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Ricomporre Babele: educare al cosmopolitismo Accademici, insegnanti e mediatori culturali al convegno di Milano Diversità culturali: una condanna o un valore? Come educare alla cittadinanza mondiale? Un modello che non esiste Cosmopolitismo come necessità 62 III trimestre 2011 Poste Italiane SpA - Spedizione in Abbonamento Postale - D. L. 353/2003 (conv. In L. 27/02/04 n. 46 ) art. 1 comma 2 - D.C.B. Roma/anno 2008

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RicomporreBabele: educare alcosmopolitismo

Accademici,insegnanti emediatori culturalial convegno di Milano

Diversità culturali:una condanna o un valore?

Come educare alla cittadinanzamondiale?

Un modello che non esiste

Cosmopolitismocome necessità

62III trimestre2 0 1 1 Poste Italiane SpA - Spedizione in Abbonamento Postale - D. L. 353/2003 (conv. In L. 27/02/04 n. 46 ) art. 1 comma 2 - D.C.B. Roma/anno 2008

La Fondazione Intercultura Onlus

La Fondazione Intercultura Onlus nasce il 12 maggio 2007 da una costola dell’Associazione che portalo stesso nome e che da 55 anni accumula un patrimonio unico di esperienze educative internazionali,che la Fondazione intende utilizzare su più vasta scala, favorendo una cultura del dialogo e dello scambiointerculturale tra i giovani e sviluppando ricerche, programmi e strutture che aiutino le nuovegenerazioni ad aprirsi al mondo ed a vivere da cittadini consapevoli e preparati in una societàmulticulturale. Vi ha aderito il Ministero degli Affari Esteri. La Fondazione è presieduta dall’Amba -sciatore Roberto Toscano; segretario generale è Roberto Ruffino; del consiglio e del comitato scientificofanno parte eminenti rappresentanti del mondo della cultura, dell’economia e dell’università.Nei primi anni di attività ha promosso un convegno internazionale sulla Identità italiana tra Europa esocietà multiculturale, numerosi incontri con interculturalisti di vari Paesi, ricerche sulla percezionedell’alterità da parte dei giovani, un progetto pilota di scambi intra-europei con l’Unione Europea.Raccoglie contributi di enti locali, fondazioni ed aziende a beneficio dei programmi di Intercultura.Gestisce il sito www.scuoleinternazionali.org.

www.fondazioneintercultura.org

L’Associazione Intercultura Onlus

L’Associazione Intercultura Onlus (fondata nel 1955) è un ente morale riconosciuto con DPR n. 578/85,posto sotto la tutela del Ministero degli Affari Esteri. Dal 1 gennaio 1998 ha status di Organizzazionenon lucrativa di utilità sociale, iscritta al registro delle associazioni di volontariato del Lazio: è infattigestita e amministrata da migliaia di volontari, che hanno scelto di operare nel settore educativo escolastico, per sensibilizzarlo alla dimensione internazionale. È presente in 132 città italiane ed in 65Paesi di tutti i continenti, attraverso la sua affiliazione all’AFS ed all’EFIL. Ha statuto consultivoall’UNESCO e al Consiglio d’Europa e collabora ad alcuni progetti dell’Unione Europea. Ha rapporticon i nostri Ministeri degli Esteri e della Pubblica Istruzione. A Intercultura sono stati assegnati ilPremio della Cultura della Presidenza del Consiglio e il Premio della Solidarietà della FondazioneItaliana per il Volontariato per l’attività in favore della pace e della conoscenza fra i popoli. L’Associazione promuove, organizza e finanzia scambi ed esperienze interculturali, inviando ogni annooltre 1500 ragazzi delle scuole secondarie a vivere e studiare all’estero ed accogliendo nel nostro paesealtrettanti giovani di ogni nazione che scelgono di arricchirsi culturalmente trascorrendo un periododi vita nelle nostre famiglie e nelle nostre scuole. Inoltre Intercultura organizza seminari, conferenze,corsi di formazione e di aggiornamento per Presidi, insegnanti, volontari della propria e di altreassociazioni, sugli scambi culturali. Tutto questo per favorire l’incontro e il dialogo tra persone ditradizioni culturali diverse ed aiutarle a comprendersi e a collaborare in modo costruttivo.

www.intercultura.it

in questo numero

Redazione: Fondazione Intercultura Onlus Via Gracco del Secco 100 • 53034 Colle di Val d’Elsa • Tel. 0577.900001

http://www.fondazioneintercultura.org • email: [email protected]

Direttore Responsabile: Carlo Fusaro

Grafica e impaginazione: Claudia Tonini • Roma

Stampa: Grafica ’90 • Roma

Registrato il 04/05/2010 presso il Tribunale di Siena al n. 3

Finito di stampare nel mese di luglio 2011

Ricomporre Babele: educare al cosmopolitismo

“Ricomporre Babele: educare al cosmopolitismo” è il titolo del convegno internazionale che laFondazione Intercultura ha organizzato a Milano dal 7 al 9 aprile, in collaborazione con le uni-versità milanesi ed Expo2015 e sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica.

Al convegno hanno partecipato 324 persone di vari Paesi: docenti universitari, insegnanti, volon-tari di associazioni che operano nel settore dell’educazione internazionale, rappresentanti diministeri e di istituzioni pubbliche. Gli Atti del convegno ed un DVD riassuntivo sono in prepa-razione e saranno disponibili in autunno.

Questo numero anticipa alcuni interventi ed offre un primo assaggio dei temi che sono stati dibat-tuti con intensa partecipazione per tre giorni.

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13162022

Un convegno e 300 incontri nelle scuole in preparazione dell’EXPO 2015Programma del convegnoPerché Babele?Una città e una torreMacro-scenari, modelli di sviluppo e vita quotidianaDue sfide importanti per il futuroCosmopolitismo come necessitàRassegna stampa

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Nella sua dichiarazione programmatica laFondazione Intercultura Onlus ricorda che“chi si sente a disagio fuori dalla propria na-

zione e dalla propria lingua è un cittadino dimezzatoed un attore inefficace sul mercato globale”. E indi-ca alcune obiettivi prioritari per chi si occuperà dieducazione nei prossimi anni: “aprirsi al mondo sen-za spaesarsi; vedere la realtà da molte prospettive;scoprire i confini della propria cultura interagendocon quelle altrui; sentire legami comuni di umanitàsotto il fluire di differenze appariscenti”.

A questi temi la Fondazione Intercultura ha de-dicato un convegno internazionale a Milano nel mesedi aprile 2011, in partnership con la cattedra diPedagogia Generale e Sociale dell’Università di Mi -lano Bicocca ed in collaborazione con le cattedre diPedagogia Generale dell’Università Cattolica, diPsicologia Sociale dell’Università di Milano e di po-litica Economica Europea dell’Università Bocconi, econ la collaborazione di Expo2015.

Il Presidente della Repubblica ha concesso il suoAlto Patronato.

Quando in Italia si parla di "intercultura" con la "i"minuscola, il pensiero corre immediatamente al fe-nomeno dei flussi migratori degli ultimi anni ed ainuovi bisogni che sono derivati dal confronto con lanostra società. Intercultura con la "I" maiuscola in-vece ha sempre affrontato questo argomento da unpunto di vista diverso e più ampio. La domanda cheessa pone è questa: se in Italia non fossero arrivati al-cuni milioni di persone da Paesi economicamente piùdeboli, sarebbe o non sarebbe necessario introdur-re forti elementi di educazione al dialogo tra le cul-ture nella nostra società ed in primo luogo nella scuo-la del nostro Paese?

La risposta è ovviamente positiva: sì, sarebbe ne-cessario, anche in assenza di flussi migratori. Lo esi-

gono i processi di unificazione europea e quelli piùgenerali di globalizzazione, che porteranno semprepiù gli adulti di domani a vivere in una interazionequotidiana con persone, prodotti ed informazioni pro-venienti da tutto il mondo. Si tratta di temi che sonoal centro del dibattito educativo internazionale inEuropa ed in altre parti del mondo, perché “impara-re a convivere” è il presupposto di qualsiasi progettodi miglioramento della vita sul nostro pianeta.

Ma che cosa significa oggi essere o sentirsi co-smopolita o “cittadino del mondo”?

Il convegno “Ricomporre Babele – Educare alCosmopolitismo” ha esplorato questo concetto dalpunto di vista sociologico, politico, etico, culturale perevidenziare quelle conoscenze e quegli strumenti chedovrebbe possedere un giovane che si prepara a vi-vere in una società globalizzata.

Quali sono gli scenari probabili di una città mon-diale? Quali le strutture politiche per governarla?Quale la prospettiva delle Nazioni Unite e il proget-to di una “alleanza delle civiltà”? Quali le maggioritrasformazioni in atto? Quali i punti di vista delle re-gioni “periferiche” negli equilibri mondiali? Quali co-dici etici comuni in un mondo diviso da conflitti reli-giosi? Quale il ruolo di un pensiero scientificocondiviso da tutta l’umanità? Quale la possibilità disopravvivenza delle diverse tradizioni quotidiane: ali-mentazione, abitudini, riti sociali?

E di fronte a questi interrogativi: come si pone lascuola? Nel mondo Occidentale, in Asia, nel quadrodell’UNESCO?

Come educare all’empatia, ai diritti umani, allacittadinanza? come proporre atteggiamenti mentaliche favoriscono la risoluzione dei conflitti? E infineil cosmopolitismo è veramente un obiettivo comunedell’umanità?

Tutti questi argomenti ed altri affini sono statitrattati in 28 “workshop” da specialisti della materiaprovenienti da tutto il mondo nel corso di due gior-nate di studio riservate a studiosi, ricercatori e alle

Un convegno e 300 incontrinelle scuole in preparazione

dell’EXPO 2015

I PERCHÉ DI UN CONVEGNO

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organizzazioni di volontariato che operano nel settoredell’educazione alla mondialità. In una giornata pub-blica conclusiva nell’Auditorium del Grattacielo Pirellisono stati presentati i principali argomenti emersi da-gli incontri e dai seminari delle giornate precedenti.

Dal convegno di Milano è emerso con forza che non esi-ste un modello di cosmopolitismo da imitare e proporrealle nuove generazioni e che non si può automaticamen-te considerare “cittadino del mondo” chi cambia sede ePaese di lavoro a ritmi frequenti, imparando ad espri-mersi in lingue diverse e ad adattarsi a situazioni nuove.

La cittadinanza mondiale è stata vista come unpercorso di apprendimento e di immaginazione: unpercorso di consapevolezza del lento processo evolutivoculturale che ci ha reso uomini e donne al di là dei con-

fini nazionali, di conoscenza delle norme che ci leganocome comunità mondiale (istituzioni internazionali, di-chiarazione dei diritti umani), di percezione esatta del-la contemporaneità (situazioni politiche, migrazioni), dicapacità di immaginare utopie future in rapporto allasituazione attuale: la “città ideale” in rapporto alle “fe-rite del nostro mondo” di cui parla Dallmayr.

Le indicazioni del convegno verranno utilizzate perprodurre unità didattiche e materiale per semina-ri da tenersi nelle scuole secondarie nel triennio2012-2014 attraverso la rete di volontari dell’Asso-ciazione Intercultura Onlus presente in 132 Centrilocali italiani.

Questi temi si inseriranno opportunamente nel-la preparazione dell’Expo 2015. ■

UN MODELLO CHE NON C’È

IL SEGUITO DEL CONVEGNO

La villa Di Breme Forno,sede del convegno

In basso a sinistra: un gruppo seminariale

In basso a destra: Fred Dallmayr e Francesco Favotto

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Giovedì 7 aprile 2011 Sessioni riservate agli iscritti

14.00-15.30 – Cosmo Hotel PalaceApertura del convegno in sessione plenaria.

Saluto del Comitato organizzatore: ROBERTO RUFFINO, Segretario Generale della Fondazione Intercultura;MARCELLO FONTANESI, Rettore dell’Università degliStudi di Milano-Bicocca;DANIELA GASPARINI, Sindaco di Cinisello Balsamo.

Prolusione – JEAN LOUIS SKA: “Babele – la nascitadelle patrie e il desiderio di unità”.

16.00-18.00 – Villa Di Breme FornoPrimo ciclo di seminari – Ipotesi per un dialogodelle civiltà

In English:FRED DALLMAYR – Cosmopolitanism, paths in theglobal villageDADA SHAMBHUSHIVANANDA – Roots of societaltransformationROBERTO TOSCANO – The Global CityTHOMAS UTHUP – The role of internationalorganisations in promoting global citizenship

In italiano:DANIELE ARCHIBUGI – Verso una democraziacosmopoliticaMARIELLA PANDOLFI – Governare la globalizzazioneMARCO AIME – Convivere con le diversità   PAOLO CALCHI NOVATI – Cosmopolitismo in unaprospettiva Africana. Il valore di una storia e di una cultura

Venerdì 8 aprile 2011Sessioni riservate agli iscritti

09.00-11.00 – Villa Di Breme FornoSecondo ciclo di seminari – aspetti di un mondoglobalizzato

A) Etica, religioni e cosmopolitismo

In italiano:GIANCARLO BOSETTI – Religioni e laicitàPAOLO BRANCA – Islam e cosmopolitismo

In English:THIERRY GAUDIN – The future of religions

B) Scoperte scientifiche, comunicazione e cosmopolitismo

In italiano:FRANCESCO CAVALLI SFORZA – Scienza ecosmopolitismo

In English:VAHID MOTLAGH – Global and placeless brains: athird culture perspective

C) Ambiente, cultura del cibo, solidarietàinternazionale e cosmopolitismo

In italiano:ALESSANDRO BANTERLE – Agricoltura ealimentazione

In English:JOHN LUPIEN – Environment, food culture,quality, safety, nutrition and urbanization

11.30-13.00 – Cosmo Hotel PalacePlenaria con le osservazioni emerse daiseminari precedenti. Presiede MILENA SANTERINI

13.00-14.30 – Cosmo Hotel PalaceIntervallo e pranzo

Ore 14.30-16.30 – Villa Di Breme FornoTerzo ciclo di seminari – educare alcosmopolitismo

D) Educazione interculturale

In English:JAGDISH GUNDARA – Intercultural education inthe framework of UNESCOVISHAKAH DESAI – Intercultural education in theframework of ASIA SocietyBETTINA GEHRKE – “Making Global Citizen”: therole of teaching and learning

In italiano:LAURA BOELLA – Educare all’empatiaGIULIA SISSA – Da Atene all’Utopia: politica epiacereSALVATORE VECA – Le culture nel tempo eun’idea di incompletezza

E) Educazione ai diritti umani e allacittadinanza

In English:RAMIN JAHANBEGLOO – s cosmopolitanism acommon horizon for humanity?JOSÉ PASCAL DA ROCHA – Social conflictresolution and intercultural dialogue

In italiano:SALVATORE NATOLI – Cittadinanza e diritti umani

ALESSANDRA FACCHI – Diritti umani e questioni digenere

17.00-18.30 – Cosmo Hotel PalacePlenaria con le osservazioni emerse dai seminariprecedenti. Presiede SUSANNA MANTOVANI

20.00 – Cosmo Hotel PalaceCena conclusiva in albergo

21.00 – Cosmo Horel PalaceProgramma musicale

Sabato 9 aprile 2011Giornata conclusiva aperta alla cittadinanza

09.00-09.45 – Grattacielo Pirelli

Saluto delle autorità: Presidente della Regione LombardiaSindaco di Milano

Collegamento con Paolo Nespoli a bordo della stazione spaziale internazionale della Missione magISStra

09.45-10.30

Presentazione delle conclusioni delle tretavole rotonde dei giorni precedenti:PAOLO INGHILLERI, SUSANNA MANTOVANI, MILENA

SANTERINI

11.00-13.30Cosmopolitismo, educazione e società

Moderatore-Conclusioni:Ambasciatore ROBERTO TOSCANO, Presidente diFondazione Intercultura

MARIA LUISA LAVITRANO, Delegatoall’internazionalizzazione dell’Università degliStudi di Milano-BicoccaBARBARA ONGARO, Direzione GeneraleIstruzione in LombardiaGIORGIO REMBADO, presidente AssociazioneNazionale PresidiFRANCESCO FAVOTTO, presidente, AssociazioneIntercultura OnlusDAVID SUTCLIFFE, già Rettore dei Collegi del Mondo Unito

PROGRAMMA

Tavola rotonda di venerdì 8 aprile

Introduzione di Roberto Ruffino

Nella memoria dei popoli del Libro, il nomedi Babele che abbiamo voluto inserire neltitolo di questo convegno sembra evocare

un momento di rottura della perfezione originaria equasi di nostalgia per una patria perduta, capace dicostruire in armonia una città comune, caratterizza-ta da un’unica lingua e perciò – potremmo supporre– da un’unica civiltà. Leggiamo infatti nella Genesi:

"Tutta la terra aveva una sola lingua e le stes-se parole [...].Il Signore li disperse di là su tutta la terraed essi cessarono di costruire la città. Per questo la si chiamò Babele, perchè là ilSignore confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su tutta la terra".

Oggi la costruzione di una città comune sul pia-neta Terra è resa plausibile e quasi necessaria dalleinnovazioni tecnologiche, sociali e politiche del XXsecolo – tanto che il termine “cittadino del mondo” èentrato nell’uso comune. Sembra perciò urgente unariflessione sulla reale possibilità di riprendere le pie-tre abbandonate di Babele e di ragionare sulla ri-conquista di un’unità perduta: cioè sulla struttura,l’organizzazione, l’ethos di una ipotetica città mon-diale e sull’educazione dei suoi cittadini.

A noi della Fondazione Intercultura è sembratourgente ragionare su questi temi. E sin qui nulla distrano: la nostra Fondazione riconosce, nella propria“Missione”, che “chi si sente a disagio fuori dalla pro-pria nazione e dalla propria lingua è un cittadino di-mezzato ed un attore inefficace sul mercato globa-le”... e vuole aiutarlo ad “aprirsi al mondo senzaspaesarsi; vedere la realtà da molte prospettive; sco-prire i confini della propria cultura interagendo conquelle altrui; sentire legami comuni di umanità sot-to il fluire di differenze appariscenti”.

Ci ha fatto invece piacere che studiosi delle uni-versità milanesi e del comitato scientifico dell’Expoabbiano raccolto il nostro invito a parlarne insieme,invitando da tutto il mondo esperti di convivenzaumana: sociologi, pedagogisti, filosofi, antropologi,linguisti, politologi, futurologi, psicologi, scienziati,

educatori e membri di organizzazioni che promuo-vono la mobilità internazionale degli studenti, acco-munati dalla finalità di migliorare la comprensionetra gli uomini e di costruire un mondo più pacifico.

A tutti loro, a tutti voi, in questi tre giorni, chie-diamo di aiutarci a rispondere alle tante domandeche ci si sono presentate spontanee nella fase di pre-parazione di questo convegno: domande sui processidi integrazione planetaria – tumultuosi nel settoreeconomico e sociale, modesti in quello politico e qua-si assenti in quello etico e ideologico – e domandesui percorsi educativi verso una cittadinanza mon-diale.

Ricordiamo alcune di queste domande, riprese neitemi dei 28 seminari. Quali sono gli scenari possibili diuna città mondiale? Quali le strutture politiche per go-vernarla? Quale la prospettiva di una “alleanza delle ci-viltà”? Quali i punti di vista delle regioni “periferiche”negli equilibri mondiali? Quali i possibili codici etici in unmondo diviso da conflitti ideologici e religiosi? Quale ilruolo unificante del pensiero scientifico? Quale la pos-

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RAPerché Babele?

Roberto Ruffinoe Susanna Mantovani

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sibilità di sopravvivenza delle diverse tradizioni quoti-diane: alimentazione, comportamenti, riti sociali? E difronte a questi interrogativi: come si pongono scuola euniversità nelle varie parti del mondo? come possonoeducare all’empatia, ai diritti umani, a una cittadinanzamondiale?

Se il cosmopolitismo sembra essere l’inevitabiledestino dell’umanità – e non un’ideologia delle élitesoccidentali globalizzate, come pure viene sostenutoda alcuni, ad esempio da Régis Debray in Eloge desfrontières del 2010 – come si definisce oggi un “co-smopolita”? Quali “arti” deve possedere? In altre pa-role: quali conoscenze, atteggiamenti, abilità, rela-zioni affettive caratterizzano in concreto una personache sa vivere la realtà storicamente determinata delsuo “locale” ed insieme sa comprendere, apprezzareed integrare armonicamente gli stimoli diversi chele vengono dal “globale”? Come sostanziare questecompetenze e trasmetterle alle nuove generazioni?

Resta poi un dubbio più radicale, che tocca i temidell’identità e della differenza.

Edgar Morin ha paragonato la condizione uma-na contemporanea a quella di un ologramma1 : "Nonsolo ogni parte del mondo fa sempre più parte delmondo, ma il mondo come un tutto è sempre più pre-sente in ciascuna delle sue parti. Questo si verificanon soltanto per le nazioni e i popoli, ma anche pergli individui. Come ogni punto di un ologramma con-tiene l'informazione del tutto di cui fa parte, così or-mai ogni individuo riceve o consuma le informazionie le sostanze che vengono da tutto l'universo".

Più di quarant’anni fa Johan Galtung sostenevache il mondo non vivrà in pace senza una maggioreomogeneità di valori su cui fondare la convivenza uni-

versale. Per anni l’UNESCO ha inseguito il nobileobiettivo di scoprire se all’origine delle grandi tradi-zioni religiose esistano valori comuni su cui fondareuna visione condivisa dell’uomo e della vita.

Ancora recentemente – nel Report on Investingin Cultural Diversity and Intercultural Dialoguedel 2009 – l’UNESCO riconosce che la globalizzazio-ne è un’arma a doppio taglio: indebolisce le diversitàculturali che da decenni l’UNESCO difende a spadatratta, ma aiuta a evidenziare le identità multiple diogni società, una visione nomade e dinamica delle cul-ture e la necessità di diffondere il dialogo intercul-turale.

Prescindendo da visioni utopiche, per le quali èpossibile immaginare scenari desiderabili ma non èfacile tracciare le strade per conseguirli, oggi l’edu-cazione interculturale si pone forse come una primatappa per affrontare le sfide della convivenza nel fu-turo: come un mezzo per conoscere, contestualizzareed apprezzare le differenze del mondo; in attesa cheda questa consapevolezza nuova emergano compe-tenze, integrazioni, collaborazioni, valori, memorie esperanze compatibili, su cui costruire una nuovaBabele pacificata e più umana.

Babele porta in sé il segno dell’ambiguità. Il dioche disperse i costruttori della città voleva punirliper un atto di arroganza o voleva arricchirli e uma-nizzarli attraverso la scoperta delle differenze, ilconfronto e il dialogo su cui poggia una costruzio-ne più solida? In altre parole, quella diversità chenasce da Babele è una condanna da esorcizzare oun valore aggiunto per la nostra umanità?

Di questo ragioneremo insieme nei prossimi tregiorni. Grazie di essere venuti. Buon lavoro! ■

1 Edgar Morin, Terra Patria, Cortina Editore, Milano, 1994.

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1 Per più particolari su questo testo, si vedano fra gli altri due dei miei contributi: J.L. Ska, “La benedizione di Babele”, in R. Fabris – J.L. Ska – M.Cacciari – D.-R. Moser, Bibbia, popoli e lingue (Religione; Casale Monferrato [AL]: Piemme, 1998) 47-62; Id., “Una città e una torre (Gen 11,1-9)”, Lacittà. Profilo biblico-teologico-letterario (a cura di G. Bortone) (Studio Biblico Teologico Aquilano; L’Aquila: ISSRA, 2003) 3-29.2 Umberto Eco, La ricerca della lingua perfetta nella cultura europea (Roma – Bari: Laterza, 1993) 52.3 Opere di Dante, Volume XI - De Vulgari Eloquentia, ridotto a miglior lezione, commentato e tradotto da Aristide Marigo, con introduzione, analisimetrica della canzone, studio della lingua e glossario. Firenze: Felice Le Monnier, 1968.

Prolusione di Jean Louis Ska

“Di fronte ai volgari esistenti, naturali manon universali, di fronte a una gram-matica universale ma artificiale, Dante

insegue il sogno di una restaurazione della “formalocutionis” edenica, naturale e universale. Ma - a dif-ferenza di quanto faranno i rinascimentali andandoalla ricerca di una lingua ebraica restituita al suo po-tere rivelativo e magico - Dante intende ricreare lacondizione originaria con un atto di invenzione mo-derna. Il volgare illustre, di cui il massimo esempiosarà la sua lingua poetica, è il modo in cui un poetamoderno sana la ferita post-babelica. Tutto il secon-do libro del “De vulgari eloquentia” non è da inten-dere come mero trattatello di stilistica, ma come sfor-zo di fissare le condizioni, le regole, la “formalocutionis” dell’unica lingua perfetta concepibile, l’i-taliano della poesia dantesca. Della lingua perfettaquesto volgare illustre avrà la “necessità” (oppostaalla convenzionalità) perché come la “forma locutio-nis” perfetta permetteva ad Adamo di parlare conDio, il volgare illustre è quello che permette al poe-ta di rendere le parole adeguate a ciò che debbonoesprimere, e che non sarebbe esprimibile altrimenti.

Dipende da questa ardita concezione del proprioruolo di restauratore della lingua perfetta il fatto cheDante, anziché biasimare la molteplicità delle lingue,ne metta in rilievo la forza quasi biologica, la loro ca-pacità di rinnovarsi, di mutare nel tempo. Perché èproprio in base a questa asserita creatività linguisti-ca che egli può proporsi di inventare una lingua per-fetta moderna e naturale, senza andare alla caccia dimodelli perduti. Se un uomo della tempra di Danteavesse veramente pensato che l’ebraico inventato daAdamo era la sola lingua perfetta, avrebbe appresol’ebraico e in ebraico avrebbe scritto il suo poema.Non l’ha fatto poiché pensava che il volgare che eglidoveva inventare avrebbe corrisposto ai principi del-la forma universale donata da Dio meglio di quantonon potesse fare l’ebraico adamitico. Dante si candi-da a essere un nuovo (e più perfetto) Adamo”2.

Così si esprime Umberto Eco a proposito dell’o-pera di Dante, De vulgari eloquentia (1305-1306),che è probabilmente il primo saggio di linguistica del-la storia occidentale3. Il punto che voglio evidenziaretocca da vicino l’argomento che voglio trattare, è pro-prio la natura stessa del progetto di Dante. Egli in-tende sanare la “ferita post-babelica”, creando unalingua unitaria che permetta di superare le barrierelinguistiche e di creare una comunicazione universa-le. Per Dante, la soluzione non è da cercare nel pas-sato remoto, in una lingua perduta, quella del para-diso terrestre, ad esempio, nell’ebraico che – secondogli studiosi medievali – era la lingua parlata daAdamo. Non è neanche nel latino, la lingua classicadei poeti, scrittori, studiosi, scienziati e teologi. Lasoluzione è invece nel futuro, nella creazione di unalingua poetica “volgare”, una lingua del “vulgus”, unalingua contemporanea e parlata dal popolo e non so-lo da un gruppo di esperti. Sarà, come abbiamo vi-sto, la lingua poetica creata dallo stesso Dante.

Certo, la ricerca di una sola lingua e di una linguaperfetta è un’utopia. Lo dice lo stesso Umberto Eco:“La storia delle lingue perfette è la storia di un’uto-pia, e di una serie di fallimenti. Ma non è detto cha lastoria di una serie di fallimenti risulti fallimentare. Sepure fosse la storia dell’invincibile ostinazione a per-

Una città e una torre (Gn 11,1-9)1

Jean Louis Skae Daniela Gasparini

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seguire un sogno impossibile sarebbe pur sempre in-teressante – questo sogno – conoscere le origini, e lemotivazioni che lo hanno tenuto desto nel corso dei se-coli. Il sogno di una lingua perfetta o universale si èsempre profilato proprio come risposta al dramma del-le divisioni religiose e politiche, o anche soltanto alladifficoltà dei rapporti economici”4.

Il problema rilevato da Dante e analizzato daUmberto Eco è legato, nell’immaginario occidentale,a un racconto biblico e alle sue molteplici rappresen-tazioni: la torre di Babele (Gn 11,1-9). Il racconto di-venta paradigma di una situazione vissuta con soffe-renza. La molteplicità delle lingue e la difficoltà dicomunicare sono viste come fenomeno negativo. È laprima caratteristica del “simbolo”. La seconda carat-teristica è legata alla prima. La confusione delle lin-gue è interpretata come castigo. In poche parole – edè un’interpretazione antica – gli uomini che costrui-scono insieme una torre vogliono raggiungere il cielo.La cima della torre, secondo il testo, deve essere “incielo” (Gn 11,4). Così facendo, però, cercano di valica-re il limite che separa il nostro mondo dal mondo diDio. Vogliono “diventare come Dio”, secondo quantodice il serpente alla donna in Gn 3,5; cf. 3,22. L’orgogliodell’umanità – hybris in greco – è il peccato che ha cau-sato la confusione delle lingue e la dispersione dell’u-manità. Da questi mali Dante vuol curare l’universoinventando un nuovo linguaggio poetico.

Sorgono immediatamente molte domande daglispunti di riflessione sul testo biblico forniti da Dante

Alighieri. Ne menziono quattro principali. Primo, iltesto biblico parla davvero di peccato e castigo?Secondo, qual è la “colpa” dell’umanità, se si può par-lare di colpa? In altre parole, perché Dio intervienee impedisce che l’umanità possa costruire una città euna torre? In terzo luogo, ci chiederemo se la molte-plicità delle lingue e la dispersione delle nazioni sullasuperficie della terra sono da vedere come fenomenopositivo o negativo. È proprio un castigo oppure èquello che Dio voleva dall’inizio? O dobbiamo dire cheil testo rimane ambivalente? Infine, ci chiederemoqual è allora il significato vero del brano. Il testo cri-tica un progetto umano? Lo oppone a un progetto di-vino? Quale sarebbe l’ideale proposto dal racconto?

1.1. Peccato o pericolo?L’interpretazione tradizionale vede in Gn 11,1-9 l’ul-timo esempio di un racconto di delitto-castigo proprioprima che Abramo sia chiamato da Dio e inizi una sto-ria di benedizione (cf. Gn 12,1-3). Ai peccati delle ori-gini, Dio risponde scegliendo Abramo da cui scatu-rirà una benedizione per tutte le nazioni finora sottola maledizione (Gn 12,3).

Tale esegesi suscita qualche perplessità perchésembra rispecchiare una visione paolina della sto-ria piuttosto che il significato originale del testo del-la Genesi. Fra le numerose difficoltà dell’interpre-tazione tradizionale menziono soltanto che il testonon parla in alcun modo di peccato. Non dice nep-pure che Dio avesse proibito di costruire una città euna torre. Non abbiamo in Gn 11,1-9 alcun coman-damento emanato da Dio e non rispettato, come inGn 2-3, ove Dio proibisce di mangiare il frutto del-l’albero della conoscenza del bene e del male (2,16-17; 3,11.17). Non abbiamo alcun comandamento im-plicito, però universalmente riconosciuto, comequello di non uccidere che sta nel retroterra di Gn 4,la storia di Caino e Abele.

In Gn 11,1-9 l’umanità prende un’iniziativa chenon piace a Dio senza che quest’ultimo si sia maiespresso in antecedenza su tale progetto. Costruireuna città e una torre non è mai stato proibito. Dioesprime, infatti, un timore, non una condanna: “Eccoche essi sono un sol popolo e un labbro solo è per

1. QUALE FU IL PECCATO DI BABELE?

4 Eco, La ricerca della lingua perfetta, 25.

La seduta d'apertura del convegno

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tutti loro; questo è il loro inizio nelle imprese; or-mai tutto ciò che hanno meditato di fare non saràloro impossibile”. In altre parole, Dio vuol porre unlimite alle imprese umane. La confusione delle lin-gue e l’impossibilità di intendersi sono volute da Dioper impedire all’umanità di compiere i suoi sogni oi suoi piani. Più di un castigo si tratta di un modo distabilire una frontiera da non oltrepassare. Si po-trebbe dire che Dio agisce come i genitori che sor-vegliano figli piccoli e che fissano limiti perché i pic-coli sono inconsapevoli dei pericoli che possonocorrere allontanandosi troppo dai genitori. Gn 1-11,in diversi modi, descrive, in effetti, l’infanzia dell’u-manità. In poche parole, si può capire Gn 11,1-9 noncome una storia di delitto e castigo, bensì come lastoria di un pericolo corso dall’umanità e scansatoda Dio.

1.2. Quale pericolo?Sorge però a questo punto una seconda domanda: qualera esattamente il pericolo che correva l’umanità eche obbligò Dio a intervenire? Che c’è di pericolosonella costruzione di una città e di una torre? La torrerischiava di essere troppo alta? Dio si sentiva minac-ciato perché la torre stava per raggiungere il cielo?Occorre, per rispondere a questa domanda, analizza-re il testo da più vicino. Vi sono due elementi che ri-chiedono una spiegazione particolareggiata: primo,l’espressione “una lingua e parole uguali”; secondo,“la torre la cui cima stava in cielo”.

Iniziamo con l’espressione ebraica che significa,letteralmente, “un labbro unico e parole uniche”. Latraduzione abituale “una sola lingua” non rende be-ne l’idea dell’originale ebraico. Gli studi sull’argo-mento sono arrivati alla conclusione che si tratta diun’espressione diffusa nel mondo neo-assiro e che si-gnifica: “unanimità”, “concordia”, “intesa”. Si po-trebbe addirittura dire: “si capivano tutti”, “si in-tendevano tutti”. Si tratta meno di lingua che dicomprensione5.

Troviamo una conferma di questa interpretazio-ne alla fine del racconto, dopo l’intervento di Dio(11,7). Dio non intende che tutti gli uomini parlasse-ro lingue diverse. Si dice che Dio confonde le loro“labbra cosicché l’uno non capisca più il labbro del-l’altro” (11,7). In parole più semplici, Dio confonde il

linguaggio degli uomini cosicché non si capiscano piùgli uni gli altri. Il testo suppone soprattutto un mon-do nel quale sia diventato impossibile operare insie-me perché manca una condizione essenziale, vale adire la comprensione mutua.

Il secondo elemento da chiarire è proprio il pro-getto descritto nei vv. 4: “Essi dissero: Orsù, co-struiamoci una città con una torre, la cui cima sia neicieli, e facciamoci un nome, per non esser dispersisulla superficie di tutta la terra”. Si parla sempre del-la “torre di Babele” e quasi tutte le versioni intitola-no nello stesso modo il brano che ci occupa. Molti ese-geti vedono anche nella torre un accenno al tempio agradini tipico della Mesopotamia, la ziggurat. Si par-la della sola torre e si dimentica la città, e inoltre si fadella torre un tempio. In questo modo l’impresa uma-na sembra davvero prometeica. L’umanità vuol rag-giungere il cielo e, in qualche modo, “imprigionare”Dio in un tempio costruito secondo un piano umano.

Il testo biblico, però, parla di una città con unatorre. Vi sono rappresentazioni contemporanee cheaiutano a capire che il testo intende parlare di unacittà con la sua cittadella, la sua rocca, il suo castello.Vi sono quindi due cinte di mura, una esterna e unainterna, quest’ultima per resistere al nemico quan-do esso è riuscito a passare la prima. Il testo biblicodi Gdc 9,51 non lascia alcun dubbio in merito. Essodescrive la città di Tebes assediata da Abimelek, unfiglio di Gedeone. Abimelek riesce a espugnare lacittà (Gdc 9,50) e il testo aggiunge che “Vi era in mez-zo alla città una rocca possente, dove si erano rifu-giati tutti, uomini e donne, con i signori della città.Barricatisi dentro, erano saliti sugli spalti.”

La “torre” è quindi una cittadella, non un tem-pio. Inoltre, la torre “la cui cima sia nei cieli” è un’e-spressione idiomatica ben conosciuta in ebraico chesignifica semplicemente: “una torre molto alta”.Diversi testi biblici utilizzano la stessa iperbole. Dt1,28 ne fornisce un primo esempio. Gli Israeliti, neldeserto, si rifiutano di conquistare la terra dicendo:“I nostri fratelli hanno scoraggiato il nostro cuoredicendo: È un popolo più grande e alto di noi, le cittàsono grandi e fortificate fino al cielo” (Dt 1,28). Lastessa espressione riappare in Dt 9,1: “AscoltaIsraele: oggi tu stai per passare il Giordano per an-dare a conquistare nazioni più grandi e più forti di

5 Si vedano, fra gli altri, Testa, Uehlinger, Prato, “La torre di Babele”, 76.

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6 Studio di Gianluigi Prato, “La torre di Babele”.

te, città grandi e fortificate fino al cielo”. In Ger51,53, Dio parla proprio della città di Babilonia e di-ce: “Quand'anche Babilonia salisse al cielo equand’anche rendesse inaccessibile l’altezza dellasua fortificazione, da parte mia verranno devastato-ri contro di essa”.

Il testo parla quindi di una città con una citta-della che si vuole inespugnabile. Qual è lo scopo ditale costruzione? Gn 11,4 precisa la cosa: “e faccia-moci un nome, per non esser dispersi sulla superfi-cie di tutta la terra”, dicono i costruttori. “Farsi unnome” è un’ espressione idiomatica che equivale, piùo meno, a “acquistare l’immortalità”. Ad esempio,Assalonne, figlio di Davide, non aveva figli secondo2Sam 18,18. Fa erigere un monumento, una stele al-la quale dà il suo nome. Il monumento, quindi avràcome funzione di perpetuare il nome di Assalonne,quello che avrebbe fatto la sua discendenza. Alla fi-ne dell’epopea di Gilgamesh, dopo la fallita ricercadell’immortalità, l’eroe contempla le mura di Uruk,la sua città, e ci vede un qualcosa che resiste al tem-po molto più a lungo dell’essere umano. L’immortalitàè della città, delle sue mura, più che dell’essere uma-no. Ritroviamo la stessa idea in Gn 11,4: la città do-vrebbe perpetuare il nome degli abitanti che sonomortali.

La seconda parte della frase è però un po’ più dif-ficile da interpretare: “affinché non siamo dispersisulla superficie della terra” (11,4b). Come sappiamo,è proprio quello che accadrà alla fine del racconto pervolontà di Dio (11,8). Perché la dispersione è tantoda temere? Un fatto semplice permette di capire lacosa, penso. Nel mondo antico, quando una città èstata assediata, espugnata e distrutta, subisce un ul-teriore oltraggio: tutti i suoi abitanti sono dispersi.Nella Bibbia, si parla spesso di questo castigo terri-bile a proposito della città di Gerusalemme, ma an-che del popolo d’Israele come tale. La dispersionedegli abitanti di una città significa la fine di questacittà, così come la dispersione di un popolo significala fine di questo popolo. Per questo motivo, la di-spersione è una delle maledizioni che concludono itrattati di vassallaggio e sono previste per chi non èfedele a quanto a promesso al suo sovrano. Nel casod’Israele, la maledizione grava sul popolo in caso dinon osservanza della legge (Lv 26,33; Dt 28,64).

Inversamente, quando Dio perdona suo popolo, egli“ricostruisce Gerusalemme, raduna i dispersi d’Israele”(Sal 147,2). Il profeta Geremia si esprime nello stessomodo: “Io mi farò trovare da voi, oracolo del Signore,e ricondurrò i vostri deportati e vi radunerò di mezzoa tutte le nazioni e da tutti i luoghi, dove io vi ho di-spersi, oracolo del Signore, e vi farò ritornare al luogodal quale vi ho fatto deportare” (Ger 29,14).

In poche parole, la dispersione degli abitanti diuna città significa la fine della città, e la scomparsa delsuo nome. È proprio il pericolo che gli abitanti dellacittà vogliono schivare. Non vogliono sparire, voglio-no invece costruire una città che li permetterà di ac-quistare – in qualche modo – l’immortalità. Avremmoquindi in questo racconto uno dei tanti esempi dellaricerca dell’immortalità nel mondo antico.

Perché, allora, Dio impedisce che la costruzionedella città sia portata a termine? Perché impedire al-l’umanità di sconfiggere la morte? Il Dio di Genesi11,1-9 sarebbe simile agli dèi greci e mesopotamici, in-vidiosi dell’umanità? Con questa domanda, però, sia-mo entrati nella seconda parte della nostra indagine.

Non vi è vera colpa, come abbiamo visto, e pertanto ladispersione dei popoli e la confusione delle lingue nonsono un castigo. Potremmo dire, come abbiamo già ac-cennato, che Dio vuol difendere alcuni dei suoi privile-gi, ad esempio l’eternità o l’immortalità. Gli uoministanno per valicare la frontiera che separa il mondoumano dal mondo di Dio, e Dio non può non reagire.Tradotto in parole più semplici, è inutile cercare l’im-mortalità, neanche nella costruzione di una città ecce-zionale. Nessuna città è eterna. Dio, quando vanifica ilpiano umano, non fa che dimostrare la vacuità di unprogetto umano utopico e del tutto irrealizzabile.

Per precisare la cosa è opportuno paragonare ilnostro racconto con il testo che precede, Gn 10, un te-sto spesso intitolato “La tavola delle nazioni”. Il ca-pitolo descrive sotto forma di genealogie il popola-mento della terra dopo il diluvio6. Esso fa discenderetutti i popoli conosciuti dai tre figli di Noè che sonosopravvissuti al diluvio con loro padre e madre. La“tavola delle nazioni” descrive un fenomeno simile aquanto assistiamo in Gn 11,1-9: la dispersione dei po-

2. DIO CASTIGA L’UMANITÀ?

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poli e la moltiplicazione delle lingue. Il fenomeno, però,è pacifico e si svolge interamente senza alcuna incri-natura. Il capitolo si conclude, ad esempio, con que-sta frase indicativa: “Queste furono le famiglie dei fi-gli di Noè, secondo la loro genealogia nelle loronazioni. Da esse si dispersero le nazioni sulla terra,dopo il diluvio” (Gn 10,32). La dispersione delle na-zioni, in altre parole, è un fenomeno spontaneo e na-turale, e per nulla problematico. Gn 10 parla anchedelle lingue a proposito dei discendenti dei tre figli diNoè, ogni volta con la stessa frase: “Questi furono ifigli di [Iafet, Cam, Sem] nei loro territori, ciascunosecondo la sua lingua, secondo le loro famiglie, nelleloro diverse nazioni” (10,5b.20.31). Ogni nazione ha lasua lingua, il che significa che ha la propria cultura.

La dispersione delle nazioni sulla terra e la di-versità delle culture sono, per Gn 10, fenomeni natu-rali che non richiedono alcun intervento divino parti-colare. Il mondo che l’autore di Gn 10 era un mondo diquesto tipo. Lo stesso autore – chiamato dagli esege-ti “autore sacerdotale” e che scrisse con ogni proba-bilità all’inizio del periodo persiano – descriverà nel-lo stesso spirito la separazione di Abramo e di Lot (Gn13,6.12.18), o la separazione di Esaù e Giacobbe (Gn36,7-8). Si separano per andare a vivere, di comun ac-cordo, ciascuno in un altro territorio.

Il racconto di Gn 11,1-9 arriva alla stessa conclu-sione, si potrebbe dire, però per vie traverse. Un in-tervento di Dio è all’origine del popolamento di tut-ta la terra e della diversificazione delle culture. Latendenza dell’umanità era diametralmente oppostaa quella di Dio.

Sono tentato di proporre un’interpretazione sem-plice della decisione divina. Il progetto umano è ir-realizzabile. Non è possibile far vivere tutta l’umanitàin una sola città e non è possibile che tutta l’umanitàpossa parlare lo stesso linguaggio. Inoltre, il sognodell’immortalità è anch’esso utopistico. L’umanità,quindi, è chiamata a riconciliarsi con la sua condizio-ne mortale. Se la via dell’eternità e dell’immortalità

è preclusa agli uomini, rimane una sola via aperta,quella del tempo e della storia.

Storia significa, ovviamente, che l’umanità non puòcompiere opere definitive. Storia significa anche con-tingenze, differenze, particolarismi, disparità. Le coseevolvono nel tempo, ed evolvono in modo diverso. Lepersone e le nazioni, le abitudini e le culture saranno ne-cessariamente diverse perché appartengono alla storiae non all’eternità. Sono travagliate da forze dinamiche,evolvono, progrediscono e, in certi casi, regrediscono.Non possono, però, vivere in un mondo immutabile.

In un certo modo, il racconto di Babele è vicino al-la scena dell’ascensione negli Atti degli Apostoli. I di-scepoli che hanno visto il Cristo sparire nella nubestanno guardando il cielo. Due esseri vestiti di biancoappaiono e dicono: “Uomini di Galilea, perché ve nestate guardando verso il cielo? Questo Gesù che è sta-to assunto di mezzo a voi verso il cielo, verrà così, inquel modo come lo avete visto andarsene in cielo» (Atti1,11). Il messaggio è semplice: il vostro futuro imme-diato non è il cielo, ma la terra; non è l’eternità, è lastoria. Avete una missione da compiere e un mondonuovo da costruire. Non guardate il cielo lassù, guar-date la terra e il compito che vi aspetta quaggiù. I di-scepoli se ne andranno, e il loro viaggio continua an-cora oggi, in ogni parte del mondo.

L’umanità di Gn 11,1-9 è chiamata da Dio a co-struire il mondo, non a raggiungere il cielo. In que-sto modo, penso di essere arrivato alla conclusionedel mio percorso e mi spetta solo aggiungere una pa-rola sul significato generale del racconto.

Le interpretazioni del racconto di Gn 11,1-9 si possonoraggruppare in due categorie principali, con molte sfu-mature, ben evidentemente. La lettura tradizionale, co-me abbiamo visto, vede nella confusione delle lingue ilcastigo divino inflitto a un umanità presuntuosa che vo-leva raggiungere il cielo con le proprie forze.

3. CONCLUSIONE: DOV’È BABELE?

La seduta d'apertura del convegno

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Una seconda linea d’interpretazione è rappre-sentata da alcuni esegeti contemporanei. Per loro, ilracconto è una critica, ironica, anzi satirica, dell’im-perialismo e del totalitarismo dei grandi imperi delMedio Oriente antico: gli Assiri, i Babilonesi, forse iPersiani o addirittura i Greci. Nella seconda linea d’in-terpretazione, il racconto vuol esaltare la diversità esoprattutto la particolarità d’Israele contro ogni ten-tativo di globalizzazione e di massificazione. Il para-digma della cultura di massa sarebbe proprio Babeleove tutti parlano lo stesso linguaggio e cercano di co-struire insieme un mondo uniforme, anzi un mondoconcentrazionario.

Abbiamo visto quali fossero i limiti della prima li-nea d’interpretazione. Il racconto non contiene al-cun’idea di peccato e di castigo. La seconda linea d’in-terpretazione ha i suoi meriti, certo, però ha anche isuoi limiti. Menziono una difficoltà principale: il testonon contiene alcun accenno alla volontà imperialistané di un re né di un popolo. L’umanità agisce spontesua. Per questo motivo mi sono permesso di propor-re una linea d’interpretazione leggermente diversa.Il racconto di Gn 11,1-9 descrive, secondo me, un ten-tativo abortito di ottenere l’immortalità e invita, in-vece, ad accettare le sfide e i rischi della storia.

Vi è certamente un punto comune fra la secondalinea d’interpretazione e quella proposta qui.Possiamo infatti intravedere tracce della tentazionedel totalitarismo e dell’imperialismo nel nostro rac-conto. Parlare di Babele, nella Bibbia, significa pro-nunciare un nome caricato di connotazioni negative.

Inoltre, la descrizione di una città e di una torre co-struita da tutte le nazioni della terra può difficil-mente non far pensare a un impero simile a quelli,ben conosciuti, della Mesopotamia. D’altronde, le al-lusioni sono velate, non esplicite, e per questo moti-vo, penso che il testo voglia rimanere aperto.Abbiamo non una satira politica ambientata in uncontesto storico preciso e che si deve interpretarein funzione di quest’unico contesto storico. Abbiamopiuttosto un paradigma, una parabola, che ha le sueradici in alcune esperienze storiche. Tuttavia, il mes-saggio è più universale, semplicemente perché par-la dell’umanità come tale, non di un popolo o di unimpero. Il racconto della torre di Babele non è unoracolo contro Babilonia, per essere più chiaro (cf.Is 13,1-22; 21,1-10; 47,1-15; Ger 50-51). Il raccontoimpartisce una lezione universale, che vale per ognitempo e ogni popolo: il destino dell’umanità non èuna ricerca chimerica dell’immortalità. È nell’av-ventura della storia, nella diversificazione delle cul-ture e nella disseminazione delle nazioni su tutta lasuperficie della terra.

Non si può più parlare dell’unità dell’umanità, al-lora? Forse, sarebbe meglio parlare non di unità, madi cooperazione; non di unificazione, ma di armonia;non di uniformità, ma di concordia. Non possiamo so-gnare un linguaggio unico per tutta l’umanità.Possiamo solo sognare, come Dante, di creare unalingua poetica comune, una lingua che coglie il me-glio di tutte le lingue della terra. Forse non sarà unalingua. Sarà un’antologia. ■

Il manifesto del convegno

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Una sorta di filo conduttore delle diverse rela-zioni è stato quello di considerare, quando siparla di cosmopolitismo e di incontro tra le

culture, due piani: il piano delle dinamiche sociali, eco-nomiche, dei processi di migrazione dei popoli, degli spo-stamenti delle conoscenze, del confronto tra modelli disviluppo e di organizzazioni sociali differenti; e, d’altrocanto, il piano della nostra vita quotidiana, dei nostri vis-suti, di quello che noi sperimentiamo soggettivamentequando incontriamo l’altro, le altre culture con i loro va-lori, le loro pratiche, le loro concezioni della vita.

Devo dire che quando mi proposero di collaborareall’organizzazione di questo Convegno, uno degli ele-menti che più mi aveva interessato nella FondazioneIntercultura era proprio il tema dello spostamento deigiovani, dell’impegno che essi hanno in altri Paesi e in al-tri mondi, del coinvolgimento delle famiglie nell’orga-nizzare queste iniziative. Tutto questo rappresenta unenorme e proficuo investimento di energia psichica, divissuti, affetti, progetti, immaginazione. Siamo quindi difronte ad un processo simile quello che riguarda altrimomenti delle relazioni interculturali di oggi: dai mi-granti che progettano la partenza e sviluppano un per-corso migratorio, a chi si sposta per motivi di lavoro inambiti avanzati della ricerca scientifica o delle organiz-zazioni economiche o finanziarie. Comune a questi pro-cessi è la centralità dei vissuti soggettivi: si parla infat-ti di cultura interiorizzata, cultura incorporata nel Séche viene messa alla prova dal cambiamento.

Sappiamo che la cultura si deposita e cresce dentrodi noi, fin dai primi giorni di vita, attraverso una serie direlazioni: abbiamo esperienza di ciò che ci circonda, del-la relazione con i genitori ma anche con i luoghi dovequeste relazioni si svolgono, con i sapori, con i profumi,con i colori, con l’ambiente dove si svolgono queste pri-me relazioni. Tanto è vero che esiste un’ampia rifles-sione e una letteratura che riguardano l’attaccamentoai luoghi, l’attaccamento agli oggetti della cultura, at-taccamento visto in termini simili alla relazione che sipuò sviluppare con le figure significative dell’infanzia, inprima istanza con la madre e i genitori. I luoghi, gli ele-menti della cultura, le cose che ci circondano ci posso-no offrire quelle garanzie affettive e di solidità che cidanno le relazioni con le persone per noi significative.Molte ricerche indicano che è in questo ambito che sigioca la partita dell’appartenenza culturale che ci dà so-lidità, che ci fornisce un nucleo di identità, che ci fa sen-tire di essere al mondo.

È questo un tema che sta a cuore agli psicologi cul-turali e agli psicologi sociali e che è stato affrontato in di-verse relazioni del nostro Convegno. Penso per esempioalla relazione di Marco Aime, antropologo, che ha af-frontato con profondità l’argomento della costruzionedel Sé rispetto alle culture, parlando di come formiamole categorie mentali, di come reagiamo non solo in ter-mini comportamentali ma anche affettivi all’incontrocon altre culture. Questi studi ci mostrano come si pos-sano avere dei meccanismi e dei destini differenti nel-le diverse parti del mondo rispetto alla costruzione del-l’identità. Esistono culture in cui il Sé, la persona, l’Iovengono considerati in termini puramente individuali:l’obiettivo della società e dell’educazione è quello di co-struire un nucleo di identità singolo. D’altro canto ci so-no culture, come molte di quelle asiatiche o del Sud delmondo, in cui invece il Sé, l’unicità della persona passasolo attraverso le relazioni con gli altri. Si parla di Séinterdipendente: ci si sente singoli e individuati proprioperché si appartiene ad un gruppo, ad una gerarchia,ad una comunità. Questa diversità nella concezione enella costruzione del Sé rappresenta un esempio di unadifferenza psicologica e culturale che può agire quan-do si verifica un incontro con altre culture.

Tale dinamica interculturale può avere, in genera-le, due esiti opposti: il destino del conflitto, del disagio,della difficoltà o, quando è invece è possibile mettereinsieme due differenti visioni del mondo (e del Sé), ildestino verso la complessità, verso la ricchezza del com-portamento, delle idee, della conoscenza. Questa pos-sibile diversità nella “costruzione del Sé nella cultura”è suffragata da numerosi studi come ci ha anche sotto-

Macro-scenari, modelli di sviluppo e vita quotidianaConsiderazioni conclusive sul convegno

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lineato Cavalli Sforza. La specie umana è caratterizza-ta da quella che alcuni autori chiamano una sorta di gra-vidanza extrauterina, cioè noi nasciamo con un sistemanervoso centrale che si continua a formare, soprattut-to nei primi anni di vita, nelle relazioni sociali. Ciò harappresentato un grande vantaggio evolutivo per la no-stra specie: le connessioni tra i neuroni e tra le aree delsistema centrale si formano dopo la nascita, quando siè immersi nelle relazioni con l’altro, con la società, conle figure significative, con gli oggetti della cultura. Vi èquindi un’estrema plasticità neuronale che permettel’interiorizzazione e l’incorporazione della cultura.

Uno psicologo evoluzionista, David Buss, sottoli-nea come il sistema nervoso centrale umano si è for-mato ed organizzato in una fase in cui ciascuno deimembri della specie, i primi appartenenti alla speciehomo sapiens sapiens, incontrava in tutto, nel corsodell’intero arco vitale, dalle 70 alle 120 persone. Unamacchina biologica umana come la nostra interagivacon pochissime persone rispetto a quelle che incon-triamo oggi, ed erano tutte persone legate da legamiaffettivi positivi: famigliari, membri del gruppo socia-le di appartenenza, alleati. Ciò portava a sviluppare latendenza ad un altruismo che potremmo definire ne-cessario. Abbiamo cioè a disposizione un sistema ner-voso centrale pronto a conoscere poche persone ma inmodo intenso e sociale. Ci possiamo allora chiederecosa succede oggi dal punto di vista psicologico, an-tropologico e sociale quando si verificano dei grandis-

simi cambiamenti nella possibilità di incontrare altreculture e si ha la necessità di relazionarsi, spesso inmodo superficiale o solo momentaneo e parziale, contantissime persone diverse (molto di più di 70/120….).La possibilità di rispondere a questa domanda direiche è stato un primo filo conduttore che ha caratte-rizzato il dibattito di queste giornate.

Un secondo filo conduttore è stato quello di cerca-re di definire, almeno in termini generali, le modalitàcon cui si realizza il cosmopolitismo. Ricercatori comeDallmayr e Archibugi hanno parlato di due possibilitàche caratterizzano questo processo: il multiculturali-smo e l’interculturalismo; cioè la permanenza di cultu-re differenti, che rimangono sostanzialmente separate,nello stesso ambito geografico e sociale (multicultura-lismo) o, d’altro canto, l’interculturalismo, che possia-mo definire come una situazione in cui le culture inve-ce interagiscono, si mescolano, si ibridizzano. È statoperaltro sottolineato come, in entrambi i casi, la rela-zione tra le culture si giochi in un rapporto di forza: esi-stono cioè fattori economici, politici e di potere che in-fluenzano i processi transculturali.

Un ulteriore tema comune a molte delle relazionidel Convegno è stato quello legato alla domanda: cosaè successo, cosa sta succedendo, cosa succederà rispettoal cosmopolitismo: il passato che ci insegna a compren-dere ciò che sta avvenendo ora e le prospettive future.A questo proposito ricordo l’intervento di Calchi Novatisull’Africa, che ha messo in evidenza questi tre momenti

Sessione plenaria del convegno

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(passato, presente e futuro) dal punto di vista politico,economico e sociale. Il passato coloniale dell’Africa, ca-ratterizzato da una precisa serie di relazioni interna-zionali ed interetniche, da specifiche auto-rappresen-tazioni da parte delle culture africane e dalla possibilitàdi ritrovare e di esprimere le radici della propria iden-tità nel passato; e poi la situazione odierna, una situa-zione dinamica ancora in divenire; e quindi il domanicon la possibilità che anche i Paesi africani sviluppinoun percorso di crescita economica e sociale simile aquella che ha caratterizzato recentemente altri Paesicome l’India o la Cina, fino a poter diventare un mo-dello per altre culture comprese quelle occidentali.

Un quarto aspetto affrontato è stato quello non tan-to della temporalità dei processi interculturali, ma quel-lo della loro localizzazione in senso lato. Dove si situa cioèil nucleo del processo, dov’è il momento importante, do-ve capiamo che il cosmopolitismo si realizza o ha diffi-coltà a realizzarsi? L’intervento di Mariella Pandolci, cheha sottolineato come la partita si giochi a livello dei pro-cessi di globalizzazione e di dinamiche politiche tra gliStati, mi è sembrato particolarmente interessante.Secondo Mariella Pandolfi il processo di globalizzazione,le politiche degli Stati, le strategie e le azioni degli aiutiumanitari esistono certamente in concreto, ma la realiz-zazione del cosmopolitismo si attua anche e soprattuttoa livello dell’immaginario. Ci sono delle dinamiche ma-crosociali, macropolitiche e macroeconomiche, ma ci so-no pure le dinamiche che riguardano i vissuti: per esem-pio il senso di percezione di sé di chi riceve aiuti umanitario di chi è coinvolto in una dinamica di globalizzazione.Questo aspetto dell’immaginario non è di minore impor-tanza, secondo Pandolfi, rispetto alle dinamiche stretta-mente politiche o economiche nel creare e costruire lespecifiche modalità di un cosmopolitismo possibile.

Un altro dei luoghi che è emerso come elementocentrale del cosmopolitismo è quello della città, comeben sottolineato da Roberto Toscano nel suo interven-to. Toscano ci ha parlato della città che diventa scenarioed elemento catalizzatore di due dinamiche fondamen-tali: lo sviluppo del senso etico, per cui il tema del co-smopolitismo si interseca con il problema dell’esisten-za o meno del senso etico, e il problema della percezionedell’altro. Toscano ha parlato di una sorta di “agorafo-bia”, un’ ottima metafora per sottolineare l’ansia che cipuò avviluppare quando incontriamo troppa apertura,che in questo caso non è quella legata agli spazi fisiciestesi, ma quella che si riferisce agli spazi mentali e so-ciali. Paura della curiosità per l’altro, dell’essere dav-vero disponibili, paura della conoscenza. La città e lasua organizzazione può favorire od ostacolare questiprocessi e diventa così uno dei luoghi centrali dove il co-smopolitismo può svilupparsi o essere bloccato.

Altri interventi hanno sottolineato ambiti ancorapiù estesi dove si gioca la dinamica cosmopolita. Peresempio Shambushivananda ha rilevato come il co-smopolitismo si realizzi solo tenendo in conto una di-mensione olistica, in cui l’individuo, la società, la na-tura, la spiritualità, interagiscono in una relazionecomplessa connettendo tutte le forze attive nel piane-ta, materiali e immateriali. In questo senso possiamodire che il tema del cosmopolitismo si intreccia conquello della natura e della sostenibilità del pianeta.

In ultimo, un altro punto emerso è quello del co-smopolitismo visto nella relazione tra governi, istitu-zioni, organizzazioni internazionali, da un lato, e so-cietà civile composta da singoli individui e dalla loroazione soggettiva dall’altro. Torno ancora, cioè, al-l’importanza del considerare sia il piano “macro” chequello “micro” che avevo sottolineato all’inizio del miointervento. Molti relatori hanno infatti evidenziato ilfatto che il compito centrale delle macro strutture go-vernative e delle organizzazioni internazionali non siasolo quello di favorire lo sviluppo di buone praticheper il cosmopolitismo, ma anche, e soprattutto, quellodi scoprirle: gruppi, persone, comunità nei diversiPaesi già attuano delle buone pratiche legate al co-smopolitismo, che spesso però sono nascoste e nonhanno voce. Le organizzazioni internazionali e le isti-tuzioni, come anche una fondazione come Intercultura,hanno allora il compito di scoprire e sostenere pro-cessi già esistenti.

Questo cosmopolitismo nascente, creato attivamentedal basso, attraverso processi partecipativi e grazie al-la scelta delle persone, scelta legata alla soggettività eal desiderio, è il cosmopolitismo più importante in quan-to si basa sulla motivazione, sulla voglia profonda di an-dare incontro all’altro e di creare nuove forme di con-vivenza e conoscenza reciproca. ■

Paolo Inghilleri1

1 Prof. Ordinario di Psicologia Sociale M.D., Direttore Dipartimento di Geografia e Scienze Umane dell’Ambiente, Università degli Studi di Milano.

Paolo Inghilleri durante il suo intervento

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Abbiamo avuto moltissimi stimoli che ci hannocostretto a degli esercizi intellettuali, tra vocie pensieri molto diversi, con un fine - parto da

questa considerazione riferendomi al titolo “RicomporreBabele”: per non confonderci, pur confondendoci unpo’. Citerò alcune parole e alcuni concetti chiave.

La chiave interpretativa di apertura che è stataproposta sul tema del cosmopolitismo nel primo in-tervento, di grandissima pregnanza, di Padre JeanLouis Ska, ha riguardato proprio ‘Babele’. Padre Skaè partito con un’analisi puntuale, da grande studioso bi-blico, sul tema di Babele che riprendo soltanto in unpunto: l’interpretazione di Babele che ci dice che sia-mo quaggiù per costruire il mondo. Rispetto allaBabele della punizione e del castigo, questa interpre-tazione conserva l’idea della fatica e della sofferenza distare in un mondo così diverso, con tanti stimoli, maoffre anche l’idea che siamo qui, pur faticando e sof-frendo, per costruire qui. Babele non è un castigo, ilcastigo è l’hybris. Babele è un compito, in qualche mo-do, che abbiamo qui. Una fatica necessaria.

In un’intervista fatta da Isabella Bossi Fedrigotti,comparsa sul giornale il giorno prima del convegno,Bernabé ricordava la sua esperienza di giovane studented’Intercultura, molti anni fa, rievocando l’esperienzadella solitudine e il grande vantaggio che ha avuto nelresistere a superare il senso di solitudine, trovandosi inun Paese che non conosceva, l’esperienza fondamenta-le, che molti di noi e molti di voi qui hanno avuto, di ren-dersi conto che ce la si può fare, dopo la fatica e il sensodi spaesamento e di solitudine, ma che è un processolungo e sempre incompiuto.

Natoli ci ha ricordato con Aristotele che ‘tutti gliuomini parlano e che dunque il parlare genera nonsoltanto confusione, ma la possibilità di compren-dersi’ e questa mi sembra un’altra chiave di letturaimportante. La possibilità di comprendersi costitui-sce un orizzonte comune - come ha ricordato più vol-te Jahanbegloo - e anche una convinzione che può aiu-tarci a compiere un percorso nel tempo. Il temporichiede la capacità di resistere, di tollerare, non sol-tanto la fatica, ma anche l’incompiutezza del processocosmopolita, che ha e assiste a dei progressi, a deglielementi di avanzamento, e a dei regressi, ma che con-tinua e deve essere in qualche modo governato e pilo-tato. Cito ancora Natoli: ‘viviamo in un mondo checi costringe al cosmopolitismo, perché o cerchiamo dicomprenderci o ci distruggiamo’ e oggi come non mai,la prospettiva del mondo rende molto vicina l’ipotesiche possiamo, invece che tentare di comprenderci, di-struggerci. Questi temi sono emersi con frequenza:orizzonte comune, responsabilità comune, umanitàcondivisa - cito Ramin Jahanbegloo: ‘common hori-zons, common responsibilities, shared humanity’.

La prospettiva generale, quindi, che io ho visto pre-dominante in questo convegno è una prospettiva etica,etico-esistenziale, che deriva da analisi culturali, antro-pologiche, filosofiche, scientifiche, storiche, psicologi-che, ma che riconduce questo tema non solo a un con-fronto di lingue e di culture, in qualche modo asettico,ma a una dimensione esistenziale.

In moltissimi gruppi è emerso il tema della respon-sabilità. Qualcuno ha detto che per essere cosmopolitile persone devono sentirsi uguali, sotto la stessa legge,uomini e donne che sentendosi uguali possono avere l’i-dea di avere dei diritti e che quindi possono diventareproduttori di leggi. Sentirsi sotto una stessa legge nonè facile, riconoscere alcune leggi comuni o regole co-muni, ma non è facile anche semplicemente concepirel’idea di avere dei diritti e quindi di poter diventare pro-duttori di nuove leggi. E un tema che è emerso per con-trasto è quello del coraggio per poter affrontare il co-smopolitismo. Salvatore Veca rilevava che nei suoigruppi un o una giovane partecipante ha detto che mol-te difficoltà derivano dalla nostra ‘ignavia cognitiva’.Credo che sia una parola che ci porteremo via da questoconvegno. Potremmo dire che siamo pigri e poco co-raggiosi. Roberto Toscano ha evocato questo animalet-to nascosto, forse una talpa: non si sa bene perché chiha paura sta nel suo buco. Ci vuole coraggio, ci vuole im-

Due sfide importanti per il futuro

Considerazioni conclusive sul convegno

Susanna Mantovani

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pegno, ci vuole fatica per fare questo salto intellettuale,questo esercizio intellettuale.

Un altro termine evocato sempre in questa pro-spettiva etico esistenziale è stato quello dell’empatia,non come luogo solo dei sentimenti buoni e della me-ra accoglienza, ma come modo di pensare che fa rife-rimento a risorse dell’immaginazione, della creativitàe quindi a linguaggi che non sono soltanto quelli del-la scienza, o della filosofia, ma che si avvicinano a quel-li dell’arte e che possono essere linguaggi comuni. Sidelinea qualcosa che potremmo chiamare e qualcunoha chiamato un “nuovo umanesimo”. Una prospetti-va olistica e un senso di responsabilità all’interno diun sistema complesso. In questa prospettiva la so-stenibilità può declinarsi come spiritualità e la spiri-tualità come sostenibilità : temi affrontati di consue-to in ambiti molti diversi possono essere collegati , siconnettono in modo che ha senso e può parlare convoci diverse a menti e spiritualità diverse.

In una prospettiva etica ed esistenziale, sono statimessi in luce con parole nuove anche alcuni ostacoli nelprocesso di costruzione del cosmopolitismo. Uno di que-sti temi è l’ignavia cognitiva, la mancanza di coraggio,la paura anche di pensare in modo più aperto e ignotoche conduce a costruire steccati, che fa chiudere que-sto strano animale kafkiano nel suo buco e avere timo-re di tutto quello che lo circonda. Una paura giustifica-ta dai tempi rapidissimi in cui avviene la globalizzazione,dai messaggi che vengono divulgati dai media, che avolte sono terrorizzanti, dalla mancanza di tempo e di oc-

casioni per fermarsi, discutere insieme e pensare. Perpoter superare la paura e per poter conquistare un at-teggiamento più coraggioso è necessario avere consa-pevolezza. Qua penso alle sfide formative, che poniamoa chi ci seguirà nella tavola rotonda, nel promuovereconsapevolezza dei sentimenti che accompagnano lapaura, il disagio, il senso di sopraffazione, sollecitati daun mondo che sul piano culturale, linguistico e cogniti-vo ci stimola a volte in modo eccessivo. Citando Dewey‘L’esperienza deve essere formulata per essere comu-nicata’, per formularla bisogna uscire da essa, vederlacome un altro la vedrebbe, considerare i punti di con-tatto che essa ha con l’esperienza dell’altro, in modo cheprenda una forma tale che l’altro possa afferrarne il si-gnificato. Questo processo richiede tempi di incontro edi dialogo e una lingua in qualche modo comune.L’umanesimo nuovo, che il mondo cosmopolita pone,richiede linguaggi in cui ci si possa incontrare, non so-lo i linguaggi formalizzati, ma anche quelli immaginativi,dell’arte, della musica, della corporeità, temi che moltiinterventi hanno presentato.

Il sistema formativo, la scuola, è pronta ad af-frontare questi temi? In una ricerca, che ho condot-to col sostegno della Fondazione Intercultura, i ra-gazzi, i giovani, che abbiamo interpellato, che hannoavuto un’esperienza all’estero e che oggi sono all’uni-versità, hanno detto – non sollecitati ad usare questitermini – ‘siamo cittadini del mondo, perché per noiil mondo è la realtà in cui viviamo, cioè accorgersiche intorno a noi c’è l’altro e sarà sempre di più così,

Auditorium del Grattacielo Pirelli

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perché è verso questo che ci porta il mondo, ma è suquesto che siamo meno preparati’. Mi sembra una sfi-da molto importante per la scuola e quindi mi chiedo:qual è il compito? Penso che questo convegno abbiamostrato la complessità del concetto di cosmopoliti-smo, da un’estrema varietà di prospettive, ma anche lagrande difficoltà a tradurre questi concetti, che ab-biamo in gran parte imparato a condividere, in prati-che e comportamenti specifici coerenti con questi pun-ti di vista. Il passaggio da una concettualizzazioneampiamente condivisa alla traduzione in pratiche nonriduttive, ma coerenti, è una sfida che abbiamo da-vanti, che questo convegno non poteva affrontare eche potrà essere oggetto di altre riflessioni. Non bastaritrovarsi su delle idee, la sfida dell’educazione è riu-scire a trasformarle in pratiche, proprio perché i gio-vani non si sentano confusi, superino atteggiamenti didiffidenza, disagio, paura e non si richiudano nella ta-na, ma affrontino con senso di responsabilità questoaspetto “ricomponendo Babele” – ma forse Babele ètale solo per noi e non per i giovani…

Il cosmopolitismo di cui abbiamo parlato, quindi,non è Babele nel senso di perdersi e confondersi, op-pure – un’altra sollecitazione di Ska – di mimetizzarsi.Ska ha fatto cenno alla moda. La moda può esserecreatività, ma può essere mimetizzazione. SalvatoreNatoli ha fatto cenno ad un altro concetto, quello distile: nello stile c’è qualcosa di riconoscibile, ma dimolto personale al tempo stesso. Credo che il co-smopolitismo a cui guardiamo sia un cosmopolitismodi stili riconoscibili e in qualche modo leggibili in mo-do colto. Lo stile di chi è attento, curioso, ascolta, par-

la con lingua sua e prova piacere ad ascoltare e cer-care di comprendere le lingue degli altri, di colui chemette in atto nella difficoltà e nella confusione un at-teggiamento o stile riconoscibile : quello di colui o co-lei si rende conto della complessità, la sfida e si po-ne nella posizione – sempre riconoscibile tra gli umanine sono certa ( sempre la riconoscono i bambini!) –di chi cerca, di chi vorrebbe capire.

In molti gruppi è stato evocato il tema della par-tecipazione, della città-polis come primo luogo di in-contro, prima palestra di cittadinanza. in particolarenell’intervento di Roberto Toscano. Io penso che lascuola e l’università siano i primi luoghi di parteci-pazione nei quali ogni individuo, ogni persona può eha il compito il compito di manifestarsi e di rappre-sentarsi con senso di responsabilità, quindi di ‘rap-presentarsi bene’ perché sa che rappresenta la pro-pria comunità. Coloro che hanno fatto l’esperienza diIntercultura hanno ben chiara questa esperienza/pro-spettiva. Sanno che rappresentano qualcosa e moltialtri che verranno giudicato attraverso di loro. Il fat-to di doversi rappresentare bene, da un lato costrin-ge ad approfondire la propria identità, la propria cul-tura – quando io molti anni fa ero nell’esperienza diIntercultura, scrivevo freneticamente a casa, perchènon c’era internet allora, per chiedere informazionisulla mia città sul mio Paese, che non avevo, perchévolevo rappresentarlo bene – ma dall’altro lato rap-presentarsi bene vuol dire anche altro. Noi ci ripre-sentiamo bene ad altri, quando riteniamo che lo me-ritino, che il loro giudizio sia importante, e questoautomaticamente significa ritenere che gli ‘altri’ so-

Dada Shamhushivananda

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no degni di rispetto. E quindi questo elemento di rap-presentazione che è legato al manifestare della pro-pria identità ma anche alla partecipazione al mondodell’altro, mette in evidenza sia la responsabilità ver-so chi rappresentiamo sia l’attenzione all’altro , allasensibilità che di chi ci vede, ci incontra, ci guarda.Un’esperienza che sul piano educativo è di per sé mol-to importante. A questo noi dobbiamo preparare i ra-gazzi che sono nella scuola e i giovani che preparia-mo all’università per andare all’estero. Che devonoessere per farlo resistenti, superare la fatica, re-sponsabili, autonomi nel fare questa scelta che ri-chiede spirito di avventura, ma nello stesso tempomolto consapevoli della propria interdipendenza.

Il convegno ha quindi posto, tra le tante, due im-portanti sfide: questo passare dai concetti alle prati-che e ai comportamenti, e il diffondere la consapevo-lezza, più volte richiamata, che il cosmopolitismo nonè solo andare in giro per il mondo, ma è innanzi tuttooggi qui. Rappresentarci e confrontarci senza paura,in modo colto e con rispetto, è una sfida che noi abbia-mo in questa città, in ciascuna università, in ciascunaaula, in ciascuna scuola, non ci spinge semplicementea viaggiare per mondi lontani, ma prima di tutto aesplorare queste possibilità qui. Una delle finalità del-la Fondazione e dell’Associazione Intercultura è pro-prio quella di dirci, attraverso la riflessione e anchepromuovendo l’internazionalizzazione, che l’intercul-tura è prima di tutto molto vicina a noi.

Una considerazione, infine, sul formato di questoconvegno, che ha avuto delle caratteristiche particola-ri. Ha consentito nei gruppi un approfondimento condei tempi lunghi, diversamente dai convegni in cui noiascoltiamo freneticamente molte relazioni, che non rie-scono mai a finire nei tempi giusti e che non consento-no il dibattito. Ogni oratore ha avuto due ore di tempoper discutere con un pubblico che aveva un’altra ca-ratteristica particolare: era formato da generazioni di-verse, da insegnanti, colleghi, studiosi, universitari, maanche da giovani che hanno interloquito in modalità an-che interculturali in questo senso. Quindi un ‘formato’diverso, con una gestione del tempo, necessaria per ap-profondire questi temi, molto diversa da quella che mol-te volte abbiamo. Il tema del tempo e della temporalitàè emerso non solo dalla incompiutezza, ma anche da unaltro punto di vista: il tempo che noi viviamo come ur-

genza di risolvere immediatamente problemi difficili,di rispondere in tempi molto ristretti a domande diffi-cili e che si può tramutare in percezione di emergenza,e quindi di minaccia. Per ricomporre Babele è neces-sario tempo per ascoltare, tempo per pensare. Il temadi una temporalità giusta, che consenta la riflessività èstato per me fondamentale, perché l’educazione è fat-ta di tempi lunghi. Il giovane umano, il bambino uma-no, il cucciolo dell’uomo, nel nostro sistema giuridico cimette almeno 18 anni ad essere riconosciuto come adul-to, quindi almeno 18 anni e poi ancora a lungo dura lasua formazione. Questo elemento della temporalità èfondamentale e su questo mi rivolgo all’università e al-la scuola, non perché approfittando dei tempi lunghidell’educazione aggiunga ulteriori elementi al curricu-lum, ma per superare un modello enciclopedico che con-senta di usare il tempo e la riflessività in modo più in-tensivo, in qualche modo permettendo questi dialoghie questi scambi che sono fondamentali per una educa-zione cosmopolita.

Infine abbiamo sentito voci venute da tante partidel mondo, voci di studiose e studiosi, e io ho perce-pito piacere, fatica e un costante sforzo di connessio-ne e di cura. Per questo mi sono chiesta: forse il co-smopolitismo è donna?

Un auspicio per concludere: noi rappresentantidelle tre università concludiamo questo convegno dan-dovi la nostra sintesi di quello che abbiamo sentito;ieri sera abbiamo invitato Roberto Ruffino, per il pros-simo convegno di Intercultura, il terzo convegno do-po quello sull’identità italiana e dopo questo: porti suquesto palco, a tirare le fila e a dialogare su quello chehanno tratto da questi stimoli, i giovani che sono sta-ti presenti, che hanno parlato nei gruppi e che sonoquelli che saranno impegnati in questa impresa neiprossimi anni e nei prossimi decenni. ■

Susanna Mantovani1

1 Prof. Ordinario di Pedagogia Generale e Sociale Università degli Studi di Milano Bicocca. Pro-Rettore Vicario della stessa Università.

Francesco Cavalli Sforza

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Non c’è dubbio che il cosmopolitismo sia na-to storicamente come utopia. È il sogno diun altrove diverso dal qui e quindi carico

di aspettative, ma anche di sogni, di visioni. Ancoraoggi, quando si dice cosmopolitismo, però, si corre ilrischio di essere tacciati di utopismo. Ebbene, cre-do che da tutto quello che ci siamo detti in questigiorni emerga con enorme chiarezza che oggi il co-smopolitismo non è un’utopia, ma una necessità.Credo che questo sia un primo passaggio importanteda sottolineare.

Perché è una necessità? Penso che il cosmopoli-tismo sia il software della globalizzazione. La globa-lizzazione già c’è, quello che manca è un’etica dellaglobalizzazione. Nel senso che se noi siamo mate-rialmente vicini, ma ancora non riconosciamo un’ap-partenenza dal punto di vista etico, l’unico possibilerisultato è il conflitto.

Oggi il nostro mondo è caratterizzato dalla pros-simità della diversità. La storia non è finita, ma lageografia non è più quella di una volta. Ma se nonpossiamo eliminare la prossimità, anche se volessi-mo, perché l’economia, la tecnologia, la comunica-zione lo rendono ormai impossibile, non vogliamoeliminare la diversità. La prossimità è inevitabile ela diversità è irrinunciabile. Il cosmopolitismo nonè uniformità, è una polifonia, è una ricerca di armo-nia. Abbiamo detto “Ricomporre Babele”. Non vuoldire rendere Babele reversibile. Babele non è re-versibile per fortuna, perché la ricchezza delle lin-gue e delle culture è qualcosa che ha aggiunto all’u-manità la propria capacità di crescere nello scambiocontinuo.

Il cosmopolita non è utopico e il cosmopolita nonè un apolide. L’apolide è esattamente il contrario delcosmopolita. Quello che fa il cosmopolitismo è ag-giungere un più ampio livello di comunità umanasenza eliminare quelli precedenti. Richiede anzi, co-me è stato detto ripetutamente, un potenziamentodelle appartenenze più immediate, più dirette: lacittà, ad esempio è ormai già diventata in sé cosmo-polita. Quindi è da un lato una compensazione dellospaesamento creato da spazi aperti, troppo ampi,ma dall’altro è anche il vero laboratorio di una pos-sibilità di convivenza a livello mondiale.

Ma come possiamo procedere su questo proces-so? Qui il discorso si è spostato dai principi alla con-cretezza di una prassi, di un progetto da costruire,

Cosmopolitismo come necessità

Roberto Toscano

Roberto Toscano

John Lupien

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ed è qui che entra il mandato della Fondazione: l’in-terculturalità.

Se il cosmopolitismo è un’etica per la globaliz-zazione, l’intercultura è il passaggio obbligato versoil cosmopolitismo. Non si tratta di assimilazione,questo è molto importante, perché assimilazione si-gnifica perdita della diversità e tra l’altro di solitol’assimilazione avviene non sulla base di un modellouniversale dell’essere umano astratto, ma avvienesu una base culturalmente molto specifica su cui noichiediamo agli altri di allinearsi e gli altri di solitonon ci stanno. Ma non è neanche multiculturalismo,che è uno stato di fatto. Intercultura non è un pro-cesso, ma è un progetto. E poi il multiculturalismo,in effetti, corre il rischio di essere una via alla fram-mentazione, se non al tribalismo. L’intercultura, co-me è risultato molto chiaro da questi due giorni didibattito, è uno scambio continuo che non solo ci per-mette di metterci in relazione con gli altri, ma chedà la nostra identità stessa, che è un’identità sem-pre composita che si produce con lo scambio e conil contatto.

Per questo abbiamo pensato che il modo miglioredi affrontare la questione del cosmopolitismo e primadell’intercultura, sia quello di coinvolgere chi è atti-vamente impegnato sul terreno delle esperienze edu-cative. Nel titolo c’è “Educare al cosmopolitismo”.Non si tratta soltanto di condividere il cosmopoliti-

smo come finalità o come qualcosa che sta già arri-vando; su questo la cosa che mi è piaciuta moltissimoè la convergenza che abbiamo riscontrato anche ascol-tando persone che vengono da diverse culture e dadiverse esperienze professionali. Ma non è questo ilpunto. Siamo tutti d’accordo che il cosmopolitismo èuna bella cosa, ma come facciamo a tradurre questonostro convincimento, questa nostra adesione a un’i-dea e a un progetto, in realtà e in concretezza? Qui glieducatori e tutti quelli che sono coinvolti nell’educa-zione, anche da un punto di vista delle strutture di go-verno, di amministrazione, di governance hanno ilruolo principale e non è casuale che la FondazioneIntercultura sia nata dall’Associazione Interculturaperché è dall’Associazione che vediamo quali sono leesperienze concrete degli scambi giovanili che ci per-mettono di costruire il cosmopolitismo attraverso l’in-tercultura.

Sono lieto che questo Convegno si concluda congli interventi di diversi protagonisti dell’impresa in-terculturale, che l’Associazione cerca solamente dicoinvolgere e di aiutare nel loro compito. Perché,molto modestamente, noi non ci sentiamo, comeAssociazione e come Fondazione, soli protagonistidi questo progetto e di questa impresa, che sono am-pi e plurali. ■

Roberto ToscanoPresidente della Fondazione Intercultura

Sessione plenaria di venerdì 8 aprile

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Ringraziamenti

FONDAZIONE INTERCULTURA RINGRAZIA:

l’Università degli Studi Milano Bicoccaper l’ospitalità

l’Università degli Studi di Milanol’Università Cattolica del Sacro Cuore

l’Università Commerciale Luigi Bocconil’EXPO 2015

per la collaborazione al programma

la Presidenza della Repubblicala Regione Lombardiala Provincia di Milanoil Comune di Milano

l’Ufficio di Rappresentanza della Commissione Europea a Milanoper il loro patrocinio

Intesa Sanpaolo Spaper il sostegno

i Relatori del convegno

Orchestra concertante di archi “Suzuki” di MilanoCoro dell'Università degli Studi di Milano-Bicocca

Davide Diamantini

i volontari dell’Associazione Intercultura onlus

la tipografia Vanzi di Colle Val d’Elsa (SI)

Intercultura onlusAssociazione riconosciuta con DPR 578 del 23.7.1985Iscritta all’Albo del Volontariato della Regione LazioPartner di AFS Intercultural Programs e di EFIL (European Federation for Intercultural Programs)Certificazione di qualità UNI EN ISO 9001:2008 rilasciata da DNV

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