Tutti gli articoli di Ugo Mattei su Eddyburg.it

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1 Alcuni articoli di Ugo Mattei sul sito web Eddyburg.it riguardandi i “Beni Comuni” Elenco di tutti gli articoli pubblicati da Ugo Mattei sul sito web Eddyburg.it Gli articoli senza collegamento web sono presenti in questa raccolta. Nome dell'articolo: Categoria: Data di pubblicazione: Unire le persone, superare gli steccati Sinistra 04.04.2012 Caro Galli, un treno di luoghi comuni Muoversi, accedere, spostare 29.02.2012 La suprema legge della diseguaglianza Scritti 2012 17.02.2012 Contro l'ideologia delle liberalizzazioni Articoli del 2011 30.12.2011 Non svendere il patrimonio pubblico Invertire la rotta 22.11.2011 Un linguaggio comune Articoli del 2011 16.10.2011 Beni Comuni.Il sipario aperto dal potere del noi Scritti 2011 08.07.2011 Beni comuni.Alla ricerca del diritto di tutti Invertire la rotta 24.06.2011 Il nostro riformismo Articoli del 2011 23.06.2011 Persone comuni alla conquista della storia Invertire la rotta 15.06.2011 Un voto costituente Clima e risorse 12.06.2011 Referendum;. Un nuovo modello di sviluppo, questo l'obiettivo dei SI Il capitalismo d'oggi 10.06.2011 Forme del diritto. Breve genealogia dei beni comuni Invertire la rotta 03.06.2011 La svolta referendaria Articoli del 2011 02.06.2011 Elezioni amministrative e referendum:invertire la rotta Articoli del 2011 13.05.2011 REFERENDUM. Effetto boomerang dello scippo Articoli del 2011 23.04.2011 Ugo Mattei Attenti alla trappola Articoli del 2011 20.04.2011 La legge del comune Scritti 2011 07.04.2011 Acqua o nucleare, la logica è la stessa La questione energetica 18.03.2011 Beni comuni pratiche egemoniche nella rete Il capitalismo d'oggi 01.03.2011 ACQUA PUBBLICA. Il referendum balneare di Maroni Clima e risorse 05.02.2011 Acqua pubblica. Ok la Cassazione, con più fiducia alla Consulta Clima e risorse 12.12.2010 Beni comuni. Un diritto alla libertà oltre lo stato e il mercato Il capitalismo d'oggi 27.11.2010 Come sarebbe la vita senza il manifesto Articoli del 2010 29.10.2010 Oltre l'alternativa tra pubblico e privato. Nel regno delle enclosures Scritti 2010 04.09.2010 ACQUA PUBBLICA. Due ministri e un referendum che non s'ha da fare Articoli del 2010 23.07.2010 La legge dell'acqua Clima e risorse 18.07.2010 Il governo del comune il pianeta salvato dal declino Scritti 2010 27.06.2010 Beni comuni Clima e risorse 23.05.2010 Mezzo milione Clima e risorse 18.05.2010 Un federalismo molto poco «demaniale» Scritti 2010 15.05.2010 Se il Pd non inverte la rotta nella battaglia sull'acqua Clima e risorse 13.05.2010 Pubblico dominio. La suprema legge che espropria i beni comunI Il capitalismo d'oggi 23.04.2010 Battaglie comuni(ste) Articoli del 2010 18.04.2010 Il neoliberismo che piace a sinistra Clima e risorse 06.04.2010 Le mani sul pianeta. Strategie di un imperio secolare Il capitalismo d'oggi 02.04.2010 La legge di Gaia. I grandi predatori di madre terra Il capitalismo d'oggi 14.03.2010 E se reinventassimo il pubblico? Scritti 2010 27.02.2010 Piccole apocalissi. Le possibili vie d'uscita dal capitalismo dei disastri Il capitalismo d'oggi 28.12.2008 Beni a perdere Il capitalismo d'oggi 02.12.2008 La crisi tra passato e presente. Il codice della continuità Il capitalismo d'oggi 03.11.2008 Battitori d’asta per beni messi in comune Scritti 2008 23.05.2008 La lunga marcia della talpa neoliberista Il capitalismo d'oggi 14.05.2008 I conquistadores dell'intelletto generale 13 aprile, prima e dopo 26.03.2008 I guardiani togati del potere economico Il capitalismo d'oggi 26.01.2008 Il virtuosismo celestiale dell'accumulo senza fine Il capitalismo d'oggi 11.01.2008 Un mondo reso schiavo dalla ragione economica Il capitalismo d'oggi 28.12.2007 Le pubbliche fortune dell'individuo proprietario Il capitalismo d'oggi 01.12.2007

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Alcuni articoli di Ugo Mattei sul sito web Eddyburg.it riguardandi i “Beni Comuni”

Elenco di tutti gli articoli pubblicati da Ugo Mattei sul sito web Eddyburg.itGli articoli senza collegamento web sono presenti in questa raccolta.

Nome dell'articolo: Categoria: Data di pubblicazione:

Unire le persone, superare gli steccati Sinistra 04.04.2012Caro Galli, un treno di luoghi comuni Muoversi, accedere, spostare 29.02.2012La suprema legge della diseguaglianza Scritti 2012 17.02.2012Contro l'ideologia delle liberalizzazioni Articoli del 2011 30.12.2011Non svendere il patrimonio pubblico Invertire la rotta 22.11.2011Un linguaggio comune Articoli del 2011 16.10.2011Beni Comuni.Il sipario aperto dal potere del noi Scritti 2011 08.07.2011Beni comuni.Alla ricerca del diritto di tutti Invertire la rotta 24.06.2011Il nostro riformismo Articoli del 2011 23.06.2011Persone comuni alla conquista della storia Invertire la rotta 15.06.2011Un voto costituente Clima e risorse 12.06.2011 Referendum;. Un nuovo modello di sviluppo, questo l'obiettivo dei SI Il capitalismo d'oggi 10.06.2011Forme del diritto. Breve genealogia dei beni comuni Invertire la rotta 03.06.2011 La svolta referendaria Articoli del 2011 02.06.2011Elezioni amministrative e referendum:invertire la rotta Articoli del 2011 13.05.2011REFERENDUM. Effetto boomerang dello scippo Articoli del 2011 23.04.2011Ugo Mattei Attenti alla trappola Articoli del 2011 20.04.2011La legge del comune Scritti 2011 07.04.2011Acqua o nucleare, la logica è la stessa La questione energetica 18.03.2011Beni comuni pratiche egemoniche nella rete Il capitalismo d'oggi 01.03.2011ACQUA PUBBLICA. Il referendum balneare di Maroni Clima e risorse 05.02.2011Acqua pubblica. Ok la Cassazione, con più fiducia alla Consulta Clima e risorse 12.12.2010Beni comuni. Un diritto alla libertà oltre lo stato e il mercato Il capitalismo d'oggi 27.11.2010Come sarebbe la vita senza il manifesto Articoli del 2010 29.10.2010Oltre l'alternativa tra pubblico e privato. Nel regno delle enclosures Scritti 2010 04.09.2010ACQUA PUBBLICA. Due ministri e un referendum che non s'ha da fare Articoli del 2010 23.07.2010 La legge dell'acqua Clima e risorse 18.07.2010 Il governo del comune il pianeta salvato dal declino Scritti 2010 27.06.2010 Beni comuni Clima e risorse 23.05.2010Mezzo milione Clima e risorse 18.05.2010Un federalismo molto poco «demaniale» Scritti 2010 15.05.2010 Se il Pd non inverte la rotta nella battaglia sull'acqua Clima e risorse 13.05.2010 Pubblico dominio. La suprema legge che espropria i beni comunI Il capitalismo d'oggi 23.04.2010 Battaglie comuni(ste) Articoli del 2010 18.04.2010 Il neoliberismo che piace a sinistra Clima e risorse 06.04.2010Le mani sul pianeta. Strategie di un imperio secolare Il capitalismo d'oggi 02.04.2010La legge di Gaia. I grandi predatori di madre terra Il capitalismo d'oggi 14.03.2010E se reinventassimo il pubblico? Scritti 2010 27.02.2010Piccole apocalissi. Le possibili vie d'uscita dal capitalismo dei disastri Il capitalismo d'oggi 28.12.2008 Beni a perdere Il capitalismo d'oggi 02.12.2008 La crisi tra passato e presente. Il codice della continuità Il capitalismo d'oggi 03.11.2008Battitori d’asta per beni messi in comune Scritti 2008 23.05.2008La lunga marcia della talpa neoliberista Il capitalismo d'oggi 14.05.2008I conquistadores dell'intelletto generale 13 aprile, prima e dopo 26.03.2008I guardiani togati del potere economico Il capitalismo d'oggi 26.01.2008Il virtuosismo celestiale dell'accumulo senza fine Il capitalismo d'oggi 11.01.2008Un mondo reso schiavo dalla ragione economica Il capitalismo d'oggi 28.12.2007Le pubbliche fortune dell'individuo proprietario Il capitalismo d'oggi 01.12.2007

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Unire le persone, superare gli steccati Data di pubblicazione: 04.04.2012

Autore: Mattei, Ugo

Le intenzioni che hanno prodotto il “Manifesto” per un nuovo soggetto politico. La questione del lavoro. Il manifesto, 4 aprile 2012

Siamo a qualche mese dall'attacco internazionale al debito pubblico italiano (stabile da molti anni), la risposta alla propria messa in scacco dalla primavera referendaria italiana. Vale la pena soffermarsi a riflettere sullo stato del conflitto fra diverse visioni del mondo simbolicamente rappresentato nella campagna di giugno. La riflessione ha valenza costituzionale perché la partita in corso coinvolge lo stesso patto fondante la nostra Repubblica democratica fondata sul lavoro. Essa coinvolge la stessa concezione della giuridicità nei due campi contrapposti, quello del governo tecnico e quello dell'orizzonte di senso evocato dalla proposta del nuovo soggetto politico. Due sono le norme costituzionali formalmente coinvolte nel conflitto. L'art. 41 (iniziativa economica privata) e l'art. 82 (pareggio di bilancio), ma ben più fondamentale è la partita costituente in corso, perché coinvolge direttamente l'art.1 (il lavoro come fondamento primario del patto costituzionale) e l'art. 3, soprattutto nel secondo comma, che impone alla Repubblica di rimuovere gli ostacoli di fatto che rendono meramente formale l'uguaglianza di cui al primo comma. Si tratta dunque di una partita che colloca al centro la giustizia sociale e la distribuzione dellee risorse. Due punti erano pacifici fra i costituenti e possono considerarsi il nucleo del nostro ordine costituito: l'Italia aderisce a blocco capitalista e tutela tanto la proprietà (art. 42) quanto l'iniziativa economica privata (art. 43). La Repubblica tuttavia, si schiera dalla parte del lavoro (art 1) nel suo conflitto storico col capitale, utilizzando il diritto (pubblico e privato) come strumento a tutela del più debole (il lavoratore) nei confronti del più forte (il datore di lavoro), qualora quest'ultimo abusi del proprio potere mettendo in campo pratiche oppressive o di sfruttamento. In quest'ordine di idee i diritti sono baluardo del debole nei confronti del forte ed il diritto è lo strumento attraverso cui la Repubblica può controllare l' attività privata (per modo che non si svolga in modo contrario alla sicurezza e alla dignità umana). Con lo stesso strumento lo Stato italiano dovrebbe autolimitare il proprio potere (di datore di lavoro, di imprenditore o di proprietario pubblico) facendosi pienamente carico dei propri doveri nei confronti della collettività e del territorio. Questo equilibrio costituzionale, che ha informato per decenni la sensibilità dei giuristi e delle forze politiche di tutto l'arco costituzionale, è stato sovvertito nel ventennio neoliberale. Il diritto, sempre più di frequente si è trovato dalla parte del più forte tornando ad allontanarsi dagli orizzonti tracciati dalla sua lettura costituzionalmente orientata. Naturalmente, tale scelta di campo, prodotta dalla supremazia del potere economico internazionale nei confronti degli Stati, ottenuta attraverso la corruzione di gran parte del ceto politico professionale, comporta una vera e propria trasformazione della stessa funzione del diritto. Esso non deve che lasciar fare affinché il più forte naturalmente prevalga. Si tratta della visione sostenuta in America dagli economisti raccolti nei più prestigiosi (e corrotti) dipartimenti, da ultimo denunciati nello splendido documentario di Ferguson, Inside job. Quest'ideologia, all'opera instancabilmente nella produzione del consenso per il nostro modello di sviluppo suicida, presentato invece come salvifico e necessario, era stata rigettata in Italia tramite i referendum sui beni comuni. Essa ha tuttavia irretito il Presidente Napolitano il quale, piuttosto che operare per il rispetto della volontà popolare,

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ha ritenuto di istituire motu proprio un sistema costituzionale semipresidenziale, promuovendo allo scranno senatoriale prima e poi a Palazzo Chigi, un autentico esemplare di economista neoliberale il quale si è circondato di altri esemplari della stessa rspecie, come la sua ministra del lavoro. Le conseguenze sono disastrose soprattutto in materia di lavoro, settore in cui Monti si era fatto le ossa offrendo alla Commissione Europea la sua consulenza con un rapporto del 2010 che proponeva la cancellazione in toto della giurisdizione sui diritti a favore di mediazioni informali dei conflitti. Tale proposta era così sovversiva della stessa idea di un diritto del lavoro da non esser neppure ripresa per intero dalla recente proposta di regolamento comunitario. Che, tuttavia, giunge a porre sullo stesso piano la libertà di iniziativa economica ed il diritto di sciopero, obbligando le Corti nazionali a «armonizzare questi diritti» quando configgono. Porre sullo stesso piano capitale e lavoro fu un'intuizione del ventennio fascista ed in Italia annienterebbe il residuo senso del già ricordato art. 41 della Costituzione. Del resto Monti ha già cercato di modificare tale norma costituzionale per decreto legge. Per ora la proposta di regolamento comunitario ispirata da Monti è limitata almeno formalmente al c.d. "posting" dei lavoratori (ossia al loro trasferimento a seguito di un'impresa dislocata) ma è abbastanza chiaro che esso costituisce un altro passo avanti nell'attacco al lavoro a favore del capitale e della sua libertà di scorazzare liberamente per il più grande mercato del mondo sperimentando sempre nuove pratiche di sfruttamento. L'idea forte tratta dallo studio di Monti è quella per cui le differenze di potere contrattuale fra capitale e lavoro non possano più essere prese in considerazione dal diritto. Il diritto non può più schierarsi dalla parte dei più deboli ma le corti devono essere neutrali nell'armonizzare i diritti confliggenti dei lavoratori e dell'impresa. Si supera così un nuovo tabù come l'art. 18 o prima di esso il modello Pomigliano. In effetti, il ritorno alla piena mercificazione ottocentesca del lavoro che la conquiste del diritto avevano progressivamente superato è già una realtà. I lavoratori svantaggiati possono oggi esser dati in affitto con lo sconto, grazie a una convenzione fra Fornero e una nota agenzia interinale, restituendo dignità a quella figura di locatio operis con cui i giuristi romani duemila anni fa inquadravano il contratto di lavoro. In un tale quadro reazionario è difficile non prevedere che la riforma dell'articolo 18 ed il licenziamento per ragioni economiche, siano volti principalmente a preparare licenziamenti massicci nel settore pubblico quando la troika ci chiederà di farlo, come già avvenuto in Grecia. Se a questo aggiungiamo la quasi avvenuta modifica dell'art. 82 Costituzione per l' introduzione del pareggio di bilancio (che un Parlamento con la fiducia di meno del 10% degli Italiani sta per approvare in seconda lettura con una maggioranza tale da escludere il Referendum costituzionale confermativo), ben possiamo comprendere la drammatica urgenza democratica di cui parlava Marco Revelli sul manifesto di venerdì. Alcuni di noi, che da ormai oltre due anni stanno sul territorio italiano, praticando la politica di movimento sono ben consci del potenziale politico della resistenza contro il montismo, vissuto da tante persone normali come un nuovo fenomeno postfascista italiano ormai più pericoloso dello stesso berlusconismo. Per noi è giunto il momento di mettere in campo un Comitato di Liberazione Nazionale dalla tirannia del pensiero unico e di farlo con tutte le forze che ancora credono che il diritto debba governare l'economia e non esserne dominato. Unire le persone per bene intorno ad un metodo per superare una situazione drammatica è più agevole che farlo sul merito ed è certamente foriero di potenziali egemonie nuove che superino finalmente vecchi steccati. Di qui il senso di una soggettività politica nuova che sappia stare sempre dalla parte del lavoro e dei beni comuni.

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Caro Galli, un treno di luoghi comuni Data di pubblicazione: 29.02.2012

Autore: Mattei, Ugo

Dura replica allo stupefacente intervento del bravo politologo CarloGalli (in calce), a proposito della TAV Val di Susa. il manifesto, 29 febbraio 2012

Mentre un giovane uomo agonizza fra la vita e la morte in una camera di ospedale, né i lavori fasulli volti ad ingannare l'Europa né il dispositivo mediatico volto ad ingannare il paese hanno il buon gusto di arrestarsi almeno per un po' a riflettere. Il buon senso indica dove stia la responsabilità per la caduta di Luca Abbà. Da una parte duemila agenti armati ed equipaggiati di tutto punto, pronti ad ogni violenza di Stato pur di imporre il dispositivo della legalità illegale, che occupano manu militari, al di fuori da qualunque ritualità giuridica ed ordine costituzionale, ingenti appezzamenti di proprietà privata e comune. Dall'altra, non più di una ventina di coraggiosi militanti No Tav che gli apparati repressivi dello Stato volevano, ancora una volta, schedare ed umiliare, come già avvenuto a Torino in stazione sabato sera. Sabato sera gli apparati repressivi dovevano offrire a quelli mediatici qualche immagine di scontro dopo il bellissimo corteo Bussoleno-Susa ed è per questo che hanno impedito a chi voleva semplicemente scendere da un treno di farlo liberamente, costruendo un pretesto per cariche del tutto gratuite. Che cosa volevano offrire lunedì mattina gli apparati repressivi a quelli mediatici? Forse solo un inseguimento assurdo, condotto da un rambo da strapazzo, vittima a sua volta di quell'ideologia poliziesca che in questo paese post-fascista porta il capo della polizia a guadagnare il doppio del presidente Obama e quasi dieci volte il suo omologo francese! La caduta di Luca Abbà, "evento" effettivamente offerto al carrozzone mediatico, per un giurista va considerato quanto meno causato da una "condotta" posta in essere con "dolo eventuale". L'esito potenzialmente infausto se non direttamente voluto è stato (e da molto tempo) certamente accettato, forse da qualcuno perfino desiderato, per poter accusare i cattivi maestri (così ha fatto l'ex Fronte della Gioventù e oggi deputato Pdl Agostino Ghiglia) o per continuare a descrivere con tono tetro un movimento che dalla pratica del No Tav come bene comune trae invece alta legittimazione di popolo per un modello di sviluppo nuovamente sintonico con la nostra Costituzione, nata appunto dalla Resistenza. Tuttavia, me lo si lasci dire senza alcuna superbia accademica, Ghiglia non è un mio "pari" mentre purtroppo lo è Carlo Galli che su Repubblica pubblica un fondo che ho dovuto leggere due volte, incredulo che un maestro che ho sempre ammirato potesse far da grancassa per un tale insieme di banalità, luoghi comuni (termine che utilizzo qui nella invalsa accezione negativa) e falsità (riprodotte nelle schede offerte in altra parte dello stesso giornale). Secondo l'autorevole politologo, il governo tecnico dovrebbe proprio ora indossare i panni della politica per dire chiaramente ad un popolo disorientato che "indietro non si torna!" rispetto a decisioni prese in sede parlamentare e di trattati internazionali. Indietro non si torna, in particolare, per non ledere la dignità d'Italia rispetto all'Europa che, generosamente, finanzierebbe l'opera. Siamo al giolittiano "ca custa lon ca custa" (in piemontese, parlato anche in Val Susa: costi tutto ciò che deve costare, inclusi i caduti) inciso sulla ferrovia Asmara-Massaua da un Italia coloniale che appunto non doveva perdere la faccia con le potenze rivali nella corsa al saccheggio dell' Africa! Chi a differenza di Galli conosce la questione da vicino anche dal punto di vista giuridico potrà forse ammettere l'esistenza di tale volontà Parlamentare mentre semplicemente non è vero che esistano due «trattati internazionali» che ci vincolerebbero al Tav. L'ultimo accordo sottoscritto con la Francia un paio di settimane orsono non solo singolarmente dichiara al primo articolo di non essere un protocollo di intesa. I civilisti

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direbbero che non è neppure un "contratto preliminare" ma una mera "puntuazione", priva di valore vincolante e comunque in attesa di ratifica parlamentare. Se è vero che soltanto i cretini non cambiano mai idea sarebbe forse il caso che la "politica" invocata da Galli riflettesse sul fatto che la "decisione" fu "presa" oltre vent'anni fa in un momento nel quale sicuramente le condizioni economiche erano meno drammatiche di adesso ed in cui soprattutto si ignoravano ancora interamente gli immensi costi economici, politici umani e sociali che tale grande opera inutile avrebbe inflitto alla società, non certo soltanto Valsusina, ma italiana tutta. La verità è che, come avviene sempre nei casi delle grandi opere che espongono la collettività a spese e rischi ingenti, una scelta politica ponderata avviene in modo graduale, adattandosi alle contingenze che variano nel tempo. La buona politica, quella che non si pone al soldo degli interessi ingentissimi che le grandi opere generano, accompagna le scelte nel corso di questi lunghi processi, registrando con umiltà e rispetto le nuove conoscenze acquisite. Accusare cripticamente il movimento No Tav di leghismo, non dire che le grandi opere generano comparativamente assai pochi posti di lavoro, utilizzare un linguaggio ambiguo sui costi, facendo intendere che il grosso dello sforzo lo farà l'Europa, tacere delle illegalità create cambiando il progetto in corso senza addivenire a nuove gare d'appalto, costituisce una strategia argomentativa che ha come unico scopo l'appoggio ad un'ideologia dominante già fin troppo letale. Il popolo che si è raccolto intorno al movimento No Tav è quello dei beni comuni, che vuole ridiscutere alla luce di questa alternativa di sistema sul se e non soltanto sul come di ogni grande opera che si vuole intraprendere. Galli, che cita la Grecia, dovrebbe sapere che la trappola del debito scatta proprio inducendo gli Stati a grandi spese insostenibili, costruendo dolosamente come decisioni già prese progetti di cui occorre discutere a fondo, soprattutto dato il mutare delle circostanze. La Tav non è stata mai decisa definitivamente né dalla Francia né dall'Italia né dall'Europa. Non è questione di democrazia. Non è onesto né degno di uno studioso della fama di Galli, occultare questa realtà, scomoda soltanto per gli affaristi e gli apparati mediatici che da anni li sostengono.

La Repubblica, 28 febbraio 2012 Il dovere della politica di Carlo Galli LA POLITICA, assieme all´angoscia per la sorte di Luca Abbà, bussa alle porte della Valsusa. E attraverso il conflitto, il rischio, la violenza, sembra voler presentare un conto sgradito e inaspettato – in ogni caso molto caro – a un governo "tecnico", che trae la propria legittimità materiale e contingente dal farsi portatore di istanze "oggettive", di imperativi sistemici decisi da poteri diversi dalla sovranità del popolo italiano. Ed è invece evidente che la politica non si lascia sostituire dalla tecnica, e che al governo Monti, e al ministro Passera, spettano ora misure politiche in senso proprio. Nell´ambito dell´ordine pubblico, in primo luogo, ma soprattutto – e ciò ha valore ancora più apertamente politico – nell´ambito di una franca chiarificazione davanti al Paese di che cosa sia in gioco, ora, intorno alla vicenda della Tav. Si tratta di una partita di grande spessore. La linea ad Alta Velocità che deve unire Torino e Lione è già stata approvata da due parlamenti nazionali, quello italiano e quello francese, e da due Trattati internazionali. È una struttura strategica che viene finanziata con denaro europeo: è una fonte di lavoro per migliaia di operai e tecnici: è una promessa di sviluppo per il complesso del Paese. Il tracciato è stato modificato da un Osservatorio a cui hanno partecipato i territori, che ha discusso per tre anni. È, insomma, una partita a più livelli – europeo, nazionale, locale – in cui la politica si è messa in gioco attraverso procedure democratiche, sia partecipative sia rappresentative: in cui lo sviluppo economico e le sue esigenze è stato mediato, interpretato, incanalato, sui binari della politica. Ora, a questa politica – imperfetta, ma non truffaldina – se ne oppone un´altra, fatta anche di violenza (i fatti dell´estate scorsa) a cui non possono non seguire azioni della magistratura, com´è normale in uno Stato di diritto. E questa politica che si oppone alla politica democratica non è solo violenza, certo, ma neppure la ripudia apertamente. Ma soprattutto è una politica che sta trasformando la Val di Susa, e i disagi dei suoi abitanti, in uno spazio politico che vuole essere

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alternativo rispetto all´assetto della politica contemporanea. Accanto all´ambiguità delle forze politiche di centrosinistra che a Roma approvano la Tav e nei territori vi si schierano contro, per ottenere consenso – e questa è la pratica, non nuova né rivoluzionaria, dell´opportunismo politico – , c´è infatti la lotta dei territori contro un modello di sviluppo e che sconvolge gli equilibri della vita collettiva locale – e questa è la pretesa dell´ecologismo in una sola vallata, peraltro oggi certamente non "vergine" – ; c´è, poi, la spregiudicatezza delle forze di sinistra, che paiono volere abbracciare ogni causa per tentare di rientrare in gioco, assecondando ogni protesta contro le contraddizioni del capitalismo traballante, che oscilla fra il gigantismo e la crisi – contraddizioni che ci sono, certo, ma che in questo caso hanno pesato meno delle affermazioni e delle procedure della democrazia, che troppo disinvoltamente vengono considerate carta straccia. E c´è, accanto a queste, un´altra prospettiva, ancora più radicale. Quella di fare della Val di Susa il punto di coagulo di tutte le forze – in realtà delle debolezze, delle disperazioni, della mancanza di fantasia, della sfiducia nella democrazia – che non vogliono il riequilibrio dell´Italia, il suo rientro nella normalità, e che puntano su una situazione "greca" per innescare un conflitto delegittimante; che vogliono fare della Val di Susa l´incubatoio di altre rivolte nel Paese, che dimostrino l´impopolarità delle politiche che il governo sta attuando, con il consenso della stragrande maggioranza del Parlamento. Alla strategia dell´emergenza, alla retorica dell´iperbole che vede ovunque omicidi di Stato (o del Capitale, o della Grande Finanza), a questa contrapposizione fra maggioranza legale e minoranze ultra-conflittuali, è quanto mai opportuno che il governo apertamente opponga la forza tranquilla di una democrazia "normale": non una risposta reazionaria, quindi, e neppure burocratica, ma una risposta politica che spieghi al Paese che ciò che è stato democraticamente deciso va mantenuto; che l´Italia sta oggi in un contesto europeo con pieno diritto e piena dignità e che non vuole sottrarsi agli impegni liberamente assunti e ratificati, che i nostri partner stanno già eseguendo; che la contestazione del modello di sviluppo è, ovviamente, sempre lecita, ma non può bloccare il funzionamento di quella stessa politica democratica che l´ha resa possibile; che non si può, mentre si discute "come" fare una cosa, tornare a mettere in dubbio "se" farla; che c´è una radicale differenza fra violenza, da una parte, e conflitto politico, dall´altra; che l´Italia non vuole essere la Grecia (con tutto il rispetto per un Paese in una situazione ben più difficile della nostra). Sono, queste, considerazioni politiche che spettano al governo, insieme alle azioni che ne conseguono; ma altre se ne possono aggiungere. Ovvero, che si può anche scommettere contro l´Italia (lo fa la Lega, ad esempio) ma che questa posizione non fornisce particolari credenziali di affidabilità né di acume, e che da forze di sinistra che si candidano a governare questo Paese ci si attendono comportamenti più equilibrati. Che, giocando contro la democrazia per inseguire ogni estremismo, la sinistra non esce dalla propria crisi ma la dimostra e la aggrava. E che, insomma, dalla Val di Susa viene lanciata una sfida che non può essere ignorata: la sfida delle responsabilità e della maturità di tutti, ciascuno per la sua parte.

Non avevamo pubblicato l'articolo di Carlo Galli perchè ci sembrava singolarmente (dato il consueto rigore dell'Autore) disinformato, e meramente ripetitivo di luoghi comuni che in modo convincente erano stati smentiti da argomentate e documentate analisi, riprese da eddyburg (e.s.)

La suprema legge della diseguaglianzaData di pubblicazione: 17.02.2012

Autore: Mattei, Ugo

L’introduzione di nuovi “diritti”, motivati con stati d’eccezione, sta distruggendo i principi base del diritto. Il manifesto, 17 febbraio 2012

Sia in Europa che negli Stati Uniti il principio della «legge uguale per tutti» viene messo in discussione attraverso l'istituzione di norme e assetti legislativi che istituiscono stati d'eccezione per le imprese e il mondo degli affari. Un percorso di lettura sulle tradizioni della civil law e della common law

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Diverse fra le «novità giuridiche» del Decreto Crescitalia sono informate alla polemica nei confronti del formalismo, uno «stile giuridico» dal quale liberarsi al più presto perché esso avrebbe come unico effetto il rallentamento della crescita. La polemica non è nuova, anzi costituisce un leit motiv ripetuto nei piani di aggiustamento strutturale di Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale che nei loro rapporti doing business classificano gli ordinamenti dal più virtuoso al più vizioso proprio in proporzione inversa al tasso di «formalismo giuridico», ossia dei passaggi e dei controlli che il diritto dei vari Stati impone per aprire una attività di impresa. La novità del Decreto Crescitalia, per ora poco discussa, sta nella introduzione di speciali giurisdizioni per l'impresa, vere e proprie corti speciali competenti a conoscere in materia di diritto commerciale. In tal modo il governo tecnico, probabilmente senza particolare consapevolezza, introduce una radicale soluzione di continuità rispetto ad una tendenza, non soltanto italiana, che ha visto nel corso del novecento, il progressivo imporsi di regole sostanziali e di giurisdizione unitarie nella materia del diritto privato (di cui è parte il diritto dell' impresa) proprio al fine di trovare il giusto bilanciamento fra formalismo e libertà economica. Il dogma dei mercanti In effetti, sia nella tradizione di civil law (cui appartiene anche il diritto italiano) che in quella di common law (tradizione anglo-americana) il principio di uguaglianza di fronte alla legge, (La legge è uguale per tutti sta affisso sulle pareti delle aule giudiziarie) nel senso di un unico ordine giuridico che vincola ogni individuo in un determinato territorio a prescindere dallo status o dall'estrazione sociale, può essere considerato un'acquisizione recente. Infatti, il «principio della personalità», secondo cui ogni individuo in una data società è vincolato dalle leggi del proprio gruppo e non da un comune sistema giuridico su base territoriale è una soluzione istituzionale molto più comune ed antica. Anche nei postumi della Rivoluzione Francese, quando egalité era intesa dai Giacobini come sinonimo di un ordine giuridico unico, gerarchico, e centralizzato, sopravviveva un certo grado di pluralismo. All'interno di esso, il più eclatante esempio di regime giuridico basato sulle differenze di status era quello dei mercanti. Perciò l'idea che non tutti gli individui sono uguali e che alcuni di essi meritano un status giuridico speciale, può essere rintracciata all'interno della classica distinzione tra il diritto per i mercanti e quella per il quivis de populo, distinzione centrale sia nella tradizione di civil law che in quella di common law, che il Governo Monti ripropone. In Inghilterra il diritto commerciale è stato per secoli riservato ad una speciale giurisdizione, dotata di regole e avvocatura propria, ed è stato solo dopo la tempestosa presidenza di Lord della più alta Corte ordinaria sul finire del diciottesimo secolo che le corti di common law hanno potuto occuparsi della giurisdizione commerciale letteralmente strappandola alle corti che nei secoli si erano specializzate in questa materia. In Francia e Germania il diritto commerciale è stato incorporato in codici speciali ed amministrato in corti speciali fino ad oggi. Anche negli Stati Uniti, dove il principio dell'uguaglianza di fronte alla legge può essere considerato alla stessa stregua di un dogma religioso, le diverse esigenze della classe mercantile sono state alla base dell'impianto del Codice Commerciale Uniforme oggi sostanzialmente vigente. (Anche se la proposta autorevole di una giuria di mercanti non è stata adottata). Un paternalismo illuminato Questa antica posizione privilegiata dei mercanti, come classe in grado non solo di essere governata da un corpo speciale di disposizioni, ma anche da un sistema giuridico «migliore» in quanto maggiormente informale e più corrispondente ai loro bisogni, non è rimasta intatta nella tradizione giuridica occidentale. Oltre alla già menzionata Inghilterra, tutte le codificazioni più recenti e significative, dalla Svizzera all'Italia, ai Paesi Bassi, si sono rifiutate di offrire ai mercanti codici propri, ed hanno adottato un approccio unitario. La sfida ad un diritto commerciale privilegiato è stata di carattere sia ideologico che tecnico. Eugen Huber, il padre della codificazione svizzera all'inizio del secolo scorso, è

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stato il primo, sulla base delle sue idee socialdemocratiche, a evidenziare che uno status particolare per i mercanti sarebbe stato incompatibile con il principio di uguaglianza di fronte alla legge. In virtù di questo fondamentale principio democratico nessuna categoria può reclamare un trattamento privilegiato (etimologicamente avere una legge privata). Dopo tutto, la Rivoluzione Francese si era scagliata proprio contro i privilegi che l'ancién régime assicurava ai proprietari terrieri. Con il trasferirsi del potere economico dai nobili alla borghesia mercantile, risultava nuovamente inaccettabile per la classe al potere d'essere «più eguale» delle altre. Da un punto di vista tecnico, la critica si basò sul progressivo venir meno delle ragioni che avevano precedentemente giustificato la distinzione tra i codici civile e commerciale. Mentre il diritto civile poteva considerarsi ispirato ad un «formalismo» volto alla protezione del debole (spesso analfabeta) e richiedeva una buona dose di paternalismo illuminato, il diritto commerciale costituiva il terreno dell'informalità, della responsabilità personale e dell'assunzione del rischio. I costi e le lentezze introdotti dal formalismo non si giustificavano fra mercanti. Essi rappresentavano la classe sociale più sofisticata, capace di leggere, scrivere e comprendere le conseguenze dei loro affari. Per questi motivi, il diritto poteva permettere loro d'introdurre nei contratti clausole penali che non potevano essere modificate dalle corti, rilasciare titoli di credito capaci di circolare al portatore, e garantire al silenzio il carattere d'accettazione dell'offerta contrattuale. Il codice commerciale tedesco offre altri esempi come quello del caveat emptor, per proteggere i mercanti da qualsiasi questione basata su difetti riconoscibili della merce non dichiarati subito dopo la consegna, o la previsione di tassi di interesse legale più alti e capaci di riflettere la realtà del mondo degli affari. Un pluralismo di troppo In seguito al miglioramento ed allo sviluppo sociale delle società occidentali, l'analfabetismo non era più così diffuso e per questo il formalismo protettivo risultava meno giustificato. Si è dovuto osservare inoltre che i mercanti non trattano solamente con altri mercanti. È problematico basare la distinzione tra attori del mercato bisognosi della protezione del diritto, in contrapposizione ad altri protagonisti del mercato che non necessitano di una simile protezione, su una classificazione schematica come quella tra mercanti e non. Vari sistemi giuridici hanno utilizzato criteri diversi per stabilire il carattere «commerciale» delle transazioni. Quale diritto dovrebbe essere applicato quando un membro di una classe tratta con un membro di un'altra? Anche qui sistemi giuridici diversi non sono d'accordo in riferimento a questo problema. Esiste una tensione fondamentale che spiega perché questo problema non sia facilmente risolvibile, e certo non lo sia a costo zero, soprattutto se si opta per giurisdizioni separate. Quando il diritto risulta offrire un regime giuridico «migliore» per un gruppo, è spesso perché questo gruppo è abbastanza forte per far pressione sul processo politico che porta alla formulazione del regime giuridico stesso. Se così è, il gruppo che è stato capace di ottenere un regime giuridico speciale lo custodirà gelosamente. Di conseguenza, quando i mercanti interagiscono con i non-mercanti, i primi pretenderanno l'applicazione del loro regime (avendo abbastanza potere per farlo). I cittadini comuni tuttavia, necessitano di protezione, con la conseguenza che quando nasce un conflitto tra le categorie, c'è il bisogno di protezione attraverso norme imperative che valgano per tutti. Una simile scelta, chiaramente, avviene ad opera delle corti, ma avvenendo ex post accresce il tasso di incertezza. Questo problema è stato, ed è tuttora, molto difficile da risolvere nei sistemi giuridici che accettano la distinzione tra diritto civile e commerciale come base per regimi giuridici essenzialmente diversi o, a volte, addirittura per competenze giurisdizionali e tecniche decisorie completamente diverse. Se i giudizi per i mercanti avvengono in corti diverse con regimi diversi rispetto a quelli per i non-mercanti, la scelta diventa cruciale ed è, in se stessa, una importante fonte di costi. Risorse che si pensava di mettere a profitto limitando il formalismo vengono dirottate sulla scelta di quale corte decida ed applicando

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quale diritto. Una tale scelta incide spesso sulla decisione di merito, che risulterà diversa a seconda del sistema di norme che viene applicato. Chiaramente, questo uso delle risorse è talora inevitabile (vedi ad esempio i giudizi internazionali), ma la sua introduzione quando non risulti necessaria, costituisce comunque uno spreco. In cerca di governance Come conseguenza di questo insieme di obiezioni, le più recenti codificazioni di diritto privato hanno unito il diritto civile ed il diritto commerciale. I due corpi di disposizioni si sono influenzati a vicenda e, mentre l'inutile formalismo è stato in via di principio abbandonato, le clausole vessatorie dovute al disequilibrio del potere economico non vengono ammesse nemmeno quando ricorrono tra «mercanti». Tale più avanzato modello unitario riflette il fatto che le transazioni tra mercanti non coinvolgono solo i mercanti. Gli accordi privati fra uomini d' affari producono effetti esterni che essi ben volentieri scaricano sui terzi. Ed infatti, la gran parte del diritto commerciale sviluppatosi in Italia tra il tredicesimo ed il quattordicesimo secolo, e riprodotto in tutto il mondo, ha una natura imperativa, cioè non può essere derogato pattiziamente dai mercanti proprio perché coinvolge altri. Esempi si possono rinvenire nel diritto delle società, ivi inclusi la corporate governance, il diritto fallimentare, ed il diritto dei titoli di credito. La presenza o l'assenza di una norma limitante la libertà di contrarre (per esempio introdurre o meno la forma notarile per costituire una s.r.l.) è un problema che non ha nulla a che vedere con le esigenze di chi contrae ma riguarda l'impatto di tale contrarre sulla sicurezza del mondo esterno. I giuristi, hanno avuto da tempo familiarità con la distinzione tra previsioni imperative (protettive dei terzi) e dispositive (ossia che le parti possono liberamente derogare) e gli artefici dei codici più moderni si sono sforzati di individuare una soluzione interpretativa al problema della distinzione fra le une e le altre. Il Codice tedesco, per esempio, giunge ad una distinzione linguistica piuttosto precisa, utilizzando il termine «può», anziché «deve», in relazione alle previsioni dispositive. Il bilanciamento fra esigenze degli imprenditori e quelle dei non mercanti è uno sforzo estremamente complesso che spetta alla dottrina e alla giurisprudenza e che solo degli sprovveduti possono pensare di operare per decreto legge. Se un regime giuridico fornisce errati incentivi all'attività economica desiderabile, lo fa indipendentemente dallo status sociale degli individui che sono coinvolti. Restituire un foro speciale ai mercanti altro non è che un ennesima operazione ideologica destinata a produrre più costi che benefici.

Contro l'ideologia delle liberalizzazioni Data di pubblicazione: 30.12.2011

Autore: Mattei, Ugo

«Non si può essere di sinistra auspicando un mondo in cui ogni spazio di vita si piega alle esigenze del mercato». Il manifesto, 30 dicembre 2011

Incurante dei referendum, il governo dei professori avanza nella battaglia contro le «lobby» che frenerebbero il libero mercato. Bisogna rompere l'egemonia di una cultura che fa presa anche a sinistra. E dire che non tutto può essere piegato alle esigenze della crescita e della produzione. Con una mancanza di fantasia e di senso della realtà davvero sconcertante, il governo tecnico dichiara di voler incardinare la fase 2 della sua azione sulle liberalizzazioni. Fra i massimi responsabili della crisi globale e del degrado italiano, ai soliti notai e taxisti romani, si aggiungono così, con Repubblica in prima fila, anche i farmacisti, gli avvocati, gli edicolanti. Incurante del senso politico del voto referendario che chiedeva di "invertire la rotta" proprio rispetto al trend neoliberale di privatizzazioni e

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liberalizzazioni, il governo dei professori promette di dare battaglia alle lobby che minano la nostra capacità di "crescere e di competere" sui mercati globali. Con toni diversi sono intervenuti in questi giorni Massimo Mucchetti sul Corriere e Luigi Zingales sull'Espresso. Il primo avanza dubbi quantitativi (condivisibili) sull'urgenza e l'importanza delle liberalizzazioni nei detti settori, che riguarderebbero poche centinaia di milioni di euro, rispetto alla vera "ciccia" che sta altrove, in particolare nel mercato dell'energia e in quello dei trasporti pubblici dove "ballano" le decine di miliardi (qui per la verità balla pure l'esito formale del referendum contro il decreto Ronchi che non riguardava affatto solo l'acqua: ma di questo dopo Napolitano anche Monti pare volersene fare un baffo). Il secondo, con il solito tono di gratitudine sconfinata per quel sistema universitario americano che lo ha salvato dal precariato accademico, racconta di un'Italia profonda in cui "i notabili" (farmacisti, avvocati, notai e banchieri provinciali) perdono il loro tempo a prendere l'aperitivo al bar (dove non si rilascia lo scontrino) per piazzare i propri figli, invece di "produrre" facendo crescere il Pil e partecipare davvero alla competizione globale. Purtroppo anche sul nostro giornale Pitagora non era stato troppo distonico (per fortuna ci siamo riscattati con un Robecchi insolitamente amaro): di liberalizzazioni si parla tanto ma poi non si fanno, proprio come se si stesse parlando di roba per sua natura giusta e desiderabile ma che le contingenze del mondo reale (soprattutto del mondo italico) snaturano e corrompono. Mala tempora currunt se questi discorsi si sentono anche a sinistra (e non intendo il Pd che ne è brodo di coltura). È dunque una vera e propria cultura egemonica, un'ideologia ci dice Mucchetti, quella che va superata. Un'ideologia ben più pervasiva di quella un po' estremista e tutto sommato innocua dei Chicago Boys de' noantri (gli stessi bocconiani al governo sanno che la politica non è una tabula rasa e in qualche modo trattano) che pervade anche chi ben sa (come lo stesso Mucchetti o come Pitagora) che l'economia politica non è un esercizio di astrazione matematica. Per essere intellettualmentre liberi e critici occorre oggi sforzarsi di superare la visione competitiva dell'esistenza, che misura la vita con parametri quantitativi, inducendo senso di colpa in chi non produce o produce meno di quanto potrebbe. Bisognerebbe finalmente rendersi conto che un mondo bello non è una miniera in cui viene premiato il compagno Stakanov ed in cui le menti migliori, come ci dice Zingales, piuttosto che fare i notai fanno gli investment bankers come i più bravi fra i suoi studenti di Chicago. Bisogna che ci si renda finalmente conto che in questo nostro mondo si produce già fin troppo e che il nostro problema non è quello di produrre di più per offrire merci e servizi a costi sempre più bassi, ma di distribuire meglio quanto prodotto, creando tutti insieme un mondo in cui l'esistenza sia per tutti libera, solidale e dignitosa. Certo che il taxi può costare meno, se i taxisti invece di essere parte di un ceto medio-basso che, lavorando duramente, porta a casa uno stipendio decoroso (certo non altissimo) fossero dei lavoratori a cottimo sfruttati che dormono per strada! Ma io credo sarebbe meglio farlo crescere questo ceto medio, piuttosto che umiliarlo laddove esiste. Certo che un pallone di cuoio, cucito a mano da un bambino a Giacarta, può costare anche molto meno al supermercato... ma che criterio di valutazione sociale è mai quello della soddisfazione del consumatore? E poi, al di là della questione etica, oggi sappiamo bene che i beneficiari storici delle liberalizzazioni sono da sempre i grandi oligopoli. Un oligopolio di grandi compagnie con centinaia di taxisti dipendenti, di grandi studi professionali, di banche e assicurazioni o di grande distribuzione colma gli spazi di mercato che le liberalizzazioni aprono. Sappiamo anche bene che i prezzi diminuiscono (forse) in un primo momento ma poi aumentano a dismisura, così come a dismisura aumentano sfruttamento dei lavoratori, stress e dipendenza degli utenti, proprio come avvenuto con il mercato della telefonia mobile. E allora, investire su una riconversione sociale che mette al centro la qualità e la giusta distribuzione significa apprezzare la pace di spirito che deriva dall'acquistare un immobile sapendo che non verrai truffato dalla banca che ti presta i soldi (a questo serve da noi il

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controllo notarile ed è una fortuna che giovani e bravi giuristi si avvicinino a quella professione), pagare tasse sufficienti a che un trasporto pubblico a buon prezzo (non liberalizzato) possa raggiungere tutti gli angoli delle città, garantendo mobilità diffusa ecologica e accessibile a tutti; apprezzare il variopinto colore delle edicole nel cuore delle città e la dignità degli edicolanti che vogliamo parte del ceto medio (possibilmente che vendano anche giornali che non resisterebbero alle pressioni del mercato ma che fanno informazione di qualità); godere di dieci minuti di conversazione col farmacista, sapendo che costui ha sufficiente tempo per studiare ed aggiornarsi e non è un povero commesso sfruttato. Insomma respingere le liberalizzazioni come ideologia significa apprezzare un mondo slow in cui si è contenti che le banche italiane, per incapacità dei loro managers, non si fossero avventurate di più nella competizione globale (anche se non mi piace vedere al governo manager incapaci nel loro campo), o in cui non si è contenti che un governo, fintamente tecnico, sia un migliore esecutore degli ordini odiosi della Bce. Preferisco prendere il taxi sapendo che chi guida ha la pancia piena e non è alla diciottesima ora di lavoro, ma ancora di più preferirei poter prendere un autobus elettrico, guidato da un dipendente pagato il giusto, che mi porta dove devo andare. Quest'ultimo servizio il privato, con la sua logica del profitto, non potrà mai darmelo. Per costruire un mondo migliore non è necessario distruggere quanto funziona di quello che abitiamo. L'ideologia della liberalizzazione non riconosce questa massima di buon senso. Credo che vada detto una volta per tutte. Non possiamo oggi parlare di liberalizzazioni senza tener conto dell'esito del referendum del giugno scorso in cui gli italiani hanno detto di preferire la logica dei beni comuni rispetto a quella della concorrenza. Inoltre, dobbiamo smettere di ritenere che si possa essere di sinistra auspicando un mondo in cui ogni spazio di vita si piega alle esigenze del mercato, della crescita e della produzione.

Non svendere il patrimonio pubblico Data di pubblicazione: 22.11.2011

Autore: Mattei, Ugo

Un appello sensato di fronte a un rischio gravissimo, in una lettera aperta al Corriere della Sera, 22 novembre 2011. Con postilla

Caro direttore, per incassare 6 miliardi, circa l'8% di quanto paghiamo di interessi sul debito pubblico ogni anno, pare andranno in vendita 338.000 ettari di terreni agricoli che oggi sono proprietà pubblica. Se non si farà attenzione, le conseguenze di una tale scelta, che in Africa è nota comeland grab(appropriazione di terra) operata da grandi gruppi multinazionali, potrebbero essere serie, e portarci verso la dipendenza alimentare dall'agrobusiness. Potrebbero derivarne danni sociali ingenti subitiin primisdai nostri piccoli agricoltori che non potendo competere con quei colossi nell'acquistare, finirebbero per vendere anche i loro appezzamenti (come già avvenne quando i latifondisti comprarono le proprietà comuni messe in vendita da Quintino Sella). La scelta di vendere è definitiva e ci riguarda tutti, presenti e futuri. Andrebbe fatta con grande cautela soprattutto quando ci si trova sotto pressione internazionale. Il processo di elaborazione teorica e pratica della categoria giuridico-costituzionale dei beni comuni discende da questa considerazione. Il cambiamento dei rapporti di forza fra settore privato azionario e settore pubblico a favore del primo rende i governi così deboli da non poter operare nell'interesse del popolo sovrano. La necessità urgente di forte tutela giuridica dei beni comuni come proprietà di tutti che i governi devono amministrare fiduciariamente nasce da questo squilibrio di potere prodotto dalla globalizzazione.

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Lo Stato italiano è proprietario, direttamente o tramite enti pubblici, di ingenti beni che fanno gola a molti. Gran parte di questi, che forniscono utilità indispensabili per garantire la sovranità dello Stato o la sua capacità di offrire servizi pubblici, non possono essere trattati come fossero proprietà privata del governo in carica. Alcuni dei beni dello Stato sono costituiti da edifici, acquedotti e terreni agricoli che soccorrono direttamente bisogni fondamentali della persona come coprirsi, bere o nutrirsi. Altri sono infrastrutture, come strade, autostrade, aeroporti, e porti che richiedono un assiduo investimento in manutenzione. Altri sono beni che i giuristi classificano come immateriali come le frequenze radiotelevisive, gli slot aeronautici (per esempio la tratta aerea Milano-Roma), i brevetti ottenuti con la ricerca pubblica, le partecipazioni pubbliche nell'industria produttrice di beni o servizi. Ancora, importanti beni servono allo Stato per erogare i suoi servizi alla collettività: scuole, ospedali, caserme, università, cimiteri, discariche, ambasciate. Ci sono poi i beni culturali: statue, monumenti, dipinti, reperti archeologici, lasciti del passato che dobbiamo trasmettere ai nostri successori. Per farlo occorre mantenerli accessibili a tutti godendone in comune, al di fuori dal modello del «divieto di accesso» che è tipico della proprietà (sia essa pubblica o privata). Beni comuni, governati dalla stessa logica di accesso sono poi i parchi, le foreste, i ghiacciai, le spiagge, il mare territoriale, l'aria da respirare o l'acqua da bere, a loro volta beni di grande valore collettivo il cui ingente valore d'uso non è tradizionalmente patrimonializzato. Sebbene dotato di un patrimonio ingentissimo (fra cui ingenti riserve auree), il nostro settore pubblico è impoverito. I Comuni sono sul lastrico; gli edifici pubblici cadono spesso a pezzi e il territorio non riceve manutenzione. L'Italia è come un nobile decaduto che non sa gestire le sue ingenti proprietà, viene truffato dal maggiordomo e continua a indebitarsi per poter mantenere il proprio dispendioso stile di vita. Proprio come la nobiltà francese finì per svendere i propri palazzi, anche l'Italia, oberata dai debiti, sta vendendo (spesso svendendo) il suo patrimonio pubblico per «far cassa» e tirare avanti. Eppure se il patrimonio pubblico rimasto fosse amministrato davvero nell'interesse comune si potrebbero ottenere parecchi quattrini: molte concessioni (acque sorgive, autostrade, stabilimenti balneari, frequenze radiotelevisive, cave) sono rilasciate molto al di sotto del valore di mercato. La Gran Bretagna dando in affitto il suo etere ottiene circa 5 miliardi di sterline l'anno (grosso modo quanto si incasserebbe vendendo una tantum i terreni agricoli) contro i poco più di 50 milioni di euro che ottiene l'Italia. Una buona amministrazione del patrimonio pubblico richiede sopratutto ordine, chiarezza nelle regole del gioco e democrazia nel decidere sulle cose di tutti. Le regole attualmente vigenti sono obsolete, oscure e quindi agevolmente eludibili. È importante farne di nuove e dotarle di innovativi strumenti applicativi. Una legge delega sulla riforma di beni pubblici predisposta dalla Commissione Rodotà contenente chiarezza su quali beni siano comuni e come vadano amministrati non è mai stata neppure discussa. Proprio nei momenti di maggior crisi sarebbe bene che alla logica della svendita subentrasse quella del buon padre di famiglia. Postilla Il rischio espresso da Mattei è così grave, devastante e imminente che nessun governo composto di persone intelligenti potrebbe ignorarlo. Se, almeno, non fosse inquinato. E purtroppo l'inquinamento del governo Monti risiede proprio in alcuni settori (l'ambiente, lo sviluppo, le infrastrutture) più delicati ai fini della minaccia che grava: sul consumo di energia, sulla sopravvivenza fisica degli umani, sull'asservimento dell esigenze locali alla sovranità del mercato globale sulle esigenze locali e su quello della democrazia e della politica alla sovranità dell'economia data. Un appello, quindi, al quale è necessario che molti aderiscano..

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Un linguaggio comune Data di pubblicazione: 16.10.2011

Autore: Mattei, Ugo

«Occore ridefinire i confini costituzionali dello Stato e allo stesso tempo quelli del profitto e della rendita»Il manifesto, 16 ottobre 2011

È necessario un processo costituente per immaginare la società dei beni comuni e sovvertire l'ordine costituito fondato sulla crescita capitalistica. E per scalzare sia la proprietà privata che la sovranità statuale

Un linguaggio nuovo è ciò che riduce ad unità le battaglie politiche di dimensione globale per i beni comuni che oggi si ritrovano in piazza. In Italia di queste battaglie e della produzione di questo linguaggio il manifesto è stato in questi anni protagonista, fino ad essere riconosciuto esso stesso come un bene comune. Queste battaglie, dall'acqua all'Università, dal Valle di Roma al no Tav della Val Susa, dall'opposizione ai Cie ai Gruppi azione risveglio di Catania, sono declinate in modo diverso nei diversi contesti, ma fanno parte di uno stesso decisivo processo costituente. Muta la tattica ed il suo rapporto con la legalità costituita. Resta costante la strategia costituente che immagina la società dei beni comuni. Ovunque si confrontano paradigmi che travolgono la stessa distinzione fra destra e sinistra, consentendo vittorie clamorose come quella referendaria su acqua e nucleare. Il paradigma costituito fondato su un'idea darwinista del mondo che fa della crescita e della concorrenza fra individui o comunità gerarchiche (corporation o Stati) l'essenza del reale. La visione opposta, fondata su un'idea ecologica, comunitaria solidaristica e qualitativa dello sviluppo, può trasformarsi in diritto soltanto con un nuovo processo costituente, capace di liberarsi del positivismo scientifico, politico e giuridico che caratterizza l'ordine costituito da cinque secoli a sostegno del capitalismo che ancora colonizza le menti e i linguaggi. Il modello costituito è sostenuto dalla retorica sullo sviluppo e sui modi di uscita dalla crisi, che i media capitalistici continuano a produrre, nonostante la catastrofica situazione ecologica del nostro pianeta. L'insistenza mediatica è continua e spudorata ma progressivamente meno seducente e le forze costituenti costruiscono nella prassi quotidiana un mondo nuovo e più bello. L'ordine giuridico costituito è radicato nell'individualismo proprietario, nella sovranità dello Stato sul territorio, e nella stessa visione antropocentrica della modernità (e dell'economia politica) fondata sull'homo oeconomicus e sul survival of the fittest. L'ordine costituente vuole riportare le leggi umane in sintonia con quelle ecologiche, secondo una visione della vita come comunità di comunità, legate fra loro in una grande rete, un network di relazioni simbiotiche e mutualistiche, in cui ciascun individuo (umano o meno che sia) non può che esistere nel quadro di rapporti e di relazioni diffuse secondo modelli di reciprocità complessa. La visione meccanicistica e positivistica, che configura l'ordine costituito come il solo reale è denunciata nelle piazze oggi perché è responsabile di aver portato il mondo sull'orlo del baratro. Ad essa opponiamo una costituente ecologica, collocando al centro la solidarietà, la bellezza, l'immaginazione e la liberazione dal lavoro alienato. L'individuo solitario, la competizione, la meritocrazia e l'uso della tecnica a fini di sfruttamento sono smascherate oggi come l'ideologia letale che legittima la diseguaglianza e l'accumulo senza fine. Se infatti l'individuo solo in natura soccombe, la sua costruzione teorica e la sua spettacolarizzazione sono funzionali alle esigenze di breve periodo dello sfruttamento. L'individuo, reso solo, narcisistico e desideroso di consumare, trova nelle merci e nel rapporto contrattuale il proprio principale orizzonte relazionale. Una condizione umana miserabile che ancora vive della distruzione dei beni comuni e che oggi con gioia e rabbia

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insieme rifiutiamo. L'emersione del linguaggio dei beni comuni e la loro riconquista va quindi compresa nell'ambito di uno scontro politico epistemologico e anche psicologico profondo fra due visioni del mondo. Uno scontro che va tradotto in una prassi politica costituente capace di far trionfare a livello globale in tempi estremamente ridotti la sola concezione scientifica compatibile con il mantenimento e l'adattamento di lungo periodo della vita sul nostro pianeta. Si tratta perciò di predisporre un'alternativa, politica e culturale, che sappia scalzare tanto la proprietà privata quanto la sovranità statuale dal ruolo di pietre angolari dell'organizzazione politica costituita. Ciò è possibile solamente mettendo al centro il comune, ossia riconoscendo la primazia della distribuzione sulla creazione di ricchezza, della qualità delle relazioni sulla quantità del capitale, della bellezza sull'osceno. Poiché gli attuali rapporti di forza fra proprietà privata (corporation) e Stato rendono quest'ultimo succube della prima, la battaglia non può limitarsi a strategie costituite. Esse possono soltanto essere tattica, ancorché talvolta vincente come ha dimostrato la battaglia referendaria condotta ex art. 75 Costituzione. Ridefinire i confini costituzionali dello Stato e allo stesso tempo quelli del profitto e della rendita, secondo un'idea di "meno Stato, meno proprietà privata, più comune" è prassi costituente necessaria che rifiuta oggi le condizioni di realtà create dal dominio e dalla concentrazione del potere. Stiamo costruendo oggi una società ecologicamente sostenibile, coerente con le nostre attuali conoscenze sulla fenomenologia del reale. In questo quadro teorico lottare per un'entità (acqua, università, culturale, rendita fondiaria, lavoro, informazione) come bene comune al fine del suo governo politico-ecologico è una prima radicale inversione di rotta rispetto al trend della privatizzazione e del saccheggio. Ciò tuttavia non può essere circoscritto dalle condizioni costituite che comporterebbero un ritorno del potere nelle mani di un settore pubblico burocratico, autoritario o colluso. La tattica è dunque istituzionalizzare un governo partecipato dei beni comuni capace di restituirli alle «comunità di utenti e di lavoratori» secondo il fraseggio della nostra Costituzione (art. 43), ma la strategia non può che essere costituente, per immaginare cominciando a viverlo da subito, un mondo più bello in cui i beni comuni sono goduti secondo criteri di accesso, di rispetto, di uguaglianza sostanziale, di necessità e di condivisione.

Beni Comuni. Il sipario aperto dal potere del noi Data di pubblicazione: 08.07.2011

Autore: Mattei, Ugo

Ragioniamo sul diritto dei beni comuni, anche a partire dalla vicenda del Teatro Valle. Il manifesto, 8 luglio 2011

Il percorso necessario alla definizione delle forme istituzionali affinché la conoscenza e il sapere siano sottratti alla gestione burocratica o alla logica mercantile. Una riflessione a partire dalle proposte maturate dentro l'occupazione del Teatro Valle.

I beni comuni non sono una categoria merceologica, un oggetto inanimato del mondo esterno. Per questo motivo ogni habitus positivistico (ossia una metodologia analitica che separa nettamente il mondo dell'essere da quello del dover essere) è inadatto a coglierne la natura. Un bene comune lega inestricabilmente una soggettività collettiva (fatta di bisogni, sogni, desideri) con un luogo fisico (il bene comune appunto) in una relazione qualitativa

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paragonabile a quella che lega un organismo vivente al suo ecosistema. Infine, il bene comune emerge innanzitutto da pratiche di lotta per il suo riconoscimento e la sua difesa. Queste pratiche sono volte a interpretarlo in modo collettivo, al fine di universalizzarne l'accesso sottraendolo dalle ganasce della grande tenaglia fra Stato e proprietà privata che, fin dagli albori della modernità, lo stritola. Una volta salvato (attraverso la lotta) dal suo triste destino di sfruttamento e distruzione, ogni bene comune deve essere interpretato dal punto di vista sociale ed istituzionale in modo coerente con la sua natura. Nessuna sfida è più affascinante oggi per il giurista rispetto a quella di trovare un vestito giuridico adatto ai diversi beni comuni. Vestito giuridico che, lungi dall'essere universalistico, deve essere a sua volta necessariamene contestuale perché soltanto i contesti (luoghi dove si declinano i conflitti e le relazioni sociali) danno senso a quella grande astrazione che è il diritto. Da questi contesti, intorno a quanto rivendicato come bene comune, sgorga un diritto nuovo, una legalità costituente che sfida il riduzionismo meccanicistico e formalistico di quella costituita. Ciò non toglie che questa «legalità nuova», fondata su un sentimento profondo di giustizia e di obbligazione anche intergenerazionale, non possa (e forse debba) trovare, nella cassetta degli attrezzi del giurista, forme idonee ad una sua rappresentazione compatibile con l'ordine giuridico attuale. Il «comune» può così realizzare il proprio potenziale trasformativo con le armi del diritto e non solamente con quelle della politica. In cerca di egemonia In che senso il Teatro Valle occupato di Roma è un bene comune e quali sono le implicazione del suo essere bene comune sulle forme giuridiche della sua futura gestione? Innanzitutto va detto che il Teatro Valle è oggi, proprio come il territorio della Valle di Susa e l'acqua bene comune, uno straordinario laboratorio costituente di una nuova legalità, alternativa tanto alla logica costituita del profitto (privato) quanto a quella del potere (pubblico). Il Teatro Valle acquista senso come bene comune in quanto funzionalizzato oggi, nell’ambito di un fondamentale atto di lotta e di coscienza collettiva, al grande disegno, destinato ad avere ricadute intergenerazionali evidenti, di dotare anche l'Italia di un centro dedicato alla elaborazione di una propria drammaturgia (ne ha scritto su questo giornale, Gianfranco Capitta il 6 luglio). La narrazione che facciamo del presente trasmetterà il testimone della nostra cultura a chi verrà domani, proprio come oggi noi abbiamo maturato la nostra identità collettiva sulle spalle dei nostri antenati. Questa prospettiva di lungo periodo dà senso all'idea che la cultura è un bene comune, qualcosa che va ben oltre l'asfittica idea del «qui e adesso» che caratterizza la logica aziendalistica che si è impadronita della narrazione dominante negli ultimi vent'anni. La «buona azione civile» degli ocupanti del Teatro Valle, come quella dei manifestanti No Tav, degli attivisti referendari, e di tanti altri cittadini attivi nelle vertenze aperte nel paese (dal movimento dei precari dell'Università, alla lotta contro gli inceneritori, a quella contro le basi Nato, per il recupero democratico dell'Aquila o contro lo sfruttamento sui luoghi di lavoro) mostra che in Italia oggi si sta diffondendo una nuova egemonia dei beni comuni. Questa nuova egemonia, deve potersi rappresentare in forme drammaturgiche nuove, anche per riscattarci a livello internazionale dei nostro modo particolarmente vergognoso di interpretare il ventennio della «fine della storia» (che di per sé costituisce una fase assai vergognosa del cammino dell'uomo occidentale). Il contributo del Teatro Valle occupato a questo recupero di immagine internazionale del paese è già adesso importante (eccezionale il numero e la qualità degli attestati di solidarietà internazionale già incassati dagli occupanti); lo sarà molto di più se la battaglia sarà vinta e il «Centro di Drammaturgia Italiana» sarà realizzato. Soprattutto sarà un contributo inestimabile se questo esempio virtuoso saprà contaminarne altri, (occorrono pratiche serie di occupazione dei beni comuni: penso al centro sociale Tijuana di Pisa) fino a costruire una rete capace di riconquistare la cultura come bene comune (con tutte le ricadute politiche, culturali ed economiche di una tale impresa). Il Teatro Valle si candida a divenire, in questa fare

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storica italiana in cui, grazie alla nuova consapevolezza dei beni comuni una nuova egemonia si sta configurando, una delle più interessanti pratiche di governo democratico dei beni comuni. Una pratica che, godendo di una relativa calma rispetto alla brutalità poliziesca con cui altre declinazioni dei beni comuni vengono affrontate (l'esempio del territorio della «Libera Repubblica della Maddalena» insegna), si sta affinando ed ambisce a proporsi come modello di riferimento per per ogni progetto alternativo di gestione della cultura. Deliri neoliberisti di onnipotenza Il Valle è il più antico teatro di Roma, e si colloca propro nel centro della città alle spalle del Senato. L'occupazione fin dall'inizio ha visto coinvolte personalità importanti del mondo della cultura e dell'arte ed è stata destinataria di una buona copertura mediatica. L'occupazione è iniziata subito dopo la vittoria referendaria del 13 giugno, che ha mostrato in modo non equivoco che la maggioranza del paese si rende conto che la retorica sulla «fine della storia» ha perso la sua forza performativa e che ocorre adesso «invertire la rotta» rispetto ai delirii di onnipotenza del neoliberismo. Gli occupanti del Teatro Valle inoltre hanno da subito dimostrato un talento incredibile nell'interpretarlo come «bene comune», offrendo gratuitamente alla cittadinanza una programmazione di buon livello ed un luogo sempre aperto di dibattito politico e culturale. È impossibile, per chiunque ci passi anche solo una sera, non voler bene alle ragazze e ai ragazzi che con grande sacrificio personale si battono per scongiurare la privatizzazione ed il conseguente scempio di questo magico «luogo comune» faro della cultura italiana fin dala metà del XVIII secolo. Inoltre, non è in vista qui, almeno nell'immediato, un'opportunità (irresistibile per tanti spiriti miserabili che ci governano) di arraffare, a qualunque costo sociale, una grande quantità di denaro pubblico come nel caso del tunnel della Tav, sicché l'urgenza di sgomberare con la violenza sembra meno pressante che altrove. Un attacco militare al Teatro Valle lo trasformerebbe inevitabilmente in una piazza Tahir di casa nostra, sicché il nostro regime agonizzante farà bene a guardarsi dal correre questo rischio. In questo contesto ci sono le condizioni di relativa stabilità che consentono di apprezzare pienamente e trasformare in un progetto giuridico le caratteristiche del Valle come bene comune. L'itinerario discusso nel corso dell'occupazione potrebbe articolarsi in una serie di «fasi giuridico-formali» all'interno delle quali tuttavia la sostanza del bene comune, declinato per così dire dal sotto in su, caratterizza l'intiero procedimento, mantenendo un sistema flessibile ed adattabile alle esigenze della lotta. Il senso del percorso sarebbe quello di riempire di significato «dal basso» i forti appigli costituzionali che non solo promuovono la cultura, l'identità e la libera espressione a «bisogni fondamentale della persona» ma che (il riferimento è all'articolo 43 della Costituzione) legittimano percorsi di autogestione ad opera di utenti e lavoratori, rendendo il nostro processo «costituente» dei beni comuni l'attuazione (in ritardo) di un disegno e di una visione costituzionale di lungo periodo fino ad oggi tradita in modo bipartisan. Fra gli strumenti di autonomia attraverso i quali si forgia il diritto delle persone, (il diritto dei privati si diceva un tempo) ve ne sono alcuni nettamente interpretabili in quello spirito del «noi», collettivistico, solidaristico, plurale ed ecologico (ma sempre attento a non tarpare le ali agli spiriti liberi) che rende già oggi il Valle un bene comune. La sostanza costituzionale In questo spirito del «noi», attento ai diritti e agli obblighi costituzionali nei confronti degli altri e della comunità ecologica di riferimento, i beni comuni sono funzionalizzati alla soddisfazione di bisogni fondamentali della persona, collocati fuori commercio, e governati anche nell'interesse delle generazioni future, come previsto dal disegno di legge delega presentato dalla Commissione Rodotà sui beni pubblici. Questo programma di governo ecologico dei beni comuni è indifferente rispetto alla forma giuridica pubblicistica o privatistica, perché entrambe sono forme in quanto tali compatibili o incompatibili con la

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sostanza costituzionale dei beni comuni. In effetti, l'azienda pubblica può essere verticistica, partitocratica e burocratica e l'ingerenza bruta del ceto politico su scelte che dovrebbero fondarsi sul sapere e non sul potere è stata più volta stigmatizzata dagli occupanti del Teatro Valle. D'altra parte, la gestione privatistica for profit, in un contesto quale quello della drammaturgia di qualità che certamente non può produrre profitti diretti, altro non farebbe che causare l'ennesimo trasferimento di risorse pubbliche ad interessi privati ed è questa la ragione per cui al Valle occupato si avversa la «messa a gara» della gestione. Chi scrive sta lavorando assieme agli occupanti su un processo di istituzionalizzazione del «Valle bene comune» studiando le nuove forme di governo partecipato dei beni comuni che rompano con la logica della distinzione fra titolo di proprietà e gestione inserendo garanzie effettive di un governo del teatro che sia incentrato allo spirito dell'apertura, della trasparenza (codice etico) e della corresponsabilità politico-culturale solidale. Il primo passo sarà probabilmente la costituzione di un «Comitato per il Valle Bene Comune» che metta da subito in pratica, embrionalmente almeno, le garanzie e le forme di governo che potrebbero portare ad una «Fondazione Pubblica Valle Bene Comune», dotata di un proprio fondo, di un proprio organico non precarizzato, e di proprie modalità di funzionalmento aperto. Tale struttura, capace di collegare intimamente il bene culturale comune alla comunità di utenti e lavoratori che gli danno vita, potrà lottare, nelle forme del diritto e non più sontanto in quelle della politica, per conquistare un diritto soggettivo di natura costituzionale (e quindi sottratto alle variabili contingenze della politica rappresentativa) ad un equo e trasparente finanziamento pubblico di lungo periodo, possibilimente sotto l'Alto Patronato della Presidenza della Repubblica. La partita è ancora lunga ed affascinante e l'occupazione ne è parte irrinunciabile. Ne vale la pena.

Beni Comuni: alla ricerca del diritto di tutti.24/06/2011

L'incontro tra la cultura giuridica e gli studiosi che hanno trasformato l'analisi dei beni comuni in «progetto professionale» è il primo passo per elaborare strumenti legislativi che aiutino a superare la paralizzante dicotomia tra pubblico e privato Il rischio che l'ambito accademico neutralizzi la vocazione politica delle discipline che studiano i commons Dalla terra all'acqua, alla conoscenza. Prove di dialogo tra giuristi, economisti e filosofi . Un meeting a Torino

Con la vittoria referendaria in Italia i «beni comuni», categoria politico-giuridica oggetto da qualche anno di un ricco dibattito internazionale, sono usciti dall'accademia e sono divenuti patrimonio diffuso in un'area politica, sociale e culturale che potrebbe oltrepassare la sinistra tradizionale mettendo in comunicazioni sensibilità fra loro molto diverse, ma accomunate dall'esigenza di mettere a fuoco urgentemente una via di uscita dalle conseguenze catastrofiche prodotte dal capitalismo. Il successo politico del referendum italiano si riverbera sulla cultura critica che per prima aveva elaborato gli strumenti giuridico-istituzionali che il movimento per i beni comuni sta ponendo in opera. La riflessione torna perciò oggi in sede accademica arricchita di una esperienza nuova. Qui si devono affrontare nodi culturali molto difficili da sciogliere, legati soprattutto all'incompatibilità fra le concezioni radicalmente nuove condivise dal movimento per i beni comuni (e dalla cultura giuridica critica che lo sostiene) e l'«arredo giuridico» del mondo in cui viviamo. Sebbene le prassi di conflitto debbano continuare ad essere il laboratorio fondamentale dell'emersione dei beni comuni, la riflessione sul «raccordo teorico» fra queste non può essere affatto tralasciata e certamente non si può ridurre alla questione, per quanto centrale, dell'acqua come bene comune.

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Il diritto, come ogni altra disciplina, è terreno di contestazione critica da parte di coloro che ritengono urgente un'inversione di rotta di quello che il pensiero dominante spaccia come il «miglior mondo possibile». La critica investe le strutture profonde che determinano il nostro modo di stare insieme (tanto gli apparati ideologici quanto quelli coercitivi dell'ordine globale)perché ritenute responsabili delle attuali condizioni di vita diventate insostenibili anche nel periodo medio breve. Tutto ciò richiede una ridiscussione radicale delle condizioni di legittimità delle principali categorie giuridiche che sembrano rendere non possibile «un altro mondo». Una riflessione che oggi, coinvolgendo i beni comuni ed il loro governo democratico, deve necessariamente riguardare nozioni fondative come la sovranità (pubblica?) e la proprietà (privata?). Tale riflessione tuttavia non può fermarsi qui, ma deve addentrarsi nelle condizioni tecnico-giuridiche di possibilità di un governo democratico dei beni comuni, misurandosi con nozioni quali contratto, responsabilità civile, persona (tanto fisica quanto forse soprattutto giuridica). Bisogna cioè affrontare i rapporti fra i beni comuni e l'operare ordinario del diritto, nella sua quotidianità, nelle mani dei suoi più ordinarii operatori. Per andare verso questa direzione, il primo passo non poteva che essere un incontro fra la cultura giuridica professionale europea e la riflessione accademica sui beni comuni, portata avanti principalmente da sociologi, antropologi ed economisti. Il diritto europeo, pur caratterizzato da una sua dimensione pratica largamente triviale, è da anni oggetto di indagine teorica approfondita nella sua concreta fenomenologia ad opera di reti di studiosi che occorre ora collegare con quelle di quanti studiano «professionalmente» i beni comuni. Una prima occasione è stata creata da tre giorni di incontri a Torino in un meeting organizzato presso l'International University College nel weekend successivo ai referendum. (I materiali preparatori sono consultabili sui siti internet: www.common-core.org, www.iasc-commons.org, www.iuctorino.it). In quella sede sono stati messi a confronto, su iniziativa di Saki Bailey, gli studiosi che da ormai 18 anni sono attivi nel progetto di ricerca sul «nucleo comune del diritto privato euroeo» (circa duecento partecipanti da oltre quaranta paesi) con alcuni fra quanti, a loro volta collegati in una rete largamente globale, si occupano di commons nell' ambito dell'«International Association for the Study of The Commons» promossa dal premio Nobel per l'economia Elinor Ostrom. Come ben noto, i beni comuni (e quanti da essi traggono la soddisfazione dei proprii bisogni di vita) sono stati, a partire dall'inaugurazione (anche giuridica) della modernità, i grandi perdenti dei processi sociali che hanno visto vincere l'alleanza borghese fra lo Stato e la proprietà privata. Fondati su una concezione collettiva, i beni comuni sono stati privati di ogni forza normativa e di ogni protezione giuridica e costituzionale tanto dalla struttura fondamentale del diritto occidentale, fondato su due pretese individuali contrapposte, quanto dal conseguente discorso emancipatorio fondato sul linguaggio dei diritti (entità individuali e non collettive). Nella tradizione liberale borghese il diritto è ridotto al mondo dell'«io» (e delle sue aggregazioni contrattuali capaci di ricevere personalità giuridica), mentre il mondo del «noi» vive in una dimensione politica incapace di tradursi in quanto soggettività collettiva in forme giuridiche diverse dalla grande astrazione della concentrazione del potere sovrano nello Stato. Le conseguenze costituzionali di questo schema sono ancora oggi rese del tutto evidenti dai processi di privatizzazione della proprietà pubblica che, in modo del tutto asimmetrico e squilibrato rispetto a quelli di espropriazione della proprietà privata, si svolgono al di fuori di qualsiasi garanzia costituzioanle. Guardare il diritto privato europeo dal punto di vista dei beni comuni, offre perciò una prospettiva «nell'ottica dei perdenti», la sola che consente di evitare la trappola più grave per uno studioso dei processi sociali: quella di partecipare, senza neppure accorgersene, alla retorica dominante. Come del tutto evidente la costruzione di retorica (individualizzante e proprietaria) dominante è parte preponderante di un discorso giuridico che si presenta anche come un vero e proprio «progetto professionale» (nel senso di Sarfatti Larson). Mettere i beni comuni sul tavolo

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della riflessione sull'esistenza o meno di un «nucleo comune» del diritto europeo significa dunque lanciare una sfida alta alla cultura giuridica dominante e alle sue false certezze.Esiste oggi uno spazio in Europa per quelle concezioni «altre» della proprietà contro cui si sono scagliati tanto i liberali quanto i giacobini e i bolscevichi, finendo per far prevalere una visione del tutto riduttiva dei diritto e della dialettica fra pubblico e privato? E se un tale spazio è rimasto nelle pieghe del sistema formale, sostenuto da un principio di legittimità se non di legalità, può esso emergere oggi spinto dalla forza tumultuosa dei movimenti sociali, facendo tesoro delle vecchie sconfitte per recuperare un ruolo centrale nei nuovi assetti del capitalismo cognitivo? Come reggono le stesse tassonomie con cui i giuristi ordinano (semplificando) il mondo alla sfida della nozione di bene comune?I beni comuni sono refrattari all'opposizione tra avere ed essere e tra fatti e valori che, a partire dalla cosiddetta rivoluzione scientifica, ha costruito il rapporto di dominio fra il soggetto umano pensante ed il mondo dal lui pensato. I giuristi sanno benissimo che separare il mondo oggettivo delle norme positive da quello delle comunità professionali chiamate ad interpretarle (giudici, avvocati, notai) altro non è che una finzione positivistica. È altrettanto vero tuttavia che la scienza giuridica dominante privilegia, per legittimarsi presso i detentori del potere, il rapporto con la «scienza economica» che di tale positivismo sembra irrimediabilmente intrisa. È stato questo a Torino il nodo maggiormente problematico di un apertura di dialogo fra la ricerca giuridica più avvertita è l'attuale riflessione internazionale sui commons che, nella sua versione insignita del premio Nobel, non fuoriesce da quel positivismo metodologico scientista che, depoliticizzando il discorso, ostacola la produzione di sapere critico. Questo limite è stato evidenziato nella discussione delle relazioni di Ruth Meizen Dick ed Erlig Berge (entrambi di formazione economico-sociologica) i quali tuttavia, delineando il quadro analitico ed il vocabolario proprio della comunità accademica raccolta nel centro internazionale sullo studio dei comuni (dove i giuristi mancano), hanno dato prova dell'esistenza di un bagaglio metodologico condiviso con i giuristi accademici europei: dal pluralismo giuridico alla necessità di comprendere la diversità profonda dei contesti. In apertura le relazioni di Gunther Teubner e di Fabian Miuniesa, rispettivamente teorico del diritto e sociologo, avevano tracciato le grandi linee della complessità giuridica e finanziaria che proteggono le attività truffaldine dell'individuo proprietario (persona fisica o giuridica) teso all'accumulo senza fine. Era toccato a Anna Robilant, storica del diritto e comparatista, richiamare l'attenzione su come le forme giuridiche del comune, che sul piano storico sono dotate di portata redistributiva ed egualitaria, entrino oggi in tensione con l'ideologia fondamentale dell' autonomia che, nel consentire all'individuo l'«uscita» dal comune, potrebbe compromettere la riemersione di questa categoria giuridica. La tematica del comune come chiave trasformatiiva del diritto internazionale è stata invece introdotta da Sundhiya Pahuja che ha tracciato un orizzonte trasformativo non più procrastinabile e gravemente incompatibile con la struttura della sovranità moderna. Ore di lavoro sono state dedicate in seduta ristretta alla preparazione di un questionario «fattuale» contenente ipotesi di conflitti nella soluzione dei quali le diverse giurisdizioni europee potrebbero mostrarci se ed in che misura i beni comuni vengano riconosciuti in quanto tali, tanto in opposizione alle istituzioni dello Stato quanto rispetto alla proprietà privata. Le ipotesi esplorate, hanno preparato il terreno per la discussione finale incentrata sulla nozione scandinava dell'allemensrett (il diritto di tutti), illustrato da Filippo Valguarnera. L'emergere di questa nozione che garantisce in Svezia l'accesso alla natura anche qualora recintata, inverte radicalmente la prospettiva giuridica tradizionale, perché è il proprietario a dover provare (in modo convincente) le ragioni per le quali egli vuole escludere l'esercizio pubblico del diritto a quel fondamentale bene comune che è la natura (inclusa la raccolta di funghi, bacche, legna, l'accesso all'acqua). La comparazione con l'emergere della nozione di beni comuni nella giurisprudenza costituzionale e della Cassazione italiana nell'ultimo anno è

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stata assai proficua e ha mostrato come storicamente determinate siano le prerogative del proprietario che diamo per scontate (quale appunto il potere di escludere).La prossima frontiera non può che essere la critica radicale del potere del privato di decidere che cosa produrre. Anche qui il comune globale si propone costituzionalmente come un contro-diritto che necessita di un governo ecologico dell'economia.

Il nostro riformismo Data di pubblicazione: 23.06.2011

Autore: Mattei, Ugo

« Il riformismo che liberalizzando privatizza, che flessibilizzando precarizza, che modernizzando scempia il territorio, è stato bocciato dalla maggioranza assoluta degli italiani al referendum». Ma chi comanda se ne frega. Il manifesto, 23 giugno 2011

Le urne referendarie hanno sancito la nascita di un nuovo blocco sociale che sostiene un'idea di riforme opposta a quella che sostengono i partiti. Ma nel dibattito pubblico predomina ancora la vecchia politica

Brutte nubi si addensano sulla democrazia italiana. I rappresentanti del blocco sociale perdente a Napoli, Milano e soprattutto ai referendum fingono di non aver capito la lezione. La maggioranza parlamentare, sconfitta sonoramente alle urne, si arrocca intorno al Decreto Sviluppo che "passa" largamente, nonostante l'evidente fibrillazione politica di questi giorni. Bossi, che non sembra azzeccare più un colpo, potrebbe aver mollato il ministro dell'Economia, cosa che, per fortuna, dovrebbe mettere in soffitta l'ipotesi\incubo ventilata da Ida Dominijanni su questo giornale, ossia di un Tremonti a maggioranza alternativa «tutti tranne Berlusconi» per «fare le riforme» alla greca (cioè dissanguare il popolo) prima del voto. La distorsione tipica di una democrazia rappresentativa che non rappresenta si presenta così in Italia come un caso di scuola. Il governo (ma direi in realtà la classe politica), quanto mai debole nel paese, si rafforza in Parlamento anche perché l'opposizione non ha alcuna voglia di mantenere alta la pressione. Per questo dobbiamo dire chiaro e forte che ad arroccarsi non è la maggioranza ma il "blocco sociale" sconfitto, fatto di uomini, figli della "fine della storia" che portano avanti un'idea di riforme ormai bocciata dalla maggioranza del paese. Il "riformismo" dei Draghi, dei Catricalà e dei Bersani (ma ovviamente la lista è lunga e cito qui solo chi ha più rumorosamente esternato in questi giorni) di cui straparlano pure sovente gli sbracati esponenti della classe politica al governo, altro non è che la promozione ideologica di una politica reazionaria al servizio del più forte (la politica della crescita), di cui Confindustria ed i suoi sindacati gialli si illudono di poter essere i principali beneficiari. Il riformismo che liberalizzando privatizza, che flessibilizzando precarizza, che modernizzando scempia il territorio, è stato bocciato dalla maggioranza assoluta degli italiani al referendum. Si è costituito il 13 giugno un nuovo blocco sociale che genuinamente condivide preoccupazioni di lungo periodo e che sostiene un'idea di riforme radicalmente opposta a quella che ancora inquina il nostro dibattito pubblico ed i suoi stanchi protagonisti. È un riformismo, quello emerso dai referendum, che vuole ridurre le diseguaglianze, ripensare il rapporto fra pubblico e privato in modo meno sbilanciato a favore di quest'ultimo, affrontare davvero le cause della crisi che ha determinato la fine della "fine della storia". Questo riformismo nuovo, maggioritario nel paese, gradualistico nel senso di Treves e di Salvemini, ha oggi un obiettivo diverso rispetto all'edificazione del socialismo: il suo obiettivo è contribuire alla salvezza rispetto all'imminente catastrofe ecologica, affrontando finalmente i nodi seri

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relativi all'organizzazione di una democrazia industriale complessa (seppur semiperiferica come l'Italia), che non può più sostenere il ricatto del complesso finanziario-militare. Questi sono temi e problemi che l'Italia condivide non certo solo con Spagna e Grecia ma con tutto il mondo industrializzato. Il nuovo blocco sociale riformista, che mette al primo posto la riduzione della diseguaglianza, vuole finalmente affrontare questi problemi e non nasconderli sotto il tappeto, passando tempo a cincischiare col folklore di Pontida. Per chi si fa e si è fatto interprete di questo blocco sociale durante la campagna referendaria in cui così tante persone hanno potuto finalmente aprirsi e discutere di politica, è assai grave che la sola cosa sensata uscita da Pontida, ossia l'impossibilità di affrontare la crisi sociale se si continua a spendere denaro per la guerra, sia stata rintuzzata da Napolitano con la solidarietà piena di tutto il Pd. Uscire dalla dipendenza (tossica) da un modello di sviluppo fondato su guerre del tutto fini a se stesse ( se non direttamente predatorie) non può che essere la priorità indiscussa del nuovo riformismo uscito dalle urne referendarie. Quella è la strada principale per sanare i conti, tracciando al contempo un grande piano pubblico di cura del territorio, della natura, della qualità della vita di tutti fondato sulla valorizzazione dei beni comuni e sul recupero di un po' di etica pubblica. I partiti, tutti quanti, si facciano una ragione che questo è il messaggio chiaro e forte uscito dalle urne! Un messaggio che certo premia i movimenti ma che adesso deve essere interpretato politicamente con una visione alta, riformista nel senso nuovo del termine capace di dare vera voce e soggettività politica al nuovo blocco sociale. Invece il Decreto sviluppo contiene l'Agenzia per l'acqua, un'idea bocciata dal popolo sovrano. Il Pd fa eco, riproponendo quella sua bruttissima legge sull'acqua che era stata proposta per pura iattanza all'inizio della raccolta delle firme e che, con il Decreto sviluppo, condivide la filosofia di fondo dello Stato regolatore. Ma l'idea di Stato regolatore che non agisce direttamente nell'economia e che si limita a dettare le regole per la concorrenza fra privati è stata spazzata dal referendum, dopo essere stata indebolita perfino in Europa dal Trattato di Lisbona. Il settore pubblico rafforzato , ristrutturato e democratizzato deve tornare a "fare" e a "saper fare": questo ha chiesto il popolo dei beni comuni. Lo abbiamo detto e lo ripetiamo: il privato e la logica aziendalistica e finanziaria di breve periodo che necessariamente lo pervade non è la soluzione. Molto spesso, sempre nelle ipotesi di monopolio naturale come l'acqua, esso è il vero problema cui oggi tutti insieme dobbiamo far fronte. Il Pd ci dica chiaramente se vuole interpretare questa nuova visione o se resta legato alle lenzuolate bersaniane e agli estremismi della Lanzillotta. E se sta da questa parte, e vuole farsi interprete dell'esito referendario, si batta piuttosto per mettere all'ordine del giorno il disegno di legge riforma dei beni pubblici della Commissione Rodotà, che dà senso giuridico ai beni comuni e che giace da oltre un anno in Senato con Finocchiaro e Casson primi firmatari. A dieci giorni dal referendum il connubio letale fra profitto (sperato) e rendita (certa), che determina il nostro sviluppo insostenibile fondato sulla religione della crescita, seguita a tenere in campo i suoi ventriloqui bipartisan. Si fa finta di niente e si ripete che, dopo il referendum, esiste la possibilità di scegliere fra pubblico, privato o misto. Finiamola prima che sia troppo tardi! Dopo il referendum c'è una sola via legittima: quella dei beni comuni che sono incompatibili con profitto e rendita. Il popolo sovrano rivuole tanto il rispetto democratico della sua chiara volontà quanto, nell'immediato, il 7% che sta pagando sulle sulle bollette idriche che da ormai 10 giorni costituisce un illecito bottino. Gli italiani votando in massa hanno difeso oltre all'acqua anche il referendum e la loro sovranità diretta. Se non vedranno subito l'esito in bolletta né avranno spiegazioni immediate e credibili su come quei soldi verranno spesi nel loro interesse, sapranno studiare le mosse e riprendersi direttamente quel denaro per spenderlo a favore del futuro di tutti. Poi ci riprenderemo anche la democrazia!

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Persone comuni alla conquista della storia Data di pubblicazione: 18.06.2011

Autore: Mattei, Ugo

Commenta di uno dei promotori della vittoria dei beni pubblici: i referendum sono stati il corrispondente italiano delle Primavere arabe e degli indignados: gli interpreti non possono esserne né Bersani né Tremonti. Il manifesto, 15 giugno 2011

Un'emozione politica così forte non me la ricordavo più. Erano almeno vent'anni che le nostre idee, la nostra passione e il nostro immaginario venivano sistematicamente sconfitti in modo del tutto bipartisan. In questi sciagurati vent'anni di "fine della storia" le poche belle fiammate politiche venivano dalla ribellione sempre repressa con violenza bruta da uno Stato progressivamente asservito ai poteri forti. Vent'anni di accentuato delirio di onnipotenza da parte dei vincitori della guerra fredda. Vent'anni in cui la guerra calda è stata normalizzata e trasformata in polizia internazionale. In questi vent'anni la sovranità passava implacabilmente dalle istituzioni politiche nazionali, a quelle economiche globali simbiotiche con gli apparati militari e industriali che governano gli Stati uniti d'America. In questi vent'anni nel mondo occidentale la sinistra declinava drammaticamente perché gli assetti politici tollerati dai nuovi padroni globali del mondo non potevano che convergere al centro (cioè a destra). Insieme alla sinistra e a un pensiero ecologista ancora incapace di declinarsi con piena dignità politica, tramontava in tutto l'Occidente il senso del limite. In Italia il terreno preparato dal craxismo in piena era reagan-tatcheriana, spazzava via quel pudore, quella sobrietà, se vogliamo pure quell'ipocrisia (che pur sempre è senso del limite) che tradizionalmente caratterizzava tanto la vecchia Democrazia cristiana quanto il Partito comunista, risparmiando agli italiani se non altro l'orrore della volgarità autocompiaciuta. In questi anni si diffondeva potente e vincente, amplificato dalla professione degli economisti che in massa avevano abbandonato Keynes, il pensiero neoliberale. Il pensiero critico fuggiva da Marx e si trasformava progressivamente in pensiero debole. Il diritto abbandonava le vecchie pretese di costruire un governo democratico dell'economia e si trasformava in un apparato sempre più mite con i forti e forte con i deboli. Sul piano delle politiche la globalizzazione imponeva flessibilità, nuovi sfruttamenti, privatizzazioni, trasferimenti massicci dal pubblico al privato, saccheggio dell'ambiente e dei beni comuni. Per molti di noi questi sono stati vent'anni di studio e di riflessione, dedicati a capire i fenomeni intorno a noi e a immaginare come concretamente avrebbe potuto essere un mondo diverso, più bello, cosmopolita e rispettoso di tutti. Sul finire degli anni novanta abbiamo cominciato sistematicamente a raccogliere dati accademici e materiali politici sul fallimento di quel modello di sviluppo. All'inizio del nuovo millennio la battaglia di Cochabamba mostrava come l'acqua, che tutto fa vivere e tutto connette, fosse al cuore delle nuove dinamiche di sfruttamento e di saccheggio di Gaia, il nostro pianeta vivo. La categoria giuridico-politico del "comune" cominciava ad essere elaborata e forniva un prodigioso linguaggio nuovo capace di connettere fra loro le tante diverse battaglie di coloro sulla cui pelle si stavano svolgendo i processi della globalizzazione finanziaria. Spesso le pratiche nuove camminano sulle idee nuove e i beni comuni hanno svolto e svolgeranno ancora questa funzione. Sono stati i beni comuni a legare fra loro le battaglie contro la legge Gelmini dell'autunno scorso, quelle contro il ricatto della Fiat, nonché quelle di lunga durata sui territori dai No Tav al No Dal Molin. Queste persone, questi territori e queste battaglie hanno ripreso dignità con questa questa vittoria. Soprattutto, nella battaglia referendaria si è verificato un prodigioso risveglio di tante persone comuni, i veri protagonisti di questa battaglia. Tanti laici, cattolici, comunisti, ambientalisti, accomunati da un rispetto del senso del limite dell'uomo nei

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confronti della natura e scevre dal delirio di onnipotenza e dal narcisismo. Questo è il nuovo blocco sociale che ha vinto il referendum e vuole guidare un'inversione autentica della rotta. È stato questo un referendum pensato da persone comuni e votato da persone comuni. Un referendum di cittadini che ha saputo sconfiggere la mercificazione e la trasformazione del cittadino in consumatore abbindolato dal marketing. A queste persone comuni che stanno facendo l'Italia del dopo fine della storia non importa chi si intesterà la vittoria referendaria. A tutti costoro non importa la politica dei talk show perché mentre c'erano i talk show in tutto quest'ultimo anno e mezzo accorrevano in frotte ai nostri comizi e ai nostri momenti di formazione critica. Queste persone hanno dato un messaggio politico forte e chiaro. Basta con l'ideologia della fine della storia. Basta con la falsa tirannia del rigore economico a senso unico che ha attraversato in modo completamente bipartisan lo scorso ventennio. La micro contingenza della politica attuale del palazzo italiano ci interessa assai poco. Ma certo non sarà una nuova convergenza al centro in nome della sconfitta del berlusconismo che ci proponga governi di salvezza nazionale da primi anni novanta (per intenderci un'asse Bersani-Tremonti) che potrà pensare di interpretare questi nuovi eventi. I referendum sono stati il corrispondente italiano delle Primavere arabe e degli indignados. I leader capaci di interpretarli in parte ci sono e in parte verranno. Per ora abbiamo fermato il saccheggio finale dell'acqua e dei servizi pubblici di interesse generale; abbiamo scongiurato la follia nucleare in Italia e abbiamo salvato la democrazia diretta nel paese. Non poco per delle persone comuni.

Un voto costituente Data di pubblicazione: 12.06.2011

Autore: Mattei, Ugo

La cronaca di una vicenda che ha visto componenti della società civile, raggruppate nel “Forum dei movimenti per l’acqua”, combattere solitarie per mesi, conquistare quasi tutti e giungere al giorno fatidico: oggi. Il manifesto, 12 giugno 2011

Si vota! Sembra incredibile ma siamo riusciti a far esprimere il popolo sovrano su questioni fondamentali per il nostro futuro, senza la mediazione dei partiti e delle burocrazie politiche. Siamo riusciti ad aprire un dibattito serio nel paese e a proporre politicamente strumenti di azione ed un linguaggio nuovo, quello dei beni comuni, che esce dalle stanze degli addetti ai lavori. Non è un traguardo da poco, né era scontato che saremmo riusciti a raggiungerlo. Un voto popolare per invertire la rotta rispetto ad un modello di sviluppo fondato sull'ideologia della privatizzazione e su un rapporto fra l'interesse pubblico e quello privato sempre più spostato a favore di quest'ultimo, non poteva che dar fastidio a molti. E i suoi esiti possono essere politicamente dirompenti, forse perfino costituenti di una fase nuova finalmente capace di superare in Italia il blocco del pensiero unico che paralizza ogni possibilità di uscita dalla crisi. Comunque, siamo riusciti a fermare il folle banchetto nucleare che pareva già imbandito quando, poco più di un anno fa, si siglavano gli accordi italo-francesi fra Edison ed Edf. Questo pactum sceleris poteva esser presentato, senza pudore, come un passo verso la modernizzazione sulle pagine dei giornali. Adesso la Confindustria, che già aveva l'acquolina in bocca per i ricchi trasferimenti dal settore pubblico a quello privato, si agita vieppiù nervosamente perché rischia di veder sfumare anche il business dell'acqua, dei trasporti e della spazzatura. Infatti, se dovessimo vincere il referendum, organizzeremmo la gestione dell'acqua in modo coerente con la sua natura di bene comune: ne affideremmo la gestione ad un settore pubblico ristrutturato e democratico seguendo una logica ecologica e di lungo periodo.

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Troveremmo gli investimenti per un grande di intervento pubblico sul territorio, per ristrutturare le infrastrutture e prevenirne il degrado. Creeremmo così posti di lavoro garantiti come quelli che, sembra un secolo fa, avevano i cantonieri prima che Anas si trasformasse in un una agenzia di gestione di gare d'appalto. Perché il privato dovrebbe investire sul lungo periodo? Perché le gare dovrebbero essere trasparenti e meritocratiche? Perché non dovrebbero esserci soldi pubblici per una riconversione ecologica del nostro modello di sviluppo mentre ci sono (200 milioni al mese) per massacrare civili in Libia e Afghanistan, in brutale violazione della Costituzione? Porre queste domande non è stato facile. Il governo ha iniziato inserendo addirittura nel preambolo del decreto Ronchi la grande menzogna per cui la dismissione a favore del privato del servizio idrico e degli altri servizi di interesse economico generale (trasporti e spazzatura) sarebbe stato obbligatoria sul piano europeo e quindi non sottoponibile a referendum. Questo argomento è stato il mantra ripetuto dai nostri oppositori (bipartisan) mentre noi raccoglievamo milioni di firme e iniziavamo un grande processo dal basso di alfabetizzazione idrica, ecologica ed istituzionale che, già da solo, ha reso l'Italia un luogo migliore. Poi la Corte Costituzionale ha accolto per due terzi il nostro impianto referendario, sbugiardando sul punto il governo, mettendo in chiaro i limiti culturali dell'impostazione dell'Avvocatura dello Stato, e riconoscendo l'importanza anche giuridica della nozione di beni comuni (poco dopo la nozione è stata elaborata anche dalle Sezioni Unite della Cassazione). Da quel momento il governo avrebbe dovuto divenire "amministrazione", rispettando la Costituzione. Lungi dal farlo, il governo ha innanzitutto dilapidato 350 milioni (di quel denaro pubblico impossibile da trovare per riparare gli acquedotti) rifiutando l' "election day". Abbiamo puntualmente presentato ricorso contro questa autentica vergogna, ma né il Tar Lazio né la Corte Costituzionale hanno avuto il coraggio di opporvisi. Dal 4 aprile poi è scattata la par condicio, che ha reso tabù la discussione sui beni comuni mentre, nel frattempo, la maggioranza faceva melina in Commissione di Vigilanza per impedire che si emanassero i decreti necessari per assegnare gli spazi ai promotori. Quando la terribile tragedia di Fukushima rende impossibile non parlare di questione nucleare, il governo, come un bambino beccato dalla mamma con le mani nella marmellata, mette a segno l'autogol per far saltare i referendum. Con l'approssimazione giuridica che contraddistingue una maggioranza che a furia di disprezzare la legge non sa più utilizzarla, il decreto omnibus, cerca di cancellare il voto sul nucleare. Se per qualche settimana la confusione prodotta nell'opinione pubblica è stata totale, il tentativo di scippo goffo e maldestro dell' ultimo minuto ha scatenato nel corpo elettorale gli anticorpi dell' indignazione. La nostra energia si è moltiplicata, nuovi appoggi, fino a quel momento impensati, sono arrivati alla nostra compagine. Mentre il legame culturale fra il nucleare e l'acqua, declinato nella riflessione sui beni comuni faceva crescere lo spessore politico delle nostre analisi ed il significato del referendum, il mondo cattolico, mobilitato da quel grande campione di visione politica di lungo periodo che è Alex Zanotelli scendeva apertamente in campo. In questo scenario sociale i referendum, con la rete di diverse decine di migliaia di attivisti per gran parte estranei ai partiti, paiono proprio il corrispondente italiano delle primavere arabe e degli indignados spagnoli. Fra poche ore sapremo se il nostro disegno di conferire forza politica costituente a un grande ripensamento dei rapporti fra pubblico e privato attraverso lo strumento dei quesiti referendari abrogativi sui beni comuni, sarà condiviso dalla maggioranza del popolo italiano. In caso affermativo, l'avidità per l'oro blu avrà sciacquato via, almeno in Italia, la fine della storia ed il pensiero unico.

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Forme del diritto. Breve genealogia dei beni comuni Data di pubblicazione: 16.06.2011

Autore: Mattei, Ugo

La vincibile difficoltà di aprire uno spazio tra pubblico e privato, e fondare su basi certe il diritto del bene comune. Il manifesto, 3 giugno 2011

Gli assetti di potere della modernità tendono a conservare uno status quo fondato su concentrazione e esclusione . Per mettere a fuoco l'idea di «gruppo connesso», occorre tracciare una storia del concetto di «comune»

Provoca non poco sconcerto riflettere sui tempi presenti alla luce di categorie concettuali e di linguaggi nuovi, ancora in via di elaborazione teorica, come sono i beni comuni. Se i tempi non appaiono ancora maturi per tentarne definizioni giuridiche compiute, è tuttavia utile fare tesoro di quanto si sta osservando circa la loro immanenza e il loro carattere fortemente criptico. I beni comuni si trovano ovunque vi siano relazioni, ma emergono di rado, in occasione di conflitti, spesso tumulti, che ne creano la consapevolezza in condizioni strettamente legate a rivendicazioni di bisogni fondamentali. In quanto legati a un contesto, i beni comuni si collocano dunque all'antitesi dell'universalismo tipico della retorica dei diritti umani. Essendo tuttavia funzionali alla soddisfazione effettiva di bisogni fondamentali autentici (materiali o spirituali che siano) della persona calata in molteplici contesti relazionali, sono parte di una rete tendenzialmene sconfinata. L'individuo disconnesso Di qui la sfida radicale che i beni comuni apportano alla dimensione statuale, circoscritta dai confini e calata nella logica della sovranità che è poi dominio gerarchicamente organizzato su un territorio. E di qui anche la difficoltà enorme che l'elaborazione teorico-giuridica incontra nel far sì che i beni comuni, entità collettive, inclusive e a potere diffuso, siano compatibili con una struttura fondamentale del diritto fondato sul proprietario (persona fisica o giuridica che sia) interlocutore privilegiato dello Stato (due strutture di concentrazione del potere ed esclusione). In effetti, anche se strutture giuridiche che già disciplinano beni comuni esistono nel diritto privato moderno (si pensi al condominio negli edifici o alla comunione), esse sono di solito declinate come eccezionali in un contesto interamente dominato dalla proprietà privata. Proprio in quanto eccezioni alla proprietà privata, le attuali forme giuridiche di governo privatistico dei beni comuni non appaiono affatto idonee a incentivare quella comunione fra soggettività diverse e i loro contesti di riferimento che deve caratterizzare le nuove strutture istituzionali partecipative di governo dei beni comuni. Basti pensare a come i vicini di casa diano il peggio di sé proprio nelle assemblee di condominio. Qui ciascuno dei condomini, lungi dall'essere «comunista» (ossia di avere a cuore proprio quelle parti comuni che lo collegano con gli altri) si considera in realtà come un sovrano che subisce una limitazione (provocata da altri con cui il rapporto non può che essere conflittuale) di un suo supposto dominio libero. Per giungere a un'elaborazione giuridica del comune autenticamente capace di diffondere un linguaggio nuovo, che rimetta cioè al centro il gruppo connesso (la comunità in senso ecologico variabile secondo le circostanze) e marginalizzi l'individuo disconnesso (celebrato nella retorica di Robinson Crusoe) è dunque necessario ancora molto lavoro teorico e pratico. Dal primo punto di vista occorre tracciare una genealogia (o perfino un'archeologia) del comune, un'impresa affascinante, che richiede uno sforzo interdisciplinare, soprattutto storico-istituzionale, che non può più attendere. Soltanto una tale elaborazione può rispondere alla domanda di fondo cui è estremamente difficile sfuggire. Quali rotture sono necessarie per trasferire nel mondo delle istituzioni giuridico-

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politiche (ancora fondate sul positivismo dominicale) il sapere olistico e «indisciplinato» che si colloca alle frontiere della ricerca ecologica e fenomenologica? Quanto devono essere violente queste rotture o meglio qual è (ammesso che ci debba essere) il livello di violenza minima necessario per provocarle? Oggi gli assetti di potere della modernità, fondati su concentrazione e esclusione, difendono uno status quo indifendibile, non soltanto sul piano politico ma anche su quello teorico, attraverso operazioni di inaudita violenza. I dati scientifici disinteressati in nostro possesso sono unanimi nel dimostrare, per esempio, come la società nucleare non solo sia del tutto insostenibile (scorie radioattive non gestibili) ma costituisca un'opzione dalla visione cortissima. Giorgio Parisi, uno dei massimi fisici e teorici della complessità, ha scritto sull'inserto Gaia Comune («il manifesto» del 28 aprile) che se si sostituisse con il nucleare l'intera produzione energetica derivante da idrocarburi al tasso attuale di consumo avremmo uranio per tre anni! È ovvio quindi, dati alla mano, che il nucleare non è un'opzione energetica pulita di lungo periodo ma solo un'operazione politica di strutturazione globale della concentrazione del potere. Le incredibili aporie del nucleare realizzato (per citare un solo esempio, l'intera produzione della centrale di Fukushima, una delle oltre cinquanta che in Giappone producono il 17 per cento dell'energia ivi consumata, può essere agevolmente sostituita limitando le luminarie notturne a Tokyo!) evidenziano dati inquietanti se visti nella prospettiva di una genealogia storica. In effetti, il livello di razionalità degli apparati ideologici che sostengono il nucleare (e comunque di quanti difendono oggi l ideologia sviluppista della modernità) è pari a quello dell'inquisizione. Pienamente razionale per il solo inquisitore! Allora si processava Galileo e si bruciava Giordano Bruno al solo scopo di difendere il dogma conoscitivo (teocentrico) che garantiva il potere gerarchico della Chiesa romana contro le nascenti istituzioni giuridiche e politiche della modernità, simbiotiche rispetto alla piena realizzazione della rivoluzione scientifica. Oggi il potere centralizzato del complesso militare industriale cerca in tutti i modi di fondare con dogmi pseudo-scientifici (il nucleare come soluzione dei problema energetico) la centralità di quelle istituzioni della modernità che la piena valorizzazione giuridico-istituzionale dei beni comuni (coerente con le frontiere del sapere) minaccia di sovvertire. Insomma stiamo cominciando a sperimentare le reazioni politiche e ideologiche (brutali quanto il rogo) alla nuova rivoluzione copernicana fondata nella miglior scienza che, muovendo dall'antropocentrismo all'ecocentrismo, finirà quasi certamente per sovvertire gli assetti di potere attualmente dominanti. Di qui la reazione sempre più violenta di un potere centralizzato che si era illuso di non avere più avversari (crollo del Muro) e che invece sembra destinato a crollare perché indebolito dalle trasformazioni rapidissime che stiamo vivendo (tutte catturabili con la metafora della «rete»). In particolare la rivoluzione energetica fondata sull'autoproduzione diffusa (che rende inutile il complesso militare-industriale) coniugata con l'emergere politico (e poi giuridico) di istituzioni del comune, può saldarsi con le trasformazioni demografiche e con le grandi migrazioni rendendole funzionali (in chiave rivoluzionaria naturalmente) alle esigenze di sopravvivenza del genere umano su questo pianeta. In questo quadro di trasformazione i beni comuni, che emergono dalle lotte, svolgono diverse funzioni. Essi in primo luogo offrono un vocabolario nuovo necessario per l'emancipazione, che offre piena consapevolezza alle moltitudini di ciò che è «loro». Questo nuovo vocabolario apre la via alla discussione su nuovi scenari di welfare, quali per esempio il «reddito di esistenza» o il «salario massimo» , essenziali per fronteggiare in modo sostenibile gli sviluppi del capitalismo cognitivo, creando le condizioni di una organizzazione sociale fondata sulla qualità della vita (di tutti) e non sull'accumulo (nelle mani di pochi). Pratiche di riconquista In secondo luogo i beni comuni costituiscono un cuscinetto capace di difendere risorse - esistenti o in via di generazione, comunque appartenenti a tutti - da ogni ulteriore

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saccheggio attraverso lo sviluppo di consapevolezza critica e cittadinanza attiva (questa è la funzione essenziale che essi svolgono nell'attuale campagna referendaria italiana). I beni comuni, infine, possono svolgere, anche sul piano giuridico, un ruolo offensivo e non solo difensivo, legittimando pratiche di riconquista diretta di spazi e risorse (indipendentemente dal titolo formale pubblico o privato del dominio che attualmente li governa) essenziali per lo sviluppo della persona e per la piena realizzazione e rigenerazione di suoi diritti costituzionali fondamentali. È così per esempio che il diritto costituzionale d'accesso alla casa di abitazione, si può emancipare dal ruolo subordinato alla presenza delle condizioni economiche dichiarate dallo Stato e degli enti chiamati a soddisfarlo come diritto sociale concesso dal welfare pubblico. Nel quadro della funzione giuridica offensiva e della piena declinazione dei beni comuni esso può invece soddisfarsi, tramite occupazione acquisitiva legittimata dalla pubblica necessità, di spazi socialmente percepiti come abbandonati. Il diritto anche in questo caso sgorga dalla fisicità del conflitto e non può esser generato dalla riflessione astratta di chicchessia.

La legge del comune Data di pubblicazione: 07.04.2011

Autore: Mattei, Ugo

Lo spazio informatico è un bene comune, ma gestirlo e utilizzarlo pone problemi nuovi. Il conflitto tra governance e accesso. Il manifesto, 7 aprile 2011

Un aspetto problematico per chi considera Internet il paradigma del bene comune globale è dovuto al fatto che per suo tramite si è affermata ancor più profondamente l’egemonia del modello americano. Questa egemonia non preoccupa come problema di lingua. Sebbene l’inglese domini Internet, il pluralismo linguistico della Rete è oggi sotto gli occhi di tutti. Né preoccupa come problema culturale, derivante dall’individualismo e dalla competitività estrema che caratterizzano da sempre l’ideologia statunitense, collocandola tradizionalmente come antagonista di tutto quanto sia comune (la radice di communism e commons sono le stesse). Il vero problema di questa pratica egemonica sta nella governance di Internet che si presenta come profondamente antitetica rispetto a quel modello dell’«accesso» che dovrebbe caratterizzare il governo dei beni comuni (a questo propostio, vedere «il manifesto » del 2 Marzo). Nonostante queste cautele non possiamo esimerci, nel percorrere i primi passi di un cammino volto all’elaborazione di strutture giuridiche nuove per il governo dei beni comuni, dall’affrontare i paralleli fra il mondo della Rete, che potremmo descrivere come una «nuovo mondo» virtuale, «scoperto » quasi esattamente mezzo millennio dopo la «scoperta» dell’ America. Profondi furono gli sconvolgimenti prodotti dai viaggi di Colombo, fino al punto che le immense possibilità di saccheggio che ne derivarono produssero l’accumulaziuone originaria e la nascita della modernità. Oggi è proprio internet a presentarsi come il fattore scatenante della trasformazione cognitiva del capitalismo globale, sicché forte è la tentazione di osservare un ricorso storico.Fuorvianti analogie Occorre però cautela nel tracciare affascinanti paragoni. La questione della traducibilità istituzionale dal mondo del materiale tangibile a quello dell’immateriale (e viceversa) non è infatti banale. Per risolverla i giuristi hanno dato vita ad un ambito disciplinare problematico autonomo, noto come diritto della proprietà intellettuale (talvolta come diritto industriale) frequentato da cultori diversi da coloro che si confrontano con i problemi della proprietà tangibile, in particolare di quella fondiaria. In effetti, al di là dei suggestivi paralleli teorici, per cui tanto la proprietà privata delle idee quanto quella di un

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terreno sarebbero caratterizzate dagli stessi aspetti di «esclusione » di chi non sia autorizzato dal titolare rispettivamente ad accedervi o a farne uso, le analogie sembrano fermarsi ad un livello di astrazione inadatto alla pratica del diritto. Sebbene anche in ambito fondiario il processo di mercificazione abbia ottenuto i suoi effetti, la terra resta una risorsa strutturalmente limitata, non riproducibile e tendenzialmente unica. Questo aspetto fondamentale non è vero per i marchi, brevetti o diritti d’autore, i tre ambiti che rientrano nella nozione di proprietà intellettuale. Di fronte a risorse che in natura non sono limitate (e anche nel caso di quelle che, come l’acqua, si riproducono ciclicamente) il diritto di proprietà privata svolge la funzione di renderle artificialmente scarse (a fine di trarne profitto). Per quelle che sono viceversa limitate e già scarse la proprietà privata, regolandone l’accesso, potrebbe tutt’al più limitarne il consumo, almeno stando all’insegnamento (assai poco convincente) della tragedia dei comuni. Non solo. Se è vero che occorrono sempre recinzioni per far nascere un mercato, quelle necessarie per l’informazione e la conoscenza (risorse strutturalmente illimitate) devono essere particolarmente pervasive. Infatti, il potenziale acquirente di un’informazione difficilmente potrà sapere il valore che essa avrà per lui senza prima conoscerla. Ovviamene il potenziale venditore non sarà disposto a far conoscere l’informazione prima di venderla, perché questo equivarrebbe a regalarla. Di qui i problemi particolarissimi che sorgono nell’utilizzare la logica della proprietà privata in materia di informazione e la particolare virulenza che i grandi latifondisti intellettuali (case discografiche e editrici, big pharma, proprietari dei grandi logo) utilizzano per difendere i propri recinti. Questi problemi in realtà derivano dal fatto che informazioni e conoscenza crescono quantitativamente e qualitativamente con la condivisione (perché hanno natura di beni comuni relazionali) ma la condivisione non genera profitti (basta considerare Wikipedia che è sul lastrico). Proprio in materia di proprietà intellettuale si riproduce così, non a caso in modo particolarmente visibile nella presente fase del capitalismo cognitivo, quel legame indissolubile fra proprietà privata e apparati repressivi dello Stato (e oggi anche della globalizzazione si pensi agli accordi Trips dell’Organizzazione mondiale del commercio) che sempre si accompagna alle enclosures. Ideologia della repressione Queste osservazioni, che balzano agli occhi sol che si guardino le cose ponendo al centro la loro natura fenomenologica (terra, conoscenza) e non il loro regime giuridico (proprietà privata, brevetto), sono offuscate dagli ingenti investimenti che i grandi latifondisti intellettuali compiono nella costruzione di apparati ideologici loro favorevoli. Poiché in una società che condivide e mette in comune le proprie conoscenze, riconoscendo che queste sono sempre il prodotto di un determinato contesto sociale, copiare è un comportamento del tutto naturale. Per scoraggiare questi comportamenti sono necessari apparati repressivi che utilizzino anche l’ideologia come strumento di inibizione. Apparati che puntano a distruggere il comune a favore del privato. Così, nelle Università degli Stati Uniti i compiti scolastici vengono valutati comparativamente su una «curva» in cui soltanto alcuni possono ricevere un voto alto, creando un meccanismo di mors tua vita mea che distrugge la cooperazione attraverso la competizione: se faccio copiare l’amico danneggio me stesso. Similmente le maestre cercano di convincere le bambine più secchione che «non è giusto» aiutare i maschietti meno bravi incentivando in loro comportamenti da mostriciattoli egoisti (con la conseguenza che poi, escludendo, restano escluse). Allo stesso modo i molti cultori-cantori della proprietà intellettuale, raccolti presso dipartimenti riccamente finanziati dalle corporation latifondiste intellettuali, diranno che la proprietà intellettuale «stimola l’innovazione e la creatività», utilizzando esattamente la stessa retorica che i fisiocrati (XVIII secolo) usavano nel celebrare le recinzioni, ossia che senza proprietà privata non c’è incentivo alla coltivazione e al lavoro. Non è questa la sede per soffermarsi sulla discutibilità storica di quelle affermazioni di

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fronte all’uso comune della terra. Bisogna invece qui enfatizzare il risultato completamente controfattuale di queste affermazioni nel caso di risorse come la conoscenza che non sono scarse ma hanno viceversa natura collettiva e relazionale. Privatizzare l’informazione ne limita di fatto la diffusione, e limitarne la diffusione non può che rendere più difficile l’ulteriore innovazione. Dovrebbe dunque essere evidente che il governo più coerente alla fenomenologia dei beni comuni si deve fondare su istituzioni capaci di coinvolgere coloro che sono disinteressati all’accumulo di proprietà privata e di potere politico ma che invece sono gratificati proprio dalla cura del comune. Istituzioni cooperative, fondazioni, associazioni, consorzi fra enti locali, comitati, insomma gruppi che pongano in essere autentiche dinamiche democratiche più o meno informali e conflittuali prive di fine di lucro costituiscono gli assetti istituzionali più adatti a governare i beni comuni. In simili ambiti la creatività fiorisce nella condivisione dei problemi sociali e non si trasforma in un mero esercizio narcisistico dell’individuo. Individualisti e narcisisti Tutto ciò colloca Internet, il grande common globale che tanti indicano come il modello per la gestione dei beni comuni, in una luce ai miei occhi tetra. La Rete, lungi dall’unire, in realtà mi pare divida, individualizzi ed illuda, sollecitando falsa comunità e vero narcisismo. Oggi ci si mandano mail da un ufficio all’altro e la comunicazione scade e si impoverisce. I caffè dei campus americani sono affollati di studenti, ognuno sul proprio computer, che non si guardano e non si parlano, ma che sono collegati via Facebook magari con qualcuno dall’altra parte del mondo o in un caffè poco lontano. La politica è tuttavia «fisicità» se vuole avere qualsiasi chance di emancipazione. E i beni comuni si possono difendere e governare davvero soltanto con la fisicità di un movimento sociale disposto a battersi lungamente e generosamente per riprendere i propri spazi. Non sarà mai un solo giorno di piazza convocato via Facebook a fermare una guerra, a cacciare un tiranno o a scongiurare un saccheggio di beni comuni. SCAFFALE Piccola biblioteca attorno al «comune» e la Rete: «Il Saccheggio. Regime di Legalità e Trasformazioni Globali» di Ugo Mattei e Laura Nader (Bruno Mondadori); «L’acqua e i beni comuni raccontati a ragazze e ragazzi» di Ugo Mattei (Manifestolibri, con Illustrazioni di Luca Paulesu); «Il sapere come bene comune. Accesso alla conoscenza e logica di mercato » di Stefano Rodotà (Notizie Editrice); «Comune» di Toni Negri e Michael Hardt (Rizzoli); «Cultura Libera» (Apogeo) e «Il futuro delle idee» (Feltrinelli) di Lawrence Lessig; «I padroni di Internet. L’illusione di un mondo senza confini» di Jack Goldsmith e Tim Wu (Rgb Media); «La nascita delle società in Rete» (Università Bocconi Editore) e «Galassia Internet» (Feltrinelli) di Manuel Castells. La tendenza ad applicare a Internet le norme che regolano la proprietà privata produce solo confusione. La conoscenza e le informazioni non sono infatti risorse scarse come la terra ma illimitate, perché crescono ogni volta che si condividono

Beni comuni pratiche egemoniche nella rete Data di pubblicazione: 01.03.2011

Autore: Mattei, Ugo

Il capitalismo ci dà, il capitalismo ci toglie: progresso tecnologico da un lato, potere e proprietà dall’altro. Il manifesto, 1 marzo 2011

Internet è la frontiera dove le regole della proprietà privata mostrano la loro violenza ordinatrice. Ma è anche il contesto nel quale le grandi imprese high-tech provano a piegare la comunicazione ai loro interessi. La restistenza a questo tentativo di espropriazione passa

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attraverso una concezione del comune che prenda congedo dal diritto privato e pubblico Sempre più spesso si ripongono grandi speranze nella rete internet come luogo di emancipazione e «contro-egemonia». Intorno ad Internet, negli anni è stata costruita una vera e propria mitologia della rete come spazio pubblico, «luogo comune» informato al principio di uguaglianza, connessione, parità e libertà di accesso, spazio di creatività e condivisione libera. Le belle favole sono numerosissime e tutte vedono come protagonisti giovani geniali e creativi, capaci di idee (poi tradotte in servizi) che, in rapida successione nella corsa continua per la soddisfazione di sempre di nuovi bisogni, sono divenute l' arredo stesso del nostro mondo globale. Basterà pensare agli inventori oggi multimiliardari di Google o di Facebook. Ma gli eroi eponimi della rete sono anche altri e certamente questa rivoluzione del «comune globale» tocca pure aspetti meno commerciali o narcisistici. Sul piano politico, Wikileaks è divenuta icona della trasparenza. Meno di cent'anni dopo che Lenin aveva denunciato la diplomazia dei trattati segreti pubblicando unilateralmente tutti quelli in cui era entrata la Russia zarista, ecco che Assange, che non ha neppure dovuto conquistare il Palazzo d'Inverno, ha potuto produrre, grazie al suo server blindato, altrettanto imbarazzo nelle Cancellerie di tutto il mondo. E poi abbiamo i movimenti per i beni comuni locali, resistenti di tutto il mondo, dagli zapatisti ai sem terra, dai NoTav alle lotte per l'università pubblica, sparsi in ogni continente e organizzati intorno ai più varii temi. Tutti questi gruppi, grazie a Internet, mettono in comune le proprie pratiche, condividono idee e strategie, insomma contribuiscono alla creazione di una cultura politica che coniuga aspetti locali con dimensioni planetarie. Il mito della piazza globale Sarebbe impossibile contestare il fatto che la Rete ha messo a disposizione spesso gratuita e quindi largamente democratizzato, una quantità di informazione assolutamente impensabile fino a poco tempo fa. Basterà pensare a Wikipedia che ha colmato il divario fra quei ragazzi le cui famiglie potevano permettersi un'enciclopedia e gli altri nella preparazione dei compiti e delle ricerche a casa. Non solo, ma essa non offre solo informazioni. In effetti Internet è pure luogo di pensiero critico che si articola nei moltissimi blog che da tutto il mondo offrono riflessioni e pensieri, talvolta intelligenti, dei loro instancabili autori. A questo si aggiungano siti come YouTube, che da qualche anno consentono la messa in rete e la condivisione di ogni sorta di immagine, con conseguenze ancora una volta non indifferenti pure sulla sfera politica. Grazie ad Internet sono possibili operazioni che altrimenti sarebbero impensabili senza una poderosa organizzazione, quali per esempio portare per un giorno in piazza oltre un milione di persone, come è riuscito in Italia al cosiddetto «popolo viola» o al movimento delle donne. Sono questi alcuni dei possibili usi di Internet che l'hanno fatta celebrare come «piazza globale» e luogo di condivisione, facendo declinare dalla Rete alcuni degli aspetti più significativi dell'idea dei beni comuni. Tuttavia, una valutazione di Internet nella prospettiva dei beni comuni consegna messaggi non univoci. Occorre innanzitutto sgombrare il campo da alcuni miti ad esso relativi che mi pare abbiano prodotto eccessivi entusiasmi circa la capacità del web di rompere con la logica tradizionale della modernità costruita sul binomio «proprietà privata-stato». Bisogna compiere uno sforzo di storicizzazione l'esperienze e lo sviluppo di Internet anche se la sua breve esistenza come fenomeno politicamente rilevante, e l'estrema velocità delle trasformazioni anche tecnologiche che la vedono protagonista non rende la cosa agevole perché si tratta sostanzialmente di storicizzare il presente. Quest'operazione consegna immagini di segno opposto rispetto alla mitologia della «piazza globale». Consumatori e produttori Sul piano storico, infatti, la grande diffusione di internet è coincisa in modo quasi perfetto con la «fine della storia», ed è stata sicuramente l'aspetto tecnologicamente più rilevante della nascita e dello sviluppo del cosiddetto capitalismo cognitivo. Internet infatti

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costituisce la grande infrastruttura globale capace di fondare quel particolare sistema di produzione di servizi fondato sullo sfruttamento del precariato intellettuale e sulla trasformazione dei cittadini in consumatori che caratterizza l'attuale fase di sviluppo capitalistico. Inoltre, la diffusione di internet ha prodotto un'accelerazione talmente radicale nella trasmissione di informazioni anche complesse da averne prodotta una altrettanto impressionante nella finanziarizzazione dell'economia, creando le condizioni per il trasferimento di capitali ingentissimi in tempo reale da una piazza finanziaria all'altra (con relativa facilitazione della speculazione). Altre conseguenze problematiche si rinvengono nella sua capacità di sostituire la mano d'opera sul fronte dell'offerta dei servizi, scaricando lavoro sul fronte della domanda, quella appunto dei consumatori. Chi acquista un biglietto ferroviario via Internet svolge personalmente un lavoro che sarebbe altrimenti stato a carico dell'offerta (bigliettaio) o che comunque sarebbe stato intermediato da una persona fisica (agente di viaggio). Non solo quindi, come diceva Jean Baudrillard, il consumatore diviene sempre più qualcuno che paga per lavorare al servizio del capitale (nel caso dei libri su Amazon.com facendo autonomamente ricerca senza aiuto del venditore e perfino scrivendo piccole recensioni ad uso dei succesivi acquirenti) ma la tendenza alla riduzione dei posti di lavoro del capitalismo tecnologico-cognitivo è sotto gli occhi di tutti. È chiaro che la globalizzazione e l'ampliamento dei mercati distributivi resi possibile dal Web produce una serie di effetti collaterali solitamente sottostimati che comunque presentano costi sociali non indifferenti. Non solo posti di lavoro persi ma anche tendenza alla spedizione da grande o grandissima distanza che inquina l'ambiente e si colloca in tendenza radicalmente opposta rispetto al modello «a Km 0» raccomandato dagli ambientalisti. Inoltre, Internet rende tutti dipendenti dalla tecnologia informatica e dalle grandi imprese delle telecomunicazioni che gestiscono l' accesso alla rete. Infatti l'accesso alla piazza è precluso a chi non ha un collegamento via cavo o celluare, cosa per nulla scontata in molti contesti disagiati. Alla conquista del wi-fi Anche nei paesi ricchi Internet è illusoriamente gratuito o poco costoso perché comunque costano tanto la tecnologia necessaria quanto l'accesso. Sebbene da quest'ultimo punto di vista si comincino a registrare sforzi pubblici volti a consentire l'accesso gratuito in molte città (spazi pubblici wi-fi), la necessità di utilizzare computers continuamente «allo stato dell'arte» (per non parlare di smartphones, iPad e altre tecnologie simili) produce comportamenti consumistici insostenibili sia dal punto di vista sociale che da quello ambientale. Dal primo punto di vista, la rapidissima evoluzione tecnologica obbliga a continui upgradings e la durata media di un computer è ormai inferiore a due anni. Dal punto di vista ecologico poi si sa che la costruzione e lo smaltimento dei computer e della tecnologia di acceso a Internet richiede un consumo del tutto insostenibile di minerali rari (saccheggiati in Africa e in altri contesti fragili) e di energie cosa che dovrebbe far riflettere bene quanti sostengono ecologica la sostituzione di libri e giornali cartacei con i cosiddetti ebooks. Se si osserva il governo di Internet si vedrà come inclusione e condivisione siano ben lungi dalle motivazioni e dalle pratiche del suo governo attuale. Infatti, dopo una fase storica iniziale in cui la rete era effettivamente gestita dai suoi principali utenti e padri scientifici, interessati principalmente a svilupparla e a farla crescere, a partire dalla fine degli anni Novanta le cose sono cambiate radicalmente. Oggi la governance di internet è saldamnente in mano ai potenti interessi politici e privati che son stati capaci di adattare al capitalismo cognitivo la grande tenaglia che fin dalla modernità stritola i beni comuni. I baroni dell'immateriale Sono oggi gli Stati Uniti d'America ed i grandi latifondisti intellettuali che, come i robber barons fra il diciannovesimo ed il ventesimo secolo, ne determinano le politiche, mantenendo così saldamente in pugno il controllo della rete. Un controllo che progressivamente ne stritola gli aspetti di bene comune come dimostra il fatto che oggi più

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della metà del traffico che circola sulla rete è costituito dalle cosiddette apps (le applicazioni) private alle quali si accede soltanto a pagamento. Infatti la guerra per il controllo di Internet, una volta che questo è diventata l'infrastruttura fondamentale del capitalismo cognitivo, è durata assai poco. Il governo degli Stati Uniti ha fatto pesantemente valere, anche con l'uso della minaccia penale, la «proprietà» della rete. Nel territorio degli Stati Uniti si trovano infatti la maggioranza dei cosiddetti root servers cioè la quindicina di computers su cui fisicamente si fonda il Domain Name System, ossia il sistema di assegnazione degli indirizzi internet senza il cui continuo mantenimento la rete sarebbe inservibile come una megalopoli in cui le persone abitino senza indirizzo o come una grande biblioteca senza sistema di catalogazione libraria. Internet non sarebbe in alcun modo concepibile senza un potere di assegnazione degli indirizzi ed il controllo del livello base dell'indirizzazione conferisce un autentico potere di vita e di morte sulla fruibilità della rete per i suoi utenti. Tale potere di assegnazione, strettamente gerarchico in barba alla retorica della rete, trova la sua «norma fondamentale» nel Root Server A, la radice della piramide strettamente gerarchica ancorché invertita, che a sua volta si trova in territorio statunitense (ed è quindi controllato dal suo governo). Oggi il centro decisionale della rete è un'altra corporation, nominalmente no profit, Icann (Internet Corporaton for Assigned Names and Numbers) che esercita il suo potere sulla Rete in forza di una convenzione con il Dipartimento del Commercio degli Stati Uniti. Tutti i governi del mondo (con l'eccezione di quello statunitense) hanno un ruolo di consulenza nelle decisioni del Consiglio di amministrazione di Icann, cosa che appare quanto meno ironica a fronte della retorica della rete come bene comune!

Beni comuni. Un diritto alla libertà oltre lo stato e il mercato Data di pubblicazione: 28.11.2010

Autore: Mattei, Ugo

Una definizione eccezionalmente chiara di “bene comune”, e l’analisi del problema che si pone alla cultura e alla società.di oggi. Il manifesto , 27 novembre 2010

La modernità ha creato le condizioni affinché solo la sovranità nazionale o l'attività delle imprese private potessero gestire al meglio aria, acqua, terra, energia e conoscenza. Una visione meccanicista che nega il fatto che si tratta di diritti e bisogni individuali il cui riconoscimento e affermazione deve vedere la diretta gestione da parte della collettività

I bisogni di bene comune non producono profitti se il diritto non li rende artificialmente capaci di tali profitti. Infatti il bene comune offre servizi dati per scontati da chi ne beneficia e il suo valore si misura soltanto in termini di sostituzione quando esso non c'è più. In un certo senso i servizi essenziali resi dai beni comuni sono simili al lavoro domestico che si nota solo quando non viene fatto. Per esempio, i servizi che le mangrovie o la barriera corallina offrono agli abitanti della costa non sono «apprezzati» perché spesso non sono neppure noti ai loro fruitori: in questo senso i desideri che essi soddisfano non sono «paganti». Quando gli italiani distrussero la barriera corallina in Somalia per consentire alle grandi navi da trasporto di attraccare a Mogadiscio per portar via il bottino coloniale, aprirono un varco per gli squali attratti in frotte dal sangue scaricato in mare dal locale macello. La spiaggia di Mogadiscio divenne uno dei posti più pericolosi del mondo per la balneazione. Per ricreare una barriera capace di trattenere gli squali lontano dalla riva ci vorrebbero moltissimi soldi e moltissima tecnologia. Solo nel momento della sostituzione si può avere un'idea (ancorché molto riduttiva e approssimativa) del valore del bene comune. Discorso analogo vale per le mangrovie, distrutte in gran parte per allevare i

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famigerati gamberetti: esse svolgevano un servizio inestimnabile per proteggere i villaggi della costa dalle onde di tsunami. Quanto costerebbe costruire artificialmente una simile barriera? La consapevolezza per il valore dei beni comuni può essere creata soltanto attravereso uno specifico investimento sul fronte della domanda lavorando sulla consapevolezza del nostro rapporto con il contesto in cui essi producono il loro servizi. Nell'arena del marketing I beni comuni sono entità di cui sussiste un bisogno pubblico e privato che non è pagante a causa di tale mancanza della consapevolezza. Proprio l'opposto della maggior parte delle merci prodotte dal capitalismo attuale di cui non susssiste alcun bisogno reale né pubblico né privato. Che bisogno c'è di un modello di automobili esteticamente diverso, di scarpe griffate, o dell'ennesimo telefonino? Di questi beni il bisogno pubblico sussiste soltanto nella misura in cui si accetti un'idea di crescita e di sviluppo totalmente quantitativa (produrre per produrre) ormai evidentemente insostenibile (proprio perché devastatrice dei beni comuni). Il bisogno privato degli stessi viene creato (inventato) lavorando sulla domanda attraverso uno specifico massiccio investimento anche culturale noto come marketing. Il marketing infatti è volto a produrre desideri paganti volti all'accumulo o al consumo di beni privati socialmente inutili o dannosi sovente inventandone l'utilità proprio ai danni di beni comuni (si pensi alla pubblicità per l'acqua minerale che fa restar giovani e belli). Il marketing per lo svilupopo del settore pubblico, peraltro reso indispensabile alla stessa ipertrofia del settore privato (ad esempio le costruzioni di strade e i parcheggi per consentire la vendita di automobili) viene indicato dispregiativamente come propaganda. Il superamento dell'atteggiamento riduzionista proprio dell'equazione fra settore pubblico e Stato offre prospettive non banali. Infatti, il noto ragionamento di Kenneth Galbraith secondo cui la crescita del settore privato (determinata dal marketing) rende necessaria una corrispondente crescita del pubblico (che avviene in modo insufficiente per mancanza di marketing) sconta la fondamentale analogia strutturale fra privato e pubblico interpretati con i tradizionali archetipi di proprietà privata e sovranità statale. La struttura fondamentale di entrambi questi archetipi è infatti il dominio gerarchicamente strutturato del soggetto (persona fisica o giuridica Stato persona) sull oggetto (bene privato territorio). L'opposizione riduzionista a somma zero fra pubblico e privato (più stato=meno mercato; più mercato=meno stato) è tuttavia culturale e politica piuttosto che strutturale perché «inventa» un'opposizione fra pubblico e privato che dal punto di vista strutturale non esiste. In effetti questa falsa opposizione fra due entità che condividono la stessa struttura di dominio esclusivo si colloca pienamente all'interno della logica riduzionista, individualizzante e soprattutto quantitativa propria del paradigma della modernità occidentale. L'afasia dei riduzionisti Il marketing del pubblico gerarchico e burocratico è in effetti propaganda nella misura in cui (come quello del privato) non introduce alcun aspetto relazionale (o dialogico) capace di produrre trasformazione qualitativa (sviluppo del capitale sociale?) del significante e del ricettore ma emette segnali solipsistici volti a stimolare una domanda di consumo in un soggetto passivo. In realtà l'opposizione strutturale autentica è quella fra la logica riduzionistica e meccanicistica della modernità condivisa da proprietà privata e Stato e quella fenomenologica, relazionale, partecipativa e critica propria del «comune». Soltanto quest'ultima logica supera il riduzionismo cartesiano soggetto-oggetto ed il conseguente delirio storico della modernità che ha portato l'umano (soggetto astratto) a collocarsi al di fuori della natura, autoproclamandosi suo dominus. In questo diverso quadro, la consapevolezza del bene comune (e la conseguente trasformazione motivazionale del soggetto) non può essere prodotta dal marketing ma al contrario deve passare attraverso la logica dialettica del sapere critico. In altre parole, per raggiungere la consapevolezza del bene comune occorre una trasformazione del soggetto, una rivoluzione nei suoi apparati

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motivazionali, una visione del mondo autenticamente rivoluzionaria. Mentre la logica del marketing (o della propaganda) produce motivazioni allineate alla produzione di ideologia dominante riduttivista e incentrata sullo status quo, quella del sapere critico di base produce la trasformazione qualitativa essenziale per la stessa percezione dei beni comuni. Tra natura e cultura In definitiva l'investimento necessario per creare domanda di beni comuni (prima di tutto la percezione della loro esistenza e vulnerabilità) si chiama cultura critica ed è a sua volta un bene comune. È cioè la stessa contrapposizione strutturale soggetto\oggetto che deve smettere di fare i suoi danni epocali perchè ad essa è seguita, inevitabilmente, la mercificazione di entrambi. Il bene comune, a differenza del bene privato (cose) e di quello pubblico (demanio, patrimonio della Stato) non è un oggetto meccanico e non è riducibile in merce. Il bene comune è una relazione qualitativa. Noi non «abbiamo» un bene comune (un ecosistema, dell'acqua) ma in gran misura «siamo» il bene comune (siamo acqua, siamo parte di un ecosistema urbano o rurale). Ecco perché alcune delle tassonomie che cominciano ad emergere sui beni comuni quali per esempio quella fra beni comuni naturali (ambiente, acqua, aria pura) e beni comuni sociali (beni culturali, memoria storica, sapere) devono essere oggetto di riflesione critica approfondita e vanno maneggiate con consapevolezza. Esse veicolano in qualche modo la vecchia logica meccanicistica della separazione fra soggetto ed oggetto che rischia di produrre mercificazione. I beni comuni, la loro stessa percezione e la loro difesa passa necessariamente attraverso una piena posa in opera politica della rivoluzione epistemologica prodotta dalla fenomenologia e dalla sua critica dell'oggettività. Il soggetto è parte dell'oggetto (e viceversa). È per questo che i beni comuni sono legati inscindibilmente ai diritti fondamentalissimi, della persona, del gruppo, dell'ecosistema, della natura e in ultimo del pianeta vivo. E arriviamo così ad un riepilogo sulla vera rivoluzione culturale necessaria per la declinazione del comune come categoria del politico e del giuridico. La separazione riduzionista fra soggetto ed oggetto tipica della tradizione cartesiana (e scientistica da Galileo in avanti) ha strutturato la filosofia dell'«avere» alle cui radici stanno gli appetiti acquisitivi primordiali che spiegano le origini ed il succeso storico della proprietà privata individuale e dello stato sovrano territoriale. Tanto la struttura del giuridico quanto quella del politico istituzionalizzano la logica dell'avere che è poi quella della concentrazione del potere. Esse hanno strutturato istituzionalmente l'idea dell'umano separato dal naturale e di una oggettiva res extensa separata dalla res cogitans: in altre parole di una realtà oggettiva separata dal suo interprete. È noto come la fenomenologia contesti radicalmente questi presupposti ma come tale critica non abbia ancora trovato una declinazione istituzionale. La cultura giuridica non è riuscita a proporre quindi assetti giuridici alternativi a quelli della modernità, rappresentati dal «regime di legalità» (rule of law) ossia dall'illusione che si possa essere governati da leggi (oggettive e ontologicamente esistenti di per sé) e non da uomini che comunque le interpretano introducendo l'inevitabile componente soggettiva. Una relazione negata Il comune è invece nozione che può comprendersi solo in autentica chiave fenomenologica ed olistica ed è quindi incompartibile con la logica riduzionistica dell'avere (e del potere). Si può rendere quest'idea con la locuzione «il comune siamo anche noi». Il comune non è solo un oggetto (un corso d'acqua, una foresta, un ghiacciaio) ma è anche una categoria dell'essere, del rispetto, dell'inclusione e della qualità. È una categoria relazionale fatta di rapporti fra individui, comunità, contesti ed ambiente. In altri termini il comune è categoria ecologica-qualitativa e non economico-quantitativa come proprietà e sovranità statale. Per questo il comune non è riducibile ad un diritto (categoria dell'avere: io ho un diritto) ma si collega inscindibilmente con la possibilità effettiva di soddisfazione di diritti fondamentali che è ad un tempo esperienza di soddisfazione soggettiva e di partecipazione oggettiva alla comunità ecologica. Nella logica del comune scopaiono le barriere fra

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soggetto ed oggetto e anche quelle fra natura e cultura. Un ambiente visto come bene comune non è un' entità statica ma è allo stesso tempo natura e cultura, fenomeno globale e locale, tradizione e futuro. In una parola il comune è civiltà: proprio come l' acqua che stiamo difendendo dalla primordiale logica del potere, della predazione e del saccheggio di cui invece si nutre il capitale. SCAFFALEUno statuto giuridico ancora tutto da sviluppare Il presente scritto fa parte del volume La Società dei beni comuni a cura di Paolo Cacciari [edito da Ediesse e Carta], che sta per arrivare in edicola e che contiene numerosi importanti interventi. Una prima posa in opera del «bene comune» come genere alternativo rispetto alla proprietà privata e a quella pubblica si ritrova nei lavori della cosiddetta «Commisione Rodotà». Si vedano: Invertire la rotta. Idee per una riforma della proprietà pubblica (a cura di U. Mattei, E. Reviglio e S.Rodotà, Il Mulino), I Beni pubblici. Dal governo democratico dell'economia alla riforma del codice civile (materiali editi dalla Academia Nazionale dei Lincei). Per un inquadramento ampio della tematica: Privato Pubblico Comune. Lezioni dalla Crisi Globale (volume collettivo curato da Laura Pennacchi per Ediesse). Infine, va segnalato l'importante contributo storico-comparativo di Filippo Valguarnera Accesso alla Natura fra ideologia e diritto (Giappichelli).

Oltre l'alternativa tra pubblico e privato. Nel regno delle enclosures Data di pubblicazione: 04.09.2010

Autore: Mattei, Ugo

“I beni comuni scontano l’ incompatibilità archeologica e strutturale con gli aspetti più profondi della giuridicità all' occidentale”. Il manifesto, 4 settembre 2010

Il famoso saggio sulla «Tragedia dei comuni» scritto dal biologo Garret Harding negli anni Sessanta è stato l'ultimo tentativo di legittimare l'individuo proprietario, figura che ha profonde radici nella cultura giuridica. Il nodo vero da sciogliere è il potere e lo statuto politico del «comune»

Ogni volta che viene avviata una la riflessione sull'attuale statuto giuridico dei beni comuni bisogna sempre fare un'incursione nel passato. Il punto fondamentale da mettere in rilievo è che in Occidente fin dalle sue origini la dimensione giuridica si è conquistata un ruolo fondamentale articolandosi intorno all'«individuo-proprietario», dominus di un dato territorio. In effetti, alle radici del diritto romano si trovano le esigenze contingenti di una società clanica patriarcale nella quale i pater familias insieme al loro gruppo controllavano spazi territoriali definiti su cui esercitare sovranità. I clan (gentes) erano fra loro formalmente uguali, come fossero «micro stati» di un ordine internazionale di stati sovrani. La legge dei patrizi Il diritto e le istituzioni romane nascono dunque intorno al 500 avanti cristo per progressive cessioni di sovranità fra clan uguali stanziati su territori limitrofi, rappresentati dai pater familias, proprietari fondiari che col tempo si raccolsero politicamente nel Senato. I conflitti privati fra pater familias sul dominium (proprietà privata) e sui suoi limiti e confini crearono la necessità di istituzioni volte alla loro

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risoluzione. Tali istituzioni giuridiche si svilupparono ed autonomizzarono gradualmente da quelle politiche specie nel cosiddetto periodo classico fra il primo secolo avanti cristo e il primo dopo cristo. Esse sostanzialmente consistettero in meccanismi di nomina, ad opera del pretore (un politico) di un patrizio (un pari dei patres coinvolti nel conflitto) come iudex al fine di affidargli la soluzione della controversia. Il iudex era scelto in quanto pari dei litiganti e non era dotato perciò di alcunché di paragonabile ad una «cultura giuridica». Oggi diremmo che era un laico. Man mano che la società divenne più complessa, fu sempre più necessario coinvolgere «professionisti» privati, dotati di conoscenza del diritto, (i giuristi). Costoro nel lavorio dei loro circoli e delle loro scuole avevano sviluppato e conservavano in buon ordine un armamentario tecnico fatto di formulae capaci di ridurre la complessità di ogni singolo conflitto in un'alternativa secca, risolvibile in termini di ragione o di torto. Chi ha diritto e chi torto nel complicato conflitto fra Aulo Agerio (colui che agisce in giudizio) e Numerio Negidio (colui che nega di dovere del denaro)? Il conflitto fra soggetti proprietari andava distillato in un'alternativa semplice e chiara anche per un non giurista da sottopore allo iudex del caso di specie ma anche riproducibile in successivi eventuali casi simili. In questo modo il diritto occidentale nasce come un gioco a somma zero (che scarta i dati fattuali ritenuti irriproducibli e quindi irrilevanti) in cui la ragione di un proprietario si estende soltanto fino a quella dell'altro suo antagonista che ne nega il potere. Infatti, chi supera le proprie ragioni, oltrepassando i confini del suo diritto si mette dalla parte del torto che è l'opposto del diritto (in italiano la «diritta» via si contrappone a quella «storta»). I feudatari di Guglielmo In questo originario quadro istituzionale e (successivamente) concettuale si sviluppa il diritto occidentale. Alle sue radici c'è una concezione che si radica nelle necessità dell'individuo (proprietario) collocato in relazione conflittuale (a somma zero) con una controparte processuale. La compilazione del Corpus iuris civilis di Giustiniano (476 dopo Cristo) collocata all'epilogo di una vicenda giuridica durata mille anni, consegna all'Occidente i suoi testi giuridici fondamentali. Oltre ad un libro introduttivo noto come Istituzioni ed una raccolta di leggi e decreti di natura politica ( Codex e novelleae), Giustiniano racoglie ed offre ai posteri un insieme selezionato di opinioni di giuristi (principalmente Paolo, Ulpiano e Modestino) volte a dirimere conflitti reali, formulandoli in termini di ragione o di torto (cinquanta libri di pandettae o digesto). Sulla base della compilazione giustinianea si svilupperà a partire dall'XI secolo tutta la «sapienza civile» formalizzata e tramandata fino a noi dalle facoltà di giurisprudenza continentali . Un modello molto simile, fondato (sebbene meno pervasivamente) sugli stessi materiali di provenienza romana viene formalizzato e conservato fino ai nostri giorni dalla giurisprudenza delle Corti superiori della tradizione anglo-americana. Le Corti di common law, centralizzate in Inghilterra a partire dal XII secolo, si svilupparono a loro volta per dirimere i conflitti fra i grandi proprietari fondiari (Baroni), beneficiati da Guglielmo il Conquistatore di diritti dominicali di natura feudale. Anche qui i giuristi professionisti svolsero un ruolo molto simile a quello dei loro antenati romani nel preparare l'alternativa secca che ancor oggi viene sottoposta alle giurie popolari laiche (l'equivalente contemporaneo del iudex). In questo quadro teorico ed istituzionale il posto occupato dai beni comuni è del tutto marginale. Infatti, ciò che non è in proprietà privata può appartenere alla res publica (lo Stato, grande assente dell'esperienza medievale continentale) o può essere res nullius (cosa di nessuno) in quanto tale appropriabile liberamente. In conceto di res communis omnium, né privata né statale pur non assente, risulta largamente sottoteorizzata nella tradizione occidentale molto probabilmente perché da sempre l'occupazione del comune ad opera del più forte è uno dei più diffusi strumenti di accrescimento della proprietà privata. Ne segue che la sottoteorizzazione della differenza fra quanto appartiene direttamente a tutti (senza la mediazione dello Stato) e quanto non

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appartiene a nessuno è funzionale alle esigenze della classe proprietaria (comunque «padrona del diritto») interessata ad ampliare le proprie possibilià di occupazione confondendo i due concetti. Questo è vero anche oggi perché l'ideologia dominante è prodotta nell'interesse esclusivo delle classi proprietarie (si pensi al successo arriso al saggio scritto dal biologo Garret Harding nel 1968 e significativamente pubblicato dalla rivista Science con il titolo la «Tragedia dei comuni» che si fonda sull'assunto palesemente ideologico che i commons siano liberamente appropriabili). Infatti nell'esperienza contemporanea i dipartimenti di economia delle università americane svolgono la stessa funzione di «apparati ideologici» al servizio delle classi abbienti tradizionalmente propria dei giuristi. In cambio della costruzione di ideologia giuristi ed economisti traggono potere, prestigio professionale e denaro. Tuttavia esistono pure ragioni più profonde legate alla struttura stessa del diritto come sopra descritta che spiegano la marginalità del comune rispetto all'accoppiata proprietà privata/Stato nell'immaginario giuridico occidentale. Il comune in quanto potere diffuso (o non potere) risulta strutturalmente incompatibile con il processo. Infatti, dato il descritto assetto istituzionale volto primariamente alla soluzione di conflitti fra privati proprietari, ben difficilmente in pratica il comune sarà in grado di trovare qualcuno che lo rappresenti in giudizio (convenendo quanti cercano di appropriarsene). Da un lato infatti il comune era normalmente fruito da non proprietari, di regola contadini poveri in quanto tali non dotati di mezzi sufficienti per avere accesso alle corti. Basti pensare alla facilità con cui essi furono vittimizzati dalle enclosures volute nell'Inghilterra delle prime manifatture dall'alleanza proprietà privata-Stato. Arrivano le class action D'altra parte, la struttura del processo avversariale come gioco a sommazero richiede un interesse ad agire specifico riferibille ad un dato individuo. I beni comuni, caratterizzati da fruibilità diffusa, appartenendo a tutti non consentono di individuare nessuno che sia dotato di un interesse speciale rispetto ad essi tale da legittimarne la rappresentanza in corte. In altri termini, in un processo visto come gioco a somma zero fra un vincitore e uno sconfitto non c'è posto (salvi speciali accorgimenti tecnico-processuali tipo class actions sviluppatisi in via eccezionale solo molto di recente) per un'azione legale i cui benefici siano diffusi in modo potenzialmente illimitato. è il problema noto nel diritto americano come standing to sue (letteralmente: alzarsi in piedi per fare causa): chi fra l'altissimo numero di beneficiari dell'acqua potabile (o dell'aria pulita) può differenziare a sufficienza il suo interesse rispetto a quelllo di tutti gli altri in modo da ergersi a suo paladino esercitando i poteri processuali che derivanoi dalla lite? Si tratta di un problema di grande impatto pratico perché le Corti sono riluttanti ad ammettere tutto ciò che si discosta dall'archetipo del gioco a somma zero e che i vari diritti risolvono (quando risolvono) in modo ecezionale. Insomma sembra proprio di poter dire che i beni comuni scontano una forma di incompatibilità archeologica e strutturale con gli aspetti più profondi della giuridicità all' occidentale, fondata sull' abbinata universalizzante ed esaustiva proprietà privata/Stato e, più di recente, sulla retorica dei diritti individuali. Tutto ciò evidentemente chiama il giurista ad un compito tanto difficile quanto entusiasmante ed urgente: costruire le basi nuove di una giuridicità che ponga al centro il comune per contribuire alla costruzione di un'autentica sostenibilità di lungo periodo sottratta agli appetiti predatori della proprietà privata e dello Stato.

Il governo del comune il pianeta salvato dal declino Data di pubblicazione: 27.06.2010

Autore: Mattei, Ugo

Prosegue la riflessione sui “commons”: le due visioni del mondo (competizione e

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collaborazione) che sono al fondo di ciascuna questione dei nostri tempi, e quella virtualmente superatrice. Il manifesto, 27 giugno 2010

Rimanere ancorati all'opposizione tra pubblico e privato impedisce lo sviluppo di una gestione cooperativa e condivisa dell'acqua, del sapere, della salute, dell'energia e del patrimonio culturale. Da qui la necessità di elaborare un'alternativa credibile al paradigma basato sull'individualismo metodologico dominante nel diritto, nella filosofia e nelle scienze sociali

Soltanto la rozza applicazione del modello dell 'homo oeconomicus, massimizzatore individualista delle utilità di breve periodo, spiega gli esiti (ed anche il successo accademico) della cosiddetta tragedia dei comuni. In effetti la nota parabola del biologo Garret Harding, presentata al pubblico in un celebre saggio nel 1968, pur oggi autorevolmente confutata perfino dal premio Nobel per l'economia nel 2009 Elinor Olstrom, ha portato il mainstream accademico a vedere il comune come luogo del non diritto. Secondo questa idea, una risorsa in comune in quanto liberamente appropriabile, stimola comportamenti di accumulo opportunistici che ne determinano la consunzione definitiva. Così ragionando si considera realistica l'immagine di una persona, invitata ad un buffet in cui molto cibo è liberamente accessibile, avventarsi sullo stesso cercando di massimizzare l'ammontare di calorie che riesce a immagazzinare a spese di tutti gli altri, consumando perciò la massima quantità possibile di cibo nel minor tempo possibile secondo il criterio dell'efficienza. Il senso del limite, creato dal rispetto nei confronti dell'altro e della natura, viene così escluso a priori da tale modello antropologico irrealistico fondato su una visione scientifica puramente quantitativa. Tra competizione e concorrenza La «tragedia dei comuni» evidenzia due visioni del mondo in conflitto. Quella dominante è fondato su un'idea fondamentalmente darwinista, che fa della «competizione» della «lotta» e della «concorrenza» fra individui o comunità gerarchiche (come le corporation) l'essenza del reale. Quella recessiva, sconfitta ormai da molto tempo sul piano della prassi in occidente (e sotto attacco in quei luoghi dove ancora in parte resiste) è invece fondata su un idea ecologica e comunitaria del mondo. Il modello dominante lo vediamo proposto costantemente nelle retorica della crescita, dello sviluppo (dei modi di uscita dalla crisi) utilizzata dai media capitalistici nonostante la catastrofica situazione ecologica ed economica. Il modello recessivo caratterizzava l'esperienza politico-giuridica medievale in cui la parcellizzazione del potere feudale manteneva al centro della vita in società la comunità corporativa pre statuale. L'abbandono di questo modello comunitario in Occidente è il prodotto progressivo delle esigenze dei mercati di fondarsi su istituzioni politiche di dimensione statuale al fine di farne uso nella corsa al saccheggio coloniale e di rafforzare le concentrazioni di capitale. In periferia il modello recessivo ancor presente nell'organizzazione di villaggio subisce un assalto spietato fatto di aggiustamento strutturale (piani dela Banca Mondiale e del fondo monetario internazionale volti a favorire la mercificazione della terra) e culturale (retorica dei diritti umani, dell'emancipazione femminile all'occidentale e in generale della modernizzazione). La rivoluzione olistica Sul piano scientifico e filosofico il secondo modello si è preso vistose rivincite. Infatti si sta sempre più diffondendo una visione che vede il pianeta vivente come una «comunità di comunità ecologiche», legate fra loro in una grande tela, un network di relazioni simbiotiche e mutualistiche, in cui ciascun individuo (umano o meno che sia) non può che esistere nel quadro di rapporti e di relazioni diffuse secondo modelli di reciprocità complessa. Mentre il paradigma dominante (competitivo o gerarchico che sia) fondato su una antropologia individualizzata per ragioni ideologiche è inadatto a descrivere questi

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nessi, che sono prima di tutto qualitativi e non quantitativi, il paradigma recessivo ci offre una percezione della realtà ben più realistica. Il rapporto paradigmatico del modello recessivo non è il dominio assoluto del soggetto sull'oggetto (proprietario-beni; Stato-territorio) ma la cura, la dipendenza ed il nutrimento (simbiosi mutualistica, parassitismo). Ciascun individuo dipende per la sopravvivenza dal suo rapporto con gli altri, con la comunità, con l' ambiente. Cura, nutrimento e dipendenza sono relazioni di tipo qualitativo e non quantitativo perché le necessità ecologiche sostenibili sono sul piano quantitativo costanti. Infatti tutti gli individui hanno grosso modo lo stesso bisogno quantitativo di cibo (misurato in Kilocalorie) ed acqua (misurate in litri) per la sopravvivenza. Le differenze rilevanti sono evidentemente qualitative (tipo di dieta, purezza dell'acqua). Ed in verità, atteggiamenti maggiormente olistici, fondati sulla mappatura di relazioni qualitative piuttosto che su misurazioni quantitative, nonché sulla critica al riduzionismo positivistico di matrice galileiana, newtoniana e cartesiana si sono imposti pure in fisica teorica. Essi, fin dalle origini della meccanica quantistica e del realitivismo hanno provocato un'autentica rivoluzione epistemologica, che ha tuttavia radici antiche. Tale rivoluzione «olistica» che sul piano filosofico sembra articolarsi nella nozione di fundierung e di «rilevanza» tipica della fenomenologia, non ha tuttavia contaminato le scienze sociali. Qui la tradizione empirista anglo-americana (con radici nello scientismo baconiano) domina ancora il panorama accademico soprattutto in economia, politologia e sociologia e anche nella tradizione filosofica analitica anglo-americana. E una simile impostazione scientistica domina oggi nel diritto. L'ecologia si fonda fin dalle sue origini sulla tradizione recessiva in cui al centro si colloca la comunità ed in cui l'individuo solitario e competitivo viene denunciato come una mera finzione. Se infatti, l'individuo solitario in natura soccombe, la sua costruzione teorica e la sua spettacolarizzazione immaginaria sono certamente funzionali alle esigenze produttive del capitalismo che intende venedergli i suoi prodotti. Proprio allo scopo di inventare bisogni privati sempre nuovi si è sviluppata la disciplina del marketing la quale, creando false immagini e miti materialistici per lo più egocentrici e narcisistici produce comportanenti di consumo dagli effetti ecologici devastanti. L'individuo reso in tal modo solo, narcisistico e desideroso di consumare trova nelle merci e nel rapporto contrattuale il proprio principle (a volte unico) orizzonte relazionale reso «oggettivo» dal sistema dei prezzi da pagarsi per la soddisfazione dei vari sempre più complessi «bisogni». Le false antinomie La «finzione» individualistica tipica della tradizione liberale (il mito di Robinson Crosue) infatti scollega il bisogno dalle necessità reali di sopravvivenza (necessità che possono soddisfarsi in modo qualitativamente diverso ma quantitativamente costante) e lo «inventa» in funzione delle esigenze della sua soddisfazione (supply side economics). In tal modo un paradigma quantitativo sottomette quello qualitativo perché più si riescono a far crescere i bisogni indotti, più denaro si potrà incassare dalla loro soddisfazione. Purtroppo la dimensione ecologica ed il pensare «sistemico» - paradigmi capaci di svelare queste dinamiche di accumulazione individualistica che sono devastanti per la vita in comunità - sono i grandi assenti del pensiero politico contemporaneo, il quale trova nelle «scienze sociali» (in particolare la microeconomia, le scienze aziendalistiche e per fino il marketing) e nel diritto la sua sola interlocuzione «culturale». Proprietà privata e Stato nelle varie loro declinazioni, sono le due grandi istituzioni giuridico-politiche che declinano la visione dominante. Il discorso dominante, fondato sulla contrapposizione dualistica e riduzionistica fra stato e mercato, le presenta come radicalmente conflittuali. Si assume in modo criptico che il loro sia un rapporto a somma zero: più Stato uguale meno mercato; meno mercato uguale a più Stato. In questo schema riduttivo Stato e proprietà privata divengono la quintessenza rispettivamente del pubblico e del privato ed i poli della contrapposizione fra i due. Naturalmente questa immagine è del

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tutto falsa tanto sul piano storico quanto su quello del presente perché le due entità, in quanto istituzioni sociali e dunque vive, non possono che essere strutturalmente legate in un rapporto di simbiosi mutualistica. I confini fra le due sono presentati ad arte come netti per una precisa scelta ideologica. Tuttavia la sua falsità storica è del tutto irrilevante nel riflettere sulla egemonia di un certo discorso politico, sicché la pervasività di Stato e mercato come rappresentanti rispettivamente del pubblico e del privato non lascia posto ad alcun terzo genere. Questa rigità e questo riduzionismo di analisi e prassi, sono in realtà il prodotto di una struttura comune a proprietà (mercato) e sovranità (stato) che consiste nell'elemento della concentrazione del potere. Le strutture privatistiche (proprietà privata, società per azioni ecc.) concentrano il potere di decisione ed eclusione in capo ad un soggetto (il titolare) o nell'ambito di una gerarchia (l' amministratore delegato). Similmente le strutture pubblicistiche (burocrazia) concentrano il potere ai vertici di una gerarchia sovrana simboleggiata dall'esclusione di ogni altro soggetto decisionale nell'ambito di una data sfera di giurisdizione (modello della sovranità territoriale e sue articolazioni politico-amministrative). L'ecosistema della collaborazione Il governo del comune sposa il paradigma recessivo e rifiuta radicalmente questa logica riduttivistica articolandosi intorno a diffusione del potere ed inclusione. Esso costituisce un altro genere radicalmente antagonista rispetto alla declinazione esaustiva del rapporto pubblico\privato o stato\mercato. Il comune infatti rifiuta la concentrazione del potere a favore della sua diffusione. Il comune ha come modello un «ecosistema», ossia una comunità di individui o di gruppi sociali legati fra loro da una stuttura a rete; esso rifiuta più in generale l'idea gerarchica (e anche quella competitiva prodotto della stessa logica) a favore di un modello collaborativo e partecipativo che non conferisce mai potere ad una parte rispetto ad altri elementi del medesiono tutto, ponendo al centro l'interesse di quest'ultimo. È quindi essenziale avere chiaro che proporre di considerare un'entità (acqua, università) come «bene comune» al fine del suo governo ha certamente lo spirito di una radicale «inversione di rotta» rispetto al trend apparentemente inarrestabile della privatizzazione, ma non significa che la prospettiva sia limitata ad un ritorno di gestione da parte di un settore pubblico burocratico, autoritario o colluso. La strada da intraprendere è piuttosto quella dell'istituzionalizzazione di un governo partecipato, in spirito cooperativo, capace di coinvolgere in modo diretto e con strumenti nuovi le comunità di utenti e di lavoratori secondo quanto previsto in Italia dall' articolo 43 della Costituzione. Fare chiarezza su questo punto è essenziale sul piano politico perché ancora oggi, nonostante la drammatica crisi palestatasi nell' autunno 2008, quando si propone una «inversione di rotta» rispetto alla furia privatizzatrice della «fine della storia» non è raro ricevere accuse di statalismo. Va chiarito che una maggior estensione dell'ambito del comune (sottratto tanto allo Stato quanto al mercato) favorisce una diversa logica rispetto ad entrambi, quella dell'autentica democrazia partecipativa. Un'idea di «meno stato, meno mercato, più comune» costituisce io credo la sola via per far ripartire una narrativa «di sinistra» capace di recuperare consenso.

Beni comuni Data di pubblicazione: 20.10.2010

Autore: Mattei, Ugo

La privatizzazione dell’acqua, aggressivamente promossa dal governo Berlusconi, spinge ad aprire la riflessione sul rapporto tra società e pianeta nell’età della rapina dei beni comuni. Il manifesto, 14 febbraio 2010

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Il tema dei beni comuni (ambiente, acqua, paesaggio, risorse naturali, beni culturali, informazioni) e della loro tutela è tornato drammaticamente alla ribalta a seguito dell'approvazione (attraverso il solito sistema della fiducia) del «Decreto Ronchi» nel novembre scorso. Come noto, il governo italiano ha sferrato in quella sede un attacco formidabile alla gestione pubblica del servizio idrico, rendendo sostanzialmente obbligatoria su tutto il territorio nazionale la gestione privata dell'acqua. Naturalmente la privatizzazione in Italia era già possibile (ma almeno non obbligatoria!), e già aveva dato pessima prova di se in realtà quali Arezzo e Agrigento, così come documentato dal bellissimo reportage «Acqua rubata» di Stefano Iacona, andato in onda su Rai 3, e che può essere scaricato dal sito: www.siacquapubblica.it Il mercato dei servizi La posizione del governo Italiano e purtroppo di alcuni esponenti del centrosinistra, va in controtendenza radicale rispetto alle più avanzate e responsabili tendenze globali volte a riconoscere l'acqua come un bene comune, non sottoponibile alla logica del mercato, meritevole di protezione giuridica anche nell'interesse delle generazioni future. Per esempio, la recente Costituzione Ecuadoregna, una delle carte costituzionali più avanzate e sensibili alle esigenze ecologiche del pianeta, nata com'è dalla resistenza nei confronti dello scempio ambientali operato dal colosso texano Chevron, documentato in Crude dal videomaker Joe Berlinger, riconosce l'acqua come bene comune addirittura nel suo primo articolo. Le politiche neoliberali di privatizzazione dell'acqua, che avevano portato alla repressione nel sangue delle proteste, come è accaduto nella cittadina boliviana di Cochabamba contro le multinazionali francesi, cercano di prendersi in Italia la rivincita nei confronti delle loro solenni sconfitte. Non solo infatti i martiri di Cochabamba sono stati determinanti nella cacciata di di Sanchez de Losada che ha aperto la strada a Evo Moreles, ma più di recente Vivendi e Suez (i colossi francesi che dominano il mercato dell'oro blu) hanno subito una pesante battuta d'arresto in casa quando il comune di Parigi, dopo 25 anni, ha ripubblicizzato l'intero servizio idrico affidandole la gestione alla giovane e battagliera assessore Anne Le Strat. In Italia la questione dell'acqua come bene comune, smaschera in modo estremamente chiaro, i due principali fenomeni di ipocrisia politica che mi pare avvelenino l'attuale fase politica. In primis la conversione «antimercatista» di Giulio Tremonti, che su questa vicenda (come su quella della libera informazione bene comune) dimostra di predicare bene ma razzolare molto male. In secondo luogo, quella di quanti (e purtroppo nel Pd ce ne sono tanti anche fra gli «intellettuali ed economisti d'area») sostengono la percorribilità di una via che declama la proprietà pubblica dell'acqua come bene, ma ne sostiene la privatizzazione come servizio. Questa foglia di fico, copre per esempio la recente astensione del sindaco di Torino Sergio Chiamparino nella risoluzione del Consiglio Comunale che si è espresso (a larga maggioranza) contro la mercificazione dell'acqua. Così argomentando non si tiene conto dell'ovvietà (peraltro da più parti dimostrata) che nel caso di beni a valore aggiunto estremamente basso come l'acqua la gestione è molto più importante del titolo di proprietà per definirne i caratteri pubblici o privati. Invertire la rotta Eppure in Italia ci si era mossi con largo anticipo rispetto alla crisi per elaborare un'alternativa tecnicamente avanzatissima nella gestione dei beni pubblici e comuni, capace di operare una effettiva e costruttiva inversione di rotta rispetto alla deriva «mercatista» e privatizzatrice dell'oro blu e degli altri cespiti del patrimonio pubblico svenduti per far cassa. Fin dal 2005 sono circolati fra giuristi ed economisti i risultati di studi condotti al massimo livello possibile nel nostro paese presso l'Accademia Nazionale dei Lincei che raccomandavano (e l'allora Presidente Giovanni Conso era stato fra i più consapevoli dell'urgenza) la necessità di metter mano ad una legislazione per principi capace di governare questi processi per Invertire la rotta (per riprendere il titolo della

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prima pubblicazione dei lavori lincei uscita nell'estate 2007 per i tipi del Mulino). Finalmente, dimostrando almeno un minimo di sensibilità per quel dialogo fra politica e cultura che manca interamente all'attuale maggioranza (che fa del becero anti-intellettualismo aziendalistico la bandiera culturale della sua politica accademica), veniva istituita dal Ministero della Giustizia la Commissione per la riforma del diritto dei beni pubblici la cui presidenza è stata affidata a Stefano Rodotà. La Commissione Ministeriale, composta di giuristi ed economisti di notevole autorevolezza e rappresentativi di aree politico-culturali che spaziavano dalla desta alla sinistra, ha lavorato intensamente a partire dal giugno 2007, producendo nel febbraio 2008 un «Disegno di Legge Delega» contenente, fra l'altro, i principi fondamentali di una gestione pubblica, anche nell' interesse delle generazioni future, dei beni comuni, in primis l'acqua e l'ambiente. (La proposta è stata poi presentata all'Accademia dei Lincei nell' aprile del 2008). Caduto il governo presieduto da Romano Prodi, il disegno di legge delega avrebbe fatto la fine di tantissime altre riforme proposte, che giacciono a prender polvere negli uffici legislativi di Via Arenula, se non fosse stata per la lodevole iniziativa del Vicepresidente del Consiglio Regionale piemontese, il democratico Roberto Placido. Lavorado a stretto contatto con un comitato nel frattempo costituitosi a sostegno della «Riforma Rodotà», Placido riusciva a far votare nell'ottobre 2009 all'unanimità dal Parlamento regionale piemontese una proposta di legge delega che recepiva integralmente la proposta Rodotà. Presentato al Senato nel novembre 2009 (alla Conferenza stampa hanno partecipato tutti i gruppi consiliari piemontesi oltre allo stesso Giovanni Conso), il testo della Regione Piemonte iniziava il suo travagliato iter parlamentare presso la Commissione Giustizia. Per ora esso ha incassato una bocciatura dalla Commissione Difesa (preoccupata presumibilmente che si ostacoli la vendita del demanio militare) e un parere favorevole dell'Ufficio Legislativo del Ministero della Giustizia. È di questi giorni l'incorporazione di identico testo in una proposta di legge del gruppo Ad in Senato (primi firmatari Felice Casson e Anna Finocchiaro), mentre alla Camera i deputati torinesi Stefano Esposito e Anna Rossomando stanno cercando di presentarla con uno schieramento politico più ampio e trasversale possibile. Un dialogo glocal Nel frattempo, sempre da Torino, è iniziato immediatamente dopo l'approvazione del Decreto Ronchi, il lavoro preparatorio per un referendum contro la privatizzazione dell'acqua affidato ad un apposito comitato referendario (che comprende diversi esponenti della Commissione Rodotà). A partire dall'11 gennaio 2010 il Comitato referendario torinese (www.siacquapubblica.it) siede al tavolo di lavoro comune che si sta tenendo presso il Forum dell'Acqua Pubblica a Roma (www.acquabenecomune.org) e che raccoglie diverse forze politiche (Idv, Sel, Verdi, Federazione Sinistra) e tutti i movimenti locali per la difesa dell'acqua intorno ad un'ipotesi di quesiti referendari preparati dai giuristi Alberto Lucarelli, Gaetano Azzariti, Gianni Ferrara, Stefano Rodotà oltre a chi scrive. Intorno alla riforma dei beni pubblici e all'acqua come bene comune si sta sperimentando uno stile di lavoro politico-legislativo bottom up che partecipa, partendo dal livello locale, ad una nuova presa di coscienza ecologica a livello internazionale. Si tratta semplicemente di costruire un'organizzazione sociale rispettosa dei beni comuni, essenziali per la sopravvivenza equilibrata della nostra specie su questo pianeta e quindi non sottoponibili alla logica del profitto in nessuna sua forma. Si tratta inoltre di praticare un dialogo alto fra la politica più sensibile e l'accademia più avveduta nell'interesse del bene comune e di «buone azioni» civili. In particolare, i giuristi stanno giocando un ruolo importante nello stimolare questo dialogo cercando attuazione istituzionale di riforme che rigettino lo sfruttamento e l'egemonia dell'efficientismo economico, e si fondino piuttosto su una gestione pubblica del patrimonio pubblico rispettosa dei diritti della nostra specie e della natura, di cui l'acqua è parte assolutamente prioritaria.

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Le vittime della crescita Con la messa in campo di un dialogo glocal fra politica e cultura giuridica che sappia cambiare i modelli culturali di riferimento, può infatti emergere un vero e proprio «Diritto al Futuro», un cambiamento paradigmatico, fondativo di una consapevolezza autentica per le necessità del lungo periodo e per la qualità della vita. Tale cultura nuova, rigettando la rincorsa ossessiva alla crescita quantitativa imposta dalla tradizione liberale occidentale, può produrre nuove teorie e rinnovate pratiche contro-egemoniche che devono iniziare da comportamenti individuali più rispettosi del bene comune. Di come fare ciò si discuterà domani a Torino nel quadro di un innovativo convegno internazionale che vedrà, sul fronte politico l'Assessore parigino all'acqua Anne Le Strat e quello torinese all'ambiente Roberto Tricarico, molto impegnato nella lotta contro l'insostenibilità dell'inquinamento automobilistico e che promette impegni concreti per la diffusione della cultura dell'acqua in caraffa. Questi politici, insieme a Roberto Placido promotore del Comitato piemontese, si confronteranno con giuristi italiani e sudamericani impegnati nel far conoscere o nel praticare un «altro modo» di fare diritto più sostenibile e comunitario. Per la cultura giuridica internazionale, infatti, l'acqua ed i beni comuni costituiscono un importante banco di prova della sua capacità di superare impostazioni «occidentalistiche» suicide, legate all'imperativo di uno sviluppo fondato sullo sfruttamento economico della natura. Su questo terreno si sta giocando fra l'altro un'importante partita per l'egemonia culturale che riguarda il diritto a un futuro davvero sostenibile.

Un federalismo molto poco «demaniale» Data di pubblicazione: 15.05.2010

Autore: Mattei, Ugo

“Di fronte ai grandi gruppi privati italiani e internazionali che vogliono mettere le mani sul patrimonio occorrerebbe organizzare una difesa strenua “. Invece… il manifesto, 15 marzo 2010

Di una cosa c'è più bisogno oggi rispetto ad ogni altra. Istituzioni pubbliche legittime, forti ed indipendenti che perseguono il bene comune e non l'interesse di chi le occupa. È l'uovo di Colombo. Solo un grande sforzo comune, politico ed intellettuale, ci può consentire di immaginarle, per poi lottare insieme per la loro posa in opera. Soltanto questo sforzo può consegnarci qualche speranza in questa drammatica nuova escalation di saccheggio della finanza al bene comune. Tracciare una nuova rotta ed indicarla al dibattito pubblico costituisce oggi non soltanto una novità politica assoluta ma perfino una vera e propria «buona azione civile» riconosciuta ed apprezzata come tale dai cittadini in modo del tutto trasversale ai partiti politici. Già 420 mila firme Ed in effetti i cittadini in massa stanno firmando ai banchetti dell'acqua bene comune (già 420.000 firme dopo tre settimane di raccolta!) dando conforto e speranza a quenti a questa nuova elaborazione istituzionale dedicano da anni la vita. E ancora i cittadini, a migliaia, firmano l'appello di Stefano Rodotà per la libertà di stampa, un altro bene comune sottoposto al saccheggio oligopolistico. Ma il mondo intorno a noi, così come narrato dai temi trattati dal dibattito giornalistico e televisivo, dà ben scarsa attenzione a questo civile anelito di cambiamento. Ricevono piuttosto grande spazio, ma ben di rado in modo critico, gli ultimi assalti al bene comune, nella grande abbuffata del capitalismo politico-finanziario che balla, in preda al delirio

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provocato dalla sua malattia di sovrasviluppo, sul ponte scivoloso del Titanic che affonda. Il «modello Paulson» (segretario al Tesoro di Bush) di uscita dalla crisi attraverso un salasso inflitto alle persone comuni per «salvare» le istituzioni finanziarie dagli effetti dei loro stessi comportamenti criminali, lungi dall'essere denunciato come saccheggio viene oggi riproposto in Europa come eroico salvataggio notturno dell'euro. Non lo denunciò Obama, che anzi lo ha adottato come metodo senza muovere un dito per salvare dall'evizione i milioni di proprietari sfrattati per non poter pagare il mutuo mentre i banchieri si spartivano la torta milionaria dell'aiuto pubblico. Lo celebrano oggi, e si vantano pure del ruolo politico giocato dall'Italia per «chiudere l'accordo», i nostri politici e commentatori «di buon senso» di fronte al saccheggio del lavoro dipendente (in Grecia e Spagna per ora, in Italia fra pochissimo) per trasferire il bottino direttamente ai signori della finanza (che si divertono sulle montagne russe della borsa). Se queste sono le emergenze, anche di fronte al tema «strutturale» della riforma federalista, prevale la medesima diffusissima logica del «prendi i soldi e scappa». Si scrive «federalismo demaniale» ma si legge ulteriore privatizzazione e saccheggio dei beni comuni. Infatti, il patrimonio pubblico in Italia, ancorché appartenente al più forte soggetto politico (lo Stato) è debolissimo nei confronti della pressione politica di chi vuole privatizzarlo per ragioni speculative. Semplici decreti di sdemanializzazione sono sufficienti per vendere la proprietà pubblica al privato aprendo un'autostrada per la privatizzazione. Pubblico e privato sullo stesso piano Ma quando ci si accorge di aver sbagliato, la via del ritorno dal privato al pubblico è un impervio sentiero lastricato di ostacoli giuridici perché la proprietà privata e l'indennizzo di mercato sono tornati ad essere riconosciuti come diritti fondamentali proprio dalle Corti Europee. Non solo, i proventi della facile (s)vendita per decreto non sono vincolati ma vengono regolarmente impiegati per la spesa corrente e per pagare gli interessi sul debito pubblico. Interessi che oggi sono, per oltre la metà, dovuti a soggetti finanziari internazionali. Cifre enormi che gli italiani sborsano (recuperandole tramite la fiscalità generale e la svendita del patrimonio) e che finiscono immediatamente all'estero senza neppure sfiorare l'economia locale. Sembrerebbe ovvio che, in queste drammatiche condizioni, le istituzioni nazionali dotate del potere di gestire ed alienare il patrimonio pubblico andrebbero rafforzate enormemente e non certo indebolite come invece avviene col federalismo demaniale. Di fronte ai grandi gruppi privati italiani e internazionali che vogliono mettere le mani sul patrimonio pubblico (e l'acqua è solo un aspetto del grande saccheggio dei beni comuni) occorrerebbe infatti organizzare una difesa strenua affidandola al massimo possibile livello istituzionale. Occorrerebbe quantomeno introdurre per il demanio pubblico una tutela pari a quella di cui gode la proprietà privata applicando finalmente gli artt. 42 e 43 della Costituzione, che mettono proprietà privata e pubblica sullo stesso piano. Occorrerebbe almeno una riserva di legge dello Stato e un vincolo di utilizzo sociale dei proventi. Altro che federalismo demaniale, una mossa che indebolisce ancora di più il pubblico rispetto al privato, schierando in modo suicida nel grande scontro con la speculazione finanziaria internazionale la squadra di riserva: enti locali squattrinati contro il grande capitale finanziario che vuole comprare tutto per quattro soldi! Complimenti al commissario tecnico Roberto Calderoli.

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Pubblico dominio. La suprema legge che espropria i beni comuniData di pubblicazione: 23.04.2010

Autore: Mattei, Ugo

Ancora un capitolo dell’acuta analisi sulle basi giuridiche della rapina dei beni comuni. Questa volta si parla anche di rendita fondiaria- il manifesto, 23 aprile 2010

La difesa della proprietà privata è sempre stata l'obiettivo prioritario dell'azione legislativa dello Stato. Solo durante l'esperienza del welfare state sono stati posti limiti al diritto proprietario, tornato ad essere la stella polare che orienta le scelte dei governi e delle organizzazioni internazionali

All'origine della modernità dominio individuale e sovranità dello Stato, entrambi strutture giuridiche indispensabili in quella fase dello sviluppo capitalistico, articolano fra loro un rapporto ambiguo. Da un lato la sovranità dello Stato moderno si configura come dominio sul territorio imitando quindi la proprietà assoluta (allodiale) fondiaria. Sovranità e proprietà privata assoluta divengono così alleate di ferro contro le strutture comunitarie intermedie fra l'individuo e lo Stato (famiglie allargate, gilde, comunità monastiche) e soprattutto contro i beni comuni (usi civici delle foreste, acque, fauna e flora allo stato libero, frutta e prodotti alimentari da raccolta negli spazi accessibili a tutti). Le enclosures inglesi con la conseguente violenza sul ceto contadino impoverito testimoniano l'efferatezza di tale alleanza. D'altra parte più domini sullo stesso territorio, cifra della proprietà feudale medievale, mal si conciliano con le mitologie della modernità (un solo sovrano assoluto), sicché proprietà privata e sovranità pubblica stentano a sviluppare un equilibrio. In Inghilterra, patria delle enclosueres, si articola la finzione giuridica per cui il Re è il solo proprietario assoluto dotato di «dominio eminente», mentre i proprietari terrieri si configurano come meri concessionari dotati di «dominio utile». La nozione di «demanio» che indica nella tradizione continentale (soprattutto francese: domain) l'oggetto della proprietà pubblica (demanio forestale, idrico, militare ecc. ecc.) non soltanto condivide con dominium l'origine etimologica (manus) ma indica un rapporto fra sovrano e beni che è addirittura qualcosa di più specifico della sovranità. Indica in altre parole un vero diritto di proprietà del Sovrano. La sovranità limitata Con il naturalismo giuridico olandese (diciassettesimo secolo), il dominio si libera di ogni rapporto con la giustizia distributiva tomistica che aveva mantenuto in vita qualche dimensione di dovere sociale in capo al proprietario privato. Con la modernità giuridica la proprietà privata si identifica unicamente nella dimensione del diritto. Il diritto proprietario di Gaio (il protagonista della nostra storia di violenza legale) si modella così sul potere fondamentale e naturalmente libero di disposizione del proprio corpo e di quanto, con l'uso o anche abuso di esso, egli riesce a estrarre da Gaia (la terra viva, vittima dell'attivismo irrefrenabile di Gaio). La proprietà assoluta di disporre, libera da ogni vincolo, si iscrive dunque fra i diritti naturali dell' uomo libero, ormai homo oeconomicus, monade soggettiva slegata da ogni legame relazionale diverso dallo scambio contrattuale. Il diritto di proprietà trova nel legame con la libertà (di sfruttamento economico) la sua più forte legittimazione ed attrattiva. La libertà privata di avere ed accumulare senza limiti né doveri è l'essenza del capitalismo. Oggi si riportano con ammirazione le classifiche dei più ricchi del mondo e si considerano dettate da invidia sociale le preoccupazioni di quanti ritengono inaccettabile la diseguaglianza estrema che consegue all'accumulo illimitato dei ricchi. Questa libertà assoluta dell'individuo è da trecento anni l'essenza del diritto naturale di proprietà privata, concepito come pre-esistente alla sovranità statale. Qualsiasi

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limite imposto ad esso dal sovrano è conseguentemente concepito come eccezionale. Nell'ambito di quest'idea si colloca dunque la tensione formidabile (ed insieme il dualismo esaustivo) fra la proprietà privata e lo Stato, che fa della prima un limite invalicabile per lo Stato sovrano. La proprietà privata (archetipo del diritto soggettivo assoluto) è così scudo nei confronti del sovrano il quale ne riconosce il credito storico come istituzione fondamentale del primo capitalismo, garantendola attraverso la garanzia della riserva di legge e dell'indennizzo nei confronti dell'espropriazione per pubblica utilità. Come è noto, queste garanzie vengono codificate sul finire del diciottesimo secolo nella Costituzione Americana e nel «Code Civil» francese (1804) e si diffondono senza eccezioni nelle Costituzioni del mondo capitalista. Interessante è osservare che simili garanzie non sono previste per la proprietà pubblica che strada facendo si articola su nuove tassonomie (demanio, patrimonio indisponibile, patrimonio disponibile ecc.) non sorrette da un principio ideologico forte e quindi lasciate al libero gioco della politica e prive di qualsiasi tutela costituzionale. In un certo senso i «diritti» dello Stato non sono declinati in quanto tali. Nella divisione fra privato e pubblico, a quest'ultimo restano sempre meglio teorizzati i doveri di cui il privato «libero» dotato di diritti smette di farsi carico. La religione dello status È soltanto con la seconda metà del diciannovesimo secolo che lo Stato sovrano prende coscienza che l'assoluta libertà proprietaria rende Gaio incompatibile con le necessità della convivenza sociale, perché egli inevitabilmente scarica sulla collettività (che lo Stato stesso rappresenta) costi sociali insopportabili. Lo Stato sovrano quindi prova a farsi carico dei doveri rifiutati da Gaio (proprietario libero ed egoista), attraverso la legislazione speciale spesso definita come legislazione sociale. Ciò avviene tuttavia quando ormai il capitalismo fondato sull'accumulo economico illimitato è fortissimo e la primazia economica internazionale si è spostata negli Stati Uniti, luogo in cui l'ideologia materialista dell'accumulo e della mancanza di vincoli sociali diversi dal contratto ha fatto raggiungere all'atomismo sociale uno status quasi-religioso. La legislazione speciale limitativa della proprietà a fini sociali conferma i tratti eccezionali del dovere sociale di Gaio, e certamente non si fa carico di proteggere Gaia dando un prezzo ai servizi che essa continua a rendere allo sviluppo sotto forma di risorse naturali ed equilibri ecologici conferiti gratuitamente allo sfruttatore privato o pubblico. L'antropocentrismo non risparmia neppure i sistemi socialisti, che si concentrano infatti sullo sfruttamento dell'uomo sull'uomo e non di questi su Gaia. Lo sviluppo socialista finora realizzato, fondato su una sovranità statale a matrice proprietaria (capitalismo di Stato), non è meno spietato nei confronti di Gaia di quanto non lo sia quello occidentale. Nel mondo capitalista il tentativo di limitare Gaio e di teorizzare la proprietà privata come obbligo sociale e non soltanto come diritto, che in nuce potrebbe rendere regola e non eccezione il limite, trova un parziale successo nella Costituzione di Weimar (1919) dove appare per la prima volta la locuzione «la proprietà obbliga». Tuttavia il dibattito sulla funzione sociale della proprietà che ne scaturì non riuscì a superare il dualismo riduzionista fra proprietà privata e sovranità statale che nel frattempo, pur nei limiti della tutela costituzionale della proprietà privata, il positivismo giuridico statalista, trionfante nelle concezioni autoritarie del potere diffusesi in Europa, aveva risolto a favore dello Stato. In Italia, per esempio, con il Codice Civile del 1942 (ancora vigente) la proprietà è definitivamente scalzata dal piedestallo di diritto naturale preesistente allo Stato (il codice rinuncia a definirla) ma la dialettica fra proprietà privata e Stato non produce una teorizzazione avanzata della proprietà pubblica. Infatti il ruolo di quest'ultimo si limita a regolamentare, conformare e limitare i poteri del proprietario privato che si espandono appena cessa il limite, mentre la proprietà sovrana (dei beni demaniali) non ha vocazione espansiva perché il pubblico difficilmente è visto come portatore di diritti ma solo di doveri di azione (welfare) o di astensione (rispetto della proprietà privata). Il governo pubblico dell'economia infatti si articola su centinaia di enti

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pubblici (Iri, Eni, Efim, ecc.) governato a sua volta tramite un sistema di eccezioni alla regola, quella dell'impresa privata. Il dualismo «proprietà- stato» si consolida così nella assegnazione di diritti (alla prima) e di doveri (al secondo). Si naturalizza così una dicotomia fra regola ed eccezione (il dovere è eccezionale e poco teorizzato per il privato; il diritto è eccezionale e sottoteorizzato per il pubblico) che in una concezione della proprietà strettamente individualizzata impedisce di cogliere gli aspetti relazionali ed i veri nessi che ne producono il valore. Tale visione profondamente radicata è prodromica alla privatizzazione dei profitti e socializzazione delle perdite, esito a sua volta naturale dell'economia cosiddetta mista. Per l'ideologia liberale prontamente tornata dominante dopo la seconda guerra mondiale, lo Stato «toglie valore» alla proprietà privata regolamentandola o espropriandola. Non ci si avvede così che in realtà è lo Stato che «conferisce valore» alla proprietà privata garantendo l'ordine sociale (autoritario) che costringe chi non ha a rispettare chi ha troppo. Le nuove enclosures La rendita fondiaria assorbe così l'intero valore dei servizi di Gaia oltre a quello prodotto dalla pressione urbanistica esercitata da chi non ha e deve concentrarsi in città per vendere la sua forza lavoro (proprietà di se stesso). La rendita fondiaria è perciò «naturalmente» assorbita dal proprietario e soltanto in via eccezionale ed in rarissime fasi storiche (in Italia, negli anni Sessanta e Settanta del Novecento) lo Stato interviene per redistribuirla fra chi non ha (come per l'equo canone) o al fine di dare un sollievo a Gaia (parchi pubblici). Risulta tuttavia evidente all'osservatore non offuscato dall'ideologia liberale dominante come il valore della rendita fondiaria sia in realtà un bene comune prodotto da uno sforzo di cooperazione sociale e dai servizi di Gaia che tuttavia la teoria della proprietà dominante assegna senza corrispettivo a Gaio, proprietario privato. Il dualismo proprietà privata-stato, accompagnato dalla natura sottoteorizzata della proprietà pubblica come diritto meritevole di tutela e dalla mancanza assoluta di una teoria giuridica del bene comune, conferisce alla proprietà privata un vantaggio ideologico difficilmente colmabile. Infatti, secoli di assorbimento progressivo ed inesorabile del bene comune (sociale o naturale) rende la proprietà privata immensamente potente anche sul piano ideologico e presenta ogni tentativo pubblico di gestire il bene comune (che non appartiene di per se al proprietario privato) un'operazione fiscale, soggetta a limiti sempre più stringenti di fattibilità politica. Questo fenomeno già non facile da scorgere per la rendita fondiaria diventa pressoché invisibile ma ancor più terribile nell'ambito di quella finanziaria governata della proprietà dematerializzata multinazionale che caratterizza la post-modernità. Beni comuni come la conoscenza, la biodiversità, l'aria, l'acqua e gli stessi codici di Gaia sono progressivamente espropriati a favore del privato senza alcuna garanzia. Solo una costituzione globale del bene comune, declinata in forme nuove potrebbe invertire la rotta. Occorre mettersi al lavoro prima che sia troppo tardi. SCAFFALI Il valore delle cose nello spazio legale Il testo in questa pagina ripercorre temi discussi al Convegno «Beni Comuni e partecipazione politica», organizzato dalla rivista «European Alternatives» all'Università di Roma3 il 14 aprile. Oltre ai testi citati nelle scorse puntate di «Gaio&Gaia» (pubblicati il 5 Febbraio, 13 Marzo e il 2 Aprile), vanno segnali «Il valore delle cose e le illusioni del capitalismo» dello studioso indiano Raj Patel (Feltrinelli), «La conquista dello spazio giuridico» di Mariano Croce (Edizioni Scientifiche Italiane), «L'Europa del diritto» di Paolo Grossi (Laterza), «Gli spossessati. Proprietà, diritto dei poveri e beni comuni» di Daniel Bensaid (Ombre corte) e «Il Saccheggio» di Ugo Mattei e Laura Nader (Bruno Mondadori). Copyright? Dai pirati agli squatter la proprietà è fuorilegge Uno dei testi più significativi su come si siano definite, nel corso del tempo, forme di

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governo dei beni comuni e come quelle stesse forme hanno condizionato lo statuto della proprietà privata è sicuramente «Property Outlaws: How Squatters, Pirates, and Protesters Improve the Law of Ownership» di Eduardo M. Penalver e Sonia Katyal (Yale University Press). Un saggio che merita di essere letto (con la speranza che un editore italiano lo traduca) perché ricostruisce come le norme sulla proprietà privata siano state condizionate dalle esperienze sociali di condivisione dei beni comuni. Così, il ricordo del potere dirompente delle repubbliche corsare nate tra il XVI e il XVII secolo in alcuni zone degli attuali Stati Uniti ha determinato la definizioni di leggi a tutela della «terre comuni». Lo stesso si può dire per le occupazioni delle case che hanno portato al riconoscimento del diritto a non essere cacciati da stabili occupati. Ma anche come il rifiuto del copyright abbia portato alla definizione di norme per una gestione alternativa del diritto d'autore.

Le mani sul pianeta. Strategie di un imperio secolare Data di pubblicazione: 02.04.2010

Autore: Mattei, Ugo

Il terzo capitolo della magistrale lezione sul rapporto tra Uomo e Terra, nel corso dell’evoluzione della società. Il manifesto, 2 aprile 2010

Continua la storia conflittuale di un uomo paradigmatico, il dominatore Gaio, con il principio femminile che egli vuole sottomettere, Gaia, ossia la terra viva, da qualche milione di anni habitat dell'animale umano. Da Cartesio a Darwin, è una storia di sopraffazioni, dove vige la legge del più forte

Con Cartesio, il rapporto fra l'uomo (chiamiamolo Gaio) e la natura (chiamiamola Gaia), viene ridotto alla separazione ontologica fra soggetto e oggetto che si declina giuridicamente nell'idea del dominio assoluto. Il soggetto-uomo-maschio domina l'oggetto-natura-femmina. Bacone detta il metodo. Newton descrive con precisione le leggi meccaniche e immutabili che governano Gaia e produce risultati tecnologici spettacolari. La scienza vede Gaia come una macchina, un aggregato di particelle precisamente misurabili che la compongono. L'orologio meccanico diviene metafora della natura oggetto meccanico, scomponibile, conoscibile e prevedibile in ogni suo aspetto. Fra il quindicesimo e il diciassettesimo secolo, con questo armamentario culturale sempre più dominante Gaio si pone alla scoperta dei nuovi mondi che si appresta a conquistare. Il solo strumento giuridico-concettuale che Gaio ha a disposizione e che si mostra sufficientemente potente per governare la nuova realtà è il dominio. E sul modello del dominio egli elabora le sue istituzioni a partire da quella fondativa del nuovo ordine del capitalismo nascente: la sovranità dello Stato moderno. Da San Tomaso a Savigny I giuristi naturalisti della scuola spagnola che adattano allo studio del diritto il grande edificio costituito dalla Summa di San Tomaso, medievali e non moderni, non riducono i propri orizzonti intellettuali al rapporto di dominio e al dualismo soggetto-oggetto. Il diritto per loro, influentissimi fra il quindicesimo e sedicesimo secolo, discende ancora da un legislatore supremo, divino che va interrogato per sapere come organizzare una società giusta. Gaio non è ancora legislatore. Gli strumenti a disposizione per costruire una buona società restano le due idee fondamentali trasmesse da Aristotele ai tomisti: la giustizia distributiva e quella commutativa. Per San Tomaso la prima pertiene al tutto, all'insieme, all'armonico ed organico funzionamento di una società. La seconda pertiene alle parti, soggetti proprietari che entrano in rapporto di scambio contrattuale semplice: do ut des. La giustizia distributiva non è la semplice risultante sul piano della società dell'aggregato

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delle sue parti, individui proprietari i cui rapporti sono governati dalla giustizia commutativa che si esprime nei prezzi. La giustizia sociale non è un'idea riducibile alla somma algebrica di quella contrattuale. Già sappiamo che il riduzionismo cartesiano meccanicistico e scientistico non sa confrontarsi con le differenze qualitative ma è a suo agio soltanto con la quantificazione. Esso è perciò a disagio con la giustizia distributiva. È per questo che quando il diritto naturale sposta il suo baricentro a nord nel diciasettesimo secolo, la giustizia distributiva viene accantonata dai giuristi per almeno tre secoli. Gaio, che ora riveste i panni del giusnaturalista olandese Grotius, trova il diritto di ragione in se stesso, nella sua capacità scientifica: non deve più interrogare il divino. Gaio si sente ora più bravo di Dio nel fare le leggi. La legge di Gaio presuppone una tabula rasa da colmare con regole logicamente dedotte dal dominium: per far fronte all'esigenza di dominare il mare, tabula rasa per eccellenza, nasce il diritto internazionale. Il modello del dominio assoluto aveva già accompagnato, da Jean Bodin a Hobbes, la nascita della statualità declinata come proprietà sul territorio. E il diritto internazionale costruisce un rapporto fra stati sovrani-proprietari dove non c'è posto per la giustizia distributiva ma al più per quella commutativa fondata sul contratto (trattato). L'antropocentrismo e il riduzionismo di Gaio raggiungono l'apogeo: il sovrano è il soggetto; il territorio l'oggetto; la ragione detta le regole che sono quelle dello scambio fra proprietari, quantificabile con il sistema dei prezzi. Con l'illuminismo fra l'individuo e lo Stato non c'è posto per nulla: corporazioni, gilde, famiglie allargate, ordini monastici, comunità, ogni luogo in cui limiti e obbligazioni non consentono a Gaio la più completa autonomia «qui e adesso» divengono nemici della modernità. È Jean Domat, un giurista amico di Blaise Pascal, e come quest'ultimo attivo nel circolo logico di Port Royal, ad assumersi il compito di tracciare l'intero ordine giuridico civilistico seguendo le regole della ragione proprietaria. E le sue regole troveranno accoglienza piena nel Code Civil di Napoleone (1804) tuttora vigente che descrive un mondo di proprietari assoluti e liberi limitati soltanto dagli uguali diritti degli altri proprietari o dallo Stato sovrano. Un mondo giuridico in cui Gaio non è parte dell'ambiente che lo circonda. Gaia è codificata come un oggetto di proprietà privata o di sovranità pubblica produttiva, meccanica, una macchina, un corpo inanimato. Un oggetto che crea sviluppo tramite la possibilità di essere meccanicamente sfruttato e trasformato nell'interesse del sovrano pubblico (lo stato) o privato (il proprietario). Con Leibniz fra i filosofi e Christian Wolff fra i giuristi si fa un ulteriore passo «avanti» cercando di ridurre l'ordine sociale proprietario a matematica, per replicare quello stesso ordine scientifico che consente a Gaio i suoi prodigiosi successi nello sfruttamento di Gaia. Il tentativo non riesce perché fra i giuristi il romanticismo e lo storicismo, ancorché motivati da scopi in larga misura reazionari, riusciranno a prendere il sopravvento nella Germania del diciannovesimo secolo. Gaia trova così i suoi primi difensori nelle rime del poeta Blake, che attacca Newton criticandone la grettezza e l'incapacità di coglierne gli aspetti non quantificabili, gli aromi, la bellezza, i mirabili equilibri che oggi chiamiamo ecologici.... Fra i giuristi, paradossalmente in nome della romanità, sarà il grande Federico Carlo Von Savigny, protagonista indiscusso del secolo decimonono, a contestare l'universalismo insito nell' astrazione cartesiana tipica del giusnaturalismo razionalista francese e tedesco e a proporre una concezone del diritto come «spirito del popolo» in quanto tale variabile da comunità a comunità. Savigny, attivo in una Germania ancora non unificata, contesterà altresì, in nome della necessaria flessibilità e adattabilità del diritto, l'opportunità di una codificazione insistendo sulla natura sapienziale e non politica dell'ordine giuridico. A dispetto di queste premesse, la visione della proprietà in Savigny resterà quanto mai assolutistica e la giustizia distributiva non troverà nel suo magistero alcuna redenzione. Anche per Savigny l'ordine giuridico finisce per essere ridotto a rapporto fra individui in cui i servizi di Gaia, le risorse naturali (acqua aria legname, minerali, fauna...) e gli ecosistemi (foreste, laghi, mare...) sono presi in considerazione solo come oggetti

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liberamente appropriabili da soggetti sovrani (siano essi privati o pubblici). Da Adam Smith a Herbert Spencer Occorrerà aspettare l'inizio del ventesimo secolo perché i semi della filosofia del diritto hegeliana, presenti in Savigny, diano i propri (limitati) frutti pratici. Infatti, il libero saccheggio di Gaia caratterizzante il primo capitalismo cominciava a produrre danni sociali visibili che imponevano allo Stato il tentativo di porvi rimedio. Le masse povere e diseredate accatastate vicino alle industrie provocavano problemi igienici per le città (oltre che rischi per l'ordine costituito). La proprietà privata, libera di produrre inquinando, rendeva irrespirabile l'aria e provocava la morte di tutti i pesci nei fiumi. I minori sfruttati resero necessarie le prime limitazioni dell'orario di lavoro. I più avanzati giuristi teorici del periodo, da Von Gierke in Germania a Duguit in Francia, nell'ambito di teorie sociali del diritto, cominciarono a rendersi conto che nel diritto il sistema (ordinamento giuridico) non poteva ridursi all'aggregato delle sue parti (diritti di proprietà) lasciate liberi di contrarre privatamente. Il legame fra Stato e proprietà privata, seppur da sempre alleanza infida, entra in crisi. La teoria economica della mano invisibile, resa celebre cent'anni prima da Adam Smith, trovava nella realtà sociale una smentita evidente: evidenziata proprio dai primi visibili sintomi della sofferenza di Gaia e dei più deboli fra i suoi abitanti umani che, lungi dall' essere soggetti erano a loro volta oggetto di dominio. I fondamenti del liberalismo nel diritto e nell'economia e con essi la visione riduzionistica e meccanicistica dominante incontrarono una critica teorica decisiva che aveva alle sue radici l'idea hegeliana per cui il tutto non è mero aggregato delle parti. Critiche fondate su questa stessa idea incominciava a incontrare pure la visione meccanicistica newtoniana nelle scienze naturali. Lo studio dei campi elettromagnetici legato al nome di Faraday mostrava inequivocabilmente come le leggi fondamentali della meccanica non potevano spiegare appieno il funzionamento più intimo di Gaia. La metafora meccanicistica dell'orologio venne ulteriormente messa in crisi dall'apparire sulla scena dell'evoluzionismo di Darwin. La vita, Gaia stessa, è governata da un processo di mutazione che non è meccanico e ripetitivo ma che al contrario mostra nascita, crescita e estinzione. Gaia non può essere ridotta a un oggetto meccanico. Tuttavia, in un contesto occidentale ormai dominato dalle strutture tecnologiche e giuridiche del capitalismo, Darwin - lungi dal porsi accanto a Gaia per limitare il delirio antropocentrico di Gaio - paradossalmente doveva sortire l'effetto opposto. L'evoluzionismo si pose con Herbert Spencer al servizio di nuovi progetti reazionari di dominazione di Gaio sulla natura, e del più forte sul più debole. La stagione del darwinismo sociale evoca ancor oggi i tratti sinistri della legge del più forte. Mutazioni globali, un sentiero di lettura Sui temi trattati in questa pagina sono giù usciti due precedenti articoli dello stesso autore, Ugo Mattei, sul manifesto del 14 febbraio («Beni comuni») e del 13 marzo (« La legge di Gaia»). Ancora di Ugo Mattei (insieme a Laura Nader) è appena uscito per le edizioni Bruno Mondadori «Il saccheggio. Regime di legalità e trasformazioni globali». Per un ulteriore approfondimento, si può consigliare la lettura del saggio di Fritjof Capra «La scienza universale. Arte e natura nel genio di Leonardo» (Bur Rizzoli 2009), e ancora di Capra, «The Turning Point» (Bantam paperback 1984); «The Web of Life» (Anchor paperback, 1997). Da leggere anche «Dopo il Leviatano. Individuo e comunità» di Giacomo Marramao (Bollati Boringhieri 2000) e «Law and the Rise of Capitalism» di Michael E. Tigar (Monthly Review Press 1977). Si veda infine il film del 1990 «Mindwalk» di Bernt Amadeus Capra, con protagonista Liv Ullman, nel quale la metafora dell'orologio è mirabilmente approfondita

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La legge di Gaia. I grandi predatori di madre terra Data di pubblicazione: 02.04.2010

Autore: Mattei, Ugo

Gaio e Gaia, la storia perversa di una coppia, ovvero la concezione romana della proprietà come spazio di potere individuale e illimitato sulle cose. Il manifesto, 13 marzo 2010

Il rapporto degli umani con l'ambiente è sempre stato segnato da una concezione meccanicista della vita e dall'appropriazione delle risorse naturali, ignorando la necessità di garantire la loro riproduzione. E il diritto ha sempre legittimato queste azioni predatorie attraverso l'istituto della proprietà privata

Protagonista maschile di questa storia è Gaio, misterioso autore giuridico romano, vissuto oltre 2000 anni fa è autore di un volumetto di «Istituzioni», forse un Bignami per aspiranti avvocati, la cui struttura fondamentale costituisce l'ossatura della concezione occidentale del diritto privato. Un lascito dell'antichità romana che tutt'oggi fonda, a livello globale, la concezione dominante della stessa «giuridicità». Gaio rappresenta in tutta la sua assolutezza la concezione romana del «dominio», come spazio di potere individuale formalizzato ed illimitato sulle cose. Il dominio romano non è aperto a tutti. È limitato al pater familias. Il padre-padrone ha dominio assoluto sui suoi beni, siano essi animati o inanimati. Come il proprietario oggi può liberamente distruggere un proprio bene (o uccidere un proprio coniglio) così il dominus aveva poteri illimitati sui suoi beni, inclusa la proprietà fondiaria, e diritto di vita e di morte su schiavi, figli e moglie. Per chi scrive, Gaio non è visto come un personaggio storico. È invece il modello antropologico presupposto dall'ordine giuridico individualistico occidentale, così come giunto, attraverso una lunga ed avventurosa storia, fino alla nostra modernità. Gaio è qui l'individuo occidentale dotato di diritti di proprietà privata, esito odierno del processo trasformativo che chiamiamo progresso. Un mito millenario Oggi Gaio guida un'automobile, ha una casa in proprietà, abita in città, vive solo o in una famiglia nucleare, comunica con il cellulare, guarda la televisione, ha diritto di voto e può comprarsi beni di consumo per soddisfare ogni suo desiderio. Gaio è dotato di diritti che formalizzano la sua potestà di avere. Oggi la proprietà privata di Gaio non si estende agli schiavi e la sua sposa gli è formalmente pari. Protagonista femminile è Gaia, la terra viva, un luogo che da qualche milione di anni ospita l'umano. Gaia, da molto più tempo è luogo della vita, un aggregato complesso di ecosistemi, di nessi, di comunità, di reti, di relazioni, di cooperazione e di conflitto, di gerarchia, di trasformazioni lente e di rivoluzioni improvvise. I miti su Gaia sono complessi ed affascinanti, e variano attraverso le culture. Complessa e affascinante è pure la storia della relazione di Gaio con Gaia. Oggi il giovane Gaio studia, a partire dalla scuola primaria, l'evoluzione della vita sulla terra. Darwin domina (per ora) la sua percezione e di lì ricava il senso del progresso e della crescita. Gli antenati di Gaio sono nati in Africa. Gaia offrì loro cibo sotto forma di frutti e di cacciagione. Poi Gaio imparò ad addomesticare gli animali, per trarne cibo e vestiario; sucessivamente, diecimila anni fa circa, Gaio capì che Gaia poteva essere indotta a produrre più cibo di quanto ne avrebbe spontaneamente offerto. Intuito il nesso causale fra seminagione e raccolto, Gaio divenne sedentario. Gli antenati di Gaio inventarono presto un diritto al possesso esclusivo, noto come proprietà. La proprietà serviva per remunerare gli sforzi nella caccia, nell'allevamento e nella seminagione. Bisognava definire perciò chi era dentro e chi fuori. Bisognava evitare che il raccolto venisse rubato da chi non aveva

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faticato per dissodare il terreno. Un'ampia letteratura apologetica della proprietà privata si basa anche oggi su questo suo nesso morale con il lavoro agricolo. Poi, neppure trecento anni fa, Gaio inventò le macchine e fece la rivoluzione industriale: poteva adesso produrre beni di massa traendo l'energia per farlo dalle viscere di Gaia. Erano passati circa 10.000 anni dalla rivoluzione agricola. Quando la rivoluzione industriale avvenne, gli scritti del Gaio storico erano stati riscoperti da circa settecento anni (dopo esser stati perduti nei secoli bui) in una biblioteca presso Pisa e la proprietà privata era pienamente formalizata e fu l'assetto istituzionale che la rese possibile. Gaio divenne padrone delle miniere, fu industriale e capitalista. Oggi di rivoluzione Gaio ne ha fatta un'altra: usa il computer e la sua maggior ricchezza prescinde da ogni contatto con un bene materiale. Il più ricco ed ammirato è il finanziere, non più l'industriale taylorista. Fra la comparsa dell'uomo su Gaia e la rivoluzione agricola la distanza è in milioni di anni. Fra la rivoluzione agraria e quella indistriale siamo alle migliaia. Fra la rivoluzione industriale e quella informatica di oggi, siamo alle poche centinaia di anni. Questa impressionante accelerazione storica esalta Gaio e gli fa vivere un senso di onnipotenza. Mentre guida il suo SUV super-tecnologico (e magari promosso come ecologico) egli si compiace che i suoi figli di cinque anni sappiano adattarsi meglio di quelli di quattordici alla progressione geometrica della tecnologia. Ma quale relazione lega Gaio a Gaia? In molte culture Gaia è vista come madre. Pacha mama, la madre terra. Ma Gaio non riconosce questo rapporto. Per lui Gaia è un oggetto, anzi l' oggetto per antonomasia del suo dominium. Prima della strutturazione giuridica del rapporto di dominio (il cosiddetto dominio quiritario) avvenuta nell'ultima parte del primo millennio avanti Cristo, Gaia è già una «condanna» per Gaio. La Bibbia racconta che vi è stato scacciato per il peccato della sua donna. Un Dio maschio caccia Gaio dall'Eden e lo lancia fra le braccia di una nuova femmina, Gaia appunto, con cui sarà condannato a convivere. Gaia diviene moglie di Gaio? Come si è sviluppato il matrimonio? Per molto tempo le cose funzionarono bene. L'ossessione del possesso Gaio osserva Gaia, la corteggia, cerca di comprenderla, forse se ne è innamorato. Sa di essere intimamente legato a lei, sa che la sua stessa vita dipende dal buon rapporto che riesce ad avere con la sua sposa. Adatta a lei i suoi comportamenti, la carezza e ne trae godimento. Cerca di rispettarne le amicizie, gli spazi vitali di cui Gaia ha bisogno. Gaia è comunitaria per sua natura è fatta di nessi ed è nella comunità ecologica che gode e prospera, bellissima. Gaio per molto tempo ne condivide i gusti. Ama la comunità. Il suo orizzonte è costituito dal gruppo, dalla relazione, dalla cooperazione indispensabile per convivere insieme a Gaia. Ma Gaio sviluppa presto l'ossessione per il dentro e per il fuori. Inventa i confini. Inventa la guerra. Spesso trascura Gaia per ingaggiare nuovi conflitti, lontano dal suo villaggio dove abandona le sue donne dedite alla cura del gruppo, alla ricerca dell' acqua e alla coltivazione di Gaia. Ben presto Gaio comincia ad annoiarsi del suo essere insieme a Gaia. Vuole possederne le ricchezze, vuole avere. Gaio scopre che per avere occorre escludere. Esclude le donne, simili nell'indole a Gaia, le riduce ad oggetto e ne rivendica la proprietà. Esclude i diversi, gli schiavi, i devianti. Anche su di loro esercita il dominio. Gaio organizza il lavoro dei suoi sottoposti, e con quel lavoro trasforma Gaia. La quantifica e ne desidera sempre di più, lanciandosi alla conquista guerriera di nuovi spazi e colonie. Il suo impero si espande e con esso le sue ricchezze ed il suo delirio di onnipotenza. Nei nuovi luoghi trova nuove comunità. Comunità che rispettano Gaia come una madre, come un'amica o come una sposa che vivono con lei in equilibrio armonioso; che ne rispettano e ammirano le qualità. Gaio non sopporta queste amicizie di Gaia e le distrugge, saccheggiandone le ricchezze. Le qualità non si misurano, e quello che a Gaio interessa di più è misurare, quantificare il valore delle sue ricchezze per creare organizzazioni sempre più ricche e potenti capaci di un dominio assoluto che ora lui chiama «sovranità» e che modella sulla proprietà assoluta ed individuale di un territorio.

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La scienza della qualità Gaio ama il piacere ma lo considera un lusso, un luogo dell'estetica. Il piacere generato dalla qualità, uno stato dell'essere, non lo aiuta ad accumulare ed avere sempre ed ancora di più. Perciò Gaio distingue tra arte e scienza. La prima si fonda sulla qualità, sulla relazione e sulla comunità spirituale fra artista, opera e fruitore. La seconda soltanto sulla quantità. La scienza di Leonardo, una scienza della qualità, è così dimenticata: il protoscienziato sarà Galileo colui che esclude la qualità ed il «non misurabile» (estetica, odori, sapori, armonie) dal mondo della rilevanza scientifica. Gaio inventa la manifattura e la produzione in serie. Inventa macchine prodigiose fondate su leggi assolute ed immutabili che impara a scoprire e misurare con precisione. Gaia gli offre l'energia per farlo, dalle sue viscere esce prima il carbone e poi il petrolio. Gaio diventa sempre più ricco e copre d'onori chi gli ha consentito di diventarlo. Newton, nella Londra del suo tempo, aveva status di superstar. Gaia ama la bellezza e l'armonia. La sua essenza è nell' ecosistema, un insieme di relazioni mutualistiche in cui il tutto non è una semplice somma delle parti. Gaio pone al centro se stesso. Promuove la sua visione egocentrica. Inventa l' umanesimo. Scopre che Gaia che non è più il centro dell'universo. Reagisce a ciò ponendovi se stesso. Con Cartesio l'io pensante, Gaio si emancipa dalla matreria di cui rifiuta al contempo l'essenza animata. Gaio si emancipa perfino dal suo corpo, dal suo essere persona. Adesso conta solamente per quello che ha. È soggetto astratto, dominus borghese, dotato di poteri illimitati su Gaia di cui rifiuta l'identità viva riducendola ad una macchina. Per lui Gaia è governata da leggi meccaniche, simili a quelle a tutela della sua proprietà privata di cui la forza della sovranità esige il rispetto a pena di supplizi e galere. Gaia deve svelarsi interamente ai suoi occhi, deve confessargli tutti i segreti di sé, proprio quelli che possono renderlo ancora più ricco e potente. Gaia è adesso prigioniera, e come i prigionieri deve essere torturata per estorcerne la verità: Come e dove posso trovare nuove ricchezze, nuove conoscenze, nuovo potere? Gaio prende le vesti di Francesco Bacone, onnipotente e crudele Cancelliere di sua maestà, ad un tempo grande giurista e grande scienziato. è Bacone a teorizzare l'inquisizione nell' Inghilterra della Magna Charta. È Bacone ad insegnare il metodo scientifico per interrogare spietatamente Gaia al fine ultimo di trasformarla e svilupparla. Gaio, al contempo estende la sua immagine alle sue donne: se capaci di avere avranno diritto alla parità formale. Ma Gaia è sposa sfruttata, dominata e violentata col diritto e con la scienza. Rimarrà inerte? Qualcuno si ergerà a sua difesa?

E se reinventassimo il pubblico? Data di pubblicazione: 27.02.2010

Autore: Mattei, Ugo

Una intelligente riflessione sull’esigenza sempre più urgente, poichè il trionfo del “privato” in economia ci allontana da una vita decentemente umana. Il manifesto, 27 febbraio 2010

Ci eravamo forse illusi che la grande crisi dell' autunno 2008 potesse cambiare le coordinate culturali in cui si muove l'Occidente. Così non è stato. L' impressionante opera ideologica di costruzione delle virtù del privato sembra aver tenuto. Non siamo arrivati in tempo. Il pubblico non ha saputo rifondarsi culturalmente, non ha saputo creare un argine di consenso capace di difenderlo dall' espropriazione e dal saccheggio. E il pensiero liberale non è stato chiamato a render conto del proprio ruolo nella devastazione produttivistica del nostro pianeta. Molti, anche a sinistra, continuano a proclamarsi liberali senza vergogna, anzi con orgoglio. Ma a bene vedere privilegio di nascita (in Occidente) e

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cupidigia infinita nell'accumulo di ricchezze sono le coordinate di quel pensiero. Sviluppo e crescita sono le ossessive parole d'ordine dello stesso sindacato.... Concorrenza e competizione fra individui hanno soppiantato qualsiasi disegno di cooperazione e comunità. Il consumatore ha sostituito il cittadino. Non c'è area del pubblico in cui una privatizzazione (spuria) non sia stata realizzata o non sia quantomeno minacciata. Iri, Eni, banche, Alitalia, ferrovie, università, acqua, Tirrenia, beni culturali, sanità, demanio, manutenzione stradale, televisione, carceri, difesa, protezione civile... Prima era lo Stato imprenditore a essere sotto assalto; adesso si sostiene la logica del profitto perfino per quelle funzioni primarie (giustizia e difesa) che lo stesso pensiero liberale considerava riservate allo Stato, e da gestirsi perciò nella logica politica dell'interesse comune e non secondo quella della «mano invisibile». Intendiamoci, gran parte del settore pubblico funziona male, l' Università baronale è indifendibile, i pendolari sono trattati come il bestiame... Il paradosso non è nell'analisi ma nella ricetta. A causa di un dito rotto uso male una mano per mangiare: amputiamola e svolgiamo la stessa funzione con i piedi! Il pubblico che funziona male viene smantellato piuttosto che rafforzato, reso più debole piuttosto che ristrutturato. L'assunto di fede è che il privato funzionerà meglio, come se non avessimo abbastanza esempi di imprenditoria privata (certo non solo nel nostro paese) corrotta, miope e parassitaria, a cominciare dalla Fiat. Eppure piuttosto che far funzionare il pubblico, motivandone i lavoratori (riconoscendo per esempio che saranno pure fannulloni ma sono gli unici a pagare le tasse sul loro intero reddito), preferiamo mangiare con i piedi. Basterebbero i dati sull' evasione fiscale, che riguarda interamente il settore privato per capire come qui ci sia qualcosa che non va. Per capire che l'ideologia predatoria del capitalismo ha inventato la virtù del privato che è e resta ricerca materialista del profitto e dell'avere. Un'onesta fenomenologia comparata deve confrontare il pubblico virtuoso col privato virtuoso e il pubblico patologico col privato patologico. La ricerca del modello misto deve partire da qui. Il privato, pur se virtuoso, persegue il profitto. Il pubblico l'«interesse pubblico» sotto forma di sostenibilità economica del servizio accompagnata alla distribuzione dei benefici a tutti coloro che, contribuendo alla fiscalità generale, ne sono i proprietari. L'esclusione del profitto privato tipica del pubblico virtuoso inserisce un delta a suo favore nella gestione di qualsiasi attività economica sotto forma del quantum di profitto che, invece di essere assorbito dal capitale privato, viene ridistribuito fra tutti i consociati. La presenza di questo delta dovrebbe inserire una presunzione a favore del pubblico per ogni attività economica di pubblico interesse (includendo in quest'ambito la piena occupazione). Non più quindi pubblico soltanto laddove il privato fallisce, ma, al contrario, privato soltanto laddove il pubblico fallisce. Per esempio, la salvaguardia occupazionale di una realtà come Termini Imerese dovrebbe passare attraverso l'allestimento di impresa pubblica senza scopo di lucro volta a operare in settori virtuosi dal punto di vista della sostenibilità ecologica: nuovi trasferimenti di denaro pubblico a operatori privati motivati dal profitto e dalla crescita è un paradosso frutto di un modello culturale che assume un ruolo meramente sussidiario del pubblico, quando sussidiario (ai sensi anche degli art. 41, 42 e 43 della Costituzione) dovrebbe essere quello del privato. Negli anni della «fine della storia» il Nobel ultraconservatore James Buchanan ha indicato nella massimizzazione delle possibilità di essere rieletti la principale motivazione dei politici. Mentre un tempo dire a un politico: «Vuoi solo essere rieletto!» conteneva una nota di biasimo, oggi il pensiero dominante giustifica i continui tradimenti delle promesse di cambiamento (Obama docet), considerandoli passi necessari per la rielezione in un contesto dominato dalle corporations. Mi pare emerga così la natura del modello spurio fondato sul «contagio» politico e culturale fra pubblico e privato, in cui quest'ultimo apporta le sue motivazioni individualistiche, mentre il primo conferisce l'assicurazione contro il rischio d'impresa (too big to fail). Possiamo osservare un rapporto inverso fra la dimensione di un'istituzione e la

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qualità del suo output. Grandi istituzioni, pubbliche o private che siano, tendono a risultati qualitativamente peggiori rispetto a piccole istituzioni. Il settore privato tende a crescere, per aumentare i profitti. Il settore pubblico viceversa presenta limiti di crescita strutturalmente collegati alla sua giurisdizione. In altre parole, mentre nel primo caso la fisiologia vuole una crescita quantitativa accompagnata da un declino qualitativo, nel secondo caso i limiti giurisdizionali possono essere tracciati e modificati al fine di governare il rapporto quantità/qualità. È cioè possibile ripartire da una organizzazione del pubblico che punti alla dimensione ideale valutata dal punto di vista della qualità dell'output, cosa strutturalmente impossibile per il privato. Un privato che gestisce l'acqua vorrà che se ne consumi di più e uno che gestisce prigioni vorrà che ci siano più prigionieri. Per questo il settore pubblico va salvaguardato dal contagio con la logica del profitto. È in questo ambito che sono da valutarsi le diverse ipotesi di federalismo più o meno accentuato rese possibili dalla riforma dell' art. 117 della Costituzione. La valorizzazione del comune, con potestà fiscale autonoma in riferimento al governo del territorio, è desiderabile perché l'azione politica, più vicina ai cittadini, può essere maggiormente oggetto di valutazione qualitativa. La fiscalità comunale potrebbe retribuire adeguatamente funzionari locali capaci e meritevoli, innescando così un circolo virtuoso dal punto di vista del capitale sociale. D'altra parte i comuni, per dimensioni, tendono a essere deboli nei confronti di interessi privati anche di dimensioni relativamente modeste, il che comporta la necessità di rafforzare il livello politico-istituzionale sovraordinato. Amministrazioni regionali e soprattutto statali vanno a loro volta ri-armate a supporto dell'azione politica comunale e a tutela di quegli interessi «sovrani» la cui difesa deve essere rafforzata in quanto particolarmente appetibili per il grande capitale in virtù delle potenzialità di profitto monopolistico.

Piccole apocalissi. Le possibili vie d'uscita dal capitalismo dei disastri Data di pubblicazione: 28.12.2008

Autore: Mattei, Ugo

“Per affrontare adeguatamente la situazione, il pensiero critico deve guardare con rinnovato interesse le passate esperienze di autogestione”. Il manifesto, 28 dicembre 2008

La gestione dell'attuale fase di convulsione capitalistica offre una nuova importante occasione di saccheggio. La giornalista e studiosa Naomi Klein, in un recente editoriale, mostrava le impressionanti analogie fra la campagna di Iraq e il bailout di banche e big corporations. Mutatis mutandis, si tratta di due disastri costruiti ad arte (invenzione delle armi di distruzione di massa in un caso; illusionismo finanziario nell'altro) e della «naturale» assegnazione della loro soluzione a quegli stessi soggetti che li hanno determinati. L'essenza del disaster capitalism. Cambiano i perdenti e il valore assoluto delle perdite umane dirette, ma l'ordine di grandezza del disastro trasformato in bottino è simile e si calcola nell'ordine delle migliaia di miliardi di dollari. Il 28 ottobre, con una lettera aperta al Segretario al Tesoro Paulson, anch'essa assai poco diffusa dai media ufficiali, Leo W. Gerard, presidente di United Steelworkers (sindacato metalmeccanico), dimostrava come i primi 125 miliardi del bailout fossero stati spesi in modo tale da regalarne metà al management delle imprese beneficiarie del salvataggio. Nel caso di Goldman Sacks, precedente datore di lavoro dello stesso Paulson, le proporzioni del saccheggio sono state clamorose. Pochi giorni prima Warren Buffet aveva investito cinque

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miliardi in azioni privilegiate della stessa banca, ricevendone in cambio almeno sette volte di più di quante Paulson ne abbia acquistate con la medesima somma in denaro pubblico. La legge del saccheggio Evitare che il saccheggio venga gestito dai saccheggiatori è una questione strutturale, che richiede, anche dal punto di vista giuridico, un ripensamento profondo dell'idea «americanizzata» di corporate governance che domina il dibattito giuridico-economico sulle istituzioni del capitalismo globale. Questa nozione, mal traducibile con «governo dell'impresa», pone al centro della scena la massimizzazione del shareholder value, vale a dire il valore delle azioni in borsa. Si tratta di un modello di impresa «leggero», contrattuale nella forma (l'impresa è vista come un semplice nesso di contratti), che concepisce l'efficienza come mera massimizzazione del valore delle azioni. La sua strutturale irresponsabilità sociale (il management è legato contrattualmente ai soli azionisti) spiega molto della logica di breve periodo che caratterizza il comportamento manageriale. I managers sono «vincenti» se massimizzano il valore delle azioni (cui sono legati i lauti bonuses e le options). Il lavoro è un mero input del processo di massimizzazione. L'impresa è efficiente se minimizza i costi (scaricandoli il più possibile sulla collettività) e massimizza il rendimento del capitale sotto forma appunto del valore delle azioni. Questa logica spiega la chiusura spietata di imprese sane, cosa fatta in Europa di recente da Electrolux, Motorola e molte altre, in virtù del fatto che il capitale poteva remunerare meglio gli azionisti se investito altrove, cioè nei paesi «poveri» dove è più facile scaricare i costi sociali sulla collettività. È questo modello diffusosi a macchia d'olio nel capitalismo globale alle radici della crisi che ormai si protrae da un anno e mezzo. Il coro del realismo politico Come in tutte le crisi, le prime reazioni sono le meno costose: taglio dei tassi di interesse, caute manovre sui deficit statali, classe politica che dichiara di ripensare certi eccessi, e perfino l'emergere di qualche nuovo politico «più credibile» nel risolvere il problema. Normalmente, ciò si accompagna ad un coro di intellettuali organici che ricordano a tutti la saggezza di John M. Keynes e le follie dell'ortodossia neoclassica. Questo spettacolo patetico presenta tratti comici quando offerto da quegli stessi che poco prima erano liberisti fanatici. Quando le prime soluzioni non funzionano, si diffondono misure più drastiche e costose: grandi bailouts per salvare chi è sufficientemente forte da aver accesso alle leve dello Stato, maggiore disponibilità all'utilizzo del deficit e della politica fiscale, riduzione del «rigore», perfino qualche nazionalizzazione di corporations particolarmente compromesse. È a questo punto che si accende il coro politico-accademico-mediatico del «troppo grande ed importante per fallire», del salvataggio come «rischio necessario» per riportare l'economia sul giusto binario. Questa fase può comprendere qualche estensione degli ammortizzatori sociali. Quando poi si rivelerà insufficiente, si procede verso un terzo livello che può comprendere (indipendentemente dal «colore» politico dei governi) assunzioni dirette da parte dello Stato, piani sostenuti di opera pubbliche, più significative nazionalizzazioni. Certamente esponenti politici ed intellettuali di «sinistra», con accesso ai media dominanti, cercheranno di presentare questi interventi come conquiste radicali o perfino socialiste, cosa che ha come unico vero scopo quello di marginalizzare coloro che cercano una vera alternativa strutturale. Quest'ultima non può che passare da un ripensamento del corporate governance. Il credito al consumo L'attuale crisi, prodotto dell'insostenibilità sociale dell'impresa, è infatti dovuta ad un fenomeno molto semplice che tuttavia non viene mai utilizzato nello spiegarla. A livello globale, dagli anni Settanta ad oggi, il cosiddetto surplus cooperativo, ossia il valore aggiunto dei processi produttivi, anziché essere equamente diviso fra remunerazione del capitale e del lavoro è stato interamente assorbito dal primo. Né è conseguita una stagnazione dei salari, perché il corporate governance ha esasperato la riduzione dei

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lavoratori a «merce». Essi sono stati ridotti anche lessicalmente a stake holders, cioè uomini e donne che hanno un interesse (stake) all'andamento dell'impresa in cui la soggettività (anche politica) è riconosciuta ai soli imprenditori. Con la stagnazione salariale che ne è derivata, negli Stati Uniti è aumentato esponenzialmente il ricorso all'indebitamento personale per far fronte a bisogni (reali o indotti) di prima necessità. Se la «bolla casa» è già esplosa, quella delle carte di credito esploderà ben presto e potrebbe essere il colpo del ko. Pensiamo a come le cose sarebbero andate diversamente se i consigli di amministrazione delle imprese al posto di essere costituiti da rappresentanti degli azionisti, avessero visto rappresentate, con autentico potere, le collettività coinvolte ed i lavoratori. Certamente si sarebbe verificata una progressive crescita dei salari piuttosto che la brutale crescita dei bonuses dei managers. Non ci sarebbe dunque stata la corsa all'indebitamento subprime che è andata di pari passo con l'impoverimento della classe media e con la crescita del divario sociale. Naturalmente, una tale trasformazione strutturale del corporate governance, come ogni inversione di rotta autentica, non ha alcuna possibilità di verificarsi se non sostenuta da una forte «domanda politica». È soltanto nell'ambito di shock catastrofici che maturano le condizioni politiche per trasformazioni sistemiche profonde. Ne segue che il piano di restituire al lavoro e alle collettività la soggettività economica nell' impresa va posto in opera in modo tecnicamente provveduto e sofisticato fin da subito. In un certo senso, si tratta di riprendere il filo di un discorso interrotto, di quel «governo democratico dell'economia» di cui si parlò molto in Italia nel corso degli anni Settanta senza tempo tuttavia per trasformare l'elaborazione teorica in prassi o anche soltanto in tecnica applicativa. Il passato che ritorna Nei momenti di crisi, una classe dirigente degna di questo nome deve avere il coraggio di guardare con rinnovato rispetto ai modelli recessivi, imparando dalle ragioni della loro sconfitta ma anche sapendo immaginare una loro possibile posa in opera adeguata alle condizioni presenti. La soggettività del lavoro nell'impresa ha un pedigree storico e offre materiali di riflessione che non vanno dimenticati. In Jugoslavia, una di queste esperienze recessive, due leggi, rispettivamente del 1950 e del 1976 (la «Legge sul lavoro associato»), si fecero carico di disciplinare la «socializzazione» dei mezzi di produzione e l'autogestione d'impresa. Idea fondante era quella di «democrazia nel proprio ambiente immediato», secondo la quale l'elezione delle alte cariche politiche costituisse una vuota forma se non accompagnata dal diretto potere decisionale sul posto di lavoro. Tale modello autogestito, ancorché complesso nel suo funzionamento, e quindi meno «efficiente» sul piano decisionale, fu accompagnato da qualche importante successo anche sul piano degli investimenti esteri, cosa completamente obliterata dalla successiva damnatio memoriae ma ben documentata nella letteratura giuridica anche internazionale. Purtroppo in Jugoslavia la questione dell'efficienza dell'autogestione non venne mai davvero affrontata a causa dell'eccessiva coltre ideologica che accompagnava il modello. Proprio la stessa ragione per cui oggi nessuno ripensa al corporate governance. Siti Internet e libri per aiutare la navigazione nell'attuale crisi L'editoriale di Naomi Klein si può leggere nel sito Internet: http://www.redroom.com/blog/ugo-mattei/plunder-blog-naomi-klein-bailout). La lettera aperta a Paulson: http://www.redroom.com/blog/ugo-mattei/plunder-blog-mr-paulson-plunders-taxpayers-sake-his-own-firm). Per una discussione interessante sulla crisi subprime: « Plunder. Investigating our Economic Calamity and the Subprime Scandal» di Danny Sheckter. Sull' autogestione in Yugoslavia si veda: «La proprietà nell' impresa autogestita jugoslava» di Gianantonio Benacchio (Giuffrè); e per una discussione sul successo del modello misurato dal punto di vista dell' attrazione dell' investimentoi estero il saggio di Tibor Varadi in «Revue de droit des affaires internationals alias International Business Law Journal», No. 4/5 1990.

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Beni a perdere Data di pubblicazione: 02.12.2008

Autore: Mattei, Ugo

Un programma politico impegnativo, indispensabile per evitare, in extremis, il declino. Ma in mano a chi? Il manifesto, 2 dicembre 2008

Mentre i media continuano a veicolare l'idea che si tratta di un incidente di percorso, la crisi economica sta mettendo a nudo il progressivo declino dell'egemonia occidentale nel mondo

L'Occidente è in recessione, il che significa stagnazione e arresto della crescita. Di per sé potrebbe trattarsi di un semplice arresto ciclico, ed anzi buona parte dei media «ufficiali» cercano di veicolare questa idea. Uno, due anni di «vacche magre»; qualche modifica istituzionale nella regolamentazione del capitale finanziario; una nuova «Bretton Woods», come ormai si usa dire, e il modello capitalistico, fondato sulla liberal-democrazia, tornerà ad essere il miglior sistema possibile. Secondo altri osservatori, potremmo invece trovarci di fronte ad un crollo sistemico, paragonabile a quello che ha travolto il modello sovietico. Entrambe le prospettive sono compatibili con il fatto che la leadership dell'Occidente sia perduta e che il G8 sia soltanto un brutto ricordo (non si sa se ci attenderà un G20 o un G14). Per l'Europa, la cui egemonia era stata già persa a favore degli Stati Uniti da molto tempo, si tratta di un nuovo trauma, cui si è giunti completamente impreparati in preda a divisioni e paure. Sotto la guida di leaders privi di qualsiasi credibilità culturale prima ancora che politica, si continua a vagheggiare di «patrimonio valoriale dell'Occidente», di «radici giudaico-cristiane» e di altre simili insulse amenità, che invano cercano di dare una patina di rispettabilità al razzismo dilagante. Una cosa è però certa: tutti i leaders europei non voglio accettare il fatto che gli equilibri del mondo sono mutati a sfavore dell'Europa e degli Stati Uniti. Declino europeo Per gli Stati Uniti, si tratta della prima macroscopica battuta d'arresto in una storia di costante crescita di influenza planetaria fin dalla propria nascita, mai in precedenza interrottasi, neppure nel periodo della guerra fredda. Un modello di superiorità occidentale radicato in Europa e potente veicolo di esportazione dell'arroganza dell'uomo bianco, ancorché sotto le diverse spoglie, non meno brutali, di privatizzazione, messa in vendita e dollarizzazione (strutturale a partire da Bretton Woods), piuttosto che della diretta colonizzazione. A differenza però che in Europa, dove gli ipocriti e velleitari volti di Gordon Brown, Nicolas Sarkozy, Manuel Barroso (meglio, forse, la figura di Angela Merkel, ma non parliamo di nostri provincialissimi e ininfluenti leaders) sono la dimostrazione ultima di una crisi irreversibile della politica europea, gli Stati Uniti riescono a sfoderare Barack Obama. Si tratta di un leader che, se non fosse esistito, doveva essere inventato, tanto incarna la logica della postmodernità: l'ibridazione culturale al servizio del libero mercato. Ma forse è troppo tardi affinché un buon presidente Usa (ammettendone la possibilità) potrebbe essere condizione necessaria ma certo non sufficiente per la salvezza, visto che la fiducia su un mercato finanziario del valore di 20 volte il Prodotto interno lordo mondiale annuo (ossia vent'anni di economia reale) è crollata al primo sussurro che «il re è nudo!», nonostante la retorica che accompagnava la possibilità di una sua crescita continua. Invero, la catastrofe economica attuale non è gestibile attraverso strumenti compatibili con il capitalismo finanziario che l'ha prodotta e quindi non può certo essere risolta dal principale prodotto politico del capitalismo finanziario medesimo, ossia il Presidente degli Stati Uniti. L'impatto della catastrofe al di

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fuori degli Stati Uniti, (della cui economia, dopo Bretton Woods, tutto il mondo è succube), può essere attenuato, certo non evitato, soltanto con strumenti politici, culturali ed istituzionali fortemente antagonistici rispetto al modello statunitense. La speranza è che almeno la sinistra se ne renda conto. Occorre perciò combattere innanzitutto quella insopportabile retorica celebrativa della libertà, intesa come diseguaglianza sociale fondata sulla santificazione della proprietà privata e dell'impresa. Cosa che certamente l'Occidente, ipnotizzato da decenni di ciance mediatiche sulla competizione, sulla meritocrazia, sullo sviluppo, sulla crescita, sulla legalità astratta, sui diritti umani non è pronto a fare, a meno di non esservi costretto da forze e da movimenti sociali e politici capaci di produrre una vera rivoluzione copernicana che porti a rendere possibile ciò che oggi pare impossibile. Istituzioni di lungo periodo Bisogna cioè che l'elaborazione teorica sia pronta e sappia ripensare adesso alla socializzazione dei più importanti mezzi di produzione (con cogestione dell'impresa, qualora essa rimanga privata), alla ridistribuzione radicale delle risorse (tramite tassazione progressiva ed imposta patrimoniale), alla costruzione di un modello misto in cui l'interesse pubblico sappia davvero imporsi, con le buone o con le cattive, su quello privato e sul conflitto di interessi. Si tratta di metter mano adesso ad istituzioni democratiche «di lungo periodo», capaci di bonificare il nostro modello di sviluppo, creandone uno nuovo, imperniato sulla qualità della vita di tutti come comunità e non sulla quantità delle risorse che ciascuno, individualmente, compete per controllare e consumare. Una simile trasformazione non può essere guidata dagli stessi leaders e dalle stesse forze che ci hanno portato a questo disastro sociale e politico, prodotto dell'individualismo consumistico. Può essere immaginata soltanto nel quadro di un'ascesa della «fantasia al potere», che abbia il coraggio di ridiscutere gli stessi spazi e gli stessi tempi del politico, schierandosi sistematicamente dalla parte dei perdenti dei processi sociali capitalistici. Non ovviamente una fantasia astratta ma, al contrario, il coraggio di saper scegliere, senza pregiudizi, dal ricco menù culturale che la civiltà umana anche oggi propone. Si tratta di disporsi con umiltà di fronte all'immensa ricchezza di culture rese vittime dallo sviluppo capitalistico, al fine di recuperarle in via dialogica ed accompagnarne la ricollocazione al centro delle istituzioni globali prima che sia troppo tardi per tutti. Ma se salvare l'Occidente da se stesso, dai suoi miti e dalle sue paure, appare un' impresa titanica, non c'è dubbio che si tratti pure di un'urgenza, che potrebbe comunque diventare molto presto una necessità assai più che una scelta. La prudenza dei giganti L'Africa affamata ed assetata dal continuo saccheggio, ed un mondo islamico rispetto al quale l'atteggiamento razzista di ingliustificata superiorità non sembra mutato a partire dall'XI secolo, stanno dando ampi segnali di come i cicli demografici finiranno per prevalere anche in Europa. D'altra parte essi offrono modelli di civiltà meno atomizzati e più aggreganti. L'America Latina, già da qualche anno principale beneficiaria dell'annunciato crollo dell'impero americano, distratto dalle sue folli avventure belliche in Medio Oriente, costituisce in questo momento il più importante laboratorio politico di alternative «umane» al capitalismo finanziario, dall'Equador alla Bolivia, Argentina, compreso il Brasile di Lula e il Venezuela di Chavez. Essa non ha comunque smesso di premere sull'incivile muro lungo il Rio Grande, e di «ibridare» la società statunitense con milioni di lavoratori sfruttati, a loro volta spinti da fame e privazioni. Cina e India non sono in recessione, sebbene la seconda sia stata ben più americanizzata della prima, e ne soffra le conseguenze. Al di là degli effetti ancora imponderabili dei tragici fatti di Mumbay, la crescita, sostengono molti analisti, potrebbe rallentare, scendendo sotto quell'incredibile 10% annuo dell'ultimo decennio. Ma si assesterebbe sul 6-7%. Fra mille contraddizioni, e con differenze notevoli, i due giganti asiatici riescono in qualche modo a cogliere i frutti della prudenza, della propensione al risparmio e del mantenimento in vita

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del primato dello stato e dell'elaborazione politica. Lo sforzo in atto soprattutto in Cina di perequare finalmente campagne e città e di sviluppare un'economia meno fondata sull'esportazione di prodotti finiti a buon mercato, potrebbe far pensare ad una volontà di Pechino di chiedere il rendiconto agli Stati Uniti, rifiutando di continuare a finanziare le abitudini della cicala. Sarebbe una novità globale dalla portata immensa. Pechino detiene 2000 miliardi di riserve in dollari e 1200 miliardi in buoni del tesoro statunitensi. Ma nel mondo post-occidentale ci sono molti altri protagonisti capaci di fornire modelli politici e culturali che, per scelta o per necessità, dovranno essere considerati. Il Giappone, in sofferenza da oltre un decennio, che tuttavia offre un modello di settore pubblico e di burocrazia altamente professionalizzata, fortemente armata sul piano politico e culturale, e capace di dialogare alla pari con il settore privato. Se ne avrebbe gran bisogno anche in Occidente, dove per l' assenza di un ceto professionale di civil servants, perfino il bailout americano costituisce un nuovo episodio di privatizzazione di funzioni pubbliche alle grandi law firms di Wall Street. E non parliamo della nostra Italia dove, senza pudore, il «nocchiero dell'economia», pur autore di mediocri libri antimercatisti, continua a proporre oscene privatizzazioni-saccheggio (compresa, da ultimo, l'acqua), purtroppo col sostegno di «opposizione» e governi locali, intenti a far affari con i servizi e le partecipate pubbliche. E la vecchia protagonista della Guerra Fredda, quella Russia il cui crollo imperiale ha trascinato con sè il Welfare State in occidente? Recentemente, durante un incontro, Marcello Cini ha sostenuto che forse il modello Putin è quello su cui si sta fondando il «consenso» al crepuscolo dell'economia liberale di mercato: autoritarismo, nazionalismo, militarismo, saccheggio. Una chiave interpretativa condivisibile e che aiuterebbe a comprendere meglio la situazione europea attuale

La crisi tra passato e presente. Il codice della continuità Data di pubblicazione: 03.11.2008

Autore: Mattei, Ugo

Ancora un intervento nella discussione sulla crisi finanziaria e le vicende del proteiforme capitalismo.Il manifesto, 2 ottobre 2008

L'altalena delle borse non coincide con la fine del capitalismo, ma con un suo assestamento per riportare ordine e integrare così le periferie dell'impero. La crisi letta attraverso le tesi di Guy Debord sulle «società dello spettacolo»

Provare ad utilizzare le categorie di Guy Debord per riflettere sulle grandi trasformazioni in corso apre percorsi di ricerca che possono essere solo accennati in un articolo, ma sui quali occorrerà tornare in futuro. È noto come il «dottore in nulla» nella sua Società dello Spettacolo avesse introdotto due modelli contrapposti, lo «spettacolo concentrato» proprio delle società totalitarie e dittatoriali, e lo «spettacolo diffuso» proprio delle democrazie occidentali, dominate dal consumismo. Successivamente nei Commentari, scritti nel bel mezzo del terremoto che fece crollare la più spettacolare epifania dello spettacolo concentrato (l'Urss), Debord tracciò il percorso che avrebbe portato alla nascita di ciò che definì «spettacolo integrato». Il crollo del modello sovietico e l'apparente discioglimento dell'equilibrio del terrore avrebbero necessariamente trasformato le «democrazie occidentali», togliendo loro ogni incentivo alla virtù (o alla «moralità» per dirla con Laura Pennacchi). Il sistema si sarebbe così trasformato in una combinazione fra i due modelli precedenti, uno spettacolo integrato caratterizzato da cinque punti: «Il continuo rinnovamento tecnologico; la fusione economico-statale; il segreto generalizzato; il falso indiscutibile; un eterno presente». Difficile negare che il modello statunitense dominante

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dopo la caduta del Muro di Berlino e poi ancor più marcatamente a partire dall'elezione di George W.Bush abbia prodotto un ventennio di «spettacolo integrato». Nel capitalismo finanziario della ricchezza «inventata» per valori superiori decine di volte a quelli del prodotto interno lordo globale (12 volte considerando i soli derivati) «la forma di merce e il rapporto di valore dei prodotti di lavoro nel quale si presenta non ha assolutamente nulla a che fare con la loro natura fisica», come già stava scritto proprio in quella parte del Capitale che maggiormente infuenzò Debord (e anche Jean Beaudrillard). Tra Cina e Europa Oggi potremmo essere di fronte ad un crollo sistemico tanto violento quanto quello dell'impero sovietico o per lo meno possiamo ragionevolmente interpretare così diversi segnali. Il capitalismo finanziario, noto con tanti altri nomi da «turbo-capitalismo» a «super-capitalismo» a «modello neo-americano» o «neo-liberista», si sta effettivamente schiantando? Possiamo goderci in modo un po' meschino quel senso di giustizia inutile (o assai crudele se coinvolge innocenti) che magari abbiamo provato incontrando schiantata sull'orlo della strada due curve più avanti la vettura sportiva di un cretino che poco prima ci ha superato in curva a velocità folle? Come crolla uno «spettacolo» e che rimane dopo il crollo? Stiamo davvero assistendo al crollo dello «spettacolo integrato» effettivamente realizzatosi nell'ultimo ventennio, o semplicemente si tratta di una scossa di assestamento di un'«integrazione spettacolare» che ancora deve completarsi cancellando le specificità delle periferie? Se il capitalismo finanziario contemporaneo (corporate capitalism) corrisponde in modo impressionante ai sette punti debordiani, a che cosa corrispondono il capitalismo di stato cinese che attende sornione che le acque del fiume facciano transitare il cadavere del nemico americano? A che cosa corrisponde il modello europeo, che talvolta si sente invocare come alternativa anche sociale al modello anglosassone? Esiste un pensiero (o una prassi) alternativa desiderabile che non sia l'insopportabile riproposizione del keynesismo allegramente assolto dalle sue responsabilità belliche? Sono quello cinese ed europeo davvero modelli diversi o semplici differenze di stadio «evolutivo-involutivo», semiperiferie a volte riottose ma dominate in fondo dalla stessa logica accumulatrice del centro? È quella tecnocratica europea l'alternativa «sociale» che dovremmo desiderare? E l'alterità vera, quella di mondi che l'arroganza eurocentrica anche di sinistra considera «senza storia», «senza tecnologia», «senza diritto e diritti», «senza democrazia», «senza parità ed emancipazione dei sessi»? Lì vivono, certo non senza cultura, la maggior parte degli umani che maggiormente stanno in equilibrio con la natura. Dobbiamo necessariamente «inventare» questa alterità come un residuo arcaico, o potremmo finalmente cercare di conoscerla per una ragione diversa dal desiderio di depredarla? In sintesi: ha senso utilizzare un modello interpretativo che si fonda su radicali discontinuità temporali (prima e dopo «il crollo») e spaziali (modello statunitense, cinese, europeo) oppure ancora una volta a prevalere sono gli elementi di continuità nell'espansione capitalistica, che hanno superato guerre, rivoluzioni, carneficine, decolonizzazioni, nazionalismi, e perfino qualche emancipazione e rara isola felice? E cosa sta dietro questa continuità destinata a finire forse solo con l'esaurirsi (prossimo) della pazienza della natura rispetto all'antropizzazione? Nel regno del breve periodo L'attività predatoria di questo modello economico legittimata dal diritto e dalla scienza non mostra significative soluzioni di continuità negli ultimi cinquecento anni in occidente dove, accoppiandosi con la tecnologia, crea un modello proprietario per cui la natura «appartiene» all'uomo mentre l'uomo, a differenza di ogni altro essere vivente, «non appartiene» alla natura ma ne sta al di sopra e la domina tramite le sue leggi. Così facendo le leggi umane, sovraordinate a quelle di natura, producono un'antropomorfizzazione e poi singolarizzazione delle comunità e delle organizzazioni sociali, che reduce la prospettiva istituzionale ad una distanza sempre più corta e a tempi sempre più brevi. Si sviluppa in un

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mondo conquistato dall'ideologia dell'efficienza economica un parossismo di fiducia collettiva nell'eternità delle risorse naturali da sfruttare dalla quale potrebbe svegliarci soltanto uno schianto apocalittico. Di fronte alle attuali avvisaglie di crollo, (certo non solo la finanza, ma anche lo scioglimento dei ghiacci il riscaldamento globale, la distruzione delle risorse ittiche e l'esaurimento dell' acqua) un'umanità sotto l' effetto dell'oppio spettacolare (in tutte le sue impressionanti manifestazioni ideologiche e culturali) crede in formulette di breve periodo quali quelle di cui parlano i leader politici del G7. E così facciamo pure il tifo affinché il bailout si trasformi in una nazionalizzazione di banche ed assicurazioni e perché magari si cominci a riparlare di socialismo. Ma non facciamoci troppe illusioni, perché strutturalmente siamo di fronte ad un'ennesima scorreria in colletto bianco travestita da legalità «democratica». Grandi risorse pubbliche vere o inventate sono trasferite a privati; la creazione di uno stato di emergenza «costruisce» la necessità del capitalismo finanziario e fa preoccupare perfino un comunista senza un soldo in borsa per le sorti di Wall Street! Sulle prime pagine dei giornali, gli stessi che l'anno scorso straparlavano sostenendo che il liberismo è di sinistra, al posto di vergognarsi oggi berciano che si tratta di una crisi della «regolamentazione» o di un crollo dell'«etica» della grande impresa (Anthony Giddens), concezione anche questa al limite dell'ossimoro, ma accettabile nella società dello spettacolo così come accettabile è chiamare la guerra operazione di pace. In più si continuano a tessere gli elogi e la necessità dell'«innovazione» anche finanziaria (l'economista e docente di Yale Robert Shiller). Ma non è un problema di etica, né di regolamentazione. È un problema profondamente radicato nell'arroganza storica dell'occidente dominante con la sua tecnologia e la sua concezione proprietaria della legalità e del potere. Intorno a noi prendiamo coscienza delle vere continuità storiche: i pirati, gli schiavi, la tortura, l'esecuzione. Le fondamenta profonde del diritto occidentale sono complici se non direttamente protagoniste di quest' ergersi dell' uomo a domino della natura e a creatore di disordine cosmico

Battitori d’asta per beni messi in comune Data di pubblicazione: 02.07.2008

Autore: Mattei, Ugo

Il problema è: come fare per far leggere (e comprendere) questo fondamentale articolo a chi dovrebbe garantire il bene comune? Il manifesto, 23 maggio 2008

A lungo la cultura politico-costituzionale italiana (come del resto quella europea fin dalla Costituzione di Weimar) si è interrogata sul tema di quale dovesse essere il rapporto tra la rendita fondiaria e la tutela dei beni comuni. Il problema è tuttavia scomparso dalle odierne agende «riformiste» (il manifesto del 12 maggio) senza che il compromesso «alto» fra proprietà privata e democrazia raggiunto dalla Costituzione italiana del 1948 abbia ottenuto seguito. (Il tema è stato ripreso da Stefano Rodotà su la Repubblicadi lunedì 11 maggio). Tutte le forze capaci di realizzare quel capolavoro politico-culturale che fu la Costituzione sposarono una logica di lungo periodo ponendo le premesse ed i principi per la realizzazione di un sistema economico-politico misto (Art. 42 e 43 della Costituzone) la cui concreta realizzazione veniva lasciata alla dinamica parlamentare. Un presupposto fondamentale di ogni economia mista è quello per cui il cosiddetto «surplus cooperativo», ossia la crescita di ricchezza collettiva derivate dall’aggregazione degli individui in società, appartiene a tutti e deve essere utilizzato quindi nell’interesse di un progresso civile e sociale che coinvolga tutti i cittadini di uno stato. In una economia mista, dunque, tale surplus cooperativo non può infatti essere automaticamente ed interamente assorbito dalla proprietà privata. Infatti, se il mio alloggio aumenta di valore, tale aumento è prodotto

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dalla pressione urbanistica, provocata dal fatto che gli uomini e le donne che vivono o vogliono vivere in citta assieme alle attività economiche e sociali tendono a concentrarsi in certe zone piuttosto che altre. Sono queste attività sociali che determinano l’aumento del valore della mia proprietà in modo del tutto indipendente dal costo della fabbricazione o dalla qualità dei materiali adoperati per costruirla. Una casa di qualità splendida in una zona «depressa» vale molto meno di una casa costruita con materiali scadenti o anche completamente diroccata in una zona ad alta pressione urbanistica. La forbice fra il valore della proprietà privata sul mercato immobiliare ed il costo (materiali e lavoro) dell’immobile è nota come rendita fondiaria. La potenza del debito A chi appartiene questo surplus cooperativo (utilizzando il gergo della teoria dei giochi) o se si preferisce una locuzione più tradizionale, la rendita fondiaria? Oggi, l’ideologia dominante ritiene del tutto scontato che la rendita fondiaria appartenga al proprietario, e anche quel minimo di sua socializzazione prodotta dalla tassazione immobiliare (unica forma di imposta patrinoniale nel nostro sistema) è sotto attacco. Tale comune percezione dimostra il successo dell’ideologia neoliberale, dimenticando il fatto che fino a pochi anni fa la principale preoccupazione delle diverse discipline (sociologia, economia, diritto) che si dedicavano al fenomeno urbanistico era di fornire alla politica gli strumenti istituzionali necessari per governare la rendita fondiaria nell’interesse della collettività che la produce. In altre parole la rendita fondiaria, prodotta da tutti, costituisce un esempio di ricchezza comune, che la politica dovrebbe poter utilizzare nell’interesse di tuttimache quasi sempre viene interamente assorbita dal privato proprietario che così sfrutta una rendita di posizione. Dopo un quarto di secolo di sostanziale silenzio, di proprietà pubblica, beni comuni e del loro rapporto con la proprietà privata si è ripreso a discutere anche in Italia nel quadro del dibattito sul risanamento dei conti pubblici e sul debito aperto dalla nota proposta di Giuseppe Guarino di vendere il patrimonio immobiliare pubblico per ripianare un debito insostenibile. Il dibattito si è riscaldato principalmente in reazione alla tendenza apparentemente inarrestabile alla privatizzazione e dismissione dei beni pubblici e comuni per esigenze di spesa corrente (la cosiddetta finanza creativa). La vulgata neo-riformista infatti ha presentato la proprietà pubblica come una specie di buco nero che assorbe risorse senza produrre nulla di cui occorre disfarsi al più presto possible. Le operazioni di dismissione sono state così condotte al di fuori da qualsiasi garanzia costituzionale, come se fosse ammissibile e naturale per un governo in carica, liberarsi di tutto un patrimonio comune garantito dalla Costituzione proprio perchè costruito negli anni con sforzo collettivo. Inoltre, a causa di un quadro normative obsoleto, contenuto nel Codice Civile del 1942 e mai modificato al fine di renderlo coerente con la Costituzione del 1948, qualsiasi privatizzazione anche dei beni pubblici più importanti è stata determinata da un semplice decreto ministeriale di «sdemanializzazione»: al di fuori quindi non solo da qualsiasi controllo costituzionale ma anche senza bisogno di alcun coinvolgimento del Parlamento. Insomma, in Italia il maggiordomo assunto a termine (la maggioranza parlamentare del momento) ha il potere di vendere il patrimonio di famiglia (la collettività dei cittadini italiani) quasi sempre trasferendolo sottocosto ad attori privati e compensando profumatamente le banche d’affari che gestiscono tali «cartolarizzazioni». Miracoli del censimento Grazie anche ad un libro fondamentale e coraggioso del Rettore della Scuola Normale di Pisa (Salvatore Settis, Italia S.p.A.) i rischi di tale politica sono stati messi all’ordine del giorno. Si è avviata così una fase di riforme del regime dei beni culturali che hanno ricevuto in poco tempo attenzione bipartisan in forma di un «Codice» (e quindi legislativa) legato al nome di Urbani prima e di Rutelli poi. Ma il patrimonio pubblico, non è affatto limitato ai beni culturali (che pure, soprattutto in Italia, ne sono una componente non trascurabile) e la sua buona gestione e garanzia costituisce una delle più importanti

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trasformazioni strutturali necessarie per portare la nostra organizzazione sociale in sintonia con la visione della Repubblica italiana contenuta nella Costituzione. Pur prescindendo dalla rendita fondiaria, fra i beni pubblici infatti ci sono le principali infrastrutture del paese, dalle autostrade alle ferrovie ai porti agli aeroporti, ospedali, tribunali, scuole, asili, prigioni, cimiteri ma anche foreste, parchi, acque, frequenze radiotelevisive e telefoniche, proprietà intellettuale pubblica, crediti fiscali. Il censimento di tali ricchezze ingentissime è iniziato con il «Conto patrimoniale della Pubblica amministrazione» voluto da Giulio Tremonti nel 2004 e per gran parte degli immobili è stato recentemente completato dall’Agenzia del Demanio. Sappiamo adesso che il valore di questo patrimonio pubblico italiano è altissimo, il più alto in Europa, ed è quindi verosimile che la buona gestione di questa ricchezza, secondo principi giuridici generalmente condivisi, possa dare benefici estremamente significativi (non solo economici) alla collettività che, ai sensi della nostra Costituzione, ne è proprietaria. Non bisogna dimenticare infatti che la collettività non è composta soltanto da proprietari privati ma anche da nullatenenti la cui unica proprietà è pro quota quella pubblica. Di qui il riproporsi dell’annoso conflitto fra proprietà privata e democrazia, alla cui soluzione di principio hanno lavorato i nostri costituenti. Discutere di come utilizzare la proprietà pubblica è perciò questione fondamentale all’interno di un regime politico democratico e il luogo in cui ciò deve avvenire non può che essere il Parlamento perchè il Ministero dell’Economia, a tacer d’altro, è oberato dalle esigenze di far cassa sul breve periodo. La comunità accademica si è fatta sentire e nel giugno del 2007 il Guardasigilli accolse le raccomandazioni espresso un anno prima dall’ Accademia Nazionale dei Lincei. Con un decreto ministeriale del 21 giugno 2007, l’allora ministro della giustizia Clemente Mastella investì del tema del regime giuridico della proprietà pubblica e della riforma delle parti del Codice Civile che lo riguardano una Commissione affidandone la guida a Stefano Rodotà, uno dei più prestigiosi studiosi internazionali della proprietà. La commissione, composta fra gli altri da «amministrativisti » del calibro di MarcoD’Alberti o da economisti come Giacomo Vaciago, ha completato i suoi lavori nel febbraio scorso a governo dimissionario e Parlamento sciolto. La proposta di legge delega da essa prodotta, è stata tuttavia ripresa e discussa lo scorso mese in una giornata di studio all’Accademia dei Lincei e si trova oggi nelle mani del guardasigilli Angelino Alfano che potrebbe dar prova di autentica volontà riformista di lungo periodo presentandola al più presto al Consiglio dei Ministri al fine di portarla in Parlamento per la discussione. Fra le più significative innovazioni che il Parlamento dovrebbe dunque discutere vi è l’introduzione di una nozione di beni comuni, che apartengono a tutti i consociati, e che l’ordinamento deve tutelare e salvaguardare anche a beneficio delle generazioni future. Secondo la «Commissione Rodotà» i beni comuni di proprietà pubblica dovrebbero essere gestiti da soggetti pubblici ed essere collocati fuori commercio proprio al fine di evitarne il saccheggio privato. Sono beni comuni, tra gli altri: i fiumi i torrenti e le loro sorgenti; i laghi e le altre acque; l’aria; i parchi come definiti dalla legge, le foreste e le zone boschive; le zone montane di alta quota, i ghiacciai e le nevi perenni; i lidi e i tratti di costa dichiarati riserva ambientale; la fauna selvatica e la flora tutelata; i beni archeologici, culturali, ambientali e le altre zone paesaggistiche tutelate. Un patrimonio da salvaguardare La Commissione per la riforma del Codice Civile ha inoltre previsto altre categorie di beni pubblici, alcuni dei quali, «che soddisfano interessi generali fondamentali, la cui cura discende dalle prerogative dello Stato e degli enti pubblici territoriali», sono ad appartenenza pubblica necessaria e quindi a loro volta non privatizzabili. Vi rientrano fra gli altri: le opere destinate alla difesa; le spiagge e le rade; la reti stradali, autostradali e ferroviarie; lo spettro delle frequenze; gli acquedotti; i porti e gli aeroporti di rilevanza nazionale ed internazionale. Altri beni sono pubblici non in quanto collegati alla sovranità

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dello Stato ma in quanto indissolubilmente legati alle esigenze organizzative dello Stato sociale previsto dalla Costituzione italiana: «Sono beni pubblici sociali quelli le cui utilità essenziali sono destinate a soddisfare bisogni corrispondenti ai diritti civili e sociali della persona». Vi rientrerebbero tra gli altri: le case dell’edilizia residenziale pubblica, gli edifici pubblici adibiti a ospedali, istituti di istruzione e asili; le reti locali di pubblico servizio. Secondo la proposta della Commissione tali beni non potrebbero essere alienati senza che lo stesso livello di servizi sociali sia garantito attraverso altri beni sostitutivi. Tutti gli altri beni pubblici vengono definiti fruttiferi: essi sono alienabili e gestibili dalle persone pubbliche con strumenti ordinari di diritto privato. L’«alienazione » è consentita però solo quando siano dimostrati il venir meno della necessità dell’utilizzo pubblico dello specifico bene e l’impossibilità di continuarne il godimento in proprietà con criteri economici. Progettualità di lungo periodo A questa struttura giuridica generale, che cerca di recuperare una progettualità di lungo periodo sviluppando, dopo sessant’anni, il mandato costituzionale, corrispondono diverse proposte volte a coniugare l’equità anche intergenerazionale con l’efficienza economica e gestionale. In questo itinerario la cultura giuridica ed economica italiana, in dialogo con le più significative esperienze estere, ha cercato di offrire alla politica alcuni strumenti tecnici di avanguardia per affrontare in modo progettuale nell’interesse di tutta la nostra collettività, un futuro di risorse sempre più scarse. Sapranno i «nuovi» Berlusconi e Tremonti, il primo rinnovato statista, il secondo «mercatista» pentito, abbandonare la via della paura ed imboccare finalmente quella della speranza, affrontando in spirito autenticamente bipartisan i veri nodi strutturali ancora da implementare?

La lunga marcia della talpa neoliberista Data di pubblicazione: 14.05.2008

Autore: Mattei, Ugo

"Riformismo", una magistrale riflessione su una parola chiave della mistificazione ideologica del neoliberismo. Il manifesto, 13 maggio 2008

Difficile trovare un termine del gergo politico Italiano contemporaneo, più diffusamente utilizzato di «riformismo». Difficile trovare pure un'ideologia politica maggiormente responsabile della recente catastrofe elettorale delle forze democratiche di questo paese, simboleggiata dallo striscione con scritto «Veltroni santo subito» esposto dai fascisti nuovi padroni del Campidoglio. Che sia proprio dal recente utilizzo a sinistra del termine «riformismo» che si debba partire nella necessaria analisi della sconfitta di tutto il centrosinistra è fuori discussione. La necessità di «fare le riforme» è stata invocata in campagna elettorale sia dai leaders politici di destra che di sinistra, tanto da costituire il minimo comune multiplo della politica italiana contemporanea: la riforma elettorale, la riforma della scuola, la riforma della sanità, la riforma dell'università, la riforma delle professioni, la riforma del mercato del lavoro. Che cosa si nasconde dietro alla nuova diffusa ideologia? È abbastanza ovvio che il termine riformista trasmette un tranquillo messaggio di moderazione, che tuttavia nasconde una feroce determinazione securitaria. Il riformista, a differenza del rivoluzionario, non distrugge, non sconvolge, non rivoluziona lo status quo. Egli è sempre dalla parte dell'autorità costituita che garantisce sicurezza alla sua proprietà. Egli è insoddisfatto di alcuni aspetti del sistema e, sposandone la logica di fondo, intende migliorarlo, ripensarlo, favorirne lo sviluppo, trasformarlo in modo magari radicale ma armonico, progressivo, in ogni caso compatibile con fondamenti ed assetti proprietari consolidati. Il termine mette a fuoco il processo trasformativo piuttosto che il contenuto della trasformazione, ed implica la necessità di ridisegnare alcuni aspetti del

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sistema istituzionale per ottenere crescita e sviluppo. È questo il messaggio bipartisan dichiarato tanto dalla maggioranza quanto dall'opposizione nel loro competere secondo le regole elettorali di una «moderna democrazia liberale occidentale». Questo tranquillo messaggio subliminale pone il termine «riformismo» in una luce di generale favore, bollando ad un tempo di estremismo e di velleitarismo qualunque voce alternativa. Da Bentham a Carlo Rosselli Nell'era del riformismo bipartisan, l'antica opposizione fra conservatore e riformista affonda perché il primo è inevitabilmente condannato di fronte all'«inevitabile» e «naturale» accelerazione storica e tecnologica dell'era postmoderna. D'altra parte, per ragioni in larga misura analoghe ma speculari, affonda pure la contrapposizione fra rivoluzionario e riformista. Infatti, se il termine reformist fu coniato da Jeremy Bentham nel 1811, esso venne posto al centro della riflessione politica del movimento operaio a metà Ottocento da parte di quell'Eduard Bernstein che, per primo, mise in discussione l'imminenza della rivoluzione proletaria sostenendo la necessità di alleanze strategiche con i partiti borghesi. Il riformismo socialista, teorizzato in Francia da Alexandre Millerand in un famoso libro dal titolo omonimo, conquistò alcuni dei più prestigiosi dirigenti del Partito Socialista Italiano all'inizio del secolo breve, tra i quali bisogna ricordare Turati, Treves, Bissolati, Bonomi, Carlo Rosselli, Matteotti e Gaetano Salvemini, in gran parte espulsi al congresso di Livorno del 1912, proprio in quanto tacciati di revisionismo, un termine che nel frattempo aveva contaminato il riformismo di connotazioni negative. In ogni caso la corrente riformista, che ebbe notevole peso all' interno della Seconda Internazionale (1889-1914) condivideva sicuramente il progetto di uguaglianza e giustizia sociale del movimento socialista ma si distingueva per il metodo legalista e gradualista piuttosto che rivoluzionario con cui l'obiettivo finale doveva essere raggiunto. In definitiva dunque l'idea di riformismo era sottesa ad un grande progetto internazionalista, ridistributivo e di emancipazione delle classi sociali più disagiate, un'essenza completamente perduta nella attuale concezione bipartisan. Il terremoto reaganiano Nella sua luce storica, il termine riformista, calato nella dimensione di politica economica, si manifesta nelle grandi trasformazioni del modello liberale propugnata dagli assertori del welfare state, in particolare quella visione keynesiana che venne travolta, a seguito della crisi petrolifera di fine anni Settanta dalla «rivoluzione» reaganiana e tatcheriana, che doveva contribuire significativamente di li a pochi anni, al crollo dell'esperienza del socialismo realizzato. È proprio nel quadro delle trasformazioni del contesto politico-culturale globale che vide i natali l'attuale ideologia del riformismo, una teorica non più sorretta da un disegno primario di giustizia sociale ma al contrario volta principalmente alla ricostruzione di un sistema capitalistico il più possibile efficiente. In quest'ambito, l'ordinamento giuridico, lungi dal proporsi come strumento di limitazione degli impulsi acquisitivi individuali, si propone di favorirne il libero dispiegarsi, sull'assunto che essi, incanalati soltanto da un processo privatistico a mano invisibile, avrebbero finito per favorire, seppure indirettamente, anche i soggetti più deboli tramite una «ricaduta verso il basso» (il cosiddetto trickle down effect) dei benefici di una sostenuta crescita economica. Il progetto reaganiano e tatcheriano non sposò alcun aspetto del modello contro cui si rivoltava ma, visto in prospettiva globale, effettivamente ne travolse, con violenza «rivoluzionaria», ogni contenuto politico e di civiltà. Sono infatti proprio i presupposti della costituzione economica di un modello misto (pubblico e privato) che il riformismo del welfare state aveva prodotto e costituzionalizzato a partire dall'esperienza della Repubblica di Weimar e poi, in Italia, nella Costituzione italiana del 1948 col grande compromesso fra Togliatti, Dossetti ed Einaudi, a crollare insieme al Muro di Berlino, riportando indietro di quasi due secoli il significato di riformismo. Dal punto di vista contenutistico, nel nuovo ordine globale in cui la crescita economica viene considerate

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prioritaria indipendentemente da ogni preoccupazione distributiva, il riformista si propone solo di mitigare gli aspetti più estremi e disumani del modello dominante, in un'accezione del termine non diversa da quella che ci può far vedere come riformisti sovrani «illuminati» quali Maria Teresa d' Austria, Leopoldo di Toscana, Federico II di Prussia, Carlo III di Napoli o Caterina II di Russia. Una visione profondamente incardinata nella disuguaglianza sostanziale dei diritti di proprietà e che anzi fa di un modello autoritario, classista, etnocentrico, ma tuttavia preoccupato del proprio «volto umano» (emblematico è a questo proposito il piano per l'Africa di Toni Blair o la Fondazione di Bill e Melinda Gates) la sua cifra caratterizzante. Questo riformismo della «terza via», che con i lavori di Anthony Giddens cerca di espugnare il fronte intellettuale e politico che almeno in Europa separava la Destra e la Sinistra, trova in Tony Blair e Bill Clinton, i due eroi eponimi capaci dei naturalizzare e rendere bipartisan le ricette del neoliberismo confezionate nel decennio precedente dai loro predecessori nell'interesse degli attori forti dei mercati finanziari globali (Istituzioni Finanziarie Internazionali, Banche, Compagnie di Assicurazione, Edge Funds). Due eroi che non restano isolati in Occidente. In Germania Schroeder, con l'aiuto del Fondo Monetario Internazionale, emargina Oskar Lafontaine. In Italia sono Massimo D'Alema (primo ministro post-comunista ansioso di partecipare alle guerre globali) e poi Romano Prodi a sdoganare il riformismo neoliberale come pensiero «di sinistra» aprendo la via alla grande convergenza bipartisan. La creazione di un ideologia riformista, come strumento che aliena la distribuzione a favore della produzione e dell'accumulo concentrato di ricchezza, sposa questo modello di sviluppo interamente «mercatista» (fondato sull' oligopolio reale accompagnato dalla retorica della competizione) che a casa nostra si è continuato a celebrare nel Partito Democratico, proprio mentre la destra sociale neocorporativa lo scaricava giusto in tempo attraverso l'impressionante piroetta di Giulio Tremonti, già campione di privatizzazioni e finanza creativa (La paura e la speranza, Mondadori 2008 è stato un bestseller in campagna elettorale vendendo antimercatismo, sicuritarismo e xenofobia). Anche a sinistra, non soltanto le periodiche drammatiche convulsioni nei contesti di produzione (crisi dei mercati asiatici del '97, crisi subprime e recessione attuale) ma anche, soprattutto, il progressivo allargamento del baratro fra ricchi e poveri che strutturalmente condanna l'Africa e gli altri paesi periferici subalterni alla sete e alla fame dovrebbero suggerire un ripensamento onesto dei termini della questione «riformista». L'economista austriaco Joseph Shumpeter una volta scrisse che così come sono i freni che consentono ad un veicolo di poter avanzare spedito, senza incidenti, altrettanto avviene per un modello economico capitalistico. Quest'idea fu ripresa da Michel Albert nel suo famoso saggio sui due capitalismi, ed è stata sviluppata nella letteratura giuridica ed economica più avveduta (ancorchè minoritaria) ma ha ottenuto scarsa eco nella discussione sulla politica economica italiana. Al contrario, il riformismo a casa nostra si misura con il metro delle «lenzuolate» di bersaniana memoria, e fa proprio della crociata contro i «lacci e lacciuoli» (espressione che risale ad un maestro della grande destra come Guido Carli) la sua bandiera. Le riforme volte alla liberalizzazione denigrano così sistematicamente il controllo giuridico pubblico (i lacciuoli appunto) nel rivolgersi contro taxisti, farmacisti e notai nell'ambito dei lavoratori autonomi (particolarmente attivi qui i professori Giavazzi e Alesina) e in quello dei dipendenti prendono di mira, in nome della flessiblità le garanzie ottenute dai lavoratori attraverso le lotte sindacali degli anni Sessanta e Settanta (il nome che va citato qui è quello di Pietro Ichino). Finanzieri d'assalto Questo riformismo neoliberale presenta evidente l'imprimatur economico, politico e culturale del centro attuale del capitalismo internazionale, quegli Stati Uniti d'America che, seppure in profonda crisi, hanno colonizzato l' immaginario postmoderno dell'Europa e delle altre paesi periferici e semiperiferici, secondo la geoeconomia tracciata da Immanuel Wallerstein. Il cosiddetto capitalismo statunitense, subito dopo aver

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determinato la fine del socialismo reale in Unione Sovietica, ha sferrato un attacco durissimo contro il capitalismo sociale europeo, denigrandone come «lacci e lacciuoli» che ne impediscono il decollo nell'empireo alato dei mercati finanziari (ma che forse ne impediscono pure il precipitare nel vortice dei fondi sub-prime), quelli che invece sono i suoi freni istituzionali. Sono queste le questioni che si nascondono dietro la desiderabile e rassicurante bandiera del riformismo postmoderno. Una religione della crescita e dello sviluppo sostenuta anche culturalmente dagli oligopolii globali. Una radicale sovversione di quell'ideale riformista che, frutto di un pensiero emancipatorio socialista ed internazionalista, non poteva che porre l'eguaglianza, la giustizia sociale e la ridistribuzione delle ricchezze per mezzo del diritto al primo posto fra le preoccupazioni di una politica che voglia dirsi civile e che sappia farsi carico delle esigenze non più procrastinabili di tutto il pianeta. L'attuale riformismo eurocentrico quando non localista altro non è che un'ideologia di resistenza dell'Occidente opulento che disperatamente difende (con toni più o meno insopportabili) il frutto della sua pluricentenaria predazione. Che sia una politica suicida lo ha sperimentato per ora il Partito Democratico. La demografia ed i nostri fratelli affamati ci mostreranno presto che se non si inverte la rotta c'è soltanto la catastrofe annunciata.

I conquistadores dell'intelletto generale Data di pubblicazione: 26.03.2008

Autore: Mattei, Ugo

Prosegue l’analisi della proprietà nel mondo del capitalismo d’oggi, rintracciandone le radici nella storia. Il manifesto del 26 marzo 2008

I brevetti legittimano le «enclosures» del sapere operate dalle multinazionali. Allo stesso tempo favoriscono la biopirateria delle virtù nutrizionali e terapeutiche di alcune piante L'appropriazione della conoscenza è giustificata attraverso le opere di John Locke, laddove il filosofo britannico parla del beneficio generale derivato dall'occupazione della «terra nullius». Oggi come allora il privato è sinonimo di innovazione e creatività, mentre il pubblico è il regno della pigrizia

Una delle idee più radicate nella cultura occidentale è quella per cui la proprietà privata sia un «diritto naturale», qualcosa di tanto spontaneo da motivare perfino un bambino: «Questo gioco è mio!». Se da molto tempo ormai abbiamo smesso di interrogarci sulle ragioni per cui certi individui «hanno» mentre altri «non hanno», ciò è dovuto principalmente al fatto che abbiamo interiorizzato l'ideologia sui caratteri «naturali» e virtuosi del diritto di proprietà private indipente dalla sua distribuzione. In questo siamo oggi tutti un po' lockiani, perchè abbiamo «risolto» il problema di una società divisa fra possidenti e non possidenti voltandoci all'indietro, con una semplice teoria fondata sulle origini remote della proprietà privata e sulla catena dei trasferimenti fondata su una nozione di «giusto titolo» originario, che prescinde quindi dall'analisi della distribuzione odierna. Come noto, il filosofo britannico John Locke fondava la propria giustificazione della proprietà privata individuale sulla naturale attività di occupazione di risorse comuni non ancora privatizzate e legittimava il fatto che il governo civile tutelasse (con risorse di tutti, quali la polizia o le corti di giustizia) tale occupazione individuale per due ordini di ragioni: da un lato, sostenendo che l'occupante immette il proprio lavoro, e quindi in parte se stesso, nella cosa bruta, rendendola così fruttifera e quindi benefica per tutti. D'altra parte, il filosofo considerava la naturale occupazione individuale legittima soltanto nella

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misura in cui rimanessero comuni (e quindi libere per l'occupazione altrui) altre risorse di simile natura e qualità. Con il tempo e l'affollarsi della società, questa seconda specificazione è stata dimenticata e fa oggi quasi sorridere se applicata agli immobili. Essa tuttavia mantieneun immutato potere legittimante criptico. Certo, non esiste (quasi) più terra nullius da occupare, almeno in Occidente, e gli esempi di scuola sull'acquisto della proprietà privata per occupazione sono ormai limitati alle conchiglie sul lido del mare. Economia dell'innovazione Nondimeno, gran parte dell'«economia dell'innovazione» ci ha quasi ipnotizzati convincendoci che grazie al progresso tecnologico, la «crescita» possa continuare in eterno sicchè le dimensioni della torta (Pil, il prodotto interno lordo) siano la sola cosa di cui valga la pena di preoccuparsi: «Finirà il petrolio? Inventeremo la fusione fredda!». La presente generazione continui felice a bruciarlo alla guida dei suoi Suv perchè continuando a crescere l'economia, le prossime generazioni inventeranno nuove «risorse comuni» da privatizzare. Della distribuzione non vale la pena di preoccuparsi. Il benessere di tutti seguirà, automatico, alla diffusione geografica dello sviluppo e della tecnologia occidentale. La teoria «naturalistica» dell'occupazione che lega la proprietà private al lavoro, all' innovazione e alla stessa identità dell'individuo, non giustifica quindi oggi soltanto attività bucoliche e economicamente marginali quali la raccolta delle conchiglie, dei funghi, o magari la caccia e la pesca. Essa continua a offrire una potente legittimazione ideologica a favore del privato rispetto al pubblico, descrivendo soltanto il primo come luogo virtuoso in cui l'individuo mette in gioco se stesso, lavora, rischia, investe, crea, innova. In questa luce, il pubblico è il luogo della pigrizia, della scarsa o nulla produzione di valore aggiunto, delle risorse abbandonate a se stesse e non «messe in valore» perchè nessun individuo, se la privatizzazione non è consentita, vi introduce lavoro ed investimento identitario. L'imagine è suggestiva e profondamente legata all'idea forte, protoilluminista, per cui sia un bene che l'uomo domi la natura, in particolare la terra. La virtù della terra privatizzata è simboleggiata dalle campagne inglesi, successive alle enclosures ben arate e con confini perfettamente tracciati. La terra non domata dalla proprietà private sarà invece selvatica, boscosa, piena di sterpaglia, «inutile». Tale ideologia, oltre ad essere primitiva ed etnocentrica, risulta infantile nel suo individualismo di fondo, perchè si basa su irreealistiche premesse filosofiche, quale quelle del Robinson Crosue discusso dal teorico libertario Robert Nozick (la verità è invece che un uomo solo, in natura, lungi dall'occupare, muore perchè soltanto la cooperazione di specie ha consentito la sopravvivenza originaria e quindi la proprietàin origine non poteva che essere del gruppo). Lo spettacolo della ricchezza L'ideologia della proprietà privata si basa su una concezione riduttiva e semplificata del rapporto fra individuo proprietario (il soggetto) e l'oggetto del suo possesso. Essa, già poco adatta a cogliere la complessità del rapporto fra un individuo ed un bene materiale e tangibile (la terra, un libro, un piatto di spaghetti) mostra i suoi limiti teorici di fondo, ma al contempo la sua potenza suggestive ed ideologica nel momento in cui viene utilizzata per descrivere e gestire rapporti sociali del mondo che stiamo vivendo. Oggi infatti la forma della ricchezza appropriabile è sempre meno quella di beni tangibili e sempre più quella delle immagini, dell'informazione, degli strumenti finanziari complessi, delle idee innovative, in una parola della «ricchezza spettacolo» piuttosto che di quella tangibile. Ma la retorica e gli strumenti intellettuali che ne giustificano il controllo esclusivo in capo ad alcuni privati piuttosto che il loro godimento in commune non sono mutati affatto. A chi appartiene la mitica foto scattata il 16 ottobre del 1968 a Città del Messico e ritraente Tommie Smith e John Carlos con il pugno guantato delle black panthers dopo il trionfo nei 200 piani? al fotografo? agli atleti? al nostro immaginario collettivo? Chi ha «inventato» l'uso igienico della pianta di neem considerate da generazioni di indiani la «farmacia del villaggio»? I ricchi proventi che le multinazionali del dentifricio derivano dal suo brevetto

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in Florida a chi dovrebbero appartenere? Alla comunità che utilizzava la pianta per igiene orale e che oggi non può più permettersela perchè i prezzi sono saliti alle stelle? O ai ricercatori che hanno «scoperto» questo antico uso? E che dire della pianta di Maca, da secoli utilizzata delle popolazioni andine e che oggi contende (appositamente brevettato) una fetta del ricco mercato dei prodotti erettili maschili vantando la propria naturalezza? Chi ha inventato la tradizione di ricerca matematica di base, indispensabile radice di tanti miracoli dell'informatica moderna che, brevettati, riempiono le tasche di Bill Gates? E che dire delle nuove frontiere di Internet, quei domain names che si possono «naturalmente» occupare pagando «appena» venti dollari (lo stipendio mensile di qualche miliardo di persone) e connettendosi in rete (un privilegio di un'infima minoranza degli umani)? Aborigeni e Wto Sono, queste, domande ormai assai semplici per il mainstream giuridico economico e politico del mondo globale che, grazie alla vecchia ideologia individualistica, fondata su una nozione apparentemente naturale, minima e virtuosa di proprietà privata, come fonte della creatività e laboriosità individuale, trova nelle regole della «proprietà intellettuale» codificate negli accordi Trips («Trade Related Aspects of Intellectual Property») collegati all'Organizzazione Mondiale del Commercio (Wto) la risposta ad ogni dubbio su chi sia o debba essere il «proprietario» dotato del potere di escludere tutti gli altri. Colpisce l'uso della medesima retorica del progresso, che legittimò giuridicamente il saccheggio delle terre nullius, che gli Amerindiani sfruttavano collettivamente ed in modo ecologicamente compatibile, non conoscendo l'idea che la terra possa appartenere all'uomo. Gli Amerindiani, infatti, credevano infatti che, insieme a tutte le altre specie animali e vegetali, appartenevano alla terra, così come ad essa ancor oggi appartengono i vari lignaggi africani in cui i viventi ricevono dagli avi il mandato a mantenere la terra nell'interesse delle generazioni future. Il rapporto fra soggetto ed oggetto può presentarsi capovolto e non è affatto detto che capovolto non debba essere anche il rapporto fra privato e publico, se soltanto si sposasse una logica un po' più attenta al lungo periodo e non una dettata dalle scadenze elettorali o dal rendiconto trimestrale con cui le corporations comunicano con gli azionisti. Proprio come allora i conquistadores consideravano prova della natura selvaggia delle popolazioni aborigine il non conoscere la proprietà privata, oggi la comunità internazionale esercita pressioni poderose a favore dell'appropriabilità privata della terra in Africa e delle idee in Cina. La retorica utilizzata dagli apparati politici ed ideologici dell'Occidente dominante è anche oggi, come allora, quella dell'innovazione, del progresso e dello sviluppo. Molti africani tradizionali resistono o cercano di resistere alla vendita dei loro campi alla Monsanto, che corrompe il sistema per acquistarli e sperimentare l'innovazione «creativa» degli Ogm, che le consentirà di escludere pratiche collettive antichissime quali la selezione e lo scambio delle sementi. Similmente, molti cinesi sembrano ancora credere nella massima confuciana per cui «rubare un libro è una violazione elegante», non concependo l'idea che la cultura, prodotta da tutti, possa essere racchiusa in uno strumento accessibile soltanto a chi possa pagare per possederlo. Saccheggio oligopolistico Tali concezioni culturali, diverse dal «naturale» e virtuoso appetito acquisitivo lockiano che fonda l'intera scienza economica dominante, (inclusa la sua teoria della proprietà intellettuale come «monopolio virtuoso») secondo cui nessun individuo creerebbe se non incentivato dalla speranza di una compensazione materiale per il proprio sforzo di creatività, sono ben documente dalla letteratura antropologica. Etnie recessive ma assai sagge quali i Kayapo dell'Amazzonia, non credono che la conoscenza sia il prodotto dell'uomo ma della natura. Inoltre, secondo loro, la conoscenza è sempre intergenerazionale non potendo mai appartenere soltanto alla generazione presente. Essa è sempre ricevuta liberamente e va liberamente tramandata di generazione in generazione. Certo non può esser proprietà privata di un individuo che, anche qualora intelligentissimo

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ed intuitivo, deve al gruppo la sua intelligenza e a beneficio di questo devono ricaderne i frutti che del resto non sarebbe esistiti se qualcuno non gli avesse insegnato le basi. Ma il rozzo semplicismo delle teoriche dominanti sulla proprietà intellettuale viene smascherato anche dalle frontiere della conoscenza tecnologica, dove prodotti come l'enciclopedia Wikipedia o il software Linux confutano senza appello le basi motivazionali della teoria lockiana della proprietà. Una domanda sorge spontanea: se è stato così facile trasferire la retorica della proprietà privata dal mondo materiale a quello delle idee, non dovrebbe essere altrettanto facile tornare indietro, facendo tesoro delle contraddizioni teoriche che l'individualismo proprietario mostra quando esteso al mondo delle idee al fine di travolgerne la funzione di legittimazione della proprietà privata mal distribuita in tutte le sue forme? Forse allora si capirebbe che la privatizzazione, lungi dal garantire creatività, virtù ed ordine giuridico altro non è che una forma, assai poco sofisticata di saccheggio oligopolistico degli spazi pubblici, per la semplice ragione che un mercato competitivo fra pari non esiste, nè potrà mai esistere, se non nella retorica incolta di qualche promessa elettorale.

I guardiani togati del potere economico Data di pubblicazione: 26.01.2008

Autore: Mattei, Ugo

A proposito di rule of law: le due facce della legalità del mondo occidentale. Da il manifesto del 26 gennaio 2008

Difficile immaginare una locuzione del lessico politico angloamericano più diffusa e prestigiosa a livello planetario della mitica rule of law. Sulla sua data di nascita le opinioni sono discordi, ma non sul luogo dove ha preso inizialmente forma: l'Inghilterra. Ci sono studiosi che indicano la Magna Charta come primo esempio di rule of law; altri, invece, spostano il calendario a quelache secolo dopo, quando il leggendario giudice Edward Cook «vieta» a Re Giacomo I (1603-1625) di sedere nella «sua» Corte, ritenendolo carente di quel bagaglio tecnico e non politico su cui si deve fondare la legittimazione di un giudice. Secoli dopo, un'icona del diritto costituzionale inglese, Albert V. Dicey condannava come irrimediabilmente autoritaria la tradizione amministrativa continentale (napoleonica) proprio perché carente di rule of law, visto che, nei paesi europei, a differenza del mondo anglo-americano, i giudici ordinari hanno infatti giurisdizione molto limitata sui pubblici poteri. Una fondamentale iniezione di prestigio è venuta alla rule of law dall' esperienza costituzionale statunitense, dove i Federalist Papers la ritennero il solo modo per garantire politicamente una società di disuguali, in cui i proprietari sono pochi e devono essere difesi da quelli che non hanno, che sono tanti. La rule of law, affidando ad una Corte dotata di sapienza giuridica la tutela della proprietà privata, indipendentemente dai cambi di umore politico, deve restare, secondo i «federalisti» statunitensi, una garanzia essenziale anche nel nuovo ordine costituzionale post-rivoluzionario, destinato all'attuale egemonia planetaria. Un concetto bipartisan In Italia Rule of law è a volte tradotta come «principio di legalità», altre volte come «stato di diritto» o come «governo della legalità»: traduzioni così insoddisfacenti da suggerire il mantenimento dell'originale. Quasi impossibile, in presenza del coro celebrativo che la invoca come panacea per la soluzione di ogni problema di prepotenza del potere, trovare qualcuno disposto ad argomentare contro un sistema politico fondato sulla rule of law, nonostante le sue origini chiaramente conservatrici. Ogni argomento critico nei suoi confronti è considerato una critica a un sistema giuridico «giusto», un sistema economico

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«efficiente» o un pasto «appetitoso». Si tratta insomma di una di quelle idee che la storia ufficiale ha saputo collocare con successo su un piedestallo di sacralità, tutelato e difeso quasi da ogni parte politica. Una nozione «bipartisan», cara sia alla cultura conservatrice che a quella liberal più devota al cambiamento; icona tanto della monarchica costituzionale inglese quanto delle rivoluzione statunitense. Qualche anno fa, Niall Ferguson, uno storico inglese di grande successo vicino alla terza via blairiana e clintoniana, ha pubblicato un libro portatore del medesimo ritolo, Impero, reso celebre da Michael Hardt e Toni Negri. Ferguson sosteneva che l'espansione dell'impero inglese aveva certamente prodotto nefandezze quali guerre, genocidi, espropriazioni e deportazioni, ma aveva anche beneficiato le sue prede di un lascito di inestimabile valore: la rule of law appunto, capace di trasformare sistemi (come quello indiano), che altrimenti si sarebbero sviluppati secondo un modello autocratico di dispotismo orientale, in moderne democrazie. In qualche modo, spiegava il giovane storico, successivamente, non per caso assurto ai fasti della cattedra harvardiana ed oggi autorevole firma del New York Times, il gioco era valso la candela. Infine, non c'è occasione di incontro internazionale in cui la rule of law non diventi il concetto che mette tutti d' accordo. Nel luglio del 2005, ad esempio, in chiusura del vertice del G8 di Londra, Toni Blair ancora scosso dalle bombe che avevano portato il terrore nella capitale inglese, presentava il suo «piano per l'Africa», promettendo (nella generale commozione e approvazione) che la successiva remissione del debito sarebbe dipesa unicamente dalla volontà degli Africani di sviluppare la rule of law. Due anni dopo, la promessa cancellazione del debito non si è verificata, ma in compenso l'ultimo vertice G8, ha organizzato un importante convegno proprio dedicato alla rule of law. Del resto, quale concetto potrebbe mettere d'accordo in piena campagna elettorale, le due donne più potenti del pianeta, Hllary Clinton e Condoleeza Rice? Sfogliando l' ultimo fascicolo del Berkeley Journal of International Law si trova la risposta. Entrambe hanno infatti parlato di rule of law ad un seminario organizzato dalla potentissima American Bar Association (un paio di milioni di avvocati iscritti). Mi sono divertito a cancellare il nome delle autrici e a far circolare i due contributi fra gli studenti di un mio seminario in California, chiedendo di indovinare quale delle due «statiste» avesse scritto quale pezzo. È risultato del tutto impossibile indovinare. Avevano articolato esattamente le stesse (trite) riflessioni! Quando il Puntland (estemo nord-est somalo) sul finire degli anni Novanta, cercando di consolidare una situazione di relativa pace dovuta al fatto che i macelli (a partecipazione italiana) dell'intervento Restore Hope non si erano spinti così tanto a nord, chiese alle Nazioni Unite di finanziare la ricostruzione di un edificio parlamentare dove far riunire l'assemblea politica di capi tradizionali, non ricevette una lira per la ricostruzione ma, al posto, ottenne la partecipazione di un (ben pagato) team internazionale di esperti incaricati di vegliare sul rispetto delle rule of law da parte della «carta transitoria» che i somali stavano cercando di negoziare. Non si trattava di un facile test per la cultura politica somala. Infatti, la rule of law, come mostra la sua storia tutta occidentale, altro non è che un modello in cui il potere decisionale dei micro-conflitti viene assegnato principalmene a un giurista (il giudice appunto), legittimato da un sapere tecnico-giuridico. Legittimato a decidere non è quindi un soggetto, dotato di un sapere religioso, filosofico-morale o tradizionale come per esempio il quadi islamico, né un uomo politico (come nel principio di legalità socialista) che pure potrebbe vantare in molti casi ben maggior legittimazione democratica. Non è difficile a questo punto scorgere le principali ragioni del successo planetario della curiosa idea secondo cui la cultura professionale «espropria» quella religiosa e quella politica di gran parte del potere decisionale. Rule of law è infatti una di quelle «nozioni plastiche» in cui ciascuno vede i valori in cui crede. Così, quando la Banca Mondiale, dando ascolto a qualche guru dell'Università di Chicago, impone la rule of law come parte degli «aggiustamenti strutturali» ai quali condiziona il credito, essa vi legge la garanzia per gli investimenti esteri sotto forma di rispetto della proprietà privata e della

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«sacralità» dei contratti economici. Quando invece un giovane cooperante pieno di buone intenzioni partecipa ad un programma sulla rule of law (ce ne sono centinaia) finanziato da un' università americana, una Ong o un governo (come per esempio quello Italiano in Afghanistan o quello Canadese in Mali) egli legge nella rule of law la tutela dei «diritti umani fondamentali» e pensa così di fare del bene proteggendo qualche minoranza oppressa. Il punto è che fra queste due idee fondamentali c'è antinomia storica a dispetto della comune espressione semantica. L'ostacolo dei diritti umani Il Perù di Fujimori, il Cile di Pinochet o la Colombia di Uribe sono stati o sono sicuramente governati dalla rule of law, nella sua accezione di garanzia degli investimenti economica e sicurezza dei diritti proprietari. Dal medesimo punto di vista, la Bolivia di Morales, il Venezuela di Chavez o la Cuba di Fidel sono generalmente considerati carenti di rule of law, perchè gli investitori stranieri sono sottoposti a severi controlli e rischiano nazionalizzazioni: possibilità che suonano come una bestemmia alle istituzioni finanziarie internazionali. Dal punto di vista della tutela dei diritti umani (seconda accezione del termine rule of law), sicuramente si possono tuttavia trovare molti sistemi in cui i diritti umani sono assai più rispettati rispetto a quelli economici, perchè la proprietà privata e la libertà contrattuale vedono (giustamente) severe limitazioni ad opera della mano pubblica. Basti pensare, per un esempio storico, al Cile di Salvator Allende, ma anche a molte socialdemocrazie europee. Anzi, se si vuol dar credito a quanto scrive Naomi Klein (ma molti altri prima di lei) nel suo ultimo libro, il rispetto della rule of law nel primo senso (quello economico) ne rende impossibile il rispetto nel secondo (le ricette neoliberali richiedono la violenza di Stato per essere imposte), mentre il rispetto della rule of law come rispetto dell' effettività dei diritti umani è incompatibile con la sua accezione economica, perchè lo sviluppo dei diritti umani fondamentali non può prescindere dalla ridistribuzione delle risorse. L'epifania del politico Occorre peraltro osservare che l'idea stessa di rule of law pone le proprie radici nella più profonda autocoscienza della civiltà occidentale ed è quanto mai remota all'esperienza politico giuridica degli «altri». L'«orientalismo», che tuttora domina il discorso politico del potere occidentale, alimenta la percezione dell'«altro» (il non occidentale) come carente di rule of law. In questa prospettiva, lo stravolgimento della storia giuridica di popoli considerati «senza storia» non ha limiti: alcuni paesi islamici avrebbero conosciuto la rule of law soltanto grazie agli sforzi di modernizzazione giuridica di inizio ventesimo secolo (mentre molti sono ancora nell'oscurità della sharia). Allo stesso tempo i paesi dell'America Latina dovrebbero ringraziare la colonizzazione e S. Ignazio di Loyola, mentre in molti paesi africani, che nel recente passato avevano rifiutato la colonizzazione e i suoi benefici giuridici di cui ci parla Ferguson, con la caduta del Muro di Berlino le organizzazioni finanziarie internazionali sono intervenute sul diritto, non più visto come una epifania del politico ma come una semplice infrastruttura del sistema economico. Inoltre, anche la Cina, dovrà prima o poi riuscire a capire l'importanza della rule of law. Infine, anche la Russia va aiutata ad aprire gli occhi, vista la continuità, a dispetto delle rivoluzioni, fra l'autocrazia zarista, gli orrori del socialismo reale e il personalismo revanchista di Putin. Insomma, Solo l'Occidente è padrone della rule of law, e quindi in generale della legalità. Di questo concetto vago, universalizzato in scorrerie coloniali in cui i giuristi sempre legittimano i potenti, non si narra la storia. Piuttosto ne viene «naturalizzato» e «depoliticizzato» il contenuto, per celarne l'essenza: quella di principale ideologia di legittimazione etnocentrica e neo-coloniale, utilizzata tanto dagli ideologi del mercato quanto dai professionisti dei diritti umani. Nel labirinto delle leggi in difesa dell'Occidente Dalla conquista coloniale alla globalizzazione economica

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Sulla storia del concetto A Concise History of the Common Law di T.F.T. Plucknett, (Little, Brown & Co., Boston), Oltre lo Stato di Sabino Cassese (Laterza), Common Law. Il diritto Anglo-Americano di Ugo Mattei (Utet), Impero di Niall Ferguson (Mondadori). Un recente importante lavoro che insiste sull' importanza del diritto nella costruzione della dominazione coloniale è Ultramar, L' invenzione europea del nuovo mondo di Aldo Andrea Cassi (Laterza). Il saggio fondamentale sulla dominazione coloniale in Americana Latina resta Le vene aperte dell' America Latina di Eduardo Galeano (Giunti). Un classico del rapporto tra Occidente e il resto del mondo è Europe and the People Without History di Eric R. Wolf (University of California Press). Da segnalare sullo stesso tema anche il volume di William Woodruff The Impact of Western Man: a Study of Europe's Role in the World Economy, 1760-1960 (Macmillan). Particolare attenzione critica agli aspetti giuridici della globalizzazione è data dal saggio di Laura Nader Le forze vive del diritto (ESI). Sulla diffusione del modello giuridico dominante, i libri di Danilo Zolo Globalizzazione. Una mappa dei problemi (Laterza), Imitazione e Diritto. Ipotesi sulla circolazione dei modelli di Elisabetta Grande (Giappichelli); Il diritto sconfinato di MariaRosaria Ferrarese (Laterza), nonché Plunder. When The Rule of law is Illegal di Ugo Mattei-Laura Nader (Blackwell-Viley).

Il virtuosismo celestiale dell'accumulo senza fine Data di pubblicazione: 11.01.2008

Autore: Mattei, Ugo

Il terzo dei magistrali articoli sui privilegi della proprietà nell’attuale fase del capitalismo: Proteo non perde né il pelo né il vizio. Il manifesto, 11 gennaio 2008

Un formidabile incentivo per comportamenti virtuosi tesi a accumulare ricchezza. La proprietà privata ha assunto una sacralità che la pone al riparo da ogni critica. Eppure gran parte delle costituzioni pongono tutt'ora precisi limiti alla sua diffusione. Negli Stati uniti è stata emanata una legge per prorogare a settantacinque anni i diritti d'autore della Walt Disney, mentre la Corte federale ha consentito alla Pfizer Corporation di sfruttare alcuni beni comuni in nome dello sviluppo economico

In due precedenti scritti apparsi su queste pagine sono state descritte le trasformazioni soggettive ed oggettive della proprietà privata nell'attuale fase del capitalismo globale. Dal primo punto di vista, la trasformazione più rilevante è stata quella del passaggio dall'individuo proprietario (sovrano dei suoi beni) alla corporation proprietaria, a tal punto potente da contendere allo Stato la sovranità politica (il manifesto, 1/12/07). Dal secondo punto di vista, la cifra della trasformazione è stata quella di una smisurata crescita dei beni occupabili e riducibili alla logica proprietaria del mercato (il manifesto, 28/12/07). Si tratta ora di interrogarsi sul senso politico e giuridico di tali trasformazioni, di verificarne la compatibilità con il contenuto della Costituzione vigente oggi in Italia, per avviare una riflessione critica sulle strade da percorrere nell'elaborare un programma di riforma dotato di una qualche sostenibilità di lungo periodo. Sul ponte del Titanic Difficile negare che le recenti trasformazioni della proprietà privata siano da considerarsi processi sociali che hanno lasciato una moltitudine di vinti accanto ad un esiguo numero di vincitori. Poiché tuttavia la storia viene narrata dai vincitori, è difficile sfuggire all'offuscamento generato dall'ideologia dominante da essi prodotta. Ne consegue che pochi programmi politici sarebbero destinati a più sicura sconfitta di quelli che dovessero

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attaccare il più amato e popolare fra i diritti patrimoniali dell'individuo. Si sprecano infatti le biblioteche volte ad elogiare il diritto dominicale, ed i toni apologetici, hanno nel corso dei secoli accreditato alla proprietà somme virtù, fra cui la capacità di stimolare il lavoro e la produttività, la difesa della libertà e della personalità umana, l'incentivo a comportamenti virtuosi di accumulo e risparmio in vista della trasmissione intergenerazionale delle ricchezze. Si è così prodotto uno spesso strato ideologico dietro al quale si è cementata l'alleanza fra piccola borghesia proprietaria e ceti privilegiati sempre più ricchi, i quali, tramite stili stravaganti di consumo e di ostentazione della ricchezza, dettano i modelli comportamentali che caratterizzano l'attuale danza collettiva sul ponte del Titanic. Da ormai molto tempo, anche a causa del fallimento del socialismo «realizzato», non ci si sofferma più sul ricco filone di ricerca che vede nella proprietà privata uno dei principali responsabili della povertà e dello sfruttamento. Il riferimento non è soltanto alla critica frontale della proprietà privata prodotta dal socialismo utopista di Jacques Proudhon, raccolta nel celebre aforisma «la proprietà è un furto». Né al materialismo storico di Marx, che pur è prezioso per aver indicato quella netta diversità strutturale fra proprietà privata dei mezzi di produzione ed altre forme di proprietà personale. Una distinzione che la retorica dominante è riuscita a celare, assoldando così la piccola borghesia a baluardo dei privilegi dei super-ricchi. Il riferimento semmai può essere anche a personaggi come Tommaso Moro, niente meno che Lord Cancelliere di sua maestà il quale, nella sua «Utopia», immagina la società ideale come priva di proprietà privata. Anche fra i padri della chiesa non è poi difficile trovare un florilegio di citazioni critiche: «Il ricco è un ladrone» (San Basilio); «L' opulenza è sempre il prodotto di un furto» (San Gerolamo); «La natura ha stabilito la comunità; l'usurpazione la proprietà privata» (Sant Ambrogio); «Nella buona giustizia tutto deve appartenere a tutti. È l'iniquità che ha fatto la proprietà privata» (San Clemente). Parole non distanti da «estremisti» come François Noël Babeuf, secondo cui «Tutto ciò che possiedono coloro che hanno più della loro quota parte individuale nei beni della società è furto e usurpazione». Occorre oggi recuperare chiarezza sui presupposti teorici delle riflessioni volte a sostenere l'illegittimità di un eccessivo accumulo di proprietà privata (che oltre una certa soglia andrebbe impedito tramite apposite misure fiscali patrimniali). Si potrà allora fondare il coinvolgimento di tutti i lavoratori (per esempio tramite una parte del salario sotto forma di stock options) e delle moltitudini titolari dei beni comuni nei benefici del processo produttivo. È noto che qualsiasi forma di produzione richiede diversi input: gli economisti parlano di capitale e lavoro. A questo binomio vanno aggiunti diversi beni comuni, in particolare «i luoghi» in cui la produzione avviene. Dobbiamo realisticamente accettare che lo sfruttamento del suolo e del sottosuolo siano stati sostanzialmente «privatizzati» in modo irreversibile se non legittimo: gli economisti infatti considerano la terra uno «strumento» per il cui utilizzo il proprietario (ancorché fannullone) può chiedere un prezzo (canone di locazione). Tuttavia fra i beni che si trovano in natura strutturalmente comuni e necessari per la produzione si trovano ancora (sempre più contesi) acqua, aria e luce del sole. Nessuno fra questi fattori (capitale, lavoro e beni comuni) è di per se capace di produzione. La produzione li richiede sempre tutti presenti simultaneamente. Il capitale non produce assolutamente nulla senza il lavoro che sfrutta ed i beni comuni che consuma. Il lavoro senza il capitale può dar vita all'artigianato, ma a sua volta non produce senza sfruttare beni comuni. I beni comuni non sono produttivi se non «sfruttati» dal lavoro e dal capitale. Ne segue che la produzione è sempre un progetto cooperativo, gran parte dei cui imput non sono proprietà dell'imprenditore (abbiamo abolito la schiavitù) e spesso appartengono a tutti (beni comuni). Il parassita di Axum La «proprietà» di quanto collettivamente prodotto, non dovrebbe appartenere perciò al solo capitalista ma anche in parte ai lavoratori (proprietari del lavoro) ed in parte a tutta la

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collettività (proprietaria dei beni comuni). La scienza economica dominante è per lo più responsabile dell'illusione ottica per cui il capitale è di per sè produttivo. Essa fonda così l'argomento utilizzato dal capitalista per appropriarsi dell'intero prodotto collettivo una volta liquidato, sotto forma di salario, il singolo input lavorativo. Il capitalista che acquista la proprietà del prodotto finito, infatti, non paga né i beni comuni né quello che potremmo chiamare «surplus della cooperazione». Infatti, secondo un celebre esempio, un uomo da solo in cento giorni di lavoro non riuscirà ad issare l'obelisco di Axum, mentre cento uomini ci riusciranno in un sol giorno. È questo surplus o premio cooperativo, dotato di straordinario valore, che il proprietario non paga retribuendo separatamente 100 unità lavorative. Naturalmente per la produzione del surplus risulta necessario un coordinamento. Il lavoro del coordinatore, tuttavia, ai fini della produzione non è più necessario di qualsiasi altro. In una buona organizzazione produttiva infatti tutti gli input sono necessari e sufficienti, sicchè tutti i partecipanti devono partecipare alla divisione del premio e certo non soltanto il proprietario. La Costituzione italiana stabilisce, con l'articolo 42, che la proprietà è pubblica o privata e che la Repubblica deve rendere quest'ultima accessibile a tutti al fine di garantirne la «funzione social». Inoltre, l'articolo 43 afferma che l'iniziativa economica privata è libera, ma che non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza alla libertà o alla dignità umana. Quanto al lavoro, su cui si fonda la Repubblica, esso deve dar diritto ad una retribuzione «in ogni caso sufficiente ad assicurare a se e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa» (articolo 36). Anche i beni comuni sono tutelati in modo ampio (articolo 9). Difficile alla luce di questo fraseggio considerare la proprietà privata privilegiata rispetto al lavoro o ai beni comuni. Eppure «il capitalismo realizzato» privilegia pochi proprietari o managers, a scapito dei molti, piccoli proprietari o proletari che siano. Infatti, le trasformazioni soggettive della proprietà, che sostituiscono sul piano paradigmatico il vecchio e odioso latifondista con un entità astratta quale la corporation che scherma i suoi gruppi di controllo (formalmente proprietari) ed il suo management (a sua volta proprietario grazie alle stock options) non lasciano indenne il lato oggettivo. La legge di Topolino La crescita drammatica della capitalizzazione rende la corporation talmente potente da potersi «comprare» tanto il processo politico quanto quello giudiziario. Alcuni esempi: nell' imminenza di ogni scadenza di copyright appartenente alla Walt Disney Corporation, che comporterebbe il rientro fra i beni comuni di Topolino, Pippo o il mago di Oz, viene fatta passare al Congresso statunitense una legge di proroga della proprietà intellettuale. L'ultima, ribattezzata significativamente Micky Mouse Extension Act, fa oggi durare l'esclusiva proprietaria creata dal diritto d'autore per settantacinque anni dopo la morte dell' inventore. Nel 2004 la Corte Suprema Federale ha approvato questa estensione sebbene la Costituzione Statunitense giustifichi il diritto d'autore come premio per stimolare la creatività. Controllando i poteri dello Stato, il «latifondo» della corporation travolge perfino la piccola proprietà che vi si contrappone. Il requisito della «pubblica utilità» necessaria per espropriare la proprietà privata viene così travolto dalla necessità delle corporations di accaparrarsi inputs produttivi da sfruttare al fine di profitto. Progressivamente, dietro la spinta delle teorie economiche dominanti, proprio negli Stati Uniti, si insinua l'idea per cui la proprietà può essere forzatamente trasferita da un soggetto privato ad un altro soggetto privato sulla base di un'analisi costi-benefici capace di dimostrare che il nuovo uso (privato) è «più efficiente» di quello precedente. Le case del viagra Nel 2005, la Corte Suprema Federale statunitense scardina il postulato dell'uso pubblico come giustificazione dell'espropriazione. Beneficiaria di questa clamorosa svolta è quella Pfizer Corporation famosa in tutto il mondo per il Viagra. Viene infatti considerata legittima l'espropriazione di alcune abitazioni private per consentirle di costruire un

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laboratorio. Si sostiene che lo «sviluppo» del territorio sia da considerarsi nell'interesse pubblico anche se portato avanti da un privato a scopo di profitto. Si inaugura così una stagione globale in cui le proprietà piccole non godono più di fronte alla legge della stessa tutela delle proprietà grandi: recentemente, simili espropriazioni, accompagnate da inaudita violenza, hanno infatti colpito contadini indiani e cinesi. In Italia la sola rete capillare di telecomunicazione, realizzata negli anni attraverso investimenti di capitale pubblico, è oggi in proprietà di una corporation privata, la Telecom Italia. Anche qui siamo di fronte ad una notevole sovversione di principi fondamentali in materia di appropriabilità privata di beni aventi caratteristiche pubbliche. Così, anche da noi lo strapotere finanziario riesce a «comprare» il processo politico e con esso i beni pubblici. «Che queste vendite si moltiplichino - scriveva Proudhon nel lontano 1840, di fronte alla vendita di terre coltivabili in Francia -. Fra non molto il popolo che non ha potuto né voluto vendere, che non ha riscosso il prezzo della vendita, non avrà più dove riposare, dove rifugiarsi, dove fare il raccolto: andrà a morire di fame alla porta del proprietario, ai bordi di quella proprietà che fu la sua eredità; e il proprietario vedendolo spirare dirà: Così muoiono i fannulloni e i deboli»

Un mondo reso schiavo dalla ragione economica Data di pubblicazione: 28.12.2007

Autore: Mattei, Ugo

La seconda parte di un’interessante analisi del ruolo della proprietà privata nel sistema economico basato sulle merci. Da il manifesto del 28 dicembre 2007

La scoperta del «Nuovo mondo» non fu benedetta solo dai rappresentanti della fede cattolica. A legittimare la conquista delle Americhe furono i custodi della legge, che imposero l'appropriazione privata delle terre Il diritto che sancisce la proprietà privata entra in campo ogni volta che un prodotto dell'attività umana deve sottostare ai principî dello sfruttamento commerciale. È stato così per il colonialismo. È così per quei territori di confine come la manipolazione genetica e il world wide web

Il classico esordio di un corso universitario sul diritto di proprietà consiste nel chiedere agli studenti di sforzarsi nella descrizione innanzitutto esemplificativa e poi concettuale dell'argomento che sarà trattato. Invariabilmente gli studenti, basandosi sulla propria esperienza quotidiana, tendono a porre al centro della definizione un esclusivo potere dell'individuo su un bene materiale, sia esso un appartamento, un libro o un altro oggetto. Qualcuno identificherà poi la proprietà come l'oggetto su cui il titolare può vantare un diritto, come nella «roba» di verghiana memoria. A questo punto, il docente inviterà a non confondere il diritto con il suo oggetto. Altri studenti si spingeranno a parlare di proprietà di un'impresa, (gli stabilimenti di Mirafiori sono «proprietà» della Fiat), evocando il classico conflitto fra proprietà e lavoro, ma il docente interverrà prontamente per spiegare che, tecnicamente, le azioni non sono forme di proprietà ma semplici titoli di credito e che esiste una differenza profonda fra proprietà, impresa e azienda. Similmente, qualcuno dirà di avere la proprietà del proprio conto in banca o del proprio denaro, per scoprire anche qui che, tecnicamente, noi non siamo proprietari del denaro che depositiamo in banca. Godiamo di un semplice diritto alla restituzione dello stesso. Da questo momento in poi seguiranno domande alquanto problematiche. Posso essere proprietario ed entro quali limiti di un altro essere vivente? Sono o posso essere proprietario del mio corpo o delle sue parti? Una coppia sterile è proprietaria delle uova congelate? (Fingiamo che la legge 40

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non esista per carità di patria) Sono proprietario del mio posto di lavoro qualora assunto e garantito contro il licenziamento? Sono proprietario della mia immagine? La schiavitù è davvero finita o un'organizzazione carceraria privata è proprietaria degli ergastolani? Potere assoluto sul mondo Il test serve a mostrare la natura profondamente polisemica del termine e al contempo a spiegare agli studenti che il significato tecnico-giuridico, prodotto dal lavorio secolare della cultura giuridica academica notarile o giudiziaria, secondo le diverse tradizioni, ha poco o nulla a che fare con quello comune. Per ciascuna di queste e di altre domande simili, il giurista delle diverse tradizioni offrirà diverse risposte e utilizzerà un bagaglio tecnico che a forza di distinguere, farà perdere interamente il senso e il significato profondamente politico dell'«appropriabilità» privata delle risorse. In Occidente siamo partiti dal diritto romano e dalla sua definizione di proprietà (dominium nella lingua latina) come potere assoluto (di «usare ed abusare» un bene) esercitabile su ogni oggetto del mondo fisico tangibile, compresi mogli, figli e schiavi su cui, come noto, il dominus aveva potere di vita o di morte. Per il giurista occidentale contemporaneo, dopo le lotte ottocentesche per l'abolizione della schiavitù, il diritto di proprietà (che ancora può esercitarsi su esseri viventi, ancorchè non più, legalmente, su esseri umani) ha oggi struttura variabile insieme alla molteplicità potenzialmente infinita delle forme dell'esperienza sensibile, e costituisce un insieme di poteri, facoltà e qualche obbligo (la Costituzione tedesca contiene il celebre enunciato: «la proprietà obbliga») che possono insistere su qualsiasi oggetto qualora il diritto «sovrano» stabilisca che esso è privatamente appropriabile. Il mondo appropriabile privatamente naturalmente varia, nello spazio e nel tempo, ed in modo anche molto netto, a seconda di quanto gli ordinamenti giuridici stabiliscono. Un'espansione inarrestabile La vicenda dell'abolizione della schiavitù - abbandonata in Occidente quando la struttura della produzione capitalistica l'ha ritenuta inefficienti rispetto ai suoi obiettivi - ha costituito l'ultimo arretramento significativo dell'appropriabilità privata di intere categorie di «oggetti» (per l'appunto gli esseri umani). Per il resto, la proprietà privata, celebrata come istituzione fondamentale di una società libera nelle «carte» dei diritti prestigiose come il bill of rights americano o la declaration universale dei diritti dell'uomo e del cittadino francese, ha sempre progressivamente conquistanto nuovi spazi alla logica del dominio individuale. Tolta la parentesi sovietica e quella degli gli altri (pochi) paesi in cui ancora i mezzi di produzione non sono oggetto di proprietà privata, la storia dei sistemi capitalistici ci mostra un processo apparentemente inarrestabile di espansione dell'appropriabilità privata dei beni, al fine di garantire giuridicamente lo sfruttamento economico di tutte le utilità che man mano, diventano appropriabili. Man mano che avanza la frontiera (geografica o tecnologica) delle potenziali utilità, avanza dunque la struttura guridica del loro sfruttamento. Si tratta di un fenomeno espansivo documentato tanto dalla letteratura critica quanto da quella apologetica del capitalismo e delle sue istituzioni fondamentali di cui la proprietà privata, è la vera regina. Alcuni esempi, storici e contemporanei, renderanno l'idea in modo concreto di questo processo. La scoperta del nuovo mondo, all'origine dell'era moderna, conferisce alla proprietà privata una grande frontiera geografica di espansione. Un notaio viaggia sulla Santa Maria insieme a Cristoforo Colombo e documenta, con la precisione di tipica di questa professione dotta, i riti formali giuridicamente necessari attraverso cui il navigatore genocida può rivendicare legalmente la proprietà «scoperta» in nome della corona di Castiglia. Nella parte nord del continente nuovo, saranno i giuristi-filosofi più sapienti, seguaci della Scuola del diritto naturale (che a partire dal tardo quindicesimo secolo affina ed elabora in chiave di libertà la nozione romanistica del dominio), da Vittel a John Locke, a legittimare, sulla base della teoria della terra nullius abbandonata, selvaggia e quindi appropriabile per occupazione (come oggi le conchiglie sulla spiaggia), l'usurpazione delle terre abitate dai nativi.

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In nome dell'efficienza Risulta del tutto evidente che la proprietà privata ed individuale della terra non è un diritto in alcun modo naturale ed universale, né tanto meno l'essenza della libertà umana, ma un sempliche requisito istituzionale del suo «efficiente» sfruttamento economico in una logica di breve periodo quale quella tipica dello sviluppo capitalistico. Al più può leggersi come il presupposto della libertà di accumulazione borghese rispetto all'antico ordine feudale, il che è evidentemente un discorso del tutto storico e politicamente contingente. Infatti, i nativi americani, fossero essi al nord come al sud del nuovo continente, non essendo giuridicamente figli del dominio «romanista», non concepivano affatto l'appropriabilità privata della terra. Nella loro concezione, ancor oggi condivisa da molte popolazioni alla periferia dell'Occidente capitaista (si pensi alla festa boliviana della pacha mama o a gran parte del diritto fondiario africano) ma anche dal pensiero critico ed ecologista più avanzato, il binomio è semplicemente invertito. La terra non può appartenere ad un uomo proprio perchè l'umanità appartiene alla terra, sicchè la sottrazione e la violenza modernizzatrice sulla terra madre non può che causare la distruzione e la rovina dei suoi figli che con essa vivono in equilibrio. Le grandi frontiere di possibile espansione per la proprietà privata capitalistica non sono prodotte soltanto dalla conquista politico-militare di nuovi territori fisici (quasi superfluo menzionare le frontiere contemporanee dell'espansione in Afghanistan e Iraq ecc.) ma anche dalle conquiste della tecnologia. Certe tecnologie sono infatti necessarie per sfruttare determinate utilità, anzi sono proprio costitutive delle utilità stesse. Per esempio, ai tempi dell'impero romano non avrebbe avuto senso immaginare una proprietà sull'etere elettromagnetico o radiotelevisivo, o ancora sulle profondità marine (è di qualche mese fa la notizia della conquista formale degli abissi del polo nord da parte della Russia) o, con l'avvento dell'«era internet», sull'informazione e quindi sui domain names dei siti, attribuiti oggi in proprietà privata sulla base del principio della prima occupazione, proprio come le terre nullius delle Americhe. È quasi superfluo notare che il principio dell'appropriabilità per prima occupazione è soltanto apparentemente neutrale. Esso infatti è a disposizione soltanto di chi abbia mezzi sufficienti per implementare le procedure dell'impossessamento ritualizzato necessarie per acquisire la proprietà. Solo i conquistadores infatti avevano sufficienti mezzi per occupare le terre americane (anche sconfiggendo le resistenze), ed erano sempre accompagnati da un giurista oltre che da un sacerdote per dar legittimità alla presa. Oggi soltanto una minoranza (occidentale) di individui ha a disposizione i quindici dollari e l'accesso a Internet necessari per acquistare la proprietà di un domain name. Ed è per questo motivo che già sappiamo che determinate etnie sino state legalmente depredate perfino della propria presenza nel mondo virtuale, visto che, per esempio, Yanoumani.com è di proprietà di una compagnia statunitense. Per non parlare dei mezzi economici, tecnologici e politici necessari per occupare uno spettro di frequenze. La difesa del bene comune È assai interessante osservare come l'avanzamento tecnologico sia capace di restituire alla proprietà privata perfino spazi che essa aveva precedentemente perduto a causa dell'avanzamento della frontiera della civiltà. Nel corso del complicato processo di abolizione della schiavitù si era saputa imporre una visione del mondo per cui mai più il terribile diritto avrebbe potuto avere ad oggetto l'umano. Oggi la tecnologia consente l'espianto cadaverico, il congelamento degli embrioni, e l'utilizzo del Dna per la ricerca, tutti progressi utili ed affascinanti. Queste innovazioni tecnologiche vanno governate con strumenti pubblici al fine di trarre massimo giovamento sociale dalle utilità che producono. Nei fatti tuttavia è la proprietà privata, sempre più spesso concentrata nelle mani di potenti corporations, ad avere la meglio rispetto alle sue alternative pubblicistiche di governo della nuova frontiera del sapere. In molti stati americani è la sua logica, sostenuta dai poteri economici e politici forti, a governare ormai le utilità che si possono

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trarre da cadaveri, embrioni e (la partita è soltanto all' inizio ma quanto mai aperta) genoma umano. Sicchè gli spazi pubblici si riducono a favore del profitto privato. Sanno bene i boliviani a proposito dell'acqua, un altro bene comune assai attraente per il dominio privato, che quanto avviene al centro prima o dopo contagia la periferia. E la semiperiferia italiana farebbe bene per una volta ad abbandonare il miraggio culturale del centro (da cui sempre più massicciamente importiamo modelli giuridici e culturali) ed imparare anche dai modelli subalterni. La lotta per difendere i beni comuni se vuole essere vittoriosa deve essere lunga e continuativa. Non basta certo una giornata di sciopero e protesta ancorchè assai partecipata così come una giornata non è mai bastata per contrastare alcun altro orrore del capitalismo, a cominciare dalla guerra.

Le pubbliche fortune dell'individuo proprietario Data di pubblicazione: 28.12.2007

Autore: Mattei, Ugo

“L’irresistibile ideologia dominante che fa della privatizzazione la propria bandiera sventolante a destra e a sinistra”. Da il manifesto del 1° dicembre 2007

Il potere delle grandi imprese transnazionali si esprime nella capacità di legittimare la proprietà privata. In Italia, dopo il tramonto della stagione riformista degli anni Settanta, il modello giuridico dominante è quello che proviene dagli Usa Le trasformazioni in atto nel capitalismo possono essere meglio comprese a partire dai cambiamenti avvenuti nel diritto di proprietà

Ripercorrere le trasformazioni e gli itinerari culturali intorno ad un istituto giuridico-politico centrale come il diritto di proprietà, per cogliere il senso delle trasformazioni radicali dell'attuale contesto capitalistico, impone drastiche scelte. Il regime dell'appartenenza delle risorse aventi valore economico è infatti la spina dorsale di ogni economia politica in qualsivoglia stato di sviluppo. Per questo motivo, ogni trasformazione sociale è prodotta da e a sua volta produce mutamenti, formali o informali, nel regime della proprietà. A causa dell'interdipendenza dei sistemi economici, e delle grandi trasformazioni della sovranità possiamo assumere il modello interpretativo del «sistema-mondo» offerto da Immanuel Wallerstein e considerare così l'Italia come una «semiperiferia». Le questioni politicamente rilevanti in Italia sono dunque da un lato determinate da quanto si sviluppa al «centro» (che possiamo assumere, ancora forse per poco tempo, coincidente con gli Stati Uniti d'America); dall'altra, esse sono capaci di determinare mutamenti sociali nella «periferia», ossia in contesti di più limitato potere (soprattutto nel Sud del mondo), con tutte le responsabilità che ciò comporta. Un privilegio rinnovato Discutere di proprietà oggi richiede dunque un'impostazione «internazionalista». Impostazione che ha il pregio di delimitare la prospettiva temporale al periodo di più intensa trasformazione delle coordinate giuridiche del capitalismo contemporaneo, quello che va dalla crisi e conseguente caduta del sistema bipolare della guerra fredda fino ai nostri giorni. Un periodo in cui si sono prodotte trasformazioni tanto profonde quanto quelle che nei secoli passati hanno portato all'abbandono in Occidente di sistemi di appartenenza collettiva a favore della proprietà individuale borghese, trionfante, come noto, nei codici napoleonici (1804). Tuttavia le tendenze trasformative oggi in atto possono apparire contraddittorie (ad esempio, la grande società di capitali che oggi domina la scena è soggetto collettivo). Per coglierne il senso, bisogna quindi rinunciare a modelli interpretativi monistici, cercando di cogliere l'istituto della proprietà nella sua viva

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storicità. Scriveva Censor nel suo Rapporto veridico sulle ultime possibilità di salvare il capitalismo in Italia, (Mursia), pamphlet situazionista attribuito alla destra più prestigiosa, addirittura a Guido Carli: «La Costituzione della Repubblica Italiana aveva abolito tutti i secolari privilegi e distrutto tutti i diritti esclusivi, lasciandone sussistere uno fondamentale, quello della proprietà privata nella prospettiva utopistica di estenderla a tutti. Ma non bisognava che i proprietari, in un'epoca in cui gli stati di mezza Europa dovevano affrontare un crescente malcontento dei lavoratori e della giovane generazione in genere, si facessero troppe illusioni sulla forza della loro situazione...... oggi che il diritto di proprietà a molti sembra essere l'ultimo resto di un mondo aristocratico distrutto de iure et de facto, ...appare con maggior evidenza come l'unico privilegio isolato in una società livellata, allorchè tutti gli altri... ben più contestabili e giustamente odiosi, non gli fanno più da paravento, lo stesso diritto di proprietà si trova ad essere messo in discussione con maggior pericolo e con violenza contagioisa: non più chi lo attaccava ma chi lo difendeva sembrava chiamato a giustificarsi». L'alleanza tra rendita e profitto Sono parole lontane anni luce dalla realtà contemporanea. Chi contesta più oggi, in Italia ed in generale nell'Occidente opulento, la proprietà privata? Chi discute più i privilegi dei «padroni»? Quale potente forza sembra aver spazzato ogni dissenso di fronte al Terribile diritto, come ancora poteva essere descritto da Stefano Rodotà agli albori della rivoluzione reaganiana e tatcheriana? Che fine ha fatto oggi la matrice comunitaria di quell'Altro modo di possedere cui dedicò pagine indimenticabili il decano degli studi sul diritto medievale e moderno Paolo Grossi? Sembra quasi che a partire dai primi anni Ottanta il dibattito sull'appartenenza, individuale o collettiva, privata o pubblica, si sia spento, soffocato dall'irresistibile ideologia dominante che fa della privatizzazione la propria bandiera sventolante a destra e a sinistra. Eppure in Italia la discussione sulla legittimazione della proprietà privata, sulla responsabilità dervianti dal detenere risorse a titolo individuale e sui limiti giuridici che vanno apportati ai poteri del proprietario è stata «alta» e ha oltrepassato la sede costituente, vedendo all'opera protagonisti illustri, tanto sul versante «accademici» (Pietro Rescigno, Ugo Natoli, Pietro Barcellona, Stefano Rodotà fra gli altri) che giudiziario (Corte Costituzionale) che, soprattutto, politico, se si pensa alla quantità di significative riforme volte a «limitare» la proprietà privata per adempiere il mandato costituzionale (gli articoli 41 e 42) di immaginare un modello a capitalismo misto, sociale e responsabile. Uno sforzo ancora assai vivo negli anni Settanta. Dal cosiddetto equo canone alla riforma agraria, dalla legge urbanistica alla legge sulla casa, gli interventi di uno stato sovrano, basato sì sul modello di proprietà privata individuale e borghese, questi interventi legislativi erano caratterizzati da una «matrice» nettamente ridistributiva. Iniziative legislative ottenute, va ricordato, a dispetto di resistenze significative. Così annotava il leader socialista Riccardo Lombardi, commentando la prima importante conquista del secondo decennio delle riforme sociali, la «Legge sulla casa» del '71: «La resistenza (alle riforme) ha visto permanentemente associati i settori così detti avanzati del capitalismo con quelli arretrati e con quelli agrari, cioè l'alleanza del profitto con la rendita». Un'alleanza peraltro ricorrente in Italia (e non solo) dove, in una certa fase dello sviluppo capitalistico, come si può leggere nella prefazione al libro di Michele Achilli Casa: vertenza di massa (Padova, Marsilio Editore 1972) «la interconnesione fra posizioni di rendita e posizioni di profitto, fra forme tecnologicamente avanzate e forme arretrate di sfruttamento singolo e collettivo, interno ai luoghi di produzione ed esterno, è tale da aver costituito fino ad oggi la base più solida di unità delle clasi dominanti, sia durante il fascismo che nel pre-fascismo e nel post-fascismo». Un fraseggio costituzionale non ambiguo e largamente favorevole ad un modello solidaristico e sociale (caro tanto al cattolico Dossetti quanto al cominista Togliatti) non consegna alla proprietà privata praterie illimitate di accumulo capitalistico. Cerca semmai di «civilizzare» gli «umani»

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rispetto ai propri appetiti acquisitivi, limitando la proprietà privata con attribuzioni molto significative al settore pubblico tanto in funzione di godimento collettivo quanto di impresa di stato (ed è fin troppo ovvio evocare qui i nomi di Beneduce, Menichella e Mattei). A dispetto di ciò, abbiamo assistito a partire dagli anni Ottanta al trionfo anche ideologico di un processo di privatizzazione «all'anglo-americana», accompagnato da una crociata contro lo Stato proprietario e alla conseguente insofferenza per i «limiti costituzionali» alla proprietà privata. Questo mutamento di clima culturale, che ha travolto l'intero Occidente, ha partorito in Italia perfino la damnatio memoriae della proprietà sociale, simboleggiata dall'ambizioso progetto delle «case Fanfani» dileggiate come un esempio degli sprechi e dei privilegi ingenerati dallo Stato proprietario. Passata la ventata riformista, a partire dai primi anni Ottanta, la questione proprietaria è stata dunque accantonata nella riflessione italiana e, nella disattenzione generale degli addetti ai lavori (prigionieri di gabbie disciplinari incrollabili), un altro soggetto collettivo e potentissimo, la corporation, ha potuto occupare gran parte degli spazi pubblici dismessi dallo Stato. In pochi anni, il ritardo culturale accumulato a causa di questo abbandono e dell'accettazione di uno status quo di primazia del capitale sul lavoro (in gran parte spiegabile con la resa al padronato simboleggiata dalla famosa marcia dei 40.000 a Torino) ha reso la riflessione di casa nostra del tutto sprovvista di strumenti critici (necessariamente pluridisciplinari) volti a filtrare l'onda di ricezione proveniente dagli Stati Uniti. L'Italia, messa in ginocchio dallo shock petrolifero e dall' inflazione a due cifre, è piombata in una crisi di sovranità politica da cui non si è ancora ripresa. A causa dell'indebitamento (oggi detenuto per oltre metà da corporate interests stranieri) ha così dovuto insistere per oltre vent'anni, senza porsi troppe domande, su quel processo di privatizzazione degli spazi pubblici che ha trovato nel pensiero economico dominante la potente retorica di legittimazione, al di là dei suoi evidenti e drammatici costi sociali. Le conquiste dei decenni precedenti, anche a causa dei limiti nella capacità pubblica di implementarle senza sprechi ed in modo imparziale, sono state in gran parte travolte ed il diritto di proprietà privata sui mezzi di produzione (ritrasformato in una retorica di libertà) ha potuto risorgere ed essere «ri-naturalizzato» nella sua concezione ottocentesca, senza tener conto della differenza abissale che intercorre fra l'individuo proprietario (piccolo o grande poco importa) e la corporation proprietaria, dotata di una forza economica e politica oggi ben più forte di quella di uno Stato, sempre meno proprietario e quindi sempre meno sovrano (mancandogli i mezzi economici per l'esercizio della sovranità stessa). L'accumulo illimitato di risorse La proprietà privata, con il suo contenuto di potere illimitato sui fattori di produzione (e quindi anche sul lavoro) è tornata ad essere la struttura fondamentale ed indiscutibile di un modello capitalistico sempre meno sociale e sempre più fondato sulla «scienza dello sfruttamento». Vale la pena di interrogarsi su questa vicenda e sulle ragioni della paralisi di una discussione politico-culturale che aveva conosciuto punte di eccellenza a livello internazionale, anche per riaprire, in una nuova stagione di emergenza globale senza precedenti, la questione della legittimità della proprietà privata e dell'accumulo indiscriminato di risorse che essa consente. In sintesi: è giusto e legittimo che di fronte all'esaurirsi delle risorse energetiche (e dei costi umani del loro accaparramento) e all'emergenza ambientale, una minoranza possa disporre senza limiti di beni quali aerei, auto di lusso, yachts grandi quanto traghetti, godendo della protezione ideologica della proprietà privata e della crociata contro il comunitarismo? È possibile che un istituto giuridico quale la proprietà privata non debba portare alcuna responsabilità di una situazione globale in cui un miliardo di umani non lascia quasi nulla agli altri sei miliardi, con conseguente tragico destino per tutti? Non è proprio questo l'istituto giuridico che ha appiattito, dietro una forma comune (sono entrambi proprietari!), la situazione del piccolo-borghese e quella della grande corporation che controlla più risorse dello stesso

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Stato? E ancora: non è proprio il matrimonio di interesse fra la retorica della libertà proprietaria e la logica del profitto trimestrale della corporation ad aver eclissato qualsiasi capacità di programmazione di lungo periodo nell'attuale fase del capitalismo globale? Sono domande che cominciano a riemergere nel dibattito critico più avvertito e che mettono sempre più vistosamente in crisi l'idea per cui la democrazia (politica) possa aver senso al di fuori dell'uguaglianza (economica). Scaffali. Il terribile diritto Un testo classico sul tema della proprietà privata all'interno della riflessione giuridica italiano resta la raccolta di Stefano Rodotà «Il terribile diritto» (il Mulino). Per gli successivi sviluppi, si vedano «La proprietà» di Antonio Gambar (Giuffrè) e «Il diritto di proprietà» di Ugo Mattei (Utet). Per una ricostruzione del clima culturale dell' ultimo periodo delle riforme progressiste, si veda il volume collettivo «Gli anni Settanta del diritto privato» curato da Luca Nivarra (Giuffrè). Un classico sulla questione della proprietà collettiva è il volume «Un altro modo di possedere» di Paolo Grossi (Giuffrè). Per qualche importante dato su alcune trasformazioni del contesto economico, va segnalato il volume di Gianmaria Gros Pietro, Edoardo Reviglio e Alfio Torrisi «Assetti proprietari e mercati finanziari europei» (Il Mulino). I riferimenti classici nella tradizione giuridico-politica sono P. J. Proudhon «Che cos'è la proprietà» (Zero in Condotta), nonché «Le origini della famiglia, della proprietà e dello stato» di Friedrich Engels (Editori Riuniti).

Nota - La questione della proprietà, dei suoi limiti e dei suoi attributi è sempre stata centrale per il destino della città, e presente nel dibattito urbanistico nei suoi momenti migliori. Si veda in proposito, oltre ai testi suggeriti dallo "Scaffale" del manifesto , il libro di Hans Bernoulli, La città e il suolo urbano , si cui in eddyburg trovate anche la prefazione (http://eddyburg.it/article/articleview/6776/0/14/) all'edizione italiana integrale (2006). L'icona nella Homepage è la locanbdina del film The Corporation, di Mark Achbar, Jennifer Abbott e Joel Bakan