale, al primosoccorso, alle cure in ambiente ospeda-liero, alla preparazione dei cibi, alla or-ganizzazione igienico sanitaria, alle im-plicazioni medico legali e, di sovente,alla identificazione delle vittime primadi inumarle o bruciarle. Basti pensare

alle persone scomparse ed a quelle consindrome da stress post-traumatico o an-cora ai bambini ed alle persone anzianeche non sono in grado di esprimersi eche più degli altri soffrono per la perdi-ta dei punti di riferimento abituali.La disparità degli interventi é tale cheper saper operare correttamente in am-biente alpino, fluviale, marino, subac-queo, sismico o vulcanico é richiestauna preparazione specifica, approfondi-ta e validata. Non basta essere un grup-po, non basta essere armati di buona vo-lontà, non sono più sufficienti corsi diformazione superficiali; molte struttureuniversitarie nazionali ed internazionalipropongono ormai corsi di formazioneche consentono di acquisire quella for-mazione specifica indispensabile perconoscere i propri limiti ed utilizzaretutte quelle soluzioni tecniche e logisti-che utili per un aiuto efficace.

Vincenzo Costigliola

Laureato in medicina all’Università diNapoli con specializzazione in anestesiae terapia intensiva conseguita pressol’università di Pisa, è oggi consulentemedico presso la W.E.U. (Western Euro-pean Union)) e presso la NATO, nonchèpresidente della E.M.A. (European Me-dical Association) e della E.D.A (Euro-pean Depression Association).

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Incidenti da Valanga in Italia negli ultimi 15 anni(Servizio Valanghe Italiano, Commissione Tecnica del CAI )

FORMAZIONE PER LE EMERGENZE

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Antonio Campanaro, volontario per il progetto Kenge, lascorsa estate ha introdotto l’Ospedale di Kimbau (RD Con-go) nella rete telematica dell’Associazione “Alleanza degliospedali italiani nel mondo” .

L’Associazione è stata istituita il 2 febbraio 2004 e vedecome soci fondatori il Ministro della Salute, il Ministro de-gli Affari Esteri, il Ministro dell’Università e della Ricerca,il Ministro per le Riforme e l’Innovazione della PubblicaAmministrazione. Ad essa aderiscono attualmente 42 Cen-tri Sanitari Italiani nel Mondo (CSIM) collocati in 24 Paesi(tra i quali l’Ospedale di Kimbau nella Repubblica Demo-cratica del Congo) e 33 Centri Sanitari Nazionali di Riferi-mento in Italia, affidati a Istituti di Ricovero e Cura a Ca-rattere Scientifico, o a grandi Ospedali pubblici e privati trai quali ricordiamo a Roma: Ospedale Pediatrico BambinGesù, Istituto Regina Elena, Istituto S. Gallicano , IstitutoLazzaro Spallanzani; inoltre a Genova Istituto Gaslini, aMilano Fondazione Don Carlo Gnocchi, a Palermo Ismett ,a Bologna Istituti ortopedici Rizzoli, a Bari Istituto tumoriGiovanni Paolo II, a Pavia Policlinico San Matteo etc.L’Associazione, senza scopo di lucro, è orientata alla co-operazione sanitaria e alla promozione sociale in ottempe-ranza alla finalità del Progetto IPOCM (Integrazione e Pro-mozione degli Ospedali e dei Centri Sanitari Italiani nelMondo). La finalità è quella di promuovere, attraverso l’u-so in via continuativa di un servizio di teleconsulto medicoe di formazione a distanza, la crescita della qualità delleprestazioni sanitarie erogate dai Centri Sanitari Italiani nelMondo alle popolazioni che vi si rivolgono, spesso consi-derate - in tali contesti - categorie deboli. Da un punto divista operativo, gli obiettivi del progetto sono:

1. il mantenimento e l’ampliamento della rete telematicabasata su Internet mondiale tra gli ospedali dell’Allean-za realizzata nel 2004;

2. la riduzione delle criticità di tipo clinico-diagnostico etecnico-organizzativo rilevabili nei Centri Sanitari Ita-liani nel Mondo, attraverso l’attivazione del servizio diteleconsulto medico, avviato dal 2005 nell’interesse deipazienti e dell’efficienza della struttura;

3. l’aumento delle capacità professionali del personale sa-nitario dei Centri Sanitari Italiani nel Mondo attraversoil servizio di formazione a distanza attivo dal 2006;

4. il supporto per l’attuazione di gemellaggi su tematichedi mutuo interesse tra Centri Sanitari Italiani nel Mondoe Centri Sanitari Nazionali di Riferimento, anche attra-verso lo scambio temporaneo di esperti e la sperimenta-zione di soluzioni innovative;

5. l’acquisizione dei fabbisogni di salute delle popolazioniche si rivolgono ai Centri Sanitari Italiani nel Mondoper la formulazione di politiche coerenti di cooperazio-ne sanitaria.

Grazie alla telematica i “soci” di questa rete possono dia-logare tra di loro attraverso un pacchetto specializzato diposta elettronica appositamente elaborato. La centrale(Segretariato di assistenza tecnica) smista le richieste inarrivo agli esperti che lavorano in Italia, assicurando l’ap-propriatezza delle attribuzioni e il rispetto dei livelli mini-mi di servizio. Ai quesiti terapeutici e diagnostici in arri-vo dai medici e dagli operatori sparsi nel mondo è assicu-rata una risposta quasi in tempo reale e non oltre le 72 ore.La lingua del sistema di dialogo è l’italiano soprattutto percorrispondere alla necessità dei centri sanitari italiani nelmondo di mantenerne vivo l’uso. Sono comunque previstiaiuti in linea per la traduzione dei principali campi nellequattro lingue straniere più rilevanti per il progetto (ingle-se, francese, spagnolo e portoghese). I dati generati daiflussi del teleconsulto popolano una banca dati presso ilSegretariato, da cui essi vengono estratti ed elaborati perla produzione periodica di reports statistici a beneficio deisoci dell’Alleanza.

Una metodologia innovativa ed efficace di fare cooperazio-ne che ha già dato ottimi risultati.

Per maggiori informazioni sull’argomento consultate il sitohttp://www.ipocm.ministerosalute.it/

Antonio Campanaro

Dal Manuale del teleconsultodell’“Alleanza degli ospedali italiani nel mondo”.

LA COOPERAZIONE IN RETEAlleanza degli ospedali italiani nel mondo

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I 15 ANNI DEL PINGUINOE L'ETICA DEL SOFTWARE

“Ubuntu”, come si sa, è anche un ter-mine che designa una particolare di-stribuzione del sistema operativoGnu/Linux (acronimo ricorsivo che staper “GNU non è Unix”). Un sistemaoperativo libero, gratuito, sicuro e difacile utilizzo. Per capire il legame tralo spirito di “ubuntu” fatto proprio dal-la nostra rivista e l’informatica “demo-cratica” abbiamo chiesto al dr. LuigiColacicco, nostro socio, di introdurcinel mondo del software libero.

Il 2007 è un anno importante per tutticoloro che a vario titolo gravitano in-torno al mondo del software libero. Dapiù parti arrivano segnali incoraggiantidi numerose aziende del settore semprepiù disposte ad investire nel softwarelibero mentre il livello di diffusione deisistemi operativi Linux ha raggiuntoquote insperate, neanche lontanamenteimmaginabili solo qualche mese fa.Come avrete intuito il pinguino a cui ciriferiamo non è il simpatico bipede chei documentari naturalistici ci mostranoa spasso sui ghiacci antartici, bensìTUX, la graziosa mascotte con cuiviene identificato il kernel Linux, cuoredelle centinaia di distribuzioni che su diesso si basano e che vengono comune-mente indicate come sistema operativoGNU/Linux. In quindici anni di cose ne sono succes-se davvero tante nel mondo del softwareed in particolare dei sistemi operativi:dal 1992 ad oggi abbiamo assistito alprogressivo consolidamento del mono-polio Microsoft su scala planetaria,mentre una dopo l’altra sparivanoaziende che in quegli anni ricoprivanoun ruolo seriamente antagonista a quel-lo che oggi viene definito il colosso diRedmond (chi si ricorda più di ATARI odi AMIGA, GEM della Digital Re-search, BeOS, Next?) Ma questo aspet-to ci interessa in modo molto relativo,anche perché la sua trattazione richiedeapprofondimenti e analisi che esulanodallo scopo di questo articolo. Il 1992vede il rilascio delle prime versioni sta-bili del kernel Linux, risultato, in primoluogo, dell’impegno dell’allora ventu-

nenne studente Linus Torvalds che ri-uscì a mobilitare intorno al suo proget-to un numero sempre crescente di svi-luppatori entusiasti: la licenza che ven-ne scelta per il rilascio fu la GPL (Ge-neral Public License). Una decisionequesta presa per seguire la linea propo-sta dalla FSF (Free Software Founda-tion) già dalla metà degli anni ‘80, cheaveva ed ha in Richard Stallman unodei pionieri del software libero, una fi-gura carismatica, seppur controversaper le sue posizioni radicali ed intransi-genti, del progetto GNU. Scopo ultimodi questo progetto è la creazione di unsistema operativo completamente liberocioè non restrittivo per l’utente che uti-lizza il kernel di Linux (il kernel HURDnon è ancora pronto per poter essere uti-lizzato), da qui il nome GNU/Linux. Iltempo ha trasformato in un prodottosoftware di punta quello che inizial-mente sembrava agli occhi dei più unesercizio stilistico di un gruppo di pro-

grammatori animati dall’entusiasmodella passione e dal connubio con leidee e le posizioni di una organizzazio-ne fondata da una specie di visionarioed anacronistico figlio-dei-fiori. Questoparadigma in realtà è utilizzato ancoraoggi come facile argomento denigrato-rio nei riguardi di GNU/Linux, tantoche viene da sorridere quando capita dileggere su testate anche autorevoli lebanalizzazioni a dir poco imbarazzantiche vengono tranciate identificando ilmondo del software libero con perso-naggi definiti stravaganti (nel miglioredei casi) se non anarchici e via via peg-giorando. Viene da sorridere se si pensaad aziende come IBM, Novell, Red Hat,SUN, solo per citarne alcune, che basa-no gran parte del loro business su Linuxe/o su software GPL. Ma cos’è che ca-ratterizza in modo peculiare il softwarelibero? Quali sono i principi della GPL(di cui, da qualche settimana, è stata ri-lasciata la terza versione) e del

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copyleft? Perché si può, a ragion vedu-ta, parlare di etica del software in riferi-mento al software libero? Proviamo adare una risposta, necessariamente sin-tetica, a ciascuna di queste domande. Inprimo luogo per poter essere definitosoftware libero un software deve essererilasciato congiuntamente al codice, inmodo che chiunque possa esaminarlo,studiarlo e, se ne ha le capacità, modifi-carlo secondo le proprie esigenze, cor-reggere le lacune e i difetti e migliorar-lo, rilasciando a sua volta il codice inmodo che, una volta innescato, non cisiano ostacoli che possano bloccarequesto ciclo “virtuoso”.Altro principio fondamentale della GPLè quello che prevede, anzi incoraggia,la possibilità di ridistribuire libera-mente il software libero, senza alcuntipo di restrizione. Infine, o per dirlacon la FSF “innanzitutto”, ognuno deveessere libero di poter usare il softwarelibero, indipendentemente dalla razza,religione, schieramento politico, final-ità. Del resto è proprio la stessa FSF cheribadisce con decisione che il concettoalla base dei principi che ispirano l’or-ganizzazione è quello della libertà (freeas in freedom; free software is a matterof liberty, not price). La contrappo-sizione della licenza GPL (e delle suederivate) alle licenze cosiddette “pro-prietarie “ è a dir poco stridente.Il bilancio di questi anni è enorme-mente positivo: citiamo per tutti Ubun-tu (la distribuzione linux, naturalmente,non la nostra bella rivista n.d.r) che inpoco più di tre anni è diventato il sis-tema operativo installato da circa 10milioni di utenti (fonte UbuntuLive!2007), anche se non si possono trascu-rare i molti aspetti conflittuali le cuicause si possono presumibilmente at-tribuire alla grande frammentazione checaratterizza il mondo del softwarelibero, che è al contempo la sua forza edil suo tallone d’achille e ne ha messo incrisi in varie occasioni lo stessoimpianto, esponendolo ai facili attacchiportati da chi , progressivamente, ha in-dividuato in questa realtà una seria mi-naccia, non solo dal punto di vista com-merciale. Gli aspetti etici che sono insi-ti nei principi fondanti la FSF trovano la

loro concretizzazione quasi ovvia prati-camente in tutti i progetti impegnati avario titolo sul fronte del cosiddetto“digital divide” (il divario che differen-zia in modo drammatico le possibilitàdi sviluppo legate all’utilizzo del soft-ware e dell’Information Technology trai paesi industrializzati e quelli in via disviluppo). L’idea che il software liberosia in qualche modo “scadente” o diqualità inferiore a quello proprietario èniente più che un luogo comune: lasuite per ufficio Openoffice.org hadavvero poco da invidiare alle alterna-tive “chiuse”, il browser Firefox è di-ventato in pochissimo tempo un temi-bile concorrente alla leadership di Inter-net Explorer, il software per la master-izzazione K3B ha davvero poco oniente di meno rispetto ai vari NERO eEasy Media Creator, Amarok è a dettadi molti uno dei migliori player multi-mediali, GIMP una valida alternativa(per un uso non professionale) a Photo-shop, solo per rimanere sul versantedesktop, ovvero quel che si dice un uso“casalingo” del computer, visto che sulversante server e professionale alcuniconfronti sono addirittura imbarazzantiper lo svantaggio dei software propri-etari rispetto alle soluzioni opensource(proxy server, firewall, server http, anti-spam, ambienti di sviluppo ecc.).L’aspetto collaborativo e di condivi-sione è ormai diventato un’onda inar-restabile, un modello di sviluppo presosempre più in seria considerazione daaziende dal fatturato stellare che deci-dono di scommettere in questa di-rezione; ha fatto davvero scalpore, perchi segue queste cose, la decisione diSUN, a Novembre scorso, di rilasciareJAVA, uno dei suoi “gioielli difamiglia”, con licenza GPL. Da partenostra non possiamo esimerci dall’e-sortare tutti ad un atteggiamento piùconsapevole e responsabile nell’uso delsoftware, soprattutto quando si trattadel nostro computer di casa. E’ davveroun peccato doversi piegare alle normeesplicitamente vessatorie delle licenzeproprietarie solo perché non si è aconoscenza delle pur validissime alter-native libere (e quindi anche gratuite);peggio ancora quando, più o meno con-

sapevolmente, ci si mette in condizionidi dubbia legalità installando program-mi non regolarmente acquistati. Quelloche si deve fare è vincere la pigrizia, so-prattutto, ed iniziare ad utilizzare qual-cuno dei programmi indicati preceden-temente (disponibili per i più diffusi sis-temi operativi); oppure iniziare a famil-iarizzare direttamente con GNU/Linuxscaricando da Internet una delle dis-tribuzioni definite “live”. In questo mo-do potremo sperimentare la validità e labontà del software libero facendoavviare il computer attraverso il CD-ROM sul quale avremo masterizzatoUBUNTU, OpenSUSE, Mandriva, FE-DORA 7, Sabayon, Knoppix, Elive, ouna qualsiasi delle numerose dis-tribuzioni disponibili (vi consigliamo didare un’occhiata al sito www.dis-trowatch.com). In questo modo nonrischieremo di danneggiare i nostripreziosissimi dati, rimandandoun’eventuale installazione al momentoin cui ci sentiremo in grado di domare il“pinguino”!

Luigi Colaccicco

La “c rovesciata” è il sim-bolo del copyleft. L’espressione inglesecopyleft, gioco di parolesu copyright, individua unmodello alternativo di ge-

stione dei diritti d’autore basato su unsistema di licenze attraverso le qualil’autore (in quanto detentore originariodei diritti sull’opera) indica ai fruitoridell’opera che essa può essere utilizza-ta, diffusa e spesso anche modificata li-beramente, pur nel rispetto di alcunecondizioni essenziali. Nella versionepura e originaria del copyleft (cioèquella riferita all’ambito informatico) lacondizione principale obbliga i fruitoridell’opera a rilasciare eventuali modifi-che apportate all’opera a loro volta sot-to lo stesso regime giuridico (e general-mente sotto la stessa licenza).

Bibliografiawww.gnu.orgwww.fsf.org

www.wikipedia.org

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L’emergenza del conflitto armato neiBalcani ci ha visti impegnati, dal 1991 al1998, in un lunga serie di attività in sedeper non far cadere nell’oblio quanto ac-cadeva sull’altra sponda dell’Adriatico enella promozione di micro-progetti auto-finanziati di supporto logistico e aiutosanitario, in favore dapprima degli ospe-dali di Spalato e Mostar nella ex - Jugos-lavia e poi di Scutari in Albania. Intantonella nostra Università stava diffonden-dosi, sui problemi e sulle carenze medi-co-assistenziali, “un vento nuovo” e disostegno umano e sociale ai Paesi in Viadi Sviluppo. Il fervore di molti Istitutidella nostra Facoltà fece da apripista,sotto la spinta dell’AUCI, alla costitu-zione del Centro per la Cooperazione In-ternazionale (C.C.I), contemplato nel

nuovo Statuto dell’Università Cattolica eapprovato dagli Organi Universitari il20.10.1997. Il C.C.I., di cui la nostra As-sociazione è membro di diritto, iniziò ilsuo operato in stretto rapporto con l’AU-CI, portando ad una nuova missioneumanitaria in Albania e allo studio di fat-tibilità di interventi in Kosovo e in Pale-stina. Il primo, ben presto, venne presoin carico dal Governo Italiano e gestitodalla Forza Multinazionale, il secondo,invece, si orientò verso un Programmanel campo dell’Oncologia Pediatrica infavore del centro Oncoematologico del-l’ospedale governativo di Berit-Jala, con

l’invio di diversi medici e docenti dellanostra Facoltà ed il “tirocinio” di alcunimedici locali presso il nostro Policlinico.La crescita parallela del C.C.I. e del-l’AUCI nella stessa Facoltà e con glistessi intenti, fece scaturire una profondariflessione, sull’opportunità o meno dicontinuare la vita dell’Associazione o“passare la mano” al Centro! Infatti uncentro universitario di Cooperazionesembrava rendere inutile l’esistenza del-l’AUCI. Furono gli anni dello studio difattibilità di diversi Progetti per incre-mentare la crescita del CCI : Angola,Zimbabwe, RD Congo … Contempora-neamente l’Auci , dopo il cambio allaPresidenza tra il prof. Orazio Ranno e ilprof. Pasquale De Sole, delineò il Pro-gramma medico-universitario per l’Uni-

versità di Bagdad in Iraq in collaborazio-ne con “Un ponte per..”, ma la risoluzio-ne ONU e l’invio della Forza Multina-zionale in Iraq (2000) congelò l’appro-vazione del Progetto da parte del Mini-stero degli Esteri. Nel 2002 poi si coor-dinò lo studio di fattibilità di un Pro-gramma universitario medico-sanitarioper il Centro Studi e Ricerca di Alessan-dria (Egitto) che intendeva essere unpunto di riferimento per la formazionemedico-sanitaria dell’Area del Mediter-raneo. Negli stessi anni si è dato vita al-la Missione Pakistan (cfr. Ubuntu 02/07)con l’invio di 3 medici e 2 infermieri

della nostra Facoltà, che hanno formatopersonale locale a alla Missione Came-run con un gruppo di 20 giovani laureatie studenti della Facoltà di Medicina del-la Cattolica in favore di tre ambulatorirurali ed in sostegno dei detenuti dellelocali prigioni e degli abitanti di un vil-laggio di lebbrosi. Nonostante questeiniziative, l’orientamento delle forzeverso la crescita del C.C.I. e la mancan-za di Progetti ministeriali in essere, feceperdere all’AUCI, nel 2005, l’idoneità diONG e quella “riflessione” di cui abbia-mo parlato sopra, fece di nuovo brecciatra i Soci. Tuttavia, dopo una attenta ana-lisi e dopo aver raccolto l’interesse dapiù parti, Soci, simpatizzanti, vertici del-la Cattolica, si è deciso di riprendere connuovo slancio, forti delle vecchie masempre attuali motivazioni, il camminointerrotto. Nel 2005 si è rivisto lo Statu-to per renderlo idoneo alle mutate neces-sità giuridico-economiche permettendo-ci di ottenere l’iscrizione al Registro del-le Onlus. Contemporaneamente a questisviluppi, insieme ad altri partners, veni-va portato avanti il progetto formativo-sanitario (n. 1357/03) con la Diocesi diKenge, per il quale è stato ricevuto uncospicuo finanziamento dalla Conferen-za Episcopale Italiana. Infine, e siamoarrivati all’ultimo anno, abbiamo datovita, insieme a numerose iniziative al-l’interno della Facoltà di Medicina del-l’UCSC, ad attività di microcredito nellaRD Congo ed alla progettazione di pro-grammi per interventi sanitari in campooncologico pediatrico in Kosovo ed incampo riabilitativo, con fornitura di pro-tesi di arti superiori ed inferiori, in Ro-mania. Per terminare, e siamo alla crona-ca, ci siamo adoperati per la nascita diUbuntu, la nostra voce!A conclusione di questo cammino, sia-mo rientrati nella FOCSIV e poche setti-mane fa abbiamo inoltrato al MAE (Mi-nistero Affari Esteri) la richiesta di ido-neità di ONG (Organizzazione non Go-vernativa). Abbiamo ripreso il camminoper un altro “tratto di strada”, con nuoviprogetti in cantiere perché, come sonosolito dire, se tutto questo servirà a sal-vare solo una vita, varrà la pena di aver-lo fatto … perché quello da “salvare” po-tresti essere tu!

Giovanni Manganiello

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UN TRATTO DI STRADA … Breve storia dell’AUCI a puntate (3)

Agosto 2002. Guider (Camerun).Studenti e giovani laureati della facoltà di medicina durante la missione in Camerun.

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QUALE FUTURO?L’economista Nicholas Stern, in uno studio effettuato per con-to del governo britannico, ha evidenziato come nei prossimi de-cenni il 20% del PIL prodotto da tutte le nazioni, dovrà esseredestinato per risanare gli effetti dovuti ai cambiamenti climati-ci: la siccità, l’aumento della desertificazione, l’urbanizzazionesempre più massiccia, l’innalzamento dei mari, le inondazioni,gli uragani. Secondo alcuni studi i cambiamenti climatici cheavverranno in Europa entro il 2070 saranno responsabili di unsempre più crescente numero di morti, ed interi settori agricoliandranno distrutti, con esodi che coinvolgeranno circa 200 mi-lioni di persone. Viene spontaneo porsi alcune domande:• quale lavoro, quale sviluppo sarà possibile nel 2070 nel ba-

cino del mediterraneo, quando avremmo temperature saha-riane e una forte mancanza d’acqua potabile?

• quali saranno le politiche dei flussi migratori quando sare-mo costretti ad emigrare verso il nord?

• che tipo di vita e quale urbanistica si dovranno affrontarenelle future città dove vivrà il 75% della popolazione mon-diale?

Forse oggi quando parliamo di sviluppo dovremmo mettere la“centralità ambientale” al primo posto delle nostre riflessioni.L’ambiente è un bene comune non negoziabile, è il luogo del-l’umano vivere e contemporaneamente una risorsa importante

ma limitata. Limi-te che, se supera-to, si manifestacon distruzioniimprovvise allequali assistiamoimpotenti. Sappia-mo anche che ol-tre il limite supe-rato non c’è luogoal mondo al riparodalle conseguenzeprodotte dalla ri-bellione della na-tura: se la siccitàuccide milioni di bimbi africani, l’uragano Katrina colpisce ilcentro dell’impero americano. Purtroppo nelle agende delleistituzioni preposte alle decisioni e dei mezzi di informazionequesti problemi sono sempre più marginali. Ancora peggiori so-no le risposte ai quesiti sull’ambiente da parte di chi governanel mondo: si spende più per una guerra per il petrolio che perridurre l’emissione in atmosfera della CO2, è più urgente com-prare aerei militari super sofisticati che investire in una sana po-litica per il recupero ed il riciclo dei rifiuti.

Domenico Porcelli

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UBUNTUQuadrimestrale dell’Auci

Associazione Universitaria per laCooperazione Internazionale-Onlus

Anno I – Numero 3Settembre/Dicembre 2007

DIREZIONE E REDAZIONELargo A. Gemelli, 8

00168 RomaTel/Fax. 06/30154538

E-mail: [email protected] internet www.auci.org

DIRETTORE RESPONSABILEPasquale De Sole

REDAZIONEMaria Cristina Buschi, Cinzia Callà,Luigi Colacicco, Angelo De Lauretis,Amedeo Pistolese, Domenico Porcelli

SEGRETERIA DI REDAZIONEAntonella Mirabelli

CORRETTORE DI BOZZEPasquale Sbardella

CHIUSO IN REDAZIONE IL26 NOVEMBRE 2007

Autorizz. del Trib. di Roma n. 157/2007del 17 Aprile 2007

DISTRIBUZIONE GRATUITA

VIDEO COMPOSIZIONE, INCISIONE,STAMPA E ALLESTIMENTO:Centro di formazione per

le attività grafiche “Giancarlo Brasca”con annesso stabilimento tipografico

denominato COOPERATE Tel. 0766.571392 - Fax 0766.571700

Testi ed immagini possono essereutilizzati liberamente citando la fonte

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L’AUCI ha organizzato per il Natale 2007 la seconda edizione della lotteria:

“LA SOLIDARIETÀ VINCE!”I fondi raccolti andranno a favore:

• del Progetto Formativo (n. 1357/03) ed attività di microcredito nella RD Congo • del progetto oncologico pediatrico in Kosovo

Dai anche TU il tuo contributo, Acquista un biglietto!I biglietti sono disponibili presso la sede AUCI e presso il bar del Policlinico

Premi in palio:

AUCI Associazione Universitaria per la Cooperazione InternazionaleLargo A. Gemelli, 8 – 00168 Roma - tel. 06 3015.4538 - mail: [email protected]

1. Skin swatch

2. Buono abbigliamento di 50 €

3. Portamonete a casetta in cuoio

4. Portamonete a farfalla in cuoio

5. Trionfo di dolcezze “equosolidali”

6. 6 bottiglie di vino di terra campana

7. Magnum Prosecco DOC – Valdobbiadene

8. N. 2 abbonamenti 2008 ad “Ubuntu” (Auci)

9. Coppia di ciotole in legno Dariaesse con fregi

10. Portapipe in legno intarsiato con fregi d’argento

11. Cena Ristorante L’Antica Torre per una persona

12. Disegno a china e colore (G. De Francisci, marzo ’06)

13. Litografia AUCI stampata con torchio a legno (tiratura limitata)

14. Cornice Dalù Decò, cartone artistico motivo edera (D. Chizzoli)

15. Cornice Dalù Decò, cartone artistico motivo puttini (D. Chizzoli)

16. Babbo Natale in ceramica

Prezzo del biglietto: euro 2,50 Estrazione lunedì 14 Gennaio 2008, ore 16:00 presso la Sala del Centro pastorale – UCSC

Si ringrazia per la gentile e generosa collaborazione:Società Cooperativa sociale “No reclusion”, Via Antonio Pane, 116 Roma (per il premio n. 6)

Daniela Ghizzoli – www.daludeco.com Decorazioni e Restauri (per i premi n. 9, 14, 15)Enoteca Il Tempio del vino – Via G.D. Rapacciani, 26 Roma (per il premio n. 7)

Negozio di abbigliamento MIA – Via Norcia, 18 Roma (peri premio n. 2)Gioielleria Montagnani - Via Boccea, 201A Roma (per i premi n. 1 e 10)

l’Artigianino & co – Via Appia Nuova, 187 Roma (per i premi n. 3 e 4)Ristorante L’Antica Torre – Via Pio IX, 15 Roma (per il premio n. 11)

Dono dell’autore Giovanni De Francisci (per il premio n. 12)

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