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UALE psicologia 7 Nuova Serie Istituto per lo Studio delle Psicoterapie Società Italiana di Psicoterapia Strategica Società Italiana di Psicoterapia Settembre 2016

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UALE psicologia

7 Nuova Serie

Istituto per lo Studio delle Psicoterapie Società Italiana di Psicoterapia Strategica

Società Italiana di Psicoterapia

Settembre 2016

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QUALE psicologia, 2016, Numero 7

QUALE psicologia Semestrale dell’Istituto per lo Studio delle Psicoterapie fondato nel 1992

Organo della Società Italiana di Psicoterapia e della Società Italiana di Psicoterapia Strategica Anno 3 – Numero 7 - Settembre 2016

Direttore scientifico Filippo Petruccelli

Comitato scientifico Barbara D’Amario, Pierluigi Diotaiuti, Guglielmo Gulotta, Fausto Massimini, Lucia-no Mecacci, Patrizia Patrizi, Irene Petruccelli, Valeria Schimmenti, Chiara Simonelli,

Rosella Tomassoni, Giulia Villone Betocchi, Valeria Verrastro

Direttore responsabile Valeria Verrastro

Redazione Elena Cabras, Rocco Chizzoniti, Cristina Colantuono, Clarissa Albanese, Anna Rizzuti, Valeria Saladino, Maria Teresa Serranò, Marzia Proietto, Anna Maria Sansoni, Patri-

zia Ottocento

Grafico Renato De Marco

Direzione, Redazione e Amministrazione 00185 Roma – Via San Martino della Battaglia 31

Telefoni 06 44340019, 328 6068080 – Fax 06 44340017 www.qualepsicologia.it

Autorizzazione del Tribunale di Roma n. 86 del 17 Aprile 2013 ISSN 1972-2338

È consentita la riproduzione dei testi citando la fonte Finito di stampare in proprio a Settembre 2016

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QUALEpsicologia, 2016, 7

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QUALE psicologia Numero 7 – Settembre 2016 – Nuova Serie

SOMMARIO

5 Aggiungere vita agli anni…attiva-mente: un progetto di potenziamento cognitivo nella Terza Età Adding life to years…mind-actively: a project of cognitive empowerment for seniors Vincenza Pecora, Annunziata Rizzi

14 Lo stalking da un punto di vista psico-giuridico Stalking by a psycho-legal point of view Alessandra Grieco

21 Disfagia psicogena: un caso clinico trattato con psicoterapia strategica Psychogenic dysphagia: a clinical case with strategic phsychotherapy Lorena Calandi

37 La psicoterapia strategica applicata a livello familiare integrata ad un percorso di rie-ducazione neuropsicologica individuale Psychotherapy strategically applied at the household level integrated to a path of individual neuropsychological rehabilitation Lorena Calandi

51 Quando il sesso diventa un problema When sex becomes a problem Simona Nigro

57 Recensione, Petruccelli F., Verrastro V. (2012). La relazione d’aiuto nella psicoterapia strate-gica. Milano: Franco Angeli Valentina De Franco

59 Norme Redazionali

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Aggiungere vita agli anni…attiva-mente: un progetto di potenziamento cognitivo nella Terza Età Adding life to years…mind-actively: a project of cognitive empowerment for seniors Vincenza Pecora, Annunziata Rizzi1 Riassunto L’articolo racchiude in sé l’intento di descrivere l’immagine dell’anziano attraverso uno sguardo volto a esaltare la dimensione della persona-soggetto a fronte dei cambiamenti che l’invecchiamento impone. La riflessione prende avvio dall’analisi della realtà dell’invecchiamento a livello nazionale per poi descrivere un progetto che ha interessato un gruppo di 20 anziani, coinvolti in un ciclo di incontri di “Ginnastica della mente”. Il presupposto generale di questi incontri è quello per cui ognuno di noi possiede delle capacità che, per svilupparsi o mantenersi, devono essere stimolate e incoraggiate a qualsiasi età. Parole chiave Persona, cambiamenti, invecchiamento, ginnastica della mente Abstract This study has the purpose to describe elderly conditions focusing on the people-subject dimension across aging changes. Discussion starts analyzing the national aging reality to introduce later a project that involved a group of 20 senior citizens who attended a cycle of meeting about “Mental Gymnastics”. The general assumpition of these meetings supports that everyone hold skills that need to be stimulated and encouraged at any age to get developed or maintained. Keywords Person, changes, aging, mental gymnastic La situazione della Terza Età L’Italia è uno dei paesi in cui è stato possibile osservare un alto tasso di invecchiamento della popolazione. Fra le varie fotografie demografiche sviluppate dagli istituti di ricerca emerge un’immagine prospettica che vede rispetto al 2000 un incremento del 48% nel 2026 e del 77% nel 2051. Questo significa che le persone con più di 65 anni di età, attualmente circa 11 milioni e mezzo, saranno quasi 15 milioni nel 2026 e poco meno di 18 milioni nel 2051 (www.eurispes.it). Un ritratto che vede nel continuo

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aumento dell’invecchiamento il riflettersi di una forte affermazione che descrive “l’Italia come il paese più vecchio al mondo” secondo l’analisi dell’Onu risalenti al 2002. Le dinamiche demografiche del processo d’invecchiamento sono dovute a due componenti:

x la dinamica naturale ricavata dal saldo fra i nati e i morti che in Italia è negativa, in quanto il numero dei morti è superiore al numero dei nati in uno stesso anno a causa di un basso tasso di natalità persistente e una costante crescita delle aspettative di vita;

x la dinamica migratoria ricavata dal saldo fra i nuovi ingressi e le uscite dall’Italia è positiva e nelle proiezioni rimane costante nel tempo con un tasso positivo dell’1,9 per mille fra il 2000 al 2010.

Grazie a questi fattori la struttura demografica subisce continui cambiamenti che contribuiscono alla crescita dell’indice di vecchiaia. L’indice passa in dieci anni da 125 a 146: ciò significa che si passa dalla presenza di 125 anziani su 100 giovani a 146 anziani su 100 giovani con un aumento della popolazione anziana al di sopra dei 75 anni cospicuo dovuto alle maggiori aspettative di vita (www.istat.it). Anche in Italia come in Europa il livello di invecchiamento si differenzia a livello regionale. La prospettiva al 2010 del tasso di incremento medio annuo a livello nazionale è di 1,4 per mille, valore positivo che racchiude però valori contrastanti che oscillano dai più alti tassi positivi nel Trentino Alto Adige, della Valle d’Aosta, del Veneto, delle Marche e della Lombardia, ai tassi negativi di una certa rilevanza quali quelli della Liguria, del Molise, della Basilicata e della Calabria (www.istat.it). L’invecchiamento è un processo che si sviluppa lungo l’intero arco di vita dell’individuo, ma che inizia a manifestarsi dopo il raggiungimento della maturità. Nell’uomo le modalità con cui esso si realizza sono il risultato dell’interazione di diversi fattori: biologici, psicologici, ambientali, sociali ed economici. Da un punto di vista biomedico, l’invecchiamento è un processo che induce molteplici modificazioni a carico dei diversi organi, sistemi e apparati, in conseguenza delle quali l’individuo perde sempre di più la capacità di adattarsi all’ambiente (omeostenosi) e, conseguentemente, acquisisce una crescente probabilità di morire; esso causa, quindi, una progressiva perdita dell’efficienza delle riserve funzionali e dei meccanismi che l’organismo utilizza per mantenere il proprio equilibrio interno (omeostasi). L’invecchiamento è un processo continuo e progressivo che si caratterizza per un’estrema eterogeneità, sia interindividuale, nel senso che si sviluppa con velocità diversa da soggetto a soggetto, che intraindividuale, non interessando in maniera omogenea nello stesso soggetto i diversi organi e apparati e, all’interno di essi, le diverse componenti (Franceschi C., 1993). È possibile distinguere tre tipi di invecchiamento (Franceschi C., ibidem):

x invecchiamento di tipo 1: è quello che attualmente riguarda la maggior parte delle persone anziane; si caratterizza per una progressiva riduzione dell’età-dipendente delle capacità psico-fisiche del soggetto in presenza di malattie;

x invecchiamento di tipo 2: riguarda la quasi totalità degli anziani sani; si realizza con i segni classici della progressiva riduzione delle loro capacità psicofisiche, in assenza di importanti malattie età correlate;

x invecchiamento di tipo 3: identifica anziani sani con prestazioni eccezionali per la loro età; rappresenta il cosiddetto invecchiamento di successo.

Molti degli elementi che differenziano l’anziano dall’adulto sono espressione dei cambiamenti subiti dal cervello nel corso della vita, al cui determinismo contribuiscono non solo il processo della senescenza di per sé e numerosi fattori ambientali (dallo stile di vita al ruolo familiare e sociale) ma, anche, malattie pregresse o persistenti che,

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direttamente od indirettamente, compromettono la funzionalità dell’organismo. In senso stretto si definisce invecchiamento il cambiamento, nel tempo, delle caratteristiche funzionali di un organismo; con il termine senescenza s’intende quel sottoinsieme di cambiamenti che hanno un effetto negativo. Anche se in misura diversa da soggetto a soggetto, tutte le funzioni cerebrali risultano modificate in tarda età, da quelle cognitive, all’affettività, alla motricità, all’equilibrio, al ritmo sogno-veglia, realizzando il peculiare modo di essere di ciascun anziano. Le manifestazioni dell’invecchiamento dell’individuo si hanno quando la ridondanza e la plasticità dei vari sistemi non sono in grado di compensare efficacemente la perdita di struttura alla quale si va incontro con l’età. L’esatto momento in cui ciò si realizza dipende dalla relazione fra fattori genetici e ambientali. I fattori genetici sono responsabili di caratteristiche quali, ad esempio, la ricchezza nel patrimonio neuronale, la diversa resistenza a diverse noxae patogene e l’efficienza dei meccanismi di compenso. I fattori ambientali sono invece rappresentati da tutta quella serie di condizioni, estremamente eterogenee, in grado di accelerare o contrastare l’invecchiamento, come per esempio lo stile di vita, il tipo di attività lavorativa e l’esposizione a sostanze tossiche. Definire quale sia il peso relativo dei fattori genetici e di quelli ambientali sull’invecchiamento non è aspetto di poco conto. Che l’ambiente svolga un ruolo primario nelle modalità d’invecchiamento del cervello è stato costatato dall’esperienza clinica. Numerosi sono i casi descritti di grave compromissione dello stato mentale in prigionieri costretti a vivere in ambienti angusti, al buio, senza alcuna possibilità di interazione umana. Nei confronti di questi quadri da “deprivazione neuro-sensoriale”, l’anziano è soggetto particolarmente a rischio in rapporto alla maggiore precarietà omeostatica del suo cervello (Mecocci P., Cherubini A., Senin U., 2002). Garantire pertanto all’individuo una condizione di vita attiva, ricca sul piano psico-affettivo e delle relazioni sociali, gratificante su quello professionale, stimolante da un punto di vista culturale, significa metterlo nelle migliori condizioni per un invecchiamento di successo (invecchiamento di tipo 3), quello cioè che lo vedrà, anche in età molto avanzata, in condizioni psico-fisiche ottimali in piena autonomia di vita. Questi principi mantengono la loro validità anche in chi è già anziano, come dimostrato, fra l’altro, dalla possibilità di migliorare le sue capacità cognitive mediante opportuni esercizi di stimolazione mentale. Il Brain Training L'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) definisce l’Invecchiamento attivo come “il processo di ottimizzazione delle opportunità di salute, partecipazione e sicurezza per migliorare la qualità della vita della popolazione durante l’invecchiamento. L’invecchiamento attivo consente alle persone di mettere a frutto il proprio potenziale per il benessere fisico, sociale e mentale lungo l’intero arco dell’esistenza e partecipare alla vita sociale offrendo loro al contempo un’adeguata protezione, sicurezza e assistenza in caso di necessità”. Le abilità cognitive di base, come la memoria, l'attenzione e la velocità di elaborazione possono essere migliorate con un allenamento adeguato. Uno studio sulle abilità cognitive degli anziani, chiamato ACTIVE (Advanced Cognitive Training for Independent and Vital Elderly) e finanziato dal National Institute of Health, ha dimostrato che gli adulti più anziani sono migliorati nelle loro capacità cognitive con un allenamento appropriato mantenendo alcuni di questi benefici molti anni dopo. In questo trial randomizzato (ACTIVE, 1999-2001), condotto da ricercatori di diverse università statunitensi (University of Alabama, Hebrew Rehabilitation Center

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for the Aged in Boston, Indiana University, Johns Hopkins University, Pennsylvania State University, University of Florida/Wayne State University di Detroit), oltre 2800 adulti di età compresa tra 65 e 94 anni hanno ricevuto un allenamento nel campo della memoria, del ragionamento o della velocità di elaborazione. Dopo circa 10 ore di allenamento, ogni gruppo è nettamente migliorato nel settore in cui è stato preparato e cinque anni dopo, i soggetti hanno mantenuto molti dei loro progressi (Journal of the American Geriatrics Society Volume 62, Issue 1, pages 16–24, January 2014). Sono molti i fattori che influenzano la capacità cognitiva in età avanzata. Si ritiene che grazie a uno stile di vita sano e ad un esercizio psicofisico costante, le persone anziane possano rallentare il processo di deterioramento mentale. In generale, è possibile asserire che l’attività costituisce il fattore di fondamentale importanza per il mantenimento di una buona qualità della vita in età avanzata. Il Progetto Gli esercizi del programma di Ginnastica della Mente sono progettati per stimolare la neuroplasticità e portare ad un miglioramento delle capacità cognitive. Gli incontri di “Ginnastica della mente” svolti nel Progetto sono stati programmati con l’obiettivo della stimolazione mentale delle capacità cognitive, quali memoria, attenzione, linguaggio, ragionamento logico, orientamento, e di quelle affettive riconducibili all’intelligenza emotiva. Il presupposto generale è quello per cui ognuno di noi possiede delle capacità che, per svilupparsi o mantenersi, devono essere stimolate e incoraggiate a qualsiasi età. Gli incontri sono stati progettati da un’équipe costituita da una psicoterapeuta, una psicologa e un’assistente sociale e, poi, condotti dalle ultime due figure professionali, con la co-conduzione di una tirocinante in psicologia; sono stati svolti in un salone della Parrocchia dei Santi Filippo e Giacomo in Sant’Agostino di Reggio Calabria. Il corso si è svolto in un arco temporale di tre mesi ed è stato articolato in incontri settimanali della durata di un’ora ciascuno, per un totale di 10 ore. Il gruppo era costituito da 20 anziani, di età media di 73 anni, autosufficienti e senza patologie cognitivo-relazionali. Le attività sono state realizzate tramite l’utilizzo del gioco finalizzato. Attraverso il gioco si possono fare nuove esperienze. Si è prevista, quindi, una metodologia di lavoro attiva ed equilibrata per questa fascia d’età, nella quale l’anziano potesse lavorare con tranquillità, distensione e rispetto dei propri tempi evitando qualsiasi atteggiamento non supportivo per l’autostima e l’autoefficacia. Il lavoro dell’anziano è stato motivato attraverso l’agevolazione della partecipazione e l’offerta di tutte le informazioni necessarie per il corretto svolgimento degli esercizi proposti. Le finalità proposte attivando il corso di Ginnastica della Mentale sono state le seguenti: 1. Potenziamento delle risorse cognitive, emozionali e comportamentali dell’anziano; 2. Prevenzione delle patologie degenerative cerebrali; 3. Attivazione di un clima di sostegno empatico all’interno del gruppo per sviluppare

al meglio le proprie capacità. Gli obiettivi sono stati i seguenti: 1. Potenziamento dei canali dell’attenzione: attenzione selettiva, uditiva, ascolto,

attenzione selettiva visiva, attenzione divisa; 2. Potenziamento fase ingresso delle informazioni; 3. Potenziamento fase di elaborazione dell’informazione: attivazione pensiero laterale,

pensiero creativo, pensiero logico, pensiero critico, memoria;

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4. Potenziamento della fase di uscita delle informazioni: assertività, dare feedback positivi, gestione dei conflitti, gestualità e tono di voce, gestione della tensione e dello stress.

L'allenamento mentale è stato basato sia sull'esercizio individuale sia sulla socializzazione e la condivisione tra i membri del gruppo. Si è scelto di usare anche il metodo del lavoro di gruppo come proposta di cambiamento e arricchimento dal punto di vista cognitivo, affettivo e relazionale nella prospettiva di raggiungere obiettivi comuni. Lavorare in gruppo comporta molti benefici: x lo scambio di esperienze, vissuti, idee e sentimenti; x l'ascolto reciproco e il confronto costruttivo; x la condivisione di scopi collettivi; x l'appoggio emotivo e sociale; x la crescita nella fiducia personale; x il sentirsi valorizzati e affermati. Ogni incontro è stato aperto con frasi di presentazione del tema centrale e di spiegazione delle finalità dei singoli esercizi da svolgere. Si ritiene questo un buon avvio dell’incontro stesso poiché, in tal modo, viene diminuita l’apprensione iniziale che tormenta verosimilmente la maggior parte dei partecipanti. Codesta apertura contribuisce a motivare la loro adesione attraverso la comprensione degli obiettivi che si possono realizzare. La breve introduzione, inoltre, rafforza l’importanza di una partecipazione attenta e consapevole agli esercizi. Il modo in cui le esercitazioni sono presentate può e deve essere funzionale agli obiettivi dell’esercizio stesso e alle esigenze dei partecipanti al gruppo. Le prove sono state spiegate in maniera chiara e comprensibile. Prima di iniziare l’esercizio vero e proprio, è stato verificato che tutti avessero capito correttamente le istruzioni; se ciò non avvenisse, il conduttore è tenuto a ripetere, con parole diverse, i concetti e i punti non chiari. Durante gli esercizi è stato chiesto ai partecipanti di lavorare da soli, in coppia o di dividersi in squadre. Le squadre sviluppano competitività e possono dare risposte costruttive in termini di: x aumento della motivazione alla partecipazione; x aumento del coinvolgimento; x cooperazione tra i membri; x senso di unità all’interno della squadra; x entusiasmo ed energia diretti al conseguimento di un obiettivo; x senso di appartenenza a un gruppo definito. Per quanto concerne la coppia, la stretta collaborazione tra due partecipanti durante un esercizio consente di sperimentare i seguenti atteggiamenti e mettere in atto i seguenti comportamenti: x decisionalità congiunta; x sostegno e solidarietà reciproche; x comunanza di opinioni; x cooperazione; x comunicazione vicendevole di informazioni, esperienze, sensazioni. L’individuo da solo, invece, può essere molto forte o molto vulnerabile. In un esercizio in cui al partecipante è stato chiesto di impegnarsi individualmente, ciò è stato finalizzato ad aiutarlo a scoprire le proprie potenzialità di soggetto posto in relazione con gli altri. Il lavoro individuale in generale è finalizzato alla messa in atto dei seguenti comportamenti: x prendere decisioni;

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x assumersi responsabilità; x osservare e valutare obiettivamente le proprie debolezze e i propri punti di forza; x migliorare le capacità già acquisite; x sperimentare la riuscita e il successo; x accrescere la fiducia in se stessi. Alla fine di ogni esercizio c’è stato un confronto. Quest’ultimo momento è stato molto importante, poiché, ha costituito l’occasione per parlare di ciò che ha avuto luogo, per tradurre in parole le difficoltà affrontate e iniziare ad individuare e consolidare strategie funzionali di osservazione, memorizzazione e problem-solving. In chiusura si è chiesto al gruppo di riassumere il tema del giorno e indicare i punti chiave emersi nel corso dell’esercizio, invitando i partecipanti ad esprimere i propri vissuti. Ciascun incontro è stato chiuso con una nota positiva e, infine, con la descrizione breve del tema dell’incontro successivo, ricordando a tutti i membri il giorno, l’ora e il luogo. È stato utilizzato un questionario all'inizio e alla fine del percorso al fine di verificare i miglioramenti conseguiti, sia nell'area specifica delle capacità cognitive sia nell'area più generale dello stato di benessere soggettivamente percepito. Di seguito sono riportati alcuni esempi di esercitazioni. Il gioco dell’intruso In questo gioco le abilità stimolate sono state: l’attenzione sostenuta e attenzione selettiva, controllo e inibizione della risposta impulsiva e la memoria. È stato indicato ai partecipanti un preciso luogo della casa (per esempio la cucina). Successivamente sono stati elencati una serie di oggetti e i membri del gruppo hanno alzato la mano ogni volta che hanno sentito il nome di un oggetto che non appartiene alla categoria semantica scelta. Occhio alla parola In questo esercizio le abilità stimolate sono state: l’attenzione sostenuta e attenzione selettiva, attenzione divisa, memoria di lavoro, linguaggio (comprensione). Il riabilitatore ha letto una breve storia e i soggetti hanno dovuto contare mentalmente quante volte è stata proposta una singola parola precedentemente stabilita. Tutti i partecipanti hanno riferito il numero e infine è stata data loro la soluzione corretta. I cambiamenti Questo esercizio è servito a migliorare la capacità di una persona di percepire correttamente gli altri e di essere inventiva. Si tratta di un gioco in cui sono state formate due squadre che si sono disposte in modo tale che ogni giocatore si trovasse di fronte a un giocatore dell’altra squadra. Una delle squadre si è girata verso il muro, contemporaneamente ogni membro dell’altra ha cambiato tre elementi del proprio aspetto. Ritornata alla posizione iniziale, la prima squadra ha cercato di individuare i cambiamenti. In seguito si è proseguito il gioco aumentando il numero delle modifiche effettuate.

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Quante più cose vengono in mente In questo esercizio le abilità stimolate sono state: linguaggio, memoria semantica, accesso al lessico, uso di strategie cognitive. Sono state mostrate ai partecipanti delle tessere in cui è stata specificata una determinata categoria semantica. Per ciascuna di quest’ultima ogni partecipante ha riferito tutte le parole che gli sono venute in mente cercando di stare attento alla non ripetizione dei termini già espressi dai precedenti partecipanti. Indovinelli In questo esercizio le abilità stimolate sono state: linguaggio, memoria, ragionamento logico, comprensione. Sono stati letti degli indovinelli con risposta a scelta multipla e i partecipanti agli incontri, divisi in due squadre, hanno provato, dopo essersi consultati, a dare la risposta corretta. A ogni risposta corretta è stato assegnato un punto alla squadra. Inoltre è stato richiesto alle squadre di ricordare più indovinelli possibili tra quelli precedentemente letti. Che strada devo fare? In questo esercizio le abilità stimolate sono state: orientamento spaziale, memoria autobiografica, memoria di lavoro, ragionamento logico. In questo esercizio è stato chiesto a ogni membro del gruppo che strada possono compiere per arrivare dalla parrocchia a casa loro. I partecipanti hanno dovuto descrivere le direzioni da prendere per esempio: “uscito di casa giro a destra, proseguo dritto e arrivo in una piazza ecc.”. La medesima cosa è stata fatta in riferimento ad altri luoghi. Tutti gli individui sono stati coinvolti nell’esercitazione. Conclusioni Quello che è emerso in maniera univoca è che l’entità delle modificazioni delle funzioni cognitive è fortemente influenzata, oltre che dall’invecchiamento, da una molteplicità di fattori ambientali. Le difficoltà nella memorizzazione sono state le più osservate negli anziani e sono state anche quelle di cui essi si sono maggiormente lamentati. A differenza della memoria a lungo termine, quella a breve termine è risultata particolarmente labile. Alcuni anziani hanno presentato una ridotta capacità di codificazione, cioè di implementare strategie finalizzate al mantenimento dell’informazione. Grazie agli esercizi effettuati, con il suggerimento di tecniche di codifica, le performance dei soggetti sono migliorate. Per quanto concerne, invece, la memoria storica, sia quella che fa riferimento a fatti relativi alla vita del soggetto (memoria episodica), che quella relativa a conoscenze comuni (memoria semantica), non sono state osservate compromissioni rilevanti. È, probabilmente, il loro richiamo frequente e la loro valenza affettiva a rendere la loro traccia così forte nella memoria da essere difficilmente persa anche in età avanzata. Le abilità visuo-spaziali e visuo-prassiche, quelle cioè relative alla capacità di percepire e manipolare informazioni visive di tipo non verbale (ad esempio la disposizione di figure geometriche nello spazio) sono apparse leggermente compromesse per la minore

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efficienza delle funzioni sensoriali. A quest’ultima è attribuito il rallentamento dei tempi di reazione di alcuni soggetti negli esercizi proposti. Per quanto riguarda il ragionamento logico, la maggior parte dei soggetti ha presentato capacità inalterate anche in età avanzata; tuttavia nelle attività che necessitavano una rapida elaborazione d’informazione, vi era un rallentamento nell’emissione della risposta. Quello che è stato riportato in maniera euforica e che ha gratificato moltissimo i conduttori è il benessere generale dei partecipanti che hanno ringraziato per gli incontri effettuati, chiedendo una riproposizione dell’esperienza. I partecipanti si sono messi in gioco e sono stati protagonisti di un’avventura innovativa grazie alla quale hanno costruito una diversa immagine della propria vecchiaia accrescendo e rivalutando il bagaglio esperienziale. Il corpo che decade allontana dagli anni trascorsi e dalle energie che si potevano avere in gioventù ma il bagaglio di risorse dell’uomo, di competenze, di relazionalità non si arresta e continua a evolversi (Deluigi R., 2008). Questi anziani hanno continuato a vivere la loro quotidianità; come ha detto un membro del gruppo “come se avessi ancora vent’anni”, memori di un tempo trascorso e desiderosi di non arrendersi al vincolo del proprio corpo. Grazie a questi incontri tutto ciò è stato possibile poiché è stato creato un ambiente aperto alla relazione, a favore di un riconoscimento di sé e degli altri in quanto protagonisti dell’esistenza. “L’essenziale è invisibile agli occhi” (A. de Saint-Exupéry A., 1943), proprio per questo non ci si può soffermare a uno sguardo esteriore e superficiale, limitato e limitante, ma bisogna considerare l’anziano in una prospettiva evolutiva anziché involutiva. Bibliografia Deluigi, R. (2008). Divenire Anziani, Anziani in Divenire. Prospettive pedagogiche fra costruzione di senso e promozione di azioni sociali concertate. Roma: Aracne Editrice. De Saint-Exupéry, A. (1943). Il piccolo principe. Milano: Bompiani. Franceschi, C. (1993). Basi biologiche dell’invecchiamento della longevità. Trattato di Gerontologia e Geratria, UTET, 63-90. Mecocci, P., Cherubini, A., Senin, U. (2002). Invecchiamento cerebrale, declino cognitivo, demenza un continuum? Roma: Critical Medicine Publishing Editore. Organizzazione Mondiale della Sanità (2002). Invecchiamento attivo: un quadro strategico. OMS. Ginevra Libri usati per le attività Bergamaschi, S., Iannizzi, P., Mondini, S., Mapelli, D. (2010). Demenza 100 esercizi di stimolazione cognitiva. Milano: Raffaele Cortina Editore. Remocker, A.J., Stortch, E.T. (1983). Gesto come parola. Manuale di tecniche non verbali per terapie di gruppo. Torino: Edizione Omega. Sitografia www.eurispes.it – comunicati stampa, 2004 www.istat.it – previsioni della popolazione residente

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1Istituto per lo Studio delle Psicoterapie

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Lo stalking da un punto di vista psico-giuridico Stalking by a psycho-legal point of view Alessandra Grieco1 Riassunto Lo “stalking” , costituisce un fenomeno sociale molto rilevante e in costante emersione, come dimostrano le pagine di cronaca dei quotidiani o mettono in luce le statistiche. Intuitive sono le conseguenze negative sulla vittima, così come è enorme l’impatto sociale. Lo stalker produce nella vittima profondi turbamenti che ledono, molte volte in maniera irreversibile, l'equilibrio fisico e psichico di quest'ultima perché in seguito all'evento la vittima sperimenta un deterioramento mentale che va ad intaccare il suo benessere psicofisico.La sistematica violazione della libertà personale posta in essere mediante comportamenti ripetuti e intrusivi di sorveglianza e controllo, di ricerca di contatto e comunicazione nei confronti di una vittima che risulta infastidita e/o preoccupata da tali attenzioni e comportamenti non graditi può condurre a reazioni psichiche delle vittime, a volte tali da rendere necessaria un’indagine medico-legale finalizzata alla valutazione del danno alla persona. Parole chiave Stalking, stalker, vittima,ordinamento giuridico, indagini psico-forensi Abstract The "stalking", constitutes a very important social phenomenon and constantly emerging, as the news pages of newspapers or highlight statistics. Intuitive have negative consequences on the victim, as well as the social impact is huge. The stalker produces in deep turmoil affecting the victim, often irreversibly, the physical and mental balance because of the latter following the event the victim experiences a mental deterioration going to affect their psychological and physical well-being. The systematic violation of personal freedom in being placed by repetitive behaviors and intrusive surveillance and control, the search for contact and communication with a victim who is annoyed and / or concerned by these unwelcome attentions and behaviors that can lead to psychological reactions of the victims, sometimes that may require forensic investigation aimed at evaluating the damage to the person. Keywords Stalking , stalker , victim, legal system , psychological and forensic investigations

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Lo stalking nell’ordinamento giuridico italiano. Il fenomeno dello Stalking ,altrimenti detto “sindrome del molestatore assillante”, ha cominciato a destare un certo interesse, non solo nell’opinione pubblica, ma anche da parte di alcuni studiosi della psicologia e della sociologia, in seguito a certi eventi, accaduti negli anni ’80, in cui la molestia assillante venne indirizzata a dei personaggi di spicco dello Star System, personalità dello spettacolo e dello sport. Tra gli altri ricordiamo le tenniste Martina Hingis e Serena Williams inseguite in tutti i tornei internazionali dai propri persecutori, le attrici Theresa Saldana pugnalata dal suo stalker a Los Angeles nel 1982 e Rebbecca Shaffer assassinata nella sua metropoli dal suo persecutore nel 1989, episodi questi, che hanno ispirato la prima legge anti-stalking in California, in vigore dal 1992. Altre vittime sono state Sharon Stone, Jodie Foster, Nicole Kidman, Steven Spielberg ed in Italia Irene Pivetti e Catherine Spaak. Studi epidemiologici hanno però dimostrato che episodi di stalking avvengono con maggiore frequenza al di fuori del mondo ristretto delle celebrità e dei fatti di cronaca nera, verificandosi all’interno di quella vasta area che è la violenza domestica (Picozzi & Zappalà , 2001) Da un punto di vista etimologico, la parola “stalking” deriva dal linguaggio tecnico - gergale della caccia e letteralmente significa “fare la posta”. Questa definizione, sebbene sia la più semplice fra le tante in seguito enunciate da diversi studiosi della materia, sembra la più vicina al comportamento tipico del molestatore assillante che è quello di seguire la vittima nei suoi movimenti o meglio “appostarsi” alla sua vita (Micoli, 2012). Lo “stalking” quindi, costituisce un fenomeno sociale molto rilevante e in costante emersione, come dimostrano le pagine di cronaca dei quotidiani o mettono in luce le statistiche. Intuitive sono le conseguenze negative sulla vittima, così come è enorme l’impatto sociale: lo stalking è tale da generare danni alla salute, in alcuni casi lo stalker giunge a sopprimere la sua preda oppure la vittima si suicida, nella maggior parte delle situazioni i disagi psichici ed esistenziali dei danneggiati producono rilevanti ripercussioni sulle famiglie e sulle persone vicine alla vittima (Picozzi & Zappalà , 2001) . Nonostante lo stalking costituisca un fenomeno di antica data, la sua criminalizzazione risale a tempi abbastanza recenti, considerato che la prima legislazione antistalking, è stata emanata in California nel 1990 ( De Fazio & Galeazzi, 2004). Attualmente lo stalking costituisce reato nella maggior parte degli ordinamenti dei Paesi di lingua inglese, quali Stati Uniti, Australia, Canada, Nuova Zelanda e Regno Unito .In Europa, invece, detta condotta inizialmente assumeva rilievo solo in ambito civile. Il fenomeno veniva inquadrato in altre fattispecie destinate a sanzionare altre condotte illecite che, normalmente, vi si accompagnano , quali, ad esempio: omicidio, lesioni personali, ingiuria, diffamazioni, violenza privata, minaccia, violazione di domicilio, danneggiamento(Caldaroni, 2009). Lo stalking anche in Italia è diventato reato con l’art. 612 bis, che rappresenta una delle novità più significative introdotte con il D.L. 23.2.2009, n. 11, recante «Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori» (Merra & Marzi, 2009). Il nuovo reato, prevede la pena della reclusione da sei mesi a quattro anni a carico di chi, con condotte reiterate di minaccia o molestia, ingeneri nella vittima «un perdurante e grave stato di ansia o di paura», ovvero un «fondato timore» per l’incolumità propria, di un congiunto o di una persona a lei legata da una relazione affettiva, ovvero la costringa ad «alterare le proprie abitudini di vita» (Sorgato, 2014).

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Bisogna tener presente che ogni anno circa 70.000 donne sono vittime di stupri o di tentati stupri, pertanto il nuovo reato di “stalking” o atti persecutori, incrimina quelle condotte reiterate di molestia o minaccia che causano rilevanti disagi psichici alla persona offesa. La scelta del legislatore, dal punto di vista normativo, è stata quella di introdurre nel codice penale una nuova fattispecie incriminatrice. Tale condotta delittuosa è stata collocata nella sezione dei delitti contro la libertà morale (Parodi, 2009). Definizione di stalking. Con il termine “stalking” si intende una serie di comportamenti tramite i quali una persona affligge un’altra con intrusioni e comunicazioni ripetute e indesiderate, a tal punto da provocare ansia e paura ( Penati, 2011). La sindrome è costituita da: 1. un attore (stalker) che individua una persona nei confronti della quale sviluppa un’intensa polarizzazione ideo – affettiva; 2. una serie ripetuta di comportamenti con carattere di sorveglianza e/o di comunicazione e/o di ricerca di contatto; 3. la persona individuata dal molestatore (stalkingvictim) percepisce soggettivamente come intrusivi e sgraditi tali comportamenti, avvertendoli con un associato senso di minaccia e di paura (De Fazio & Sgarbi, 2012). Le condotte indesiderate possono essere di tre tipologie principali:

x Comunicazioni indesiderate che di solito sono rivolte alla vittima direttamente, ma possono anche consistere in contatti o minacce con la famiglia, gli amici e i colleghi della stessa vittima. Lettere e telefonate sono le forme più frequenti di comunicazione, insieme ad sms ed email;

x Contatti indesiderati che comprendono i comportamenti dello stalker diretti ad avvicinare direttamente la vittima come pedinamenti, appostamenti, frequentazione dei luoghi frequentati dalla vittima oppure svolgimento delle sue stesse attività;

x Comportamenti associati che consistono nell’ordine o cancellazione di beni e servizi a carico della vittima, al fine di intimidirla o danneggiarla ( Daphne, 2007).

Una parte della dottrina individua l’origine etimologica del termine “stalking” nella lingua inglese, dove assume il significato di caccia. Quindi lo “stalker”, è il cacciatore che insegue furtivamente la preda ( Cadoppi, 2008). I vari comportamenti di uno stalker, pur essendo spesso innocui e normali se considerati singolarmente, visti nel loro ossessivo insieme rappresentano una gravissima invasione della sfera personale della vittima, che si trova costretta a vivere un’esistenza costantemente condizionata dalla presenza del molestatore, e dalla paura che la molestia possa sfociare in pericoli per l’incolumità propria e dei congiunti. In maniera schematica, ricordando quanto detto dell’agito del molestatore assillante, i comportamenti, sebbene si presentino con maggiore frequenza in modalità mista, possono essere così classificati: lettere e fiori 60% telefonate 78% pedinamento 75% sorveglianza sotto casa 35% danno alla proprietà 35% violazione di domicilio 26%

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visita sul luogo di lavoro 40% appostamenti vari 40% minacce di violenza 76% violenza a terzi 6% violenza fisica di diversa entità 37% violenza sessuale 10% tentato omicidio 3% omicidio/omicidio familiare 5% omicidio/suicidio 5% ( Caretti & Craparo, 2011). Tale classificazione non rispecchia i criteri di ordine di frequenza, quanto quelli di gravità. Tra i casi estremi la violenza a terzi, solitamente animali, deve essere concepita come vera e propria minaccia da non sottovalutare in quanto spesso sconfina con la possibilità omicidiaria ( Abazia, 2015). Definizione di stalker. Lo stalking è un fenomeno in primis relazionale, che trova la sua genesi in equivoci e incomprensioni nei rapporti interpersonali, nella non accettazione dell’atteggiamento altrui, in difetti di comunicazione oppure nella volontà del molestatore di imporre sull’altra persona un particolare tipo di rapporto che, per chi ne è destinatario, risulta fortemente indesiderato ( Ravazzolo &Valanzano, 2010). Ci sono varie tipologie di stalker:

x il molestatore assillante erotomane; x l’amante ossessivo, il tipico stalker psicotico che prende di mira persone famose

o perfetti sconosciuti; x il tipo più diffuso è il semplice molestatore assillante che inizia lo stalking dopo

un rapporto reale finito male ( Kamphuis & Emmelkamp, 2009) Un altro tentativo, dovuto a Meloy, di classificare gli stalkers, è basato su tre classi di vittime di stalker:

x ex o attuale partner x conoscenti x sconosciuti

Una terza tipologia è quella elaborata da Mullen e altri, che distinguono: x lo stalker rifiutato x lo stalker in cerca di intimità x il corteggiatore inadeguato x lo stalker rancoroso x lo stalker predatore( Berri, 2012)

Queste tipologie confermano la concettualizzazione di stalking come riflesso di una patologia dell’attaccamento. La percezione del rifiuto o dell’abbandono, attiva il sistema di attaccamento maladattivo dello stalker e lo porta a cercare la vicinanza di una figura di attaccamento, anche quando proprio quest’ultima potrebbe essere la fonte di minaccia. Si potrebbe dire che lo stalker, motivato dall’ansia di disintegrazione di un auto-sistema vulnerabile, è incapace di staccarsi dalla persona che possiede la chiave del suo fragile equilibrio psichico ( Kamphuis & Emmelkamp, 2009). La maggioranza dei comportamenti assillanti vengono messi in atto da partner o ex-partner di sesso maschile (in Italia il 70% degli stalkers è uomo), con un’età compresa tra i 18 ed i 25 anni (il 55% dei casi) quando la causa è di abbandono o di amore respinto o superiore ai 55 anni quando ci si trova di fronte ad una separazione o ad un

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divorzio. Sebbene sia possibile un certo uso ed abuso di sostanze e/o di alcool, questa non risulta essere una caratteristica essenziale del quadro descrittivo del molestatore in questione. L’età dei soggetti fa intendere, da un punto di vista psicologico, una personalità debole o non ancora ben formata e che, per la paura di essere abbandonati, magari come ripetizione di esperienze infantili precoci di separazioni avvenute, si lega ossessivamente a qualcuno. Oltre a ciò, è possibile che egli sviluppi patologie psicologiche associate di personalità (Asse I del DSM IV); in particolare, nel caso del soggetto stalker tipicamente di indole narcisistica ( Kamphuis & Emmelkamp, 2009). Sono state individuate cinque possibili strategie difensive, per prevenire e difendersi dallo Stalker : 1. fuga/evitamento: nel caso dell’aggressione è la miglior risposta, ma la sua probabilità di successo si riduce dipendentemente dall’età e dalla prestanza fisica dell’aggressore e della vittima; spesso avviene in un luogo isolato, senza via di scampo, a volte di fronte a più aggressori. 2. risposta verbale non confrontativa: la vittima si trova di fronte al molestatore e, con l’intento di dissuaderlo, cerca di suscitare empatia (“ti ascolto” o “ti capisco”), essendo sincera (“ho paura”) o negoziando, al fine di prendere tempo ed escogitare una strategia migliore. Spesso però lo stalker, troppo eccitato, non si interessa di queste frasi. 3. resistenza fisica non confrontativa: resistenze simulate (svenimenti, epilessia, mutismo) o del tutto involontarie e spontanee (pianto o in casi gravi perdita del controllo sfinterico). Queste tecniche possono offrire un’opportunità alla vittima. 4. risposta oppositiva verbale: si urla per attirare l’attenzione o ci si sfoga per la rabbia. Lo scopo è comunque lanciare nello stalker il messaggio di non essere disposti a sottomettersi. 5. resistenza oppositiva fisica: si colloca lungo un continuum che va da risposte moderate (divincolarsi) a risposte violente (colpi volontari su collo e genitali). In questo caso bisogna che la vittima si aspetti una reazione a questa ancora più aggressiva. 6. sottomissione: spesso risultato della paura o della convinzione che così ci si possa salvare. E in generale lo è, soprattutto nella riduzione dei danni fisici. La strategia migliore sembra essere quella comunque di indurre lo stalker a parlare di sé, facendo leva sul suo narcisismo; in tal modo la vittima, fino a quel momento oggettivizzata, si riappropria di una sua esistenza come persona (Picozzi & Zappalà, 2001). Gli effetti dello stalking per la vittima. Lo stalker produce nella vittima profondi turbamenti che ledono, molte volte in maniera irreversibile, l'equilibrio fisico e psichico di quest'ultima perché in seguito all'evento la vittima sperimenta un deterioramento mentale che va ad intaccare il suo benessere psicofisico (Ghirardelli, 2011). In seguito al trauma, lo stato d'animo della vittima potrebbe essere riassunto in una fase disorganizzativa, nella quale è riscontrabile uno stato di negazione, meccanismo di difesa che serve ad allontanare il pensiero di quei tragici momenti. Nel tentativo di superare l'accaduto o di minimizzare i danni vengono messi infatti in atto dei veri e propri meccanismi di difesa. Tuttavia, nel tempo, tale "materiale rimosso" viene a colludere con un sentimento di ricerca della realtà, in seguito al quale la vittima sarà pervasa da senso di colpa. Il soggetto "stalkizzato", infatti, ripercorre mentalmente più volte la scena del crimine ponendosi domande cercando di capire cosa altro poteva dire o fare per prevenire ciò

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che invece si è verificato. Le vittime di stalking conserveranno a lungo delle vere e proprie ferite; le conseguenze dello stalking infatti, per chi le subisce, sono variegate e spesso si cronicizzano. Difatti, a seconda degli atti subiti e delle emozioni sperimentate, nella vittima, si possono riscontrare vari quadri sintomatologici. In seguito all'evento traumatico, infatti, la vittima sarà pervasa da stati d'ansia acuti, problemi di insonnia fino a dei veri e propri quadri di Disturbo Post Traumatico da Stress (Fabbroni & Giusti, 2009). Le indagini psico-forensi in tema di “stalking”. La sistematica violazione della libertà personale posta in essere mediante comportamenti ripetuti e intrusivi di sorveglianza e controllo, di ricerca di contatto e comunicazione nei confronti di una vittima che risulta infastidita e/o preoccupata da tali attenzioni e comportamenti non graditi può condurre a reazioni psichiche delle vittime, a volte tali da rendere necessaria un’indagine medico-legale finalizzata alla valutazione del danno alla persona. Il timore di rappresaglie, oppure il pudore e il senso di colpa che affliggono il partner responsabile di aver interrotto la relazione affettiva, possono, in buona parte dei casi, scoraggiare la vittima dal darne segnalazione all’autorità giudiziaria o persino parlarne con i propri cari (Penati, 2014). Il legislatore ha pertanto strutturato il delitto di atti persecutori all’interno della sezione del Codice Penale dedicata ai delitti contro la libertà morale e l’ha organizzato secondo una condotta a forma libera. Sulla base delle definizioni normative, lo psicologo forense, magari coadiuvato da altri specialisti, è chiamato quindi ad esprimere un parere tecnico sulle condizioni indispensabili per la realizzazione della fattispecie, ovvero ad identificare la presenza o meno di derive psicopatologiche che potrebbero caratterizzare quella nozione di malattia propria del delitto di lesioni personali (art. 582 C. P.). Alcuni autori come Melissa Collins e Mary Beth Wilkas descrivono una vera e propria sindrome specifica nella vittima di stalking, definita STS (Stalking Trauma Syndome) e caratterizzata da aspetti analoghi ad altre fattispecie quali il disturbo post-traumatico da stress, la sindrome da maltrattamento e la sindrome da trauma da rapimento. È anche vero che la dimostrazione del nesso causale che può esservi fra una condotta tipo stalking e una patologia lamentata dalla vittima potrebbe dipendere, in modo esclusivo e concausale, da fattori differenti e riconducibili a vissuti familiari problematici, a disagio lavorativo o a stati di difficoltà emotiva, a turbamenti del tutto diversi e persino preesistenti disturbi psichici della vittima, in conseguenza dei quali tali comportamenti verrebbero percepiti irragionevolmente e ingiustamente fatti ricondurre nella categoria dello stalking (Rocca, Zacheo & Bandini, 2010) . Alcuni autori sostengono che, in ragione di una “multifattorialità” causale, si potrebbe giungere ad attribuire “concausalità” a tutti gli eventi con la conseguente difficoltà di selezionare quelli giuridicamente rilevanti. Dinnanzi a uno stesso evento traumatico sono dunque possibili reazioni del tutto differenziate e coerenti con la personalità di base del danneggiato. Per comprendere la reazione patologica che ne può derivare, provocando uno scompenso all’equilibrio psichico preesistente, è fondamentale analizzare compiutamente la struttura psichica che coordina l’attribuzione del significato all’evento traumatico allo scopo di verificare la sussistenza di un nesso di causalità fra l’evento psico-traumatizzante e le conseguenze psicopatologiche dello stesso. Di fronte a tale complessità valutativa, l’indagine psico-forense ha il compito importante e decisivo di descrivere e motivare adeguatamente i percorsi che conducono da un’esperienza traumatica ad un esito psicopatologico, differenziandone, caso per caso, gli elementi rappresentativi per giungere alla comprensione e alla spiegazione del

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rapporto causale. Un simile approccio potrà consentire una corretta valutazione dei singoli soggetti e, dei casi dubbi o complessi e quindi difficilmente risolvibili. Secondo Mullen, la maggioranza degli stalkers sono persone sole che sono socialmente incompetenti, ma con la capacità di spaventare e di turbare le loro vittime (Mullen, Pathé&Purcell, 2000) . Bibliografia Abazia, L. (2015). Il lato oscuro dell'amore. Lo stalking: comprendere e riconoscere il fenomeno attraverso il racconto di storie vere. Milano: Franco Angeli. Berri, G. (2012). Stalking e ipotesi di confine. Scenari. Milano :Giuffrè editore. Cadoppi, A. (2008). Stalking: solo un approccio multidisciplinare assicura un’efficace azione di contrasto, in Guida al diritto n°7, 17 febbraio 2008, 10-12. Caldaroni, A. (2009). Stalking e atti persecutori. Roma:Gaia Caretti, V. &Craparo, G. (2011). Attrazione, ossessione e stalking. Roma: Editore Astrolabio Ubaldini. De Fazio, L. & G.M. Galeazzi. (2004). "Stalking: intervention, approaches and training needs in helping professions". 4th Annual Conf. Of the Eu.Society of Criminology. Amsterdam. De Fazio, L. & Sgarbi, C. (2004). Stalking e rischio di violenza. Uno strumento per la valutazione e la gestione del rischio. Milano: Franco Angeli. Fabbroni, B. & Giusti, M. A.(2009). Vittima persecutore Il Mondo dello stalker. Roma: Gaia. Ghirardelli, P. (2011). Lo stalking: linee guida per la prevenzione e la tutela. Milano: Lampi di stampa. Kamphuis, J. H. &Emmelkamp, P. M.(2009). I disturbi della personalità. Bologna: il Mulino. Merra, S. & Marzi, G. (2009).Stalking. Roma: Sovera edizioni. Micoli, A. (2012). Il fenomeno dello stalking. Aspetti giuridici e psicologici. Milano: Giuffrè Editore. Mullen, P. E. Pathé, M. & Purcell, R.(2000). Stalkers and Their Victims, Cambridge University Press. Parodi, C. (2009). Stalking e tutela penale. Le novità introduttive nel sistema giuridico dalla L.38/2009. Milano: Giuffrè Editore. Penati, V. (2011). Stalking. Milano: Edizioni Ferrari Sinibaldi Penati, V. (2014). Stalking e psicopatologia.Milano: Edizioni Ferrari Sinibaldi Picozzi, R. & Zappalà, A.(2001). Criminal Profiling. Dall'analisi della scena del delitto al profilo psicologico del criminale. Italy: McGraw-Hill Education. Rocca, G., Zacheo, A. &Bandini, T. (2010). “L’indagine psichiatrico forense sulla vittima di stalking: dagli atti persecutori al danno psichico” in “Rassegna Italiana di Criminologia”, Lecce. Ravazzolo, T. & Valanzano, S. (2010). Donne che sbattono contro le porte. Riflessioni su violenze e stalking. Milano: Franco Angeli. Sorgato, A. (2014). Maltrattamenti e stalking. Milano: Antonio Tombolini editore. 1 Istituto per lo Studio delle Psicoterapie

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Disfagia psicogena: un caso clinico trattato con psicoterapia strategica Psychogenic dysphagia: a clinical case with strategic psychotherapy Lorena Calandi1 Riassunto In questo lavoro è trattato un caso clinico di Disfagia psicogena con l’approccio strategico breve. Dopo una breve introduzione, che descrive la disfagia come un’alterazione qualitativa e quantitativa della deglutizione, esso prosegue con la definizione dei disturbi psicosomatici e la descrizione del percorso terapeutico effettuato. Il trattamento realizza importanti cambiamenti già con la riflessione intorno ai vantaggi secondari del comportamento sintomatico. Parole chiave Approccio strategico breve, disfagia, deglutizione, disfagia psicogena, disturbi psicosomatici Abstract In this work has treated a clinical case of psychogenic dysphagia with the strategic approach short. After a brief introduction, which describes dysphagia as a qualitative and quantitative swallowing, it continues with the definition of psychosomatic disorders and description of the course of treatment carried out. The treatment produces important changes already with reflection around the secondary benefits of symptomatic behavior. Keywords Strategic approach short, dysphagia, swallowing, psychogenic dysphagia, psychosomatic disorders Introduzione Per deglutizione s’intende l’abilità dell’individuo di convogliare sostanze solide, liquide, gassose o miste dall’esterno allo stomaco (Logemann,1995). Il termine disfagia, invece, indica un’alterazione qualitativa e quantitativa della deglutizione e quindi non configura una malattia con eziologia, patogenesi ed evoluzioni proprie, ma è un segno o sintomo di una patologia.

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La deglutizione è un atto fisiologico articolato che consente la normale progressione del cibo dal cavo orale allo stomaco e con il termine disfagia si definisce rappresenta l’alterazione di questo processo. La disfagia di conseguenza è una disfunzione anatomo-funzionale dell'apparato digerente, consistente nella difficoltà a deglutire, ed al corretto transito del bolo nelle vie digestive superiori. Esistono diverse tipologie nosografiche delle disfagie, a seconda dell'eziologia, della localizzazione ed alla funzione svolta in questo processo. Nel transito del bolo dall’esterno allo stomaco, le alterazioni possibili possono essere divise in due grandi categorie:

x disfagie oro-faringee che riguardano le prime tre fasi del processo di deglutizione;

x disfagie esofagee che riguardano l’ultima fase e sono correlate a patologie esofagee e gastriche.

Si parla, invece, di disfagia psicogena, quando essa accade in assenza di ostacoli obbiettivamente rilevabili al transito del bolo e non si riconoscono cause organiche, anatomiche, e fisiopatologiche, ma è ricondotta a disturbi del comportamento alimentare o altre psicopatologie. La disfagia può riguardare cibi solidi, liquidi, semiliquidi, semisolidi, gassosi e può essere persistente o saltuaria. La disfagia ha una prevalenza nella popolazione generale riportata intorno al 3-5% (Lindgren e Janzon, 1991). Tale numero aumenta fino al 16% nei soggetti oltre gli 85 anni (Bloem et al, 1990). Un aspetto a cui è necessario prestare maggiore attenzione è quello legato alle restrizioni sociali del paziente disfagico e alla conseguente compromissione della qualità di vita (Gustafsson et al, 1992). Di conseguenza, si tratta di un vero e proprio handicap: in quanto è sempre più chiara la relazione tra disfagia e riduzione di attività psicologiche e sociali e il conseguente peggioramento della qualità della vita come espressione di riduzione di autostima, sicurezza, capacità lavorativa e svago (Ekberg et al, 2002). Oltre a rappresentare un problema debilitante e costoso dal punto di vista sociale per pazienti e familiari, la disfagia è causa di numerosi ricoveri ospedalieri, anche ripetuti nel tempo (Martin-Harris, 1999). La gestione della disfagia orofaringea è complessa e costosa, e richiede sia nella fase diagnostica sia in quella terapeutica un’ampia rete di esperti, costituita da medici specialisti e da altro personale sanitario. Strutture anatomiche coinvolte e fasi La deglutizione, come altre funzioni fisiologiche, dipende da una rete neuronale che coinvolge molte strutture cerebrali: corteccia, aree sottocorticali, tronco cerebrale e nervi cranici (V trigemino, VII facciale, IX glosso-faringeo, X vago, XI accessorio e XII ipoglosso). La deglutizione riflessa e volontaria è attivata dal giro precentrale e postcentrale, insula e giro cingolato anteriore. La funzione deglutitoria viene suddivisa in quattro fasi cronologicamente successive e distinte, con riferimento alle regioni anatomiche via via interessate dal transito del bolo alimentare (Agenzia Regionale per i Servizi Sanitari, 2013). Prima della deglutizione l’osso ioide, come postura preparatoria si sposta in posizione di moderata elevazione; contemporaneamente si verifica l’arresto della “manipolazione” intraorale e l’inibizione della respirazione, che si rendono indispensabili per

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l’incrociamento tra via aerea e digestiva, in modo da alternare funzione deglutitoria e respiratoria. La prime due fasi, dette preparatoria orale ed orale,durante le quali si verifica una contrazione rapida dei muscoli che danno inizio ai movimenti della deglutizione, che sono sotto il controllo della muscolatura volontaria. Nella successiva fase faringea entrano in azione i muscoli faringei, la cui contrazione è di tipo involontario. L’ultima fase, anch’essa involontaria, si conclude a livello esofageo. 1. Fase preparatoria orale. Nella fase preparatoria, sotto il controllo della volontà, il cibo e la saliva sono masticate insieme per formare il bolo e la lingua lo comprime contro il palato duro. 2. Fase orale. Nella fase orale la lingua opera un movimento verso l’alto ed indietro, in un’azione sequenziale di compressione e srotolamento verso il palato, spingendo così il bolo in faringe. A questo punto la deglutizione avverrà autonomamente in modo coordinato con il riflesso peristaltico. Normalmente l’atto deglutitorio si svolge al di fuori del controllo corticale ma la fase orale si differenzia dalle altre perché consapevole e volontaria, ciò è di fondamentale importanza ai fini terapeutici poiché consente nei casi di presenza di deglutizione atipica, di correggere la prassia infantile in quella di tipo adulto, con esercizi volontari di rieducazione neuromuscolare. Nel trattare casi di deglutizione atipica l’attenzione è focalizzata sulle prime due fasi che nella deglutizione adulta o matura sono caratterizzate da precisi e rigorosi schemi motori che vedono coinvolti lingua, mandibola, labbra e guance. 3. Fase faringea. La fase faringea ha una durata di circa 1, 2 sec. ed è caratterizzata da una serie di eventi complessi che proteggono le vie aeree: quando il bolo si muove verso la faringe, il respiro cessa momentaneamente e si innesca una rapida sequenza di eventi biomeccanici . 4. Fase esofagea. Quando il bolo passa in faringe, la stimolazione di questa per via riflessa, porta al rilasciamento dello sfintere esofageo superiore che permette al bolo di entrare in esofago dando inizio allo stadio esofageo. Si ha poi la contrazione di tale sfintere che si richiude impedendo il reflusso alimentare esofago-faringeo. Il movimento verso l’interno, con progressive contrazioni ad onda, delle pareti faringee, mantiene una pressione continua, necessaria per spingere il bolo nello sfintere esofageo superiore (SES) e permette al bolo di entrare in esofago. Il passaggio del bolo determina la chiusura del SES, che blocca il suo riflusso in laringe, e l’attivazione delle onde pressorie dell’esofago che lo incanalano verso lo stomaco. Mentre le strutture faringee ed il respiro riprendono la configurazione “normale” il bolo, spinto dalle peristalsi esofagee, oltrepassa lo sfintere esofageo inferiore (LES) e giunge nello stomaco. Insieme, SES e LES, funzionano come protezione per prevenire sia che l’esofago si riempia d’aria durante altre attività come il parlare, sia che venga invaso da materiale di reflusso dallo stomaco. In ogni emisfero cerebrale è presente un centro della deglutizione, capace di attivare l’atto deglutitorio; tali centri sono interconnessi sia tra loro che con i centri cerebrali responsabili del vomito, del respiro e della masticazione (ibidem).

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Trattamento Il trattamento è eziologico, vale a dire volto a trattare la causa della sintomatologia. In caso di restringimenti dell'esofago per anomalie della muscolatura intrinseca (acalasia), il trattamento farmacologico sarà volto a favorire il rilassamento della muscolatura tramite farmaci miorilassanti come i calcio-antagonisti, il trattamento chirurgico sarà volto alla dilatazione dell'area coinvolta (generalmente lo sfintere esofageo inferiore) tramite dilatazione pneumatica o miotomia. In caso di tumori comprimenti o infiltranti l'esofago il trattamento si avvarrà di rimozione chirurgica del tumore con eventualmente chemioterapia adiuvante. L'intervento sarà palliativo o curativo a seconda della tipologia e dello stadio del tumore in questione. In corso di sindrome di Plummer-Vinson sarà effettuata terapia marziale eventualmente supportata da chirurgia dilatativa. Per disordini psicogeni il trattamento è psicologico o psichiatrico (Agenzia Regionale per i Servizi Sanitari, 2013). Disfagia psicogena Se consideriamo l’organismo come un’unità integrata di ordine biopsicosociale, ogni variazione introdotta in un livello va a modificare tutti gli altri livelli. In questa ottica la malattia diventa l’espressione di un disagio, di un rifiuto, di un’incapacità che non è solo del corpo ma di tutta la persona, un messaggio da decodificare, uno dei molteplici modi con cui il nostro corpo può comunicare. Con le osservazioni di Freud (1892-1895) sulle manifestazioni somatiche dell’isteria e della nevrosi di angoscia e i successivi contributi di autori come Stekel e Groddek comincia a emergere una medicina psicosomatica sebbene il termine sia stato introdotto già nel 1818 da Heinroth, la nascita della disciplina può essere fatta coincidere con la pubblicazione delle opere di H.F. Dunbar (1947) e F. G. Alexander (1950). E’ necessaria una distinzione tra reazioni e disturbi psicosomatici. La prima è episodica, momentanea, e scaturisce da un evento stimolo: per esempio nella tachicardia da spavento c'è una evidente alterazione del battito cardiaco, che è solo momentanea e che scompare non appena cessa la reazione emotiva. Nei disturbi psicosomatici esiste, invece, un'alterazione duratura, funzionale oppure organica. Nel primo caso l'organo non è leso, ma si comporta come se lo fosse. Nella malattia organica esiste, invece, una lesione dell'organo in questione: per esempio l'ulcera gastro-duodenale, che oltre ai sintomi comporta un reperto anatomo-patologico ben preciso ed individuabile. Un’emozione o un affetto possono incidere sul soma fino a procurarne un disturbo funzionale o una lesione. Lipowski (1987) definisce la somatizzazione come la tendenza a provare e comunicare il malessere psicologico sotto forma di sintomi fisici e a richiedere consulenza medica per questi. Kellner (1994), osservando le caratteristiche cliniche di pazienti affetti da disturbi medici funzionali come la dispepsia non ulcerosa e la sindrome dell’intestino irritabile, ha proposto di definire un individuo che somatizza come una persona in cui sono raggruppati diversi sintomi psicofisiologici come quelli funzionali somatici e di attivazione del sistema nervoso autonomo. Si è resa ben presto necessaria la creazione di sistemi di classificazione che, pur presentando numerosi limiti, rappresentano il tentativo di ordinare dati e fenomeni per facilitarne la comunicazione fra diversi professionisti.

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Con il termine di “malattie psicosomatiche” si intende infatti quell’ampia fascia di patologie che si situano tra lo psichico ed il corporeo, con produzione di una sintomatologia di tipo funzionale ed organico in cui è possibile ravvisare una origine psicologica (Berti Ceroni,Grava 2005). . Con i ritmi di vita sempre più veloci ed il moltiplicarsi dei fattori di stress cui ognuno di noi è sottoposto, le malattie psicosomatiche sono in netto aumento e rappresentano le risposte estreme dell’organismo, inteso nella sua interezza di corpo-mente, di fronte a problematiche di natura affettiva ed emotiva e sotto le pressioni di tipo socio-ambientale. Il meccanismo della “somatizzazione” può intendersi, come il meccanismo trasformativo che, a partire da specifici contenuti psichici, opera un cambiamento a livello somatico, attraverso il coinvolgimento dei sistemi endocrino ed immunitario. Alcuni autori hanno poi ipotizzato in questo tipo di disturbi la presenza di una iperattività dei sistemi nervosi parasimpatico e simpatico, iperstimolati e condotti ad un disfunzione cronicizzata, unitamente ad alcuni altri fattori predisponenti tra i quali la specifica personalità del soggetto, una particolare “vulnerabilità d’organo” (cioè il fatto che ogni individuo può presentare un organo “bersaglio” sul quale vengono canalizzate di preferenza le tensioni interne), ed un certo tipo di ambiente esterno. Ad esempio, una aggressività intrapsichica eccessivamente inibita viene canalizzata, in base a precedenti modalità di gestione di simili vissuti emotivi, attraverso un meccanismo di somatizzazione producendo un sintomo organico (p.es. a livello di apparato gastroenterico). Ecco dunque che il corpo si incarica di comunicare la presenza di contenuti “disturbanti” per la coscienza, attraverso il ricorso al sintomo fisico. In questo senso specifico, la somatizzazione costituirebbe una sorta di “codificazione” di contenuti affettivi ed emotivi non mentalizzabili (Albarella ,Racalbuto,2004). La classificazione secondo il DSM IV-TR ed il DSM-5 La categoria dei “disturbi somatoformi” è entrata nella nosografiapsichiatrica nel 1980, con la terza edizione del DSM (DSM-III, 1980) e comprende, nella versione del DSM-IV-TR, 2000:

x il Disturbo da Somatizzazione x il Disturbo Somatoforme Indifferenziato x il Disturbo di Conversione x il Disturbo Algico x l’Ipocondria x il Disturbo di Dismorfismo Corporeo x il Disturbo Somatoforme Non Altrimenti Specificato

Nella realtà, così come è possibile osservare nella pratica clinica quotidiana, i pazienti si presentano con problematiche diverse e quadri più complessi, non omogenei fra loro. Inoltre, il DSM, ponendosi come strumento diagnostico ateoretico e categoriale basato sull’osservazione dei sintomi, esclude ogni ricerca sulle cause e introduce una visione discontinua dei disturbi mentali. Secondo la definizione del manuale, “la caratteristica comune dei Disturbi Somatoformi è la presenza di sintomi fisici che fanno pensare ad una condizione medica generale, da cui il termine somatoforme, e che non sono invece giustificati da una condizione medica

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generale, dagli effetti diretti di una sostanza, o da un altro disturbo mentale (per es. il Disturbo di Panico). I sintomi devono causare significativo disagio o menomazione nel funzionamento sociale, lavorativo, o in altre aree. A differenza dai Disturbi Fittizi e dalla Simulazione, i sintomi fisici non sono intenzionali (cioè sotto il controllo della volontà)” (DSM IV-TR,2001). Nel manuale è prevista inoltre, come categoria a se stante, quella denominata “ Fattori Psicologici che influenzano una condizione medica”. Questi fattori psicologici o comportamentali “includono disturbi in asse I,disturbi in asse II, sintomi psicologici o tratti di personalità che non soddisfano appieno i criteri per un disturbo mentale specifico, comportamenti dannosi alla salute, o reazioni fisiologiche a fattori stressanti ambientali o sociali”. Questa categoria, di grande interesse per il medico,racchiude in parte le malattie psicosomatiche nella cui genesi ed evoluzione sono implicati fattori psichici diversi (esperienze ed emozioni stressanti, fattori di personalità predisponenti, condizioni conflittuali) che agiscono con vari meccanismi. Il termine disturbi somatoformi del Dsm-IV-Tr creava confusione ed è stato sostituito da disturbo da sintomi somatici e disturbi correlati nel Dsm-5.Nel Dsm-IV esisteva un'ampia sovrapposizione delle diverse categorie e non vi era mancanza di chiarezza sui reali confini diagnostici. L'attuale classificazione del Dsm-5 di conseguenza riduce il numero totale dei disturbi e delle sottocategorie. precedenti criteri attribuivano un'eccessiva importanza ai sintomi dal punto di vista medico (in Dsm-5, 2014). La nuova classificazione definisce la diagnosi principale,disturbo da sintomi somatici,sulla base di sintomi oggettivi (sintomi somatici che procurano disagio accompagnati da pensieri,sentimenti e comportamenti anomali, e comportamenti adottati in risposta a tali sintomi) (ibidem).Questa sezione del Dsm-5 comprende:

x Il Disturbo da sintomi somatici x Il Disturbo da ansia di malattia x Il Disturbo di conversione (Disturbo da sintomi neurologici funzionali) x Fattori psicologici che influenzano altre condizioni mediche x Disturbo fittizio x Disturbo da sintomi somatici e disturbi correlati con altra specificazione x Disturbo da sintomi somatici e disturbi correlati senza specificazione

Caratteristiche del Disturbo Il Disturbo di Conversione si caratterizza per le manifestazioni sintomatiche (sintomi “pseudo-neurologici”) inerenti le funzioni motorie volontarie o sensitive senza la presenza di una compromissione anatomica o organica che ne giustifichi la presenza: I sintomi motori includono alterazioni della coordinazione e dell'equilibrio, paralisi localizzate, perdita della voce (afonia), difficoltà di deglutire o sensazione di nodo alla gola, ed infine ritenzione urinaria; I sintomi sensitivi comprendono invece perdita della sensibilità tattile o del dolore, cecità, sordità, allucinazioni, attacchi pseudo-epilettci o convulsioni. L’assenza di una qualche compromissione organica lascia presagire che il quadro sintomatico trae origine da una qualche ragione psicologica come un conflitto o una condizione di stress; tale supposizione deve essere incoraggiata dalla correlazione temporale tra le manifestazioni sintomatiche o il loro aggravamento e i fattori

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psicologici responsabili. In altre parole, le manifestazioni sintomatiche rappresenterebbero la simbolizzazione di un conflitto interno. Freud aveva già messo in evidenza tale meccanismo, soprattutto nei suoi studi sull’isteria, a proposito del quale parlava di “vantaggi primari e secondari della malattia” intendendo con “vantaggio primario” la risoluzione del conflitto psichico, e quindi dell’angoscia, attraverso la sua simbolizzazione nella malattia mentre, per “vantaggio secondario”, intendeva i vantaggi concreti che la condizione dell’esser malato può garantire (deresponsabilizzazione, cura, affetto ecc.) (Bollas,2001). Le manifestazioni sintomatiche di conversione sarebbero dunque una sorta di compromesso tra lo psichico e il somatico. Gli individui affetti dal disturbo appaiono particolarmente suggestionabili (non ha caso una delle prime cure sperimentate da Charcot e da Freud per curare l’Isteria fu l’ipnosi) tanto che le manifestazioni sintomatiche possono variare o dipendere da condizioni esterne come l’attenzione degli altri. Un’altra caratteristica che può accompagnare il disturbo è la belle indifference”, ovvero un atteggiamento distaccato, quasi indifferente, che accompagna le manifestazioni sintomatiche (paralisi, cecità, afonia, sordità ecc.) dell’individuo (Ferro, Riefolo2006). Il sintomo o deficit non è intenzionalmente prodotto o simulato (come nei Disturbi Fittizi o nella Simulazione). Il Dsm-IV-Tr (2001) sostiene che al Disturbo di Conversione si possono accompagnare Disturbi Dissociativi, il Disturbo Depressivo Maggiore e il Disturbo Istrionico, Antisociale, Borderline e Dipendente di Personalità. A seconda del tipo di sintomo o deficit, si può specificare:

x Con Sintomi o Deficit Motori x Con Attacchi Epilettiformi o Convulsioni x Con Sintomi o Deficit Sensitivi x Con Sintomatologia Mista

Il Dsm-5 (2014), invece, specifica i seguenti sintomi:

x Con debolezza o paralisi x Con movimento anomalo (es. tremore, movimenti distonici, mioclono, disturbi

della deambulazione); x Con sintomi riguardanti la deglutizione x Con sintomi riguardanti l'eloquio (es. disfonia,biascicamento); x Con Attacchi Epilettiformi o Convulsioni x Con anestesia o perdita di sensibilità x Con sintomi sensoriali specifici (problemi visivi,olfattivi o uditivi) x con sintomi misti

Inoltre si tende a specificare se si tratta di episodio acuto (i sintomi sono presenti per meno di 6 mesi) o persistente (i sintomi si presentano per 6 mesi o più) e se vi è o meno un fattore psicologico stressante. In fase diagnostica si utilizzano alternativamente le definizioni di "funzionale" (riferendosi al funzionamento anomalo del sistema nervoso centrale) o "psicogeno"(riferendosi ad un'eziologia presunta tale) (ibidem).

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Caso clinico: Il nodo alla gola Viviana, 34 anni, vive in provincia di Enna ed è impiegata. E’ sposata con Giuseppe da 7 anni dopo un lungo fidanzamento, ed è mamma di un bambino di quasi 3 anni. Viviana è una bella ragazza, esile con gli occhi azzurri. Si presenta allo studio accompagnata dal marito. La paziente esordisce raccontando come è venuta a conoscenza dell’approccio strategico che ritiene adeguato per la risoluzione del suo problema. Dopo diversi tentativi di risoluzione intrapresi, farmacologici e psicoterapici risultati fallimentari,riferisce che attualmente il disturbo si è accentuato "…il mio medico….lo scorso anno è stato…mi indirizzò da uno psicoterapeuta…sicuramente un ragazzo bravissimo…e tutto quanto….però poi….alla fine…non ho….non ho continuato questa psicoterapia…ci dovevo andare diverse volte la settimana…naturalmente…dovevo fare una cura….doveva capire le mie…problematiche ,naturalmente….non….e niente….poi un pochettino mi….niente non lo so….non sono stata neanche incoraggiata…non lo so manco io…come….cosa è….l’ho presa così…niente poi….finì così….non l’ho fatto….ora praticamente poi ultimamente ho questo mio disturbo…accentuato". Il terapeuta tenta di indagare e fare una definizione del problema di Viviana "..io ho un problema….che non so a cosa è dovuto….non riesco ad ingoiare….ero già sposata….mi ero sposata…ed ho avuto questo disturbo che non capivo cosa fosse…ed un po’ mi sono spaventata...perchè mi veniva di non respirare…ho fatto una visita otorino-laringoiatra ….e…niente….questa visita fatta un po’ così…perché…non sono riuscita a farmi fare la gastroscopia…sempre dovuto a questa mia ansia…un esame dal naso…un tubicino che mise nel naso ed andò un poco nella gola una cura che dovevo prendere una bustina anti-acidodopo che pranzavo…che rilassano …delle goccine per rilassare i muscoli…. Mi diede 5 goccine di Lexotan la mattina e 5 il pomeriggio…ed io l’ho fatto… queste 5 goccine di Lexotan e poi altre 5….poi quando io ci sono andata nuovamente da lui…sono ritornata e dico….dottore…io non mi sento bene…dico….io penso di essere tranquilla con la testa…penso….non ne ho depressione…io non mi sento che c’ho la depressione". Secondo l’approccio strategico il terapeuta, sin dal primo incontro con il paziente non si sofferma sul suo passato ma valuta e prende in considerazione alcuni aspetti fondamentali (Nardone,Watzlawick,1997):

x cosa avviene nelle relazioni che il soggetto crea con se stesso, con il mondo e con gli altri;

x come il problema che viene presentato sia “funzionale” all’interno di queste interazioni; le tentate soluzioni che il soggetto ha cercato ed azionato per risolvere la sua difficoltà e che, spesso, risultano essere il “vero” problema;

x come è possibile cambiare questa situazione di disagio nel modo più facile e veloce possibile.

Si tratta di enunciare il problema nei termini più concreti possibili, identificando quale sia il sistema interattivo disfunzionale (i 3 sistemi interattivi: l’individuo in relazione con sé stesso, con gli altri, con il mondo) che lo mantiene. Una chiara definizione del problema, inoltre, permette di evitare di lavorare su pseudo-problemi (Haley,1976); Il terapeuta mira a definire il problema della paziente cercando di contestualizzarlo ("non riuscivo ad ingoiare…eh…..praticamente….allora non ce l’ho avuto

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fortissimo….ci sono stati periodi in cui sono stata tranquilla…voglio dire…da un po’ di tempo…l’estate….l’estate del….non questa estate che …..l’estate scorsa diciamo...Giulietto era più piccolino….poteva avere un annetto …il primo anno che siamo andati a mare…e mi ricordo che eravamo a cena…stavamo mangiando del pesce ed ho avuto la sensazione come se mi fossi ingoiata una lisca....Giulio stava dormendo…noi stavamo cenando…ed io ho avuto questa cosa…ho detto…mamma mia Giuseppe…mi sono ingoiata una lisca…ed ho avuto la sensazione che…e lui mi ha risposto….è la tua impressione… stiamo mangiando….tu ti sei presa....ed ho avuto la sensazione che ho ingoiato….il gambero non ha quelle…non mi viene come si chiamano…quelle antennine…non lische…mi sono impressionata che no…stavo morendo….mi dicevo ora muoio così…come faccio…e…e sono andata in ospedale… gli dissi….senta mi deve controllare…io ho questa sensazione che ho questo corpo estraneo…mi fece aprire la gola e mi disse…signora non ha niente…prenda queste goccine…. io mi tranquillizzai…e ce ne siamo tornati da questo villaggio che eravamo e piano piano mi sono tranquillizzata ed è passato...da allora….praticamente…io mi spaventavo a….tutte le cose…tutto….e dicevo mamma…e se incontro…tipo mentre mangio…qualcosa…io muoio….gli dissi…dottore…io ultimamente penso che ho qualcosa…qualcosa che comunque dico…non lo so….cosa potrebbe essere…chi sacciu chi posso avere….io non riesco più a mangiare…mangio tipo gli omogeneizzati…mangio la pastina…non riesco a fare una vita normale…perché comunque…avendo un lavoro…io parto la mattina prestissimo…cioè….sono….non sono costretta…mmm…comunque la mia giornata si svolge anche fuori…ed io dico….con questa cosa che ho…che mi spavento a mangiare…dico….devo tornare a casa a mangiare per evitare…prima solitamente mi capitava che il pranzo lo facevo pure con i colleghi …il panino…la qualsiasi cosa…ora tipo io evito di fare questa cosa…perché dico…se mi viene di soffocarmi dico…mamma mia che brutta figura che dovrò fare con gli altri….ed allora evito….ed arrivo a queste conclusioni….allora il dottore mi disse…una volta che tu mi stai dicendo tutte queste cose…è un pochino più pesantuccia come cosa…se tu devi mangiare pastina…non posso ingoiare la carne…mangiare l’omogenizzato….mi grattugio la mela…questa situazione…un pochettino dobbiamo essere …..con un lavoretto un po’ più fortino…sai che rilassa….poi un po’ di tempo fa….lui mi indirizzo…questo mio medico….lo scorso anno è stato…mi indirizzò da uno psicoterapeuta...forte…più…come mio marito….che mi dice…ma che dici…ma che hai….non hai niente……non mi crede……tipo….non che non mi crede….non glielo so spiegare dottore…ad esempio lui non mi capisce"). Il terapeuta indaga il sistema reattivo-percettivo della paziente, individuando una paura dei cambiamenti e delle novità determinandole notevole ansia. Il principio è che ogni persona ha un proprio sistema di percezione della realtà e, di conseguenza, un proprio modo di reagire ad essa. L'individuazione del sistema percettivo-reattivo del paziente è uno dei primi passi che viene compiuto in terapia. Il sistema utilizzato dalla paziente è di tipo cenestesico. Il nostro sistema percettivo reattivo funziona come un filtro che seleziona i significati da dare alle cose, come una cornice che inquadra un fenomeno interpretandolo in un senso o nell’altro, secondo i propri criteri (emotivi, motivazionali, logici, valoriali e secondo gli stati della mente). Il sistema percettivo-reattivo individuale è frutto dell’interazione con l’ambiente. Noi siamo in contatto col resto del mondo per mezzo dei nostri cinque sensi, connessi con la nostra sensorialità interiore.. ("ora invece hanno un pochettino rimodulato tutte le cose…..io sono stata spostata in un altro ufficio… dopo quell’evento che ho diciamo avuto un pò di anni fà… dovuto anche ad una situazione di stress che vivevo…..perchè…che ne so…per me i cambiamenti …le cose nuove anziché essere presi in modo positivo…io…li prendo sempre in modo negativo…allora io…questa

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cosa che mi sono sposata…che me ne dovevo andare a vivere in un altro paesino…che non era quello in cui abitavo…in un paesino vicinissimo….però…questa cosa del cambiamento mi ha un po’…un attimino…scosso…non ero molto….e ho avuto questo evento…che poi però è finito…si…mmm….quando mi sono sposata…io penso di essere tranquilla con la testa…penso….non ne ho depressione…io non mi sento che c’ho la depressione….io ce l’ho davvero sto fastidio se mi mangio una cosa…mi resta qua…mi resta qua….un corpo estraneo….ogni cosa che mi mangio…mamma mia…dico….mi devo riprendere io stessa…mi sto facendo una cura..dico..per la depressione…tipo che io mi volevo fare forza … dico…io devo mangiare…se no dico muoio se non mangio…queste cose mi venivano per la testa…dico….la devo finire….che cosa sto facendo dico…niente...un periodo….perchè poi ho avuto Giulio ….magari ero…..60 Kg ci pesavo…sicuro….si anche di più di 60 Kg…ero bella in carne…si…ad esempio quest’estate …siamo andati al mare…siamo tornati naturalmente a mare…e tipo io….già iniziavo ad essere…avere dei disturbi più forti…tipo che ne so….io mi ricordo che mio marito comprava il pane…le baguette…ed io tipo…non ne cercavo pane…o cerco il pane quello morbido…o comunque mi mangio la mollica"). Il terapeuta rende concreto il problema evitando generalizzazioni,preconcetti ed auto-inganni ed analizza le “tentate soluzioni” che la paziente mette in atto nell’assunzione di cibo,indagando nella sua storia personale l’eventuale presenza di disordini alimentari pregressi. Si tenta di indagare i gusti alimentari di Viviana sia prima che dopo l'insorgenza del problema (" tutto vorrei mangiare…no no…allora….mi piacerebbe mangiarmi tutte cose…e non me le posso mangiare….e mi dispero…si…si…ora mangio cose che non hanno gusto secondo me…che ne so….ad esempio…quando stavo bene…non mi veniva di mangiare tipo le fave…bollite e fatte a purè…non me le mangiavo per dire…a volte capitava che mia mamma faceva ste cose così….e gli dicevo mamma che è….e lei…dai mangiatele…lo sai che sono sostanziose…io ad esempio tipo mangio…non mangio più la carne perché non la posso ingoiare e mi mangio gli omogeneizzati oppure ad esempio tipo…ste fave così…per essere più sostanziose…perché poi penso posso morire…e mi mangio sti passati a purè …parmiggiano ed olio…a volte la saltavo prima….o una cosa qualsiasi…tipo cornetti…mangiavo tutto….io sono un tipo che mi piace mangiare…ora prima che vado a lavoro…mangio a casa…perché dico poi non posso mangiare fuori…allora la mattina mi alterno…mi mangio a volte il latte …però siccome ho il sospetto di reflusso ed il latte può fare male…sto latte o forse mi accentua comunque sta patologia…anche questo…può essere una forma di reflusso…e quindi a volte mi mangio il latte con i biscotti..plasmon…perché si sciolgono subito e non mi possono dare fastidio…e quindi mi sto mangiando i biscotti a casa col latte…e a volte lo alterno con l’orzo…alcolici niente…tipo domenica…ho avuto invitati a casa mia…ed ho fatto con tanto piacere….le lasagne…per dire…no…le ho mangiate…ma mi sono sentita male…stavo soffocando…stavo morendo…sono dovuta andare nell’altra stanza…senza fare capire niente perché poi mi vergogno...no….no…dicevo mamma sto morendo….dove se n’è andato qua di traverso…si…io sento che mi resta qua…e a volte….quando lo ingoio….io mi rendo conto che devo mangiare…se io non mangio dico muoio"). Il terapeuta analizza le abitudini alimentari familiari ed emerge che anche il fratello della paziente ha il suo stesso problema,anche se lei stessa dice che non è grave come il suo problema "allora mio fratello praticamente…ultimamente…ha questa patologia come la mia…l’anno scorso gli venne per la prima volta…e non capì cos’era…mmm….lui mi dice che ci brucia tutta la gola…mi dice che non riesce….però….mi dice che non riesce a deglutire….dice che non riesce a….però rispetto a me io lo vedo un pochettino meglio".

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Viviana racconta che nella sua storia familiare non ci sono storie di disordini alimentari,sebbene tutti in famiglia avessero una corporatura esile. Ultima di tre fratelli, Viviana ha conosciuto il marito Giuseppe, di 14 anni più grande, all’età di 19 anni mentre studiava. Descrive la sua vita sentimentale per certi versi appagante, insoddisfacente per altri. Oggi la sua vita appare improntata inevitabilmente al ruolo di madre e moglie. Dopo la maternità ha ripreso a lavorare in un paese a circa 2 ore e mezza da casa propria che l’ha costretta a portare il bambino in un asilo nido comunale, in quanto il marito è ingegnere nei cantieri. Inoltre, la difficoltà nella gestione dei ritmi familiari l’hanno costretta per un breve periodo a tornare a vivere nella casa paterna col marito ed il figlio. Il terapeuta cerca di far notare a Viviana un punto di vista diverso della sua vita quotidiana attraverso la tecnica strategica della ristrutturazione. ("ma tu non hai una vita normale…questo è un buon motivo per non affrontare il vero problema che è avere una vita normale per Viviana… vita no stop…questa è .tragica…eh….dovremmo lavorare su questo anche noi……dovremmo trovare il modo di dare a Viviana tanti stop…cioè se uno sta in una situazione difficile …come la sua adesso…dovremmo intervenire anche sulla situazione…perché se io mi sento bella…forte…ed in grado di affrontare…situazioni difficili ….perchè questa vita no stop….ho come l’impressione che sia una vita senza prospettive…o sbaglio? uno dice…mi faccio un periodo con mia mamma….un super periodo finchè mio figlio diventa più grandicello…va all’asilo e poi mi metto a vivere per conto mio...lo so….. eh….ce lo possiamo tenere anche per un’altra volta…perché non credo sia l’ultima volta che ci incontreremo…anche se…lei è abituata ad andare dallo psicoterapeuta una volta…e poi non ci va più…uhm…questa è la vita di Viviana eh……solo la vita di Giulio…la vita di Giuseppe…la vita di mamma…la vita di….ma di Viviana…solo parlando della gola di Viviana….ma Viviana c’ha i capelli…gli occhi…il naso…la bocca…le spalle…fino ai piedi….staremo un quarto d’ora per dire che Viviana non è solo la gola di Viviana…ma cosa fa lei per tutto….oltre alla gola….benissimo lei c’ha male qui…e mi occupo della gola….ma chi si occupa di Viviana..no….ma cosa fa per Viviana mi chiedo…a 34 anni ….cioè mi chiedo….vita no stop….ottima mamma…moglie abbastanza ….voglio dire senza nessun problema…figlia….eh…..ma Viviana dove sta….lei non si è nemmeno permessa….voglio dire prima di 19 anni era una ragazzetta…una ragazzina…non ha mai avuto una vita per Viviana ….quanti viaggi da sola fa?ma quando lei mi parla di vita no stop…ho la sensazione che lei non c’ha un futuro…un’immagine…un futuro….questa vita no stop non finirà tra un mese…due mesi…questa vita no stop….Viviana…non se l’immagina nemmeno…come potrebbe finire …cambiare….a meno che….per grandi rivoluzioni….non lavoro… amiche ce ne ha?quale sarebbe una vita normale per Viviana? Che farebbe Viviana se non avrebbe questo problema? Cosa cambierebbe nella vita di Viviana quando non avrà più questo problema?......non riesci nemmeno ad immaginartela tu una vita normale…o si? Te lo riesci ad immaginare? eh…cosa ci dobbiamo fare con questa vita…Viviana non è Giuseppe…può essere un po’ Giulio…sicuramente….ma….tutta questa vita di Viviana deve essere indirizzata verso una gratificazione…un miglioramento della qualità della vita di Viviana….io non so se le persone che ti stanno vicino giocano a favore di questo o giocano contro..non lo so…ma non è questa….la troveremo la soluzione…ma sarà una soluzione anche non facile da….raggiungere…perché sa questi sintomi sembrano cose molto…..molto come dire circoscritti…eh si…è vero….ho come l’impressione che sei una…compressa….non so dirti come…e poi chiaramente viene fuori la rabbia…viene fuori il mal di gola….viene fuori così….viene fuori"). Il punto centrale di questa tecnica è che se il problema può essere visto e vissuto in maniera alternativa, allora può essere ridotto, eliminato dato che la sua esistenza è

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intimamente associata con la prospettiva di coloro i quali sono coinvolti. L’effettiva ristrutturazione della situazione non dipende unicamente dalla reale possibilità di alterare la stessa. Infatti, in alcuni casi, la situazione non potrebbe neanche essere alterata ma, finché essa è percepita diversamente, anche le sue conseguenze potranno essere diverse (Gulotta, Petruccelli, 2005). La ristrutturazione è un aiuto alla persona per riorganizzare il suo modo di capire una situazione. Nel ristrutturare un’idea o concezione, non si mette in discussione l’idea o la concezione ma si propongono diversi percorsi logici e diverse prospettive di approccio a tali idee e concezioni. Non si cambia il contenuto del quadro ma solo la cornice. Nel corso della seduta il terapeuta utilizza una serie di interventi che mirano a proporre diverse alternative alla paziente attraverso l’uso dei paradossi. Viviana viene messa di fronte al cambiamento avvenuto nella sua vita. La psicoterapia breve strategica considera la “realtà” il prodotto di una costruzione personale (Erickson,1982). La pratica clinica mira a sostituire una “realtà”sgradita e limitante, ossia problematica, con una più soddisfacente. Ciò comunque nella consapevolezza che la nuova “realtà” non può essere ritenuta più vera di quella precedente. Nelle parole di Watzlawick et al (1967), “la psicoterapia si occupa della ristrutturazione della visione del mondo del paziente. Nell'analisi della costruzione del problema, particolare attenzione viene rivolta al sistema percettivo-reattivo del paziente: le specifiche modalità di attribuzione di senso agli eventi e le relative strategie comportamentali messe abitualmente in atto dalle persone costituiscono una solida impalcatura a mantenimento del disagio psichico. Il terapeuta, pertanto, interviene con la finalità di perturbare, in modo strategico, il sistema percettivo-reattivo del paziente”. Un intervento mirato alla ristrutturazione che consiste nell’indurre il paziente ad una ricodificazione d’immagini e percezioni della realtà, mediante lo spostamento del punto di osservazione. Se il problema può essere visto e vissuto in maniera alternativa, allora forse può essere affrontato e gestito in maniera efficace. L’utilizzo della persuasione in psicoterapia strategica comporta un atto che comporta sempre una scelta, un esercizio di libera volontà del paziente, significa, cioè, indurre un cambiamento dell'opinione altrui solo per mezzo di un trasferimento di idee, un passaggio di puri contenuti mentali. Una comunicazione strategica è caratterizzata dal suo essere sempre orientata in direzione di un obiettivo da raggiungere. L’interlocutore, lascia intravedere la possibilità che per un’altra via, attuando un altro comportamento, si potranno raggiungere gli stessi obbiettivi o gli stessi benefici, salvaguardando i propri valori. Il solo fatto che si possa ammettere l’esistenza di altre possibilità distoglie la persona dalla sua rigidità ed apre nuove prospettive. L’obiettivo generale che Viviana si pone è riuscire a non avvertire più la sensazione di morire e soffocare ogni qualvolta mangia qualcosa e riprendere la sua vita normalmente "ma posso guarire da sta cosa…o no?poi penso porca puttana ma proprio a me mi doveva venire….meglio un’altra cosa…ma non questo….che non mi permette di stare serena….non mi permette di condurre una vita normale…io voglio iniziare…seriamente". Il terapeuta a questo punto spiega alla paziente che il suo ruolo sarà direttivo e che lei dovrà fare ciò che lui le dirà. Le prescrizioni di comportamento,utilizzate nel modello strategico,permettono al paziente di fargli sperimentare azioni concrete di vita che rompono il meccanismo di azioni,retroazioni e tentate soluzioni che mantengono il problema. Il terapeuta, quindi, assegna a Viviana due prescrizioni comportamentali dirette:

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x Non parlare del suo problema con la madre ed il marito e di conseguenza non condividere i pasti con loro (Congiura del silenzio);

x Fare una lista delle sue paure;

Si parte dalla convinzione che il cambiamento passi attraverso esperienze concrete, e la prescrizione di sequenze comportamentali, da eseguire tra una seduta e l’altra, ha il fine di far vivere quelle esperienze individuate come portatrici di cambiamento (Verrastro, V., 2004). Le prescrizioni dirette sono quel tipo di indicazioni chiare di azioni da eseguire tese alla risoluzione del problema presentato, o al raggiungimento di uno dei progressivi obiettivi del cambiamento. E’ utile nei casi di persone molto collaborative e che hanno una scarsa resistenza al cambiamento, alle quali è sufficiente dare la chiave di risoluzione del problema, prescrivendo loro come comportarsi di fronte alla situazione problematica in maniera da disinnescare i meccanismi che la mantengono operante. Si sposta così l’attenzione dal singolo individuo al sistema, dall’intrapsichico al relazionale. Particolare interesse è rivolto al modo in cui ognuno comunica e si relaziona non solo con se stesso, ma anche con gli altri e con il mondo. Se è vero che per migliorare bisogna cambiare, questo è possibile solo “agendo”. Quello che diventa prioritario è come fare, quali mosse attuare, quale strada percorrere per arrivare all’obiettivo stabilito, piuttosto che soffermarsi semplicemente sulle cause di un problema o sul perché della soluzione. Quindi, niente analisi del profondo ma analisi delle attuali relazioni che il paziente instaura e immediata modificazione del comportamento disfunzionale. Da qui deriva l’importanza dello studio e della conoscenza di quanto riguarda la vita quotidiana del paziente. Secondo il modello strategico non è necessario che il paziente raggiunga l’insight (cioè la consapevolezza delle cause che in passato hanno determinato un disturbo presente), in quanto i problemi possono essere risolti mediante tattiche mirate a rompere il sistema disfunzionale in cui è caduto (Petruccelli,Verrastro 2012). Al secondo incontro,Viviana appare più rilassata. Racconta che nel periodo trascorso tra una seduta e l’altra, è cambiato il suo modo di approcciarsi al cibo. Un giorno, infatti, ha deciso di provare a mangiare un panino croccante, dopo che per molto tempo non lo assaggiava ho visto in questo periodo che…allora c’è stato un periodo che non sono riuscita a mangiare quasi nulla…mentre ultimamente…sono riuscita a mangiare tipo…mezzo….mi sono detta…un po’ di giorni fa…non sono riuscita a trovare un panino morbido…ed allora mi sono detta…perché non provare quello giusto…che sempre questo coso morbido…che poi ultimamente…questo coso morbido…mi dava ancora più fastidio…tipo che quella mollica diventava una poltiglia…mi dava fastidio…e quindi mi sono detta…quel giorno non c’era…ora mi prendo quello giusto croccante che a me piaceva questo prima…e l’ho…prova...comprato…poi sono arrivata a casa e mamma mia come me lo mangio questo panino…e se poi mi sento male…pensavo..come devo fare non lo so…posso morire? Soffoco….Non respiro…come faccio…quindi mi sono detta…mamma mia…chi se ne importa…ma se gli altri non si soffocano…io non mi devo soffocare neanche se non ho niente….e quindi mi sono mangiata il panino…mi sono messa l’acqua vicino…e mi sono detta…ma….se mi soffoco…soffoco….me lo devo mangiare sto panino….e piano piano….l’ho masticato tantissimo…e poi l’ho deglutito…c'ho impiegato un po’ di tempo…perché l’ho fatto a pezzettini piccolini…perché era bello croccante…mi veniva di addentarlo un po’ di più…c’ho messo il prosciutto dentro…il toast…l’altro giorno mi sono mangiata il toast con la sottiletta e prosciutto…l’ho tostato non tantissimo…e mi sono resa conto che ultimamente…se sono troppo morbidi…mi danno fastidio…tipo che questa mollica diventa….un tappo").

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Il terapeuta cerca di far sì che la paziente possa prospettarsi in una vita senza il sintomo che possa rappresentare allo stesso tempo la definizione di obiettivi specifici concreti da raggiungere per stare bene attraverso l’uso della tecnica del Miracolo ("ogni giorno è un giorno nuovo…se tu dovessi immaginarti… una vita… tra virgolette…felice….senza tutte queste….cose che ti danno fastidio…come te la immagineresti?che cosa faresti di diverso da quello che fai?"). La miracle question ha lo scopo di supportare il paziente nella definizione di un obiettivo terapeutico chiaro e realistico, e di individuare quali risorse egli può utilizzare per raggiungerlo (Verrastro,V.2004). La domanda del miracolo crea un clima di fiducia, stimola la persona a rappresentarsi possibili soluzioni ancora intentate e rileva il suo atteggiamento verso un possibile cambiamento (ibidem). Il terapeuta indaga sulla vita matrimoniale di Viviana e sul suo livello di soddisfazione "ma quando ti….deprimi….ti scoraggi….è solo per il cibo?o ti vengono in mente altre cose che secondo te non c’entrano nulla…la tua vita…è una vita felice indipendentemente da questo….o vorresti essere più felice…io vorrei capire se la tua vita…quanto ti soddisfa…quando dici non felicissima…quali sono i pensieri…che strillano…le cose che non vanno…le cose pesanti". Viviana affronta le difficoltà insite nel suo rapporto coniugale dopo il matrimonio. Si descrive diversa caratterialmente dal marito. Dice di esprimere le sue emozioni con parole ed abbracci a differenza di lui. Il terapeuta cerca di fargli capire come sia inevitabile con la nascita di Giulio perdere di vista la relazione di coppia, ma cerca di farle notare come sia necessario trovare del tempo da condividere assieme per il benessere del proprio figlio. Il terapeuta ristruttura il suo sistema percettivo-rappresentativo cercando far capire alla paziente i vari scenari possibili di un rapporto di coppia attraverso l’offerta di alternative peggiori. Questa tecnica è utilizzata per far eseguire al soggetto i suggerimenti del terapeuta lasciandogli un margine di autonomia nel prendere decisioni e nel trovare nuovi modelli di comportamento (Haley,1976). Il terapeuta utilizza la tecnica della concretizzazione. Dinnanzi a problematiche formulate in maniera generica, lo scopo della tecnica risulta nell'accumulazione di un numero sufficiente di esempi concreti che permettono di incominciare a scorgere i contorni del problema, la maniera in cui il paziente lo percepisce, i ruoli assunti, le diagnosi inespresse ("ma se voi non avete nessuna intimità…cioè non vi fate mai….una passeggiata insieme voi due…non vi fate mai un week end insieme voi due…non vi fate mai…una cenetta romantica…voi due….non fate niente…scusami…voi due…..come coppia…voi c’avete la famiglia e vi siete incaprettati…in questa famiglia…che per altro è un famiglia un po’ allargata…con i suoceri…i genitori…che lo fanno solo per piacere…naturalmente…però…voi due vi siete persi….non so se siete mai stati voi due…forse quando eravate fidanzatini…ne sono convinto….ma secondo te…c’ anche il problema che tu non sai che fare in una storia così?...scusa la volgarità…se tuo marito non ti cerca…o ti cerca…tre o quattro volte dopo che è nato tuo figlio…sono cambiate le cose così quando ti sei sposata o quando è nato tuo figlio…quand’è che hai notato un calo...anche perché se vi perdete voi…e questo è il modo migliore di perdersi…facciamo il solito figlio quando uno non vuole separarsi…ma secondo te…lui c’ha altri modi di avere…una vita sessuale…non lo so…c’ha altre persone…non t’incuriosisce saperlo?non lo so…ci sono donne che quando vedono che il proprio marito non le cerca più…vanno in paranoia…cominciano a controllare i telefonini…non lo so…le peggio cose…ma non è che si sistema perché tu dici così…si sistema se cominci a rendertene conto se ci sta qualcosa che non va…da questo punto di vista…e che forse molto del tuo malessere è legato a quello…tu ti aspettavi un

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matrimonio così….no…non ti aspettavi un matrimonio così…a parte proprio l’atto sessuale…questo non ti stringe la mano…non ti fa una carezza…e quando queste fantasie diventeranno più forti…a quel punto che cosa farà una signora che si sente che il marito….lasciamo perdere…..cominci a stare male…e secondo me…hai iniziato a starci male….e cercherà aiuto…e tu già lo stai facendo…naturalmente per un problema diverso….ma chi lo sa se poi i problemi sono esattamente così staccati dentro di noi…che poi uno sta male ed un po’ quello..un po’ questo…un po’…un’altra cosa che si punta sul mangiare e poi non mangia più"). Viviana inizia a scorgere nella sua vita degli aspetti che prima non aveva mai notato "non lo so…certo è un accumulo di tante cose la mia…al punto che….da capire ha anche un’intensità la vita….comunque viaggio…devo svolgere un lavoro….un impegno della casa….pulizie della casa...un po’ di distacco tra noi due c’è". Se il problema può essere visto e vissuto in maniera alternativa ("si…ma il Buco affettivo…c’è…poi c’abbiamo pure il problema col cibo…di ingoiare…lo stress lavorativo….mia madre sempre in mezzo….per dire…però ci sta…"), allora può essere ridotto o eliminato, dal momento che la sua esistenza è intimamente associata con la prospettiva di chi è coinvolto. Il terapeuta rimanda a Viviana i cambiamenti ottenuti fino a quel momento in vista del raggiungimento dell’obiettivo prefissato "vabbene…signora…io sono molto contento dei tuoi progressi!". Inoltre, cerca di distogliere l’attenzione della paziente dal sintomo, su cui era incentrata tutta la sua vita, attraverso la tecnica del Seminare concetti, che permette a Viviana di prendere consapevolezza del nucleo conflittuale che si cela dietro al sintomo organico, mentalizzando le emozioni nascoste ed attribuendogli un significato. Bibliografia Albarella C., Racalbuto A. (a cura di) (2004). Isteria. Roma:Borla. Alexander, F.G., (1950). Psychosomatic Medicine. New York: Norton, trad. It. Medicina psicosomatica.(1951). Firenze: Giunti-Barbera. American Psychiatric Association. (2001). DSM-IV-TR- Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali. Milano: TextRevisionMasson. American Psychiatric Association, (2014). “DSM-5 Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali”. Milano: Raffaello Cortina Editore. Agenzia Regionale per i Servizi Sanitari, Regione Piemonte. (2013). “Percorso diagnostico terapeutico Assistenziale della disfagia”. Torino. Berti Ceroni G., Grava G. (2005). Psicologizzazione e somatizzazione, due polarità del riduzionismo nella relazione terapeuta-paziente. Psichiatria e Psicoterapia, 24, 101-110. Bloem BR, Lagaay AM, Van Beek W, Haan J, Roos RAC, Wintzen AR. (1990). Prevalence of subjective dysphagia in community residents aged over 87. BMJ; 300: 721-22. Bollas C.(2001). Isteria. Milano: Cortina . Ferro F.M., Riefolo G. (2006).Isteria e campo della dissociazione. Roma: Borla. Dunbar, H.F., (1947). Emotions and bodily changes. New York: ColumbiaUniversity Press; Ekberg O, Hamdy S, Woisard V, Wuttge-Hanning A, Ortega P. (2002). Social and psychological burden of dysphagia: its impact on diagnosis and treatment Dysphagia.17(2):139-46 Erickson, M.H., (1982-1984). Opere.(a cura di) E.L. Rossi. Vol.I La natura dell’ipnosi e della suggestione. Vol.II L’alterazione ipnotica dei processisensoriali, percettivi e

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psicofisiolocici. Vol.III L’indagine ipnotica dei processi psicodinamici. Vol.IV L’ipnoterapia innovatrice. Roma: Astrolabio. Freud S.(1892-1895). Studi sull’isteria. O.S.F. 1. Gulotta, G. (2005). Lo psicoterapeuta stratega. Metodi ed esempi per risolvere i problemi del paziente.Milano: Franco Angeli. Haley, J. (1976). Terapie non comuni. Tecniche ipnotiche e terapia della famiglia. Roma: Astrolabio. Heinroth J.C.A.(1818). Lehrbuch der Störungen des Seelenlebensoder der Seelen-störungen und ihrerBehandlung. Vogel: Leipzig. Kellner, R.(1994). Psychosomatic syndromes, somatization and somatoform disorders. PsychotherPsychosom, 61: 4-24. Lindgren S, Janzon L. (1991). Prevalence of swallowing complaints and clinical findings among 50-79-year-old men and women in an urban population. Dysphagia. 6: 187-192. Lipowski, Z.J. (1987). Somatization: Medicine’s unsolved problem. Psychosomatics, 28: 294-297. Logemann,J. A.(1995). Dysphagia: evaluation and treatment. Folia Phoniatr Logop, 47:140-64. Martin-Harris B.(1999). The evolution of the evaluation and treatment of dysphagia across the Health Care continuum: a historical perspective – inception to proliferation Nutrition. in Clinical Practice, 14 (Suppl.): S13-S19. Nardone, G.,Watzlawick, P. (1997). Terapia Breve Strategica. Milano: Raffaello Cortina Editore. Petruccelli, F.Verrastro, V.(2012). La relazione d’aiuto nella psicoterapia strategica. Milano: Franco Angeli. Verrastro, V.(2004). Psicologia della comunicazione. Milano: Franco Angeli. Watzlawick, P., Beavin, J. H. e Jackson, D. D. (1967). Pragmatica della comunicazione umana. Roma: Astrolabio. 1 Istituto per lo Studio delle Psicoterapie

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La psicoterapia strategica applicata a livello familiare integrata ad un percorso di rieducazione neuropsicologica individuale Psychotherapy strategically applied at the household level integrated to a path of individual neuropsychological rehabilitation Lorena Calandi1 Riassunto In questo lavoro è trattato un caso clinico di Disturbo Pervasivo dello sviluppo - Sindrome di Asperger con un percorso di rieducazione neuropsicologica individuale integrato ad un intervento familiare con l’approccio strategico breve. Dopo una breve introduzione, che descrive il disturbo sul piano qualitativo, esso prosegue con la descrizione del percorso terapeutico effettuato. Il trattamento realizza importanti cambiamenti attraverso la consapevolezza dei membri sul funzionamento del sistema familiare. Parole chiave Approccio strategico breve, disturbo pervasivo dello sviluppo - Sindrome di Asperger, valutazione neuropsicologica. Abstract In this work has treated a case of Pervasive development - Asperger Syndrome with a path of individual neuropsychological rehabilitation concomitant to a family intervention with the strategic approach short. After a brief introduction, which describes the disorder in terms of quality, it continues with a description of the course of treatment carried out. The treatment produces important changes through the awareness of the members on the functioning of the family system. Keywords Strategic approach short, pervasive development - Asperger Syndrome, neuropsychological assessment Introduzione Ogni bambino cresce con ritmi di sviluppo individuali per imparare a camminare, a correre, a parlare, a disegnare, a giocare, a leggere e scrivere, a stabilire rapporti

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sociali e ciò avviene con tempi e modi che dipendono sia dalle sue caratteristiche costituzionali, sia dagli stimoli ambientali che riceve. Quando il percorso di crescita di un bambino si discosta in modo significativo da quello dei coetanei,può rendersi necessario approfondire i motivi dei ritardi o delle atipie che si manifestano in determinate acquisizioni. Non esistono misurazioni precise, soprattutto quando si tratta di valutare competenze presenti o assenti, come camminare o pronunciare le prime parole, ma competenze che si organizzano progressivamente, come disegnare soggetti riconoscibili, giocare con regole adeguate, saper raccontare e farsi capire, ben più difficili da misurare. Nei primi due anni di vita, rallentamenti di pochi mesi nella crescita possono già definirsi come scarti o divari degni di osservazione, mentre durante lo sviluppo i tempi di un ritardo possono allungarsi soprattutto se non sono coinvolte le funzioni più importanti dello sviluppo. Nei bambini possono anche presentarsi comportamenti che appaiono atipici, quali un eccesso di isolamento, instabilità,comportamenti oppositivi o aggressività, e sentimenti intensi di paura, tristezza, rabbia vissuti dagli adulti come sproporzionati e incongrui rispetto al contesto. I criteri che si possono utilizzare per differenziare le situazioni dovute a specifiche crisi evolutive o a disagi temporanei da un vero e proprio disturbo dello sviluppo sono:

x l'ampiezza e la gravità del divario tra ciò che il bambino sa fare e le attese in rapporto all'età e al confronto con i coetanei;

x durata e frequenza dei comportamenti immaturi, inadeguati o bizzarri, sia a livello cognitivo che emotivo.

Un campanello d'allarme si deve accendere solo quando il comportamento diverso del piccolo si discosta in modo significativo da quello dei coetanei, ovvero quando il divario tra ciò che il bambino sa fare e le attese in rapporto all'età e al confronto con gli altri bambini, si rivela ampio e rilevante e quando diventa ripetuta la frequenza dei suoi comportamenti "immaturi, inadeguati o bizzarri". Soltanto in presenza di questi dati intrecciati, è indispensabile prendere in mano la situazione clinicamente, con urgenza, determinazione e in maniera sinergica. Poiché, con l'intervento precoce, i disturbi più lievi possono riassorbirsi quasi completamente, e i più gravi potranno comunque avere una evoluzione migliore e una prognosi più favorevole. I genitori devono evitare d'inseguire il falso mito del “super bambino” a tutti i costi e dedicare attenzione ai suoi reali bisogni, non pretendere performance da piccolo genio ma rispettare l'individualità di ogni piccolo, in modo da saper riconoscere quando un supposto ritardo o un'anomalia comportamentale manifesta le caratteristiche non di un semplice tempo evolutivo diverso, bensì di un reale disturbo dello sviluppo. Essere in grado di valutare precocemente le prime avvisaglie di uno sviluppo atipico oggettivo e autentico determina l’immediatezza dell’intervento e una maggiore possibilità di garantire un risultato medico mirato ed efficace. Quando è presente una patologia, che può interessare lo sviluppo globale di un bambino o alcuni aspetti settoriali della sua crescita, è indispensabile effettuare una diagnosi che non solo inserisca il bambino all'interno di una situazione clinica definita, ma riesca a chiarire qual è il suo profilo di sviluppo in termini di deficit e risorse, punti di forza e punti di debolezza, strategie cognitive utilizzate, modalità e qualità delle relazioni sociali. Se un bambino presenta un disturbo dello sviluppo, ancora di più è fondamentale rispettare i suoi tempi e i suoi modi di conoscere, esprimersi e relazionarsi. Su questo quadro conoscitivo è possibile programmare un intervento terapeutico (sugli aspetti cognitivi, neuropsicologici o psicopatologici) finalizzato a favorire la risoluzione del deficit, a ridurre l'entità e il peso del disturbo nello sviluppo della personalità del

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bambino e a evitare il rischio che difficoltà emotive e relazionali complichino il quadro iniziale. Parallelamente al processo terapeutico del bambino devono essere attivati interventi di supporto psicologico ai genitori per sostenere le loro competenze genitoriali e affiancarli nel percorso di conoscenza ed elaborazione delle difficoltà del figlio. Nei bambini si possono distinguere due tipi diversi di disturbi cognitivi: acquisiti o evolutivi. Si parla di disturbi acquisiti quando, dopo un periodo di sviluppo normale, in seguito ad una lesione neurologica o a una malattia (ad es. in seguito ad attacchi epilettici) si determina un danno e la conseguente perdita di un’abilità precedentemente esistente. Sono, invece, disturbi evolutivi quei casi in cui il disturbo si evidenzia nel corso dello sviluppo, senza la perdita di funzioni precedentemente già acquisite in modo normale. I bambini con disturbi evolutivi mostrano, in confronto ai coetanei, particolari difficoltà nell’acquisire determinate capacità o abilità: linguaggio, lettura, scrittura, calcolo, ecc. Questi disturbi possono assumere un diverso grado di intensità: dal lieve, al moderato, al grave. In ogni caso, occorre intervenire tempestivamente con programmi riabilitativi ad hoc, per impedire l’evoluzione del disturbo in forme più severe. Disturbi evolutivi Con Disturbo Pervasivo dello Sviluppo (DSP), secondo il DSM-IV-Tr (2001), si fa riferimento ad un quadro clinico caratterizzato dalla compromissione di tre aree principali dello sviluppo psichico del bambino, rappresentate da:

x interazione sociale; x comunicazione verbale e non verbale; x repertorio di attività ed interessi.

Le tipologie di disturbo pervasivo dello sviluppo (o disturbo generalizzato dello sviluppo) sono le seguenti: 1. Il disturbo autistico (o autismo); 2. L'autismo atipico; 3. Il disturbo di Rett; 4. Il disturbo disintegrativo dell'infanzia; 5. Il disturbo di Asperger (sindrome di Asperger); 6. Il disturbo pervasivo di sviluppo non altrimenti specificato (PDD-NOS). La sindrome di Asperger, è stata originariamente descritta da Hans Asperger (1944), che trattava alcuni casi le cui forme cliniche somigliavano alla descrizione di Kanner (1943) dell’autismo (problemi con interazione sociale e comunicazione e schemi di interessi limitati e caratteristici). La sua descrizione però vi si differenziava in quanto il linguaggio era in ritardo in modo meno frequente; i deficit di tipo motorio erano più comuni; l’inizio della manifestazione del disturbo si presentava più tardi; tutti i casi iniziali descritti riguardavano solo il sesso maschile. Inoltre, Asperger suggeriva che era possibile osservare alcuni problemi simili anche in altri membri della famiglia, e particolarmente nei padri. Per molti anni, questa sindrome è rimasta fondamentalmente sconosciuta, finchè una serie di analisi di casi realizzati da Lorna Wing (1981), aumentarono l’interesse per questa condizione, determinando un uso sempre maggiore di questo termine nella pratica clinica e un continuo aumento del numero di rapporti di casi e di studi di ricerca. Le caratteristiche cliniche della sindrome descritta abitualmente includono: a) scarsezza di empatia;

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b) interazione sociale unilaterale, inappropriata e senza malizia, poca abilità di formare delle amicizie e conseguente isolamento sociale; c) linguaggio monotono e pedante; d) scarsa comunicazione non verbale; e) profondo interesse in tematiche circoscritte come il tempo, i fatti di trasmissioni televisive, gli orari ferroviari o le carte geografiche che, memorizzate in modo meccanico, riflettono poca comprensione conferendo inoltre un’impressione di eccentricità; f) movimenti goffi, maldestri e posture bizzarre. Il soggetto può parlare incessantemente di un argomento favorito, spesso non arrivando a una conclusione ed i tentativi dell’interlocutore di cambiare discorso o intervenire sul contenuto restano frustrati. Dal punto di vista del funzionamento sociale, sono spesso soggetti isolati, pur rendendosi conto della presenza degli altri e pur tentando approcci, che risultano però inappropriati, poiché è spesso presente un’insensibilità verso i sentimenti e le intenzioni altrui. I bambini affetti da questa patologia non sono infatti in grado di dare significato alla comunicazione non verbale degli altri. Nonostante Asperger avesse originariamente descritto la presenza di questa condizione unicamente in persone di sesso maschile, che ne hanno più probabilità di esserne affetti, attualmente vi sono pure casi di persone di sesso femminile. Anche se risulta che la maggior parte dei bambini affetti da questa condizione si situano nei normali parametri di intelligenza, in alcuni di loro è stato riscontrato un leggero ritardo. L’apparente inizio della condizione, o perlomeno la presa di coscienza di essa, ha luogo probabilmente un po’ più tardi dell’autismo. È possibile che ciò sia dovuto al fatto che le proprietà di linguaggio e le abilità cognitive sono migliori. La condizione tende ad essere molto stabile nel tempo e le più alte capacità intellettive osservate suggeriscono, a lungo temine, un miglior esito di quanto tipicamente osservato nell’autismo. I soggetti possono essere in grado di descrivere, correttamente e con dovizia di particolari, le emozioni e le intenzioni altrui, tuttavia non sanno agire sulla base di queste conoscenze e restano rigidamente attaccati alle norme e alle convenzioni sociali. Sono invece presenti singolari isole di abilità, che possono essere coltivate così assiduamente da ignorare o impedire lo sviluppo di altre. Dal punto di vista motorio, sono soggetti goffi, con deficit significativi delle abilità visuo-percettive. Infine, il livello cognitivo risulta nella norma, anche se con significativa prevalenza del quoziente intellettivo verbale su quello di performance. È necessario prendere in considerazione sia i punti di forza sia i punti di debolezza della persona stessa, fornendo quindi un intervento individualizzato che risponda a questi bisogni (valutati e monitorizzati in modo adeguato). Apprendimento non verbale In neuropsicologia è stata dedicata una grossa parte della ricerca al concetto di Rourke (1989) sulla sindrome del disturbo di apprendimento non verbale (NLD). Il contributo principale di questa linea di ricerca è stato il tentativo di tracciare le implicazioni sullo sviluppo sociale ed emozionale del bambino con un profilo neuropsicologico singolare di abilità e deficit, che sembra avere un impatto deleterio sia sulle capacità di socializzazione, sia sugli stili interattivi e comunicativi della persona. Le caratteristiche neuropsicologiche degli individui con il profilo della disabilità di apprendimento non verbale includono deficit nella percezione tattile, nella coordinazione psicomotoria,

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nell’organizzazione visuo-spaziale, nella risoluzione di problemi non verbali e nell’apprezzamento dell’assurdo e del senso dell’umorismo. Gli individui con disabilità di apprendimento non verbale manifestano anche ben sviluppate capacità meccaniche verbali e di memoria verbale, ma delle difficoltà ad adattarsi a situazioni nuove e complesse, troppo attaccamento a comportamenti stereotipati in tali situazioni, nonché dei deficit in aritmetica meccanica rispetto alle capacità di lettura di singole parole, poca pragmatica, parlata monotona, e difficoltà significative nella percezione e nel giudizio sociale e nelle abilità d’interazione sociale. Vi sono difficoltà notevoli nell’apprezzamento di sottili e abbastanza ovvi aspetti non verbali della comunicazione, i quali spesso hanno come conseguenza il disprezzo e il rifiuto da parte di altre persone. Come risultato, gli individui con disabilità di apprendimento non verbale manifestano una forte tendenza a ritirarsi socialmente e sono a rischio di sviluppare dei seri disturbi dell’umore. Molti degli aspetti clinici della disabilità di apprendimento non verbale sono stati descritti anche nella letteratura neurologica come una forma di disabilità di sviluppo di apprendimento dell’emisfero destro (Denckla, 1983; Voeller, 1986). I bambini affetti da questa condizione mostrano dei disturbi profondi nell’interpretazione e nell’espressione affettiva e in altre abilità interpersonali di base. Infine, un ulteriore termine presente nella letteratura, il disordine semantico-prammatico (Bishop, 1989), riporta ugualmente degli aspetti del disturbo di apprendimento non verbale e della sindrome di Asperger. Al momento, non è chiaro se questi concetti descrivano delle entità differenti o se, ciò che è più probabile, diano delle prospettive differenti di un gruppo eterogeneo, ma in sovrapposizione, di disturbi che hanno in comune almeno alcuni aspetti. Definizione categoriale Come definiti nel DSM-IV (APA, 1994), i criteri per la Sindrome di Asperger prevedono: A. Compromissione qualitativa nell’interazione sociale, come manifestato da almeno 2 dei seguenti: 1) marcata compromissione nell’uso di diversi comportamenti non verbali come lo sguardo diretto, l’espressione mimica, le posture corporee e i gesti che regolano l’interazione sociale; 2) incapacità di sviluppare relazioni con i coetanei adeguate al livello di sviluppo; 3) mancanza di ricerca spontanea della condivisione di gioie, interessi o obiettivi con altre persone (per es. non mostrare, portare o richiamare l’attenzione di altre persone su oggetti di proprio interesse); 4) mancanza di reciprocità sociale o emotiva. B. Modalità di comportamento, interessi, e attività ristretti, ripetitivi e stereotipati, come manifestato da almeno uno dei seguenti: 1) dedizione assorbente ad uno o più tipi di interessi stereotipati e ristretti, che risultano anomali o per intensità o per focalizzazione; 2) sottomissione del tutto rigida ad inutili abitudini o rituali specifici; 3) manierismi motori stereotipati e ripetitivi (per es., sbattere o torcere le mani o le dita o movimenti complessi di tutto il corpo); 4) persistente eccessivo interesse per parti di oggetti. C. L’anomalia causa compromissione clinicamente significativa dell’area sociale, lavorativa o di altre aree importanti del funzionamento. D. Non vi è un ritardo del linguaggio clinicamente significativo (per es., all’età di 2 anni sono usate parole singole, all’età di 3 anni sono usate frasi comunicative).

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E. Non vi è un ritardo clinicamente significativo dello sviluppo cognitivo o dello sviluppo di capacità di auto-accudimento adeguate all’età, del comportamento adattivo (tranne che nell’interazione sociale) e della curiosità per l’ambiente nella fanciullezza. F. Non risultano soddisfatti i criteri per un altro specifico Disturbo Generalizzato dello Sviluppo o per la Schizofrenia. Deficit d'interazione sociale Individui con la sindrome di Asperger sono spesso isolati socialmente, ma non sono inconsapevoli della presenza degli altri, anche se i loro approcci possono risultare inappropriati e strani. Essi possono per esempio ingaggiare un interlocutore, spesso un adulto, in conversazioni unilaterali caratterizzate da un modo di parlare interminabile, pedante e volte a un argomento preferito, spesso inusuale e limitato. Inoltre, anche se gli individui con sindrome di Asperger descrivono spesso sé stessi come dei solitari, dimostrano frequentemente un grande interesse a stringere amicizie e incontrare della gente. Questi desideri sono invariabilmente ostacolati dai loro approcci goffi e dall’insensibilità verso i sentimenti delle altre persone, le loro intenzioni e le comunicazioni non verbali e implicite (per esempio segni di noia, fretta di congedarsi e necessità di privacy). Riguardo all'aspetto emozionale della transazione sociale, gli individui con la sindrome di Asperger possono reagire in maniera inappropriata nel contesto di un’interazione affettiva, o anche sbagliare nell'interpretarne il suo valore, mostrando spesso un senso di insensibilità, di formalità o d’indifferenza nei confronti dell'espressione emozionale dell'altra persona. Nonostante ciò, possono essere capaci di descrivere correttamente, in maniera cognitiva e spesso formale, le emozioni delle altre persone, le aspettative e le convenzioni sociali, mentre sono incapaci di agire nei confronti di questa conoscenza in maniera intuitiva e spontanea, mancando per questo motivo di "tempismo" nell'interazione. Questa debole intuizione e questa difficoltà ad adattarsi spontaneamente, sono accompagnate da un marcato legame a regole formali di comportamento e a convenzioni sociali rigide. Questo comportamento è ampiamente responsabile dell'impressione di ingenuità sociale e di rigidità comportamentale, che è assai comune tra questi individui. La comunicazione deficitaria Ci sono almeno tre aspetti nelle capacità comunicative di questi individui che sono di interesse clinico. In primo luogo, se le inflessioni e le intonazioni non sono del tutto rigide e monotone come nell'autismo, la parola può essere marcata da una povera metrica. Per esempio, ci può essere una gamma ristretta di intonazioni che sono usate con poca attenzione verso il contenuto comunicativo del discorso (asserzione di fatti, battute di spirito, ecc.). In secondo luogo, il discorso può essere approssimativo o circostanziato, convogliando un senso di imprecisione di associazioni ed incoerenza. Benché in alcuni casi questo sintomo può essere un indice di un possibile disordine del pensiero, la mancanza di coerenza e di reciprocità nel discorso è il risultato di uno stile conversazionale unilaterale e egocentrico. Il terzo aspetto che caratterizza gli schemi comunicativi degli individui con sindrome di Asperger è la marcata prolissità, che alcuni autori considerano come l’aspetto differenziale più importante del disturbo. Il bambino o l’adulto può parlare senza mai smettere, di solito del proprio argomento preferito, ignorando spesso completamente se

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l’interlocutore è interessato, è impegnato, o tenta di intercalare un commento o di cambiare il soggetto della conversazione. Nonostante la possibilità di attribuire tutti questi sintomi, in termini di deficit relativi a capacità pragmatiche e/o a mancanza di intuito e consapevolezza delle aspettative delle altre persone, la sfida rimane di comprendere questo fenomeno in un’ottica di sviluppo, quale strategia di adattamento sociale. Oltre ai criteri specificati e considerati necessari per la diagnosi, c’è un ulteriore sintomo associato alla diagnosi della sindrome di Asperger che non viene però ritenuto come indispensabile per la diagnosi: il ritardo nel raggiungimento delle tappe di sviluppo motorio basilari e la presenza di una "goffaggine motoria". Gli individui con sindrome di Asperger possono avere dei ritardi nell'acquisizione di abilità motorie, come per esempio pedalare, prendere al volo una palla, aprire un barattolo, arrampicarsi su una scala a pioli, ecc. Spesso sono individui visibilmente impacciati caratterizzati da un'andatura rigida, da posture bizzarre, da deboli capacità manipolatorie e da rilevanti deficit nella coordinazione oculomotoria. La Sindrome d'Asperger secondo il DSM-5 Con il DSM-5 (2013) si parla di Disturbi dello Spettro Autistico, definiti all’interno di due sole categorie: “deterioramento persistente nelle comunicazioni sociali reciproche e nelle interazioni sociali in diversi contesti” e “schemi comportamentali ripetitivi e ristretti”, entrambi presenti fin dall’ infanzia, ma possono non diventare manifesti finché le esigenze sociali non superano i livelli di capacità. A loro volta, tali categorie sono descritte attraverso alcuni sintomi, tra cui, per la prima volta, l’ipo o iper sensibilità verso gli stimoli sensoriali. La presenza di tali sintomi deve compromettere o limitare il funzionamento quotidiano. La diagnosi ora richiede la presenza o l’assenza di disabilità intellettiva correlata, di alterazioni del linguaggio, così come di condizioni mediche e genetiche aggregate. La Sindrome di Asperger e il Disturbo Pervasivo dello Sviluppo non Altrimenti Specificato scompaiono e le persone con Autismo appartengono ad uno stesso continuum, piuttosto che costituire entità separate. Ciò che differenzia, secondo il DSM V, e quindi dà origine a “sub diagnosi” è la “gravità” che viene identificata nella necessità di “supporto” . La condizione autistica può richiedere quindi “very substantial support”, “substantial support”, “support”. E' stata sostituita la definizione di “Sindrome di Asperger” con quella di “Spettro autistico”, specificando che la persona interessata non ha disabilità intellettiva, e che non ha necessità di un supporto intensivo. Caso clinico L., 11 anni, ha iniziato un percorso di Training Cognitivo, su richiesta dei genitori, a causa delle sue difficoltà scolastiche in determinate materie. Le strategie che possiede una persona nel suo repertorio non sempre vengono utilizzate. L'intervento rieducativo a tal proposito, punta a valorizzare le capacità e le potenzialità inespresse del ragazzo ed attraverso il fenomeno della plasticità cerebrale permette di sviluppare capacità che risultavano precedentemente inesistenti nel suo repertorio comportamentale. Si tratta, infatti, di un allenamento cognitivo che risulta utile per imparare ad esprimere le potenzialità che il ragazzo possiede e svilupparne delle nuove; infatti col termine

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potenziamento si indica il miglioramento delle abilità di base e l'acquisizione di altre più complesse. Il ragazzo appare goffo, maldestro, non incrocia lo sguardo dell'interlocutore e se lo fa lo discosta velocemente, mostrando un'incapacità a mantenere il punto di fissazione per un tempo prolungato. Fin da piccolo, L., ha sofferto di crisi convulsive febbrili, che hanno portato la famiglia a periodici controlli neurologici, per cui ancora oggi segue una cura farmacologica con medicine che lo portano ad ingrassare e lo costringono a stare a dieta e praticare nuoto. I genitori riferiscono che il suo sviluppo motorio e cognitivo sia stato nella norma, a differenza dell'aspetto linguistico che li ha spinti a sottoporlo ad un trattamento logopedico dall'età di 4 anni fino all'inizio della scuola primaria. Il ragazzo non ha mai avuto problemi scolastici: è sempre stato molto studioso, addirittura troppo meticoloso e preciso nello studio, ma ha evidenziato negli anni difficoltà relazionali con i suoi compagni di classe. Nonostante l'eccessivo tempo dedicato allo studio, tale da impedire qualsiasi altra attività di svago e tempo libero, il suo rendimento scolastico è sempre stato ai limiti della norma, finché nella scuola secondaria, le sue difficoltà cognitive si sono messe in evidenza nello studio di determinate materie. La mamma riferisce che il ragazzo è molto sensibile e fin da piccolo è stato sempre escluso dai suoi compagni, che lo hanno sempre deriso e preso in giro per il suo atteggiamento goffo e il suo scarso tempismo. La valutazione psicodiagnostica evidenzia un'immaturità sul piano emotivo ed affettivo mentre, sul piano cognitivo, l'analisi quantitativa evidenzia un quoziente intellettivo ai limiti della norma in riferimento alla popolazione di riferimento per età e scolarità. Da un'analisi qualitativa, invece, emerge:

x incapacità di astrazione e di pianificazione; x perseverazione e mancanza di flessibilità nella formulazione e nell’uso di

strategie cognitive; x scarsa capacità attentiva e di pianificazione delle azioni; x inadeguato impiego di strategie di problem solving con tendenza alla

perseverazione nei propri errori. x difficoltà nell'orientamento temporo-spaziale, che pregiudicano il processo di

apprendimento di nuove informazioni e la successiva verbalizzazione, causando una erronea selezione dei dati immagazzinati in memoria.

Le difficoltà sono correlate alla tendenza da parte di L. alla ripetizione del modello, con difficoltà nella valutazione e cambiamento della strategia in relazione al compito. Mostra la tendenza ad applicare una strategia risolutoria già sperimentata ma inadatta alla situazione contingente, o a considerare un'unica strategia escludendo a priori strategie alternative. Ciò è noto come impostazione mentale negativa, che porta a considerare come apprendimenti precedenti possano, se non interiorizzati con giusta prospettiva, andare ad influire in maniera controproducente con nuovi apprendimenti in campi similari ma che richiedono processi o strategie differenti. Una particolare forma di rigidità nella soluzione di problemi è la fissità funzionale, un meccanismo mentale consistente nella tendenza a prendere in considerazione gli elementi di un problema secondo il loro uso comune o tradizionale, mentre la soluzione richiede che tali elementi vengano impiegati in un ruolo insolito. Gli apprendimenti passati possono anche essere benefici per la risoluzione di problemi, se utilizzati in maniera creativa, come spunto per produrre analogie produttive tra situazioni diverse. In psicologia infatti la creatività è intesa come la capacità di produrre molte e diversificate idee, di compiere collegamenti tra idee usualmente considerate non aventi elementi in comune (le quali tuttavia possono essere messe in rapporto attraverso

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una serie di passaggi associativi), di ristrutturare le situazioni. Questi elementi consentono una ristrutturazione più ampia del problema, consentendo anche di superare eventuali fissità mentali e generalmente garantiscono una produzione più diversificata di strategie risolutorie e una maggiore facilità nel rapportarsi a situazioni nuove. La mente umana non si limita ad accumulare informazioni ma è anche in grado di cogliere o formare relazioni tra esse. Questa è una capacità collegata allo svolgersi di operazioni cognitive che portano alla costruzione di rappresentazioni mentali che a loro volta costituiscono i contenuti del nostro pensiero. Questi contenuti non devono essere immaginati come entità puramente astratte, ma sono strettamente collegati alle azioni o alle operazioni che da loro conseguono. Inoltre sono sensibili (e lo dimostrano in qualche modo anche gli studi sul condizionamento) alle risposte e agli stimoli dell'ambiente. È anche importante sottolineare come molte operazioni pur se collegate a processi mentali vengano eseguite automaticamente, mentre altre sono prettamente consce e controllate. L. mostra difficoltà nelle capacità sottese ai lobi frontali come la pianificazione, la previsione, il monitoraggio, la flessibilità, l’apprendimento e l’impiego di strategie, l’inventiva, la capacità di giudizio e di critica e l'elaborazione delle informazioni rilevanti. Eventuali carenze in queste abilità si esplicano nelle attività della vita quotidiana, per cui il soggetto tenderà ad adottare soluzioni ovvie e superficiali o può essere incapace di distinguere ciò che è importante da ciò che è irrilevante, ciò che è essenziale da ciò che non lo è, ciò che è appropriato da ciò che è estraneo (Lezak, 2004). La variabile emotivo-motivazionale inoltre ha un ruolo fondamentale, poiché motore di tutto lo stile di funzionamento della persona. Tale variabile si poggia direttamente sulla fiducia nelle proprie capacità di portare a termine con successo delle attività e prende il nome di autoefficacia. La propria autostima, che si raccorda con l’autoconsapevolezza delle proprie capacità, può cambiare nel tempo, grazie ai rinforzi che si ricevono ed alle persone che dimostrano di credere nelle abilità dell’altro. Con L. si è cercato di effettuare un intervento integrato a più livelli:

x rieducazione neuropsicologica delle capacità cognitive deficitarie attraverso l’impiego di esercizi e programmi sulle abilità che risultano compromesse o carenti;

x miglioramento del metodo di studio ed apprendimento di strategie alternative per la risoluzione dei compiti scolastici, lavorando soprattutto nell’ambito in cui si riscontrano maggiori difficoltà;

x sostegno emotivo-motivazionale per imparare ad affrontare le difficoltà che gli si presentano in ambito scolastico e nella vita di tutti i giorni, in conseguenza alle difficoltà relazionali;

x parent training ad orientamento strategico per i familiari, che vengono educati sul significato del disturbo ed a cui vengono insegnate le strategie da utilizzare per gestire le difficoltà e rapportarsi con il bambino.

Intervento strategico familiare Il modello di terapia breve evoluta si focalizza sulle interazioni presenti tra i membri della famiglia e sulle loro storie attorno al problema, tralasciando le considerazioni sulla struttura familiare. Esso nasce dall’integrazione di tre indirizzi di terapia sistemica breve: l'approccio di “terapia breve focalizzata sul problema” del Mental Research Institute (MRI) di Palo

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Alto (Watzlawick et al., 1974), l'approccio di Shazer, (1986) e l'approccio narrativo di White (White, 1992). Il modello evoluto-integrato consente di spostarsi liberamente dal “parlare del problema” al “parlare della soluzione” e viceversa, qualora questo modo di procedere si adatti meglio alle prospettive dei clienti. I genitori giungono al primo colloquio sottolineando le difficoltà scolastiche del ragazzo e manifestando l'interesse nel fargli intraprendere il percorso cognitivo, di cui hanno sentito parlare. Appaiono stupiti alla richiesta di recarsi al primo colloquio senza il ragazzo, mostrando palesemente la loro convinzione che il colloquio effettuato sarebbe stato privo di utilità sul piano clinico. Ciò dimostra la credenza che negli anni si è strutturata nel sistema familiare: "L. è piccolo e bisognoso e necessita della loro protezione". I coniugi sono sposati da 19 anni ed hanno due figli, di cui L. è il più piccolo. La mamma, A., è un’estetista, il papà è un elettricista. A. attacca il marito sulla sua poca presenza a casa, giustificata da lui con gli impegni lavorativi. Lei invece, sostiene di essersi sempre sacrificata per il bene di L., che fin da piccolo ha necessitato della sua presenza a causa dei suoi problemi di salute. Riferisce che L. ha sempre avuto difficoltà a relazionarsi con i compagni di classe, in quanto tutti lo hanno sempre trattato male e deriso, e ciò ha sempre spinto L. a cercare la compagnia di ragazzi più piccoli. Molte volte lei stessa si è recata a scuola a parlare con gli insegnanti, per gli insulti subiti dal figlio, o direttamente con i compagni, "sostituendosi" a lui nella gestione delle situazioni. A. ha deciso di iscriverlo ad un'associazione scout per facilitarne l'inserimento e renderlo autonomo, ma dopo un avvenimento verificatosi al rientro da un'uscita esterna, in cui L. è stato deriso suscitando in lui profondo disagio, A. ha deciso di non rinnovare l'iscrizione. Il padre ascolta senza proferire parola, annuendo con la testa quando la moglie dice che tutto ciò che hanno sempre fatto è per il bene di L. La madre si sente "esaurita", incapace di gestire e far fronte a questa situazione (definizione del problema). Dopo tanti anni, infatti, in cui i problemi venivano disconosciuti, oggi sono diventati più evidenti ed amplificati ai loro occhi, generando, soprattutto nella madre, notevole ansia. A. è una donna precisa, che cerca di controllare tutto e si sente impotente nei confronti delle difficoltà del figlio, dicendo di essere stanca e non sapere più cosa fare per lui. Ha sacrificato il suo lavoro negli anni, riducendone il carico a mezza giornata in modo da poter seguire meglio il figlio, mettendosi "a sua disposizione". Con l'ingresso nella scuola secondaria, L. ha manifestato difficoltà scolastiche: il trattamento neuropsicologico da un lato ha portato nel tempo dei miglioramenti nel suo modo di approcciarsi alla realtà, dall'altro lo ha reso consapevole della sua incapacità di effettuare dei ragionamenti complessi a differenza dei suoi compagni, determinando, attraverso il ritiro dal contatto con l’esterno, un maggiore invischiamento con i genitori, e con la madre in particolare, il porto sicuro su cui può sempre contare e che lo sostiene e lo aiuta. L. infatti, nel corso del trattamento, ha iniziato a lamentarsi con i genitori per tutte le difficoltà che incontra a scuola, pretendendo che la madre si rechi dai docenti a spiegargli quali siano le sue difficoltà. Allo stesso tempo la mamma e il papà, in conseguenza alle sue lamentele e pianti, si dedicano maggiormente al ragazzo, aumentando attenzioni e cure, e ciò aumenta i sintomi, che sono alimentati dal loro stesso tentativo di soluzione, creando anche nel fratello maggiore un atteggiamento di gelosia.

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Per evitare la sera le sue continue lamentele e i pianti sulle sue difficoltà, L. costringe i genitori a farlo studiare, dopo interi pomeriggi trascorsi in un centro che si occupa di doposcuola (Tentate soluzioni). Il loro atteggiamento costituisce in realtà un ostacolo al cambiamento, che per verificarsi necessita di esperienze emozionali correttive più che di riflessioni razionali. L'incessante desiderio di avere un controllo sulla situazione, che non può essere gestita in tempi brevi, viste le difficoltà cognitive di L., genera un atteggiamento familiare ambivalente, per cui da un lato si vorrebbe che L. imparasse a gestire le situazioni (a livello scolastico, con una prestazione migliore) e che diventasse più autonomo, integrandosi con i ragazzi della sua età, ma dall'altro lo si "protegge", ricercando continue giustificazioni alle sue difficoltà e evitandogli le frustrazioni. Nei primi incontri,il terapeuta affida ai genitori un semplice compito: sfruttando la loro capacità di osservare, riflettere e spiegare i fenomeni, chiede loro di spendere quanto più tempo possibile a capire non tanto le cause del comportamento di L., quanto piuttosto i vantaggi che lui ne trae. Nel modello strategico acquista una grande importanza far sperimentare al paziente azioni concrete di vita che rompono il meccanismo di azioni, retroazioni e tentate soluzioni che mantengono il problema. In un approccio sistemico ai problemi, è da considerare che ogni elemento ha la sua funzione, compreso il sintomo. Tale funzione si realizza spesso in un vantaggio che si definisce “secondario”, intendendo con questo che le persone affette da un disturbo traggono dai loro sintomi benefici di qualche tipo. Risulta dunque necessario avere chiaro quale beneficio trae L. dall'evitare le situazioni potenzialmente "pericolose". Allo stesso tempo, attraverso il compito prescritto, si ottiene anche il vantaggio di rendere i genitori consapevoli delle logiche sottese a tale rifiuto. Nel corso delle sedute, infatti, i genitori sembrano più consapevoli dei loro tentativi fallimentari di gestire le situazioni e le difficoltà del figlio, impedendogli di sviluppare un suo punto di vista sulle cose e di attuare quel processo di separazione-individuazione tipico della fase adolescenziale. Grazie a questa loro presa di consapevolezza,il terapeuta attua un processo di ristrutturazione del comportamento di protezione, inteso come eccessivo amore nei confronti del figlio, che gli impedisce di crescere, determinando delle ripercussioni anche sul fratello maggiore che in fase adolescenziale si trova a vivere un periodo particolarmente stressante, che gli causa un blocco nello studio, determinando un sentimento d'impotenza, che lo porta a reagire con l'abbandono scolastico. Nel corso delle sedute di parent training, emerge l'utilizzo di uno stile genitoriale permissivo nell'educazione dei figli, che li ha resi incapaci di gestire le situazioni frustranti ed ansiogene. I figli, infatti, senza delle regole chiare nel loro sviluppo, non hanno avuto un percorso da seguire che gli permettesse di essere autosufficienti ed aperti all'esplorazione, determinando di conseguenza un minor autocontrollo. Un atteggiamento iperprotettivo, infatti, comporta una carenza d'impegno nell'affrontare le nuove situazioni o le regole del vivere insieme. Trasmettere le regole ed acquisirle vuol dire diventare persone costruttive e sviluppare una sensazione di sicurezza e non di dispersione e di assenza di punti di riferimento forti. Il terapeuta affronta continuamente, durante il percorso clinico, il tema dell'educazione facendo degli esempi concreti della modalità di stabilire delle regole su cui i figli possano contare nel corso del tempo. Questa tecnica, definita della concretizzazione, consiste nel fornire all'interlocutore degli esempi concreti che permettano loro di scorgere i contorni del problema, la maniera in cui lo si percepisce, i ruoli assunti e le diagnosi inespresse.

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Viene rimandata ai coniugi la metafora del treno che scivola velocemente sui binari verso una direzione prestabilita, ma che senza manutenzione e controlli periodici rischia di deragliare, deviando il suo percorso. Queste informazioni, sotto forma di feedback che il terapeuta dà ai genitori, consente di attivare una ristrutturazione del problema, una vera e propria ri-codificazione di immagini e percezioni della realtà mediante lo spostamento del punto di osservazione. Secondo Gulotta (1997), la ristrutturazione consiste nel modificare la struttura concettuale ed emozionale di una situazione, ottenendo un'alterazione del significato che le viene attribuito. Il terapeuta, però, evita di colpevolizzare il comportamento negativo dei genitori, attraverso l'evitamento di forme negative, e ri-orientando in chiave positiva le esperienze esposte in terapia. La madre,però, continua ad avere un atteggiamento ambivalente nei confronti del trattamento. Se da un lato si rende conto dell'importanza di un percorso psicologico che aiuti il figlio minore ad acquisire maggiore autonomia, dall'altro non ammette i cambiamenti che il ragazzo ha effettuato grazie ad esso e che hanno assecondato una normale spinta fisiologica legata allo sviluppo tipico della fase adolescenziale. In corso d'opera,il terapeuta utilizza la “miracle question”, che è stata sviluppata da de Shazer nel 1986, particolarmente utile per suscitare le mete di trattamento ed una descrizione particolareggiata della situazione senza il problema. Questa tecnica permette di mettere il soggetto di fronte alla realtà attraverso il riconoscimento indiretto dei progressi avvenuti durante il percorso terapeutico. Inoltre è applicata la “scaling question” utile per assicurare una misurazione quantitativa del problema in modo da valutare il livello al quale vorrebbero trovarsi per considerare il problema risolto. La famiglia ha identificato la situazione del problema su una scala da 1 a 10 (essendo 10 la situazione migliore). Negli incontri con i genitori si esplorano le passate e le presenti tentate soluzioni e si negozia una meta di trattamento separata indirizzando alcune loro aspettative o preoccupazioni. Dopo questa presa di consapevolezza da parte dei coniugi,il terapeuta assegna loro due compiti: osservare senza intervenire, senza fare facce tristi o allegre; evitare di parlare del problema con i figli, la cosiddetta congiura del silenzio, in quanto più se ne parla, più si alimenta la paura dello stesso. All'incontro successivo, la coppia ritorna e si avverte un clima meno teso. Il terapeuta chiede loro se hanno effettuato le prescrizioni e loro hanno ad un certo punto realizzato che i pianti di L. sono finalizzati all’aumento di attenzioni verso di lui, e che forse è questo il vantaggio che rinforza nel figlio certi comportamenti. La nuova consapevolezza rappresenta una diversa visione delle cose. Si chiede loro cosa potrebbero quindi fare di diverso rispetto a quello che hanno finora fatto. I genitori subito aggiungono che pur essendo stati tentati a non intervenire, a volte con minore dolcezza, non avrebbero mai avuto il coraggio di mettere in atto il comportamento. La madre riporta un avvenimento che non riesce a gestire, ovvero l'alzarsi tutte le mattine per andare a scuola, che si trova a circa 1 km, e che diventa un momento drammatico "L. non si sbriga nonostante le nostre insistenze e ci costringe a doverlo accompagnare, perché non riesce a prendere il pulmino". Il terapeuta le dice che deve lasciare che qualche mattina perda lo scuolabus e vada a scuola a piedi, dopo avergli spiegato che non ha tempo per accompagnarlo. Il terapeuta richiama ai genitori un'efficace analogia di Milton Erickson: “quando vostro figlio ha mal di denti, che cosa volete che il dentista faccia? Che gli dia semplicemente un qualche calmante per alleviargli il dolore o che lo curi facendogli male? Perché

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grande o piccola che sia, l’iniezione per l’anestesia locale sarà dolorosa”; immagine che serve ad abbattere eventuali resistenze e pregiudizi relativi alle prossime manovre. Allora viene data loro la prescrizione che ogni mattina devono svegliare L. un po’ prima del solito, e quando è ormai pronto per la scuola, con affetto e calma, spiegargli che capiscono quanto sia importante per lui lamentarsi e così vogliono che lo faccia adesso prima di uscire, per un quarto d’ora, mentre loro possono ascoltarlo con attenzione comodamente seduti sul divano; durante il resto della giornata, se si fosse lamentato, avrebbero dovuto ricordargli che la mattina dopo aveva a disposizione ben quindici minuti per farlo e che doveva quindi rimandare. La seconda richiesta è di comportarsi “come se” non ci fosse il problema per cui sono venuti, né altri problemi, limitandosi ad osservare quello che fa. La manovra di “prescrivere il sintomo” ha la funzione di svuotare di significato il comportamento del bambino privandolo della sua potenza emotiva. Chiedergli di lamentarsi corrisponde ad appropriarsi del suo modo di fare per utilizzarlo in maniera diversa, privandolo dei benefici che procura e quindi della sua funzionalità. E’ un atteggiamento contrario a quello tenuto dai genitori fino ad ora, anche per questo destabilizzante e quindi utile a spezzare il circolo vizioso attraverso nuove esperienze emotive. A questo si affianca uno stratagemma, quello del comportarsi “come se”, che interrompe gli schemi relazionali soliti allontanando l’attenzione dal problema ma soprattutto modificando la tendenza ad interagire solo in funzione di esso. Attraverso questi nuovi comportamenti è veicolato il messaggio che i ruoli sono cambiati e che non c’è più chi si lamenta e chi consola, ma chi parla e chi ascolta, in uno scambio limitato nel tempo e nell’importanza. Nel tempo i genitori si mostrano più rilassati e consapevoli dell'atteggiamento di L. sostenendo che si è notevolmente ridotto e che adesso la sera non fa più storie, come se avesse capito che il gioco è ormai stato smascherato e non funziona più. Riferiscono che non ha mai utilizzato il quarto d’ora del mattino per lamentarsi se non il primo giorno. La terapia prosegue per consolidare i risultati raggiunti, monitorare l’evoluzione positiva del cambiamento, ma soprattutto per lavorare sull’ansia e i timori che il problema ha provocato nei genitori e sulla loro tendenza a trasmetterli al bambino. Queste convinzioni sulle sue difficoltà, se non adeguatamente trattate, possono concretizzarsi in atteggiamenti di sfiducia o peggio ancora di rinuncia, che rendono più difficile il percorso individuale. Per evolvere in una direzione positiva si lavora sulla comprensione e su quanto è necessario fare per aiutarlo, cercando di mantenere una visione realistica del problema. Allo stesso tempo si utilizza un dialogo ricco di metafore e ristrutturazioni per rinforzare le risorse positive individuali e di coppia e per mantenere alta la motivazione al trattamento. Bibliografia American Psychiatric Association. (2001). DSM-IV-TR- Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali. Milano: Text Revision Masson American Psychiatric Association. (2014). DSM-5 Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali. Milano: Raffaello Cortina Editore Asperger, H. (1944). Autistic psychopathy in childhood. (Frith U., trad.). Cambridge: Cambridge University Press. Benton, A. (1968). Differential behavioural effects in frontal lobe disease. Neuropsychologia, 6, 53-60.

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Quando il sesso diventa un problema When sex becomes a problem Simona Nigro1 Riassunto Un’analisi che spiega e differenzia i disturbi sessuali non riconducibili a cause organiche e le parafilie. Nello specifico come la terapia strategica affronta i disturbi sessuali. Attraverso la descrizione di un caso clinico si potrà avere la concretezza dell’approccio utilizzato che si serve di prescrizioni per aumentare la consapevolezza del paziente ed il suo conseguente cambiamento. Parole chiave Sessuologia, disturbi sessuali, psicoterapia strategica, prescrizione del sintomo, consapevolezza e cambiamento Abstract An analysis that explains and differentiates the sexual disorders not due to organic causes and paraphilia. In particular as strategic therapy deals with sexual disorders. Through the description of a clinical case they'll get the concreteness of the adopted approach that use provisions to increase the awareness of patient and his consequent change. Keywords Sexology, sexual disorders, strategic psychotherapy, symptom prescription, awareness and change Per disturbi sessuali si intendono tutte quelle disfunzioni sessuali che incidono sulla realizzazione di una attività sessuale normale comportando un elevato grado di disagio personale e relazionale. Il DSM-5 spiega che per poter parlare di disfunzioni sessuali il problema deve essere presente per una durata minima di 6 mesi ed avere una frequenza del 75%-100%, cioè deve verificarsi la maggior parte delle volte oppure sempre. Oggi le disfunzioni sessuali sono molto presenti nella popolazione e si assiste, rispetto al passato, ad una nuova consapevolezza che porta chi ne soffre, escludendo cause organiche e cliniche, a rivolgersi allo psicologo per comprendere e superare queste difficoltà. Nello specifico quando parliamo di disturbi sessuali dobbiamo riferirci a : Disturbo del desiderio sessuale (maschile e femminile), Disturbo da avversione

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sessuale, Disturbi dell’eccitazione sessuale (eccitazione sessuale femminile e disfunzione erettile) Disturbi dell’orgasmo e Disturbi da dolore sessuale (Dispareunia e Vaginismo). Il DSM-5 indica inoltre che per potersi definire “disturbo” la problematica deve provocare un “significativo stress” con disturbi psicosomatici correlati. Se il disturbo non provoca problemi alla persona che lo manifesta, non può essere fatta la diagnosi di disfunzione sessuale. Differentemente dalle disfunzioni sessuali esistono quelle comunemente chiamate “Parafilie” (dal greco παρά - oltre - φιλία - amore) termine che definisce l'insieme dei comportamenti sessuali che non hanno nulla a che vedere con il classico atto sessuale della riproduzione ma sono impulsi intensi e ripetuti o fantasie e atti sessuali rivolti ad oggetti o situazioni che riguardano:

x oggetti o esseri non umani x ricevere e/o infliggere un'autentica sofferenza fisica o morale (umiliazione) a se

stessi o al proprio partner x bambini o altre persone non consenzienti

Le parafilie, comunemente chiamate perversioni, più conosciute si identificano nel feticismo, nel frotteurismo (eccitamento sessuale derivante dallo strofinamento reale od immaginario verso una persona che non è consenziente) esibizionismo (fantasia nell’esibire i propri genitali in maniera reale o fantastica, masochismo (eccitamento sessuale fantastico o reale nell’essere umiliato o fatto soffrire dal partner) pedofilia (eccitamento sessuale derivante dall’attività sessuale fantastica o reale con minori ) sadismo (eccitazione sessuale fantastica o reale derivante dall’infliggere sofferenza psicologica o fisica al partner) feticismo (eccitazione sessuale derivante dall’utilizzo di oggetti inanimati quali scarpe o biancheria intima) e voyeurismo (eccitazione sessuale derivante dall’osservare, senza essere visti, persone nude o impegnate in attività sessuali). Stoller (1975-1985), sostiene che la crudeltà ed il desiderio di umiliare e di degradare il partner sessuale o sé stessi è il fatto determinante per classificare un comportamento come perverso. Dopo la precedente e doverosa classificazione in questa sede sarà trattata la disfunzione sessuale in rapporto all’approccio strategico. In ambito clinico eziopatogenetico, a parte le disfunzioni sessuali a base organica (anemie, obesità, diabete, malformazioni dell’apparato genitale, infiammazioni locali, malattie endocrine e le intossicazioni da alcol e droghe) tutto il resto che rientra nella sfera dei problemi sessuali è di origine psicologica; la breve specificazione categoriale disfunzioni a base organica e disturbi sessuali propriamente dettisi è resa necessaria per poter inquadrare l’argomento a livello psicologico poiché l’agire un tale comportamento o il soffrire di disturbi nella sfera sessuale rende i soggetti afflitti, ansiosi, disturbati ed estranei ad un sano equilibrio psico-fisico. Purtroppo la storia e la società hanno reso i sani desideri sessuali imputabili di giudizio e di vergogna. Basti pensare ai pregiudizi provenienti dalla religione dove l’atto sessuale deve essere agito solo per fini riproduttivi ed esclusivamente dopo aver contratto matrimonio, al crescere con una educazione rigida dove ogni tentativo di scoperta della propria sessualità veniva represso perché giudicato come sporco ed immorale (si pensi alla masturbazione), agli stereotipi culturali che conducono al rifiuto dell’omosessualità definendola contro natura. Dobbiamo inoltre considerare tutte quelle circostanze che mirando a ledere l’autostima del soggetto ne minano sia la realizzazione che l’ auto-gratificazione.

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Rispetto ai tempi passati, oggi bisogna anche tener presente il bombardamento mediatico sul sesso a cui siamo costantemente sottoposti. Tale visione incoraggia l’esibizione del proprio corpo e della propria potenza sessuale per essere visti, accettati e riconosciuti. Tale fenomeno mediatico suggerisce che il sesso rappresenta l’obiettivo primario per il raggiungimento della felicità e di conseguenza la sua mancata realizzazione ci pone in una situazione di inferiorità, difetto e diversità. Detto ciò appare chiaro che l’atteggiamento della società verso il comportamento sessuale ne determina la funzionalità stessa. Il complesso universo argomentato riporta alla personalità dell’individuo, alle sue mancanze, alle sue ferite ed alle sue aspirazioni e così, tra una piega dell’anima sgualcita ed un sorriso di circostanza ci si ritrova sulla poltrona dello psicologo con la domanda imbarazzata ed a lungo rimandata del “perché non funziono come tutti gli altri”? L’Approccio strategico L’approccio strategico si basa sull’assunto di Milton Erickson che considera” il cambiamento un percorso interpersonale, intriso del suo significato di ristrutturazione dell’esperienza, del comportamento e degli scopi del soggetto stesso, attuabile recuperando e attivando le risorse già presenti nel paziente”(1979). Per condurre il paziente ad un cambiamento si utilizzano stratagemmi comportamentali e una comunicazione persuasiva che trae fondamento anche dall’ipnosi ericksoniana. La strategia è confezionata ad hoc dopo l’analisi della domanda del paziente ed in base a come lui stesso si percepisce a livello interpersonale. La differenza sostanziale tra l’approccio strategico e le altre terapie risiede nel fatto che non si è alla ricerca di una diagnosi e del legame tra presente e passato ma si utilizzano i particolari della vita del paziente per definire l’intervento più appropriato alla risoluzione del sintomo sessuale. Attraverso prescrizioni specifiche, si conduce il paziente ad utilizzare le proprie risorse ed i propri strumenti in maniera diversa e costruttiva. In seno a questo intervento è di fondamentale importanza creare un buon rapporto tra il paziente ed il terapeuta che dirigerà ogni sua mossa in base alle convinzioni, le aspettative, la percezione che ha di sé, del mondo, e di sé nel mondo. Come cita Petruccelli (2013) “l’obiettivo generale consiste nel far sviluppare al soggetto quelle capacità che gli consentono di affrontare al meglio il problema sessuale intervenendo al fine di provocare una crescita personale attraverso la modificazione o l’arricchimento delle competenze sessuali, relazionali e sociali”. Non si dimentichi che la maggioranza dei problemi sessuali che affliggono le persone sono inseriti in un contesto relazionale di coppia e che spesso la “disfunzione” non è altro che lo specchio di un rapporto problematico intriso di una cattiva comunicazione. La prescrizione, in terapia, di puri compiti comunicativi, apparentemente lontani dal problema fisico, consentono al paziente di riscoprire quanto la sua capacità nel dire equivale ad una rinnovata capacità nel fare. Nel tempo sbloccare gli ingranaggi bloccati o disfunzionali rendono la consapevolezza dei comportamenti messi in atto che hanno condotto a quel tipo di problema ed alla sua persistenza. Gli strumenti cardine di questo approccio utilizzati per sbloccare i problemi sessuali sono:

x la prescrizione del comportamento che permette al paziente di interrompere il meccanismo di azione e tentate soluzioni, sperimentare quindi un successo permetterà un buon livello di capacità, competenza e speranza;

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x la prescrizione del sintomo: “prescrivere al paziente ciò che egli sta già mettendo in atto gli restituisce una dimensione attiva del problema” (Haley 1985);

x l’utilizzo del paradosso che consiste in comunicazioni paradossali, illogiche e bizzarre che producono una modificazione percettiva del problema e della credenza che si ha su di esso;

x l’utilizzo della resistenza nei casi in cui le prescrizioni non vengono eseguite e il comportamento problema persiste.

L’utilizzo della resistenza in ambito strategico consiste nel prescrivere proprio la resistenza per smontarne la funzione indirizzando il paziente verso il cambiamento mettendo in luce ogni volta i pericoli e la difficoltà del cambiamento richiesto. In pratica si aggira il “non lo faccio e decido io” con un “lo fai perché non puoi darmela vinta”. Per chiarire questo concetto riporto il racconto degli incontri con un paziente Arriva in studio Luca 47 anni, in anticipo di quindici minuti rispetto all’orario concordato. Luca è un uomo semplice, vestito in maniera sobria, capelli arruffati e con un faccione simpatico. Ha un linguaggio semplice ma dimostra di conoscere tante cose. Mi chiede se può accendersi una sigaretta perché il problema che lo affligge gli crea imbarazzo. Luca riferisce di essere sposato da 25 anni ed anche se in gioventù ha sposato sua moglie pur non amandola, ha imparato a volerle bene ed ha creato con lei una bella famiglia composta da tre figli. Luca dice che il sesso con la moglie è sempre stato assiduo, anche oggi fino a tre\quattro volte la settimana ma ultimamente, durante il rapporto, non riesce a raggiungere l’orgasmo. Questa condizione lo preoccupa e lo spaventa perché dice “non ho mai fallito”. Sembra che la sua più grande preoccupazione sia quella di non riuscire più a dimostrare la sua infallibilità. Dagli sguardi bassi e le spalle incurvate intuisco che c’è qualcosa nel rapporto con la moglie che lo abbatte particolarmente. Mediante domande specifiche Luca ammette che tra lui e la moglie non c’è mai stato un gran dialogo se non mirato alla quotidianità, ai figli ed ai problemi da risolvere. La moglie, racconta, è una donna più giovane di lui di qualche anno, dedita completamente alla famiglia, una gran lavoratrice, senza grilli per la testa e di poche parole. Mi confida che il sesso con lei non ha mai conosciuto alcuna fantasia perché quando ha provato a proporle qualcosa di nuovo o semplicemente ha pronunciato parole eccitanti durante l’atto amoroso, lei si è subito ritratta e l’ha richiamato ad utilizzare un linguaggio più adeguato. Luca inoltre lamenta che la moglie durante i loro rapporti non si spoglia quasi mai ma questo e tutto il precedente descritto, non gli ha mai impedito di soddisfare le sue esigenze. Nonostante i ripetuti fallimenti nelle ultime settimane non rinuncia a provare a fare l’amore con la moglie ma senza buoni risultati. Questi fallimenti lo inducono a provare ripetutamente fino a quando non riuscirà di nuovo. A fine seduta chiedo a Luca di avere un solo rapporto con la moglie. Solo uno e gli dò appuntamento alla settimana successiva. C’è qualcosa che manca al suo racconto. La settimana successiva Luca arriva in studio in anticipo di dieci minuti ed anche se sono libera lo invito ad aspettare in sala d’attesa. Quando si accomoda Luca mi riferisce che ha passato una settimana molto densa lavorativamente che gli ha provocato molta stanchezza. Ha avuto un solo rapporto con la moglie ma anche questa volta non è riuscito a completare il rapporto.

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Decido di spostare immediatamente l’attenzione dal suo problema al piacere della moglie. Così, vengo a conoscenza che la signora, che qui chiameremo Ines, non solo non si spoglia mai durante i rapporti, ma rifiuta ogni posizione che non sia quella classica , non ha mai preso l’iniziativa e che durante l’episodio, il primo, in cui Luca ha fallito, Ines gli ha detto “Luca non preoccuparti che tanto a me basta così”. Touchè. La consapevolezza che la soddisfazione sessuale della moglie non fosse correlata al coinvolgimento passionale e amoroso della coppia oltre che fosse del tutto irrilevante la capacità di Luca nel soddisfare Ines, aveva gettato l’autostima dello stesso verso il basso. Non riuscire a mantenere l’erezione a lungo gli dava di volta in volta la percezione che aveva ragione la moglie e che tutti i suoi sforzi erano vani a mantenere vivo un rapporto sessuale soddisfacente. Viveva piuttosto il rapporto sessuale come un qualcosa di meccanico e di soddisfazione legata alla sua riuscita. Senza troppe spiegazioni chiedo a Luca di non parlare più del problema con la moglie. Di non provare nemmeno a dimostrare alla moglie che poteva farcela e di impegnarsi in altre attività come uscire con gli amici. Gli ho prescritto praticamente di non fare sesso perché, ho aggiunto, il problema era serio e necessitava di un periodo di riposo per scongiurare conseguenze drammatiche e definitive. Quel giorno Luca ha lasciato lo studio sollevato. Avevo compreso la gravità del suo problema. La volta successiva Luca arriva con soli cinque minuti di ritardo. Ha tagliato i capelli e mi saluta con un gran sorriso. Racconta di aver fatto come gli ho detto. È uscito con il fratello e con il figlio maggiore. Non ha accennato a nulla con la moglie e non ha provato neanche a sfiorarla. “Mi sento meno oppresso” dice, mentre mi racconta la sua settimana. Decido di continuare la seduta esplorando i suoi desideri, i suoi valori ed i suoi progetti e lui sembra dimenticarsi del problema che l’ha portato fino al mio studio. Al termine della seduta gli chiedo inaspettatamente: “Luca le dò un compito, per questa settimana per tre volte, ma tre volte solamente, cominci un rapporto sessuale con sua moglie ma non arrivi alla fine. Quando avvertirà di essere ad un livello importante di eccitazione, si rivesta e girandosi di spalle a Ines dica ad alta voce “mi basta così, buonanotte”. Luca mi guarda perplesso ma io ferma nella mia richiesta replico “si vesta e girandosi di spalle dica mi basta così, buonanotte”. Luca resta in silenzio e mi guarda con gli occhi sgranati. Vorrebbe ribattere ma la mia fermezza lo fa desistere. Ho osato ma l’audacia potrebbe ripagare. Fisso l’appuntamento successivo dopo 15 giorni. Il giorno stabilito Luca arriva con un quaderno in mano, sorridente ed impaziente anche se non ha alcun anticipo. Si siede non sulla poltrona usuale ma su quella accanto. È soddisfatto e mi racconta che con imbarazzo ha portato a termine la prescrizione. Riferisce che la prima volta Ines è rimasta attonita dal suo comportamento ma lui, ligio al dovere, si è girato di spalle augurando la buona notte. La terza volta mi chiede scusa e si giustifica per non aver potuto svolgere bene il compito assegnatogli poiché al suo tentativo di rivestirsi Ines l’ha bloccato trascinandolo in una rapporto completo e soddisfacente. Ancora non sò se era più felice di aver dimostrato la sua capacità sessuale o aver scoperto il desiderio d’Ines. Oggi Luca ha terminato il suo percorso che nelle sedute successive ha focalizzato l’intervento sulle modalità comunicative e relazionali ma è stato importante riappropriarsi di una capacità diversa dal puro gesto meccanico. Ha scoperto che non sempre le cose hanno una verità oggettiva ma l’idea che abbiamo le rende simili a quello che pensiamo. Cambiare i pensieri aiuta a cambiare le cose.

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Petruccelli F., Verrastro V., (2012). La relazione d’aiuto nella psicoterapia strategica. Milano: Franco Angeli Valentina De Franco1 Filippo Petruccelli e Valeria Verrastro, psicologi, psicoterapeuti e direttori dell’Istituto per lo Studio delle Psicoterapie di Roma, nel testo “La relazione d’aiuto nella psicoterapia strategica” accompagnano il lettore, con grande attenzione e cura, alla scoperta dell’approccio strategico, un approccio nuovo ed originale alla soluzione dei problemi umani caratterizzato da specifiche prassi operative in costante evoluzione (Nardone, 1990). Tale modello pone enfasi sul cambiamento, valutando il funzionamento inadeguato del soggetto, e ponendo attenzione anche agli aspetti contestuali nei quali prende vita il disagio. Analizzando il sistema percettivo-reattivo dell’individuo, il terapeuta va ad aiutare il paziente attraverso interventi focalizzati e brevi, delle vere e proprie strategie utili a migliorare la rappresentazione di sé, degli altri e del mondo. Il testo inizia con la presentazione dei principali autori e prospettive teoriche che hanno contribuito allo sviluppo dell’approccio strategico, Bateson, Haley, Watzlawick ed il fondamentale Milton Erickson con la sua pratica ipnotica; successivamente l’attenzione si sposta in modo più specifico sulla relazione terapeutica, dall’analisi della domanda allo specifico problem solving strategico, dalla conduzione del colloquio clinico alle diverse fasi del trattamento, per concludere con un ampio capitolo che evidenzia la grande importanza della comunicazione persuasiva, efficace e funzionale, l’utilizzo che se ne fa nella terapia, con la presentazione anche degli strumenti specifici principali della strategica (metafore, aneddoti, dialogo, paradossi, prescrizioni di comportamento, ecc.). Si evince, da subito, come il testo racchiudi al suo interno una panoramica precisa sull’approccio e non stupisce, infatti, che sia un testo chiave nella formazione degli allievi che frequentano la quadriennale Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Breve ad Approccio Strategico (di cui gli autori sono tra i principali fondatori). La tesi sostenuta é quella di vedere la relazione d’aiuto come un rapporto utile alla trasformazione di una realtà disfunzionale, alla ridefinizione del problema e del disagio portato in terapia che tenga conto sia della percezione che il soggetto ne ha, ma soprattutto di come si inserisce nel suo funzionamento quotidiano, utile alla presa di coscienza delle proprie tentate soluzioni che portano ad amplificare il senso di fallimento sperimentato e a diminuire la fiducia nelle proprie capacità risolutive, nonché relazione utile al raggiungimento del tanto auspicato cambiamento. Per chi muove i primi passi nel settore e si imbatte “casualmente” nella psicologia strategica, non padroneggiandone né contenuti né strumenti, il valore che il testo assume é quello di guida, essendo a tutti gli effetti un manuale completo ed esaustivo di come l’approccio strategico si traduca nella relazione d’aiuto. Questo per diversi motivi: non solo per la scrittura che risulta chiara ed efficace, rendendo la comprensione del testo abbastanza semplice, ma anche perché l’organizzazione del materiale esposto nei capitoli risulta assolutamente funzionale per un coinvolgimento nella materia graduale,

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coscienzioso e critico. L’opera risulta, infatti, completamente armonica e si trasmette la grande complicità e sintonia dei due autori che, vantando un’esperienza pluridecennale, riescono ad essere chiari e diretti, infondendo nel lettore il loro stesso amore per lo studio delle relazioni umane. Confrontandola con altri testi originari, come il celebre pilastro strategico Change (Watzlawick P., Weakland J.H., Fish R., 1974), l’opera appare quasi una sintesi perfetta, dal momento che anche qui si riserva spazio alle prospettive teoriche, alla formazione e soluzione dei problemi; il linguaggio utilizzato semplifica i concetti principali, offrendo anche diversi esempi pratici che rendono il testo di Filippo Petruccelli e Valeria Verrastro maggiormente fruibile nella pratica strategica. Inoltre, mentre nel testo watzlawickiano si ritrovano ancora molti elementi strettamente connessi ai principi sistemici e costruttivisti, il testo in esame si concentra maggiormente sull’approccio elaborato dal Brief Therapy Center. Possiamo dunque concludere che affinché la relazione d’aiuto sia efficace e il cambiamento auspicato venga raggiunto e perduri nel tempo, padroneggiare la materia, le metodologie e gli strumenti con la piena consapevolezza dei propri punti di forza, ma anche di debolezza, é fondamentale ed é proprio per questo motivo che “La relazione d’aiuto nella psicoterapia strategica” risulta un testo utile per capire, sapere ed operare bene. 1

1 Istituto per lo Studio delle Psicoterapie

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